Roma Tre News 2/2008

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ROMA

TRE Periodico di Ateneo

Anno X, n. 2 - 2008

Da Ellis Island “Most dear to me”

“È la stampa bellezza” Intervista a Milena Gabanelli

Sulla propria pelle Intervista a Fabrizio Gatti

LE SFIDE DEL

MULTICULTURALISMO IL MOSTRO MITE. PERCHÈ L’OCCIDENTE NON VA A SINISTRA di Raffaele Simone


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«Quando gli elefanti fanno la guerra sono i fili d’erba a soffrire» I bambini e le donne nei campi profughi del Nord Kivu dalla Repubblica democratica del Congo, Camilla Stecca

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Matrioske I tanti volti di una superpotenza dalla Russia, Camilla Spinelli

Sommario Editoriale

Primo piano Sulla propria pelle L’esperienza vissuta in prima persona dal giornalista Fabrizio Gatti di Anna Lisa Tota

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Rubriche

Roma Tre tra multi e interculturale Racconta il suo punto di vista il Prorettore alle politiche per gli studenti di Maria Rosaria Stabili

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Il multiculturalismo di Roberto Cipriani

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La sinistra battuta dal Mostro Mite Paradigma di un essere affabile e sorridente di Raffaele Simone

Ultim’ora da Laziodisu Orme Non tutti sanno che

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Recensioni 66

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Machinations Il percorso umano attraverso i suoni di Michela Monferrini

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La specialità dell’essere Pratiche di inclusione e di esclusione. Il caso degli albini nell’Africa sub-sahariana di Paolo Apolito

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Evolving Italian Design Interazione e tecnologia al servizio della conoscenza di Marco Angelino Lotta alla povertà Quale ruolo per le cooperative? di Sara Vicari

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Cronache dai campi rom Perché abbiamo paura di loro? di Monica Pepe

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Donne arabe: biografie, identità, formazione Rita El Kayat e altre studiose di genere affrontano il tema della condizione delle donne arabe di Aureliana Alberici

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Rappresentazioni del reale Il teatro, palcoscenico del multiculturale di Franco Ruffini

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«Sapere è potere» 30 Il blog di Beppe Grillo dal virtuale al reale. Discussione con Marina D’Amato, docente di Sociologia delle comunicazioni di massa a cura di Valentina Cavalletti «Muri puliti, popoli muti» Una mostra racconta l’espressione dell’apodittico di Edoardo Novelli

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Culture e sviluppo Concetti romantici o necessità dell’uomo? di Pasquale De Muro

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Identikit del low cost Parla Piergiorgio Rossi, docente di Progettazione ambientale di Michela Monferrini

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Out of poverty? Per Paul Polak si può di Michela Monferrini

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A stretto contatto 40 L’incontro e la traducibilità dell’altro all’interno del dibattito psicologico. Il confine tra identità personale e identità collettiva di Gessica Cuscunà Frammenti di schegge Il puzzle delle identità latinoamericane di Rafael Gaune Corradi

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Incontri Lucio Caracciolo. L’Europa è un bluff di Indra Galbo

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Agostino Ferrente. La poetica del meticciato di Alessandra Ciarletti

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Milena Gabanelli. «È la stampa, bellezza!» di Federica Martellini

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Sergio Campailla. Il molteplice nel Conte di Cagliostro di Camilla Spinelli

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Jack Nusan Porter. Quando la sociologia fa i conti con la storia di Lia Luchetti

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Reportage «Most dear to me» Viaggio a Ellis Island da New York, Alessandra Ciarletti

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Tenda multireligiosa a Roma Tre 68 Un progetto sperimentale promosso dalla Facoltà di Architettura di Caterina Padoa Schioppa e Stefan Pollak Il grande malato L’Opera di Roma nel panorama culturale della città di Valerio Vicari

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno X, numero 2/2008 Direttore responsabile Anna Lisa Tota Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Coordinamento di redazione Alessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento) Federica Martellini (Ufficio orientamento) Divisione politiche per gli studenti r3news@uniroma3.it Redazione Marco Angelino (studente del C.d.L. in Finanza), Ugo Attisani (Ufficio orientamento), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Tommaso D’Errico (studente del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (studente del C.d.L. in Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (studentessa del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione) Hanno collaborato a questo numero Aureliana Alberici (docente di Apprendimento permanente e di Educazione degli adulti), Virna Anzellotti (segreteria Adisu Roma Tre), Paolo Apolito (docente di Antropologia culturale), Giovanni Cerasani (neodiplomato del Liceo Seneca), Roberto Cipriani (docente di Sociologia), Rafaél Gaune Corradi (studente cileno del Master in Educazione alla pace: cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’unione europea), Pasquale De Muro (docente di Economia del territorio e di Economia dello sviluppo umano), Anna Maria Formicola (responsabile organizzativo Master in Gestione e risoluzione dei conflitti), Gianpiero Gamaleri (commissario Laziodisu Roma Tre), Daphne Letizia (dottoranda in Diritto privato), Giulia Longo (Ufficio stampa), Lia Luchetti (collaboratrice della cattedra di Sociologia dei processi culturali e comunicativi), David Meghnagi (docente di psicologia clinica e coordinatore del Master internazionale in Didattica della Shoa), Ornella Mollica (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Edoardo Novelli (docente di Comunicazione politica), Franco Ruffini (docente di Disciplina dello Spettacolo), Caterina Padoa Schioppa (dottoranda in Progetto urbano sostenibile - DIPSA), Stefan Pollak (dottore di ricerca in Progetto Urbano sostenibile – DIPSA), Raffaele Simone (docente di Linguistica generale e di Linguistica e comunicazione), Maria Rosaria Stabili (docente di Storia dell’America latina), Camilla Stecca (responsabile di progetti umanitari), Sara Vicari (dottoranda Dipartimento di Economia), Valerio Vicari (direttore artistico Roma Tre Orchestra) Immagini e foto Alessandra Ciarletti, Alessandro Cosmelli Gessica Cuscunà, Pasquale De Muro, Tony D’Urso, Fabrizio Gatti ©, Maila Iacovelli, Laziodisu, Andrea Panzironi, Ludovica Rossi, Camilla Spinelli, Camilla Stecca, Emanuele Svezia, Edoardo Novelli www.sergiocampailla.com Si ringraziano inoltre Fabrizio Gatti per la gentile concessione di alcuni brani tratti dal suo libro: Fabrizio Gatti, Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Milano, Rizzoli, 2007 e Alberto Negrin e Edoardo Novelli per le immagini tratte da Alberto Negrin, Niente resterà pulito, Milano, Bur Rizzoli, 2007. Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Impaginazione e stampa Tipografia Stilgrafica s.r.l. Via Ignazio Pettinengo 31-33 - 00159 Roma Copertina Viaggio attraverso il Sahara, Fabrizio Gatti ©. L’elaborazione grafica della copertina e delle carte geografiche è di Tommaso D’Errico. Finito di stampare Ottobre 2008 Registrazione Tribunale di Roma n.51/98 del 17/02/1998


Il multiculturalismo che ci appartiene di Anna Lisa Tota

Anna Lisa Tota

Questo numero di Roma Tre News è dedicato alle società multiculturali, cioè alle società in cui viviamo, quotidianamente attraversate da culture plurali, da soggetti migranti e codici linguisticosimbolici differenti, difficili e talora indecifrabili. Il concetto di multiculturalismo nelle scienze sociali è stato al centro di numerose riflessioni, che si sono declinate lungo molteplici versanti: dal rapporto tra multiculturalità e riproduzione delle diseguaglianze sociali alla riflessione sulle identità nomadi che il multiculturalismo favorisce, dagli studi su famiglie e matrimoni misti all’analisi dei flussi migratori e del loro impatto sui mercati del lavoro, dall’analisi dei messaggi mediali che favoriscono l’insorgere del razzismo all’analisi dei processi d’integrazione e ibridazione culturale, dall’analisi degli orientamenti religiosi a quella dei fondamentalismi che possono alimentare il terrorismo internazionale. Il multiculturalismo attraversa il nostro quotidiano, cambia drasticamente i nostri orizzonti, le nostre aspettative, i nostri stili di vita, le nostre esperienze. I segni di questo cambiamento sono a noi contigui: a pranzo mangiamo shushi, in ospedale ci curiamo di fianco a donne e uomini di altre culture, i nostri figli vanno a scuola con compagni e amici che provengono da luoghi lontani, andiamo ai concerti di musica sudamericana e amiamo i film dei registi iraniani, le nostre case sono arredate con mobili provenienti dallo Sri Lanka e sono riassettate da donne moldave, che hanno abbandonato figli e

mariti a centinaia di chilometri di distanza, per poter permettere loro di vivere degnamente. Ci curiamo con l’agopuntura e facciamo imparare ai nostri figli le arti marziali; accanto agli studi di architettura si diffondono gli studi di feng-shui, per imparare a vivere in ambienti rigeneranti. Le culture di mezzo mondo si intersecano con le nostre: e allora accadono fenomeni di ibridazione divertenti, per cui il nostro figlio più piccolo stupisce tutti azzardando una parolaccia in arabo che ha imparato dal custode di condominio. Tuttavia, c’è anche il lato nero di questi fenomeni, quello che alimenta l’orrore e il disprezzo per il diverso: le nostre prigioni ospitano numerosi extracomunitari colpevoli di reati svariati e talora efferati; le strade delle nostre città sono piene di prostitute che, lungi dall’esercitare questa professione liberamente, sono state ridotte in schiavitù e obbligate alla prostituzione dai loro connazionali “a suon di botte”; fermi ai nostri semafori bambini di pochi anni chiedono l’elemosina esibendo le deformità dei loro corpi, che altri hanno deliberatamente causato per renderli strumenti di pietà più efficaci. E poi ancora ci sono le scarpe da ginnastica preferite che sono prodotte in paesi lontani dalle piccole dita di bambini che in Italia andrebbero ancora all’asilo, oppure i tanti oggetti e abiti provenienti da paesi orientali che sono prodotti in condizioni di sfruttamento della manodopera inimmaginabili. E poi ci sono le ingiustizie, quelle con la «I» maiuscola, quelle che sono così tanto ingiuste da finire per apparire leggende metropolitane… come la storia che narra di bambini, fermati in paesi africani per la strada o venduti dalle loro stesse famiglie, a cui vengono prelevati organi che poi finiscono negli ospedali del mondo occidentale. Avremmo quindi veri e propri “trapianti di organi multiculturali” che grondano tuttavia sangue del nostro stesso colore… Sono leggende metropolitane o forse soltanto casi limite, troppo difficili da documentare. In questi esempi così diversi sta tutta la complessità dei fenomeni che in questo numero vogliamo analizzare. Come nel caso del numero sulla globalizzazione, anche qui non desideriamo fare un elenco delle sfortune del mondo, rammaricandoci di quanto siamo cattivi. Vogliamo piuttosto proporre la riflessione di alcuni intellettuali e di alcuni autori più giovani che mettono a fuoco casi specifici. Un tema del genere non si può trattare in maniera esaustiva. In que-


La redazione

sto numero ci sono soltanto degli spunti che invitano al dibattito e alla riflessione. Abbiamo intervistato l’inviato speciale Fabrizio Gatti e gli abbiamo chiesto di narrarci come si fa a travestirsi con successo da clandestino. Abbiamo chiesto al Prorettore Maria Rosaria Stabili di declinare il multiculturalismo nella nostra realtà universitaria e a Raffaele Simone di spiegarci «perché l’Occidente non va a sinistra». Monica Pepe è andata a fare un reportage nei campi nomadi a Roma e Alessandra Ciarletti è andata addirittura a Manhattan, per raccontarci di Ellis Island, l’isola che non c’è più. Paolo Apolito ha trattato il caso dei bambini albini sistematicamente trucidati in Tanzania, spiegandoci come funzionano i meccanismi di inclusione ed esclusione. Aureliana Alberici ha scritto sulla condizione delle donne arabe, Lucio Caracciolo ci ha parlato delle politiche euro-mediterranee. E poi ci sono gli intrecci tra arte e multiculturalismo: Franco Ruffini ci parla di teatro multiculturale, e Agostino Ferrente dell’orchestra di Piazza Vittorio. Qualche anno fa, in un libro divenuto poi famoso, bell hooks, l’intellettuale afro-americana più irriverente che abbia mai conosciuto, ci rammentava che «siamo tutti razzi-

sti» e che l’unica arma per difendere davvero noi stessi e gli altri dal razzismo è riconoscere quanto siano profonde in noi le radici di tali atteggiamenti. Lo straniero è da sempre una categoria analitica di grande importanza che ha affascinato sociologi, filosofi, psicologi e antropologi. Ad Alfred Schutz si deve forse il più bel saggio sullo straniero che sia mai stato scritto: Schutz documenta come le radici dell’ambivalenza verso lo straniero dipendano da meccanismi cognitivi sottili ed inevitabili che si instaurano quando si migra da una cultura all’altra. Schutz avverte anche tuttavia, che siamo tutti stranieri o che per lo meno lo siamo stati almeno una volta nella vita (quando, ad esempio, la nostra futura suocera ci ha invitato per la prima volta a pranzo oppure quando quel colloquio di lavoro ci ha fatto sentire così estranei alla nostra cultura). A distanza di tanti anni il saggio di Schutz è sempre di grande attualità e forse rappresenta una delle chiavi di lettura più affascinanti per comprendere come mai alla fine tutti noi, per quanto multiculturali ed intellettuali, dobbiamo imparare a difenderci dal razzismo, ma non da quello degli altri, bensì da quello ben più pericoloso che abita nelle nostre menti.


Sulla propria pelle L’esperienza vissuta in prima persona dal giornalista Fabrizio Gatti di Anna Lisa Tota

Ho l’impressione che il tuo lavoro abbia molto in comune con il lavoro di un antropologo. Giornalisti che fanno questo mestiere con questa passione e interesse ce ne sono pochi. Non ritengo di fare un lavoro accademico, però sicuramente riprendo un metodo di lavoro fondamentale dell’antropologia, che è l’osservazione partecipante. È una prospettiva insostituibile ed è ciò che tra l’altro ha dato uno sviluppo completamente diverso all’antropologia stessa, perchè l’ha sganciata dai pregiudizi anche culturali, l’ha portata a guardare la realtà con i propri occhi. Indubbiamente il genere giornalistico del reportage viene da quell’esperienza. Sì, è vero, ma mi sembra che l’osservazione partecipante come la fai tu, la facciano in pochissimi. Tu ti sei messo a fare il clandestino per vedere come vivono i clandestini, rischiando anche molto. Sì, questo è vero. Ma non ritengo di fare un lavoro eccezionale, semplicemente ho applicato quello che ho imparato dalla cronaca su temi che vanno ben al di là dei confini nazionali e in questo caso si tratta del tema delle migrazioni. Il mio lavoro è andare sul posto e vedere quello che succede. L’ho fatto da cronista di nera per tanti anni, in Italia, a Milano. Quando si è trattato di andare a vedere quello che succedeva nel Sahara, l’ho fatto lì. Non c’è differenza tra il giro di telefonate che fa un cronista che viene a sapere che c’è stato un fatto e va a vedere la dinamica di questo fatto e le indagini di un inviato; l’unica differenza è il viaggio, il lavoro itinerante. D’altronde è una dimensione imprescindibile se si vogliono rac-

contare i fatti standoci dentro. Questo è ciò che faccio. Forse è anche un modo romantico, come qualcuno mi ha fatto notare. Secondo me l’aspetto romantico si esaurisce al momento della scelta per poi tornare nel momento della scrittura. Quando scelgo questo strumento è così. Poi per il resto è un lavoro drammaticamente tecnico. Si tratta di studiare il più possibile, per quanto se ne sappia, anche perché spesso non ci sono informazioni; è necessario acquisire informazioni del territorio, del fenomeno e andare a vedere, ben sapendo anche i propri limiti e i rischi che poi ci sono in un lavoro di questo tipo.

primo piano

Giornalista e inviato per il Corriere della Sera e, dal 2004, per L’Espresso, Fabrizio Gatti si occupa da oltre 15 anni di criminalità italiana e internazionale. È stato inviato in Moldavia, Romania, Albania, Egitto, Marocco e Venezuela per ripercorrere i viaggi delle vittime della prostituzione, del lavoro nero e dell’immigrazione clandestina. Nel 1998 ha vissuto per un periodo in una baraccopoli alla periferia di Milano. Nel 2000 si è fatto rinchiudere con il falso nome di Roman Ladu, nel centro di detenzione per stranieri di Via Corelli, a Milano. Tra le inchieste che hanno reso noto il suo nome al grande pubblico: Io, schiavo in Puglia, sul lavoro degli immigrati in Puglia impegnati nella raccolta dei pomodori (Journalist Award 2006 dell’Unione Europea); Paura al capolinea, sul problema della sicurezza nelle metropolitane e sui mezzi pubblici di Milano; Io, clandestino a Lampedusa, sulle condizioni di vita nei centri di permanenza temporanea dell’isola; Policlinico degli orrori, sul Policlinico Umberto I di Roma. Ha pubblicato Viki che voleva andare a scuola Milano, Rizzoli, 2007, la storia vera di un piccolo immigrato albanese a Milano e Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Milano, Rizzoli, 2008, per il quale gli è stato assegnato, lo scorso maggio, il premio letterario internazionale Tiziano Terzani.

“La paura è uno strumento formidabile, fa muovere la gente e riscuote consensi, mancando alternative valide” Quindi ti prepari esattamente come facciamo noi quando facciamo etnografia, acquisisci tutte le informazioni possibili in modo da conoscere la realtà con la quale vuoi entrare in contatto. Anche perché poi queste ti aiutano a evitare di esporti inutilmente a dei rischi. Sì, questo è il viaggio. Per esempio, quando ho preparato il viaggio nel Sahara, l’ho fatto di notte, cercando di conciliare il più possibile il mio interesse personale con il lavoro diurno che a quel tempo face-

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vo. Mi ricordo che studiando mi resi conto che a parte la zona nei dintorni di Agadez, che è la porta del deserto in Niger, non esistevano informazioni precise. C’era qualche rotta turistica, diari di viaggio che si trovavano su internet, ma mancava tutto il resto del viaggio nel Sahara. Avevo una grossa preoccupazione. Ho studiato geologia quindi riconoscevo i luoghi dove potevano esserci passaggi, ma ancora non avevo intervistato nessuno dei protagonisti del viaggio. La domanda fondamentale è stata: se migliaia di persone arrivano al Mar Mediterraneo e decidono di imbarcarsi su barche che sono destinate ad affondare, perché non rifiutano e tornano indietro? Una risposta già me la davo. Le condizioni del viaggio nel deserto sono bestiali, è una sorta di morte da vivi, come poi l’ho vissuta. Si consegna la vita ai trafficanti e la si riprende poi. Ma anche una volta arrivati a destinazione le umiliazioni e lo sfruttamento continuano. Questa era la grande domanda. Certo, avrei potuto risolvere la questione facendo delle interviste ma, limitandomi all’intervista, l’impatto del messaggio sarebbe stato meno efficace, sia come spazio sul giornale sia come riscontro da parte dei lettori. L’intervista avrebbe dato uno spaccato del viaggio piuttosto viziato, sotto diversi punti di vista. Quali? Il protagonista del viaggio non vuole far conoscere le umiliazioni subite: per esempio a me è capitato che alla questura di Lodi, quando sono stato preso come romeno per lavorare a Milano, la polizia, violando le

norme del rispetto delle persone, mi ha fatto una perquisizione corporale che ha comportato addirittura un’ispezione anale. Le violenze da me subite come giornalista io le racconto, mentre magari un altro le nasconde oppure pensa che sia normale che accada tutto questo. Anche questo in qualche modo diversifica la soglia del protagonista del viaggio da quella che potrebbe essere la nostra. Ecco perché secondo me la guerra in Iraq agli italiani dovrebbe essere raccontata da un giornalista italiano: quando un giornale italiano compra un pezzo da un giornale americano, è vero che informa, ma mette ai lettori italiani gli occhiali di un giornalista americano. Questo è un meccanismo che secondo me è molto delicato; è vero, siamo nell’era dell’informazione globalizzata, leggiamo giornali stranieri, va benissimo, però non c’è meglio di un italiano per raccontare agli italiani, perché siamo comunque ingabbiati nella nostra storia collettiva e le categorie di valutazione sono molto diverse. Che cosa pensi delle linee programmatiche sull’immigrazione del ministro Maroni? Hanno suscitato molte controversie nel dibattito politico italiano. Guarda c’è un autore che tu conoscerai benissimo che è Slavoj Zizek. Egli ha fatto una serie di studi sulla caduta degli ideali dell’Ottocento, che poi sono stati i binari della nostra società europea. Una democrazia ha bisogno di una legittimazione popolare, ma caduti gli ideali dell’Ottocento che hanno dato anima alle democrazie del Novecento, resta una scorciatoia molto rapida ed efficace per ottenere consenso che è quella della paura. D’altronde per costringere dei cittadini a rinunciare a una domenica al mare per andare a votare dei signori che in qualche caso hanno precedenti penali, in qualche altro sono dei falliti in alcuni settori, in altri sono delle persone con una preparazione notevole, bisogna dare una motivazione molto forte. Quella motivazione non è più la solidarietà perché da un punto di vista economico ha vinto una parte che ha debellato le strutture solidali e da un punto di vista politico magari ci sono persone che negli anni Settanta sarebbero state accusate di xenofobia. Quale persuasione utilizzare? La paura è uno

“Perchè migliaia di persone arrivano al Mar Mediterraneo e decidono di imbarcarsi su barche che sono destinate ad affondare?” strumento formidabile, fa muovere la gente e riscuote consensi, mancando alternative valide. Ora sarebbe interessante vedere perché mancano quelle alternative. C’è una grande campagna politica e mediatica basata sulla sicurezza, nella quale si identifica una


parte di cittadini in base al loro status di nascita o etnico come un pericolo per la società, proponendo una serie di provvedimenti e contestualmente varando leggi che prevedono la sospensione di due anni per i reati commessi prima di un certo periodo: mi sembra una grossa contraddizione.

“Potevano scoprirmi in mille modi, ma a loro non interessava” Ora è chiaro che in certi momenti entra in gioco la preparazione civica di ciascun cittadino e questo è un aspetto che io da giornalista devo considerare per valutare la portata del mio lavoro. Sono profondamente convinto che sia un inchiesta giornalistica sia un libro abbia due autori: chi li scrive e chi li legge. Il ruolo civile di chi legge può essere più importante e determinante di chi scrive. Ho profonda paura degli autori che dicono di scrivere perché vogliono cambiare il mondo, perché mi chiedo se queste persone siano in grado di rivalutare la propria posizione; si corre il rischio di diventare un fanatico di quell’argomento e dal momento che raccontare e informare è già abbastanza difficile ritengo che il cambiamento è meno pericoloso rispetto all’altro, è auspicabile che ci siano più persone coinvolte, poi magari la persona che scrive ha avuto una grandissima intuizione e tutti seguono quello che lui ha scoperto. Mi fido dei giornalisti che riconoscono i propri limiti e mi spaventano le persone che affermano di poter cambiare lo stato delle cose da soli. È straordinario che proprio tu affermi questo pur scrivendo dei pezzi che hanno esiti, come il tuo pezzo su Lampedusa: se ci sono stati degli articoli che hanno suscitato un grande clamore sono stati i tuoi. Lampedusa dopo la mia esperienza è stata migliorata, è stato introdotto un osservatore terzo dall’OIM, che ha funzionato da deterrente per quegli abusi che

avevo denunciato. Lampedusa è importante ma è un fatto particolare, molto localizzato. Più in generale, siamo tutti d’accordo che il multiculturalismo si declini in interculturalità: ecco, a Lampedusa la mediazione culturale la faceva una scafista. Mi hanno interrogato tre volte in arabo e io conosco trenta parole di questa lingua. Questi interpreti hanno il compito di stabilire in base all’accento il luogo dove destinare l’espulsione. E qui emerge la cecità multiculturale: nel mio caso l’interprete disse agli agenti che ero sicuramente iracheno perché l’arabo lo parlavo benissimo. Durante l’interrogatorio alle domande che mi faceva e che non capivo rispondevo «Se Dio vuole». Lei da questo ha capito che parlavo benissimo arabo. Probabilmente avrà spedito egiziani in Marocco, marocchini in Algeria, insomma…Al di là della mia esperienza, credo che molto importante sia il processo che si innesca a seguire; qui entra in gioco la sensibilità del singolo, la capacità di mettere in moto un mutamento dal punto di vista legislativo. Per esempio quando Bernstein e Woodward scrissero il Watergate, i cittadini americani pretesero le dimissioni di Nixon. Da noi ci sono organi dello Stato come la magistratura che hanno messo sotto accusa alcuni personaggi e nonostante questo i cittadini riconoscono loro la legittimità di decidere per tutti. Per questo dico che è importante che il giornalista parli con la lingua del suo paese, perché implicitamente entra in gioco la storia di un popolo, i suoi ideali, la sua cultura. È difficile fare il giornalista in Italia? Per quanto mi riguarda sto in una realtà splendida, ritengo di aver avuto una grande fortuna, ovvero quella di essere stato messo alla prova. Ho cominciato a scrivere su un giornale locale, poi a vent’anni in un giornale diretto da Indro Montanelli, ero un collaboratore esterno. Dopo tre anni ho iniziato a lavorare come praticante al Corriere della Sera e dopo quindici anni sono passato a L’Espresso. In tutto questo la mia fortuna è stata quella di essere stato messo alla prova. Oggi

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chi arriva dalle scuole di giornalismo deve vincere una grande competizione con altre persone che sanno fare tutte la stessa cosa. Trovano delle redazioni non nazionali dove non sempre si è a contatto con colleghi di lunga esperienza e quindi in qualche modo non si è messi alla prova, perché quello che vogliono le redazioni non è formarli, ma sfruttarli con stipendi bassissimi e utilizzarli per azioni ripetitive, come fossero in una catena di montaggio. Il giornalismo si basa su molti aspetti che sono solo in parte ripetitivi, si tratta soprattutto di decodificare la realtà. Un altro aspetto importante è quello economico: la precarietà in cui vivono molti giovani giornalisti, io non me la sarei potuta permettere. La mia famiglia non mi avrebbe potuto mantenere a lungo. Non solo, un giornalista con un contratto a tempo determinato non può garantirsi l’indipendenza di pensiero; al contrario, con un contratto a tempo indeterminato può opporsi alle eventuali pressioni dell’editore. Inoltre ritardare l’assunzione a trentacinque anni significa operare una selezione sociale, perché è evidente che a parità di talento, non tutte le famiglie possono permettersi di mantenere un figlio così a lungo. Si viene a formare una casta che è ben lontana dalle altre realtà della società in cui vive e di conseguenza la sua visione perde di veridicità. Si tornerebbe alla situazione giornalistica degli anni Venti, in cui non c’era libertà di informazione. Il compito principale del giornalista è quello di essere gli occhiali della democrazia. Tuttavia non basta essere un giornalista indipendente; è altrettanto importante che lo sia l’editore che per amore della realtà metterà il direttore nella condizione di raccontarla senza vincoli. Altrimenti la realtà sarà viziata. Io sono stato fortunato anche da questo punto di vista. Rispetto alla condizione degli immigrati, quali sono in Italia gli abusi che subiscono, i problemi fondamentali che devono affrontare? Innanzitutto dovremmo cominciare a preoccuparci non solo della criminalità, ma anche della burocrazia nei confronti dei cittadini stranieri che vogliono essere in regola. Ogni settimana ventiduemila immigrati richiedono il rinnovo del permesso di soggiorno. Vanno alla posta, inviano la domanda, viene rilasciato loro un cedolino, ma hanno in mano il permesso scaduto. Faccio un esempio: conosco il caso di un senegalese, efficiente assistente alla direzione commerciale di una società in provincia di Pordenone. Gli scade il permesso e fa quello che prevede la legge. Dopo qualche mese la questura lo invita a presentarsi nei propri uffici per gli adempimenti burocratici relativi alle impronte digitali, ma nel frattempo gli è scaduto il permesso e così, non solo rischia di perdere il lavoro, ma è fuori legge pur avendo rispettato i termini previsti. Gli stranieri che non rispettano l’espulsione rischiano fino a quattro anni di carcere, mentre il datore di lavoro solo un’ammenda. Ritengo che per

scardinare questa situazione burocratica sia opportuno cambiare la legge e prevedere il carcere anche per il datore di lavoro; in questo modo si eviterebbe di mettere il privato nella condizione di poter sfruttare il cittadino straniero. Nell’attuale sistema non è possibile mettere in regola in tempi celeri e così se si ha bisogno di una colf, di un giardiniere o di altro, si ricorre al lavoro nero. Ecco perché è importante la responsabilità del lettore, lui insieme a altre migliaia può protestare e fare in modo che la legge cambi. Perché sei passato dal genere letterario del reportage a quello del libro? Perché volevo narrare la mia esperienza. Il reportage non poteva rendere adeguatamente l’esperienza emotiva e tutti gli strumenti concettuali messi in campo, come ad esempio, quando durante gli interrogatori fuggivo tra i meandri della logica: era veramente un inseguimento logico usando la lingua o diverse lingue

“Ho profonda paura degli autori che dicono di scrivere perché vogliono cambiare il mondo” o equivoci dati da diverse lingue. Ed è un esperimento anche di rapporti umani in cui conta l’intercultura e la disponibilità dell’operatore interculturale a conoscere l’altra persona perché se considera la persona un numero è una scocciatura, non capirà nulla e alla fine non si accorgerà che per otto giorni è un giornalista a mettere in crisi il sistema di espulsioni di uno Stato. Potevano scoprirmi in mille modi, ma a loro non interessava, non si ponevano nemmeno la curiosità di capire chi avevano di fronte una persona con un esperienza formidabile come tutti quelli che attraversano il deserto e poi il mare. Alla fine, quando da italiano sono stato processato insieme agli altri duecento che erano nel deserto e che avevano perso qualsiasi progetto di vita perché erano state smembrate le loro famiglie, mi sono piuttosto preoccupato, perché non sapevo cosa sarebbe successo di me e mi sono reso conto della mia incapacità a difendermi. Avrei potuto giustificarmi dicendo che nel nostro stato siamo in democrazia e non tutti sono d’accordo con le scelte del governo, che è una scusa che i giornalisti usano molte volte. Ma lì la mia maschera non era caduta per il colore della pelle, perché ero europeo, ma per il concetto stesso della lingua, per il fatto che non c’erano più giustificazioni per dare un senso o una spiegazione a quello che loro stavano subendo e di cui io in qualche modo ero considerato responsabile, perché provenivo dallo stato che aveva chiesto questo. Quindi l’aspetto linguistico è uno strumento fondamentale per chi fa un lavoro di intermediazione culturale.


Safira riappare sulla terrazza dell’hotel. È ancora più elegante, fasciata in un vestito nero fino alle caviglie. Stasera ha liquidato le amiche. «Posso sedermi con te?», chiede avvicinandosi al tavolo. Si siede senza aspettare la risposta. Prende dalla borsetta un ventaglio di fotografie e le apre tra il piatto di riso bollito e la caraffa dell’acqua. «Sono io. Dieci anni fa». Più che il suo corpo da adolescente, in quelle immagini per lei c’è tutto il suo futuro. Si guarda nelle foto come una madre guarderebbe la figlia che si è fatta giovane donna. «Te l’ho detto che facevo la mannequin. Da quando avevo diciassette anni ho lavorato nella moda. Degli stilisti francesi venivano qui e ci facevano sfilare. Altri francesi fotografavano le sfilate e altri ancora prenotavano i vestiti che noi indossavamo». Safira parla come se il tono fosse ispirato dalla collera. «Mi davano pochi spiccioli. Però per due settimane mangiavo e dormivo gratis. Mi avevano promesso che con la moda nel giro di uno o due anni mi avrebbero portata a lavorare a Parigi. Io ero una ragazzina e ho creduto loro. Per cinque anni ho aspettato. Sempre con la stessa speranza. Andare via da qui. Il sesto anno mi hanno scartata perché secondo loro ero troppo vecchia. A ventidue anni, capisci? L’Europa mi ha cercata, ha usato la mia bellezza e a ventidue anni mi ha scartata perché per loro ero vecchia». Il cielo è ancora velato di rosso. Dalla riva del fiume salgono grida e l’eco dei colpi sincronizzati con cui le donne del Niger battono il miglio nei mortai. Safira non alza lo sguardo dalla borsetta, come se stesse scegliendo cosa mostrare della sua storia chiusa là dentro. Poi con uno scatto beve un sorso d’acqua. «A ventidue anni in Niger sei vecchia, ma in Europa no, lo so bene. Nemmeno a trent’anni. Per questo voglio che tu mi porti in Europa. Se mi porti, faccio l’amore gratis con te tutte le volte che vuoi». Chissà a quanti uomini europei ha già detto questo. «Ascoltami, Safira. Io non ti posso aiutare...». «Perché forse non ti piaccio? Prendimi a dormire con te». «Safira, non è vendendoti che riuscirai ad arrivare in Europa». «Ma io non mi sto vendendo. Sto solo usando la mia bellezza. Quando gli stilisti europei mi davano lavoro, soltanto questo volevano da me: che mettessi in mostra la mia bellezza. Ma tra cinque anni la mia bellezza sarà sfiorita. E se entro cinque anni non sarò in Europa, come farò a vivere qui? Diventerò una puttana di strada. Dovrò morire qui. Magari di malaria, di Aids, o di colera. Li senti

questi suoni? Io non voglio finire come quelle donne a battere miglio sulla riva del fiume». «Safira, non posso». Lei sospira. Mette via le foto. Con una mossa improvvisa come quando è apparsa, Safira si rialza. «Buon viaggio e buona vita», dice orgogliosa. L’attesa della partenza dura giorni. Ci si sente come soldati di una retrovia. Prima o poi arriverà la chiamata e bisognerà buttarsi in prima linea... La chiamata arriva una mattina. La scaletta che porta in cima al camion è troppo stretta per accogliere i piedi di tutti. In molti si aggrappano direttamente al cassone. E rischiano di far crollare la massa di bagagli e bidoni. L’autista si arrabbia. Grida qualcosa. Pazientemente si ricompone la coda. I primi passeggeri vanno a mettersi a cavallo delle fiancate. Seduti su coperte di lana arrotolate per ammorbidire gli spigoli delle paratie. Gli altri si accovacciano sul fondo del cassone. Altri ancora devono restare in piedi. Ed è una fatica trovare spazio dove infilare le gambe e non calpestare chi sta sotto di noi. Gli ultimi si devono accomodare, si fa per dire, su strette traverse di ferro saldate da una parte all’altra delle fiancate. Alla fine il carico è un ammasso di gambe, braccia, teste. Colori e voci che si mescolano con sacche, zaini e bidoni. Il proprietario ha venduto ogni superficie disponibile. Restano scoperti soltanto il battistrada delle sei grandi ruote e il lungo cofano del vecchio motore Mercedes. «Ci sono tutti. Centosessanta più l’italiano», dice a voce alta l’autista perché sentano nella biglietteria, «yalla, yalla, andiamo». La temperatura è ormai salita seguendo il sole nel cielo. Daniel e Stephen, i due compagni di viaggio nigeriani, sono immersi nella massa di corpi in fondo al cassone. Non si sono ancora accorti del mio volto bianco fasciato nel turbante verde, il tagelmust. Nemmeno gli altri. Soltanto una ragazza, la più vicina, continua a osservare le mani pallide. E quelle, con il caldo che fa, non si possono proprio nascondere. Una nuvola di fumo denso apre il coperchio del tubo di scarico. Al secondo colpo di acceleratore, il mondo intorno galleggia dolcemente. Si muove. Barcolliamo, perfettamente sincronizzati con il dondolio e lo scricchiolio di bidoni e bagagli. Mani e braccia si appoggiano sulle schiene accanto. L’ammasso di corpi deve ancora assestarsi. Bisogna spingere un po’ con i piedi, un po’ con i fianchi. Giusto per guadagnare qualche millimetro di spazio. Fanno tutti così. Il Mesallaje, l’antico minareto sopra le case rosse di Agadez, celebra solenne anche questa partenza. Nessuno saluta i passanti. Ci si guarda e basta. Le ruote affondano nelle buche e risalgono come la prua di una barca nel mare agitato. Chi sta seduto ai bordi deve aggrapparsi ai corpi vicini per non cadere. La strada sterrata gira a sinistra e corre parallela alla pista dell’aeroporto. Finita la pista, finisce la strada. Finisce Agadez. Finisce il Sahel. Finisce l’Africa nera. Finisce un mondo. Davanti al muso del camion si apre una spianata di pietre e sabbia senza orizzonte. Ci si guarda negli occhi senza parlare. Adesso è evidente quanto è profondo il baratro dentro cui stiamo scendendo. Questi

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ragazzi sanno che nessuno, qualunque cosa succeda, verrà mai a tirarli fuori. Nessun padre. Nessun fratello. Nessuno Stato. Nessuna organizzazione umanitaria. Nessuno dei governi, che con le loro scelte corrotte li hanno portati qui, piangerà mai la loro morte. Da quando sono partiti, sono figli di nessuno. Qui nel deserto siamo tutti figli di nessuno. Soltanto a mezzogiorno, il quinto mezzogiorno di viaggio, ribolle qualcosa di nuovo sulla linea all’orizzonte. Alla fine di una mattinata piatta, disorientata dalle illusioni ottiche, un sottile filo nero attraversa l’aria increspata dalla sabbia rovente. Si dissolve. Riappare. «Dirkou», grida l’autista con il braccio teso fuori dal finestrino. Più il camion va avanti, più quel filo sale in cielo. È lassù. Oppure laggiù, dipende. I miraggi lo trasformano in un’isola, un lago azzurro. Adesso è una nuvola. A volte si riflette nello specchio di calore. A volte evapora. La magia del Ténéré, il deserto dei deserti. Dirkou è una striscia di verde oltre i cordoni di dune ocra. L’oasi degli schiavi se ne sta accovacciata a perdita d’occhio, da sinistra a destra, sotto una parete di montagne piatte. Il colore dell’argilla dipinge le case di rosa. Il resto è un mondo di sabbia. Le casupole dei soldati sono fatte di sabbia. Le palme più vicine sono ricoperte di sabbia. Sembra di atterrare. Per mezz’ora si scende dal pendio di una duna gigantesca. Una discesa dritta che lascia il tempo di abituare la vista al panorama abitato. Arrivato in fondo, il camion gira a sinistra ed entra in uno spiazzo di deserto recintato da pali e filo di ferro. Arrivano i soldati. Armati. Gridano ordini incomprensibili. I passeggeri scesi per primi devono inginocchiarsi sulla sabbia e mettere le mani sulla testa. Basta fare come loro. Veniamo allineati in cinque file davanti al camion. Daniel e Stephen si inginocchiano nella fila accanto. Hanno la faccia stravolta, smagrita, impolverata. Gli altri amici sono da qualche parte più indietro. Non è il momento di voltarsi a cercarli. Nessuno parla. Un soldato con il mitra appeso alla spalla obbliga tre ragazzi a seguirlo dentro una piccola baracca. Il sibilo dei colpi e il lamento dei tre rompe il silenzio. Il sibilo soprattutto. È quello caratteristico dei tubi di gomma e dei grossi cavi elettrici usati come fruste. Non si butta via niente nel Sahara. Il loro soffio attraversa l’aria come una pennellata messa lì a rendere più efficace il disegno. Chiudi gli occhi. Aspetti il tonfo finale. E quel lamento appena pronunciato. «Tu allora sei italiano? Così è per colpa tua se noi siamo finiti qua». Inutile tentare una spiegazione. La solita storia della democrazia in cui non tutti sono d’accordo con i propri governi. Comincia un pericoloso processo. In piena notte. In mezzo al deserto. Di fronte a duecento immigrati, prima sfruttati e poi deportati su un camion. Dichiarato colpevole soltanto perché sono europeo. Così come l’Italia e la Libia hanno dichiarato colpevoli loro. Soltanto perché non sono europei. «Italiano, guarda, questo è il permesso per lavorare in Libia. Perché i vostri ministri sono venuti in Libia a chiedere di mandarci via?» A mano a mano che finiscono il po-

vero pasto, altri passeggeri si avvicinano. «Io so come stanno le cose. In Libia vedevo la Bbc. Perché l’Italia ha interferito sulle nostre vite di immigrati? La Nigeria non è in Africa? La Libia non è in Africa? Voi europei non siete liberi di circolare tra Italia, Francia e Germania? La mia famiglia è rimasta in Libia. Io sono stato espulso perché questo ha chiesto l’Italia. Perché?». L’oscurità nasconde i loro profili. Risalta soltanto il bianco di decine di occhi dilatati dalla rabbia e dalla stanchezza. Ci alziamo tutti in piedi. Un nigeriano grida più di tutti. «Io sono un uomo libero. Lavoravo in Libia da diciassette anni. Sono un tornitore. A Tripoli ho mia moglie e due figli piccoli. Io ho i documenti in regola. Ho provato a tornare perché è un mio diritto. Mi hanno deportato un’altra volta. Da due mesi non vedo più la mia famiglia. Io non andavo in Italia. Per colpa degli italiani, in Nigeria i fanatici islamici stanno già facendo propaganda. Visto, dicono, cosa fanno i cristiani italiani ai nostri fratelli emigrati?». Il Ténéré assorbe le grida riportando immediatamente il silenzio. Nessuno più parla. «Vieni italiano» dice l’autista del camion. Si allontana di qualche passo. Guarda indietro. «Vieni» insiste. Dall’inizio del viaggio, qualunque cosa succeda ora, è la prima volta in cui non c’è possibilità di salvezza. La trappola è nelle parole, nelle menzogne, nella cronaca di questi anni. La mente non trova una sola giustificazione che possa smentirli. È come se la maschera di Bilal mi fosse improvvisamente caduta. Potrebbe finire nel peggiore dei modi. Non sanno nulla del perché sono qui. Qualunque cosa decidano ora, farebbero semplicemente ciò che noi stiamo facendo a loro. L’autista mi prende per mano, come si usa tra uomini nel Sahel. Vuole allontanarsi ancora. Mi fa sedere. Si siede a gambe incrociate sulla sabbia. «Lo conosci il Darfur?», chiede. «Io vengo da là. Non ho più nessuno. Guarda che hanno detto che la guerra è finita, che non è stato un genocidio. Non è vero, sono bugie. Ci vogliono cacciare dal Darfur perché siamo neri africani e non siamo arabi. Ci sono altri otto del Darfur sul camion con noi. Dovevano avere diritto d’asilo. Per colpa di voi italiani, la Libia li ha cacciati. Non sanno dove andare. Si sentono come se il mondo non li volesse più. Ma come fai a scendere dal mondo? Ti ho portato qui perché non volevo che gli altri sentissero. Comunque volevo dirti soltanto questo. Perché tu, quando tornerai in Europa, ne possa parlare con la tua gente. L’unica possibilità di salvezza per noi è che voi sappiate cosa ci sta succedendo». Abbiamo soltanto due modi di risolvere i conflitti. Attraverso la parola o attraverso la violenza. Non ci sono alternative. Questi deportati e il loro autista hanno subìto ogni forma di violenza. Avevano sufficiente rabbia addosso stanotte. Avrebbero potuto decidere qualunque cosa. Ma non si sono lasciati sopraffare. Hanno scelto le parole. Questo volevano. Semplicemente parlare. (da Fabrizio Gatti, Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Milano, Rizzoli, 2007).


