Roma Tre News 1/2016

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Periodico di Ateneo

Anno XVIII, n. 1 - 2016

Chi cambierĂ il mondo?


Sommario

Editoriale Per un'infanzia senza confini Anna Lisa Tota

Primo piano Infanzia in gioco Il fondamentale ruolo del gioco nello sviluppo dei bambini Lucia Chiappetta Cajola Il bambino adulto e l’adulto bambino Il post narcisismo dei tempi moderni: il travalicamento dei confini Marina D’Amato

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«Sono ancora un bambino» Viaggio e approdo dei minori-migranti-soli nel Mediterraneo Carmelina Chiara Canta

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Cooperare per includere Promuovere la cooperazione tra i bambini Susanna Pallini, Paola Perucchini, Giovanni Maria Vecchio

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C’era una volta… Un progetto per i bambini immigrati e le loro famiglie Anna Aluffi Pentini

La relazione con le famiglie I servizi educativi 0-3 anni come primo luogo di mediazione interculturale Maura Di Giacinto

Nuovi approdi a Lampedusa Promuovere l’inclusione crescendo piccoli lettori Elena Zizioli

Libro delle mie brame La lettura come imprescindibile strumento di educazione Lorenzo Cantatore

Una svolta nella storia dell’educazione Quando i fanciulli frenastenici uscirono dalle strutture manicomiali Fabio Bocci

Children with disabilities improvising together Collective musical identities in Japan Trever Hagen

Un emblematico silenzio La scoperta dell’infanzia nella ricerca storiografica Francesca Borruso

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L’infanzia Chiara Giaccardi

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Disegnare luoghi per crescere Il progetto dei servizi per l'infanzia come laboratorio tra pedagogia e architettura Giovanni Fumagalli

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Asili nido nel XXI secolo Per costruire il futuro delle donne e degli uomini che verranno Paola Gallo

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«Il piccino dell’eroe» La scoperta del fanciullo nella letteratura greca Adele Teresa Cozzoli

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Percorsi di crescita fuori e dentro lo schermo Idee e riflessioni per una didattica del cinema Francesca Gisotti

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Asili Gli edifici per l’educazione dell’infanzia come presidi per un’architettura responsabile Roberta Lucente

Lunga vita alle ninna nanne Sogni d’oro (tra ninnoli, nenie e neuroni) Giovanni Guanti

I bambini ci guardano L’infanzia nel cinema del secondo dopoguerra Stefania Parigi

Incontri Paolo Naso. Corridoi umanitari: la buona strada Federica Martellini Anna Pollio. Unlearning, un invito gentile alla disobbedienza Alessandra Ciarletti

Rubriche Audiocronache Il mondo visto da Roma Tre Radio Sabrina Fasanella

Palladium Quante volte per finta sanguinerà Cesare. La Roma di Shakespeare al Teatro Palladium Alessandra De Luca

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Gli uomini mangiano i pesci. Intervista ad Anna Vinci Barbara Bartoli Recensioni Keywan Karimi Libertà negata, sentenza iraniana, sostegno internazionale Costanza Saccarelli

Boyhood Il cammino silenzioso del tempo nel viaggio di un bambino verso l’età adulta Giulia Pietralunga Cosentino

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XVIII, numero 1/2016

Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it

Redazione Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia Pietralunga Cosentino, Francesca Simeoni

Hanno collaborato a questo numero Anna Aluffi Pentini (professore associato di Pedagogia sociale e interculturale); Fabio Bocci (professore associato di Pedagogia e didattica speciale); Barbara Bartoli (Amnesty International); Francesca Borruso (ricercatrice di Storia della pedagogia); Lucia Chiappetta Cajola (direttore del Dipartimento di Scienze della formazione); Carmelina Chiara Canta (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi); Lorenzo Cantatore (professore associato di Letteratura per l’infanzia); Adele Teresa Cozzoli (professore associato di Lingua e letteratura greca); Marina D’Amato (professore ordinario di Sociologia generale e professore di Sociologia dell'educazione e dell'infanzia); Alessandra De Luca (attrice - studentessa del CdL in DAMS - Teatro, musica, danza); Maura Di Giacinto (Phd ricercatrice - docente di Educazione e storia sociale nelle relazioni interculturali); Sabrina Fasanella (studentessa CdL in DAMS - Teatro, musica, danza - speaker di Roma Tre Radio); Giovanni Fumagalli (architetto); Paola Gallo (professore associato di Fisica della materia condensata teorica presidente del Comitato unico di garanzia); Chiara Giaccardi (professore ordinario di Sociologia dei processi culturali - Università cattolica di Milano); Giovanni Guanti (professore associato di Musicologia e Storia della musica); Trever Hagen (PhD - University of Exeter); Andrea Iacomini (portavoce UNICEF Italia); Roberta Lucente (ricercatore confermato e docente di Composizione architettonica e urbana - Università della Calabria); Susanna Pallini (professore associato di Psicologia dello sviluppo e dell'educazione); Stefania Parigi (professore ordinario di Cinema, fotografia e televisione); Paola Perucchini (professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e dell'educazione); Costanza Saccarelli (attivista per i diritti umani); Giovanni Maria Vecchio (ricercatore in Psicologia dello sviluppo e dell'educazione); Elena Zizioli (ricercatrice di Pedagogia generale e sociale e docente di Letteratura per l’infanzia)

Immagini e foto Area benessere organizzativo - Università degli Studi Roma Tre, Archivio FDLM, Archivio storico della Provincia di Bologna, Rossella Biagi, Lorenzo Burlando© (per gentile concessione di “Schermi e lavagne”, Dipartimento educativo della Cineteca di Bologna), Casa delle culture - progetto Mediterranean Hope / FCEI (per gentile concessione), Antonella De Angelis, Daniela De Angelis©, Dipartimento di Scienze della Formazione, Tiziana Gavarini, Keywan Karimi (per gentile concessione), Mohammed Keita / Editore Albeggi, The Oto-asobi Project (http://otoasobi.main.jp/), Palazzo delle Esposizioni - Servizi educativi (per gentile concessione), Francesco Piobbichi©, Marco Rota©, Marco Vincenzi, www.unlearning.it

Bia Simonassi (issuu.com/treebookgallery/docs) ha realizzato il mind map pubblicato alle pp. 46-47

Progetto grafico Magda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma - 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico www.tommasoderrico.com Impaginazione e stampa Tipografia Revelox srl - Viale Charles Lenormant 112 - 00119 Roma

In copertina Foto di Monica Spezia © Fine lavorazione luglio 2016 ISSN: 2279-9206

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


Š/¡DGXOWR SDVVD DFFDQWR D TXHVWR mistico amore senza riconoscerlo: ma badate, quel piccino che vi ama crescerà e scomparirà . Chi vi amerà come lui? Chi vi chiamerà andando a letto, dicendo DIIHWWXRVDPHQWH ´6WDL TXL FRQ PH¾ DQ]LFKp FRQ LQGLIIHUHQ]D ´%XRQDQRWWH¾" Chi desidererà altrettanto ardentemente starci vicino mentre mangiamo, soltanto per guardarci? Noi ci difendiamo da

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in Maria Montessori, ,O VHJUHWR GHOO¡LQIDQ]LD


Per un’infanzia senza confini Anna Lisa Tota

«Arieggiare l’appartamento con uno sciame di bambini, che lo percorrono per un intero pomeriggio in lungo e in largo». Peter Handke

«Quanto pesa una lacrima? Dipende: la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra». Gianni Rodari È strano come le associazioni di terAnna Lisa Tota mini e concetti si trasformino seguendo percorsi inimmaginabili. Se qualche anno fa ci fosse stato chiesto di associare una parola al termine “bambino”, nessuno di noi avrebbe immaginato di rispondere: “Lampedusa”. Eppure oggi ci può capitare. La condizione dell’infanzia è segnata per molti, troppi bambini dalla condizione migrante secondo modalità che rasentano la barbarie. Come rammenta Chiara Giaccardi, citando Dietrich Bonhoeffer se «il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini», abbiamo ben poco di cui rallegrarci. Eppure almeno sul piano formale chiunque, in molti paesi del mondo occidentale, sarebbe concorde nel considerare l’infanzia come una fase della vita fondamentale che richiede e merita cura e protezione. Sul piano giuridico e legislativo l’infanzia è tutelata, i diritti sono riconosciuti. Anche sul piano morale siamo pronti a difendere l’infanzia strenuamente, ma sul piano politico qualcosa sembra “andare storto”… soprattutto se i bambini e le bambine di cui parliamo non sono proprio i nostri e le nostre, ma quelli dei nostri vicini di casa, quelli che abitano al di là del mare - quello Mediterraneo per intenderci - un mare che da molti anni riempie suo malgrado le cronache dei nostri quotidiani. Il concetto di infanzia migrante si scontra con quello di “confini da proteggere”. Le campagne politiche che i partiti nazionalisti di alcuni paesi europei hanno portato avanti contro l’immigrazione prevedevano cliques ben collaudati: con gli stranieri “pecore nere” che ci “rubano” il lavoro, la ricchezza, la possibilità di una pacifica convivenza. Come dimenticare la campagna promossa nella pacifica e

democratica Svizzera “Pour plus de sécurité – Ma maison notre Suisse” promossa dal partito dell’UDC in cui le pecore bianche scacciavano - nemmeno tanto simbolicamente - a pedate dal territorio nazionale (rappresentato iconicamente della bandiera svizzera) la pecora nera simbolo dell’immigrazione.

«Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano»

Tuttavia quando a migrare sono i bambini e le bambine, tutti i cliques si sgretolano. Come facciamo a rifiutarci, a fingere che questi non sono proprio bambini? Come si fa a continuare nell’ideologia? L’infanzia è per definizione un concetto e un’esperienza che travalica ogni confine. Così come ci sembra paradossale chiederci in che misura uno stormo di rondini in volo violi ogni anno il trattato di Schengen, quando siamo dinnanzi ad una migrazione di bambini e bambine, ragazzi e ragazze minorenni e non accompagnati, le parole e le immagini che tradizionalmente ci vengono offerte per parlare di migranti non bastano più e fanno un cortocircuito. Ci obbligano a ripensare i nostri criteri di classificazione, scompigliano il nostro perbenismo e soprattutto mettono in discussione radicalmente la buona opinione che abbiamo di noi stessi. Il nostro giornale e anche il nostro Ateneo si sono in passato spesso occupati dei diritti dell’infanzia: si pensi all’adesione alla recente campagna di Amnesty International Italia contro le spose bambine oppure ad un numero precedente di Roma Tre News dedicato all’educazione che partiva dell’im-

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magine simbolica della scuola di Barbiana. Affrontare la questione dei bambini e delle bambine migranti diventa lo specchio in cui osservare

Quando difendiamo l’infanzia, stiamo difendendo noi stessi; quando ce ne prendiamo cura davvero, stiamo cambiando il mondo i volti deformati della nostra collettività. È uno specchio impietoso che ci mostra tutte le ambivalenze, le contraddizioni, le falsità e i non detti dietro cui ci nascondiamo. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a dietrofront e a chiusure politiche contro quest’ondata di bambini disperati che si riversa sull’Europa, che mai ci saremmo aspettati. Paesi, a cui per anni abbiamo guardato con ammirazione pensando che «lì sì davvero la democrazia funzionava», hanno rivelato di essere molto meno solidali dei ben più poveri abitanti di Lampedusa. Le ipotesi più feroci ci parlano di centinaia di bambini e bambine che arrivano in Europa e scompaiono nelle pieghe invisibili dei centri di accoglienza. Se ne perdono le tracce e si ipotizza il peggio: prostituzione, pedofilia, traffico d’organi. Ma la domanda che si pone con urgenza è sempre la stessa: chi comprerà questi organi? Chi sono i clienti delle bambine e dei bambini che si prostituiscono alla stazione Termini? Ma chi sono?

Quando difendiamo l’infanzia, stiamo difendendo noi stessi; quando ce ne prendiamo cura davvero, stiamo cambiando il mondo. Ciò è vero in molteplici sensi: difendiamo e curiamo il nostro futuro, cioè le generazioni future, difendiamo il bambino

Lezione di tecnologia, 1958, foto Frighi, Archivio FDLM

che abbiamo dinanzi e difendiamo il bambino di ieri, quello che continua ad abitare dentro di noi. È il bambino interiore, un concetto caro agli psicologi e agli psicoterapeuti. Come ricorda Antoine de Saint-Exupéry infatti, «tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano».

Questo numero è dedicato ai bambini e alle bambine migranti, a tutti quegli adolescenti e quelle adolescenti che arrivano sulle nostre coste non accompagnati da un adulto che possa proteggerli e sostenerli Parlare dell’infanzia migrante significa rimettete a fuoco il tema dell’infanzia nella sua complessità. Ed è proprio questo che facciamo nelle pagine che seguono attraverso i contributi di studiosi e studiose che affrontano questo argomento da molteplici punti di vista. Abbiamo cercato di allargare il nostro focus, per non ridurre il nostro sguardo alla mera sofferenza. Tuttavia, anche se abbiamo preferito parlare della condizione dell’infanzia più in generale, questo numero è dedicato ai bambini e alle bambine migranti, a tutti quegli adolescenti e quelle adolescenti che arrivano sulle nostre coste non accompagnati da un adulto che possa proteggerli e sostenerli. Lo dedichiamo a loro nella speranza che trovino sostegno e aiuto in qualcun altro,

«I bambini sono i messaggi viventi che inviamo ad un tempo che non vedremo»

nella speranza che abbiano quella forza interiore necessaria per crescere e divenire adulti consapevoli capaci di non restituire il male e la sofferenza che hanno ricevuto, perché come sottolinea Karl Menninger «ciò che viene fatto ai bambini, essi lo faranno alla società» in un ciclo di sofferenza, violenza e dolore destinato a perpetuarsi nel tempo. Non ricordo chi diceva che «amare è dare ciò che non si ha», ma aveva certamente ragione. Come ci rammenta Neil Postman, «i bambini sono i messaggi viventi che inviamo ad un tempo che non vedremo». Chi cambierà questo mondo?


Infanzia in gioco

Il fondamentale ruolo del gioco nello sviluppo dei bambini È con l’età dell’infanzia che compaiono due capacità importantissime: quella di apprendere e quella di giocare. Con la comparsa della capacità di apprendere, mentre il bambino e la bambina divengono capaci progressiLucia Chiappetta Cajola vamente di organizzare modalità di comportamento differenziate anche rispetto a situazioni imprevedibili, appare contestualmente la capacità di giocare, ovvero dell’esercizio di funzioni fini a se stesse, a carattere temporaneo e preparatorio almeno in una prima fase. Il periodo preparatorio infantile caratterizzato dall’intensità e dall’ampiezza degli apprendimenti si svolge, quindi, in gran parte spontaneamente e giocosamente, e permette in modo associato sia l’utilizzo delle proprie risorse sia l’accumulo di graduale esperienza. Nello stadio infantile, la capacità di apprendere e di giocare caratterizzano un periodo di ampia durata, nel corso del quale l’organismo completa se stesso, si appresta ad affrontare le sfide e i rischi della vita adulta (Laeng, 1998). È quindi evidente che il bambino ha bisogno di acquisire schemi di comportamento nuovi in base all’esperienza, reimparandoli più volte e in modi anche differenti, assicurando la flessibilità opportuna per l’adattamento. In questa dimensione, il gioco non costituisce un’attività speciale, diversa o separata dalle altre, anzi coincide con tutte in quanto esercitate nella particolare maniera che è quella autotelica, avente cioè il suo fine in se stessa ed essendo anche autogratificante. Si soddisfa del suo puro essere provocando un piacere funzionale che già Aristotele giustificava come manifestazione dell’entelechìa vivente, cioè della “compiutezza” o perfezione relativa. In quest’ottica diviene evidente che la qualità della formazione che un individuo riceverà nel corso della sua vita dipenderà in buona parte dalla qualità

dell’educazione e delle esperienze vissute nei primi anni della sua esistenza. Di conseguenza, l’intervento per la prima infanzia costituisce uno dei pilastri portanti nello scenario educativo, ed è per questo che, oltre la famiglia, i servizi per l’infanzia rivendicano giustamente il ruolo di “spazi” tra i più significativi per lo sviluppo delle bambine e dei bambini. In tali spazi si costruiscono infatti le basi sia della formazione presente e successiva, finalizzata ad assicurare i saperi, il saper fare e il saper essere, sia dell’acquisizione delle capacità fondamentali per orientarsi nell’esistenza e per divenire persona nella sua totalità.

Nello stadio infantile, la capacità di apprendere e di giocare caratterizzano un periodo di ampia durata, nel corso del quale l’organismo completa se stesso, si appresta ad affrontare le sfide e i rischi della vita adulta «Fornire a ciascuna persona le capacità fondamentali per poter vivere in modo umano» (Nussbaum, 2002, p.74) significa anche riflettere sulla qualità del servizio educativo, e in questa qualità non può essere esclusa la dimensione etica, né si può prescindere dalla ricerca di equità e giustizia, né si può escludere il gioco, annoverato tra le capacità fondamentali dell’essere umano. In questo senso, l’infanzia costituisce il soggetto primario di cura, nel senso di interessamento, di sollecitudine e di attenzione da parte della comunità e delle sue organizzazioni, nazionali e internazionali; cura che si concretizza innanzitutto nel determinare le condizioni adeguate a sviluppare il patrimonio di potenzialità che appartiene a ogni individuo. A tale scopo, le bambine e i bambini hanno bisogno di riconoscimento e di avere il tempo per aspettare con fiducia i momenti per essere riconosciuti. Si tratta, in realtà, di un mutuo riconoscimento, cioè di un circuito di reciprocità di essere, di dire e di fare, e il termine francese reconnaissance, che suona nel duplice significato di riconoscimento e di riconoscenza (Ricoeur 1992), pare calzante per chiarire quel bisogno.

primo piano

Lucia Chiappetta Cajola

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Ne emerge una cultura dell’infanzia e un’idea di formazione dell’infanzia come fatto pubblico e collettivo a forte valenza preventiva di disagi e malesseri sociali, e come bene di carattere universale che concorre alla complessiva crescita civile di tutta la comunità, sapendo combinare insieme lo sviluppo delle capacità individuali, interne, con le opportunità esterne (culturali, sociali, politiche, economiche), se disponibili a tale scopo. Ciò significa che occorre arricchire, per un verso, le proprie risorse e, per l’altro, l’accesso alle risorse per poterle entrambe finalizzare alla realizzazione del proprio progetto di vita, della propria autonomia e libertà, trasformandole in quegli autentici «funzionamenti personali» (Sen, 2001; Nussbaum 2002, OMS 2007), di radice aristotelica, che indicano ciò che una persona può desiderare di fare e di essere. Più di qualsiasi altra attività, l’educazione esige, infatti, «che si guardi lontano» (Dewey, 1996, p.60), che si scrutino gli orizzonti verso cui indirizzare i bambini, ponderando adeguatamente le scelte educative e le conseguenze di quest’ultime a breve, a medio e a lungo termine.

