Fratelli

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Annamaria Giannini &

Sebastiano A. Patanè-Ferro

Fratelli duetto poetico

Roma/Catania 2015


©”Fratelli” di Annamaria Giannini e Sebastiano A. Patanè-Ferro Roma/Catania 2015

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Fratelli Roma/Catania 2015

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Potessi smettere di sentire dolore ogni qualvolta un ramo del mio albero si piega, vuoi la tempesta o la pioggia insistente o un gesto disattento semplicemente, potessi smettere di vivermi addosso col dito nella falla come fosse possibile arginare il tempo e le sue beffe ci sono giorni da tovaglia bianca dove le cose hanno il loro posto poi quel disordine che spettina e confonde, si rimane increduli sulla chiazza che s'allarga il vino rossa, com'è rosso il sangue invece è amore, devastante nella parola stessa e allora corri dimentica degli anni e la fatica corri, piÚ forte della piena col tuono in corpo e in mente attraversi il bosco e t'insegue notte ogni foglia sotto i piedi a dire corri arrivi trafelata in quell'abbraccio

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(sono qui, non aver paura sono qui, apparecchiamo)

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e di quei giorni, fratelli che spettinano le tende sicure… ma di sicuro -lo sai- è rimasto il dolore che hai dentro e non sai più chiamare e pensi “c’è tempo, c’è tempo” mentre l’amore ritorna sangue ormai denso di povere facce senza respiro Il tetto si muove e rincorre qualche stella lontana ma le stelle, si sa, non sanno contare e si pensano belle e pesanti con pennacchi sul capo e poche strade bagnate di quei giorni, fratelli rimangono i pugni bruciati e un martello che non batte più chiodi ma teste di vetro e piccoli conti sospesi tra te e una logica schiera di santi (apparecchiamo pure anche se siamo qui con tutte le paure) 6


non dire tempo dietro la tenda scura e di quel tetto che chiamano perdono rimuovi il nido e fanne paglia al vento oltre l’inferno che ha preso il posto al cielo dimmi fratello la conta delle stelle dieci per uno e chi rimane senza stringe nel pugno la polvere d’assenza che fa di un uomo carne da macello e della nebbia un velo di pietà _corrimi_ in queste vene che mi fanno viva non c’è che musica fatta di sangue e sale rinnega i santi e dammi tutti i sassi raccolti al greto dell’intolleranza saranno cuccia contro il temporale quando cadranno diavoli e montagne ( Guarda, ho messo il pane dentro il suo cestino e morsi grandi morsi grandi sul tavolo di legno)

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ah‌ bastano le mani aperte ormai‌

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ah‌ bastano le mani aperte ormai che conosciamo il demone il sale, quello dei macelli non brucia piĂš nell’abitudine Ma non vedi come scorrono le parole assurde vuote di pensiero di come girano le vergogne sistema di giostre al metanolo e noi, fratelli di sempre ad abbracciarci con un diciannove pollici cam inclusa di che colore è fatto il dolore nuovo Senegal pieno di mosche oppure capelli superseta per notti folli di niente (voglio una barca a doppia prua e qualche esempio di paradiso anche senza pane, anche senza morsi)

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e io sono qui, sterno aperto al vento‌

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e io sono qui, sterno aperto al vento, stacco le mani da polsi di catene, vedo le mosche e mi sovviene morte, vedo i capelli e le perle colorate, si chiama Africa pronunciala di pace, non m’inginocchio a forni di catrame lasciamo al rogo le nullità degli uomini sciogli parole e limone in un bicchiere lasciami tracce dove ritornare il paradiso non è così lontano è fatto a strati e noi siamo la pelle che brucia subito e dicono poesia quando non sanno la barca e neanche il mare ecco fratello, è solo un foglio bianco e può servire a contenere fiabe oppure a coprire corpi senza nome triste pesante senza pennacchio in capo (se vuoi preparare tu la cena ti apro il cuore, scegli gli ingredienti)

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c’è un solo modo per distinguere l’assenza dal ricordo a basso costo e sta nelle braccia aperte che non escludono i temporali le giunture posticce perderanno la loro consistenza e, come formaggio fuso riempiranno i buchi delle ossa snaturate un paradiso o un altro siamo sempre lì accanto alle palme che d’inverno non ci servono contro le ustioni dei moli che visti da lontano sembrano coltelli (lasciamoci invitare, per una volta)

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si, lasciamoci invitare rovesciandoci addosso la pace che vivere non sia una questione personale c’è una distanza immensa tra un palazzo con le finestre chiuse e una capanna dagli occhi aperti al vento (vieni, è ora di andare, il da fare è tanto e noi pronti a partire)

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(vieni, è ora di andare, il da fare è tanto e noi pronti a partire)

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