Roma Tre multi e interculturale Racconta il suo punto di vista il Prorettore alle politiche per gli studenti di Maria Rosaria Stabili

Il titolo sembra una battuta, peraltro poco originale giacché negli ultimi anni una quantità incredibile di realtà, associazioni, iniziative, movimenti e persino persone si autodefiniscono e/o sono definite multiculturali e interculturali. Maria Rosaria Stabili Non passa giorno che non sentiamo parlare di multiculturalità e interculturalità, essenzialmente in riferimento alla presenza di stranieri nelle nostre strade, nelle nostre case e nelle nostre scuole, insomma nel nostro paese. Dire che Roma Tre è multiculturale e interculturale vuole essere un altro modo, magari più “alla moda progressista” per vendere l’immagine di un ateneo aperto alle sfide della contemporaneità, tollerante e includente? Forse significa fare riferimento alla sua offerta di programmi d’insegnamento, corsi di laurea e di master incentrati, appunto, sulle tematiche appena menzionate? Oppure ha a che vedere con qualcosa di più profondo, con il desiderio di sottolineare l’essenza e il senso della costruzione consapevole di una identità istituzionale all’insegna della pluralità? Per rispondere a questi interrogativi mi permetto di partire con alcune riflessioni generali sui due concetti in questione e di dire, innanzitutto, che questo numero di Roma Tre News si pone in un rapporto di continuità forte con quello precedente dedicato agli scenari globali. Il termine multiculturalità significa la presenza di molte culture in uno stesso spazio fisico, culturale, sociale e il suo irrompere nella riflessione quotidiana e nel linguaggio degli ultimi anni è senz’altro legato ai processi di globalizzazione delle relazioni economiche, dei mercati tecnologici e di quelli del lavoro; alla mondializzazione dei sistemi informativi, mass-mediali e dei consumi. Ovviamente al concetto di multiculturalità è legato quello di interculturalità che si sostanzia nell’interazione tra queste culture molteplici. Interculturali sono allora quei progetti e quelle azioni che, contrastando la

compresenza di più culture come monadi separate e immutate nel tempo, facilitano il dialogo, i prestiti e gli scambi che, a loro volta, le portano a ridefinirsi e riarticolarsi. La globalizzazione, in tutti i suoi aspetti, produce di fatto, come ricaduta importante, dinamiche interculturali anche se di tali dinamiche non si è totalmente consapevoli, si vuole negarle o esorcizzarle. Per alcuni la multiculturalità è un valore aggiunto; per altri un dato di fatto irreversibile che, anche se a malincuore, deve essere accettato; per altri ancora è una grande minaccia a identità individuali e collettive, locali e nazionali costituite. Ma l’affanno a riflettere e produrre buone o cattive prassi su questi temi, essenzialmente in funzione della presenza di culture “altre” che invadono e sfidano il nostro territorio fisico e culturale, fa perdere di vista una considerazione fondamentale nella sua semplicità e cioè che ogni cultura è “multiculturale” perché in essa sono riscontrabili sedimenti provenienti da luoghi e popoli diversi. La storia stessa dell’umanità è caratterizzata dal movimento e dalla creazione continua di reti e intrecci tra persone appartenenti a contesti geografici e culturali diversi. Le culture sono dinamiche, fluide e gli individui interpretano attivamente e creativamente le loro tradizioni rinnovandole per poter gestire meglio i cambiamenti che le relazioni con gli altri inevitabilmente comportano. Che cos’è l’italianità se non una molteplicità ricchissima di appartenenze locali, di tradizioni e costumi, di vissuti e opzioni politiche, religiose ed esistenziali diverse che si contaminano continuamente? E se ogni cultura è “multiculturale”, ogni individuo è, oggi, portatore di multiculturalità. Quanti “io” esistono,

“Ogni cultura è ‘multiculturale’ perché in essa sono riscontrabili sedimenti provenienti da luoghi e popoli diversi” a volte convivendo pacificamente, a volte agitandosi e scontrandosi, nella nostra interiorità? Spesso ci portano a dubitare della nostra identità e a interrogarci su chi siamo e cosa vogliamo. Le nostre identità si nutrono di ubiquità: mangiamo pizza e allo stesso tempo beviamo coca-cola, mastichiamo gomme americane, indossiamo blues-jeans, camicette di fattura indiana o cinese, ci adorniamo con collane africane e ci colleghiamo via

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internet con gente sperduta in chissà quale terra o mare ma resistiamo all’idea di accettarci pluridimensionali, di riconoscere i fili di diverse provenienze che costituiscono la trama della nostra identità. Facendo tutti gli sforzi possibili per rintracciarle, non si riesce più a trovare entità monolitiche e omogenee. Esistono forse solo nei discorsi ideologizzati di chi, per timore o ignoranza, vuole nascondere la complessità degli scenari e degli attori odierni. Allora il percorso che può portare a posizionarci correttamente nel rapporto con le umanità provenienti da contesti geografici e culturali lontani dal nostro può forse partire dalla riflessione su noi stessi, sulla nostra identità e sulla combinazione di elementi che ha prodotto la nostra cultura. Roma Tre è figlia del suo tempo. Nasce nei primi anni Novanta, dopo il crollo del muro di Berlino e si costruisce in un momento storico segnato dalla globalizzazione, dai massicci spostamenti di popolazione e dal “disordine” mondiale. Molti, tra gli studiosi che discutono, progettano e partecipano ai suoi primi anni di vita, non sono portatori di certezze ideologizzate e di preclusioni scientifiche. Si interrogano sul senso dei processi che li obbligano a mettere in discussione le proprie identità scientifiche, politiche ed esistenziali. Ascoltano, osservano e sono alla ricerca di nuove letture di se stessi e del mondo; vogliono creare uno spazio inedito in cui poter sperimentare il confronto e la convivenza delle loro diversità. E si sentono un po’ pionieri. Diverse scuole di pensiero, diverse culture scientifiche, diversi metodi di ricerca e di insegnamento, diversi sistemi valoriali segnano la costruzione dell’identità di Roma Tre. Elemento unificante è il rispet-

to e la valorizzazione delle libertà culturali dei singoli e dei gruppi, libertà intese non come esaltazione e difesa aprioristica di eredità e identità saldamente definite, bensì come possibilità sempre aperte di opzioni dopo adeguati approfondimenti, valutazioni critiche, dialogo e confronto. L’essenza multi e interculturale di Roma Tre allora non è il risultato di incontri casuali, non è semplicemente un dato: è tensione progettuale intenzionale e faticosa pratica quotidiana. Tutto il resto viene come conseguenza lo-

“Che cos’è l’italianità se non una molteplicità ricchissima di appartenenze locali, di tradizioni e costumi, di vissuti e opzioni politiche, religiose ed esistenziali diverse che si contaminano continuamente?” gica delle sue dinamiche fondative: l’apertura e il dialogo con le realtà esterne locali, nazionali e internazionali; i corsi di laurea e di master sulla cooperazione, la pace e la multiculturalità, la difesa dei diritti umani. E consequenziale è il messaggio che vuole offrire ai giovani che la frequentano: non aspettatevi contenuti e stili di insegnamento omologati; non spaventatevi e non smarritevi di fronte alle diversità e alle contraddizioni che vi facciamo osservare e sperimentare perché soltanto conoscendole potete liberamente scegliere; innamoratevi dell’umanità perché la sua bellezza risiede giustamente nella molteplicità delle sue forme e dei suoi colori.

Il multiculturalismo di Roberto Cipriani

Roberto Cipriani

Il risultato della mobilità Nel passato la cultura (cioè gli usi, le credenze, i valori, i simboli, le arti, le tecniche e quant’altro appare tipico di un’intera società o di una piccola comunità) era sostanzialmente la medesima per

quasi tutti gli abitanti di uno stesso territorio. Ora invece, grazie soprattutto al grande sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, gli spostamenti da una zona all’altra del pianeta sono diventati più facili e meno costosi. La sovrappopolazione dei paesi più poveri costringe all’espatrio, mentre il calo demografico dei paesi ricchi comporta la necessità di avere nuova manodopera di provenienza straniera. Ecco dunque che in un paese di immigrazione si trovano a convivere e a interagire varie culture, che danno luogo al fenomeno del multiculturalismo. Le origini del multiculturalismo Il termine multiculturalismo nasce negli anni Sessanta del secolo scorso in un paese come il Canada


caratterizzato da processi immigratori e da presenze straniere della più diversa provenienza. All’interno del Canada è soprattutto il Québec (di cultura e lingua francese) che accoglie favorevolmente gli stranieri. La storia del Québec ha sperimentato da tempo le soluzioni più adatte per affrontare le diversità culturali: lo ha fatto con gli indiani d’America, con le numerose correnti immigratorie dall’Europa e dall’Asia, dall’Africa e dal Sud America, con le minoranze presenti all’interno del paese. Nel mondo il conflitto ideologico si sviluppa fra i sostenitori di un universalismo ad ogni costo ed i favorevoli ad un particolarismo portato alle sue estreme conseguenze, con il riconoscimento di ogni diversità comunque espressa, a livello linguistico e religioso, economico e politico. Da una parte si schierano coloro che difendono il valore comunitario dei particolarismi culturali e dall’altra si ritrovano i contrari a forme troppo accentuate di localismo, cioè di culture collegate ad uno specifico territorio. Le caratteristiche del multiculturalismo Molte nazioni del mondo non sono più monoculturali ma multiculturali. Così è negli Stati Uniti come in Canada, in Gran Bretagna come in Francia, ma pure in Italia, specialmente negli ultimi decenni del XX secolo e agli inizi del XXI. Oggi gli Stati Uniti non sono più abitati solo da bianchi, di religione protestante e di lingua inglese, ma in larga misura anche da individui dalla pelle di colore diverso, di religione non occidentale e di lingua non inglese. Il multiculturalismo, poi, è un orientamento che si concretizza in azioni che facilitano il dialogo fra le culture, in uno spirito di accoglienza che va al di là della tolleranza generica, la quale di fatto tende a non riconoscere la diversità delle culture. Non si tratta di rinunciare alla propria cultura di appartenenza ma di considerare ogni cultura sullo stesso piano della propria, senza lasciarsi prendere dal desiderio di includere ad ogni costo gli altri entro i confini del contesto culturale di arrivo. In una prospettiva multiculturalista, d’altro canto, anche il tentativo di esclusione e di emarginazione di chi non appartiene alla cultura prevalente viene evitato, al fine di avviare un processo di conoscenza reciproca, in chiave di relazione interpersonale aperta, dunque al di fuori della logica che tende a catalogare come nemico qualsiasi rappresentante di una cultura diversa. Il rapporto che si instaura nel multiculturalismo è simile a quanto avviene in qualunque relazione fra maggioranza e minoranza. In generale però la situa-

zione che si verifica consiste in una sola maggioranza prevalente ed in tante minoranze più o meno significative sul piano numerico. In fondo il multiculturalismo è una tipica questione di democrazia. Si tratta di trovare la maniera perché tutti partecipino, abbiano gli stessi diritti e doveri, siano rispettati come persone. L’obiettivo non è quello di far scomparire le minoranze assorbendole nella maggioranza ma di trovare un equilibrio soddisfacente che garantisca uguaglianza di opportunità a tutti. Le soluzioni sperimentate Negli Stati Uniti è stata tentata la soluzione del melting pot, cioè del contenitore di miscela ovvero del crogiolo che, refrattario al fuoco, fa fondere i metalli in un’unica composizione, nella quale non si riconoscono più gli elementi originari. In tal caso il tentativo messo in atto è di far scomparire quasi del tutto le tracce delle culture coinvolte nell’operazione di fusione-integrazione. Tale soluzione è risultata fallimentare. Un’altra strada seguita è stata quella del salad bowl, dell’insalatiera, all’interno della quale le diverse sostanze (o culture) sono ancora riconoscibili, sebbene mischiate fra loro. Neppure tale procedura ha dato esiti favorevoli. Si è anche pensato di ricorrere al sistema di privilegiare le situazioni meno favorite, quelle appunto degli immigrati, riconoscendo loro delle quote obbligatorie di accesso ai pubblici uffici e alle posizioni di maggior rilevanza (per esempio nell’insegnamento universitario): è stato usato per questo il criterio dell’azione affermativa (affirmative action), secondo la quale si procede ad una sorta di discriminazione a rovescio, garantendo dunque ai candidati in condizioni di svantaggio un percorso privilegiato di accesso anche a ruoli importanti. Oggi più che mai si ha che fare con una presenza ben visibile di diverse modalità culturali, che richiedono un’impostazione nuova dei rapporti, evitando che si formino nuovi ghetti culturali, con processi di autoesclusione da una società e da uno stato che sono di tutti. Il multiculturalismo ha un carattere comunicativo, di grande disponibilità, di massima apertura alla discussione, senza pregiudizi. Ma il processo multiculturale è lento e difficile perché occorre imparare a conoscere chi è abituato ad altre forme di cultura. Il risultato finale può essere quello di un mescolamento (meticciato) in cui ci sia un riconoscimento reciproco ma pure una salvaguardia delle specificità di ciascuna cultura.

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La sinistra battuta dal Mostro Mite Paradigma di un essere affabile e sorridente di Raffaele Simone Ho scritto un libro a due strati, come certe torte a sorpresa, ma la parte interna stavolta è più aspra di quella esterna. In superficie (e in apparenza) è un tentativo di analizzare come mai la sinistra, negli ultimi dieci anni all’incirca, non vinca più in nesRaffaele Simone sun paese avanzato. L’unico paese che si possa dire di sinistra in questo momento è la Spagna, mentre dieci anni fa nel gruppo apparivano l’Italia, la Francia, la Danimarca, la Svezia, la Germania, l’Inghilterra, la Polonia, la Grecia, Israele, gli USA e così continuando, con sfumature diverse. Insomma, il mondo avanzato tende a destra, in diverse varietà di questa posizione. Nel contempo sembrano declinare gli ideali stessi della sinistra, sostituiti da una sorta di gigantesco egoismo consumista. Il responsabile e l’emblema di questo rovesciamento è un impasto senza nome, che nel libro ho chiamato “Neodestra”. Questa non si identifica con un partito singolo ma rappresenta una sorta di atmosfera in cui siamo immersi: non è fascismo, non è salazarismo, non è franchismo. Non è (meno che mai) nazismo, anche se a volte, per motivi elettorali, non esita ad allearsi con gruppi di quel segno. È molto up to date per immagine e tecniche di propaganda: vuol sembrare moderna, giovane e piena di energia. Ha elaborato una mentalità, un insieme di atteggiamenti e di modi di comportarsi che si respira nell’aria, si osserva per strada, in televisione e nei media. Insomma è una cultura diffusa più che una forza politica definita. Ha come valori pubblici il consumo, il successo, il divertimento; è totalitaria nel suo odio dell’avversario e delle regole dei sistemi democratici; è populista: rifiuta il principio democratico, sostenendo che una cosa sia opportuna solo se «interessa al popolo», se la «vuole il popolo», ecc., anche nel caso

che quel che vuole il popolo dovesse essere difforme da quel che vuole la legge. Nella sua cornice, la politica non è fatta di partecipazione dei cittadini alla discussione dei problemi comuni, ma è un format, per il quale il passaggio dei politici per la televisione è un fattore essenziale di successo e non sono permesse troppe sottigliezze. Mentre la Neodestra sembra moderna e trendy, la Sinistra appare impolverata e out. I suoi ideali sono in declino, perché appaiono a molti estranei alla direzione della modernità. Ma, oltre a ciò, la sinistra si è indebolita perché le sono accadute attorno talune cose di raggio planetario che ne hanno minato le fondamenta. Tra questi fenomeni, che si sono realizzati nell’ultimo ventennio del Novecento, i seguenti mi paiono i più importanti: a) la classe operaia ha cessato di essere antagonista e punta a diventare una borghesia consumatrice e consumista; b) il popolo della Sinistra ha subito una metamorfosi culturale nella quale i suoi ideali non sono più all’altezza dei tempi. Infatti, in un’epoca dissipativa, consumista e liberista a oltranza, essi appaiono di carattere restrittivo e quasi pauperistico. Ciò vale per tutti i traguardi principali: l’uguaglianza (limita l’espansione delle proprie prerogative), la legalità (limita il soddisfacimento dei desideri), la giustizia (impone regole), l’equità fiscale (toglie il proprio, disturba i consumi), l’attenzione per le classi inferiori (perturba l’ambizione di far parte di quelle superiori), la lotta al nazionalismo (limita le peculiarità delle patrie), l’austerità… c) infine, è nata una cultura globale connessa al Supercapitalismo, di natura essenzialmente “dispotica”. L’insieme di questi fenomeni significa che la sinistra ha oggi dinanzi un avversario che non è più co-

“Il responsabile e l’emblema di questo rovesciamento è un impasto senza nome, che nel libro ho chiamato Neodestra” stituito da concreti partiti politici contro cui si può lottare nei parlamenti e nelle piazze, ma da movimenti storici di ampiezza planetaria, con cui il confronto è immensamente più difficile.


Un simile rovescio non ha precedenti nella storia e richiede una spiegazione omogenea. Questa però non sta in fattori puramente politici, stavolta. E qui si passa al secondo, più intimo, strato del libro, che non si occupa di politica ma di qualcosa di più sfumato e sottile, che chiamerei (alla maniera di Georg Simmel) filosofia della cultura. L’idea che ho proposto nel libro – e che dev’essere stata apprezzata dai lettori, che hanno rapidamente

“Ha come valori pubblici il consumo, il successo, il divertimento; è populista: rifiuta il principio democratico, sostenendo che una cosa sia opportuna solo se la «vuole il popolo», anche se dovesse essere difforme dalla legge” portato l’opera alla terza edizione – è che il vero nemico della sinistra e dei suoi ideali è il paradigma della Neodestra, al quale ho dato il nome di “Mostro Mite”: “Mostro” perché è dispotico e corruttore, “mite” perché si presenta affabile e amichevole. Di questo paradigma ho suggerito alcuni aspetti fondamentali: a) anzitutto il fatto che in esso il tempo libero è occupato dal divertimento, divenuto nel frattempo un consumo primario incomprimibile. Questa situazione ha prodotto una capillare e permanente “carnevalizzazione” della vita, anche presso i ceti meno facoltosi; b) in secondo luogo, siccome i paradigmi culturali forti non risparmiano il mondo interiore, anche le passioni sono state intaccate dal Mostro Mite. Di contro alla solidarietà (ideale traguardo della sinistra di tutti i tempi) e alla compassione (la sua versione cattolica) il Mostro Mite ha infatti stimolato la nascita di una forma di universale egoismo. Dappertutto ha preso piede l’ambizione di frenare o sconfiggere in un sol colpo la bruttezza, la vecchiaia e la

malattia: da qui la ricerca sfibrante e estrema del benessere fisico (wellness) e della perpetuazione della giovinezza (fitness); c) Il Mostro Mite ha indebolito un’essenziale risorsa cognitiva della nostra cultura: la capacità di distinguere tra realtà e finzione, soprattutto a causa del fenomeno1 per il quale l’ubiquità delle immagini altera il rapporto tra vero e falso e trasforma ogni cosa in spettacolo, in cosa per gli occhi. Tra “cosa vista” e “cosa vissuta” non c’è alcuna differenza, l’una si rovescia nell’altra e l’atteggiamento che si prende dinanzi all’una e all’altra è esattamente lo stesso. Ciò ha avuto una conseguenza che si dispiega dinanzi a tutti: si creano eventi al solo scopo di catturarli come immagine (fotografarli, filmarli, riprodurli, diffonderli) e farli vedere. Siamo quindi in una stazione intermedia tra il vero e il fasullo: l’evento è accaduto davvero (e può essere anche drammatico o tragico: un assassinio, uno stupro), ma la catena causale che lo motiva è drogata. Quel evento non sarebbe stato prodotto se non ci fosse stata una camera dinanzi a filmarlo. La percezione del vero s’è infiacchita fino a scomparire. Il terribile rovesciamento dei nostri quadri materiali, affettivi e cognitivi prodotto dal Mostro Mite ha messo in luce un aspetto fondamentale dell’essere di sinistra. Chi sta a sinistra deve accettare preliminarmente taluni meccanismi morali che le sono propri: il sacrificio, la rinuncia e la possibilità di trasferire in tutto o in parte il proprio ad altri. Per accettare questi meccanismi occorre una complicata elaborazione interiore (un “travaglio”) e uno sforzo che va ripetuto di continuo. Al contrario, essere di destra non comporta alcuno sforzo di quel tipo. Per questi complicati motivi, la ricostruzione della sinistra – i cui ideali sono forse appannati ma non sicuramente tramontati – è oggi un compito drammaticamente più difficile di altri tempi, che richiede una fantasia e un’inventiva fuori del comune – un compito a cui la leadership della sinistra europea (a partire da quella italiana) si è mostrata finora impari.

«Oggi la sinistra si trova a dover lottare con due avversari di temibile forza. Il primo è la natura «penitenziale» dello stare a sinistra: lo sforzo che comporta, la massa di sacrifici e rinunce che implica, il bisogno di farsi perdonare (o sforzarsi di dimenticare) la scia di sofferenze che la storia dei comunismi e dei socialismi porta con sé. Il secondo è il Mostro Mite, la faccia sorridente che il Leviatano ha assunto nell’era globale». (dalla quarta di copertina).

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La specialità dell’essere Pratiche di inclusione e di esclusione. Il caso degli albini nell’Africa sub-sahariana di Paolo Apolito

Paolo Apolito

In molte società dell’Africa sub-sahariana, gli albini sono considerati esseri speciali, portatori di un potere magico positivo o negativo, che può essere manipolato da stregoni e reso utile o inoffensivo secondo i casi. Nell’ultimo anno, soprattutto in Tanzania, sono aumentati i casi di albini uccisi o mutilati per scopi magici. Queste informazioni sono state diffuse qualche settimana fa dai maggiori giornali italiani, che hanno dedicato ad esse reportage e commenti. Ecco come l’informazione del mondo globale può contribuire al tempo stesso a ridurre le distanze geografiche ed aumentare quelle tra esseri umani. Ridurre le prime, perché notizie di fatti del genere, trasmessi a migliaia di chilometri, sono un tipico effetto della potenza della comunicazione che produce echi quasi immediati di ciò che succede da una parte in tutte le altre. Aumentare le seconde, perché notizie del genere, del tutto decontestualizzate e così “reinventate”, non fanno che approfondire le distanze in termini di incomprensioni reciproche. L’antropologia culturale dispone di strumenti di comprensione di fenomeni del genere. L’individuazione del diverso, la sua esclusione sociale, l’attribuzione ad esso di caratteristiche speciali di tipo magico-sacrale, la violenza di cui viene fatto oggetto, o al contrario, in altri casi, lo status privilegiato che gli viene attribuito, rappresentano una fenomenologia presente in moltissime culture del mondo. Essi poggiano su meccanismi fondamentali delle società umane, di costruzione dell’identità attraverso la simultanea e persino preliminare costruzione dell’alterità. A quest’ultima vengono attribuiti tutti gli elementi espulsi dal Noi, la cui carica di negatività corrisponde al bisogno di separarsene, persi-

no esorcizzarla. La letteratura teorica ed etnografica su questi temi è vastissima e sempre aggiornata. E tali fenomeni non sono limitati all’Africa. Da questo punto di vista, più che la notizia, è sorprendente il suo entrare nella scena dell’informazione italiana come se si trattasse di qualcosa di assolutamente alieno, esotico, primitivo. Nelle stesse settimane in cui la notizia passava da giornale a giornale, nelle periferie delle grandi città italiane cominciava l’identificazione tramite impronte digitali dei rom, a Ponticelli una folla anonima ne incendiava un campo, in tutto il paese i rumeni e i rom venivano etichettati come potenziali o attuali delinquenti, il senso comune degli italiani si presentava ad osservatori internazionali come orientato alla identificazione dei rom come etnia maledetta. Forse pochi lettori scandalizzati per il destino degli albini africani notarono che la fenomenologia dell’individuazione del diverso, della sua esclusione e della successiva violenza era la stessa, sia pure in un caso fino a conseguenze cruente, nell’altro no. Al distratto lettore occidentale delle notizie sulla violenza verso gli albini in Africa, essa sarà sembrata una prova dell’arretratezza delle popolazioni africane o tutt’al più un ritorno di quelle eredità ancestrali magari in altri ambiti della vita sociale africana in via di superamento. E invece a leggere bene le notizie, anche quelle diffuse dai giornali, senza fermarsi ai titoli che alimentano la distrazione più che l’informazione, si può capi-

“Scriveva un famoso antropologo americano recentemente scomparso, Clifford Geertz, che non esiste l’Uomo in generale, ma esistono gli uomini. E aggiungeva che gli uomini sono soprattutto differenti” re qualcosa di più. Si può stabilire qualche collegamento tra loro e noi, umanità che hanno in comune la caratteristica di costruire lo stigma della diversità e scaricare su di essa tutto il male possibile. Leggiamo per esempio, in un articolo riportato da La Repubblica il 10 giugno scorso, di Jeffrey Gettleman, giornalista del New York Times, questo interessante passaggio riferito alla Tanzania: «Il commissario di polizia Paul Chagonija pensa che l’ondata di film nigeriani in cui viene enfa-


tizzato il tema della stregoneria potrebbe avere un rapporto con gli omicidi, così come l’aumento dei prezzi che rende la gente più disperata». In evidenza due elementi che conosciamo benissimo e che non ci sono estranei: enfatizzazioni emozionali dei media e peggioramento delle condizioni economiche. In Tanzania film

“Nell’ultimo anno, soprattutto in Tanzania, sono aumentati i casi di albini uccisi o mutilati per scopi magici” nigeriani e povertà crescente, in Italia Tg nazionali e impoverimento crescente. Ricorderemo, penso, l’enfasi dei nostri telegiornali sui rumeni e poi (quando il governo rumeno cominciò a protestare con quello italiano) soprattutto sui rom, che fece di questi un capro espiatorio comodo per indirizzare i sentimenti di paura che gli stessi media e una campagna elettorale dissennata alimentavano, peraltro in una fase, non ancora terminata, di peggioramento della congiuntura economica e impoverimento di milioni di italiani. Piuttosto che arretratezza o ritorno dell’arcaico, allora bisogna parlare di un ruolo paradossale e nient’affatto arcaico (qualcuno lo definirebbe postmoderno) dei media nella deriva semplificatoria della lettura dei fenomeni sociali, che si diffonde dovunque nel mondo e non certo solo in Africa (basterà pensare alla centralità degli slogan, spot, parole d’ordine negli appuntamenti elettorali dei paesi occidentali). L’enfatizzazione emozionale che le immagini riescono a produrre, quando si unisce, nei momenti di crisi sociale, alla necessità di trovare un capro espiatorio, produce un sempreverde meccanismo di esclusione sociale. Questo accomuna il caso degli albini in Africa ai rom in Italia, agli immigrati in Europa, a decine e decine di altri casi, in cui si presenta una tale costante della storia umana. Scriveva un famoso antropologo americano recentemente scomparso, Clifford Geertz, che non esiste l’Uomo in generale, ma esistono gli uomini. E aggiungeva che gli uomini sono soprattutto differenti. In certi pe-

riodi della storia di una società, la differenza diventa esclusione, stigmatizzazione, violenza. In Europa come in Africa e nel resto del mondo. Talvolta verso gruppi interni talvolta esterni alla società, come ci ha insegnato Mary Douglas. Allora, invece che limitare la distratta percezione occidentale all’indignazione per il destino degli albini in Africa, è preferibile individuare proprio là, in quel continente, gli sforzi che organizzazioni non governative, stampa, persino governi locali stanno facendo per eliminare questi aspetti violenti di esclusione degli albini dalla vita sociale. Esempi ve ne sono, a cercarli: il presidente della Tanzania Kikwete ha favorito personalmente l’ingresso in parlamento di una donna albina e fa della battaglia contro le discriminazioni una sua bandiera, le organizzazioni di difesa dei diritti degli albini stanno diventando più forti e si diffondono in tutti i paesi interessati, Salif Keita e Geoffry Zigoma, star internazionali della world music e albini essi stessi, sono importanti protagonisti della lotta, una marcia per i diritti di queste persone si tiene ogni anno il 4 maggio a Dar es Salam, aiuti pubblici vengono dati in medicinali ed assistenza ai bambini albini e così via. Segni non certo sufficienti, ma incoraggianti di un’alternativa presente nelle stesse società ai meccanismi violenti di esclusione sociale. Proprio come nella nostra società, in cui abbiamo vecchie e nuove forme di esclusione, ma anche iniziative e impegni per combatterle. Li accomuna una partecipazione distinta ma idealmente comune alle lotte per l’emancipazione che si combattono in tutto il mondo, secondo un riferimento ad un tema molto controverso, ma anche molto fertile. Quello dei diritti universali dell’essere umano, che per alcuni continuano a conservare una matrice ideologicamente etnocentrica, ma il cui limite maggiore è forse che sembrano riguardare esclusivamente le popolazioni “incluse” nelle aree del benessere (e neppure tutte), lasciando tutti gli altri “esclusi” nell’inferno dell’assenza di diritti elementari. Ma che rimangono un punto di partenza impareggiabile per un lavoro sulla globalizzazione finora mancata, quella appunto dei diritti.