Il gioco non costituisce un’attività speciale, diversa o separata dalle altre, anzi coincide con tutte in quanto esercitate nella particolare maniera che è quella autotelica. In quest’ottica diviene evidente che la qualità della formazione che un individuo riceverà nel corso della sua vita dipenderà in buona parte dalla qualità dell’educazione e delle esperienze vissute nei primi anni della sua esistenza Per fare questo l’educazione ha bisogno di una riflessione, che è stata chiamata pedagogia, e che dovrebbe avere il compito, a volte, di semplificare ciò che si presenta complicato, a volte di complicare

Pieter Bruegel, Giochi di fanciulli

ciò che sembra semplice (Canevaro, 1996). Non è un caso, infatti, che i fondamenti pedagogici del curricolo scolastico siano legati ad una prospettiva paradigmatica che pone l’attenzione per lo più sugli esiti di lungo termine del curricolo complessivo. In questa prospettiva gli errori possono essere più formativi delle attività eseguite alla perfezione, e la possibilità di sbagliare può essere un indicatore della qualità della vita, non solo scolastica. È anche dalla riflessione su questo tipo di esperienze che nasce la possibilità di riconoscere le bambine e i bambini, considerando nel riconoscimento sia la pazienza educativa per l’attesa, sia la possibilità dell’ errore e dell’imprevisto, sia la diversità. La scuola fa, ormai, i conti con l’eterogeneità dei suoi frequentanti e impegna gli insegnanti a progettare sull’intero ciclo scolastico, e non solo sulla classe e sul livello corrispondente. Sono questi due elementi, combinati tra loro, che permettono l’organizzazione di gruppi eterogenei, e quindi la presenza collettiva delle diversità, cioè di bambini con disabilità, con disturbi di apprendimento o con svantaggio socio-culturale e linguistico nelle classi ordinarie, ricche quindi della «comune umanità» (Quellett, 1991). L’infanzia si trova ora completamente immersa nella mutevolezza degli eventi del tempo presente e si è imposta come valore collettivo. È passata da un’assenza storica di immagine e considerazione sociale ad una molteplicità di rappresentazioni culturali che «influiscono sull’identità reale del bambino e sul modo in cui il mondo degli adulti vi si rapporta» (Trisciuzzi, Cambi, 1999, p.11): dal bambino deviato al bambino incompiuto, al bambino


Berthe Morisot, Bambini che giocano

senza infanzia; dal bambino violato, abusato, al bambino televisivo, tecnologico; dal bambino della ragione al bambino competente, ecologico, digitale; dal bambino colorato, a rischio, deprivato, al bambino con problemi, con deficit, emarginato, con bisogni educativi speciali etc. Ciascuna rappresentazione descrive un modo differente di percepire l’infanzia e, più in generale, rivela le più disparate sfaccettature dell’atteggiamento della società nei confronti del mondo dell’infanzia, rimandando ad una simbologia del bambino come soggetto dipendente e dell’infanzia come periodo subordinato della vita. In epoca recente, è noto che l’affermazione e il riconoscimento dell’infanzia derivano dalle esigenze della società mutevole, ma anche dalle necessità dell’istruzione e della formazione. L’attenzione degli studi delle scienze pedagogiche e sociali, e delle ricerche tese ad indagare nel contesto familiare e scolastico, in particolare, gli aspetti riguardanti la socializzazione, l’apprendimento, gli stili educativi, i campi di esperienza e gli ambiti disciplinari rispecchia molto chiara-

mente il ruolo fondamentale che la società attuale assegna alle fasi evolutive dell’istruzione e della formazione, che costituiscono il preludio dell’inserimento progressivo del bambino nella realtà culturale e sociale. In questo quadro, il gioco rappresenta una attività di per sé costruttiva, testimonianza e garanzia di sviluppo: il bambino quando gioca costruisce se stesso e il suo mondo, avverte le regole e intuisce valori che il gioco di per sé non ha la pretesa di trasmettere. Il gioco possiede invece un valore implicito nella crescita della persona intesa come punto di riferimento ideale. Il superuomo di Nietzsche ama il gioco, la danza e la festa come espressioni facilitanti, è socievole e vive pacificamente nel mondo: è un uomo nuovo, non un uomo più potente degli altri. Il gioco rappresenta allora una delle attività che più favoriscono la formazione della persona, e non soltanto nell’età infantile (Galli, 1984). Tuttavia, non c’è dubbio che il suo ruolo, soprattutto nei primi anni di vita, abbia un valore rilevante: Eraclito, Platone e poi anche Frobel lo hanno messo bene in evi-

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denza. Tutta la riflessione pedagogica sul gioco intesa come mezzo per un sano sviluppo dell’individuo e come modo di penetrare alcuni aspetti della natura umana (Lowenfeld, 1962) si colloca all’interno dei processi di sviluppo delle potenzialità del bambino e verso l’età adulta, anche alla luce del fatto che all’attività ludica viene dedicata la maggior parte del tempo. In questa prospettiva, la funzione culturale e pedagogica del gioco si rende evidente e appare vitale nell’ambito del gruppo sociale per gli scenari di senso e di significato che offre, oltre che per il valore espressivo e per i legami affettivi che crea e sedimenta. Analizzando infatti il ruolo e i contesti delle attività ludiche, nonché le forme e le tipologie di giochi tipiche di una società, è possibile comprenderne i valori, le credenze, le tradizioni e gli usi. In ogni caso e in ogni tempo, giocare è però sempre stato un modo di scambiare o di acquisire conoscenze nuove e complesse, e i giochi, via via adattati ai tempi e ai luoghi, sono in grado di trasmettere e di far conoscere le varie facce delle diverse culture. L’agire ludico, inoltre, apre a forme sperimentali e innovative nel rapporto con il reale producendo spesso effetti che consentono di entrare in un rapporto dinamico con la cultura stessa che, per tale ragione, ricorre talvolta a interventi restrittivi o, al contrario, diffusivi, utilizzando il gioco come strumento educante per promuovere modelli di comportamento o mentali.

Giochi di fanciulli (anonimo)

L’esperienza ludica è, dunque, comune a tutti gli uomini e a tutte le compagini socioculturali (Fink, 2008), e naturalmente al bambino con disabilità, la cui partecipazione al gioco costituisce una preziosa opportunità di divertimento, di formazione e di sviluppo delle proprie potenzialità; opportunità che gli viene spesso preclusa perché intesa in senso molto riduttivo. Molto spesso, infatti, ci si concentra ad insistere esclusivamente su aspetti di tipo assistenziale nei quali il gioco viene considerato del tutto irrilevante rispetto a quelle opportunità, anche perché, frequentemente, educatori e insegnanti pensano che i bambini con disabilità siano incapaci di giocare (Saracho, 2013), misconoscendo piuttosto la propria incapacità a giocare con loro. È opportuno, allora, se non doveroso, aprirsi alla prospettiva del bambino della fiducia verso se stesso, verso gli altri e verso il mondo, con quella fiducia di essere riconosciuti, di avere possibilità di incontro, di stabilire legami e possibilità di intrecciare significati, perché essa è la prospettiva per eccellenza, quella cioè della relazione educativa fondata soprattutto su un atteggiamento di conferma e di solidarietà in cui l’uno accoglie l’altro per quello che è, comunicando disponibilità e interesse nei suoi confronti, stima e aspettativa positiva, e anche desiderio di giocare insieme.


Il bambino adulto e l’adulto bambino Il post narcisismo dei tempi moderni: il travalicamento dei confini Marina D’Amato

L'ideale educativo del nucleo familiare contemporaneo, tendenzialmente mononucleare, non contempla più forme di abdicazione alla propria realizzaMarina D’Amato zione da parte di nessun membro: l’espletamento di un sé meraviglioso desiderato per i figli, è ugualmente ambito dai genitori. Il bambino si trova così a doversi sempre più presto adattare ai ritmi e ai comportamenti degli altri membri della famiglia. Dalle ricerche più recenti dell’attuale ambito familiare (cfr. F. De Singly, L.Gavarini), emerge non solo una pronunciata indifferenziazione dei ruoli familiari, perché padre e madre godono ormai di una interscambiabilità reciproca, ma anche soprattutto l’ anelito di ogni membro del nucleo di rispettivi bisogni di godimento. Tutto ciò mette in evidenza forme di riconoscimento affettivo e ideale che erano state a lungo destinate al figlio, che oggi è invece sempre più il simbolo e l’incarnazione di un progetto di sé genitoriale. È in questo scenario post narcisista che è maturata la figura di un bambino da proteggere dalla propria posizione di status infantile, trattato sempre più spesso come un pari. Forse l'immagine del bambino-re appartiene a un’epoca che ha poco a che fare con il presente, quando il modello funzionale era saldato alla regola implicita che faceva dell'amore per il proprio partner e di quello per il figlio un'unica dimensione affettiva. La diversa concezione su cui si fonda la coppia oggi, unita assai spesso in una sorta di patto associativo interindividuale, ha trasformato “naturalmente” il ruolo dominante del bambino. Esso è rimasto centrale come un membro del gruppo, gode di molti diritti e di pochi doveri, ma non è più quello attorno al quale è concentrata l'attenzione, né tantomeno la figura in funzione della quale vengono prese tutte le decisioni. Non è più neanche un tiranno, ma sempre più spesso un complice. Per questo le figure, forse, più emblematiche del nostro tempo sono quelle del bambino adulto e

dell’adulto bambino. Si assiste, cioè, all’affievolirsi degli attributi specifici dell’uno e dell’altro, al punto che è sempre più complicato stabilire delle nette suddivisioni per classi d’età. L’infanzia, pur non essendo scomparsa, «è certo culturalmente più prossima all’adolescenza, che a sua volta echeggia le subculture giovanili». Se la televisione ha infranto le barriere che separavano i bambini dagli adulti (cfr. Postman), uniformandoli ai diversi tipi di informazioni, oggi la generazione dei bambini touch screen ha creato un nuovo iato nell’accesso alla conoscenza, poiché i piccoli superano in capacità intuitive e associative quelle degli adulti di fronte ad ogni schermo. La scomparsa dell’infanzia come condizione esistenziale legata a forme precise di specificità sarebbe da imputare agli effetti che i media esercitano sulla conoscenza. Palesando il segreto del mondo adulto, rendendolo intelligibile ed esposto, la televisione ha infranto la barriera che separava i piccoli dai grandi, che si