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Cronache dai campi rom Perché abbiamo paura di loro? di Monica Pepe Andare in un campo rom significa rompere un muro lungo come la storia delle discriminazioni e del disprezzo che segnano le vicende di questo popolo. È un’esperienza che misura il perimetro della propria umanità, senza pietà e fuori da ogni retorica. Parafrasando Zaira, una delle più belle Città invisibili di Italo Calvino, «non di lamine di zinco» è fatto un campo rom «ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato». «I romeni hanno diritto di mobilità in tutti i paesi europei, è un principio valido per tutti i cittadini appartenenti alla UE. Ma per la residenza, cui sono Campo nomadi Salone legati molteplici diritti di cittadinanza, devono avere il permesso di soggiorno è stata fatta a costo zero e che anche quando gli “irche viene rilasciato solo se riescono a dimostrare che regolari” delinquono nella maggior parte dei casi le sono economicamente autosufficienti. In ambienti autorità non li accompagnano alla frontiera perché governativi e di maggioranza parlamentare si discute costa troppo. sulle misure da adottare per rendere più difficile l’en«La detenzione amministrativa che avviene nei Centri trata e la permanenza in Italia. Per esempio apponendi identificazione ed espulsione si configura come una do sul loro passaporto un timbro di entrata che consanzione amministrativa che di fatto limita la libertà sente una permanenza massima di tre mesi. Scaduti i della persona senza che venga stabilita da un giudice. quali se non possono dimostrare di avere i mezzi per È un regresso spaventoso di civiltà, roba da regime. La mantenersi possono essere espulsi. semplice identificazione costituisce reato. I Centri di Anche quando trovano un lavoro il permesso di sogidentificazione ed espulsione scoppieranno. Molte volgiorno dura due anni, ma se nel frattempo perdono il te vigili, poliziotti e carabinieri ricorrono ad atteggialavoro diventano irregolari». A parlare è Marco Brazmenti minacciosi e lesivi dei loro diritti umani». zoduro, docente di Sociologia all’Università La SaHo potuto constatare personalmente cosa volesse dipienza, che si occupa di Rom da più di venti anni. re il prof. Brazzoduro qualche tempo dopo, all’uscita «Di fatto oggi l’80% dei Rom non ha permesso di del campo Rom di Via Cesarina, “regolare e attrezzasoggiorno e potrebbe essere espulso. La polizia effetto” perché del Comune di Roma dal 2002. tua controlli continui; li conosce tutti e fino ad oggi A Cesarina 190 rom rumeni e bosniaci vivono in 39 in molti casi ha chiuso un occhio. Oggi entra nei container ma al di là del cancello non può entrare campi rom con un’arroganza sempre maggiore, effetnessun altro rom, neanche una madre, un padre o un tua incursioni con l’intenzione di fermare qualcuno e figlio. Se vogliono si incontrano rigorosamente sul portarlo al CPT (oggi divenuto Centro di identificaciglio della strada. zione ed espulsione, CIE) di Ponte Galeria. OvviaIl guardiano mi dice: «non possiamo far entrare nesmente queste incursioni sono programmate dall’alto suno altrimenti rimangono e il campo scoppia. Venti per dare un segnale mediatico di controllo, ovvero rom la settimana scorsa sono andati via». Chiedo al per comunicare ai cittadini intolleranti e xenofobi guardiamo dove sono andati e se posso entrare insieche la polizia sorveglia. E per assoggettare i rom a me a lui a visitare il campo. «Non so nulla, ci pensa una pressione psicologica che li induca a optare per il Comune a spostarli». Non mi fa entrare, dice che altri lidi». devo prendere accordi con Opera Nomadi. «Non è Quello che nessuno dice è che la riforma Bossi-Fini


scortesia, non mi metta nei pasticci». Chiedo se c’è qualcosa da nascondere. «Guardi qui sono venute tv italiane e straniere, non dobbiamo nascondere nulla». Una particolarità c’è: Cesare Galli è proprietario del terreno che affitta al Comune e direttore del campo, percependo dal Comune un doppio riconoscimento economico. «Qui non c’è nessun problema - continua il guardiano - si devono comportare bene, qui c’è l’acqua calda tutti i pomeriggi. Se penso a quando sono venuti, c’erano bambini mozzicati dai topi, ora hanno l’acqua calda tutti i giorni». L’entrata al campo è laterale, a venti metri, chiedo se mi può accompagnare lui stesso per vedere almeno da lontano, ma non c’è verso. Ripercorro il lungo viale verso l’uscita e aspetto. Una ragazzina di 12 anni mi conferma che nessuno può entrare dentro al campo, e nel nostro breve colloquio si gira continuamente verso il fondo del vialetto dove c’è il guardiano. Fermo un altro ragazzo, Rossi ha poco più di 20 anni. Parla con un forte accento romano e non sono sicura che sia Rom «Certo – mi dice – che sono Rom, rom rumeno. Mio padre era fissato con Paolo Rossi e mi ha chiamato così. I miei genitori hanno il camper sulla Pontina su un pezzo di terreno che hanno comprato». Rossi è un ragazzo sveglio, vestito con jeans sdruciti e capelli a crestina. L’accento rom è davvero impercettibile. Gli dico che sembra più romano di me, lui ride «io mi vesto diverso, so’ diverso. C’ho la pischella de Roma. Faccio parte dell’occupazione dell’Horus. Queste leggi che stanno facendo sui Rom fanno schifo. Ora lavoro con l’Arci. Ho sempre cercato di lavorare, ogni tanto mi riesce, ma è più facile non trovarlo». Gli chiedo come mai non fanno entrare nessuno nel campo. «Se la sentono ‘calla’ – mi di-

Un’immagine del Campo nomadi Casilino 900

ce – magari ti faccio parlare con qualcuno dell’Arci così puoi entrare». Anche lui mentre parliamo guarda indietro continuamente per vedere se il guardiano lo sta controllando. Marina, Rom bosniaca indossa un abito gitano bellissimo, si ferma volentieri a parlare ma mi sposta sul-

“I cittadini romeni hanno diritto di mobilità in tutti i paesi europei, ma per la residenza devono avere il permesso di soggiorno che viene rilasciato solo se riescono a dimostrare che sono economicamente autosufficienti” l’altro lato del vialetto per non farsi vedere dal guardiano. Mi dice di aspettare lì che va a chiamare il figlio Sanel, che parla bene l’italiano ed è al bar dietro l’angolo. Davanti ai miei occhi la polizia ferma Sanel dall’altra parte della strada. Il poliziotto gli urla subito in faccia che ha tanti bambini in macchina senza le cinture. Attraverso la strada e il poliziotto nota quaderno e penna. Intanto si accorge che la revisione della macchina è scaduta da tre settimane ed alza ancora di più il tono della voce. Anche a me si rivolge con un tono esagitato, ma gentile. Gli chiedo comprensione e umanità: «Questo non ha manco la revisione, non sai che farebbero a me nel suo paese se vado senza documenti. Questi sono uno schifo, non sai cosa mi ha fatto un somalo che abbiamo fermato la settimana scorsa, stava male e mi ha vomitato in macchina». Poi si mette di nuovo a urlare contro Sanel. «Guarda non voglio nemmeno sapere se c’hai il permesso di soggiorno, basta che te ne vai. Vattene!». E segue un insulto. Mi scuso con Sanel, che invece è contento e mi sorride. «Non c’è problema, l’importante è che mi ha lasciato andare, io non ho permesso di soggiorno. Siamo dall’87 in Italia, prima a Candoni, poi ci hanno trasferito a Muratella promettendoci un altro campo. Invece siamo restati per tanti anni in 500 senza acqua con bagni di plastica e tanti topi». È gentilissimo. «Nel 2003 ci hanno trasferito qui. Io frequentavo la scuola ed ero pure bravo. Ora lavoro raccogliendo il ferro, ma il permesso di soggiorno me lo ha tolto l’ufficio stranieri, quando una ditta da un giorno all’altro mi ha mandato via. Ho avuto due espulsioni ma mi hanno sempre rilasciato». Parliamo della Bosnia. «La Bosnia è bella – mi dice – è il paese dove siamo cresciuti. Siamo di

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Qui e a lato due immagini del Campo nomadi Casilino 900

Vlasenica che è stata occupata dai Serbi e noi musulmani siamo scappati. E poi non c’è da mangiare. Mia madre sta qui al campo, io vivo in un appartamento in affitto qui vicino». Gli chiedo quanto paga al mese. «450 euro al mese con contratto regolare, sono 30 metri quadri, ci sto benissimo con tutta la mia famiglia». Sanel ha 5 bambini e ci tiene a farmi vedere le bollette della luce e del gas intestate a suo nome. «È vero la polizia adesso ti ferma e ti chiede subito il permesso di soggiorno. È sempre più violenta con noi la polizia, ma noi siamo qui in pace». Campo di Salone (Via Collatina) Simona ha poco più di 40 anni e mi dice subito «Io sono stufa di parlare di campi rom» ma poi continua. «Sono in Italia da 8 anni, al Casilino 900 dal 1999 e a Candoni dal 2001. Sono rom rumena di Craiova e il viaggio per venire in Italia l’ho fatto a piedi. Ho preso anche un nubifragio, mi sono salvata grazie ad un uomo che mi ha aiutata». Mi fa sedere sul divano fuori dal suo container e mi chiede se prendo qualcosa da bere. «Qui al campo abbiamo la polizia municipale 24 ore su 24. Ormai ci conoscono tutti, ci hanno fatto dei tesserini. Alcune volte ci controllano perché non vogliono che altri Rom entrano nel campo, a me sembra perché ci vogliono esasperare. La nostra cultura di persone libere non piace a nessuno». Il campo di Salone: 23 telecamere di controllo 150 container dove vivono rom rumeni, serbi e bosniaci. «Io non volevo rimanere qui. In queste condizioni tu vorresti vivere qui? Io non voglio vivere qui, voglio avere la possibilità di pagare una casa e di andare dove voglio. Ho due figli, uno ha 20 anni e lavora in nero come giardiniere. Per 8 ore di la-

voro prende 400 euro. L’altro fa la scuola superiore. Anche se volessi tornare in Romania loro non verrebbero. Noi abbiamo tutti la residenza italiana, mia nuora invece sta qui da dodici anni e non ha ancora i documenti. Questo campo ha due anni, prima sembrava terzo mondo. Con il campo autorizzato sono arrivati i controlli e le telecamere». Le chiedo come si fa a pagare una casa senza lavorare. «Molti qui vorrebbero lavorare – sorride ironica – devi essere un po’ bianco, con i vestiti giusti, dire che non sei rom e che non abiti in un campo. Trovi lavoro solo se hai amici fuori. Io ho lavorato con degli italiani in una pizzeria. Non sapevano che ero rom, mettevo i pantaloni. Ho lavorato anche nelle zone top residenziali come Torre Gaia, dicevo solo che ero della Romania, ma mai che abitavo a Salone». Eppure Salone è un campo pulito, dove ti colpiscono i particolari come i piccoli giardini con le rose curati dagli stessi rom, con le statuine di Padre Pio e le Madonnine al centro. «Sono dispiaciuta per tanti zingari, anche io ho fatto l’elemosina per 3 anni. Una signora italiana mi trovava tutte le mattine allo stesso semaforo e un giorno ha pensato: “se sta qui tutti i giorni magari non va a rubare”. Ho lavorato a casa sua per due anni. Ora lavoro all’asilo del campo, ho fatto un corso di un anno per prendere il lavoro. Ma te l’immagini una zingara di 40 anni che si mette a studiare? – ride divertita – Ti assicuro io l’avrei fatto pure per tre anni pur di avere un lavoro. A me piace tanto leggere, trovo sempre quei giornali gratis sulla metropolitana e mi metto spesso seduta, non sai come guardano una donna rom che legge seduta in una metro».

“La detenzione amministrativa che avviene nei Centri di identificazione ed espulsione si configura come una sanzione amministrativa che di fatto limita la libertà della persona senza che venga stabilita da un giudice” Parliamo della violenza sessuale e della morte della Signora Reggiani nel novembre del 2007. «Io sono molto dispiaciuta per la signora che è morta, odiavo l’uomo che l’ha uccisa. Noi siamo venuti solo per avere un po’ di pace, ma ho odiato anche tutto quello che hanno cominciato a dire di tutti i rom. Perché se sbaglia uno si devono colpire tutti noi? A Tor Bella Mo-


naca qualche giorno dopo hanno massacrato quattro rumeni che non c’entravano nulla. Per due settimane non ho mandato mio figlio a scuola, ho la fortuna che i miei figli non sembrano degli zingari e gli dico sempre che per strada devono parlare italiano. Io ho sempre paura di essere picchiata quando sono per strada, se vado a fare la spesa mi vesto come se andassi a un matrimonio». Le chiedo della retata fatta a Salone lo scorso maggio per traffico di droga e prostituzione. «Come è possibile se il campo è controllato con le telecamere? Se accade fuori sulla strada cosa c’entriamo noi? Allora a che serve la polizia qui fuori tutto il giorno? Qui te lo dico io non c’è mai stata droga. E poi mi chiedo quanti italiani hanno fatto traffico di droga e crimini in Romania? Ma nessuno dice mai che tutti gli italiani devono andare via». Il campo è isolato, ma per raggiungerlo si passa davanti alla stazione ferroviaria di Salone, che è nuova di zecca ma ferma. Quando sono arrivati i rom hanno deciso di non farla più funzionare. «Io ho vissuto tanto con i Gagè ed ho sempre pensato di non dover vivere tutta la mia vita da zingara. Vorrei che altre donne e soprattutto i giovani aprono la mente. Sono felice quando i giovani leggono e guardano la tv, spesso mi metto a parlare con loro, ma la vita del campo non ti aiuta a cambiare». Le chiedo qual è il rapporto tra donne e uomini rom. «È una cosa brutta ti dico, la maggior parte ancora pensa che li devi servire, che devi lavargli i piedi come se fossi una schiava. Invece le cose si fanno per affetto. Ho tirato su due figli da sola. Vivo con i miei figli, i nipoti e con mia nuora, a cui dico sempre che dobbiamo essere amiche. Non è facile stare da sola, ma è meglio essere libera se non puoi avere un uomo con cui dividere le cose brutte e belle della vita alla pari. Comunque credimi, qui tutti pensano che è una galera. Mio fratello sta a Candoni e fa il camionista, mi può venire a trovare solo di notte e gli fanno ancora un sacco di storie per farlo entrare». Campo Casilino 900 È nato nel 1969, è il più antico d’Europa. All’epoca ci vivevano immigrati siciliani e napoletani, ovvero “terroni” a cui nessun romano avrebbe affittato neanche una stamberga. I Rom erano pochissimi. Poi gli italiani presero le case popolari e sono rimasti soltanto loro. Oggi ci vivono 650 Rom montenegrini, bosniaci, kosovari e macedoni, in 158 baracche. A molti è stato riconosciuto l’asilo politico o sono apolidi. L’immigrazione più massiccia è avvenuta negli anni succes-

sivi al 1989 con la guerra civile scoppiata nella ex Yugoslavia. I 250 bambini del campo fino allo scorso anno frequentavano regolarmente le scuole del Municipio VII, grazie all’ausilio del Comune e delle associazioni collegate. Dalla fine del mese di luglio, a seguito delle proteste dei cittadini della zona e della presentazione di Savorengo Ker, la casa in legno costruita dagli stessi Rom del campo con il sostegno del Dipartimento di studi urbani di Roma Tre e di Stalker/ON, il campo è presidiato costantemente dalla polizia municipale. E a tutti i Rom è stato ordinato di portare fuori dal campo qualsiasi mezzo di trasposto, anche a chilometri di distanza. Questo non consente alle 50 famiglie di vendere nei mercati il loro artigianato fatto con i materiali di recupero, ai Rom malati di raggiungere la Asl, ai bambini e alle bambine di raggiungere la scuola, ad alcune donne rom di proseguire l’attività di badanti e agli uomini di lavorare nelle imprese edili. Uno dei portavoce del campo Najo Adzovic, qualche mese fa parlava di rapporti amichevoli con il quartiere «Abbiamo un buon rapporto con tutti e se ci sono problemi creati dal campo si risolvono insieme». Najo lo scorso maggio ha regalato al sindaco Alemanno in visita al Casilino 900 il libro che lui stesso ha scritto Rom. Il popolo invisibile (Ed. Palumbi). «Situazioni del genere non le ho trovate nemmeno nei campi profughi palestinesi o in Nepal e stiamo parlando di un campo autorizzato – si è impegnato il sindaco – ma non vi sgombererò. Serve un grande impegno affinché Roma non diventi una città divisa in due. Bisogna lavorare per arrivare ad un livello medio di vivibilità in tutta la città». Al Casilino i Rom non hanno luce né acqua, solo gruppi elettroge-

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Un’immagine del Campo nomadi Casilino 900

ni ed una fontanella sola per tutti. Gli unici bagni sono quelli chimici e le strade non sono asfaltate. Certo però che se passa qualcuno e vede i bambini rom sporchi, guarda disgustato pensando a quanto basterebbe poco tenerli lindi e pinti. Alcune baracche, per essere autocostruzioni con materiali di risulta sono delle autentiche opere di ingegneria, e gli interni ti colpiscono per l’ordine e il buon gusto dell’arredo. «Bisognerebbe piuttosto interrogarsi sul perché in 40 anni la Comunità Rom in Italia non si è potuta inserire nel circuito lavorativo italiano. Può essere solo dei Rom la colpa di non essere come tutte le altre persone da quando sono nate, di avere la stessa dignità? La cul-

tura rom non è quella di vivere ghettizzati in un campo, questa è la politica dell’Europa – mi racconta Najo – io nel Montenegro ero ufficiale dell’armata yugoslava. Nel ‘90 mi fu ordinato di fucilare dei ragazzi bosniaci, li lasciai liberi e scappai in Italia. Quando per la prima volta ho visto i campi rom in Italia ho pensato ai campi profughi e poi sono rimasto sempre nella stessa situazione». A Samantha, 6 anni, chiedo se a scuola si trova bene con gli altri bambini «Bene» mi risponde sempre sorridente e con la voce squillante. «Solo una volta un bambino mi ha dato un calcio, la maestra poi lo ha sgridato». Tutti i bambini fanno sempre la stessa domanda: «È vero che ci cacceranno via? Sai dove ci portano?». Incontro Ismail Mustafa mentre è seduto su una sedia a un incrocio, tra le stradine sterrate. Come se mi aspettasse. È un bell’uomo, molto segnato in volto. «Sono di Pristina, Kosovo. Avevo un negozio, siamo solo scappati dalla guerra. Era il 1980». Mustafa ha un tumore nel sangue ma i medici – ci tiene a dire lui – lo hanno curato bene. Ha sempre fatto il commerciante anche a Roma. Da quando ha cominciato a stare male non ha più avuto soldi per pagare le tasse. «Mi hanno tolto il permesso di soggiorno e dato l’espulsione. Io dall’80 ero sempre stato in regola». Mustafa insiste perché aspetti che Fetiya, la moglie, mi porti i suoi documenti e insiste perché io pubblichi il suo numero di permesso di soggiorno. È 450041, il suo permesso di esistere quando era regolare.

Savorengo ker, la casa di tutti di Giulia Longo Savorengo Ker, la casa di tutti, è stata costruita grazie alle professionalità dei Rom delle quattro etnie che vivono nel campo Casilino 900, riuniti in un progetto comune volto a dimostrare che è possibile proporre risposte concrete all’emergenza abitativa. I direttori dei lavori sono: Mirsad Sedjovic, Hakja Husovic, Bayram Hasimi, Nenad Sedjovic, Klej Salkanovic. La casa, una costruzione di legno di 70 metri su due piani, realizzata con la collaborazione di Stalker/ON e il sostegno del Dipartimento di studi urbani dell’Università Roma Tre, è stata inaugurata lo scorso 28 luglio da Francesco Careri, Giorgio Piccinato, Mario Quinto, Najo Adzovic. Il progetto costituisce un esperimento di autocostruzione e un’alternativa al container, mantenendo i requisiti di abitabilità. Savorengo Ker dimostra che allo stesso costo di un container è possibile costruire una casa che offra criteri di vivibilità, mettendo in relazione culture e persone diverse. Rom, associazioni, studenti, professori e cittadini hanno condiviso questa esperienza realizzando un prototipo di casa che vuole essere un modo differente di pensare l’abitare e la città. Savorengo Ker sarà utilizzata come il primo spazio pubblico del Casilino 900 e accoglierà diverse attività collettive: uno spazio di gioco e di studio per i bambini, un laboratorio per il centro di medicina solidale, ma soprattutto darà vita a una cooperativa di autocostruzione fatta dai Rom per fornire supporto al progetto di rigenerazione del campo. La cooperativa potrà inoltre lavorare allo sviluppo e ai progetti di altri insediamenti. Il progetto sarà presentato alla Biennale di Architettura a Venezia, all’interno della mostra L’Italia cerca Casa.


«Le nostre case a Pristina sono tutte bombardate. Non ci sono più, non possiamo tornare. Sto molto male e tutte le notti ho paura che mi vengono a prendere e mi portano via. Ho una figlia, 5 figli e 9 nipoti nati tutti in Italia. Non posso più fare nulla per loro». Fetiya ha un viso tanto tondo quanto simpatico. «Quello che mi spezza il cuore è vedere questo odio nei nostri confronti. La maggior parte di noi sono persone normali, esseri umani. È vero andiamo a prendere nei cassonetti cose che possiamo usare o rivendere nei mercati, ma sono cose che voi buttate. Andiamo in giro a chiedere l’elemosina per mangiare. È vero che molti Rom rubano. Siamo nati Rom, chi ci darà mai un posto di lavoro?». Campo nomadi Salone

Aggiornamento Casilino 900, giovedì 11 settembre 2008 Dopo aver sentito al GR regionale delle 7.15 che un’operazione di polizia stava cercando ferro rubato al Casilino 900 sono andata a vedere. Le donne rom mi hanno raccontato che alle 6.30 è arrivata la polizia municipale, mentre nella mattinata era previsto il censimento della Croce Rossa che sta procedendo in tutti i campi rom, rispettando alcuni parametri di umanità: volontario, conoscitivo delle condizioni sanitarie e finalizzato al rilascio di tessera sanitaria. La Croce Rossa che non sapeva nulla della presenza della polizia municipale era in effetti arrivata alle luci dell’alba per poi andare subito via. Le forze dell’ordine hanno attribuito l’operazione a segnalazioni di furti di rame, di pali della luce esterni al campo, tombini e refurtiva. L’operazione è scattata il giorno in cui i portavoce di tutte le etnie del campo erano alla Biennale di Architettura a Venezia con Roma Tre per presentare il progetto della casa. La sera stessa Najo Adzovic ha ricevuto dal Comune di Ovada in Piemonte il premio speciale Rachel Corrie, per il suo impegno civile. Al rastrellamento, come lo hanno chiamato le donne rom, hanno preso parte più di 10-15 volanti, agenti equipaggiati di spray urticante, manganello e pistola, un pullman grande della municipale dove hanno caricato ragazzi, adulti e anziani. Un anziano si è sentito male e hanno chiamato un’ambulanza per portarlo via. Hanno caricato anche due ragazze di 15-16 anni. Una ha denunciato di essere incinta, è stata comunque portata via perchè a casa sua c’erano tute militari dell’esercito e non ne ha saputo spiegare la provenienza. Un’altra ragazza evidentemente incinta non è stata portata via solo per l’intervento delle donne più grandi del campo. Sono stati portati tutti all’ufficio immigrazione di via Salviati.

Ho visto passare pullman Iveco con la sirena sul tetto pieni di ogni cosa sequestrata dalle baracche, i materiali che loro recuperano dai cassonetti, valige, un casco, scatole vecchie. Alla stessa ragazza incinta che stavano caricando sul pullman, volevano prendere i vestiti nuovi di zecca da neonato, che ovviamente secondo loro lei aveva rubato. Per fortuna aveva ancora gli scontrini e glieli hanno lasciati, ad altre donne volevano prendere le posate perchè non potevano essere loro. Hanno sequestrato generatori nuovi, a chi non ha potuto mostrare uno scontrino. Il Casilino non ha né corrente elettrica né acqua, se non avessero i generatori come ci sono in tutti i campi rom non potrebbero avere né luce né frigoriferi. Nel campo ci sono anche disabili e malati di epilessia, oltre a persone malate di tumore. I frigoriferi servono per vivere, metterci il latte dei bambini, medicine come l’insulina per il diabete di Sevlia. Hanno portato via anche un ragazzo con carta d’identità italiana e patente. Il 70% dei Rom al Casilino è ovviamente senza permesso di soggiorno, alcuni uomini sono scappati, altri sono stati presi. Alla fine erano rimaste solo le donne e i bambini. Gli elicotteri hanno sorvolato basso il campo tutta la mattina. Nessuno si è curato del fatto che il Casilino è presidiato dalla municipale H24 da luglio scorso, dopo aver sgomberato ogni mezzo auto fuori dal campo e fatto già la perquisizione delle baracche. Con le macchine i Rom vendono le loro cose ai mercati, raccolgono il ferro, accompagnano i bambini a scuola. Rubare il ferro è reato. I Rom vivono raccogliendo il ferro – molti con regolare partita Iva – svuotando le cantine, alcuni anche rubandolo. Ci si chiede come

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sopravvivano? Tutti i principali mezzi di comunicazione quel giorno hanno parlato di refurtiva, (manicotti del Ministero degli Interni, estintori etc.), ma allora qual è la funzione della municipale giorno e notte? E soprattutto come avrebbero potuto i Rom portare dentro tutta quella refurtiva se non possono più entrare con le macchine da due mesi? Sono in molti a pensare che al Casilino 900 si sta preparando lo sgombero smembrando famiglie intere, facendo rimpatriare generazioni e persone che la ex Yugoslavia non l’hanno mai vista. Inutile dire la forza delle donne del campo, della loro ironia, del loro saper stare al mondo tra mille difficoltà ma sempre con il sorriso, soprattutto quando sentono che sei una persona amica che li vede per quelli che sono, esseri umani.

Loro vedono senza essere andati a scuola. Deve essere l’eccesso di cultura che impedisce a noi di vedere.

ANSA, 19 settembre 2008 - «Non ci sono parole per descrivere quello che ho visto: una situazione che insulta la dignità umana. Mi hanno detto che alcuni vivono qui da 35 anni. Mi chiedo come sia possibile: mancano le più elementari norme igieniche, non c’é l’elettricità. È giusto che uno stato voglia sapere chi abita sul proprio territorio ma a mio modo di vedere un censimento senza un programma di integrazione è fine a se stesso». Gherard Deprez, Presidente della Commissione libertà civile, giustizia e affari interni della Comunità europea in visita al Campo Casilino 900.

Donne arabe: biografie, identità, formazione Rita El Khayat e altre studiose di genere affrontano il tema della condizione delle donne arabe di Aureliana Alberici

Rita El Khayat è medico psichiatra e antropologa. Vive a Casablanca dove esercita la professione di psichiatra e dove ha fondato l’Associazione culturale e casa editrice Aini Bennai. Ha pubblicato numerosi romanzi e studi scientifici in lingua francese. Nel 1999 è stata la prima donna nella storia del Marocco a scrivere a un sovrano, Mohammed VI, una lettera (L’épitre d’un femme à un jeune Monarque) per invocare la trasformazione dello stato civile e il riconoscimento della condizione giuridica delle donne. Alcune delle sue richieste hanno poi trovato un riconoscimento, ancorché parziale, nelle modifiche della Moudawana. In Italia ha pubblicato: La donna nel mondo arabo (JakaBook, 2002); Le lettere: uno scambio molto particolare, (ZANE Editrice, 2006); Il complesso di Medea: le madri mediterranee (L’Ancora del Mediterraneo, 2006); Il legame (Baldini Castaldi Dalai, 2007).

La riflessione sul tema delle donne arabe e della condizione femminile nei paesi della zona del Maghreb, in particolare in Marocco e poi nei paesi di migrazione si è sempre espressa per Rita (in arabo Ghita) El Khayat nel lavoro e negli studi, nella iniziativa scientifica, culturale e politica per l’emancipazione e la liberazione delle donne arabe e per lo sviluppo dei loro diritti nella vita sociale e nel vissuto personale più profondo legato alla sfera del corpo e della sessualità. Ho incontrato Rita El Khayat nel maggio 2006 in un convegno promosso dal Comitato pari opportunità di Ateneo e dal laboratorio di metodologie qualitative nella formazione degli adulti, da me attivato presso il

Dipartimento di Studi dei processi formativi, culturali e interculturali nella società contemporanea. In quel incontro internazionale di studi ci si proponeva di promuovere la conoscenza della situazione di «essere donne in un contesto in via di modernizzazione» attraverso la testimonianza di un percorso di formazione e più in generale di vita, quello appunto di Rita El Khayat, medico psichiatra, saggista e scrittrice, che si sviluppa tra due colonizzazioni, quella occidentale e quelle dell’integralismo islamico. Si trattava di dare la parola ad una intellettuale donna che ha scelto di vivere nei suoi territori e di sviluppare una riflessione in una prospettiva interculturale e interdi-


sciplinare sulle condizioni di vita delle donne arabe, con una attenzione particolare alla lettura del ruolo della formazione, quindi dei processi di alfabetizzazione e del rapporto delle donne con la conoscenza, nella costruzione dell’identità di genere o nella sua negazione. La riflessione, sviluppata da studiose del nostro Ateneo che – dal punto di vista psicologico (Merete Amann Gainotti), filosofico (Francesca Brezzi) storico (Sara Cabibbo), educativo (Carmela Covato, Cristina Lezzi, Maurizia Russo Spena) e relativo ai processi di internazionalizzazione (Maria Vittoria Tessitore) – da anni si misurano scientificamente e più in generale sul piano culturale con gli women’s studies, ha Un’immagine del convegno, 26 maggio 2008 riguardato i temi dell’identità, della lingua e dei linguaggi, della religione e dell’Islam contro le donne (Feltrinelli, 2007). Un del suo rapporto con le questioni di genere e con la nuovo incontro per continuare a discutere e confrondifferenza sessuale, del pregiudizio, delle identità intarci sui temi della condizione femminile e delle donne in Oriente, nel mondo arabo e sulle domande che ciò pone ai paesi occidentali spesso tronfi di una con“Una rosa disse: io sono la meraviglia dizione di civiltà sicuramente più favorevole sul piadell’universo. Davvero un profumiere no del riconoscimento dei diritti e dei valori univeravrebbe il coraggio di farmi soffrire?” sali, ma sempre più spesso sostanzialmente pronti ad abdicare a una funzione effettiva di sviluppo e di difesa degli stessi, in nome di un incerto e indistinto relativismo culturale e/o di un opportunistico rispetto dividuali e collettive dei e delle migranti. Da queldi quelle che vengono definite le differenze identital’incontro nacque un libro, Rita El Khayat: tra testirie etniche e che spesso nascondono e consentono di monianza e realtà. Donne arabe, cultura, formazione non vedere le chiusure fondamentaliste e l’arretrateze percorsi di identità (Anicia, 2007), che ha raccolto za e la violenza fisica e culturale, specialmente nei diverse riflessioni sul tema e un’appassionata testiconfronti delle donne e nello specifico della loro monianza di Rita che a partire dal suo essere, dalla identità sessuale. Ancora maggio. Così come era il sua biografia a cavallo di due appartenenze culturali 22 maggio dell’anno scorso quando Rita, ospite del – quella araba e quella francese – avverte e ci fa avFestival delle letterature svoltosi a Massenzio, ha letvertiti, dell’esigenza di conoscere, comprendere e far to un suo testo inedito, una narrazione di sé provocacomunicare le realtà diverse dell’Oriente e dell’Occitoria e forte che lei ha titolato Lascerò il mondo così dente, globalizzate e al contempo sempre più sepacrudele come l’ho trovato. Maggio, donne di maggio rate, confliggenti e caratterizzate da nuovi integralismi (religiosi, bellici), come possibile strategia di salvezza a livello universale. Il 26 maggio scorso ho promosso, presso la Facoltà “Molti miei concittadini riescono a di Scienze della Formazione, con la partecipazione di vivere in questa violenza. Io proprio Fabrizia Somma, presidente del Comitato per le Pari non ci riesco e sto dalla parte dei Opportunità e Francesca Brezzi, delegata del Rettore, sognatori… mi dispiace non sono un nuovo incontro con Rita, insieme a Franca Prisco abituata a considerare normale ciò che Minerva dell’Università di Foggia, impegnata da anni nella costruzione di una rete di relazioni e di ininon lo è” ziative formative con i paesi del Mediterraneo, Emy Beseghi dell’Università di Bologna attenta lettrice così come ci siamo definite nel nostro incontro all’Udei fenomeni culturali e delle tematiche femminili e niversità, noi e le numerose donne arabe presenti, Giuliana Sgrena giornalista de Il Manifesto e autrice studentesse, lavoratrici, responsabili di enti e assotra l’altro del volume Il prezzo del velo. La guerra

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ciazioni. Maggio anche il mese delle rose: e proprio in occasione del Festival delle Letterature un quotidiano pubblicò un’anteprima di alcune parti del suo testo con il titolo Una rosa contro il terrorismo anche perché Rita diceva riportando le parole del poeta

“Il rapporto tra alfabetizzazione ed emancipazione delle donne investe il ruolo delle donne nella trasformazione sociale, culturale e politica dei paesi arabi” Omar Khayyam: «Una rosa disse: io sono la meraviglia dell’universo. Davvero un profumiere avrebbe il coraggio di farmi soffrire» poi nel prosieguo del testo aggiungeva «io vivo in una città dove la gente si fa esplodere. Molti miei concittadini riescono a vivere in questa violenza. Io proprio non ci riesco e sto dalla parte dei sognatori… mi dispiace non sono abituata a considerare normale ciò che non lo è; vorrei avere campi di rose all’orizzonte che si levano contro le brutture». Certo Rita in quel testo ci ha parlato di come ha vissuto nei suoi territori e di cosa l’ha fatta uscire dallo stato di ignoranza e di sottomissione che caratterizza tanta parte della vita delle donne arabe, e cioè la parola, la lingua, la cultura, la scrittura e quindi ci ha parlato ancora una volta di come sia importante il ruolo delle donne e del sapere delle donne per dare corpo alla volontà di non abbandonare il campo di fronte alla violenza e alla disperazione. In questi anni molte cose sono cambiate non solo nella vita di Rita ma anche nel mondo marocchino e arabo. Lei ora è anche cittadina italiana per il contributo dato alla cultura del nostro paese ed è stata candidata al Nobel per la pace del 2008. Nel 2004 il Marocco ha introdotto importanti modifiche alla Moudawana, il codice di famiglia riformato dal re Mohammad VI, relative al ruolo e al valore delle mogli e delle madri – forse più in generale delle donne? – nella società. Riforma che pur con molti limiti sembra riconoscere un nuovo spazio politico, culturale sociale alle donne rispetto alle regole della famiglia e al peso che esse possono esercitare nella società. C’è da dire che la realtà del Marocco costituisce ancora un’eccezione nel Maghreb, ma che moltissimo c’è ancora da fare. Il 29 maggio scorso, ad esempio, a Bentivoglio, nel bolognese, si è svolta un’iniziativa cui hanno partecipato amministratrici, operatori degli sportelli Punti migranti, alcune associazioni presenti sul territorio e Halem Farhat, presidente della Consulta distrettuale degli immigrati. Nell’ambito di questo incontro sono stata chiamata a presentare il libro. Ne è nato un dialogo diretto con numerose donne arabe migrate in Italia e ancora più precisamente arrivate in Italia per ricongiungimento familiare. Si trattava di donne di dif-

ferenti età e generazioni, dalle studentesse romane di seconda generazione, alle mogli e alle madri con una pressoché inesistente alfabetizzazione, arrivate in Italia al seguito di mariti, padri o fratelli; quindi storie di vita anche molto diverse tra loro che hanno però tutte denunciato la difficoltà di vivere una condizione di forte estraniazione e di identità multipla, rispetto all’immagine di sé, alle aspirazioni di vita e di lavoro, al ruolo dei maschi e al riemergere, proprio nelle loro comunità e nelle famiglie, di un nuovo e forte condizionamento, regressivo sul piano dei diritti e fondamentalista sul terreno delle libertà delle donne. Colpisce il ricorrente riferimento ad una radicalizzazione del condizionamento e del controllo esercitato sulle donne all’interno delle proprie comunità, da parte dei maschi ma anche delle donne anziane della famiglia (suocera, madre). Spesso la preoccupazione e la paura del giudizio dei parenti e dei vicini per l’utilizzo persistente degli stereotipi culturali e religiosi legati al disvalore, alla colpa attribuita al corpo e alla dimensione sessuale femminile, induce l’adozione di comportamenti marginalizzanti, ad esempio sull’abbigliamento, sul velo, e in generale sulla libertà di movimento, di relazioni sociali, che sovente sono molto più rigidi e regressivi anche rispetto alle loro stesse esperienze familiari in Marocco e nei diversi paesi di origine. Molte associazioni e organizzazioni marocchine o italo-marocchine che si occupano delle comunità dei migranti e più in generale dei cittadini provenienti da altri paesi e residenti in Italia, hanno sottolineato più volte, anche rispetto agli elementi di modernizzazione introdotti sul piano legislativo in Marocco, la scarsa diffusione e conoscenza degli stessi nei paesi di migrazione e in particolare la difficoltà di diffusione dell’informazione tra le donne dovuta al bassissimo livello di alfabetizzazione della maggior parte di loro. Ma anche là dove le risorse delle donne, il loro diritto a vivere e le loro aspirazioni alla conoscenza sono riconosciuti, la questione centrale resta soprattutto nell’ambito del rapporto familiare, nella costru-

“Vale la pena ricordare che le donne arabe sono le più analfabete del mondo e ciò condiziona profondamente il peso da loro rappresentato nell’evoluzione o nella stasi delle società” zione di una nuova mentalità e nell’adozione di un orizzonte culturale che consenta di far valere quei diritti che riconoscono il valore e il rispetto della persona nella sua integrità di corpo e di mente, contro il pregiudizio e il fondamentalismo religioso. Valori assai spesso ignorati anche nella stessa società occiden-


Rita El Khayat: fra testimonianza e realtà Donne arabe, cultura, formazione e percorsi di identità di Ornella Mollica La Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, il 26 maggio scorso ha avuto il piacere di ospitare la candidata al premio Nobel per la pace, Rita El Khayat, una donna che ha saputo sfidare con grazia e dolcezza una cultura ancorata allo stereotipo di donna come figlia/sposa/madre. Il convegno è stato coordinato da Aureliana Alberici, curatrice del libro Rita El Khayat: fra testimonianza e realtà. Donne arabe, cultura, formazione e percorsi di identità. Medico psichiatra, saggista, scrittrice, Rita El Khayat – cresciuta tra due culture contrapposte, quella occidentale e quelle dell’integralismo islamico – ha dedicato la sua vita alla difesa della dignità delle donne arabe. L’incontro ha coinvolto altri ospiti illustri come Giuliana Sgrena, Emma Beseghi, Franca Pinto Minerva che si sono confrontate con il pensiero di Rita El Khayat. Come ha illustrato la professoressa Alberici il libro è stato pensato partendo dal percorso biografico di Rita El Khayat «per dar conto delle esperienze e della testimonianza di vita di una donna come Rita, araba, letterata, scienziata, che ha deciso di affrontare nel corso della propria vita temi importanti come quelli legati al rapporto fra la cultura musulmana e il femminismo». «Donne come Rita restituiscono un senso al nostro agire con le nuove generazioni. Loro hanno capito che comunicare fra culture lontane è possibile». Ha poi aggiunto Aureliana Alberici. Nel corso dell’incontro le ospiti presenti hanno evidenziato il problema della scarsa conoscenza in Italia della cultura musulmana: «a molti sembrerà strano – ha sottolineato la giornalista Giuliana Sgrena – ma, esistono molto donne che vivono una condizione di totale sottomissione all’uomo». Rita El Khayat ha chiuso l’evento raccontando la sua esperienza di vita, esprimendo il suo profondo dolore riguardo alla condizione della donna musulmana: «Se non cambiano le prospettive delle donne nel mondo niente può cambiare e credo che sia innanzitutto compito delle donne cercare, con coraggio, un punto di incontro, innanzitutto sul piano culturale».

tale e negati in tanta parte del mondo con una più o meno esplicita complicità/indifferenza da parte dell’Occidente stesso. Ritornano a questo proposito le parole di Giuliana Sgrena che nel suo volume scrive che ci sono nei paesi islamici (ma anche nelle diverse realtà delle migrazioni) donne e uomini che si battono per i propri diritti e lottano per l’affermazione dei valori universali «Queste donne e questi uomini non cercano di fare propri valori estranei alla propria cultura ma lottano per affermarne, pur con la loro specificità, la validità universale». E mi piace ricordare anche il pensiero di Rita quando parla della cittadinanza ricordandoci che si può essere nati e vivere in Oriente ed essere cresciuti nei valori di libertà, uguaglianza e responsabilità. Afferma nella sua Lettera all’Occidente: «Devo la mia facoltà di discernimento al Secolo dei Lumi e ai valori della Rivoluzione Francese. Essa mi appartiene come a qualsiasi francese o occidentale, poiché ha trasformato il mondo e il mio mondo». Principi e valori senza confini che possono albergare presso le donne e gli uomini di ogni civiltà. Ma se si appartiene a popoli e nazioni, non ispirati ai valori di libertà e ai princi-

pi democratici, la prospettiva è l’afasia: stranieri/e nel proprio mondo”. Rispetto al tema della cittadinanza e dei processi di emancipazione socio-culturali e di libertà dei popoli e dei paesi, acquista rilievo la questione cruciale dell’alfabetizzazione delle donne e la denuncia della necessità, insufficienza e contradditorietà di tale processo. Il rapporto tra alfabetizzazione ed emancipazione/liberazione delle donne investe a largo raggio il ruolo e la funzione delle donne nel più ampio scenario della possibile trasformazione culturale, sociale e politica dei paesi arabi. C’è la consapevolezza del fatto che, se è vero che tanta parte dell’analfabetismo femminile nei paesi arabi-musulmani è conseguenza delle disuguaglianze di ordine economico-sociale, è altrettanto vero che ciò priva le donne e quindi i loro paesi di una effettiva possibilità di innovazione in tutti gli ambiti della vita e crea nuove condizioni di stagnazione e di arretratezza, tanto più se si considera che le donne hanno la responsabilità primaria della cura, dell’allevamento e della formazione dei figli. In questo senso Rita sottolinea in più occasioni che la modernizzazione effettiva del suo paese si farà solo se cambierà la situazione delle donne o non si farà affat-

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to. Vale la pena ricordare che le donne arabe sono le più analfabete del mondo (secondo i dati UNICEF il 60%, fino a punte del 90% nelle zone rurali e montuose, della popolazione femminile del Marocco) e ciò condiziona profondamente il peso da loro rappresentato nell’evoluzione o nella stasi delle società. Quando invece l’accesso al sapere è garantito, il ruolo delle donne diviene attivo e incisivo nella società. A questo proposito la biografia di Rita El Kayat diviene orizzonte di senso rispetto al futuro possibile e all’iniziativa delle donne e delle politiche democratiche e progressiste, anche rispetto alle questioni poste nei nostri incontri delle giovani studentesse marocchine sul vissuto della loro doppia identità: «Bisogna puntare molto sulle seconde generazioni di immigrati in Occidente. Generazioni giovani, intraprendenti e con

un’istruzione alle spalle. La conoscenza della lingua, per esempio è importantissima per la comunicazione e l’informazione. Creare dei centri di raccolta e amare e coltivare la cultura occidentale. È necessario che le nuove generazioni si insedino nel campo scientifico». In un suo brano letto a Massenzio Rita El Kayat racconta: «Le mie antenate donne arabe, nella clausura delle case, praticavano l’esbar, la virtù suprema della pazienza e della resistenza. Queste dicevano pallide e amareggiate (non vedevano mai la luce del sole, quindi avevano una pelle bellissima, ma erano anche rachitiche e anemiche) nei momenti difficili e di tristezza, di rassegnazione o di guerra persa: La ilaha ila lah ou sbar! (Non c’è che Dio e la pazienza…). Io l’ho perduta la pazienza quando ho iniziato a scrivere, a dipingere e a viaggiare.»

Rappresentazioni del reale Il teatro, palcoscenico del multiculturale di Franco Ruffini

Il teatro è multiculturale, punto. Lo è su tutti i fronti. Lo è per vocazione: se seguire la vocazione non significa fare ciò che è facile e gradito, com’è vero per l’inclinazione, bensì fare ciò che è difficile e necessario. Per potersi manifestare in quelFranco Ruffini l’evento pubblico che è lo spettacolo, il teatro si è trovato nella difficile necessità di far convivere (almeno) tre culture profondamente differenti – l’attore, la scena, il dramma – il cui contesto rispettivo è quello del “corpo in azione”, poco a che vedere con l’arte, quello delle arti figurative e quello della letteratura. Oltre che differenti, si tratta di culture tendenzialmente autoreferenziali. La “scena prospettica” del primo Rinascimento non intendeva mettere in prospettiva il luogo e le azioni del dramma, ma solo mettere in scena se stessa come prodigio dell’arte. La grande drammaturgia ha sempre delegato alla pagina il sigillo della sua nobiltà, e spesso l’ha fatto con un sussiegoso senso di superiorità verso la miseria dello spettacolo. Gli attori, dal canto loro, hanno accettato di convivere con un condomino di tanto blasone come servi astuti, i quali sanno che il mi-

glior modo per servirsi dei padroni è fare come se li si servisse. Un solo esempio. L’Otello di Tommaso Salvini, che tanta impressione destò in Stanislavskij, non era l’Otello di Shakespeare. La sua grandezza fu di abitare in quel dramma in regime, possiamo dire, di extraterritorialità. Il genio del “grande attore” ottocentesco consisteva proprio nell’essere in grado di costruire col suo personaggio a tutto tondo una sorta di spettacolo personale all’interno dello spettacolo collettivo. La sua parte si proponeva come un tutto autonomo dentro, se non contro, l’insieme delle parti scritte nell’opera del drammaturgo. Allo spettacolo “a solo” di Salvini guardò l’affascinato Stanislavskij, non all’Otello dell’intera compagnia. Se poi si vuol pensare al multiculturalismo come convivenza e integrazione tra diverse nazionalità e/o etnie, anche in una tale prospettiva il teatro è multiculturale. Lo “scenario” sul quale si basavano gli spettacoli dei comici dell’Arte può essere visto come un testo sovranazionale. Prevedendo azioni piuttosto che battute e dialoghi, superava le divisioni del linguaggio di parola in un condiviso linguaggio del corpo. Senza il quale, del resto, gli spettacoli non sarebbero stati vendibili sul mercato internazionale. È una prerogativa del teatro, quella di saper fare di necessità virtù, scoprendo virtù nascoste perfino in quella dura necessità che è il mercato. Un monito, sia detto per inciso, per tutti coloro che oggi demonizzano o santificano – che è lo stesso errore: la verità sta in mezzo – il mercato. Memore della lezione antica, l’Odin Teatret sigla il suo atto di nascita, nel 1964 in Norvegia, con un regista italiano e con attori di varie altre nazionalità. Fu questa


“amputazione della parola” a creare la necessità d’una superiore lingua comune. Anche a livello verbale: attraverso l’uso del canto, che nasconde la difficoltà di parlare una lingua matrigna, o persino attraverso l’uso di lingue inventate o morte, come il copto per Il Vangelo di Oxyrhincus (1985), o un gramelot russo per La casa del padre (1972). Quella necessità è diventata una delle virtù più apprezzate dell’Odin. L’Odin è stato, ed è tuttora, un teatro integralmente multiculturale, per la provenienza dei suoi attori e per il modo stesso con cui vengono costruiti gli spettacoli. Un caso estremo è rappresentato da Il Milione (1978), che assemblava il risultato di “vacanze di studio” degli attori: a Bali, in India, o anche in siti più vicini, come scuole di ballo o di musica, convenientemente straniati. Altri due grandi teatri dell’ultimo mezzo Novecento, come quello di Peter Brook e quello di Ariane Mnochkine, ricalcano le orme dell’Odin. Non nel senso di imitare, ma in quello di riproporre in prospettiva autonoma la stessa vocazione multiculturale del teatro. Si dovranno ricordare almeno: il grande Mahabharata di Brook (1985), nove ore, dall’omonimo poema classico indiano, e il Riccardo II in stile kabuki (1981), primo spettacolo della trilogia muticulturale shakespearina della Mnouchkine, completata nel 1984. Persino quanto al maschile e al femminile, intesi come

“Il teatro è multiculturale. Fa convivere culture profondamente differenti – l’attore, la scena, il dramma – il cui contesto rispettivo è quello del corpo in azione” culture storicamente antagoniste, il teatro può vantare una primogenitura. Fu la Commedia dell’Arte ad integrare concretamente, in un efficacissimo “vivo contrasto”, il sapere femminile delle meretrices honestae e il sapere maschile dei ciarlatani di piazza. Resta da indicare il capitolo dei grandi incontri novecenteschi tra i due emisferi di Occidente e Oriente. Come sempre in teatro, furono incontri tra persone concrete. Artaud e i danzatori balinesi, Brecht e l’attore cinese Mei Lanfang, Yeats e l’attore giapponese Michio Ito, solo per citare i più famosi. Si dice che quegli incontri generarono errori. Artaud vide la regia in una forma di teatro che non ne aveva nessuna conoscenza; Brecht vide l’effetto di straniamento in una forma di teatro che aspirava a coinvolgere emotivamente i propri spettatori. Ma, è stato scritto, esistono gli errori “solidi” e gli errori “liquidi”. L’errore solido è sterile: umilia chi lo ha commesso e lo zittisce; l’errore liquido è fecondo: stimola chi lo ha commesso e gli dà la parola. Il teatro è debitore verso gli errori liquidi di Artaud e di Brecht. Più che una tecnica di composizione

Iben Nagel Rasmussen dell’Odin Teatret, tra gli Yanomani dell’Amazzonia

scenica, Artaud vide nelle danze dei balinesi la forza di un’autentica tradizione che, a differenza del mero cerimoniale, fissa le forme senza uccidere la vita che vi è sottesa, e anzi la esalta. Pensò alla regia come il modo per dotare il teatro occidentale, che ne è storicamente privo, della forza della tradizione. Senza saperlo fecero lo stesso “errore” i Padri Fondatori del Novecento, e lo fanno ancora oggi i teatranti più inquieti, per i quali il connubio di forma e vita è il fondamento del valore del teatro. Quanto a Brecht, vedendo Mei Lanfang, capì che l’emozione non si esaurisce in se stessa a scapito della ragione, ma è il primo movimento della reazione dello spettatore, senza il quale la ragione stessa resta inerte. Anche le culture dei sentimenti e della ragione il teatro mette d’accordo. Nel segno del corpo, che le assume su di sé, per essere corpo-in-vita. Il corpo-in-vita è il cuore segreto del teatro. Segreto perché i teatranti non ne parlano, non si parla di ciò che è ovvio. Questo silenzio ha messo in ombra le varie tecniche usate per conseguire quell’ovvio risultato. L’Antropologia teatrale, introdotta nella pratica e negli studi da Eugenio Barba dal 1980, s’incarica di riportare in luce il segreto del corpo-in-vita. “Essere in vita” può essere una scelta per l’uomo che non abita la scena, un optional. Per l’attore è un obbligo, pena la perdita del suo tratto distintivo, che è di essere un uomo simile – non uguale – all’uomo comune. L’attore agisce, come l’uomo comune, ma in più deve mo-

“Il corpo-in-vita è il cuore segreto del teatro” strare se stesso che agisce. Il sovrappiù di dispendio energetico che ne consegue si traduce nella pratica di un organico disequilibrio, che contraddice la legge del minimo sforzo della vita quotidiana. L’equilibrio dell’attore è un “equilibrio di lusso”. L’uomo comune sta in piedi, si dice, l’attore sta in equilibrio; l’uomo comune segue una traiettoria, l’attore mantiene una traiettoria. Come se, in situazione statica o

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dinamica, dovesse lottare contro una forza che cerca di destabilizzarlo. Questa lotta lo obbliga a controllare i comportamenti del proprio corpo. Lo obbliga alla “presenza”. La stessa, del resto, che sperimentiamo noi uomini comuni quando un ventaccio improvviso ci impedisce di continuare a camminare tenendo la testa altrove. Questo vuol dire “presenza”: stare con la mente lì dov’è il corpo, e impedirgli così di funzionare solo come una macchina d’organi priva di mente. Corpo-in-vita vuol dire corpo in lotta contro l’automatismo dell’equilibrio facile. Vuol dire corpo-mente. In modi diver-

“Prima d’ogni carta dei diritti, c’è il corpo, con la sua insopprimibile aspirazione a non essere solo una macchina che funziona per produrre e sopravvivere” si, tutte le tradizioni teatrali cercano di promuovere e potenziare il corpo-mente dell’attore. Oltre il multiculturalismo: il punctum del teatro è il transculturalismo dei principi organici del corpo-mente, sotto le forme differenziate dai relativi contesti culturali. Rispetto al principio dell’equilibrio di lusso, l’aerea danzatrice sulle punte del balletto classico non è diversa dallo statuario attore kathakali che poggia solo il bordo esterno dei piedi; o dallo schizzante attore balinese

che inclina al massimo la mediana longitudinale del corpo; o perfino dall’attore principiante di filodrammatica, che serra le natiche drizzando in tal modo la spina dorsale, quando si accorge che il suo equilibrio senza lusso lo sta facendo sparire dallo sguardo dello spettatore. Quali sono i modi in cui le diverse culture promuovono – nel teatro e nella società - i principi transculturali del corpo-in-vita, e come possono dialogare tra loro? Dovrebbe essere una domanda alla base della riflessione sul multiculturalismo. Un discorso necessariamente fondato sul relativismo ha bisogno d’un riferimento non relativo. E, prima d’ogni carta dei diritti, c’è il corpo, con la sua insopprimibile aspirazione a non essere solo una macchina che funziona per produrre, e sopravvivere. Corpoin-vita è di più. È altro. Nel teatro, e nelle società. Nel piccolo mondo del teatro, l’attore è il laboratorio d’una tale aspirazione, attraverso le sue tecniche di scena. Nel grande mondo delle società graziaddio costrette a stare insieme, quel laboratorio s’allarga alla politica, all’elaborazione teorica, alla pratica della tolleranza e della solidarietà. Guardare un attore d’una cultura lontana, e sentire nondimeno la pienezza di vita del suo corpo in azione, può essere un antidoto contro i veleni dell’egoismo miope, capace di legittimarsi solo a colpi di paure, proclami e ideologia delle differenze irriducibili. Come se le differenti persone non avessero in comune uno stesso corpo.

«Sapere è potere» Il blog di Grillo dal virtuale al reale. Discussione con Marina D’Amato, docente di Sociologia delle comunicazioni di massa a cura di Valentina Cavalletti Le problematiche evidenziate quotidianamente da Beppe Grillo nel suo blog riguardo allo stato di salute di cui gode la nostra democrazia sono inquietanti. Il disincantato cinismo e il sarcasmo esasperato con cui il comico genovese mette al bando i più incancreniti meccanismi di potere, sia economici che politici, sono stati tacciati come antipolitica, perché appaiono violenti nei modi e nel linguaggio. Tuttavia Grillo non invita mai all’immobilismo. Il suo è un continuo monito ad informarsi, a farsi parte attiva nella società civile. A proposito del V2day ha scritto: «Vi do appuntamento al 25 aprile per avere un’informazione libera in un Paese finalmente libero e ricominciare dall’inizio. Cittadini informati che sappiano le cose, che si occupino del loro quartiere e delle loro città…». Quando scrive che bisogna «ricominciare dall’inizio», Grillo sembra auspicare una nuova visione della società e del

mondo. Questo carattere fondante del suo modo di narrare e di esporsi si intravede anche nella scelta delle date delle iniziative da lui lanciate. L’8 settembre e il 25 aprile sono date memorabili per la storia d’Italia che tuttavia vengono riempite di nuovi significati, nell’ottica di un’attualizzata lotta partigiana: «Noi siamo la naturale continuazione dei nostri nonni, di quei valori di quella gente che ha combattuto, ha perso la vita per lasciarci una nazione più libera o quasi». In questo senso, anche le tematiche trattate hanno un carattere onnicomprensivo e il blog di Grillo diviene il luogo dell’indignazione e della rivendicazione, dove si forniscono chiavi di lettura, interpretazioni della realtà, dove vengono proposte interviste a esperti che possano integrare le informazioni sulle scelte della nostra classe politica. Non è di certo un caso che, in questa fase di trasformazione del mondo dei media e del-


l’informazione, il The Observer, il domenicale del Guardian, lo scorso marzo ha stilato una classifica dei cinquanta blog più utili e interessanti al mondo, mettendo quello di Beppe Grillo al nono posto. Alla luce di queste considerazioni, paraMarina D’Amato frasando Foucault quando sostiene che sapere è potere, quale ruolo gioca la rete nella costruzione delle nuove gerarchie di potere? La rete agisce su due livelli: il primo è certamente quello sognato anni fa da Nicolas Negroponte in Essere digitali che indica un mondo finalmente ed ipoteticamente democratico. Un mondo dove l’agorà potenzialmente allargata a tutti i cittadini del pianeta offre la parola e la possibilità di creare alleanze fondate sull’unica energia inesauribile: la conoscenza che più si spende, più si alimenta. In questo mondo straordinario, perché reale, si conta perciò che si sà e non si esiste per ciò che si è. In questo mondo libero, fondato solo sul sapere, la collaborazione di tutti intorno a questo scopo ha rigenerato comunità scientifiche, ne ha inventate moltissime, ha predisposto conoscenze enciclopediche e specialistiche basate per la prima volta nella storia dell’umanità su una partecipazione universalmente condivisa e libera. Da Wikipedia ai dizionari di traduzioni, alle informazioni mediche, tutto è di tutti. Quindi un potere di conoscenza senza gerarchia, ma fruibile solo da chi sa leggere, scrivere, ed ha l’opportunità di un accesso in rete. D’altro canto però è evidente che chi decide i temi di discussione, chi coordina i giochi di ruolo, chi sollecita reazioni attraverso i blog, di fatto, esercita un potere indicando temi e individuando argomenti che inducono soluzioni. Più in alto ancora chi gestisce i network gestisce anche collegamenti, conoscenze, segreti di ogni tipo. Si ripropone forse l’ambivalenza di un mondo che dall’antica Grecia in poi ha cercato nell’agorà la prova dello scambio egualitario ed ha trovato nel dominio la gestione di masse inconsapevoli. Quale ruolo gioca il sito di Grillo nella formazione di una coscienza nazionale e di un’opinione pubblica, nella costruzione di una nuova mentalità? La fortuna di Grillo da un punto di vista numerico, eti-

co, e sociale sta nel suo nome: è come il Grillo Parlante della fiaba di Collodi. Dice la verità, la dice male, esprime aggressivamente un’indignazione sopita da tutti i poteri, per questo gioca un ruolo essenziale nella cultura contemporanea italiana. Dà voce a chi non ce l’ha, a chi ancora pensa che indignarsi sia il primo passo etico di una lotta contro l’accondiscendenza totale. Quando la politica, le istituzioni, la famiglia, la scuola, esitano nell’offrire punti di riferimento, un grido di rabbia è meglio di niente. Ed il fatto che il blog di Grillo sia tra i più frequentati al mondo mette in evidenza la grande portata della ribellione. Una rivolta inconsulta, come ogni rivolta che si rispetti, e che non ha ancora obiettivi se non quello di ricercare nei prodromi della nostra comunità i valori umani e sociali che l’hanno fondata. La ricerca del giusto e dello sbagliato, del bene e del male, non sono solo espressioni infantili di rabbia, ma anche espressione di aneliti essenziali. Da questo rumore sovente inconsulto che si leva dal blog si può individuare una voce che ricerca una qualche verità: politica e società devono ascoltarla e tenerne conto, non solo stigmatizzarla perché sgarbata. Il rifiutarla per la sua scompostezza può diventare l’alibi per non coglierne il senso. Colma semplicemente un vuoto o ci troviamo di fronte a una nuova weltanschauung? Il grido di rabbia doloroso vorrebbe riempire un vuoto della politica e vorrebbe anche riproporre ad essa una linea morale che le relazioni tra i poteri hanno annulla-

“La fortuna di Grillo da un punto di vista numerico, etico, e sociale sta nel suo nome: è come il Grillo Parlante della fiaba di Collodi” to agli occhi dei più. Non si tratta di un nuovo modo di vedere il mondo, ma si tratta del più antico che di novità ha soltanto il luogo dove si esprime: la rete. Herald Tribune, 13 settembre 2007. Uno dei più autorevoli quotidiani stranieri dedica la seconda pagina all’iniziativa di Grillo dell’8 settembre 2007 durante la quale sono state raccolte 350.000 firme. «Gli italiani hanno fatto la fila in più di 200 città e paesi per firmare la petizione per la proposta di Grillo Parlamento Pulito che, se adottata, metterebbe al bando dalle cariche pubbliche i candidati condannati, limiterebbe gli incarichi a due mandati e introdurrebbe l’elezione diretta dei parlamentari». Mentre in Italia i politici e i quotidiani «hanno liquidato l’iniziativa di Grillo come “demagogia superficiale” e messo in guardia sulle sue “tendenze populiste”», la giornalista dell’Herald Tribune sottolinea che il V-Day è la dimostrazione - assieme alle 750.000 copie vendute del best seller dell’estate di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella La Casta – «del-

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la crescente insoddisfazione tra gli italiani dello stato della politica». I giornali e i politici italiani puntano a minimizzare e a screditare il fenomeno. Lo stesso è accaduto il 25 aprile 2008, la data scelta per il secondo V-Day, dedicato alla «libera informazione in un libero stato». In un solo giorno sono state raccolte 1.200.000 firme per l’abolizione dei finanziamenti pubblici all’editoria, l’abolizione dell’ordine dei giornalisti, l’abolizione della legge Gasparri. La portata dell’evento appare invece singolare: il fenomeno che prima dell’8 settembre era rimasto nella sfera virtuale si fa reale, coinvolgendo cittadini di tutte le età, che non si possono in alcun modo classificare. Questo fenomeno di partecipazione dal basso ha delle peculiarità nuove rispetto al passato. Che differenza passa tra i movimenti degli anni Settanta, che avevano una forte matrice politico ideologica, e questo movimento, che affonda le sue radici nel web? Quando sul muro della Facoltà di Lettere c’era scritto «la fantasia al potere, una risata vi sommergerà» parlavamo tutti di una forte matrice politico-ideologica. Quando nel ’68 apparve ovunque il monito «vietato vietare», parlammo tutti di una forte matrice politico-ideologica. I movimenti, per loro natura, sintetizzano l’air du temps con una frase. Che dire allora del V-day? Nel’68 una generazione cresciuta con regole precise, con studi severi, si ribellava ad un ordine imposto di cui non percepiva più il collegamento tra la forma e la sostanza. Nel ’77 gli indiani metropolitani individuarono la fine di una politica prescritta dai partiti, e oggi, di fronte all’impossibilità di comprendere la trama che costituisce la vera rete del potere tessuta trasversalmente tra partiti ideologicamente diversi, spesso connessa ad interessi privati, gestita attraverso una finanza compiacente perché l’interesse privato di ognuno costituisce, nella maggior parte dei casi, l’obiettivo di una azione politica apparentemente

Beppe Grillo

utile alla collettività, ognuno si sente solo e impotente irretito in una rete per cui quella del web può apparire come l’ultima frontiera della voglia di cambiamento. Le ultime elezioni politiche sono state molto criticate

“Ognuno si sente solo e impotente irretito in una rete, per cui quella del web può apparire come l’ultima frontiera della voglia di cambiamento” da Grillo a causa della legge elettorale giudicata incostituzionale. «Le liste elettorali sono come un uovo di Pasqua trasparente. Non c’è nessuna sorpresa. […] La Camera e il Senato sono al completo. Sold out. […] Il vostro voto non serve. I giochi sono stati fatti. Non ci credete? Prima delle elezioni pubblicherò la composizione della Camera e del Senato, nome per nome, prescritto per prescritto, condannato per condannato». Se Grillo ha invitato a non votare alle elezioni nazionali, per le amministrative il comportamento è stato diametralmente opposto, nello spirito della rifondazione, cui accenno all’inizio. Non a caso si legge nel blog: «Liste civiche per un nuovo rinascimento. […] Le liste civiche, il virus della democrazia partecipativa, sono una grande possibilità di riformare, forse rifondare, il Paese. Ho già scritto, e lo ripeto, che non intendo formare partiti politici. Il mio impegno nei prossimi mesi sarà quello di promuovere attraverso il blog e con un simbolo le liste civiche che avranno i requisiti che riporto insieme agli impegni che dovranno assumersi». Dal blog nascono nuove pratiche politiche, basate sull’idea che i rappresentanti dei cittadini debbano essere incensurati, non debbano essere stati mai iscritti ad alcun partito né aver ricoperto alcun incarico politico. Una regola su tutte: la trasparenza, garantita dalla rete, alla quale viene affidata la funzione di controllo sull’operato dei propri portavoce nei consigli comunali. Come vede in politica questo passaggio dal virtuale al reale? Una grande possibilità reale solo quando tutti saranno in grado e vorranno accedere alla rete, e comunque, anche in questo caso, le possibilità di omissioni sarebbero possibili e quindi, a mio avviso, mi sembra un passaggio più demagogico che utile. È pensabile e auspicabile questo tipo di rifondazione del nostro paese attraverso liste civiche ispirate ai modelli di trasparenza propri del web? È evidentemente ipotizzabile una lista civica sul web, ma non possiamo sapere, finché non la sperimenteremo, quali saranno gli effetti di queste potenzialità. Sulla rete tutti diventano giornalisti e il quarto potere trema di fronte alle incessanti potenzialità del web, anche in termini di proliferazione di prodotti editoriali a costo zero. Davvero la rete scalzerà i giornali,


come sostiene Grillo, o saranno sempre i poteri forti a gestire l’informazione? La stampa, per sua natura capace di fare e di riflettere opinione, ha avuto, fin dal suo apparire, la duplice funzione di conferma e di indirizzo. Il blog propone una modalità diversa perché rafforza la libera associazione di pensieri e di idee ma, ancora per qualche anno, non potrà il web evitare di confrontarsi con la carta stampata e il suo peso, almeno fino a quando non sia stata data a tutti la possibilità di accedere al net. Una possibilità che non ha solo a che fare con quelle

strutturali di tipo economico, ma molto con la cultura e lo stile di vita. Anche all’università ci sono professori che non usano ancora la posta elettronica! D’altro canto i poteri forti esistono anche su internet condizionando le nostre vite, i nostri acquisti, i sistemi di comunicare che hanno modificato le nostre menti. I poteri forti, in ultima analisi, quelli veri, non li conosce quasi nessuno, agiscono senza dire e senza alzare il tono della voce, a loro le ribellioni sono utili perché le grida di fatto garantiscono che tutto rimanga come sta.

«Muri puliti, popoli muti» Una mostra racconta l’espressione dell’apodittico di Edoardo Novelli Da tempo la comunicazione di strada, intendendo con questa espressione scritte, manifesti, graffiti e tutti quei segni che si manifestano sui muri e sugli spazi urbani, al di fuori di quelli ufficiali a pagamento quale la comunicazione pubblicitaria, è diventata oggetto di Edoardo Novelli analisi e di studio da parte di chi si occupa di cogliere gli umori sociali, l’evoluzione dei costumi, le tendenze politiche. In una contemporaneità caratterizzata dalla crescita delle opportunità di comunicazione e dallo sviluppo di nuovi strumenti sempre più accessibili, i muri non sono passati di moda. La fisicità e la materialità dei muri rappresenta un’isola anacronistica all’interno di un universo comunicativo sempre più elettronico e immateriale, praticata da chi, non trovando alcuno o sufficiente spazio nei canali ufficiali, tracima al di fuori e si conquista effimeri terreni alternativi. Fenomeni, mode, stagioni, movimenti che, come un’anomala onda sociale, arrivano all’improvviso, tutto ricoprono, ritirandosi per sempre subito dopo. I muri come luogo di consenso e dissenso politico, di creatività e sperimentazione linguistica, di dialogo e di violenza. Ma come ha messo in evidenza la mostra, che già dal titolo intendeva rimarcare questo aspetto, se i muri rappresentano un territorio multiculturale per eccellenza, non sono luogo di incontro, bensì di scontro.

La comunicazione murale si nutre di affermazioni apodittiche, di certezze assolute, che non contemplano il dubbio e non cercano il dialogo. In politica, nel tifo e persino nelle passioni amorose. «Carla ti amo» è infatti altrettanto gridato e perentorio di un «Kossiga Boia» o di un «Laziali cani lebbrosi». Come già colto e messo in pratica in altre stagioni storiche, i muri non sono terreno del confronto e della riflessione, bensì della declamazione, della messa al bando, dello scontro verbale ed ideologico. Tanto più gli enunciati sono irriducibili e assoluti, tanto più però sono soggetti ad essere corrosi e intaccati da quella vena ironica e paradossale che rappresenta un altro aspetto della comunicazione di strada, capace di attingere alla creatività, alla satira, alla poesia. Ed ecco che quel confronto negato in teoria diventa possibile nella prassi, nel gesto. All’irriducibilità della soluzione militare, alla sostituzione dell’arma della critica con la critica delle armi, che nella seconda metà degli anni Settanta invita a «colpirne uno per educarne cento», si oppongono l’«astronomia operaia», i «nuclei armati di pennello». E con un meccanismo analogo, trent’anni dopo, il famoso imperativo mussoliniano «credere, obbedire, combattere», evocato e rivisitato dalla destra più tradizionalista in «credere,

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Dal 1968 a oggi, Alberto Negrin ha girato per le città italiane fotografando tutto quello che trovava scritto, graffiato, dipinto, incollato sui muri, sulle saracinesche, sui lampioni e sulle pensiline, sul legno dei portoni e sulla lamiera ondulata dei cantieri. Manifesti più o meno ufficiali, scritte, adesivi, murales, che urlano la rabbia e il discontento, che impartiscono ordini e chiedono voti, che condannano a morte e piangono i morti, che propongono verità, che incitano alla lotta, che esaltano ed esultano, liquidano e scherniscono, a volte spaventano, altre sorridono e fanno sorridere. È un incredibile safari attraverso i larghi crateri dei rivolgimenti sociali e le microlesioni del quotidiano, dai tazebao del 1968 al referendum sull’aborto, da Lama a Mao, dalla P2 alla Lega Nord, dalle stragi di Stato alla “discesa in campo” del Cavaliere passando per le mille schegge mescolate di un passato imploso e frantumato. Una rapsodica macchina del tempo che, anche grazie al “romanzo corale” in cui si intrecciano i racconti di Marcello Fois, Raul Montanari, Christian Raimo, Luca Rastello e Piero Sorrentino, disegna la mappa emotiva dell’Italia contemporanea, descrivendo per immagini un viaggio sregolato che intercetta i nuclei profondi e ancora incandescenti della nostra storia più recente. Storia che, nonostante sia stata spesso cancellata e ripulita, è la nostra storia. (dalla quarta di copertina).

obbedire o dibattere?», diventa il modo per colpire il nuovo corso di Alleanza Nazionale. Sui muri è infatti presente un corpo linguistico vivo, capaci di immutabili costanze come di improvvise accelerazioni e salti in avanti. Il campo semantico si allarga, il testo si dilata e con esso le competenze e le inferenze che ci vengono richieste per comprendere il messaggio e partecipare attivamente. Una partecipa-

manifesti si correggono, i disegni si imbrattano. Un dialogo a distanza fatto di mani e tempi differenti che compongono il linguaggio del momento e che grazie alla sua documentazione fotografica ci restituisce parti importanti della storia del nostro paese. Non certo la storia con la «S» maiuscola, scritta in luoghi e con strumenti più ufficiali, ma le molte storie da cui la nostra Storia in gran parte dipende. Non a caso nell’allargamento del concetto di fonte storica che si è verificato negli ultimi anni, rientrano le immagini e l’iconografia prodotta dalla nuova cultura di massa. «Muri puliti popoli muti» recita una scritta, non a caso utilizzata per la locandina dell’iniziativa realizzata al Dams. È un’affermazione che in un epoca nella quale la tutela del decoro urbano è diventata una priorità programmatica di molte amministrazioni comunali potrà far discutere, ma che per chi è abituato a guardare ai muri come a dei documenti sociali contiene, nella sua connaturata apoditticità, una qualche verità.

“I muri come luogo di consenso e dissenso politico, di creatività e sperimentazione linguistica, di dialogo e di violenza” zione che spesso da passiva, diventa attiva. La comunicazione murale è sovente frutto di un’azione collettiva nella quale la figura del mittente e del destinatario si interscambiano. Le scritte si sovrappongono, i Dal 30 aprile al 20 maggio scorso, organizzata dal Corso di Laurea Dams, si è tenuta nei locali di Via Ostiense 135, l’iniziativa Muro contro Muro. Segni dei tempi sui muri del Dams, che ha visto l’allestimento di una mostra di immagini fotografiche tratte dal volume fotografico di Alberto Negrin Niente resterà pulito. Il racconto della nostra storia in quarant’anni di scritte e manifesti politici, e un incontro sulla comunicazione di strada al-

l’interno del Corso di Letteratura, arti visive e pratiche dello spettacolo, tenuto da Arturo Mazzarella, al quale hanno partecipato diversi docenti di Roma Tre. Le immagini della mostra come quelle riprodotte in questo articolo sono tratte dal volume di Alberto Negrin, “Niente resterà pulito. Il racconto della nostra storia in quarant’anni di scritte e manifesti politici”, a cura di Edoardo Novelli e Giorgio Vasta, Milano, Bur Rizzoli, 2007.


Culture e sviluppo Concetti romantici o necessità dell’uomo? di Pasquale De Muro

Da qualche tempo l’idea di sviluppo ha subito crescenti critiche ed è entrata in profonda crisi. Sebbene i primi ripensamenti risalgano già agli anni Sessanta, è negli ultimi tre decenni che l’idea di Pasquale De Muro sviluppo ha subito attacchi e revisioni più frequenti e radicali. Lo sviluppo è stato tacciato di essere insostenibile dal punto di vista ambientale; una forma di neo-colonialismo o d’imperialismo; uno strumento di espansione della globalizzazione e (quindi) del capitalismo; un’idea illuministica; un’espressione della razionalità positivistica; una credenza occidentale; un’idea etnocentrica e altro ancora. Inoltre le politiche di sviluppo che negli ultimi sessant’anni sono state a vario titolo e in diverse forme attuate a livello internazionale, nazionale e regionale, secondo molti critici sono miseramente fallite o addirittura sono le principali responsabili del degrado ambientale, dell’esplosione demografica, dell’impoverimento di larghe fasce di popolazione, dell’aumento delle diseguaglianze economiche e dell’esclusione sociale, della perdita di diversità biologica e culturale. Le critiche hanno avuto obiettivi diversi. Alcune correnti – in cui confluiscono ecologismo radicale, terzomondismo manicheo, pensiero critico-utopistico, ruralismo romantico, antiglobalismo – hanno suggerito di rifiutare del tutto lo sviluppo e sostituirlo con altri riferimenti (solidarietà, convivialità, felicità, autosufficienza, decrescita…). Altre correnti, invece, hanno tentato di emendare o correggere il concetto: lo sviluppo, che all’inizio era prettamente “economico”, è poi progressivamente diventato sociale, community-driven, sostenibile, dal basso, endogeno, locale, ecc.. Queste revisioni hanno forti implicazioni sia in termini di politiche di sviluppo, che hanno infatti subito una corrispondente evoluzione, con cambiamenti talvolta più nominali che sostanziali, sia in termini di misurazione, con la critica al PIL (prodotto interno lordo) quale indicatore principe dello sviluppo e la proposta di una serie d’indicatori alternativi o complementari.