L’ideale educativo del nucleo familiare contemporaneo, tendenzialmente mononucleare, non contempla più forme di abdicazione alla propria realizzazione da parte di nessun membro: l’espletamento di un sé meraviglioso desiderato per i figli, è ugualmente ambito dai genitori

sono trovati a condividere identiche informazioni da una sorta di parità di posizioni. Segno evidente di questo passaggio culturale sono i bambini televisivi proposti sempre o come simboli o come strumenti. Nella pubblicità come nei programmi, infatti, vengono rappresentati per lo più come adulti in miniatura, presi nelle maglie di dinamiche e comportamenti da “grandi”, intenti a promuovere prodotti o emozioni a una platea indifferenziata. La famiglia, d’altro canto, ha subito dei profondi mutamenti assumendo plurimi aspetti e accogliendo la sua mutevolezza continua come dato di normalità. L’intercambiabilità dei ruoli paterni e materni da un lato, il raggiungimento di fini individuali dall’altro, sono, forse alla base di un diffuso

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atteggiamento di senso di colpa materno e paterno che si origina laddove responsabilità e libertà si contrappongono con il risultato che genitori immaturi non riescono ad assumere la funzione e il ruolo necessari per crescere i figli e inducono spesso, sia pure inconsapevolmente, i bambini a diventare precocemente grandi per poterli, così, vivere come dei pari. Se la maturità psichica avviene accettando la preminenza del principio di realtà su quello del piacere, per poter essere in grado di convivere con soddisfazioni e frustrazioni, allora il tratto più evidente di questa postmodernità fluida in cui viviamo è quello della infantilizzazione massiccia degli adulti e di una adultizzazione precoce dei bambini. Solo così, si può leggere il deficit di responsabilità che si riscontra nei genitori contemporanei, strettamente connesso con la crescita esponenziale di bambini adultizzati, registrata non solo dagli psicologi, ma anche da economisti e sociologi, e soprattutto, dal mondo del marketing. Nel corso di una recente ricerca (M. D’Amato) è emerso chiaramente che gli adulti fanno le stesse cose dei bambini: si vestono come loro, guardano la tv, giocano con i videogiochi, navigano su internet, praticano gli stessi sport, si esprimono con un egual numero di vocaboli, usano gli stessi gesti, hanno moltissimi gadgets, e soprattutto non vogliono invecchiare mai. Un’ipotesi sempre più condivisa è quella che mette in correlazione le patologie psichiche infantili con gli atteggiamenti puerili degli adulti. Non va dimenticato, infatti, che i bambini, quando stanno male, manifestano anche attraverso il sintomo, il disagio di non essere presi in considerazione non come un “fine”, bensì come strumento in funzione del prioritario interesse dei genitori sempre più abili nella delega alla scuola, all’associazionismo, al gruppo dei coetanei. Che la fine dell’infanzia sia un sintomo principale della post modernità che riflette il destino della fine del sogno della ragione e della razionalità illumi-

nista? La fine delle frontiere, la fine del soggetto, il dominio della cultura visuale, la fine del sociale e l’implosione della politica con la morte delle grandi ideologie? Secondo le considerazioni di Postman, le età della vita si sarebbero ridotte sostanzialmente a due: la primissima infanzia da un lato e la vecchiaia dall’altro. Tra loro, lunga zona intermedia, la figura ossimorica del bambino adulto, con il suo rovescio: l’adulto infantile. I media giocano un ruolo fondamentale in questa proposta di adulti infantili e bambini adultizzati: il cinema con Forest Gump, Dumb and Dumber o di bambini adulti: Jack, Le Petit Homme, Big. La pubblicità mette in evidenza la stessa ambivalenza (Benetton o Calvin Klein ). Ed il fenomeno di Michael Jackson definito dal suo biografo come l’uomo che non è mai stato bambino ed il bambino che non è mai cresciuto (Andersen ) è solo l’esempio più evidente di una società alla ricerca di un’utopica eterna giovinezza.

È in questo scenario post narcisista che è maturata la figura di un bambino da proteggere dalla propria posizione di status infantile, trattato sempre più spesso come un pari. Forse l’immagine del bambino-re appartiene a un’epoca che ha poco a che fare con il presente: non è più neanche un tiranno, ma sempre più spesso un complice Da un lato quindi il puerocentrismo come obiettivo esistenziale e dall’altro l’annullamento dell’infanzia come condizione sociale permanente di ogni società umana. Come interpretare questa ambivalenza? In primo luogo il decremento delle nascite rende i bambini rari e quindi sempre più preziosi per almeno due macroscopici ordini di motivi: il primo è oggettivo, strutturale e riguarda evidentemente il progressivo rarefarsi della manodopera attiva con il rischio di perdita delle acquisizioni sociali; il secondo è di tipo soggettivo e concerne per esempio l’allungamento dell’infanzia come periodo di irresponsabilità sociale, caratterizzato dall’indugiare nella scuola che diventa in questo caso un contenitore di forza lavoro che altrimenti non troverebbe alcuna collocazione. Inoltre la diffusione di questo atteggiamento è forse ascrivibile alla progressiva deritualizzazione dei modi di accesso alla maturità così come si è andata configu-


rando nell’età contemporanea. I punti di riferimento che fino alla scorsa generazione definivano i momenti “cerniera” della vita di ognuno: la conclusione dell’iter scolastico, l’ingresso nel mondo del lavoro, il matrimonio, hanno subito un progressivo differimento. Ne deriva che le classi di età non tracciano più limiti di spazi sociali nettamente distinti e la gioventù come la vecchiaia regrediscono allo stadio di una categoria fluttuante. All’interno di questi squilibri, il bambino viene a porsi come un bene raro agli occhi dei responsabili delle politiche demografiche e in particolar modo a quelli dell’individuo post moderno, nei confronti del quale esercita una forte fascinazione sul piano simbolico. In un’epoca sempre più spesso analizzata come cinica, caratterizzata dal disincanto, il bambino assume una funzione sociale essenziale: offre la speranza per il futuro e finisce per rappresentare per il singolo l’unico prolungamento possibile e la sola fonte di compensazione alla propria frustrazione narcisistica.

Le figure, forse, più emblematiche del nostro tempo sono quelle del bambino adulto e dell’adulto bambino. Si assiste all’affievolirsi degli attributi specifici dell’uno e dell’altro, al punto che è sempre più complicato stabilire delle nette suddivisioni per classi d’età. L’infanzia, pur non essendo scomparsa, «è certo culturalmente più prossima all’adolescenza, che a sua volta echeggia le subculture giovanili»

Al contempo il bambino è un bene ricco per gli spazi di mercato che anima per la sua triplice funzione nel mondo del marketing: come consumatore attivo, dotato di un proprio budget sempre più

consistente; come un mediatore di consumi perché incita all’acquisto; come un futuro consumatore. Viene perciò vezzeggiato dai media e idolatrato dalla pubblicità che lo pongono come protagonista. In questo contesto, il bambino messo in scena dai pubblicitari appare una figura che riflette il desiderio dei genitori di ritrovarsi nell’immagine dei propri figli. Accade infatti nell’infanzia degli spot di vedere messi in mostra tutti i tratti della seduzione: bellezza, vivacità, dinamismo, salute, elementi platealmente sconnessi dal reale status di impotenza sociale di coloro che li incarnano, tanto quanto inarrivabili per coloro che si sforzano di aderirvi: gli adulti. D’altro canto i bambini dei programmi sono adulti in miniatura che cantano, suonano, ballano o recitano come dei “grandi” oppure all’opposto, si tratta di bambini disgraziati per le vessazioni subite, violenze, terremoti, naufragi… simboli drammatici utili a reincantare con il loro dolore il mondo disincantato degli adulti.

A rimanere esclusa, da queste rappresentazioni di bambini è l’infanzia quella vera: quella fondata sull’originalità della persona di ognuno, quella fondata sul diritto alla libertà che attribuisce a ciascuno l’invenzione di sé, quella della dignità della persona! In definitiva, televisione, cinema, internet, ci rinviano la polimorfia di questa nuova cultura che tende ad annullare le specificità dell’infanzia come categoria sociale permanente di ogni società umana dotata di una sua ritualità, di una sua cultura, di suoi costumi, a tutto vantaggio di una considerazione di una fase della vita, di un tempo di transizione verso l’età adulta, di un periodo che si connota soprattutto per la sua tensione tra due condizioni: quella di infante e quella di uomo. Per avvalorare questa dinamica, i media ci rinviano anche l’idea di infanzia attraverso caratteristiche di tipo biografico utili soprattutto a suscitare emozioni per la spettacolarizzazione del dolore che spesso implicano. A rimanere esclusa, da queste rappresentazioni di bambini è l’infanzia quella vera: quella fondata sull’originalità della persona di ognuno, quella fondata sul diritto alla libertà che attribuisce a ciascuno l’invenzione di sé, quella della dignità della persona!