Come si comprende da questi brevi cenni, il discorso sullo sviluppo è davvero ampio e complesso e in questa sede non può essere affrontato compiutamente. Perciò ci limiteremo a uno solo degli aspetti menzionati, la critica culturale allo sviluppo, che costituisce un attacco particolarmente insidioso poiché sta ottenendo crescente attenzione e consenso proprio da quei settori della società civile e dell’opinione pubblica tradizionalmente impegnati sul fronte dello sviluppo. La critica culturale consiste essenzialmente nel ritenere lo sviluppo un’idea occidentale, un’espressione della civiltà e cultura occidentale, che i paesi più ricchi e industrializzati hanno cercato di trasferire – o talvolta imporre – dal secondo dopoguerra agli altri paesi del mondo, con esiti molto controversi. Senza entrare nel merito dei successi e degli insuccessi economici del trasferimento di tale modello occidentale, la critica culturale rileva comunque che l’idea di sviluppo in sé non appartiene alle altre culture e civiltà. Pertanto il suo trasferimento – attraverso la globalizzazione, relazioni neocoloniali e aiuti internazionali – oltre a violare la sovranità degli altri paesi, ha ignorato e danneggiato le altre culture, portandole verso un’omologazione a quella occidentale. Infine, tale trasferimento, secondo questi critici, non poteva che condurre al fallimento dello sviluppo: il modello economico e tecnologico occidentale può funzionare bene (e nemmeno sempre) soltanto nel contesto culturale dove è stato partorito; pensare di applicarlo in altri contesti è illusorio e riduzionistico. Ciò spiegherebbe in larga parte il persistente sottosviluppo di tanti paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. La critica culturale ha certamente alcune valide ragioni. È certamente vero, infatti, che i paesi occidentali,

“Il fine dello sviluppo può essere concepito come un’espansione della nostra libertà di poter valutare e scegliere un tipo di vita cui diamo valore” soprattutto fra gli anni Quaranta e Settanta, hanno cercato di trasferire, anche attraverso forme di dominio economico, politico e militare, il loro modello di sviluppo agli altri paesi, ed è anche vero che l’hanno fatto trascurando spesso completamente i problemi culturali connessi. Ciò ha condotto anche a sottovalutare (e tal-

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Ganvié, Benin

volta anche a cancellare) modelli economici indigeni, apparentemente arretrati ma in realtà frutto di evoluzione e adattamento, e dunque più sostenibili e resilienti. La critica culturale presenta tuttavia anche notevoli limiti. Per poterli comprendere è necessario soffermarsi sul concetto stesso di sviluppo. Si tratta di un concetto che le scienze sociali hanno mutuato dalla biologia. L’uso che è stato fatto del termine sviluppo nell’ambito economico, politico e sociale è stato sempre molto ambiguo, e i significati attribuiti sono stati molteplici e non sempre congruenti. Per non parlare poi delle varie revisioni, cui abbiamo già accennato, che aggiungendo una serie di qualificazioni (es. sostenibile) o prefissi (es. etnosviluppo) non hanno risolto le ambiguità ma solo complicato il quadro. In effetti, le radici dell’ambiguità si possono individuare non tanto ponendosi la domanda «quale sviluppo?» e rispondendo con un aggettivo, ma piuttosto chiedendosi «sviluppo di che cosa?». Se tentiamo di rispondere alla seconda domanda, appare chiaro che il discorso prevalente – soprattutto fra gli economisti – fa riferimento allo “sviluppo delle forze produttive”. In questo senso, sviluppo assume un grappolo di significati interrelati quali: 1) crescita economica (ossia aumento del

PIL); 2) accumulazione di capitale; 3) cambiamento della struttura economica; 4) modernizzazione. È evidente che lo sviluppo inteso in questo modo è effettivamente un tipico prodotto della cultura occidentale e ha goduto di un larghissimo consenso internazionale (nel primo, nel secondo e nel terzo mondo) fino all’inizio degli anni Settanta. Tuttora questa è l’accezione prevalente tra politici ed economisti. Se facciamo riferimento, dunque, allo sviluppo delle forze produttive, la critica culturale è pienamente fondata. Alla domanda «sviluppo di che cosa?» possiamo tuttavia anche rispondere in altri modi. Esiste, infatti, un’altra tradizione di pensiero, che ha radici in Aristotele, passa per Adam Smith e Karl Marx, e arriva oggi ad Amartya Sen, che offre una visione differente. Sulla base di questa tradizione, è necessario innanzitutto porre attenzione alla differenza tra i mezzi e i fini dello sviluppo. Se è vero che la crescita e la modernizzazione economica sono potenti strumenti di sviluppo (sebbene non necessariamente gli unici o i migliori in ogni situazione), è anche vero che il conseguente accrescimento della disponibilità di merci non può essere considerato un fine in sé e per sé. Dopotutto, quello che conta veramente è il tipo di vita che conduciamo, il nostro star bene, le libertà sostanziali di cui godiamo. Le merci, per quanto preziose, sono soltanto un mezzo, tra gli altri, che possiamo utilizzare a tale scopo. Il fine dello sviluppo può essere concepito allora come un’espansione della nostra libertà di poter valutare e scegliere un tipo di vita cui diamo valore. Questo approccio non può essere tacciato di essere un prodotto della cultura occidentale, perché è possibile rintracciare aspirazioni e apprezzamenti verso questi valori anche in molte culture non occidentali. Adottando, dunque, un’idea di sviluppo che si riferisce direttamente all’uomo piuttosto che alle forze produttive, i principali argomenti della critica culturale vengono a cadere, e il pluralismo culturale diventa non più un vincolo o un ostacolo allo sviluppo ma un suo elemento essenziale.

Identikit del low cost Parla Piergiorgio Rossi, docente di Progettazione ambientale di Michela Monferrini

Professor Rossi, perché la diffusione della mentalità low cost è così lenta? La contraddizione tra low cost e hi-tech non è di natura ideologica, non coincide con la contrapposizione tra economie forti ed economie deboli così come la

presentano Naomi Klein e i no global, ma deve piuttosto essere ricondotta ai modelli culturali che sono stati assimilati in ogni parte del mondo. Il più delle volte sono proprio i poveri a rifiutare il low cost, scambiato per una forma di beneficenza fatta con


l’intenzione di discriminare. Del resto è ovvio che il povero desideri la casa o la macchina del ricco vista in televisione. La conseguenza meno ovvia di aspirazioni legittime in linea teorica è che i poveri finiscono per dotarsi di strumenti (la tecnologia ad alta intensità di capitale e ad elevati consumi energetici) che li rendono sempre più poveri. È evidente che esistono le ben note speculazioni sul petrolio, sul grano, etc., ma lavorando in certe realtà locali ci si rende conto che la capacità di assimilazione culturale da parte delle strutture sociali deboli è molto limitata. E diventa determinante la mediazione culturale offerta da soggetti Studenti a lavoro, villa Carlos Gardel, Buenos Aires locali in grado di interfacciarsi con il mondo. lettanti che partecipano a questi progetti. Nei laboraIn Argentina, per esempio, stiamo operando in collatori di auto-costruzione da me organizzati, gli stuborazione con quattro università sudamericane, che denti sono stati totalmente affascinati tanto dall’essehanno colto la filosofia del low cost e del low impact re entrati in contatto con luoghi e persone lontanissied hanno aperto le porte alla sperimentazione in aree mi in termini geografici, sociali e culturali, quanto disagiate. Quest’anno siamo andati (studenti, neolaudal veder crescere dalle proprie mani un oggetto in reati ed io) in un quartiere povero di Buenos Aires, scala reale costruito con materiali impropri secondo Villa Carlos Gardel, dove una cooperativa laica, il principi decisamente innovativi. È un seme di lungo parroco e la Municipalidad si sono contesi il nostro periodo, ed è il nostro mestiere di docenti. piccolo intervento: leggeri gusci sottili, ottenuti per Ma da cosa sono rese possibili le tecnologie low gravità, fatti da tessuti imbevuti di calcestruzzo e apcost? Perché è convinzione diffusa che la tecnolopesi a dei cavi tesi. Quando i gusci si induriscono gia abbia un prezzo molto alto? seccandosi, diventano resistenti; quindi con spessori Se per tecnologia s’intende un sistema produttivo ormolto sottili otteniamo risultati significativi dal punganizzato, allora è vero che quella attuale ha un costo to di vista strutturale, coprendo con poco materiale molto alto, ma se si intende la combinazione di un un ampio spazio abitabile. sotto insieme di strumenti con un sotto insieme di riA proposito della paura di cadere in nuove forme sorse, ci si accorge che il costo non dipende dalla di colonizzazione, Paul Polak dice invece di aver tecnologia, ma dall’obbiettivo che si persegue attrariscontrato una particolare ricettività nella gente verso la tecnologia stessa. Il paradosso sta nell’idea locale, grande entusiasmo… di efficienza: quanto più una tecnologia è efficiente, A volte è vero, a Villa Carlos Gardel hanno appreztanto più è costosa, ma se si rinuncia al criterio delzato e partecipato al significato culturale della nol’efficienza, allora quanto più la soluzione costruttiva stra iniziativa, a cominciare dall’incontro tra abitanè efficace tanto più è economica, non solo in termini ti del barrio e studenti universitari sudamericani e strettamente monetari, ma soprattutto ambientali. Io italiani. Altre volte (la maggioranza) invece le intestesso sono arrivato alle tecnologie a basso costo parrazioni tra centro e periferia sono il portato di nutendo da quelle a basso impatto e ho scoperto che le merose contraddizioni, con modelli forti contrappodue cose viaggiano insieme. sti a modelli deboli. Il mondo si è trasformato in La ricerca sta appunto nel lavorare con tecnologie a una immensa ed informe periferia dove le culture volte banali e a volte sofisticate, smontarle e vedeautoctone sono sempre meno riconoscibili e sempre re di quali e quanti pezzi sono composte, per poi rimeno autonome, conseguenza evidente di una conprodurle con strumenti manuali, a costo zero in tertaminazione strisciante. Chi opera in periferia è mini di investimenti fissi. Se, oltre ad avere investiportato, quasi senza accorgersene, ad interpretare a menti zero per impianti, attrezzature e macchinari, suo insindacabile giudizio cosa sia autentico, origisi utilizzano materiali di basso costo, si aprono amnario o rappresentativo del luogo. In realtà, chi opepie e interessanti prospettive per affrontare i presra sul campo si muove all’interno di un sistema santi problemi del pianeta terra (inquinamento, pocontaminato, tanto ricco di potenzialità quanto pievertà, etc.). Bisogna però superare il pregiudizio no di trabocchetti. che per soddisfare le esigenze dell’abitare si prenUn ragionamento diverso va fatto per i giovani, i di-

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dono in considerazione soltanto le strutture in calcestruzzo o in ferro, con pilastri, travi, muri. Le strutture tese, fatte di tensione e spessori sottili sono considerate qualcos’altro da una casa, o da un ospedale. C’è grande diffidenza verso questi manufatti e poco importa che si ribalti la relazione tra investimenti fissi, ovvero costi economico-finanziari, e utilizzo del lavoro. In estrema sintesi: all’imprenditore non convengono le tecnologie low cost perché hanno bisogno di una quantità di lavoro molto alta; siccome però si tratta di un lavoro poco costoso e spesso fornito dallo stesso utente, il valore e il beneficio sociale può essere considerato molto più importante del profitto individuale. Ci sono ingerenze da parte della politica dei grandi stati per il timore che certi gruppi sociali possano diventare autonomi? Il nostro gruppo di lavoro è talmente piccolo che non si è mai trovato ad affrontare ostacoli di natura politica, per lo meno in termini di esperienza diretta. Indirettamente è la totale mancanza di risorse, e prima ancora di politiche appropriate, finalizzate all’autosviluppo (inteso nell’accezione di Muhamad Yunus) a costituire un freno, un impedimento all’autonomia dei gruppi sociali marginali. Che ostacoli incontra la diffusione delle tecnologie low cost rispetto al settore del volontariato? Noi abbiamo provato a lavorare con le Onlus e abbiamo avuto enormi difficoltà. Quando lavoriamo con le università è diverso, entriamo in contatto con le comunità locali senza filtri, ci lasciamo con grandi feste, instauriamo rapporti d’amicizia. Con Onlus e Ong si presentano continue situazioni di conflitto perché il settore della cooperazione, prima di tutto, tende a primeggiare, a dimostrarsi indispensabile, e non crede che la ricerca scientifica possa sostituirsi alla beneficienza o al volontariato. Queste associazioni sanno fare determinate cose, per esempio l’adozione a distanza, ma se vogliono costruire un asilo non hanno competenza; quasi tutti sono convinti che incaricare imprese locali ed utilizzare le tecniche tradizionali sia l’unico riferimen-

“La ricerca sta appunto nel lavorare con tecnologie banali o sofisticate, smontarle per poi riprodurle con strumenti manuali, a costo zero” to possibile. Ma le tecniche tradizionali e le imprese locali possono apparire economiche a chi paga in euro, ma sono sempre basate sulla logica del profitto individuale, del consumo di risorse naturali, del divario culturale o produttivo tra nord e sud del mondo.

La pompa idraulica ideata da Paul Polak

Perché l’Onu prosegue sulla linea dei grandi, costosi progetti, nonostante gli scarsi risultati? L’Onu non è molto diversa dalle suddette associazioni, è costruita sul modello della tecnologia dominante e sostituire i criteri di efficienza con dei criteri di efficacia (si potrebbe provocatoriamente assumere come obiettivo l’inefficienza economica programmatica o sistematica) è difficile. Inoltre conta lo scenario di riferimento che per l’Onu e gran parte dell’opinione pubblica è centrato sull’Africa, che però non è il terreno più fertile. In Africa il seme dell’auto-sviluppo non germoglia; troppo spesso si lavora nel deserto, letteralmente e metaforicamente. Nel mio settore d’intervento sono state fatte opere interessanti, per esempio da un gruppo di architetti finlandesi in Costa d’Avorio, ma da lì non è nato nulla. Al contrario, in Sudamerica ci sono università (in particolare, a Valparaiso è stata realizzata la cosiddetta Ciudad Abierta con fenomeni di autocostruzione), architetti e designer, cooperative di operai e di poveri cartoneros organizzati, che sperimentano tanto dal lato del progetto e delle costruzione, quanto da quello dei risvolti economici. Anche negli Stati Uniti ci sono esperienze-pilota interessanti, e anch’esse sono nate dalle università. Siamo ancora agli inizi, ed i risultati possono essere apprezzati più che altro dagli specialisti, non c’è niente che già funzioni e sia riproducibile. Si tratta ancora di esperienze puntiformi. Tra queste, una


Out of poverty? Per Paul Polak si può Out of Poverty (Fuori dalla povertà. Cosa funziona quando falliscono gli approcci tradizionali) è il libro, appena pubblicato in Usa e Canada, ma presto tradotto anche in italiano, che racconta la storia del filantropo Paul Polak. Settantenne canadese d’origine ceca, nel 1981 Polak ha fondato la IDE (International Development Enterprise), associazione no-profit oggi presente in otto paesi in via di sviluppo (Bangladesh, Vietnam, Cambogia, India, Nepal, Zambia, Zimbawe e Myanmar) e composta da seicento operatori, molti dei quali sono nativi dei suddetti paesi. L’obiettivo dell’IDE, e di altre due associazioni fondate più recentemente da Polak, è quello di aiutare trenta milioni di famiglie povere entro il 2015. Per il momento si è arrivati a quota dodici milioni di persone, risultato per il quale Polak è stato insignito, lo scorso maggio, del Premio Monito del Giardino, della somma di trentamila euro. L’associazione ha rifornito famiglie indigenti (si tratta, in prevalenza, di contadini) di una serie di strumenti e tecnologie low cost ecocompatibili: frigoriferi in coccio, pannelli solari realizzati con biciclette in disuso e specchietti recuperati dalle confezioni di cosmetici, borse con pannelli fotovoltaici inclusi sulla superficie per catturare energia elettrica durante una semplice passeggiata e per illuminare le case di notte, o ancora, filtri per rendere potabile l’acqua, pompe a pedali in bambù per l’irrigazione. Tutti strumenti per i quali non sono necessari più di cento dollari (partendo da un minimo di venticinque). Grazie ad attrezzature di questo genere, per le quali Polak rifiuta il termine di “invenzioni”, volendo sottolinearne la facilità d’utilizzo, ma anche di creazione, i contadini possono ottenere una produzione che supera il fabbisogno alimentare e vendere i prodotti in eccesso, guadagnando il necessario per l’acquisto di medici-

delle più interessanti è nata in Alabama, e fa riferimento al Rural Studio fondato Samuel Mockbee. Un gruppo di studenti ha adottato un villaggio di afroamericani, poverissimi e isolati, e ha cominciato a costruire una casa, poi un granaio, poi una scuola. Vanno lì da quindici anni ed il villaggio è rinato, ha dei pezzi di architettura di grande suggestione.

ne o di ulteriori attrezzature, come pure per le spese scolastiche dei figli. Il vero merito di Polak, è stato soprattutto l’aver capito di dover intervenire direttamente sui problemi di più immediata urgenza, primi tra tutti la captazione, il trasporto e la depurazione delle acque. Con la sola pompa a pedali in bambù, circa un milione e mezzo di contadini del Bangladesh ha potuto incrementare il proprio reddito annuale di centocinquanta milioni di dollari, mentre una delle più recenti creazioni, la Q Drum (una ruota container da riempire d’acqua) rende agevole il trasporto di grandi quantità d’acqua anche per i bambini, i quali spesso devono sostenere sforzi superiori alle proprie capacità. L’attività dell’IDE non è però priva di problemi: occorre cercare, infatti, di trattare con le persone indigenti come si farebbe in una vera e propria trattativa d’affari, per non far sembrare l’aiuto un’operazione di beneficienza, o peggio, di elemosina, di carità, cosa che in effetti non è, dal momneto che, Polak per primo, non intende finanziare in eterno queste popolazioni, ma creare un sistema di autoriproduzione dei sistemi di sostentamento. In secondo luogo, le grandi donazioni che l’IDE sta cominciando ad ottenere, come quella dei coniugi Gates da oltre tredici milioni di dollari, possono creare sudditanza psicologica e distogliere l’attenzione e l’impegno da quello che è l’obiettivo principale. Come racconta Out of Poverty, libro frutto di tremila interviste realizzate a persone povere, ma desiderose di apprendere, Polak è imprenditore e psichiatra, e proprio da questa sua prima attività, dall’osservazione dei problemi psichici come derivati dai problemi economici e lavorativi, è nato in lui il desiderio di poter esser d’aiuto ai più bisognosi («curavo gente con problemi psichici e con pochi soldi che mi ha insegnato tutto». Si legge nel libro). Il lavoro di Polak, degli addetti che fanno parte delle sue associazioni e di tutte le persone che, da bisognose, sono diventate autosufficienti, continuando però a collaborare, imparando e insegnando allo stesso tempo, è una vera ventata di speranza e la dimostrazione di ciò che da più parti si tenta di far passare per impossibile: con il minimo sforzo economico si possono debellare le situazioni di peggior gravità economica senza per questo rovinare l’equilibrio ambientale del pianeta.

Qual è stato il vostro percorso, quali le vostre esperienze? Abbiamo iniziato ad Aprilia nel 2004, costruendo il palcoscenico d’una scuola media, al quale hanno lavorato gli insegnanti, i ragazzi della media e quelli dell’università. Con giornali vecchi e scatole di cartone abbiamo creato gusci sottili a gravità e pannelli scorrevoli. Una cosa colorata, efficace e suggestiva.

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L’esperienza si è ripetuta in una scuola media calabrese. Con le scatole di tetrapak, sempre coinvolgendo tutti i partecipanti, abbiamo creato gusci reticolari, una sorta di stand per il mercatino di fine anno. Nel 2006 siamo andati per la prima volta in Argentina, in un quartiere particolarmente povero, dove abbiamo creato una struttura integra tesa, che doveva funzionare da ambiente comune per il rituale asado. Nel 2007, di nuovo in Argentina, in collaborazione con i ragazzi di due istituti tecnici, abbiamo realizzato una struttura reticolata auto-organizzata, molto sofisticata a livello concettuale, ma manualmente facile ed economica perché fatta di canne e viti, e figurativamente aggressiva. Contemporaneamente abbiamo tentato di collaborare con una Onlus in Sudafrica, per costruire una casa delle donne, con risultati molto discutibili; abbiamo anche collaborato con un istituto d’arte di Velletri, per ottenere una struttura tesa riciclando buste di plastica. Siamo appena tornati da una nuova avventura in Argentina, dove in un modo più organizzato siamo riusciti a collaborare con le università di Mendoza e Buenos Aires, nonché con

quella di Asunción in Paraguay, dove andremo nel 2009 per lavorare in un villaggio rurale. Nonostante abbiano vicino quei modelli culturali così diversi… In Sud America c’è un diverso rapporto con la storia. Hanno altri tipi di ricchezza culturale, per esempio il rapporto con una natura immensa. Le dimensioni fisiche, il rapporto solitudine/socialità, l’accoglienza, la multiculturalità: per loro tutto questo è la norma, sono abituati a interagire con culture diverse, non si spaventano di fronte a niente e anche quando non sono d’accordo, non si crea mai conflittualità. Questo rende il partner culturale, estremamente effervescente e si capisce come mai provengano da lì personaggi come Marquez, Neruda, Borges, scrittori e poeti che hanno una difficilissima collocazione culturale, un’impronta che non assomiglia a nessun’altra. È vero che ci sono molte realtà difficili, delinquenza, scontri tra gruppi armati e tra classi sociali, ma mi piace pensare che anche questo sia un terreno di coltura per esperienze utili a tutti.

A stretto contatto L’incontro e la traducibilità dell’altro all’interno del dibattito psicologico. Il confine tra identità personale e identità collettiva di Gessica Cuscunà

La compresenza, nella nostra società, di culture e linguaggi diversi ha dato l’avvio in ambito psicologico ad un articolato dibattito che ha indotto psicoterapeuti e psichiatri a confrontarsi, ancora una volta, sul tema dell’identità personale e collettiva. Questi professionisti si stanno interrogando in maniera critica sui cambiamenti cui la nostra società va incontro e sulle possibili ricadute che essi potrebbero avere sia sulla

“Possiamo davvero parlare di intercultura? Stiamo davvero scambiando e condividendo la cultura?” teoria della mente umana che sulla teoria della terapia. Il tema dell’intercultura pone quesiti di non facile soluzione e che interessano vari campi della conoscenza umana, inoltre risveglia fantasmi di un passato troppo vicino per essere stato degnamente elaborato. Possiamo davvero parlare di intercultura? Stiamo davvero scambiando e condividendo la cultura? E

quale? O forse è la multicultura il fenomeno di convivenza (forzata?) che oggi stiamo vivendo? Per dirla in un altro modo, siamo insieme agli altri, a fianco o a volte di traverso? Sergio Mellina, psichiatra e presidente della Società italiana di psichiatria multiculturale e delle migrazioni analizza il fenomeno della multiculturalità affermando che i grandi cambiamenti della psicologia e della psichiatria nel modello di pensiero occidentale hanno avuto come punto di partenza tre eventi fondamentali che ricorrono nella storia dell’umanità: le guerre, le occupazioni coloniali e le migrazioni. Eventi che sono strettamente correlati tra di loro, che producono delle conseguenze e creano nuovi disagi. Mi sembra evidente la differenza e la sua portata psicologica, tra l’essere costretti a emigrare e scegliere di emigrare. È indubbio, secondo lo psichiatra, che le guerre, il colonialismo e le conseguenti migrazioni ci hanno costretto a incontrare gli altri. Non c’è stata molta scelta e ciò ha costretto gli psicoterapeuti e gli psichiatri a ripensare i modelli della salute mentale, dell’eziologia e di conseguenza del trattamento che privilegia la parola.


Chiaramente gli psicologi non si sono posti un problema semantico, che compete ad altri professionisti, ma un problema di significato emotivo e simbolico. Quanti termini ho a disposizione per riferire un’emozione? Una sfumatura del sentire? Un pensiero? Come posso utilizzare le metafore? Questo rimane un problema complesso e ancora aperto. La nostra cultura psicologica è basata su strumenti quali l’ascolto e i codici, attraverso cui riempiamo di senso gli eventi che, a oggi, sono sotto la lente di ingrandimento degli esperti. Gli psicologi si rendono conto che le consuete modalità di capire l’altro e di comprenderne la sofferenza devono essere radicalmente rielaborate. E questa operazione non va fatta solo per coloro che in qualche modo sono considerati parte attiva di questo processo, coloro che per varie ragioni arrivano in un paese straniero, ma anche per coloro che vivendoci da sempre sono costretti a ridefinire le proprie percezioni e a “ri-mappare” il proprio mondo interno ed esterno. Eugenio Borgna nel suo libro Noi siamo un colloquio ci ricorda che, pur risiedendo dentro di noi la possibilità della locuzione e dell’ascolto e uno spazio privilegiato per addestrarsi all’incontro con l’altro, la domanda che bisogna farsi come terapeuti è chi sia l’altro e come cambiamo noi come persone e come società rispetto a questo altro. Tobie Nathan ha rilevato che l’incontro con l’altro è sempre traumatico in quanto si pone un problema di “traducibilità dell’altro”. Ossia bisogna cominciare a interrogarsi su chi sia l’altro. È evidente che questa operazione pone degli interrogativi non solo sull’identità dell’altro ma anche sulla propria identità. Secondo l’autore la nostra società non si può definire multiculturale per il solo fatto che vediamo un altro diverso da noi. Oltre a vedere è necessario entrare in contatto con l’altro. La differenza tra la percezione e la condivisione, a li-

“È la multicultura il fenomeno di convivenza (forzata?) che oggi stiamo vivendo? Per dirla in un altro modo siamo insieme agli altri, a fianco o a volte di traverso?” vello psicologico, è profonda. La parola contatto è formata da due termini, “con” e “tatto” che ci inducono a immaginare che esista una relazione tra il tatto inteso come organo di senso ed il contatto psicologico. In effetti ciò che caratterizza il tatto e il contatto psicologico è la necessità di entrare in relazione; il

semplice gesto del toccarsi o del toccare implica il bisogno di entrare in relazione con se stessi o con gli altri. Questo è ciò che ci permette di sviluppare l’autoconsapevolezza dell’essere nel mondo. Noi ci rendiamo conto di essere nel mondo e di esistere nel momento in cui entriamo in contatto con qualcosa o con qualcuno. Questa azione ci permette di sperimentare due modi diversi, ma strettamente correlati e interdipendenti, di essere nel mondo: contattare i propri limiti e prendere consapevolezza della propria libertà. La dimensione nuova con cui la nostra società sta facendo i conti è proprio questa: una nuova esperienza di consapevolezza di essere nel mondo, entrare in contatto e convivere con altri a noi sconosciuti e, in qualche modo, inconsueti. E se è vero che il senso dell’esistere nasce anche dall’entrare in contatto con l’altro si fa urgente sia la necessità di ridefinire la dimensione dell’alterità sia la necessità di ridefinire la dimensione della nostra stessa identità, personale e culturale. Su alcune di queste basi nasce e si sviluppa la psicologia transculturale, termine introdotto da Eric Wittkover nel 1957. Egli istituisce una sezione di ricerca all’interno del Dipartimento di Psichiatria della Mac Gilles University di Montreal con l’obiettivo di creare alleanze di carattere interdisciplinare per affrontare una questione che non è squisitamente psicologica così come non è esclusivo appannaggio degli economisti, degli storici o degli antropologi. Mellina evidenzia che nell’attuale panorama italiano, che va riscoprendo la necessità di incontrare l’altro, gravano due ipoteche. La prima è dettata dalla necessità di gettare le basi per un approccio psicosociologico di largo consenso. La seconda riguarda il fatto che l’Italia è un paese che sembra aver effettuato una grande rimozione collettiva del suo passato migratorio interno ed esterno e in qualche modo, a mio avviso, non ha effettuato l’elaborazione di un sentimento specifico ma non definito, che è la nostalgia. La nostalgia è quell’aspetto che accomuna i migranti di ogni Paese e di ogni generazione. Non è una generica

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mancanza di qualcosa o di qualcuno, ma è una ferita per quel senso di appartenenza che si è dovuto negare. Ciò è la conferma che lo studio della psichiatria e della psicologia non può prescindere, se mai l’avesse fatto, dalla dimensione sociale e culturale. Molte ricerche effettuate in ambito psicologico, secondo quanto riferisce Diego De Luca, hanno cercato di soffermarsi sulla complessità del processo migratorio analizzandone le premesse, osservandone le dinamiche e valutandone le conseguenze sugli stati emotivi e personali. Egli afferma che il rapporto complesso che intercorre tra un evento migratorio e un disagio psichico ha prodotto nel tempo opinioni discordanti in parte legate alla pretesa di trattare l’uno o l’altro ordine di accadimenti come una vera e propria categoria eziologia. I modelli che operano in questo ambito tendono a mutare con la stessa rapidità con cui l’immigrazione stessa si trasforma. Ed è per questo che ritengo che oggi più che mai si pone la necessità di percorrere non solo la strada dell’approfondimento del tema della salute mentale degli immigrati attraverso una riflessione su possibili approcci di cura e sostegno, ma anche una riflessione sul

contributo reale che la psicologia può dare affinché questa condivisione di culture sia auspicabile e possibile. Al momento quello che osserviamo nelle nostre città sono fenomeni di “autismo collettivo” (comunità che si ritrovano la domenica in determinate zone della nostra città) e non basta formare dei professionisti ad hoc con Corsi di Laurea specifici per avviare il processo di condivisione. Come al solito, sembra ancora ben lontana l’idea che è necessario mettere in discussione la propria identità e definire e forse accettare dei limiti. Ci conosciamo così bene? La nostra identità è solida? Siamo davvero pronti a confrontarci con tante culture diverse? Credo che ci voglia del tempo e una strategia seria che non può passare attraverso il solo atteggiamento accogliente dei servizi ad hoc che, in fretta e furia, sono stati creati. Bisogna cambiare la prospettiva. Lo psicologo si può fare portatore di alcuni strumenti utili a far acquisire una maggiore capacità autoriflessiva e conoscitiva dei propri comportamenti, dei propri valori, dei propri limiti e della propria identità al fine di innescare una positiva e reciproca apertura.

Frammenti di schegge Il puzzle delle identità latinoamericane di Rafael Gaune Corradi

Il miglior modo per approssimarsi ad una definizione, se può esistire, dell’America Latina è attraverso la parola frammenti. Questo articolo si propone infatti di essere una critica al concetto di identità dell’America Latina come unità e totalità perché ovviamente l’identità latinoamericana è molteplice, dinamica e riflette la pluralità delle sue anime. Il filosofo spagnolo, Eduardo Subirats, nel suo libro El continente vacío (1994) ha spiegato come l’Europa del Cinquecento abbia pensato all’America come ad una quarta parte “nuova” del mondo, senza storia e coscienza storica, suscettibile, dunque, di essere riempita con idee europee: linguaggio, cristianesimo, economia e politica, per ricomprenderla, in maniera subordinata e svuotata di tutta la sua storia, nell’orizzonte egemonico del sapere occidentale. Allo stesso modo lo storico e semiologo Tzvetan Todorov ha illustrato come i rapporti tra Europa e America si siano costruiti attraverso la nozione di altro. Perché ho citato questi due autori? Perchè dimostrano come l’America sia una successione di frammenti d’identità, un territorio con una memoria

storica dispersa dalla Conquista e che si interroga continuamente sulle proprie radici storiche. Un’identità di frammenti non è un fattore negativo, tutt’altro, è segno della mistura culturale e della sovrapposizione di strutture identitarie che definiscono il continente latinoamericano dal fiume Rio Bravo (Messico) fino alla Tierra del Fuego (Argentina-

“L’America è una successione di frammenti d’identità, un territorio con una memoria storica dispersa dalla Conquista, che si interroga continuamente sulle proprie radici storiche” Cile). Perciò il concetto più appropriato per riferirsi al fenomeno dell’identità americana non è «meticciato», bensì «processi di costruzione dell’ibrido multiculturale», dove il termine «ibrido» non impli-


ca un giudizio peggiorativo, ma rende conto della frammentarietà delle popolazioni indigene, africane, meticce e spagnole che hanno creato tutte le tessiture sociali e culturali americane fino oggi. A questo proposito, Serge Gruzinski in La pensée métisse, (1999) scrive che il continente americano è stato costruito con l`unione di schegge, creando frontiere multiculturali che si fondano sulle differenze. Nonostante ciò, il problema del multiculturalismo latinoamericano è il persistere di una domanda cronica, di un interrogativo permanente sull`identità, sull’essere latinoamericano. Il circolo vizioso dell`America Latina, come viene ritratto in modo esemplare in El laberinto de la soledad (1950) di Octavio Paz, consiste nel continuare a domandarsi se esiste un’identità propria, un essere proprio. E questo è un indizio della scarsa consapevolezza identitaria ovvero dell’insicurezza riguardo all’“io” e al “noi” che pervade le nostre frontiere. Quali sono i motivi che hanno fatto del tema dell’identità un’indagine cronica? Diversi fattori hanno contribuito. In primo luogo i processi di costruzione degli Stati-Nazione nell’Ottocento che non hanno rispettato né la diversità multiculturale né l’etnicità delle nazioni, creando un liberalismo politico-economico che ha escluso le pluralità. Una prova di ciò è il disprezzo ottocentesco verso le popolazioni indigene, principalmente in Argentina e in Cile. L’ansia di creare uno StatoNazione coeso geograficamente e culturalmente, portò i nuovi Stati all’eliminazione e all’esclusione degli elementi indigeni dal proprio territorio. Possiamo ritrovare questo elemento nelle parole dell’intellettuale cileno Benjamin Vicuña Mackenna il quale in un discorso al Congresso nazionale a Santiago del Cile pronunciò la frase «Delenda Arauco» (1868) volendo richiamare con queste parole la distruzione di Cartagine. E una seconda Cartagine di fatto cercò Vicuña Mackenna nelle terre dei mapuches al sud del Cile. Modelli come questo abbondano nella storia dell’America Latina, non solo nell’Ottocento, ma anche nel Novecento in nome di un nazionalismo dispotico e dominato dagli interessi economici. Pertanto la domanda cronica sull’identità diventa un problema perchè si è sempre tentato di cancellare gli altri-diversi e, di conseguenza, le manifestazioni eloquenti del multiculturalismo non sono state accettate, trasformandosi in un interrogativo ricorrente che, dall’arrivo di Colombo, costituisce la nostra impronta: chi siamo? Al contrario in epoca coloniale, tramite l’utilizzo del concetto di “sfere sociali” oppure “castas”, sostanzialmente si era riconosciuta la diversità multiculturale amalgamandola fra le diverse sfere socia-

Cuadro de Castas, anonimo della prima metà del Settecento, Messico

li e, sebbene la stratificazione fosse chiusa e in molti casi frutto di processi violenti, questo non significava che le “sfere” non avessero una profonda interazione socioculturale. Nel mondo dell’America coloniale ci sono stati diversi mediatori culturali (medium) tra le differenti “sfere” che si sono manifestati nell’ambito del linguaggio, nei fenotipi, nella forma di abitare, di essere e di pensare. Questo processo storico della formazione americana, estremamente violento con gli indigeni e con gli africani, si fondò attraverso l’ibrido multiculturale che, soprattutto le élites dell’Ottocento, hanno voluto cancellare con le armi, con i discorsi politici e con l’idea di una nazione “bianca” ed “omogenea”. Il multiculturalismo latinoamericano è un fenomeno che non si può negare né discutere. Di conseguenza, interrogarsi su un’identità univoca è un schema storiografico superato. Oggi dobbiamo riconoscere la pluralità e diversità dell’identità e trovare in che modo possiamo usare i saperi occidentali per il nostro benessere. Tralasciare le egemonie e le subordinazioni culturali, rispettando tutti i frammentischegge e creando rapporti fra i saperi dell’emisfero occidentale e il multiculturalismo.

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L’Europa è un bluff Incontro con Lucio Caracciolo, direttore di Limes di Indra Galbo

incontri

Lucio Caracciolo è considerato tra i più eminenti esperti di geopolitica in Europa. Dirige la rivista italiana di geopolitica Limes che ha fondato nel 1993 e la Eurasian Review of Geopolitics Heartland nata nel 2000. Ha lavorato per La Repubblica dal 1976 al 1983 come cronista politico e poi come capo della redazione politica. Dal 1986 al 1995 è stato caporedattore di MicroMega. È autore di editoriali e commenti per La Repubblica e per il settimanale L’Espresso. È stato docente di Geografia politica ed economica presso l’Università degli studi Roma Tre. Fra i suoi saggi più significativi: Alba di guerra fredda (1986), Terra incognita. Le radici geopolitiche della crisi italiana (2001), Lo sguardo dell’altro. La governance della globalizzazione (2001), Dialogo intorno all’Europa (con Enrico Letta, 2002).

Dato che questo numero è incentrato fondamentalmente sul tema del multiculturalismo ci terrei ad iniziare questa intervista con una domanda sull’assenza di una vera cultura multiculturale in Italia: quali sono secondo lei le cause di questo deficit di conoscenza dell’altro? E sono cause recenti o hanno radici storiche? Non esiste una cultura multiculturalista, esistono tante culture diverse tra loro o anche simili verso le quali si può mostrare interesse, paura… In Italia i sentimenti dominanti sono fondamentalmente quelli di indifferenza e intolleranza, ma non di razzismo. Certo, è vero che siamo un paese che ha avuto le leggi razziali, ma oggi il sentimento che prevale è ben diverso. Forse però questo deficit di apertura a diverse realtà potrebbe essere causato proprio da una globalizzazione sempre più economica e sempre meno culturale? Esiste sicuramente un gap tra interdipendenza economica e culturale che volendo si può ridurre rispetto alla situazione odierna, ma bisogna capire che l’aspetto economico prevale sempre sugli altri, anche su quello culturale. La paura verso lo straniero, verso l’altro può portare a un rallentamento del processo di integrazione europea e all’istituzione di leggi europee restrittive? Diciamo che l’integrazione europea non sta solo rallentando, ma sta facendo addirittura passi indietro per varie cause tra le quali ci sono gli eccessivi personalismi dei singoli paesi. Ci può essere la possibilità che vengano approvate leggi restrittive, ma non necessariamente causerebbero un rallentamento dell’integrazione. Il 30 maggio scorso, il Consiglio dei Ministri ha approvato all’unanimità il D.d.L. di ratifica del Trattato di Lisbona. Questo sicuramente porterebbe ad un’ulteriore perdita di sovranità nazio-

nale da parte dei paesi membri soprattutto in materia di politica economica e difesa: secondo lei esiste un rischio di una trasformazione da un’Europa storicamente ponte e culla di culture diverse in una decisamente “atlantica” che rischia di essere solo una gigantesca base aerea per le operazioni in Medio Oriente? Questo trattato oltre a contare meno di poco, non è nemmeno il riflesso di scelte geopolitiche strategiche. Diciamo che è un gioco al ribasso rispetto a quello che era il progetto di Costituzione europea, ma escluderei che possa togliere ulteriormente sovranità agli stati membri.

“L’Europa non è un soggetto democratico. Non esistono democrazie al di fuori degli stati nazionali. Diciamo piuttosto che è una tecnocrazia gestita fondamentalmente da funzionari” Un altro paradosso di questo Trattato risiede nel fatto che la sua possibilità di essere ratificato è dipesa fondamentalmente dal risultato del referendum in Irlanda: non pensa che ci sia una sorta di deficit democratico all’interno dei processi decisionali europei? Se le singole costituzioni dei paesi membri sono figlie di accordi, lotte anche sanguinose, guerre, prese di coscienza popolari, questi trattati (e la Costituzione che ne deriverà) non rischiano di essere figli di accordi poco condivisi? L’Europa non è un soggetto democratico. Non esistono democrazie al di fuori degli stati nazionali. Dicia-


mo piuttosto che è una tecnocrazia gestita fondamentalmente da funzionari, ma come vede non c’è nulla di democratico in questo. Insomma, come titolava un numero di Limes nel 2006, l’Europa si conferma un bluff? Certo l’Europa è un bluff. Per quanto riguarda la situazione nel Mediterraneo per i prossimi anni, vede un aumento delle differenze tra nord e sud Europa o diversamente una maggiore omogeneità tra paesi? Dentro quella che chiamiamo Europa in realtà esistono molte “Europe”: le differenze tra la parte nordico-

caucasica e quella mediterranea sono sempre esistite ma, in futuro potrebbero sicuramente diventare più visibili. Ultimamente sembra essere scemato il dibattito sull’ingresso della Turchia in Europa: può essere considerata una sorta di rinuncia oppure si continua a lavorare per questo? I turchi hanno capito che gli europei hanno poco da condividere con loro e per questo hanno rinunciato a chiedere l’ingresso nell’Unione, ma a parte questo continuano ad avere importanti rapporti commerciali con molti dei paesi membri.

La poetica del meticciato Intervista ad Agostino Ferrente, regista de L’Orchestra di Piazza Vittorio a cura di Alessandra Ciarletti

Agostino Ferrente, regista, produttore, direttore artistico. Nato il 28 ottobre 1971 a Cerignola (Fg), “reduce” da Ipotesi Cinema (il gruppo diretto da Ermanno Olmi), prima di occuparsi di cinema è stato coordinatore editoriale di varie testate radio-televisive per le comunità di italiani all’estero. Aiuto regista di Silvano Agosti e collaboratore di Nico Cirasola, ottiene riconoscimenti in festival internazionali con i corti Poco più della metà di zero (1993) e Opinioni di un pirla (1994). Dirige con Giovanni Piperno e produce con la sua Pirata Manifatture Cinematografiche, due documentari pluripremiati: Intervista a mia madre (Rai Tre- Teatri Uniti 1999) e Il film di Mario (1999-2001). Nel 2001, insieme a una decina di complici, fonda a Roma il gruppo Apollo 11 che salva lo storico cinema-teatro Apollo dal rischio di diventare una sala bingo e ne fa uno dei centri di produzione culturale più vivaci della capitale, con rassegne di cinema, musica e scrittura. Con Apollo 11, insieme a Mario Tronco degli Avion Travel crea l’Orchestra di Piazza Vittorio ensemble, composta da una ventina di musicisti provenienti da altrettanti paesi del mondo. Da un paio d’anni è membro dell’Accademia del Cinema Italiano. Mi racconta la sua esperienza all’Apollo 11? Vengo dal DAMS di Bologna e passavo il mio tempo al cinema Lumière a guardare film clandestini che non venivano distribuiti in Italia e che sono la storia del cinema. Arrivato a Roma rimasi sconvolto scoprendo che la capitale del cinema non aveva nulla di simile, c’erano dei cine-club, penso a quello mitico di Silvano Agosti, l’Azzurro Scipioni, dove lui con estrema fatica portava avanti una programmazione spesso boicottata, una saletta autogestita, piccola. Non c’era una sala con una capienza di almeno duecento posti, dove poter realizzare eventi e presentazioni. Insomma a Roma non c’era un cinema che potesse ospitare un grande evento. Solo più tardi sono arrivati il cinema Trevi, la Casa del cinema, l’Auditorium… ma nel 2001 tutto questo non c’era ancora e anche oggi che c’è non basta…

Iniziai così a cercare tra le tante salette che nel corso del tempo erano state declassate a cinema a luci rosse; poi, trasferitomi a Piazza Vittorio, scoprii che uno di questi cinema che stava chiudendo era proprio l’Apollo (che nel frattempo era stato ribattezzato “Pussycat”…), peraltro unico cinema di Roma in stile liberty, nonché unica sala sopravvissuta in un Rione pieno di cinefili. Stava chiudendo come cinema per diventare una sala bingo. Così, con l’aiuto di altri pazzi come me, artisti, scrittori, registi, musicisti e di quanti amavano un quartiere speciale come l’Esquilino, costituimmo un comitato e facemmo una sorta di cordata per salvare il cinema. Nasce così l’associazione Apollo 11. Tra le prime persone che coinvolsi c’era Dina Capozio, presidente di un comitato di quartiere. Ero molto combattivo e attento alle esigenze sociali e culturali del quartiere, perché ero convin-

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to che l’Esquilino avesse delle grandi potenzialità inespresse legate alla multicultura, spesso affossate dai giornali e dall’opinione pubblica dalle tematiche legate al “problema” immigrazione. Per intenderci se si pensava agli immigrati il discorso ricadeva (come in parte ancora ricade) sui negozi all’ingrosso gestiti dalla comunità cinese, che nel tempo hanno trasformato la fisionomia del quartiere, creando molti disagi oggettivi. La maggior parte di questi negozi infatti sono nati grazie alle infiltrazioni della camorra in accordo con spregiudicati imprenditori cinesi, lasciando spesso il pretesto ad associazioni razziste di dire che gli immigrati hanno fatto chiudere le attività precedenti. In realtà non si tratta di immigrati toutcour, ma di criminali e la criminalità è trasversale alle nazionalità… In Italia c’è molto spesso l’abitudine, soprattutto a fini elettorali, di strumentalizzare mediaticamente qualsiasi disagio attribuendolo alla presenza degli immigrati; d’altro canto per anni la sinistra si è bloccata di fronte a certi tabù, per cui se qualcuno diceva: guardate che dietro i negozi cinesi c’è la camorra, immediatamente diventava razzista. Poi hanno scritto Gomorra e ora tutti sanno tutto, ma è tardi, il danno è stato fatto. Cos’è oggi il quartiere Esquilino, come vivono italiani e stranieri? Ci sono luci e ombre. Le luci ci sono la mattina, quando il quartiere è vivace e pieno di colori e di volti che ti fanno capire che il mondo lo hai a casa tua; potenzialmente potrebbe essere uno dei più bei quartieri di Roma e invece la sera si trasforma in uno scorcio di una delle città invisibili di De Chirico. Una volta chiusi i negozi non c’è più movimento, tutto vuoto, non ci sono luoghi di aggregazione. Per questo mi sento di dire che l’Apollo 11 ha risposto a un grosso bisogno fisiologico del quartiere. A pensare che questo quartiere è stato il fiore all’occhiello della città, il salotto umbertino, si prova un profondo sgomento percorrendo la sera le sue vie vuote. Negli anni Novanta nel quartiere si sono riversati molti commercianti immigrati o semplicemente immigrati in cerca di lavoro. La popolazione locale ha perlopiù venduto le attività e affittato le case ai nuovi arrivati. Subito dopo si è verificata una flessione per gli immobili di questa zona e quindi sono arrivati gli artisti. E come spesso accade, in Italia e all’estero, in breve il quartiere si è riqualificato, è diventato di moda. Ma la sua vita culturale stenta a decollare. Non ci sono episodi di microcriminalità, come in altre zone multietniche di Roma, per il semplice fatto che qui manca l’indotto. La situazione dell’Esquilino da un certo punto di vista e facendo i doverosi distinguo è caratterizzata semmai dalla macrocriminalità che sfrutta soprattutto gli immigrati disagiati.

Come avviene l’integrazione fra cittadini italiani e stranieri? L’integrazione avviene molto più velocemente di come ce la raccontano i sociologi. Nel mio palazzo convivono in armonia culture diverse, senza tensioni… Solo durante le riunioni di condominio c’è qualche problema di lingua, ma alla fine ci capiamo. Ho la sensazione che nel nostro paese ci sia la tendenza a spettacolarizzare i problemi che poi nella realtà quotidiana si risolvono da soli. Qualche decennio fa l’integrazione avveniva tra pugliesi, calabresi, piemontesi, lombardi e, allora come oggi, il primo ostacolo era la lingua, prima che la televisione costruisse una koinè che mettesse tutti in contatto. Il problema è l’uso politico delle cose che succedono: c’è sempre una strumentalizzazione da una parte e dall’altra. Roma non è né una città fatta solo di “grandi eventi”, né una città pericolosa. Eppure entrambe le visioni si sono propagate nell’immaginario collettivo, durante l’ultima campagna elettorale per l’elezione del nuovo sindaco, creando indubbiamente aspettative e tensioni. Le amministrazioni anziché farsi la guerra mediatica e aspettare che le cose vadano male, dovrebbero incentivare lo sviluppo di qualsiasi iniziativa finalizzata alla condivisione sociale, in grado di creare una rete tra gli individui, di mettere in contatto e far dialogare culture diverse. Tutto questo non può limitarsi solo a determinati momenti della vita, mi riferisco a una certa convegnistica più o meno politicizzata dove si spreca la retorica multiculturalista, ma dovrebbe accadere nelle strade, fra la gente. Non bisogna dimenticare mai la dimensione fisica dell’essere umano e quindi lavorare per favorire situazioni che facilitino l’incontro, il dialogo e poi in secondo luogo supportare l’inserimento nel tessuto economico. Questa è l’integrazione secondo me e mi sembra ben lontana da quella assistenzialistica tanto sostenuta da una certa sinistra e lontanissima dalle speculazioni della destra. Il manifesto contro il razzismo non mi fa cambiare idea se io sono razzista e se io non sono razzista allora i soldi impegnati per realizzare quel manifesto sono assolutamente sprecati. Le istituzioni dovrebbero finanziare iniziative e associazioni che lavorano nella direzione dell’integrazione, e non mi riferisco soltanto all’Orchestra di Piazza Vittorio. A loro volta i media sfruttano solo gli aspetti sensazionalistici del fenomeno immigrazione, quelli per lo più legati all’emergenza. I media di destra per soffiare sul fuoco della paura, quelli di sinistra per “dare solidarietà”, entrambi però danno un’immagine parziale. Per esempio il mio film che racconta una vicenda esemplare e positiva la rai, che è il servizio pubblico televisivo finanziato con i soldi dei cittadini, non lo vuole mandare in onda… In ogni caso il progetto dell’Orchestra di Piazza Vit-


torio è apparentemente un progetto dalle forti implicazioni politiche, culturali e sociali. Ma chi ha contribuito alla realizzazione del progetto e chi ha visto il film sa benissimo che l’aspetto politico è consequenziale. Mettere insieme musicisti di culture diverse che suonano strumenti diversi con repertori diversi non è stato il nostro fine ma il nostro mezzo. Se si organizza una mostra dei quadri realizzati dai detenuti di Rebibbia, si realizza un evento socialmente utile, il cui valore artistico è secondario. Nessun critico verrà a giudicare il risultato artistico perché ciò che conta è la dimensione simbolica dell’azione che ha una valenza di riscatto sociale. Ebbene l’Orchestra è qualcosa di diverso. Stando alle critiche ricevute, il risultato artistico è tale che puoi ascoltare un suo CD in macchina e apprezzarlo, senza necessariamente sapere che è il risultato di una miscellanea culturale, perché la qualità degli artisti è tale da non far sorgere neppure la domanda sulla loro nazionalità. Ovviamente il progetto ha anche un evidente messaggio politico perché il suo buon risultato è stato raggiunto mettendo insieme in maniera virtuosa diverse culture. E questo con la musica è più facile perché ovviamente per suonare insieme non è necessario parlare la stessa lingua. A parità di impegno è più difficile ottenere gli stessi risultati in altri ambiti, me ne rendo conto, ma difficile non vuol dire impossibile. Bisogna avere chiaro l’obiettivo. Quando abbiamo iniziato a lavorare al progetto avremmo potuto limitarci a fare un’operazione di aggregazione sociale tra musicisti di diversa nazionalità, insomma un progetto “buonista” e politicamente corretto; invece Mario Tronco, il direttore dell’Orchestra, ha selezionato solo i musicisti più bravi, alcuni dei quali, nell’ambito della comunità di immigrati, per ragioni diverse, erano costretti a fare altri lavori. Grazie al suo intuito, alla sua indiscussa genialità, alla sua vocazione all’orchestrazione (peraltro maturata in vent’anni di esperienza con la Piccola Orchestra Avion Travel) è riuscito a mettere ordine al disordine e a creare una sorta di torre di Babele al contrario, dove tutti magicamente si capiscono. In sostanza ci siamo interessati solo della qualità artistica, non dando alcuna importanza al colore della pelle, alla provenienza, alla religione, alla fede politica e in questo modo “l’integrazione” è venuta di conseguenza, perché si è crea-

to un gruppo di musicisti professionisti che quotidianamente lavora insieme, fa concerti e incide dischi. E questo è il risultato di quel processo che, partendo da punti diversi e distanti, trova elementi di comunione che vanno ben al di là delle differenze, incontrandosi su un piano in cui le stesse sono accolte come risorse e non come discriminanti, ovvero come elemento distintivo di ciascun individuo. Ad esempio una bella differenza che abbiamo scoperto è che la dimensione musicale in molti immigrati è molto più radicata che in noi; per la nostra cultura, infatti, la musica non appartiene a tutti nella stessa misura, è un qualcosa di chiaro solo per alcuni, per i più è un prodotto commerciale. C’è chi la compone e chi la ascolta, ma in maniera spesso casuale. In molti di loro ho invece scoperto una naturale necessità espressiva sistematicamente nutrita. In Oriente o in Sud America se un bambino nasce in una famiglia di musicisti, sicuramente farà il musicista; la musica per loro va oltre il lavoro, è la vita. Forse qualcosa di simile è rintracciabile nella cultura contadina, dove il canto e la musica erano vissuti non solo come strumenti conviviali, ma soprattutto come espressione di vitalità. Comunque il risultato del progetto è stato un fantastico meticciato, una categoria che per qualcuno è un’offesa mentre per me è una vera e propria poetica. Ciò è stato possibile proprio perché si è voluto prendere il meglio di ciascuna cultura, intersecandola con le altre. Il risultato è stato apprezzato in molte parti del mondo, ma la cosa che mi inorgoglisce di più è che lo abbiamo raggiunto con le nostre forze, senza aiuti politico/istituzionali, anzi in alcuni casi hanno tentato di strumentalizzarlo a scopo elettorale millantando meriti inesistenti…

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«È la stampa, bellezza!» Milena Gabanelli e la dura professione del reporter idealista di Federica Martellini

Piacentina di nascita e bolognese di adozione, Milena Gabanelli si è laureata al DAMS con una tesi in Storia del cinema. Nel 1982 comincia a collaborare come freelance con la RAI lavorando in programmi di attualità e realizzando reportage per la testata Mixer. Per Mixer è anche inviata di guerra in ex Jugoslavia, Cambogia, Vietnam, Birmania, Sudafrica, Territori Occupati, Nagorno Kharabah, Mozambico, Somalia e Cecenia. Nel 1994 Giovanni Minoli le propone di occuparsi di un programma sperimentale, dedicato a giovani giornalisti freelance che lavorano con la propria telecamera e aspirano a un giornalismo d’inchiesta impegnato. Nasce così Professione Reporter un programma di rottura con gli schemi e i metodi tradizionali che diventa una vera e propria scuola. Dal 1997 è autrice e conduttrice di Report, una testata che negli anni si è affermata come simbolo di informazione indipendente. Dicono di lei che sia la Robin Hood della televisione italiana. Nel corso degli ultimi anni Milena Gabanelli si è guadagnata sul campo, a forza di querele (sempre vinte) e anche di qualche polemica con qualcuno dei suoi collaboratori, la fama di paladina delle cause impossibili e la stima di un pubblico che vede nel suo asciutto stile di conduzione e nelle documentatissime inchieste di Report un paradigma di indipendenza, di impegno civile e di rigore cronistico e investigativo. In dieci anni di inchieste il gruppo di Report ha precorso i tempi parlando, sin dagli anni Novanta, di rifiuti e dei rischi degli OGM. Le loro inchieste hanno affrontato questioni che riguardano la quotidianità di tutti noi: dal cibo che mangiamo, ai farmaci che ci vengono prescritti dal medico. Ci hanno insegnato parole difficili: glutammato, coltan, lavorando su temi inconsueti e mostrandocene i risvolti inquietanti. Hanno trattato temi come l’inefficienza dell’Onu, gli stipendi dei politici, le speculazioni finanziarie, lo scandalo dello spionaggio Telecom, il terrorismo internazionale. Signora Gabanelli si potrebbe dire che, attraverso l’archivio di Report, si può tracciare un panorama articolato (e spesso sinistro) degli ultimi dieci anni. Come scegliete le tematiche da affrontare? Avete mai rinunciato a parlare di qualcosa per motivi di opportunità? «Gli argomenti vengono scelti in base alle nostre curiosità: quello che noi non riusciamo a capire ci pare degno di interesse, se non altro perché così soddisfiamo un nostro bisogno e quindi siamo molto motivati. Quando abbiamo rinunciato è perché non si riusciva a mettere insieme materiale sufficiente». Lo scorso marzo Milena Gabanelli ha ricevuto l’ennesimo riconoscimento al suo lavoro, le è stato consegnato

il premio “È giornalismo” 2008, istituito 13 anni fa da Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri. Nella motivazione si legge che «con grinta, determinazione e coraggio ha sempre cercato di scavare fra misteri e malaffare alla ricerca di una informazione vera anche se spesso scomoda» e che «Report è diventato un esempio positivo per i giovani». Giorgio Bocca ha chiosato dicendo: «È l’ultima giornalista che fa inchieste vere, in un momento in cui su tutti i giornali sono state abbandonate. E addirittura stupisce che le possa fare». Non si tratta certo del primo riconoscimento che riceve ma questo, per le grandi firme del giornalismo italiano che vi sono dietro, suona un po’ come un’investitura, un passaggio del testimone. Sembrerebbe una bella responsabilità. Che effetto le fa? «Siccome il premio è consistente, in tutti i sensi, al di là di ogni retorica, da molta soddisfazione, perché l’ho in parte speso in una bella cena offerta a tutti coloro che lavorano per, e attorno al programma». A proposito di passaggio del testimone, signora Gabanelli, e volgendo lo sguardo a qualche decennio fa: intellettuali come Sciascia, Calvino, Pasolini avevano un ruolo anche di denuncia dei guasti e delle storture della realtà politica e sociale del proprio tempo che interpretavano e commentavano alimentando il dibattito pubblico. Oggi si ha l’impressione che gli intellettuali siano da questo punto di vista latitanti o comunque molto più conformisti di allora e così a farsi protagonista del dibattito pubblico è una variegata schiera di personaggi. Laddove Pasolini scriveva «Io so» oggi Grillo organizza i V-day. Al di là di ogni giudizio di valo-


re è un bel salto di qualità che forse la dice lunga su molti aspetti dell’orizzonte sociale e culturale entro cui ci muoviamo. Cosa ne pensa? «Penso che laddove Pasolini scriveva “io so”, oggi c’è Saviano che scrive “io vi faccio i nomi”. Diciamo che gli intellettuali di quel calibro, più che conformisti o latitanti, oggi non esistono. Però non si può dire che il dibattito latiti, basta guardare la mole di libri molto critici sulla gestione politica ed economica del paese. Libri che promuovono un continuo dibattito e tra l’altro vendono molto (quindi qualcuno li legge anche). Grillo è un altro fenomeno, e non andrebbe confuso». I re di Roma di Paolo Mondani è l’inchiesta che avete mandato in onda la scorsa primavera sul nuovo piano regolatore di Roma. In seguito alla trasmissione il forum di Report è stato sommerso da messaggi di cittadini indignati per la cattiva gestione della politica urbanistica che avete denunciato. Associazioni come Italia Nostra vi hanno ringraziato per il vostro lavoro. Qualcuno ha fatto notare che portare ad esempio l’amministratore parigino che tesse le lodi delle periferie francesi quando le cronache degli ultimi anni parlano di una realtà ben diversa è un po’ troppo. Roberto Morassut, ex assessore all’urbanistica del Comune di Roma, vi ha querelato. Questo giornale ha ospitato nel precedente numero un’intervista proprio a Morassut. In quell’occasione avevo chiesto all’assessore quanto può essere cruciale la ricaduta delle politiche urbanistiche di una città su temi quali l’abitabilità, l’inquinamento, l’inclusione e l’esclusione. A lei vorrei rivolgere la stessa domanda e aggiungo: quanto è cruciale il ruolo di un’informazione vigile su questi temi? «È bene precisare che l’amministratore parigino parla del piano urbanistico della città di Parigi e della relativa gestione, non si è mai riferito alla gestione urbanistica dei comuni della periferia parigina di cui hanno parlato le cronache. Ne ho fatto riferimento io in un passaggio di studio, sottolineando che una cattiva pianificazione potrebbe portare anche in Italia simili esplosione di violenza. Quindi chi ha fatto questo rilievo, o era in malafede, o non ha seguito bene ciò che veniva detto. Un’informazione vigile è indispensabile perché permette al citta-

dino di “sapere”, e quindi di controllare e partecipare in modo trasparente all’organizzazione del territorio dal quale dipenderà la qualità, o meno, della sua vita». Lei ha in qualche modo inventato il metodo del videogiornalismo ovvero del giornalista che si fa anche operatore e che si muove da solo. L’antenato di Report è Professione reporter, un programma sperimentale nel quale lei dava spazio a giovani freelance. Sperimentare è ancora possibile? Che spazio di libertà c’è per le nuove leve nell’attuale sistema di informazione? «Lo spazio di per sé non esiste mai, occorre che qualcuno lo crei. E questo è sempre possibile, basta crederci ed avere competenza. Il problema è che chi ha il potere di decidere come occupare uno spazio, è generalmente incompetente». In Italia l’atteggiamento dei mezzi di informazione su temi quali il multiculturalismo o l’immigrazione, appare spesso schizofrenico. Da un lato c’è chi costruisce i notiziari cavalcando gli istinti più viscerali e le situazioni più esasperate, dall’altro si ergono i paladini dell’accoglienza ad ogni costo. Ci sono temi che è più difficile trattare senza cadere (e scadere) nei meccanismi di opposte retoriche? Senza etichettare ed essere etichettati? «Certamente si. Un esempio su tutti: il conflitto israeliano-palestinese. Comunque ne parli, sarai sempre, da una delle due parti, tacciato di essere filoarabo o ebreo. Lo stesso vale quando tocchi argomenti che investono la sfera religiosa, etica e morale, come la legge 40». Lei è bolognese di adozione. Da qualche tempo a questa parte Bologna è al centro dell’attenzione delle cronache nazionali per tematiche anche legate all’immigrazione e alla convivenza fra culture differenti, non ultimo il caso della moschea. Come è cambiata Bologna e perché? È falsata l’immagine che ne restituiscono i media? «Credo che siano cambiate tutte le città italiane negli ultimi 20 anni, e quindi anche Bologna. C’è più immigrazione, c’è più violenza, c’è meno sicurezza. Questi purtroppo sono dati di fatto. Tuttavia rispetto ad altre città italiane i conflitti sono più attenuati perché c’è una politica sociale che complessivamente funziona meglio».

Il molteplice nel Conte di Cagliostro Intervista a Sergio Campailla, docente di Letteratura italiana, sul suo ultimo romanzo La divina truffa di Camilla Spinelli Quando si parla del XVIII secolo si ha la sensazione di entrare in un momento storico unico, dove scoperte ed invenzioni, nuovi rapporti tra gli individui, tra

popolo e potenti, danno il via ad una nuova visione del mondo. È anche il secolo dello studio sull’uomo durante il quale si arriva ad una consapevolezza cul-

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turale che fino a poco tempo prima sembrava irraggiungibile. È in questa temperie che visse il Conte di Cagliostro, celeberrima figura in contrasto con le forti idee del proprio tempo perché fu uno dei primi a proporre il Sergio Campailla mondo dell’occulto. Ci fu chi lo amò e chi, invece, cercò di fare di tutto per cancellarne la presenza sulla terra: la sua contraddittoria biografia è tutt’oggi oggetto di controversie. Prof. Campailla cosa l’ha spinta a scegliere la figura di Cagliostro per il suo ultimo romanzo? Non è facile rispondere a questa domanda perché non so se sono stato io a scegliere Cagliostro o se è stato lui a tirarmi nella sua tela. Personalmente mi considero uno scrittore vocazionale e non di consumo, per questo avevo intenzione di scrivere qualcosa che fosse importante per me, che potesse significare una mia personale evoluzione. Quindi sono stato in cerca di una chiave di volta, che poi ho trovato nella figura inquietante e molteplice di Cagliostro. Il mio scopo è stato quello di togliere la maschera a questo personaggio molto controverso. In più, come scrittore rivolgo il mio sguardo sempre alla Sicilia e tutti i miei libri partono da lì. Cagliostro consentiva così di proporre un caso clamoroso di distacco dall’Italia e dalla Sicilia appunto, e di viaggio verso paesi anche molto lontani. La sua è un’avventura entusiasmante se si pensa che è stato anche in Curlandia, cioè l’attuale Lettonia. In realtà è una figura assolutamente europea. In effetti leggendo le pagine del suo libro, sembra quasi che lei utilizzi Cagliostro per raccontare un’intera epoca, con tutti i suoi personaggi e le sue vicende. Mi sbaglio? Ha perfettamente ragione: l’intento era proprio questo. Non volevo limitarmi a scrivere una biografia parziale o tantomeno eccentrica sul personaggio, bensì attraverso lui rappresentare la sceneggiatura di un’epoca, il XVIII secolo, piena di contraddizioni laceranti e fertili che arrivano fino a noi e sono tali in Italia ma anche nel cuore dell’Europa, parlo della Francia e soprattutto di Parigi. In realtà è un affresco del tempo, di masse, di sentimenti, di illusioni. Cagliostro è un uomo che viene da lontano, che ha un

prestigio indiscusso e mondiale sia a livello basso, sia a livello alto, infatti principi e cardinali dell’epoca pendono dalle sue labbra. Per me è stato il mezzo per una rappresentazione dello spirito della folla di allora. Come le è venuto in mente di scrivere un romanzo “all’indietro”, partendo cioè dalla fine della vita di Caglisotro? In verità questa è stata la scelta più spericolata perché credo che sia un unicum assoluto in narrativa. Una cosa è narrare dall’inizio una sequenza organizzata, più intrigante invece è la ricerca, lo scavo di tutti quei particolari imprevedibili che creano un personaggio. Allora mi sembrava che bisognasse affrontare questa tematica da un punto di partenza apparente, quando cioè Cagliostro è rinchiuso nella Fortezza di S. Leo per scontare quei reati di opinione, perché altro non sono, a causa dei quali ha fatto una fine orribile. Da qui in poi si torna indietro, ma devo dire che sul piano narrativo è stato estremamente impegnativo. Quando poi la cosa ha funzionato, mi è sembrato di trovare una via d’uscita enorme anche perché un romanzo di quasi 600 pagine ha inevitabilmente dei problemi strutturali e di tenuta. Perché secondo lei molti autori oggi raccontano di vicende in cui la Chiesa ricopre il ruolo di antagonista e soprattutto perché molti libri vengono apprezzati dai lettori proprio per questo loro carattere esoterico? Sono convinto che Chiesa ed esoterismo non siano assolutamente in contrasto fra loro, proprio perché moltissime sette nascono in questo ambiente. Indubbiamente c’è una tendenza del nostro tempo a confrontarsi con questa tematica che può essere affrontata in maniera più o meno superficiale. È chiaro che la Chiesa come universo di misteri è molto attraente, e nel mio libro c’è un’impalcatura storica in cui essa ha delle responsabilità molto forti che deve accettare. Caglisotro infatti, viene accusato di eresia ed è fatto marcire in una cella di quattro metri per cinque. Il libro però va più a fondo, non è solo una denuncia. Nella lettura, si può ricavare il senso dei conflitti e delle imposizioni di codice e dogmi di allora. I libri best seller del nostro tempo parlano di maghi e di magia: Dan Brown, la saga di Herry Potter, L’Alchimista di Coelho. Proprio qui in Italia avevamo in casa un mago strepitoso, che però viene rimosso dalla memoria comune. Celeberrimo allora, oggi completamente dimenticato, Caglisotro diventa una specie di pseudonimo del farabutto. Scopriamo così di avere un romanzo sulla magia e sull’esoterismo proprio dentro la nostra tradizione culturale. Il suo romanzo però presenta anche un filone femminile… Esattamente. In definitiva questa opera racconta anche di una grande storia d’amore tra il Conte e Serafina,


Un romanzo che contiene molti romanzi, con una struttura originale sulle coordinate di spazio e di tempo: infatti, da una parte ogni capitolo acquisisce nuovi scenari, in un panorama internazionale; dall’altra, con una tecnica narrativa senza precedenti, il racconto scorre all’indietro. Il risultato è quello di un lunghissimo suspense e insieme di una rivelazione progressiva. Il lettore è chiamato non a scoprire il bandolo di una singola, e sia pure colossale, truffa, ma piuttosto a ripercorrere con sorpresa, attraverso una sequenza di segreti e di violazione di segreti, le tappe di un viaggio iniziatico, che alla fine si verticalizza estremo. Al centro di questo network di avvenimenti è la figura di Alessandro conte di Cagliostro, mago, medico, alchimista, profeta, e capo della massoneria del XVIII secolo, uno degli italiani in assoluto più celebri nel suo tempo, tanto da suscitare la curiosità morbosa di Goethe, gli strali della zarina Caterina II, l’ispirazione di Mozart. Ma autentica protagonista è la tumultuosa società che fa da sfondo, in anni decisivi della storia italiana ed europea, che hanno visto il crollo dell’Ancien Regime e creato le condizioni della modernità. (dalla quarta di copertina).

sua moglie. Una storia d’amore paradossale e difficilmente comprensibile. Ma Cagliostro intuiva anche l’importanza di tutto il pubblico femminile del tempo e per questo fu il primo a fondare delle logge femminili in Europa. Si trattava di donne escluse dalla politica e annoiate dalla vita, ma che finalmente si trovano in gioco diventando protagoniste della società. Una domanda tecnica: quanto tempo le è servito per documentarsi sui personaggi e gli eventi del tempo? Il percorso non è quantificabile perché per scrivere un romanzo del genere occorre, fra l’altro, una vasta fonte di esperienza. Sul piano della scrittura invece ho lavorato con tanta intensità ma quella è solo la finale del lavoro. Ci sono centinaia di personaggi che potrebbero assurgere al ruolo di protagonista del libro e molti leggendolo ci hanno visto un film. È come una polifonia dove tutto è legato e si tiene in piedi proprio per questa unità di eventi. Alla fine il lavoro è stato molto stimolante ma nello stesso tempo ha necessitato di molta concentrazione

e di una mente attenta. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, ho dovuto confrontarmi con un grande problema, cioè da che punto di vista raccontarlo. Questo avrebbe determinato tutto l’impianto della narrazione. Il problema della posizione dello scrittore era molto delicato. Mi sono così messo nella condizione di cercare di capire sia Cagliostro che gli altri, in una posizione quasi registica. Per concludere, che idea si è fatto di Cagliostro? Era davvero un farabutto o esisteva qualcosa di vero in ciò che diceva e faceva? Sinceramente non mi ridurrei a fare una scelta. Penso però che sono i grandi peccatori coloro che poi diventano grandi santi e soprattutto chi fa esperienze straordinarie nella vita, riesce alla fine a raccogliere qualcosa che è precluso invece agli altri. In questo libro, mi limito a raccontare in qualche modo un viaggio di iniziazione dall’interno, un viaggio spirituale; perché entrare così tanto nella materia secondo me è l’unico modo per arrivare allo spirito.

Quando la sociologia fa i conti con la storia Intervista allo studioso statunitense Jack Nusan Porter di Lia Luchetti Sempre più spesso oggi, anche in contesti accademici, si abusa del termine “genocidio”, forse allo scopo di catturare l’attenzione. Non si corre così il rischio di banalizzare il concetto o di provocare,

al contrario, la reazione opposta e cioè che l’Olocausto venga considerato il solo genocidio? L’Olocausto è unico, come lei ha scritto spesso, ma non è certamente il solo genocidio. Quanto sono im-

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Jack Nusan Porter è nato a Rovno, in Ucraina. Figlio di Faye e Irving Porter, partigiani durante la seconda guerra mondiale, giunse negli Stati Uniti all’età di un anno, nel 1946. Porter è considerato uno dei pionieri nel campo degli studi sociologici sul tema dei genocidi e dell’Olocausto in particolare, sulla persecuzione degli omosessuali e sui movimenti di resistenza ebraici durante la seconda guerra mondiale. È stato docente di sociologia in diverse università statunitensi fra cui Boston University, Northwestern University, Boston College, Emerson College, University of Massachusetts Lowell. Nel 1976 ha fondato The Journal of the History of Sociology di cui è stato anche il primo direttore. Nel 1982 ha curato la prima antologia comparativa sui genocidi, Genocide and Human Rights: a global antology (University Press of America). Nel 1997 è stato nominato vicepresidente dell’Associazione internazionale di studiosi di genocidi. È autore e curatore di decine di libri e saggi. Fra i più noti: Jewish partisans: a documentary of Jewish resistance in the Soviet Union during World War II (University Press of America, 1982); The genocidal mind: sociological and sexual perspectives (University Press of America, 2006); Is sociology dead? Social theory and social praxis in a post-modern age (University Press of America, 2008). Oggi Jack Nusan Porter è uno studioso indipendente.

portanti, nella definizione di una simile categoria, le parole che si utilizzano? Potrebbe darci la sua opinione in merito? Sì, il termine nel tempo è stato usato dai neri, dagli arabi, dai russi, dagli ebrei. Uno dei problemi che avevamo in passato era questa nostra preoccupazione per le definizioni: si aveva la tendenza ad essere puristi. Adesso la definizione è stata ampliata e quindi si parla di genocidio culturale, di crimini contro l’umanità, di “genericidio” (gendercide), di genocidio sessuale, di genocidio per tendenze sessuali. Dunque il campo è diventato molto più interessante ed importante adesso di quanto lo era in passato, perché abbiamo discusso molto su cosa sia o non sia genocidio. Nel mio libro parlo delle differenze tra i difensori della teoria dell’Olocausto come unico genocidio e coloro che invece sostengono un’accezione più ampia di questa categoria: i primi sono principalmente ebrei, naturalmente, e sostengono che l’Olocausto sia l’unico e autentico genocidio. Ma a mio avviso ciò non è vero. Anche uno studioso come Steven Kaatz, che ha difeso questa teoria, ora ha cambiato opinione. Aveva scritto molti libri difendendo l’idea che l’Olocausto fosse stato l’unico genocidio, ma a metà del suo secondo libro ha cambiato idea. Lo so, è pazzesco, ma adesso lui considera anche la questione armena come genocidio. Perché Kaatz considerava l’Olocausto come l’unico genocidio? Perché sentiva che era l’unico di dimensioni mondiali, mentre il genocidio armeno si era svolto soltanto in Turchia: i turchi non volevano andare in America o in Italia e uccidere gli armeni anche lì. Nel genocidio nazista al contrario si voleva uccidere ogni ebreo ovunque fosse. Nel genocidio armeno le donne erano sì rapite, stuprate e prese in ostaggio, ma avevano almeno una qualche possibilità di sopravvivere. Non voglio sostenere che l’Olocausto non sia stato un genocidio

unico, ma lui aveva una definizione molto rigida di cosa fosse un genocidio: sosteneva che doveva essere totale, che dovesse avere dimensioni mondiali o almeno tentare di averne. Oggi questa definizione così ristretta non c’è più ed è