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«Sono ancora un bambino»

Viaggio e approdo dei minori-migranti-soli nel Mediterraneo Carmelina Chiara Canta

Dalla grata di un buco filtra la luce che illumina le Terme di Diocleziano, accanto la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Qua, nel centro di Roma, vive Abdul, arrivato dopo avere attraversato, da solo, il mare MediCarmelina Chiara Canta terraneo su una carretta ed avere risalito l’Italia, partendo dalla Sicilia, tenendo stretto il foglietto con i numeri da chiamare. Piangendo dice: «Mia madre ha pagato cinque mila euro per farmi salire sulla barca ad Alessandria, ho avuto paura del mare e di morire, ma ho più paura qui. Sono ancora un bambino. Non riesco a mandare nulla a casa a mia madre e ai miei fratelli piccoli… Mia madre non deve sapere che sono per strada, se lo sa piange per me».

Abdul è uno dei tanti “minori stranieri non accompagnati” che vivono tra le antiche mura degli edifici del centro della Capitale. Ormai sono moltissimi i bambini-migranti in Italia, di cui conosciamo le drammatiche storie (L. Attanasio, Il bagaglio, Albeggi, Roma 2016).

Chi sono i minori migranti? La Risoluzione del Consiglio d’Europa del 26 giugno 1997 ha definito i MSNA (Minori Stranieri Non Accompagnati): «i cittadini di Paesi terzi di età inferiore ai 18 anni che giungono nel territorio degli Stati membri non accompagnati da un adulto per essi responsabile in base alla legge o alla consuetudine e fino a quando non ne assuma effettivamente la custodia un adulto per essi responsabile...». I minori hanno un permesso di soggiorno che consente loro di vivere in Italia fino ai 18 anni presso strutture di accoglienza.

Con l’arrivo sempre più numeroso dei minori negli ultimi anni e dei pericoli ai quali essi vanno incontro anche nei paesi di approdo, la recente risoluzione del Parlamento europeo del 12 settembre 2013 ricorda che «un minore non accompagnato è

innanzitutto un bambino potenzialmente a rischio e che la protezione dei bambini, e non le politiche dell’immigrazione, deve essere il principio guida degli Stati membri e dell’Unione Europea a tal riguardo, rispettando il principio di base dell’interesse superiore del bambino; ricorda che per bambino e di conseguenza per minore si intende qualsiasi persona, senza alcuna eccezione, che non abbia ancora completato il diciottesimo anno di vita; rileva che i minori non accompagnati, in particolare le giovani, sono due volte più suscettibili di essere confrontati con difficoltà e problemi rispetto agli altri minori; osserva che essi sono particolarmente vulnerabili, nella misura in cui essi hanno le stesse esigenze degli altri minori e rifugiati con cui condividono esperienze analoghe; sottolinea che le ragazze le donne sono particolarmente vulnerabili alle violazioni dei loro diritti nel corso del processo migratorio e che le ragazze non accompagnate sono particolarmente a rischio in quanto sono spesso il principale oggetto dello sfruttamento sessuale, degli abusi e della violenza ».

Abdul è uno dei tanti “minori stranieri non accompagnati” che vivono tra le antiche mura degli edifici del centro della Capitale. Secondo l’Europol nel 2015 in Europa i minori stranieri non accompagnati sono stati 90.000. In Italia nel medesimo anno i minori stranieri non accompagnati presenti nelle strutture di recezione sono stati 11.921, il 13,1% in più rispetto al 2014 e 6.135 sono “irreperibili”

Quanti sono i minori e dove vivono? È legittimo parlare di loro in termini allarmanti? Secondo l’Europol nel 2015 in Europa i minori stranieri non accompagnati sono stati 90.000. In Italia nel medesimo anno (fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) i minori stranieri non accompagnati presenti nelle strutture di recezione sono stati 11.921 (il 95% maschi), il 13,1% in più rispetto al 2014 e 6.135 sono “irreperibili” (cioè segnalati


anni (401), che è più del doppio dal 2012 (187). L’analisi sulla ripartizione dei minori presenti nelle strutture per regione, relativa alle prime quattro, segnala che la Sicilia (con 34,47%), la Calabria (con 9,45%), la Puglia (con 9,24%) e il Lazio (con 7,83%), sono quelle che ne accolgono di più. In particolare, la Sicilia con 4.109 (34,47%) minori emerge come la regione che svolge una più intensa attività di prima accoglienza. L’afflusso di minori nell’isola (che dal 2013 è al primo posto) è stato crescente, passando dai 311 minori presi in carico nel 2010 ai 1.754 giovani del 2011 e a 4.109 nel 2015.

Da dove vengono i minori che arrivano in Italia? Essi iniziano il “viaggio” dai paesi che si affacciano nel Mar Mediterraneo, dal Nord e dal Centro Africa ma anche dai paesi balcanici. Nell’anno 2015, sono egiziani 2.753 minori, pari al 23,1%, sono albanesi 1.432 (12%), eritrei 1.177 (9,9%), 1.161 (9,7%) sono gambiani, 697 (5,8%) nigeriani 697 (5,8%), somali 686 (5,8%), 681(5,7) vengono dal Bangladesh, (512-4,3%) dal Senegal e 465 (3,9%) dal Mali.

Minori stranieri ospiti in strutture di accoglienza temporanea e case famiglia. Le loro storie sono raccontate da Luca Attanasio in Il bagaglio (Albeggi, 2016). (foto: Mohamed Keita)

dopo l’allontanamento delle strutture di accoglienza al Ministero). Nell’insieme i minori sono 18.056. Se si considera che nel 2007 erano 5.583 e che in questi primi 5 mesi del 2016 le cifre sono in aumento, esistono seri motivi per interessarci con preoccupazione del fenomeno. Nel Mediterraneo approdano continuamente imbarcazioni con più minori soli sempre più numerosi e più piccoli. Nell’ultimo triennio, e, in particolare nel 2015, l’età maggiormente rappresentata tra i minori è quella dei 17enni, che sono 6.432 (54%) e dei 16 anni 3.238 (27,2%). Segue la fascia degli adolescenti 15enni (1.321-11,1%), dei 7-14enni (896-7,5%) e dei bambini di 0-7 (43-0,4%). Negli ultimi tre anni, tra gli irreperibili, è aumentata la fascia dei ragazzi 7-14

È evidente la prevalenza di minori provenienti dai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e di quelli africani in particolare (13.676 su 18.056). La prima accoglienza dei minori avviene nel cuore del Mediterraneo: Sicilia (Lampedusa, Pozzallo, Agrigento, Trapani) e poi Puglia e Calabria. E questo può spiegare molte analogie sulla cultura, i comportamenti e il modo di pensare. Gli adolescenti, quando intraprendono il viaggio della speranza e poi approdano sulle coste della Sicilia o di Lampedusa si trovano in un territorio che nel paesaggio, nello stile architettonico e urbano ricorda da vicino il paese di provenienza, come era già nel loro immaginario.

Il dato relativo ai minori che risultano irreperibili è diventato particolarmente significativo: infatti i 6.135 minori segnalati nel 2015 dal Ministero del Lavoro per un allontanamento dalla struttura di accoglienza, rappresentano un fenomeno, in crescita rispetto agli anni precedenti (erano 3707 nel 2014 e 1754 nel 2012). Già nei primi quattro mesi del 2016 il “piccolo popolo” in fuga ha raggiunto 2.500 unità, il 90% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Secondo Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR Sud Europa, di questi solo 118 sono accompagnati. Anche i ragazzi che scappano dalle strutture, provengono in prevalenza dai medesimi paesi del Mediterraneo. Questo gruppo di invisibili è costituito in prevalenza da eritrei (1.571), somali (1.459) ed egiziani (1.325).

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Rispetto ai 10.000 scomparsi in Europa, segnalati dall’Agenzia di intelligence europea Europol, gli oltre 6.000 italiani rappresentano una quantità nettamente consistente. «Spesso si tratta di ragazzi che entrano in Europa con specifici progetti migratori, con aspettative familiari nei paesi di origine ben precise e con reti parentali e di riferimento molto forti, che non hanno fiducia nella possibilità di raggiungere le loro mete di destinazione con i canali previsti dalle norme, e pertanto, intraprendono il viaggio in modo illegale» (Rapporto ISMU 2015). Da alcuni racconti sul viaggio dei minori presenti a Roma, emerge un modello di organizzazione del viaggio: i minori si imbarcano ad Alessandria, Rasheed, Gharbiya, su piccoli natanti da cui i trafficanti li spostano in barconi più grandi ma poco sicuri. Negli ultimi tempi si è aperta una nuova rotta attraverso la Libia, che i minori raggiungono tramite piccoli pullman, e da qui i trafficanti li spostano verso la costa per arrivare in Italia. La traversata del Mediterraneo viene raccontata come estremamente pericolosa e al limite della sopportazione.

La domanda che a questo punto ci si pone è: che fine hanno fatto i 10.000 minori non accompagnati scomparsi in Europa? Probabilmente sono finiti nelle mani di una rete criminale internazionale. La criminalità ha trasformato la loro debolezza e l’incapacità dei governi nella gestione del fenomeno in un giro di affari enormi. Di molti di loro, soprattutto dei piccolissimi, si sono perse le tracce. Alcune inchieste hanno denunciato che in Italia molti minori sono impiegati nel lavoro agricolo e nel commercio all’ingrosso di frutta e verdura. Già nel 2014, in un’inchiesta del The Guardian, Elvira Iovino del Centro Astalli di Catania aveva denunciato: «La maggior parte dei minori eritrei che arrivano in Italia rifiutano di essere identificati dalle autorità, perché se fossero registrati in Italia il trattato di Dublino non gli permetterebbe di chiedere l’asilo in altri paesi dell’Unione». Per questo la maggior parte di loro scappa dai centri di accoglienza e vive per strada, dormendo nelle stazioni ferroviarie o nei parchi, dove i ragazzi sono adescati da trafficanti che con la promessa di un alloggio, li rapiscono o li costringono ad attività illegali (droga e prostituzione).