“La sociologia è una scienza molto radicale e i sociologi sono molto radicali, perché fanno delle domande dure a proposito delle questioni di classe, razza, religione e altro ancora. E ti costringono a prendere le tue responsabilità” per questo che quello dei genocidi è diventato un campo di studio molto più interessante. Io definisco il genocidio comprendendo i crimini contro l’umanità, comprendendo anche il genocidio culturale, il genocidio sessuale, lo stupro. Questo ha aperto tutto un nuovo campo di studio, come nel caso del “genericidio” (gendercide) e del genocidio sessuale. Si usa il termine “genericidio” perché è neutrale, perché può essere sia contro le donne che contro gli uomini. Ad esempio a Srebrenica furono uccisi uomini e ragazzi, mentre le donne furono stuprate, quindi quel genocidio è stato contro gli uomini. Abbiamo accertato in altre ricerche che in alcuni casi sono state uccise più donne, come in Rwanda. Questa è una domanda che dobbiamo porci: perché le donne vengono uccise in maggior numero? Perché, ad esempio, gli uomini sono più abili a nascondersi nelle montagne, mentre le donne e i bambini sono più facili da trovare, visto che devono prendersi cura dei bambini e un bambino piange e ti tradisce. Ed è proprio quello che accadde a mia madre. Io ho


perso due sorelle da bambine, e una delle ragioni per cui è così difficile per una madre è perché se hai un bambino e ti nascondi, il bambino piange e ti fa scoprire. Il campo, come ho detto, diventa più articolato e si spinge più in là del genocidio, fino ai serial killer. Abbiamo avuto un caso tra gli Amish in Pennsylvania, in cui un uomo scelse una scuola di Amish e uccise solo le ragazze. C’è un caso anche a Montreal in cui uno studente universitario andò all’università e uccise soltanto le ragazze. Stiamo cercando di scoprire dove risiedano le cause di questo. Certamente non possiamo chiamare questo un genocidio. È piuttosto un omicidio in serie. Ma dobbiamo capire perché si uccidono le donne o gli uomini. Nel 1963 Hannah Arendt, nel libro scritto durante il processo di Adolph Eichmann a Gerusalemme, coniò l’espressione Banalità del male per descrivere come le persone che commettono crimini indicibili possano essere individui comuni, che semplicemente accettano le premesse e l’ideologia del proprio Stato e partecipano a tutte le sue azioni con lo spirito di burocrati. Nei suoi lavori lei sottolinea anche – mi sembra – questo aspetto burocratico della «mente genocida». Crede che questo concetto della banalità del male possa essere applicato, in qualche modo, alla contemporaneità? Sì, ho trovato anch’io che quando parliamo di male, il male è veramente banale. Le persone che incontri e che sono assassini sono davvero persone comuni. D’altra parte, ti chiedi: perché ci sono persone come gli italiani che salvarono gli ebrei? Perché ci sono certi gruppi buoni di cuore? E bisogna dire – come infatti ho detto – che l’Olocausto non potrebbe essere successo in nessun altro posto che in Germania. Perché dico questo? Perché la mentalità tedesca ha questa cosa che loro chiamano Pünktlichkeit, esattezza: sono in grado di eseguire gli ordini in maniera precisa. Perciò se da un lato è vero che la gente normale uccide, è vero anche che ciò richiede un certo tipo di personalità. Generalizzando, comunque, direi che è vero che coloro che uccidono sono individui molto comuni. Ed è la stessa cosa che ho potuto accertare nei casi di pervertimento sessuale. È proprio la banalità del male che lo rende così spaventoso. E forse non chiunque, ma la maggior parte delle persone può convertirsi, sotto certe pressioni, in un assassino. Una delle cose più interessanti che mi è capitato di scoprire è che gli intellettuali diventano più facilmente fascisti. La maggior parte delle persone che hanno aiutato gli ebrei ad esempio erano persone semplici, contadini. Anche la famiglia di mia moglie fu aiutata da semplici contadini. Non sto dicendo che gli intellettuali non abbiano aiutato, sto dicendo che

coloro che hanno aiutato di più non sono stati i più colti. Gli studi sull’altruismo sono molto interessanti. Perché sono stati gli italiani e non gli ucraini, i lituani e i lettoni ad aiutare? Forse c’è qualcosa nella cultura che riguarda il prendersi cura della gente, dei bambini. E allo stesso tempo mi chiedo: potrei far diventare una persona normale un fascista? A certe condizioni, potrei. La personalità è molto plastica, è facile cambiarla. Quando puoi incidere sulla personalità della gente? Questo è stato il tema del dibattito con Daniel Goldhagen in merito agli studi sulla capacità di obbedienza della gente. Deve essere necessariamente un razzista o un antisemita chi si rende colpevole di genocidio? O chiunque può diventare un antisemita o un razzista? Entrambe le risposte possono essere corrette: hai bisogno di una mentalità razzista e hai bisogno di una psicologia sociale obbediente agli ordini. E inoltre vale la teoria che uno dei miei insegnanti ad Harvard chiamava “il piede sulla soglia” («foot on the door»). Una volta che hai messo il piede sulla soglia e uccidi qualcuno, sarà poi più facile uccidere altri ed altri ancora. Il nazismo è un campo di studio pieno di molte contraddizioni. Le Einsatzgruppen, i gruppi che hanno seguito i tedeschi in Russia, erano volontarie. Se non volevi uccidere, te ne potevi andare. Ma una volta che iniziavi davvero ad uccidere, tutti dovevano uccidere. Il cuoco, i conducenti, tutti dovevano partecipare. C’era uguaglianza, in un certo senso: erano tutti colpevoli. Ma non è vero che tutti dovevano essere puniti se non partecipavano. Quello infatti era un lavoro che la gente voleva fare, che preferiva. Preferivano far parte delle Einsatzgruppen che far parte dell’esercito che combatteva nella frontiera orientale contro i russi. Uccidere gli ebrei era più facile. Nel XX secolo abbiamo avuto tutta una nuova serie di genocidi. Abbiamo questo profondo genocidio tribale in Africa ed è davvero pericoloso. E ci sono aree del mondo di cui non importa niente a nessuno: non ci sono motivi di sicurezza o motivi economici che portino l’attenzione in quelle aree ed è inoltre molto costoso arrivare fin là. È curioso pensare come i posti

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in cui si sviluppano casi di genocidio sono così difficili da raggiungere e a nessuno interessa niente. E questo è il motivo per cui né Clinton né nessun altro ha parlato o è andato in Cambogia, Rwanda, Armenia o anche in Bosnia. La Bosnia è infatti un caso molto interessante. Anche se era nel cuore dell’Europa, in Bosnia c’era l’elemento dell’Islam e quindi la paura dello stato musulmano; questo è un nuovo tipo di razzismo, ed è il motivo per cui l’occidente non è intervenuto. E poi c’è anche il timore di dare l’etichetta di genocidio e questo è un grosso problema. Perché abbiamo paura di ciò? Perché una volta che etichetti il genocidio hai l’obbligo di intervenire: quindi c’è una grande riluttanza da parte di americani e britannici a chiamare qualcosa genocidio. Preferiscono chiamarle guerre tribali o guerre civili. In molti dei suoi lavori la prospettiva sociologica si intreccia con quella storica e psicologica. Qual è il valore dell’approccio interdisciplinare ad argomenti così complessi come quelli che lei tratta? Troppo a lungo il genocidio e l’Olocausto sono stati temi trattati esclusivamente dagli storici. Invece, per ironia della sorte, il genocidio è stato riscoperto come campo di studio dai sociologi. O meglio, il genocidio in genere è stato più trattato dai sociologi e l’Olocausto dagli storici. Comunque io vengo dal campo dei sociologi devianti, quindi sono molto diverso. Non ci sono arrivato dalla strada maestra. I miei insegnanti sono state persone come Erving Goffman e Howard S. Becker, dunque il mio background è molto più sociologico e poi psicologico. Forse ho intrapreso questa strada perché nessuno sta lavorando in quell’area e anche perché gli storici la guardano dall’alto in basso, visto che qualcosa come la “psicostoria” non è considerata da alcuni come un vero e proprio campo di studi. Ad esempio, i musei di scienza a Washington sono completamente dominati dagli storici. A loro non piace il disordine della psicologia. È troppo caotica, troppo radicale per loro. Il mio libro è molto più famoso in Europa che in America, infatti. E specialmente in Italia, perché a voi piace l’approccio psi-

coanalitico. La gente vuole sapere cosa sta succedendo nella mente delle persone, nella mente di questi assassini o perché ciò accade, perché la gente compie un suicidio. In definitiva non ho una risposta sul perché ho iniziato a usare la psicologia o la sessuologia o su come era il campo di ricerca quando io ho cominciato. In realtà è un campo che soltanto adesso iniziamo a conoscere. Nessuno faceva questo tipo di ricerca e nessuno tuttora la fa. Questa è la prima volta che la parola genocidio e la parola sesso si trovano nello stesso titolo. In America l’approccio storico è sempre più potente; questo approccio e quello internazionalista erano quelli dominanti, e quindi era molto difficile essere pubblicati. Io ho sempre bisogno di stare fuori dalla linea. Dico sempre ai miei studenti che se vogliono lasciare un segno non possono scrivere la stessa cosa che ha scritto il professore. È evidente che devi fare qualcosa di diverso, altrimenti non sarai altro che una copia del tuo professore. La sociologia è morta? Questa è la domanda che lei si pone nel titolo del suo ultimo libro. Qual è al giorno d’oggi il ruolo della sociologia? Come può interagire con i problemi della società contemporanea? Come può leggerne e interpretarne le ansie? La sociologia è una scienza molto radicale e i sociologi sono molto radicali. Non perché siano marxisti o socialisti, ma perché fanno delle domande dure a proposito delle questioni di classe, razza, religione, e altro ancora. E ti costringono a prenderti le tue responsabilità. Io sono anche un personaggio politico e se mi candido come sindaco, chiedo alla gente di cambiare. Agisco in modo diverso da un solito politico, perché un solito politico dice alla gente: «Troviamo i soldi!» e pensa a ridurre i costi della benzina, le tasse sul gasolio e a costruire autostrade migliori e nuovi parcheggi e non si preoccupa ad esempio del trasporto pubblico. Io come sociologo invece direi: «Aspetta un attimo: perché hai bisogno di tre automobili? Perché hai bisogno di passare dall’avere due macchine ad averne tre? Perché ora hai questo nuovo tipo di famiglia denominato yuppie?». Per esempio, se penso al caso della mia città, la percentuale di bambini che vanno a scuola in bicicletta è calata dal 60 al 13 % e mi chiedo perché i bambini non prendano più le biciclette. Uno dei motivi è perché i loro genitori hanno paura che i loro bambini guidino la bicicletta per strada. Quindi anche i genitori sono cambiati, sono più preoccupati. Hanno solo uno o due bambini e sono preoccupati per loro. E inoltre vanno sempre di fretta. Devono fare una cosa dietro l’altra, sono troppo oberati. Devi andare prima a scuola, poi a lezione di danza, poi a giocare a calcio, quindi per forza devi usare un’au-


tomobile per andare da una parte all’altra. Non puoi venire a scuola con la bicicletta anche perché non sai dove metterla. Quando mi sono candidato per un posto pubblico ho detto agli elettori che dovevano ripensare il loro stile di vita. È un approccio molto radicale. Un sociologo dice sempre di guardare al tuo stile di vita e cambiarlo e alla gente non piace farlo. C’è chi dice che i sociologi siano quel ponte che unisce i tuoi problemi privati con la questione pubblica. Il sociologo sta nel punto in cui queste due cose collidono. D’altra parte i sociologi sono diventati troppo statistici, troppo teorici e si sono dimenticati di fare i conti con i cambiamenti sociali radicali di cui abbiamo bisogno. Certo, il nostro linguaggio è così difficile da capire. Se prendi una rivista di sociologia, chi riesce a leggerla? Anche per un matematico diventa impossibile. Siamo troppo statistici, troppo astratti, ci parliamo e ci capiamo solo fra noi stessi. Penso che la sociologia sia andata in declino nell’era di Reagan, per ragioni politiche, non tanto per i soldi. Poi ha di nuovo acquistato peso con Clinton. E ora, con Bush e la guerra, tutto è di nuovo in declino. Magari crescerà di nuovo con Obama. Quindi riflette la situazione politica. Direi anche che la sociologia è diventata troppo grande come organizzazione, la American Sociological Association ha 15.000 membri. C’erano tempi in cui potevamo sederci e discutere e ci conoscevamo tutti. Mi piaceva molto essere uno studente negli anni Sessanta. Non mi piace dire ai giovani «vi siete persi gli anni Sessanta... ma non preoccupatevi che stanno tornando», ma è vero che non c’è più quella relazione intima tra professori e studenti. C’è un film italiano, Mio fratello è figlio unico, a proposito di come negli anni Sessanta un fratello diventa comunista e l’altro fascista. Mi è piaciuto come mostrava il rapporto degli studenti verso i professori. C’era questa idea di dire «vieni a casa», andiamo dall’aula alla strada, e anche fino a dentro casa. Era tutto un’unica cosa. Questo ci manca oggi nel XXI secolo, non lo facciamo abbastanza. La Turchia è uno dei Paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea. In Italia il dibattito in merito è incentrato su argomenti strategici e sui temi riguardanti il controllo dell’immigrazione, ma la questione del riconoscimento del genocidio armeno è spesso sottovalutata. Se è vero che una nazione che non riconosce il suo passato non può costruire il proprio futuro, non sarebbe pericoloso per l’Europa e per i princípi su cui si fonda accordare l’ingresso alla Turchia? Sono completamente d’accordo con questa affermazione. I turchi non dovrebbero essere ammessi nell’Unione Europea a meno che non cambino la loro linea sui diritti umani, i diritti civili e politici e i diritti

degli armeni e non controllino i loro gruppi fascisti-nazionalisti che uccisero Hrant Dink ed altri scrittori armeni e turchi che hanno alzato le loro voci. È necessario far pressione su di loro riguardo a queste ed altre questioni come il loro riconoscimento del genocidio armeno; chiedergli se è davvero questo il riconoscimento che intendono dare al genocidio armeno. Quella del genocidio armeno è una vicenda molto complessa, in cui io stesso mi sono impegnato, anche in America. Lo so che può apparire un po’ strano perché sono anche ebreo, e in questa vicenda il mio impegno non è soltanto contro i turchi, ma anche contro la lobby israeliana e persino contro fazioni della lobby ebraica. Sono tre le grandi lobby molto poderose da combattere: la israeliana, la ebraica e la turca. E se i turchi ricattano la comunità ebraica, dicendo che faranno del male agli ebrei in Turchia, che la Turchia è l’unico vero amico musulmano di Israele e che Israele non si tocca, io invece trovo che sia tutto una “balla”, che non andranno mai oltre il ricatto. Il problema è che invece questo ricatto funziona. Lavoro tutto il tempo con i miei amici armeni, convinto che la Turchia debba cambiare. La Turchia deve accettare il proprio errore e, come la Germania, riconoscere e accettare il proprio passato. Comunque la Turchia sta andando in quella direzione. Ci sono alcuni cambiamenti in corso e sono dei cambiamenti positivi. I turchi, lentamente ma realmente, stanno cominciando a riconoscere che hanno bisogno di adoperare questi cambiamenti se vogliono far parte dell’Unione Europea e persino del mondo. Così, vedo per la prima volta turchi e armeni nella nostra stessa organizzazione, abbiamo membri turchi nell’organizzazione contro il genocidio, che scrivono anche relazioni. Credo che la Turchia deve cambiare e lo farà. E noi terremo d’occhio e spingeremo i cambiamenti che stanno avendo luogo. La situazione adesso va molto meglio di come andava 20 anni fa, all’epoca non mi sarebbe mai passato per la testa che i turchi avrebbero potuto iniziare a capire, eppure lo stanno facendo.

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«Most dear to me» Viaggio a Ellis Island

reportage

da New York, Alessandra Ciarletti Nome Maria Cognome Lo Schiavo Born, colour’s eyes, ...diseases, open the mouth, please! Nata, colore degli occhi, ...malattie, apra la bocca! Maria sbirciava il comportamento degli altri, carpendo dalle loro azioni le possibili risposte alle domande dell’addetto al controllo degli immigrati. Doveva iniziare così il viaggio sulla terra ferma dopo tre mesi di navigazione, tra speranze, cattivi odori, dolori, screzi di stanchezza e fame. Questa è la prima voce che sento guardando il volto che accoglie i visitatori ben vestiti e sicuri di Ellis Island, nell’era della comunicazione veloce e dei viaggi di piacere. La osservo ancora e senza esitare mi racconta la sua storia. Nata in un piccolo paese dell’entroterra messinese, terza figlia di cinque, andò in sposa a Vito, un cugino per parte materna. Si ritrovò a vangare e zappare una terra dura che dava solo vermi in cambio del sudore e lei i vermi non li voleva mangiare. Passarono così i primi anni di matrimonio, speranze sgretolate a terra e la voce di Vito che si faceva sempre più dura. Poi la partenza dal porto di Napoli. Arrivare fin lì era stato un viaggio difficile, caldo e senza acqua, racconta Maria. Al momento del nostro incontro indossa un lungo abito scuro e un fazzoletto in testa. Tra le braccia appoggiata

Veduta storica di Ellis Island dal battello

su un fianco tiene una bambina; tra le mani un fagotto dai pochi panni necessari e posseduti. Accanto a lei suo marito Vito e un giovane che a fatica trattiene una pesante valigia fatta di stoffa. Si chiama Agostino, mi dice Maria. Nome strano per la sua terra, ma la madre di lui glielo volle dare in ossequio a un voto al santo. Probabilmente inutile, visto che era morta di stenti, lasciando il figlio in affido alla moglie del fratello, Maria appunto. E Maria in fuga dalla miseria se lo era portato dietro. Vito ha sulle spalle una coperta, in testa come segnale di dignità, una bombetta. Gli occhi sono fieri e carichi di attesa, guarda l’orizzonte incuriosito. Vuole vedere le cipolle enormi, che pubblicizzavano alcune cartoline. Maria è diffidente e dura: lei la sua terra non la voleva lasciare; si sente il ventre svuotato, ma alla fine il marito e la fame l’avevano convinta. Erano partiti alla volta dell’America, la terra dalle galline giganti e dalle strade lastricate d’oro. Negli occhi di Agostino c’è attesa e speranza, ma ben presto scoprirà che in America «le strade non sono lastricate d’oro, non sono proprio lastricate e, soprattutto, spetta a loro lastricarle». Più avanti incontro il capitano Flynn Mc Ewan. Questo il suo nome, quello vero. Per tutti quelli che lo conobbero dopo fu Lars. Barba ispida e vagamente incolta. Sguardo fisso e duro. In testa il suo onorato cappello. Quanto gli resta a testimonianza della sua precedente vita. Sì, perché lui ha avuto due vite e forse qualcuna in più. Questa era la sensazione che gli restava ogni volta

«Most dear to me are the shoes that my mother wore first set foot on the soil of America. You must see them to appreciate the courage my parents had and the sacrificies they made. My mother’s shoes tell the whole story». Birgitta Hedman Fichter, a Swedish immigrant in 1924, from a letter, 1984


che superava una tempesta. Irlandese di nascita, si era imbarcato giovanissimo su un mercantile danese, che un’avaria aveva trattenuto qualche giorno a Dublino. Ebbe appena il tempo di salutare i suoi. Salì a bordo e non guardò più indietro. Aveva attraversato mari mappati dalle onde smisurate e visto luoghi sconosciuti. Doppiato più volte il Capo di Buona Speranza, ripercorrendo l’antica rotta delle spezie che portava nelle Indie. Ogni viaggio una vita, ecco com’era. A Ellis, come la chiamava lui, c’era arrivato ormai vecchio. Stanco di delusioni e attese, raggiunse l’isola come si torna da una vecchia amante. Voleva un posto in cui fermarsi e lì, dicevano, avrebbe potuto lavorare sulla terraferma, ma non lontano dall’acqua. Il porto di Ellis Island fu l’ultima sua vita. Un’isola di pochi ettari che accoglieva e respingeva, proprio come il mare. Lo saluto. Passano davanti ai miei occhi, bambini curati e dai vestiti in ordine e adulti avvolti negli abiti della loro terra. Quando l’abito fa il monaco, penso. Sguardi fieri e tristi. Quegli abiti sono la terra che hanno potuto portarsi dietro, dentro. Certo, una terra divenuta matrigna, ma la disperazione non abbatte la nostalgia e il senso di inadeguatezza al nuovo che inesorabilmente li attende.

Giro l’angolo e incontro Tavit Adibekyan. È un ebreo armeno, giunto in America per scappare all’odio che divorava la sua terra. Terra, terraferma e mesi di navigazione senza sosta, corpo e pensiero in mutamento, divenire sconosciuto. Ultimo sguardo all’Ararat e poi tanto mare. Ha gli occhi di chi ha visto molto, troppo del genere umano e poco più si aspetta. Il sopracciglio leggermente rialzato, come chi di fronte alle domande si chiede se valga la pena rispondere. Gliene avevano fatte molte, di routine e non solo, ma la sua condizione, paradossalmente, lo aveva aiutato a velocizzare il percorso di accoglienza. È la volta di Carlo. Ha undici anni è arrivato con sua

“Gibbet Island, Ellis Island, Isola delle lacrime, nomi diversi per indicare un luogo fisico, un isolotto davanti alla baia di Manhattan, poco più di ventisette ettari, adibito fin dal principio a ospitare gli altri” zia. Rimasto orfano e con otto fratelli, ha lavorato duramente nel porto di Napoli. Poi lo zio era partito alla volta degli Stati Uniti e lì aveva trovato lavoro come bracciante, salario buono e pasto fisso. Li aspetta nelle distese praterie dell’Illinois. Carlo non sa neppure dove si trovi, sa solo che il suo viaggio non è ancora finito. Al momento del nostro incontro non ha neppure le scarpe. Cappello e occhi in ombra e una fronte che porta già i segni della disillusione. Mani in tasca, vorrebbe un’altra vita, diversa da quella vissuta a Napoli. Mi dice che le cose che indossa sono tutto ciò che ha. Il suo sogno è avere un’infanzia, ma probabilmente aiuterà in qualche modo lo zio. Una voce nuova mi distacca da lui. È quella di Guglielmo. Faccio fatica a individuarlo, sommerso com’è da una moltitudine di persone che, le une accanto alle altre, aspettano fiduciose di toccare terra. È arrabbiato; lui non vuole questa nuova vita, vuole tornare a casa, la sua. In fondo viveva bene lì, ma al padre non bastava e attratto dalle favolose opportunità raccontate, aveva deciso di spostarsi con tutta la sua

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Metafora della costruzione dell’identità americana

famiglia. Mi dice che si fingerà muto, perché ha saputo che i muti gli americani non li vogliono. Questo sogno non gli appartiene, i suoi sogni sono legati alla terra da cui proviene e non si piegherà alla dolorosa ambizione del padre. Buona fortuna. Gibbet Island, Ellis Island, Isola delle lacrime, nomi diversi per indicare un luogo fisico, un isolotto davanti alla baia di Manhattan, poco più di ventisette ettari, adibito fin dal principio a ospitare “gli altri”. Prima farabutti di professione, poi dal 1892 centro di smistamento di migliaia di immigrati che da allora fino ai primi decenni del Novecento, attraversano l’oceano per rifarsi una vita. Fiumi umani a inseguire il sogno americano, da est a ovest, sulla rotta del sole. Grandi risorse naturali e spazi ancora da colonizzare. Un’Europa in crisi con un’economia post-feudale spinge i più poveri alla rincorsa della felicità. In più parti si raccontano le gesta di chi riesce a raggiungerla. Terra ricca e dalla dimensioni smisurate, tutta da vivere e interpretare. Se qui l’uomo è divorato dalla fame, lì l’agricoltura è florida e dà frutti dalle dimensioni insperate, scorrono fiumi di latte. L’uomo non soffre, lavora e vive bene. Questo l’immaginario che aleggia sul vecchio continente. Stili e dinamiche divergenti, diametralmente opposte. Da una parte un dinamismo legato a valori concreti rispondenti al bisogno e alla sua soddisfazione e un processo di urbanizzazione appena prodotto dalla rivoluzione industriale, dall’altra il tramonto di grandi imperi, nuovi movimenti di riscatto, isolamento delle fasce più deboli che di lì a poco qualcuno avrebbe miseramente cavalcato. Ieri, oggi, domani. E poi un’isola, la porta della speranza. Ellis Island. Qui arrivano milioni di persone con biglietti di terza ma anche di prima classe. Quest’ultimi vengono ispezionati direttamente a bordo nelle loro cabine. Per tutti gli altri, prima il passaggio sullo storico traghetto che li conduce dalla nave all’isola, poi le attese e i controlli. Ogni immigrante deve portare con sé un documento con le informazioni sulla nave che lo ha portato a New York. I medici esaminano le condizioni di salute di

ogni passeggero, imprimendo il risultato con un gesso sulla schiena di ciascuno. Occorre dimostrare che si può lavorare e produrre, per la crescita individuale e collettiva. Non mancano gli infermi; per questi è stato attrezzato un ospedale in loco. Non mancano i respinti, per loro la legislazione statunitense in vigore, prevede il rimpatrio sulla stessa nave con cui sono arrivati. Chi supera l’ispezione si avvia verso la Sala di registrazione, un ampio salone con un soffitto a volte, pareti dai colori asettici, banchi di legno degli ispettori e bandiera americana. La sensazione a ripercorrerla oggi è di trovarsi a metà tra un ospedale e una prigione. Dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, dodici milioni di persone hanno attraversato l’isola, traiettorie e destini diversi. Otto milioni di italiani dal 1900 al 1914 lasciarono l’Italia diretti negli Stati Uniti. Dopo il 1929, il flusso migratorio subisce una flessione e dal 1930 fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale il centro diviene luogo di detenzione di dissidenti politici e prigionieri di guerra. Dal 1990 Ellis Island è museo dell’immigrazione. Accanto si erge la Statua della Libertà, davanti Battery Park, poco più in là il Financial district che custodisce un vuoto che sarà di nuovo pieno. Mi allontano di nuovo in battello guardo l’isola e guardo Manhattan. Mi chiedo cosa sia un sogno e quanta probabilità si ha di realizzarlo lontano da ciò che ci ha visceralmente nutrito. Qual è il prezzo? Deve essere tanto più alto quanto più è disperata la condizione di partenza. Mi viene in mente Ercole, un simpatico ed energico vecchio che ha lasciato il suo paese a venticinque anni. Dagli Stati Uniti si era spostato in Canada, per raggiungere il fratello. Lì aveva lavorato anni in miniera e poi le sue mani avevano contribuito alla costruzione della rete ferroviaria della British Columbia. Finalmente a quarant’anni si era stabilito in città, Ottawa. Lì si riscattò dal freddo inclemente lavorando in un ristorante, che poi negli anni divenne suo. A quell’epoca aveva già perso tutti i denti. Si sposò ed ebbe tre figlie. Oggi ha ottontasei anni, è in pensione e dedica il suo tempo ai nipoti e all’orto. Ogni anno torna in Italia, avrà realizzato il suo sogno?


«Quando gli elefanti fanno la guerra sono i fili d’erba a soffrire» I bambini e le donne nei campi profughi del Nord Kivu dalla Repubblica democratica del Congo, Camilla Stecca

La guerra nella Repubblica Democratica del Congo è una realtà attuale che in pochi conoscono e che solamente negli ultimi otto mesi ha portato circa 800.000 persone a fuggire nei campi profughi (39 campi, secondo le ultime stime ufficiali ONU). È una realtà che negli ultimi quindici anni ha fatto circa sei milioni di morti: come se per sei anni e mezzo ogni giorno avessimo vissuto la tragedia delle Twin Towers…Non per fare paragoni forzati, ma per sottolineare, nell’unico modo che ci rimane in testa, l’entità di questo ennesimo conflitto dimenticato del continente africano, che insanguina l’intera regione del Kivu. Una di quelle guerre che, tra alti e bassi, vanno avanti per anni alle quali quasi ci si abitua; che muovono i miliardi della cooperazione internazionale e che normalmente, implacabilmente, toccano più che altro la povera gente. «Quando gli elefanti fanno la guerra sono i fili d’erba a soffrire», recita un detto africano, che non potrebbe dipingere meglio la tragedia quotidiana di queste popolazioni.

“Per qualche ora possono lasciare in un angolo della mente i loro traumi e tornare ad essere semplicemente bambini o adolescenti” L’ultima crisi del nord Kivu, la più recente, scoppiata nell’agosto dello scorso anno, ancora oggi imperversa nella vita degli abitanti di questa parte di Congo. Negli ultimi otto mesi i campi di rifugiati interni si sono moltiplicati, vere e proprie (e, purtroppo, non nuove) efferatezze legate all’appartenenza etnica sono state perpetrate e centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato tutto quello che avevano, scappando in qualche campo profughi gestito dalle organizzazioni umanitarie o semplicemente creandone di spontanei. Fino a che non l’ho visto con i miei occhi, non potevo immaginare le conseguenze (catastrofiche) di un déplacement di massa come quello attuale: la situazione è quanto meno complessa da gestire e le conseguenze sono varie e imprevedibili. Inoltre, l’attuale crisi del Kivu non sembra potersi risolvere molto in fretta e chi lavora sul campo si sente spesso impotente di fronte alle grandi e piccole cause che scatenano

una guerra sottile e perversa come questa, in primis l’enorme responsabilità politica. Personalmente, mi sono occupata di due progetti finanziati dall’Unicef e dedicati ai bambini rifugiati. Gli Espaces enfants sono angoli dedicati, sicuri e controllati, creati all’interno dei campi profughi, nei quali vengono organizzate attività creative, ricreative e sportive, sensibilizzazioni, pièces teatrali, atelier di cucito e molto altro. I campi profughi nei quali lavoriamo per il momento sono otto e si trovano nella zona di Masisi e alto-Rutshuru, esattamente sulle linee di fronte e nelle zone più toccate da questa guerra. Le nostre attività ricreative oggi sono apprezzate dai rifugiati, dalle autorità civili e dalle autorità militari. Questo soprattutto perchè i bambini e i ragazzi in età scolare, costretti a rimanere in casa o per strada tutto il giorno, sono un peso e un problema per l’intero villaggio. Nei nostri spazi i bambini non fanno scuo-

Giochi nello spazio enfant di Kibati

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Qui e accanto due immagini del campo profughi di Bulengo

la ma vi possono trovare svago e serenità, lontani dalla guerra, dal lavoro, dal banditismo e da quello che hanno vissuto. Per qualche ora possono lasciare in un angolo della mente i loro traumi e tornare ad essere semplicemente bambini o adolescenti, che hanno bisogno di stare con i loro coetanei, scambiarsi idee e impressioni, condividere l’entusiasmo di una partita vinta dalla propria squadra o imparare a usare i colori a tempera. Il lavoro, però, non è facile. La vita nei campi profughi è difficilissima e i bisogni sono enormi. Le capanne sono costruite con un’intelaiatura di bambù o rami e ricoperte di fango essiccato, paglia, foglie di banano. Nei campi gestiti (quelli in cui l’UNHCR e di conseguenza le ONG hanno iniziato delle attività di assistenza), si distribuiscono dei teloni di plastica, per proteggere il tetto e renderlo impermeabile. Queste capanne sono lunghe un paio di metri e alte quan-

Giochi nello spazio enfant di Kibati

to basta per starci dentro semi accucciati, o in piedi nel punto più alto. La vita del profugo, in effetti, si svolge all’esterno. Ogni cosa è una lotta per la sopravvivenza. C’è l’acqua da prendere, bisogna cercare qualcosa da mangiare, legna da ardere, magari un piatto o una coperta. E se il campo è gestito, allora bisogna capire quando ci sarà la distribuzione, andare a prendere il gettone e restare in coda tutto il giorno per ricevere la propria parte. Per le donne e per i bambini, soprattutto, la vita da rifugiati è molto dura. In primo luogo, moltissimi bambini perdono i loro genitori e parenti durante la

“I genitori decidono di far scappare i propri figli da soli per scongiurare il pericolo dell’arruolamento forzato nelle milizie” fuga, che spesso è intrapresa passando tra le montagne e i boschi. In alcuni casi, invece, i genitori decidono di far scappare i propri figli da soli per garantire loro una via di salvezza più probabile o per scongiurare il pericolo dell’arruolamento forzato nelle milizie perché a partire dai sette anni corrono anche il rischio di essere reclutati forzatamente nelle armate regolari o irregolari, come soldati o semplicemente come trasportatori, mentre le bambine diventano mogli dei soldati, costrette a seguirli nel peregrinare del battaglione. Questi bambini fuggono da soli o tenendo qualche fratellino per mano o legato sulla schiena, seguendo il flusso di altri profughi e prima o poi arrivano in un campo. A questo punto, la loro vita è doppiamente difficile. Non solo non hanno una casa, né cibo o vestiti, ma sono anche completamente soli in un ambiente ostile e pericoloso. Esistono dei programmi di censimento, ricerca e ricongiungimento familiare, ma normalmente richiedono del tempo per essere attivati e se i bambini non accompagnati nel frattempo non trovano un aiuto, la


possibilità di sopravvivenza, soprattutto dei più piccoli, si riduce drasticamente. Ma anche se in famiglia, la vita di un bambino rifugiato è decisamente segnata dalla fuga e dal trauma del déplacement. Tutto quello che questi bambini hanno visto e vissuto resta inciso nelle loro teste e le prime reazioni sono di assoluta diffidenza e ostilità. I bambini di un campo profughi non sorridono spesso, sono malati,

“È impressionante vedere i loro disegni, la perfezione delle loro armi intagliate nel legno o intrecciate con le foglie di banano: kalashnikov, lancia missili, bombe” malnutriti, sporchi. Disegnano morti ammazzati e cuori da cui esce sangue, giocano divisi per gruppi etnici; tutto questo non aiuta affatto il loro recupero psicologico. In linea generale, poi, la presenza dei militari (anch’essi costretti ad una vita durissima, senza cibo né denaro) non è mai buona per la sicurezza delle giovani donne, ed i casi di stupro si susseguono numerosi, anche nei campi gestiti, organizzati e controllati da Ong e agenzie ONU. La realtà, come si può immaginare, è cruenta. Quel

che è certo è che tutti, ma soprattutto donne e bambini, vivono in uno stato di stress continuo e altissimo, nella tensione della paura, della fuga, dell’inevitabilità della violenza e del bisogno. Nei nostri spazi dedicati ai bambini, per fare un esempio, riceviamo quotidianamente anche bambini e adolescenti ex soldati. È impressionante vedere i loro disegni, la perfezione delle loro armi intagliate nel legno o intrecciate con le foglie di banano: kalashnikov, lancia missili, bombe. Nel viso stanco e scavato delle loro madri, quando ci sono, vediamo il crollo di ogni resistenza e quel senso di impotenza che oramai le domina. La maggior parte degli adulti è inattiva. Le donne, come sempre, si occupano delle faccende di casa e, se si è stabili già da qualche tempo, cercano di coltivare un pezzo di terra. Gli uomini cercano un lavoro, aiutano nei campi o, più semplicemente, non fanno niente. In casa non c’è acqua, non c’è cibo, non ci sono vestiti né coperte, non c’è denaro, medicine o utensili. La vita è ridotta a mera sopravvivenza, specie nelle prime settimane. Anche per questo, le madri sembrano abbandonare i bambini più piccoli o quelli più deboli a se stessi: nella lotta per la sopravvivenza si deve dare una priorità cinica a ogni cosa e a ogni componente della famiglia. Esistenze come queste sembrano irreali finché non le incontri davvero, ma purtroppo nel Nord Kivu la realtà supera di gran lunga la fantasia.

Matrioske I tanti volti di una super-potenza dalla Russia, Camilla Spinelli

La strada che ci separa dalla Russia non è solo fatta di moltissimi chilometri, climi e paesaggi diversi. Chiunque intraprenda un viaggio in Russia di piacere o di lavoro (com’è capitato a me che vi sono andata per suonare con il mio gruppo) si troverà ad affrontare un articolato percorso burocratico in cui la pazienza è il vero asso nella manica e il visto la parola magica. La Russia è un paese che si può raccontare in tanti modi; potrei parlare della bellezza di alcuni paesaggi e dell’atmosfera di alcune piazze o dell’incontro con persone felici di accoglierti e di prendersi cura del tuo viaggio, ma la Russia è stata per me innanzitutto un viaggio nell’umano e nel diverso. Credo che ciò che mi ha colpito maggiormente sia stato entrare in contatto con una realtà tanto diversa da come me la ero immaginata. Il ragazzo che ci viene a prendere all’aeroporto al nostro arrivo a Mosca comincia subito a parlarci del

suo paese. Con evidente tristezza e un pizzico di rabbia ci spiega come quello che si vede dall’esterno sia solamente un benessere di “facciata”, che la politica preferisce tenere nascosti i problemi piuttosto che risolverli. La mafia non esiste più: è come se fosse sta-

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ta inglobata nello Stato, ci dice, in superficie va tutto bene ma nel profondo è tutto da rifare. E ciò che abbiamo avuto modo di osservare a Mosca e a San Pietroburgo è stata un’amara conferma delle sue parole. Ci racconta che un lavoratore medio in Russia non guadagna più di 500 dollari al mese e non sono pochi coloro che vanno alla ricerca di risorse per vivere la propria vita nel miglior modo possibile. Se per caso, dopo aver passeggiato per il centro di Mosca, vuoi tornartene in albergo ma non trovi un taxi, puoi benissimo fermare qualsiasi macchina che passa nelle vicinanze. L’autista, una mamma di famiglia, un anziano in pensione, un giovane disoccupato, ti porterà nel luogo da te La Piazza Rossa, Mosca scelto, previo pagamento. Passeggiando per il centro delle città più to di notte, in treno. Una mattina, alle otto, siamo argrandi, ti senti come se stessi in una qualsiasi città rivati alla stazione di Petrozavodsk, una cittadina a europea: Mosca può essere Parigi, San Pietroburgo nord di San Pietroburgo, famosa per la sua fabbrica sembra Stoccolma. Il problema però è evidente quandi cannoni. Questa è una delle città russe dove si posdo ti ritrovi fuori dal centro. Nelle periferie, carattesono ancora trovare molte strade che portano nomi di rizzate da grandi edifici e strade molto larghe, sempersonaggi della vecchia URSS. La via principale è bra di essere stati catapultati in un’altra dimensione. via Lenin che parte dalla stazione e arriva fino al LaI palazzi sono lasciati al degrado completo, sembra go Onega. In questo luogo abbiamo capito che Moquasi che ci sia qualcosa che li divori dall’interno. Le sca è solo l’esperienza più occidentale di questo imstrade, immense e polverose, trasmettono un senso di menso impero in cui la maggioranza della popolazioprofondo abbandono. ne è contadina e vive in piccole città o villaggi, in La proprietà privata è stato un grande passo avanti posizioni geografiche e condizioni meteorologiche per la Russia ma quel bagliore di libertà si è spento assolutamente sfavorevoli. Se nella periferia di Mopresto e oggi i ragazzi che incontriamo non vedono sca ti senti piccolo e insignificante, qui a Petrozaniente di buono per il proprio futuro. Persino orgavodsk ti ritrovi isolato da tutto e da tutti. Forse è quenizzare concerti o eventi culturali può essere rischiosta la vera fotografia della Russia. Entrare nel primo so. Gli scontri tra gruppi appartenenti a fazioni polibar di Petrozavodsk e trovarsi di fronte un tavolo di tiche diverse sono all’ordine del giorno: il nostro acragazzi e ragazze che di prima mattina sorseggiavano compagnatore ci racconta che nell’ultimo anno sono boccali di birra. Il nostro accompagnatore ci spiega morti ottanta ragazzi in risse di questo tipo fuori dai che l’alcolismo è molto diffuso anche fra i giovani e locali. che lo Stato non fa molto a riguardo. Qui come altroAnche le distanze in Russia sono inimmaginabili. Per ve, penso io. Si percepisce molto risentimento nelle risparmiare tempo prezioso abbiamo spesso viaggiasue parole e chissà quanti altri giovani condividono lo stesso sentire. Ma si sa i processi di cambiamento sono lenti e pieni di contraccolpi e certe volte la cronaca dimostra che è meglio non fare domande. Un signore durante il viaggio ci ha raccontato che ogni anno in estate viene in Europa con la sua famiglia attraversando moltissimi paesi: Polonia, Austria, Italia Francia e Grecia, intraprendendo questo viaggio in macchina e con il solo aiuto di una cartina, ormai molto stropicciata. Ci fa vedere le foto di tutti i posti in cui è stato. È felice di sapere che siamo italiani: del nostro paese conosce le bellezze di Roma, Firenze e Venezia. Chissà se si è mai chiesto cosa c’è dietro e dentro tanta bellezza. Se per caso il gioco delle matrioske, dove ogni cosa ne nasconde un’altra, non stia Periferia di Petrozavodsk diventando popolare anche dalle nostre parti.