Secondo Viviana Valastro di Save the children la causa di questa situazione va ricercata anche nel fatto che in Italia i minori stranieri non accompagnati non sono protetti da una legge specifica, ma dalla stessa norma che regola i casi di minori abbandonati. È in discussione in Commissione diritti umani della Camera una proposta di legge la cui prima firmataria è l’onorevole Sandra Zampa, che però è stata bloccata dalla Commissione bilancio. La proposta fu presentata il 4 ottobre 2013, in seguito al naufragio al largo di Lampedusa e prevede per esempio che ogni minore abbia un tutore individuale che si occupi di lui. Oggi in Italia i tutori sono i sindaci delle città dove i minori risiedono che sono affidatari di moltissimi ragazzi (a Palermo, Agnese Ciulla, assessore alle politiche sociali, ha in affido 480 minori migranti, al 15 maggio 2016!)

I minori crescono in fretta. Molti adolescenti e giovani sono catturati dalla rete della prostituzione, come ha scoperto la polizia ferroviaria di Roma nel maggio 2015. Per le organizzazioni criminali i ragazzi stranieri che hanno meno di 14 anni sono preziosi perché per la legge italiana non possono essere incriminati. Nei dintorni della stazione Termini, vivono molti di questi ragazzi spariti nel nulla, anzi, invisibili. Si tratta di egiziani, eritrei, somali, siriani in cerca di un futuro diverso dalla guerra e che vogliono solo raggiungere i parenti in Nord Europa, ma molti altri finiscono a viver per strada e nelle mani della criminalità. Dopo avere accertato la minore età, vengono accompagnati nelle case famiglia; ma dopo poco tempo si ritrovano a dormire in strada e vengono arrestati per furti e rapine. Alcuni rientrano nelle case famiglia, ma quando nessuno li controlla, pur di mandare qualche soldo a casa, accettano anche di vendere il proprio corpo. Possiamo pensare di vivere in un paese civile quando accettiamo che sul nostro territorio ci siano bambini che vivono come Abdul, Mohammed o Amina? Ogni tanto arriva l’Ama, la municipalizzata che si occupa della pulizia delle strade di Roma. I ragazzini si nascondono poco lontano, stringendo il loro prezioso bagaglio (un cartone per dormire, qualche straccio, una borsa o una busta di plastica). Il giorno dopo ritornano nei loro nascondigli, sempre più affollati. La vita quotidiana dei bambini stranieri, soli e irreperibili, che vivono accanto a noi, al centro di Roma, cuore d’Italia, continua!


C’era una volta...

Un progetto per i bambini immigrati e le loro famiglie Anna Aluffi Pentini

C’era una volta l’accoglienza

L’accoglienza dei bambini nei servizi educativi presuppone il desiderio e la capacità di comprendere il bambino, di rispondere ai suoi bisogni, di proAnna Aluffi Pentini spettare una “fioritura” (Nussbaum, 2012) delle sue potenzialità. Il lavoro educativo persegue questa finalità coltivando un pensiero riflessivo (Schoen, 1984). L’educatore, accetta di muoversi su un sottile crinale situato tra teoria e pratica, tra prevedibile e imprevedibile, tra visibile e invisibile, tra conoscenza e mistero. I servizi per l’infanzia, oggi più che mai, a fronte dei fenomeni migratori e delle trasformazioni delle famiglie, necessitano un continuo aggiornamento sul campo, un accompagnamento competente, che aiuti a perseguire obiettivi contestualizzati. Il ruolo dei Dipartimenti di Scienze dell’educazione diventa quindi strategico nel tessere un rapporto tra teoria e prassi che faciliti una fioritura dei bambini, che tenga conto della storia e delle storie dei bambini e delle loro famiglie.

L’educatore, accetta di muoversi su un sottile crinale situato tra teoria e pratica, tra prevedibile e imprevedibile, tra visibile e invisibile, tra conoscenza e mistero

C’era una volta la terza missione dell’Università Nei corsi di studio di Scienze dell’educazione, la terza missione dell’Università intesa come «apertura verso il contesto socio-economico mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze» se da un lato può essere vista come conditio sine qua non, per dare un senso al lavoro accademico, dall’altro rischia di perdere la sua forza, se non inclusa a pieno titolo tra i cri-

teri di valutazione dei docenti e degli atenei. Ben venga quindi in questo settore il decreto legislativo 19/2012 e successivamente il DM 47/2013 che mettono a pieno titolo la terza missione tra i criteri della valutazione dell’Università. Il confine tra operatività e ricerca viene così ufficialmente ripensato come spazio da abitare invece che come linea di demarcazione.

C’era una volta un progetto per i bambini immigrati e le loro famiglie L’esperienza interculturale per l’infanzia della quale intendo qui brevemente dare conto ha una storia che è parte integrante del lavoro di ricerca e di formazione che svolgo a Roma Tre. Dalla fine degli anni Novanta ho avuto la fortuna di collaborare a un progetto socio-educativo che richiedeva un lavoro di accompagnamento psicopedagogico. Tale accompagnamento era finalizzato alla costituzione di un dispositivo di accoglienza alle famiglie immigrate nella città di Roma. Il progetto - articolato su tre fronti a) accoglienza abitativa, per le famiglie, comprensiva di sportello di orientamento e ricerca di lavoro, b) doposcuola per i minori in età scolare, c) centro diurno per i bambini in età prescolare - ha portato avanti un modello di sostegno alla genitorialità concepito intorno alla centralità del bambino (Aluffi Pentini, 1999). La situazione di estremo disagio delle famiglie accolte (sfollati da un’occupazione, stranieri e in alcuni casi con figli in situazione di disabilità), insieme alle straordinarie competenze trasversali e capacità di accoglienza e di riflessione della responsabile dell’iniziativa nonché gli esiti di ricerche da me precedentemente svolte su

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analoghe esperienze educative (Aluffi Pentini, Talamo 1998), mi hanno allora portato ad interrogarmi sulla possibilità e sulle modalità si sistematizzare delle buone pratiche replicabili anche altrove. C’era una volta l’incubatore di continuità Il concetto di “incubatore di continuità” (Aluffi Pentini, 2008), coniato per designare delle pratiche interculturali, attente alle dinamiche di inclusione/ esclusione, oltre che a quelle culturali, insiste su un dispositivo di accoglienza che offra alle famiglie immigrate: iniziale rassicurazione, progressivo rafforzamento e successiva responsabilizzazione, in vista di una sempre crescente autonomia e partecipazione attiva alla vita della società. Nel corso degli anni il concetto di incubatore di continuità si è arricchito con quello di incubatore di socialità positiva e si è tra l’altro rivelato funzionale per partecipare con successo ai bandi del Comune di Roma. Bisogna infatti tener conto del fatto che per molte famiglie immigrate il centro interculturale in questione continua a fornire un primo imprinting positivo di rapporto con le istituzioni italiane. In corso d’opera il centro è stato rilevato dalla piccola onlus Zero in Condotta e si è spostato per ragioni logistiche, da una periferia romana ad un’altra, ri-tessendo reti operative di rapporti con il territorio. Si trova oggi nel quartiere di Tor Sapienza e svolge un ruolo importante nel creare positive dinamiche d’integrazione tra famiglie immigrate e non. Il nome del Centro è Shi Shu Bhavan, che significa in lingua bengali “casa del bambino” e vuole sottolineare una cura pedagogica dell’autonomia e un’attenzione ai bisogni educativi dei bambini, ma allo stesso tempo evocare il legame con paesi e culture lontane e il desiderio di superare situazioni di deprivazione sociale delle famiglie. Convenzionato per il tirocinio degli studenti del Dipartimento di Scienze della formazione, il centro vede nella sua equipe tre laureate a Roma Tre. Dal 1999 ad oggi, l’accompagnamento delle famiglie e degli operatori è stato oggetto di pubblica-

zioni (Aluffi Pentini, 1999, 2007, 2008, 2013), e ha costituito una base importante per contenuti della formazione degli studenti dei corsi di Pedagogia interculturale e sociale. In collaborazione con altri centri interculturali romani è stato elaborato un documento programmatico sulla funzione dei centri interculturali nella città di Roma, e si è profuso un grosso impegno per veder riconosciuto il valore del progetto e dargli continuità e stabilità nel tempo. Il centro ha ricevuto un premio dall’Associazione degli abitanti del centro storico e ha ottenuto finanziamenti privati su progetti specifici. Purtroppo tuttavia i centri interculturali lavorano da più di sei anni con proroghe mensili da parte del Comune e gli scandali di Mafia Capitale hanno definitivamente compromesso la possibilità di programmare il futuro. È evidente che le competenze e la motivazione degli operatori e dei volontari che da anni lavorano in questo e altri centri non sono state adeguatamente valorizzate. Shi Shu Bhavan riceve dal Comune un pro capite pro die inferiore a quello che ricevono i nidi o le scuole dell’infanzia, pur offrendo servizi che altrove non vengono offerti, quali ad esempio il segretariato sociale, l’accompagnamento pediatrico, psico-pedagogico e psicoterapeutico anche individuale delle famiglie.

C’era una volta e… c’è ancora! L’accoglienza dei bambini si svolge di pari passo a quella delle loro famiglie: negli ultimi dieci anni sono passati al centro Shi Shu Bhavan minori provenienti da venti paesi diversi e il fatto che il sostegno alla genitorialità prenda sempre le mosse da un progetto educativo sui bambini, condiviso tra genitori e operatori, si è rivelato in questi anni di fondamentale importanza soprattutto in quelle situazioni, definite in letteratura, di intersezionalità (McCall, 2005) vale a dire che derivano dal potenziamento esponenziale di un disagio ascrivibile a razza, genere, disabilità, disoccupazione e povertà.


Il centro persegue i seguenti obiettivi: a) creare un luogo di accoglienza per i bambini e le bambine - indipendentemente dalla provenienza; - indipendentemente dalla conoscenza della lingua; - indipendentemente dalla condizione giuridica del minore; b) sostenere i genitori nel loro ruolo genitoriale e per la responsabilità che ne deriva; c) mediare il rapporto tra le famiglie e le istituzioni socio-educative e sanitarie; d) sensibilizzare il territorio alle tematiche interculturali; e) creare occasioni di incontro tra cittadini di culture e/o provenienze diverse; f) diffondere buone pratiche in materia di integrazione sociale e di interculturalità.

Il progetto si fonda su alcuni presupposti importanti: • il vissuto di impegno sociale delle fondatrici e delle operatrici si configura come valore aggiunto nelle modalità di erogazione di un servizio pubblico (si fa un po’ di più di ciò che è richiesto o previsto dal progetto) e il denaro pubblico viene utilizzato in continuità con una visione di un modo equo e solidale; • la professionalità dell’educatore si valuta soprattutto relativamente all’attenzione, la cura e il rispetto della dignità e unicità del bambino e sulle competenze di costruzione di una quotidianità accogliente, serena, stimolante, divertente e di apertura all’incontro con i genitori. Tanto più il bambino presenta forme di disagio, quanto più l’operatore si sente coinvolto nella sfida di dare risposte adeguate.

L’equipe (multidisciplinare e interculturale essa stessa) condivide una visione della diversità linguistica e culturale come una ricchezza e del bilinguismo come ricchezza intellettuale. L’equipe sostiene un assetto ideale e organizzativo all’interno del quale, essendo tutti i bambini diversi, chiunque arriva è uguale agli altri. Il centro assolve quindi alle seguenti funzioni: sociale, educativa, comunicativa, linguistica, didattica, interculturale, sensibilizzazione del territorio, mediazione sociale e culturale, sostegno alla genitorialità, integrazione sociale per le famiglie italiane in difficoltà, collaborazioni con le scuole e altre istituzioni educative locali e cittadine. Il centro viene accompagnato in termini di supervisione socio-pedagogica e formazione continua, dalla scrivente (cattedra di Pedagogia sociale e interculturale) e dal dott. Bernucci direttore della

suola di psicoterapia familiare Random, quest’ultimo in particolare per un’osservazione clinica delle situazioni che lo richiedono e per eventuali interventi terapeutici.

E vissero felici e contenti? Ma la vera cura pedagogica consiste nella presa in carico quotidiana del benessere dei bambini e delle loro famiglie e nella continua riflessione sui bisogni educativi e sociali emergenti, tenendo conto di quelle specificità culturali che ogni giorno necessitano di essere de- e ri- costruite. Il fine è quello di far sentire ognuno a proprio agio nella condivisione delle regole e… far sperimentare una convivenza serena in allegria. Dalla presa in carico globale del bambino nasce la fiducia da parte della famiglia e il progetto del bambino ristruttura e dà una cornice di senso al progetto migratorio della famiglia. In questi termini il sostegno alla genitorialità diventa possibile ed efficace e in questi termini il dispositivo di accoglienza si colloca nel continuo intrecciarsi di teoria e prassi e rende dinamica la terza missione dell’università. Nei processi di accompagnamento del sociale, è possibile reperire il filo rosso che lega la consulenza pedagogica alla tradizione della ricerca azione o ricerca intervento. E chissà che dopo tanti anni, il centro interculturale non possa diventare un vero e proprio laboratorio del Dipartimento di Scienze dell’educazione di Roma Tre. Se gli enti locali romani uscissero dalla loro infinita crisi, si potrebbe iniziare una co-progettazione reale che dia respiro alle buone pratiche invece di soffocarle. Si potrebbero aprire opportunità professionali dignitose per i nostri educatori in formazione. Chissà…

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Cooperare per includere Promuovere la cooperazione tra i bambini

Susanna Pallini, Paola Perucchini, Giovanni Maria Vecchio

Secondo il Dossier Statistico Immigrazione del 2015, risiedono in Italia 1.085.274 minori immigrati, di cui 814.187 iscritti nell’anno 2014/2015 nelle scuole dei diversi livelli (il 9,2% degli iscritti). Tali bambini e ragazzi provengono da: Romania (19,3%), Albania (13,5%), Marocco (12,6%) Cina (5,1%), Filippine (3,2%), Moldavia (3,1%) India (3,0%), e sono portatori di cultura, valori e religioni diverse. I bambini e gli adolescenti che giungono nel nostro paese devono coniugare la propria cultura d’origine con quella italiana, processo legato allo sviluppo identitario, essendo la cultura un marcatore fondamentale d’identità. Possono essere ipotizzati due atteggiamenti opposti: il riferirsi esclusivamente alla propria cultura d’origine, oppure l’assimilarsi completamente alla società in cui ci si trova a vivere. Nel primo caso, vi è un rischio di contrapposizione, o addirittura di conflitto; nel secondo caso, si va incontro a perdite importanti delle proprie tradizioni e delle proprie memorie. Ambedue le direzioni implicano una scelta fra culture. Rispetto a tali antinomie è possibile pensare ad una terza via?

Pluralità di punti di vista e cooperazione Piaget nel 1931, nel pieno della ideologia nazista, basata sull’idea della supremazia di un pensiero “unico”, scriveva un saggio che è più che mai attuale oggi: L’ésprit de solidarité del bambino et la collaboration internationale. L’autore affermava: «(…) Lo spirito di cooperazione è tale che ciascuno comprende tutti gli altri, è una solidarietà interna che non abolisce i punti di vista particolari ma li mette in reciprocità e realizza l’unità nella diversità. Il dovere di un piccolo svizzero non è d’acquisire una mentalità planetaria o mondiale che sostituirà bene o male alla sua, ma di situare il proprio punto di vista tra gli altri possibili e di comprendere il piccolo tedesco, il piccolo francese allo stesso modo che lui stesso. È questa competenza a porre in relazione diversi punti di vista che noi chiamiamo cooperazione, per opposizione all’uniformità di un punto di vista assoluto». Secondo Piaget l’accordo tra persone di culture diverse non può basarsi sulla ricerca di un pensiero dominante, ma sulla capacità di porre in relazione diversi punti di vista, come base per cooperare. Un

celebre esperimento di Piaget esemplifica tale concetto: un bambino, posto davanti a un plastico rappresentante un paesaggio con tre montagne, deve illustrare la prospettiva di un altro osservatore dall’altro lato del tavolo. Se è in grado di individuare la prospettiva dell’altro, ha superato l’egocentrismo cognitivo. Perché la capacità di cogliere la prospettiva degli altri si traduca in capacità di cooperazione, occorre che i membri dell’interazione condividano dei parametri comuni, che consentano di porre i termini della questione allo stesso modo, e che la reciprocità fra i partner sia tale che le opinioni di ciascuno siano considerate ugualmente valide. Nell’accezione di Tomasello (2009) occorre un common ground, un terreno comune che consenta il confronto, basato sul rispetto della persona.

I bambini e gli adolescenti che giungono nel nostro paese devono coniugare la propria cultura d’origine con quella italiana, processo legato allo sviluppo identitario, essendo la cultura un marcatore fondamentale d’identità

Rogoff, una docente di Harvard che è entrata in contatto con le più diverse culture ed etnie, condividendone anche la quotidianità, affermava che lei, intellettuale statunitense, non poteva ritenersi appartenere pienamente ai quei popoli di cui aveva condiviso a lungo la quotidianità, ma sentiva di aver partecipato al loro gruppo culturale. Nella sua opinione, ragionare per appartenenze crea contrapposizione: richiede di scegliere se stare “dentro” o “fuori”. In realtà, i confini tra i gruppi sono continuamente mutevoli e legati alle circostanze di vita. Il credo religioso segna un confine, la professione ne segna altri, il gruppo di amici altri ancora. Non si appartiene a un gruppo, ma si partecipa a gruppi molteplici. Cooperare con persone di culture e paesi diversi vuol dire superare la visione limitante di un’appartenenza, con la visione dinamica della partecipazione a diverse comunità, ove individuo e comunità sono in costante evoluzione. Nati per cooperare Nell’analisi di stampo evoluzionista, alcuni pro-