Ultim’ora da Laziodisu

Negli anni 2006 e 2007 Laziodisu ha sostenuto le spese per l’alloggio ed ha ospitato nelle mense universitarie un gruppo di 15 studenti dell’Institut Superieur des Sciences Humaines di Tunisi che, nell’ambito di una convenzione italo-tunisina, hanno seguito a Roma un corso di lingua italiana ed hanno preso parte ad una serie di visite presso istituzioni italiane quali la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica. La Regione Lazio, attraverso l’impegno di Silvia Costa, assessore alla scuola, diritto allo studio e formazione professionale, ha destinato 25.000 euro per l’attribuzione di 10 borse di studio a studenti e studentesse lituani delle Università di Vilnius e Kaunas, finalizzate a consentire agli stessi studenti di seguire presso le Università romane corsi su specifiche materie attinenti ala formazione già acquisita presso le Università di provenienza. Laziodisu ha provveduto ad attuare l’iniziativa regionale. Gli studenti attraverso le borse regionali hanno avuto la possibilità di soggiornare a Roma e di frequentare, nel periodo ottobre-dicembre 2007, corsi di studio presso le Università romane di riferimento. a cura di Virna Anzellotti

Gianpiero Gamaleri

Abbiamo chiesto al prof. Gianpiero Gamaleri, SubCommissario di Adisu Roma Tre, un flash sulle ultime novità: • i posti letto per gli studenti nell’anno accademico 2008/2009 sono aumentati da 74 a 112 (bando unico dei concorsi per il diritto agli studi universitari nel Lazio). • dopo un primo contributo di 52.500 euro erogato all’Ufficio Studenti in situazione di disabilità dell’Università Roma Tre per il servizio di interpretariato della Lingua Italiana dei Segni (LIS), nei prossimi giorni verrà pubblicato un avviso diretto agli studenti universitari disabili di Roma Tre per la concessione di contributi in denaro a titolo di rimborso per le spese sostenute per l’acquisto di attrezzature specialistiche, materiale didattico, strumenti specifici. • sono stati avviati i lavori per la mensa nel campus della Facoltà di Lettere con la costruzione del muro di contenimento del terrapieno attiguo a Viale Marconi, ciò consentirà di liberare completamente l’area su cui verrà realizzato l’edificio. • il 25 novembre verrà pubblicata la graduatoria definitiva dei vincitori delle borse di studio. Lo scorso anno accademico sono state circa duemila per un importo medio di 2.300 Euro.

rubriche

Orme mediterranee Quando all’inizio di marzo ricevetti la telefonata della prof.ssa Maria Vittoria Tessitore, durante la quale mi presentò il progetto Orme Mediterranee e richiese la nostra collaborazione, mi sembrò subito un’iniziativa entusiasmante, un’occasione per Laziodisu di perseguire i propri scopi istituzionali anche al di là delle modalità più consuete e ricorrenti. Il progetto avrebbe consentito a sei studentesse laureate somale, provenienti da territori tormentati da conflitti, di frequentare in Italia il Master in Politiche dell’Incontro e Mediazione Culturale in Contesto Migratorio. Laziodisu doveva esserci! Doveva contribuire a che fosse assicurato quel diritto allo studio, all’istruzione che ne costituisce il suo fondamento. Istruzione che, in questa circostanza più che mai, veniva a costituire uno strumento per creare una classe di giovani donne in grado di intervenire a pieno titolo nella gestione politica e sociale dei propri paesi. Sono proprio le donne che, sempre più spesso, con determinazione e coraggio, cercano di curare società soffocate da tragedie che non consentono più di essere ignorate. Laziodisu ha dunque accolto questa richiesta non come semplice domanda di contributo economico ma come vera e propria sfida educativa per l’affermazione di un sistema democratico di più ampia portata. Sono stati erogati 5.000 euro quale contributo alle spese che saranno sostenute dalle studentesse per il loro alloggio a Roma nel periodo di frequenza del master e inoltre è stato accordato loro l’accesso alle mense di Via della Vasca Navale e di Via Libetta dove potranno consumare i pasti diurni e serali gratuitamente.

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Orme Post-esame 25 giugno 2008, 23.47. Dal blog di un neodiplomato il racconto a caldo alla fine degli esami di maturità di Giovanni Cerasani Ancora non realizzo. Oggi si è concluso il mio lungo itinerario scolastico, iniziato ben 13 anni fa, eppure, ancora non ho preso coscienza del valore che assume questo traguardo della mia vita. Sembrerà banale, ma ho l’impressione di aver superato solo ieri gli esami di terza media, nel cui periodo di preparazione, tra l’altro, credo fossi più agitato di quanto non lo sia stato in questi ultimi giorni, più esattamente in questa ultima settimana, ovvero dal momento in cui, esattamente sette giorni fa, mi venne detto che sarei stato il secondo del primo giorno. Ho cercato di mantenermi il più razionale possibile, nonostante si trattasse di un vero e proprio choc: avevo ancora ampie parti di programma di varie materie da ripassare, la mia tesina consisteva in un abbozzo di introduzione gentilmente concesso dalla mia ispirazione ballerina. Eviterò di ricorrere a viete metafore organiche per descrivere la mia situazione, quel che posso dire chiaramente è che mi trovai a dover abbandonare i miei progetti di studio, che prevedevano un inizio degli orali non prima del 30 giugno, per dare avvio a un vero e proprio tour de force, una settimana di «studio matto e disperatissimo», per dirla alla Giacomino. Del resto, chi mai avrebbe immaginato che dall’urna sarebbe stata estratta per prima la lettera «N» come sezione designata, e che l’apparizione dell’improbabile «Z» nel successivo sorteggio avrebbe strozzato il fiato a noi «C», fiduciosi che la nostra posizione ci avrebbe concesso un certo margine di sicurezza... Niente di tutto ciò. La prima cosa a cui ho pensato non è stata affatto benevola nei confronti del fato, ma poi i fin troppo oleati ingranaggi del mio cervello hanno partorito l’idea che non si trattasse di un evento totalmente negativo, in quanto avrei avuto meno tempo per angosciarmi. E così, conscio dell’immutabilità del sorteggio, non ho potuto far altro che tirarmi su le maniche, e darci dentro a scrivere come un forsennato davanti allo schermo, scavando solchi nel pavimento della mia stanza e, date le condizioni climatiche, soprattutto del terrazzo, studiando e ripetendo, conversando al telefono tanto con i miei colleghi quanto con i miei prof, i quali mi rassicuravano, dicendomi di stare tranquillo, di dormire tra due guanciali e un prosciutto. In realtà, prima di lunedì, era la terza prova a suscitare in me più timore, amplificata dagli incoraggiamenti di persone diplomate che non hanno avuto modo di sperimentare il “quizzone”. Lunedì, due giorni fa, fortunatamente non si è dimostrata necessaria la spericolata corsa verso l’ultimo banco all’apertura dei cancelli scolastici. Un pomeriggio di relax quasi totale, trascorso con Odissea nello Spazio, giusto per ricaricarmi le pile e prepararmi al rush finale. Ieri, ennesima mattinata passata ad emulare i peripatetici, cercando di non arrivare con troppi argomenti ancora da affrontare al pomeriggio, fase della giornata che

in questi ultimi giorni sta divenendo sempre più devastante. Serata passata con la persona che amo, che fino a poco prima dell’esame mi ha esortato, e che ora inizia a provare un certo timore, condito dal sale dei suoi occhi, in quanto a lei tocca tra due giorni. Stamattina, il mio orologio biologico ha anticipato di tre minuti la sveglia del cellulare fissata alle 5.30, per causa della quale si sta radicando in me un odio profondo nei confronti di Welcome to the Jungle. Barba, doccia, altri importanti minuti in terrazzo, prima di prendere il solito autobus. Gli ennesimi, ultimi minuti di studio nel parcheggio della scuola, prima di entrare nell’edificio e aspettare con una certa impazienza di salire su quel patibolo, da cui non vedevo l’ora di scendere, vivo morto o X. «Cerasani puoi venire». «Devo proprio?» Così è iniziato ufficialmente il colloquio del mio esame di maturità, in cui, quando possibile, ho cercato di inserire interventi utili a stemperare la tensione. Dopo italiano, latino, storia e filosofia, e prima di affrontare le tre lingue, ho preferito levarmi di torno matematica, consistente in un programma di cui non vedo un’utilità concreta nel mio futuro, dovendo anche affrontare un pizzico di alterigia da parte della commissaria esterna, che su una mia incertezza, è intervenuta così: «la sai fare una curva?». Insomma, ignorante sì, ma non idiota. Il colloquio è durato tre quarti d’ora, anche se non mi è sembrato. Nonostante sia finito però, come dicevo, ancora non mi rendo conto di ciò che è successo: insomma, ho dato il mio esame di maturità! Ho ben chiaro nella mia mente che questo sarà solo il primo di una lunga trafila di esami che si concluderà, se le cose andranno come mi prospetto, tra cinque anni, ma per ora preferisco dedicarmi ad un abbondante quanto meritato riposo, prima di dare inizio ufficialmente alla seconda fase della mia vita: l’età adulta!


Non tutti sanno che Le attività promosse dal Master in Didattica della Shoa a cura di David Meghnagi Molto prima che la giornata della memoria fosse introdotta per legge, sono stati regolarmente tenuti a Roma Tre seminari e incontri di ricerca sulla tragedia della Shoah. Da queste importanti esperienze di ricerca e di studio hanno preso avvio l’istituzione del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah, la costituzione del Colloquium Tra Occidente e Oriente e la creazione di un centro di ricerca sulla musica concentrazionaria. Tra i docenti coinvolti nelle attività del Master, ormai giunto al quarto anno, vanno ricordati il prof. Reuven Feuerstein che ha fatto le sue prime esperienze di riabilitazione con bambini sopravvissuti alla tragedia dello sterminio, gli scrittori Abraham B. Yehoshua, Amos Oz e Meir Shalev, ripetutamente ospiti di Roma Tre; il prof. Eugen Schoenfeld e il prof. Wolfgang Benz autorevoli esponenti della ricerca negli Stati Uniti e in Germania. Scopo del Colloquium è la creazione a Roma Tre di un centro di eccellenza di studi interdisciplinari per la lotta al pregiudizio e lo sviluppo della cooperazione e del dialogo interculturale fra le due sponde del Mediterraneo.

Il progetto per la costituzione del centro di ricerca sulla musica dei campi è stato avviato in collaborazione con l’Assessorato alla cultura della Regione Lazio, è stato condotto sui materiali disponibili presso lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, il Memorial di Terezìn, la Hebrew University di Gerusalemme, il Goetheanum di Stuttgart, le Biblioteche Nazionali di Vienna, Parigi e Praga, la Kunst-Akademie di Berlino. Il progetto è in continuo aggiornamento circa il materiale raccolto nonché la realizzazione di apposite schede biobibliografiche sugli autori, spartiti pubblicati e inediti, partiture lacunose con o senza protesi di completamento o ricostruzione e altro. Il materiale raccolto e catalogato è attualmente consultabile presso la sede del Dipartimento in Via Manin 53, Roma 00185. Chi fosse interessato può contattarmi scrivendomi direttamente: Prof. David Meghnagi, Cattedra di psicologia clinica, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi Roma Tre; e-mail: meghnagi@uniroma3.it; tel. 06.4743669.

Master in Gestione e risoluzione dei conflitti a cura di Anna Maria Formicola

La Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre organizza nell’a.a. 2008/2009 la terza edizione del master di II livello in Gestione e risoluzione dei conflitti. Quadro giuridico, teorie relazionali e tecniche di risoluzione alternativa delle controversie (A.D.R.). Il master si propone di fornire un’opportunità di alta formazione post laurea finalizzata all’acquisizione di competenze giuridiche e capacità professionali nella gestione delle diverse tipologie di conflitto sia nell’ambito della macro-interculturalità (fra comunità sociali, religiose etc.), sia della micro-interculturalità (fra individui o in contesti relativamente piccoli come la famiglia, la scuola etc.) secondo le più innovative tecniche A.D.R - Alternative Dispute Resolution. Il master ha durata annuale ed è articolato in semestri, con un impegno di 1500 ore di lavoro complessive tra lezioni, lavori di gruppo, tirocinio e studio individuale. La tassa d’iscrizione è di 3000 euro da versare in due rate. La domanda di ammissione va inviata entro e non oltre il 15 novembre 2008 al seguente indirizzo: Segreteria del master in Gestione e risoluzione dei conflitti - Università degli Studi Roma Tre - Facoltà di Giurisprudenza - Dipartimento di diritto europeo nella dimen-

sione nazionale, europea, internazionale - Via Ostiense, 161 - 00154 Roma. Per maggiori informazioni: www.giur.uniroma3.it (sezione master 2008/2009); responsabile organizzativo: dott. Anna Maria Formicola, e-mail:amformicola@uniroma3.it; segreteria didattica: tel. 0657332535 (lunedì e martedì 9.0012.00; giovedì 15.00-18.00); e-mail: master.adr@uniroma3.it.

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Machinations Il percorso umano attraverso i suoni

recensioni

di Michela Monferrini Nell’ambito della terza edizione (intitolata Saturazioni) di ArteScienza, biennale internazionale organizzata dal CRM (Centro Ricerche Musicali), e dedicata all’arte e alle applicazioni scientifiche rivolte alla creatività e all’espressione umana, l’8 giugno scorso il Teatro Palladium ha ospitato la prima italiana di Machinations - Spettacolo multimediale per quattro donne e computer diretto da Georges Aperghis e scritto dallo stesso regista, in collaborazione con François Regnault L’opera, prodotta dall’IRCAM (Istituto di riImmagine dello spettacolo Machination cerca e coordinamento acustica/musica) mera le riprende e le proietta alle spalle delle donne: Parigi per il festival Suonafrancese, intende rappreognuna di loro è infatti associata ad un grande schermo. sentare il percorso dell’esistenza umana avvalendosi Quel che la materia, così trasformata, vuol rappresendi emissione di suoni (si va, dunque, dai primi fonemi tare, secondo l’idea del regista (idea di non immediata primitivi alla nascita del linguaggio) e proiezione di comprensione), è la concretizzazione dei fonemi: le immagini, con un procedimento che spesso però, riquattro, infatti, accompagnano le loro opere in divenisulta di difficile comprensione, ma che ameranno gli re con un linguaggio fatto di “pezzi di parole” (pochisamanti delle forme teatrali più innovative. sime sono le parole di senso compiuto pronunciate duQuattro donne (sono le francesi Sylvie Levesque, Dorante lo spettacolo), ma anche balbuzie, affanni, spanatienne Michel-Dansac, Sylvie Sacoun, Geneviève smi: questi ultimi atti a rendere le difficoltà che ogni Strosser) sono sedute ognuna davanti a un tavolo, illulinguaggio, nel suo processo di evoluzione, incontra. minato come i loro volti e le loro mani (ma nient’altro, i A complicare le cose e ad attualizzarle, un uomo che, corpi restano al buio, quasi se ne dichiarasse l’inutilità). seduto lateralmente alle quattro donne, manipola le Le quattro donne hanno a disposizione sul tavolo oggetloro voci e gestisce le immagini che le telecamere sui ti e materie essenziali (sabbia, sassetti, bastoncini, cototavoli gli inviano, attraverso l’utilizzo di un compune, fogli di carta, erba) che attraverso le proprie dita ter: è la rappresentazione della “macchina”, l’essere possono manipolare, creando forme più o meno suggecontemporaneo capace di esprimersi e di rivaleggiare stive e ripercorrendo anche in questo caso il percorso con gli uomini sin nelle loro caratteristiche più innadegli oggetti che ha accompagnato l’uomo nel suo evolte, quali, appunto, quelle comunicative. versi. Mentre le mani plasmano la materia, una teleca-

Evolving Italian Design Interazione e tecnologia al servizio della conoscenza di Marco Angelino Era l’anno 2003 quando fu presentato Second Life, l’ormai noto ambiente virtuale tridimensionale multiutente on-line ideato dalla software house americana Linden Research Inc. Nato come gioco, è divenuto nel tempo strumento di contatto tra ‘residenti’ di ogni dove, grazie alla sua capacità di saper riprodurre ambienti tanto reali quanto fantasiosi, ripercorsi e vissuti attraverso un avatar – raffigurazione grafica dell’utente – creato e svilup-

pato a propria immagine e somiglianza o, se volete, per legittima soddisfazione del proprio ego. Il modo migliore per uscire dalla propria vita ed entrare in quella di un altro, si pensò inizialmente. Già, perché nessuno avrebbe mai pensato di vedere applicato lo stesso ambiente virtuale ad un mondo mai tanto reale e pragmatico come quello dello studio e della didattica. A distanza di cinque anni, è infatti questo l’ambizioso


progetto del corso di Allestimento della Facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre – con la collaborazione del Dipartimento di Progettazione e studio dell’Architettura (DIPSA) e la Biblioteca di area delle arti – che si propone di illustrare come il patrimonio dell’architettura, del design e dell’arte italiana, sia in fase di sviluppo grazie all’impiego delle nuove tecnologie. Così, sfruttando l’ambiente Second Life, il gruppo di lavoro Design&Sinergie coordinato da Paolo Martegani, docente di Allestimento, ha allestito una mostra dal titolo Evolving Italian Design, per ripercorrere in una nuova veste l’eccellenza del marchio Made in Italy. L’esposizione è suddivisa in sei ambiti ciascuno caratterizzato da un codice colore: exhibit, interior, product, lighting, cyber e digital design. Tutto visitabile al 7° livello del Palazzo della civiltà italiana (per i più pratici, coordinate 82, 228, 90), nel land Experience Italy, anticipazione virtuale dell’Esposizione permanente dell’eccellenza Made in Italy, la cui costruzione si deve alla Fondazione Italia Valori (per conto del Ministero dello sviluppo economico) per la diffusione e la promozione della cultura italiana nel mondo. Obiettivo primario dell’iniziativa è senza dubbio quello di accrescere gli strumenti didattici a disposizione degli studenti, sfruttando i notevoli benefici derivanti dal mix architettura-tecnologia. Dalla possibilità di riprodurre, creare e sperimentare spazi, alla formazione a distanza; senza dimenticare la possibilità di verificare idee e progetti, per comunicare e condividere esperienze attraverso la proiezione di video e immagini. Come dire, interazione e tecnologia al servizio della conoscenza, navigando lungo il confine sottile tra gioco e didattica. Tuttavia, non mancano le difficoltà applicative, in particolare per il coinvolgimento degli studenti, il cui interesse, almeno inizialmente, è apparso un po’ freddino. Carenze strutturali da un lato e scarsa disponi-

Immagini del progetto in Second life

bilità delle opportune tecnologie dall’altro, hanno apparentemente placato gli entusiasmi. Il DIPSA ha così predisposto presso i propri locali un collegamento diretto che consenta l’approfondimento e la verifica della progettazione in ambiente virtuale (inoltre, un video divulgativo del progetto è disponibile all’indirizzo web http://host.uniroma3.it/progetti/design). Nel mentre, molti si chiedono se e fino a che punto debba essere l’Università a fornire gli strumenti e le strutture necessarie per sperimentare e ricercare mezzi, anche innovativi, di diffusione della conoscenza. Come se le parole ricerca e sperimentazione non fossero il pane quotidiano degli ambienti accademici, tra difficoltà strutturali e dubbi di natura etica. Difficile schierarsi. E altrettanto difficile capire quale sia il reale confine d’intervento. Intanto, però, qualcosa si muove. Infatti, sempre in ambiente Second Life, è stata stipulata recentemente una convenzione su base quinquennale tra l’Università Roma Tre e l’Università telematica internazionale Uninettuno, per la sperimentazione di nuovi linguaggi e metodi di apprendimento, quasi si voglia fornire all’Università una “seconda vita” o, quantomeno, una più o meno reale opportunità di crescita.

Per saperne di più Per tutti coloro che fossero interessati ad avvicinarsi al mondo Second Life o volessero scambiare le proprie esperienze con altri ‘residenti’, il Prof. Paolo Martegani sarà lieto di confrontarsi: martegan@uniroma3.it. Inoltre Second Life Magazine: www.2litaliaworld.it; Experience Italy: http://www.experienceitaly.it; Fondazione Valore Italia: http://www.valore-italia.it/IT

Lotta alla povertà Quale ruolo per le cooperative? di Sara Vicari Il 3 giugno scorso, presso la sede della Legacoop Nazionale, si è tenuta la presentazione del report Imprese cooperative e lotta alla povertà nei Paesi in via di sviluppo. Il contributo di Legacoop, frutto della collaborazione del Dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre (Pasquale De Muro e Sara Vicari) e dell’Ufficio relazioni internazionali di Legacoop e

con il sostegno del Master in Economia e gestione delle imprese cooperative. Il seminario è stato una occasione per rendere più visibile l’impegno delle cooperative associate Legacoop nella cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale, ma anche per dibattere con un panel esperto del settore su quale possa essere la specificità

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delle imprese cooperative nella lotta alla povertà. Dalla ricerca emerge come tutti i settori siano impegnati in attività di cooperazione allo sviluppo e/o solidarietà internazionale. Tale impegno si inserisce in una modalità di azione decentralizzata del sistema Legacoop, in cui ogni cooperativa valorizza il knowhow specifico del settore di appartenenza all’interno del singolo progetto. La ricerca ha evidenziato anche un altro elemento molto interessante e cioè che più della metà delle cooperative intervistate è impegnata in progetti di cooperazione allo sviluppo, ovvero progetti in cui l’impresa cooperativa non è un mero donor, ma è coinvolta in un rapporto di partenariato con le comunità locali nei Paesi in via di sviluppo, un rapporto quindi che guarda oltre il singolo progetto e prevede una interessante condivisione di valori e principi, oltre che di opportunità economiche. Proprio questo impegno nella cooperazione allo sviluppo ha stimolato un dibattito significativo con gli invitati alla tavola rotonda: Marco Claudio Vozzi (Direzione generale cooperazione allo sviluppo, Ministero degli affari esteri), Marina Ponti (direttore Europa Campagna End Poverty 2015, O.N.U.), Philip Mikos (capo unità Direzione generale Sviluppo e rapporti paesi ACP, Commissione europea), Dora Iacobelli (direttore Area capitale di rischio Coopfond e coordinatrice del Master in Economia e gestione delle imprese cooperative, Università Roma Tre), Giuliano Poletti (presidente Legacoop) e Ivano Barberini (presidente Alleanza cooperativa internazionale). La discussione si articolata intorno ad un interrogativo fondamentale: esiste un ruolo peculiare delle imprese cooperative nella riduzione della povertà nei Paesi in via sviluppo? Certamente il valore della solidarietà appartiene al patrimonio genetico del movimento cooperativo. Inoltre il loro essere impresa e saper operare con efficienza nel mercato consente di sostenere efficacemente proprio l’imprenditorialità locale e la promo-

zione del cooperativismo dando luogo a forme di sviluppo sostenibile nel tempo, non assistenzialiste. Ancor di più, l’impresa cooperativa, quale forma di impresa democratica e direttamente gestita dai soci, dimostra di essere uno strumento cruciale per l’empowerment e l’aumento della qualità di vita della popolazione dei Paesi in via di sviluppo e acquista ancora più valore in un modello di sviluppo centrato sulle persone. Le esperienze dirette ci rivelano come il partenariato tra cooperative dei paesi del Nord e del Sud del mondo abbia dato vita a forme di sviluppo reciproco, vantaggiose per entrambi i partner, sia sotto il profilo economico che umano, e cruciali per il rafforzamento del movimento cooperativo a livello internazionale. Come sostiene il premio Nobel Amartya Sen: «La ricca esperienza dei movimenti cooperativi ha tanto da offrire a un mondo che va oltre le sole relazioni di produzione e commercio e copre il tema basilare dei rapporti tra gli esseri umani di tutto il globo. Non si tratta tanto di estendere l’aiuto internazionale o l’assistenza economica, quanto piuttosto di riconoscere l’interdipendenza fondamentale dei popoli attraverso e al di là dei confini nazionali. E si tratta, infine, di riflettere in modo chiaro, realistico e fattivo sulle relazioni tra individui e istituzioni. Il futuro del mondo può dipendere da questo».

Tenda multireligiosa a Roma Tre Un progetto sperimentale promosso dalla Facoltà di Architettura di Caterina Padoa Schioppa e Stefan Pollak «Per due mesi abbiamo fatto i cartoneri nei supermercati della città. È così che abbiamo raccolto il cartone con cui abbiamo realizzato la copertura alveolare». Con la sola forza delle proprie mani e della creatività, cinque studenti della Facoltà di Architettura, insieme con chi scrive, lo scorso luglio hanno messo in opera una piccola struttura multireligiosa temporanea nel giardino della Vasca Navale. Una tenda sospesa, un tessuto alveolare, interamente fatto di cartoni rici-

clati, sotto la cui ombra si è riunito un gruppo di circa settanta persone - studenti, professori, ma anche abitanti del quartiere e soprattutto rappresentanti di diverse comunità religiose della città - per inaugurare lo spazio, che per una settimana ha accolto eventi e momenti di meditazione collettiva e individuale. Le parole del Rettore, che hanno aperto l’inaugurazione della tenda multireligiosa con il simbolico taglio del nastro, esprimono tutto il senso di questo esperimento: la voglia dell’università di farsi porta-


voce di forme nuove di dialogo, di cui l’architettura, ancorché provvisoria, si può considerare una delle espressioni più compiute. Nella storia dell’uomo i luoghi sacri sono in fondo luoghi d’incontro, di scambio e di crescita della comunità, dove coltivare il senso di appartenenza e di accoglienza. La comunità laica, multireligiosa, che istituzioni come l’università difendono e rappresentano, vive la propria dimensione spirituale in luoghi condivisi, avvalorando l’idea che la tolleranza si manifesti anche attraverso l’alternanza e la diversità dell’uso di uno spazio adattabile. Riti del costruire è il titolo del workshop didattico- Inaugurazione della tenda multireligiosa sperimentale promosso dal Dipartimento di progettazione e studio dell’architettura, proprio a voler zione. La sua forma ricorda, come qualcuno ha detsottolineare il valore simbolico che il “costruire insieto, le tende del deserto. me” assume nella creazione di un luogo sacro. E di riE come le tende, che esposte alle intemperie si conto si è trattato nel lungo processo di raccolta, di manisumano, la nostra struttura di cartone, traduce in terpolazione e di assemblaggio del materiale, raccolto mini fisici quello che Giovanni Franzoni (spiegare nei supermercati di Roma. Un progetto cominciato in chi è?), presente alla cerimonia di inaugurazione, denovembre scorso, che aveva come grande e stimolanfinisce l’espressione del divino nel mondo degli uote sfida quella di proporre un modello che ha pochi mini: il passaggio, con un inizio e una fine. E così è precedenti nella storia dell’architettura (La cappella stato: una settimana la sua durata, ad imitare quello multiconfessionale del MIT a Boston ne è un raro e che succede in molte culture, in cui l’architettura reprezioso esempio). ligiosa non è espressione della firmitas vitruviana, Alternando l’uso di strumenti digitali e di plastici di ma è piuttosto espressione del transitorio. “Adibire” studio, si è andato raffinando un prototipo, il cui uno spazio al culto, per il tempo del rito, è spesso il principio strutturale è proprio quello della tolleranrisultato di un’emarginazione sociale ma anche prova za - sfruttando le proprietà deformanti del cartone di un’elevata creatività, che solo la necessità di adatche è materiale solido ma non rigido - e quello della tarsi può generare. collaborazione - affidando la stabilità complessiva Così per noi è stato il convertire il vincolo delle ridella struttura all’interazione e alla reciproca dipensorse limitate (un budget di poche migliaia di euro), denza tra piccoli elementi - come le cellule di un siin un fattore trainante di processi creativi e di speristema. Ne è emersa una struttura organica, articolamentazioni formali, convinti anche che il richiamo ta, complessa (sono più di duemila triangoli); al “laico” ai temi ambientali non solo come responsabitempo stesso aperta, bucata verso il cielo e avvollità globale ma anche come ambizione etica indivigente, che contempera il senso di libertà e di proteduale, sia un’aggiunta di valore.

Gomorra visto da Daphne Letizia Storie di sodoma e camorra, nel Bel Paese. Quattro racconti paralleli: due giovani che cercano di formare la propria banda per diventare i re del quartiere; un ragazzino che entra a far parte di una delle due bande in lotta per la supremazia; un sarto che insegna segretamente ai cinesi l’arte della cucitura; un manager della truffa, che si occupa dello smaltimento dei rifiuti. Tutti uniti dal desiderio di affermarsi “a modo loro” in un lotta per il predominio, che è allo stesso tempo lotta per la sopravvivenza. Un film girato bene, con belle musiche napoletane (sconosciute) e attori bravi, in cui sono ricostruiti puntualmente fatti di cronaca nera. Garrone ha trasposto quasi fedelmente il libro di Saviano, grazie al quale l’Italia ha preso coscienza del fatto che la Camorra fa più morti della Mafia, ma senza la stessa risonanza nazionale. L’unico appunto al film è che forse è un po’ troppo documentario, manca l’approfondimento delle motivazioni, dei sogni, dei pensieri dei protagonisti, che rimangono fatti di cronaca.

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Il grande malato L’Opera di Roma nel panorama culturale della città di Valerio Vicari

Recentemente si è riaperto il dibattito intorno alla situazione di progressivo declino che da anni vive il principale teatro lirico della capitale. Durante la conferenza stampa di presentazione della stagione estiva alle Terme di Caracalla, il sindaco Gianni Alemanno ha dichiarato che finora gli sforzi fatti dal Comune per sostenere l’Opera sono stati pochi, paragonati a quelli fatti per far crescere l’Auditorium. Per questo Alemanno ha promesso di impegnarsi nel prossimo futuro per trovare nuovi finanziamenti per il Teatro, sia pubblici che privati. Questo intento è importante, tuttavia appare fuorviante ridurre l’attuale situazione di debolezza del Teatro a un mero Teatro dell’Opera, Roma problema di scarsezza delle risorse economiche. Metropolitan di New York vengono offerti circa Già oggi il Teatro dell’Opera di Roma è l’ente lirico trenta diversi titoli all’anno, lo stesso al Covent che riceve a livello statale l’ammontare maggiore di Garden di Londra o all’Opèra di Parigi, e si tratta in finanziamenti, superato solo dal Teatro alla Scala di tutti i casi di spettacoli di altissimo pregio artistico. Milano. Raggiunta la stabilità finanziaria, la rinascita artistiL’Opera di Roma negli ultimi anni ha superato un ca potrà pertanto passare solo attraverso una prolungo periodo di malaccorta gestione delle risorse fonda riflessione che tocchi tutti i settori nevralgici finanziarie che aveva segnato la vita del Teatro per del Teatro: il riferimento è innanzitutto agli aspetti parecchi decenni (si ricordi che alla fine degli anni artistici, ma certamente più in generale anche a Novanta il Teatro era considerato uno dei “grandi quelli organizzativi e logistici. Prendiamo esempio malati” delle amministrazioni pubbliche, una sorta dal mondo del low cost, nell’ambito della vendita di Alitalia, per fare un paragone con l’attualità). dei biglietti, ma non solo. Anche le spese per scenoOggi la situazione è cambiata: lo stato finanziario grafie e costumi dovrebbero essere ispirate a criteri dell’Opera non rappresenta più un problema, e di di efficienza, evitando ad esempio l’utilizzo di maquesto bisogna rendere merito al lavoro di risanateriali di particolare pregio che fanno lievitare enormento accorto ed efficace del sovrintendente Ernamemente i costi delle produzioni senza per questo ni. garantire un altrettanto significativo incremento di Purtroppo gli stessi risultati non sono stati raggiunti soddisfazione nel pubblico rispetto ad altri meno sul piano artistico. costosi. La recente collaborazione fra l’Opera e il maestro È giunto il momento di far nascere un vero e proMuti (che dirigerà l’Otello di Verdi nel dicembre prio modello di teatro low cost. Su questo dovranno 2008) è un fatto certamente positivo, ma che ad ogconcentrarsi gli sforzi dei prossimi anni. Gli evengi non basta a risollevarne le sorti complessive. tuali maggiori contributi finanziari che arriveranno Consideriamo l’attuale stagione lirica 2008: è incarsaranno utili solo nella misura in cui si inseriranno dinata su due o tre allestimenti significativi, più una in questo nuovo corso di gestione. Altrimenti serviserie di spettacoli ripresi dagli anni precedenti, molranno forse a produrre uno o due spettacoli in più, to spesso con gli stessi direttori d’orchestra delle ma non basteranno di per sé a far compiere all’istiedizioni passate. Si tratta di un’offerta assolutamentuzione quella vera e propria rivoluzione copernicate insufficiente, del tutto imparagonabile a quella di na di cui essa invece ha bisogno. uno qualunque dei principali teatri lirici esteri. Al


«Kakar era uno dei nostri bersagli e siamo riusciti ad eliminarla». Yusuf Ahmadi, portavoce dei talebani a France Presse. «È stata presa di mira da uomini armati, questa mattina mentre si apprestava ad andare a lavoro in macchina. È morta sul colpo». Zalmay Ayubi, portavoce del Governatore di Kandahar. «Era una donna molto coraggiosa. Era stata la prima donna ad essere reclutata in polizia dopo la caduta dei talebani. Era molto rispettata a Kandahar, non girava mai senza armi ed era sempre accompagnata da un uomo della sua famiglia». Un collega di Malalai Kakar. «Resterà un esempio di coraggio per tutte le donne che in divisa combattono per la libertà e la giustizia nel mondo». Elisabetta Riccio, delegata per le pari opportunità dell’organizzazione sindacale italiana nell’ambito della Confederazione dei sindacati di polizia europei. «È ripugnante l’uccisione di una donna che prestava servizio non solo al proprio paese ma a tutte le afghane per le quali rappresentava un esempio». Ettore Sequi, rappresentante speciale della UE per l’Afghanistan. «I talebani usano la violenza per opporsi ai progressi che stanno compiendo le donne per prendere pienamente il proprio posto nella società afghana. I nostri pensieri sono con la famiglia e gli amici di questa coraggiosa poliziotta che è morta servendo il suo paese». Jaap de Hoop Scheffer, segretario generale della Nato. Malalai Kakar, madre di sei figli, capitano, l’ufficiale donna più alto in grado della polizia afghana, a capo del Dipartimento crimini contro le donne di Kandahar, è stata assassinata lo scorso 28 settembre. Esperta di crimini contro le donne, era uno dei simboli del tentativo di rinascita del paese e un esempio del riscatto femminile nella città che fu la culla del movimento degli “studenti” fondamentalisti talebani. Il nome che portava, Malalai, è molto popolare in Afghanistan. È il nome dell’eroina che, impugnando il proprio velo come un’arma, guidò nel 1880 la riscossa contro i colonialisti britannici nella battaglia di Maiwand, proprio nel deserto di Kandahar. Il padre, un ufficiale di polizia, aveva voluto darle proprio questo nome e l’aveva spinta negli anni Ottanta, giovanissima, ad arruolarsi in polizia, come i suoi fratelli maschi. Nel 1996, con l’avvento del regime dei talebani che vietava alle donne di lavorare, si era rifugiata in Pakistan. Nel 2001, rientrata nel proprio paese, si arruolò nella nuova polizia afghana. È stata una poliziotta con il burqa e la pistola, come la ritraggono alcune immagini. Perché, soprattutto nel sud del paese, il burqa, come le discriminazioni e le violenze nei confronti delle donne, continuavano e continuano a persistere. Due anni fa però il burqa aveva rinunciato a portarlo.

Aveva più volte ricevuto minacce di morte ed era già scampata ad altri attentati, ma era sempre rimasta al proprio posto. È stata uccisa in un agguato, di fronte alla sua abitazione mentre stava uscendo in macchina per recarsi a lavoro, accompagnata dal figlio che è rimasto gravemente ferito. Le hanno sparato alla testa. Malalai Kakar era, come l’eroina afghana del XIX secolo, una combattente. Nelle interviste raccontava senza esitazione della sua partecipazione a scontri armati con i talebani. Più volte aveva preso parte a operazioni di sequestro di armi e di droga, nella zona di Kandahar. Il suo nome era spesso venuto alla ribalta delle cronache, anche internazionali. I giornali che riportano la notizia del suo assassinio ricordano di quella volta in cui aveva ferito a morte i tre killer inviati ad ucciderla. Il suo omicidio è avvenuto al culmine di un’escalation di violenza scoppiata all’inizio dell’anno in tutto il paese e al confine con il Pakistan. Un’altra donna poliziotto era già stata uccisa nel giugno scorso e anche la precedente responsabile del Dipartimento crimini contro le donne di Kandahar era stata assassinata due anni fa. Le forze di polizia in Afghanistan contano circa 82.000 poliziotti. Solo poche centinaia sono donne. «I crimini contro le donne sono reati sui quali i miei colleghi maschi non vogliono investigare. Ricordo di quella volta in cui scoprii una donna e sua figlia incatenate ad un letto. La donna era vedova e i famigliari l’avevano passata in moglie al cognato che l’aveva legata al letto per dieci giorni, a pane e acqua. Ho liberato molte donne dalla schiavitù dei loro uomini e questo mi è valso una certa notorietà fra le donne, che mi amano e mi fanno sentire forte contro le minacce di morte». Malalai Kakar.

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