Laboratorio Piccolo Chimico - Centro Estivo di Roma Tre 2015 (foto: Area benessere organizzativo - Università degli Studi Roma Tre)

cessi motivazionali sviluppati dall’individuo nel corso della vita si fondano su disposizioni innate, selezionate dai processi evoluzionistici e universali, che invitano a perseguire particolari forme di interazione fra organismo e ambiente da cui discendono corrispondenti valori (Gilbert, 2003; Liotti, 1994; 2005). L’agonismo - uno di questi sistemi motivazionali implica la competizione per il rango sociale). Nelle specie animali tale sistema consente la spartizione delle risorse e il diritto di accesso ad esse; negli uomini, media la ricerca di rispetto e di riconoscimento. Gli individui regolano le loro interazioni anche attraverso la definizione di ruoli gerarchici che definiscono un diverso accesso alle risorse e una diversa collocazione sociale. Nelle famiglie e nei gruppi sociali, la funzione ecologica del rango non è solo il competere per le risorse, ma anche di stabilire il grado d’influenza nel formulare decisioni. Il sistema cooperativo è attivo, invece, in tutte le relazioni caratterizzate dalla ricerca di un obiettivo congiunto, di cui è possibile rintracciare la genesi nei comportamenti di attenzione condivisa, sin dal primo anno di vita. Per poter dimostrare la tendenza alla cooperazione sin dai primi anni, sono state sviluppate una serie di situazioni sperimentali (Tomasello, 2009). In una di queste, l’adulto, impegnato in un gioco cooperativo con un bambino di poco più di un anno, interrompe la sequenza per saggiare se il bambino sia in grado di cogliere l’aspetto cooperativo e la necessità che entrambi i membri della diade partecipino attivamente al raggiungimento dell’obiettivo comune di gioco. I bambini, già verso la fine del primo anno di vita, sollecitano nell’adulto la partecipazione al gioco,

mostrando così di comprendere la natura cooperativa dell’interazione. Come afferma Tomasello (2009), nelle interazioni cooperative i partecipanti non solo reagiscono all’azione dell’altro, ma formulano delle intenzioni a riguardo delle intenzioni dell’altro, in modo da consentire la condivisione dell’obiettivo da raggiungere attraverso l’impegno di tutti: se uno degli interagenti si ritira, verrà meno alle norme insite in tale interazione. Dunque, le attività cooperative implicano sia un obiettivo condiviso che intenzioni condivise riguardo ad esso, e di conseguenza ruoli specifici che ogni membro dell’interazione svolge perché sia raggiunto l’obiettivo comune. Agonismo e cooperazione nei processi educativi Dinamiche competitive e dinamiche di cooperazione sono in antitesi (Fonzi, 2003; Knafo e Sagiv, 2004). Laddove un individuo è mosso da un desiderio di collaborazione con altri, non può essere allo stesso tempo mosso da motivazioni agonistiche di prevaricazione sugli altri. Dinamiche agonistiche consentono di raggiungere un obiettivo di successo individuale e di incentivazione del sé rispetto agli altri; dinamiche di collaborazione consentono di raggiungere obiettivi condivisi dal gruppo e di incentivazione dell’insieme dei partecipanti. Nello stesso tempo, agonismo e cooperazione fanno entrambi parte della natura umana: la spinta agonistica, come già affermato, è una delle motivazioni fondamentali e dinamiche agonistiche sono presenti in modo imprescindibile nelle relazioni umane e nei sistemi d’istruzione, come ad esempio nei processi di valutazione: è compito dell’educatore imparare a riconoscerle e non operare su di

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esse processi di negazione. La negazione d’istanze agonistiche non consente, infatti, di applicare un pensiero ad esse, e lungi dallo scoraggiarle, le rende particolarmente violente e altamente patogene, proprio perché inconsapevoli. L’educatore può assecondare le dinamiche agonistiche o può lavorare per la cooperazione. Come afferma Liotti (1994/2005), se in un membro di una relazione si attiva un sistema motivazionale, si produce nell’interlocutore l’attivazione del sistema motivazionale reciproco. Ad esempio, un atteggiamento agonistico di sfida in un alunno attiva la tendenza reciproca a porsi in antagonismo. Se l’educatore coglie che tale attivazione è conseguenza di una frustrazione, potrà attivare in sé emozioni e comportamenti non agonistici, ma anzi la volontà di prendersene cura, e consentire all’alunno, in tal modo, di sperimentare nuove forme di relazione. Ricordiamo fra questi lo storico esperimento di Sherif (1966) sull’attivazione di dinamiche competitive o di collaborazione, sotto l’influenza esercitata dall’organizzazione educativa. In un campeggio estivo dinamiche agonistiche furono incentivate attraverso la suddivisione dei ragazzi partecipanti in due squadre antagoniste. Ogni squadra, caratterizzata da segni distintivi e da una sua denominazione, era in gara con le altre per ottenere premi e riconoscimenti. Con il trascorrere dei giorni la competizione tra squadre fece sorgere una crescente ostilità tra i gruppi. I responsabili del campo decisero d’intervenire per sedare i conflitti, attraverso la proposizione di istanze cooperative. Portarono i ragazzi in gita e fecero in modo che il pullman che doveva portarli si rompesse e che occorresse la collaborazione di tutti per poterlo riparare. La condivisione di un obiettivo comune ristabilì immediatamente dinamiche di collaborazione. Dweck (2000) nel suo libro Teorie sul sé afferma che il rendimento scolastico, può essere considerato come frutto dell’impegno o, all’opposto, come espressione delle doti intellettive dell’allievo, che lo distinguono o caratterizzano rispetto agli altri. I giudizi dati all’impegno non attivano dinamiche competitive, perché l’impegno può essere condiviso con i compagni, anche attraverso l’offerta e la richiesta di aiuto; al contrario, i giudizi formulati sulla persona implicano un confronto e quindi un incremento di dinamiche competitive. Ad esempio, lodare gli alunni per doti intrinseche quali intelligenza o talento, di fatto stabilirà una sorta di graduatoria fra loro, favorendo così dinamiche agonistiche. Le gerarchie di merito sono destinate a cristallizzarsi in preconcetti e stereotipi, che co-

stituiscono rappresentazioni dell’esperienza semplificata. In ambito scolastico spesso si pone l’attenzione su fenomeni negativi da prevenire e contrastare, quali il bullismo e i conflitti, piuttosto che sui comportamenti positivi da promuovere, come la cooperazione e la condivisione di esperienze. Tali comportamenti, infatti, devono essere considerati parte integrante del percorso di crescita dei bambini, in quanto giocano un ruolo essenziale nelle dinamiche interne al gruppo classe. Ambienti di apprendimento in cui sono stimolati la cooperazione e l’aiuto reciproco, come quelli in cui si promuovono comportamenti prosociali, pongono le basi per un clima scolastico inclusivo, capace di aiutare bambini, giovani e docenti ad affrontare un percorso scolastico e accademico di successo. Educare alla prosocialità a scuola favorisce infatti la creazione di relazioni interpersonali positive e la prevenzione di condotte negative e devianti e, più in generale, risultati di apprendimento degli studenti maggiormente positivi (Caprara, Gerbino, Luengo Kanacri, Vecchio, 2014). Cohen (2004) ha elaborato un modello di apprendimento cooperativo basato fortemente sulla valorizzazione del contributo di ciascuno. In tale modello, ha contrapposto le dinamiche di classe basate sulla definizione di status, o categorizzazione gerarchica, a dinamiche di riconoscimento e valorizzazione delle peculiarità di ciascuno, basate sul principio: “Nessuno di noi ha tutte le abilità, ma ciascuno ne ha qualche d’una”. Per educare alla cooperazione occorre organizzare compiti complessi con un obiettivo superordinato, che implichino competenze di vario genere e definiscano ruoli distinti in grado di valorizzare ogni singolo alunno in ciò che sa fare, e in ogni peculiarità culturale di cui sia portatore. In un famoso film Non uno di meno di Zhang Yimou (1999) viene narrato di una giovane adolescente, in uno sperduto paesino delle campagne cinesi, a cui viene affidato il compito di insegnare in una scuola elementare, dove frequentemente i bambini abbandonano la scuola per andare a lavorare. La giovanissima maestra sarà retribuita solo se tutti i ragazzi, “non uno di meno”, arriveranno alla fine dell’anno scolastico. Quando, nel corso dell’anno si verifica che un bambino abbandona la scuola e viene inviato dai genitori in una grande città per guadagnarsi da vivere, tutta la classe si muove per andare a cercarlo e tornare a scuola con non uno di meno. In modo molto poetico viene espresso come l’impegno di tutti possa essere necessario per la riuscita di ciascuno.


La relazione con le famiglie

I servizi educativi 0-3 anni come primo luogo di mediazione interculturale Maura Di Giacinto

A partire dalla legge istituiva del 1971, la diffusione sul territorio italiano dei servizi educativi 0-3 anni ha segnato l’inizio e lo sviluppo di esperienze comunali di grande interesse accompagnate da un intenso periodo di riflesMaura Di Giacinto sione culturale, di ricerca scientifica e di sperimentazione educativa che hanno costituito il fenomeno comunemente denominato cultura del nido. Anche in questo caso l’esperienza ha preceduto la ricerca e il nido si è andato definendo sempre di più come il luogo in cui le pratiche e i modelli educativi, nel farsi espliciti, sono diventati oggetto di riflessione e di confronto soprattutto da parte degli educatori – anche in forza dei percorsi di aggiornamento che li hanno visti protagonisti – e delle famiglie che, nel confrontarsi con quei modelli e quelle pratiche, sono diventate parte integrante del progetto educativo del nido. È questo valore aggiunto del servizio offerto alle famiglie che ha permesso al mondo dei nidi di progettare, pianificare ed articolare risposte differenziate ai bisogni delle famiglie con bambine/i piccole/i. La relazione con le famiglie, che si articola inevitabilmente nella quotidianità, individua come interlocutori dei nidi non solo le/i bambine/i ma anche i loro genitori; questa prospettiva educativa e questa rinnovata consapevolezza degli educatori definiscono il senso più profondo dell’asilo nido come luogo di relazioni e di elaborazione di una sua specificità posta nell’attenzione continua e costante sia agli aspetti relazionali dell’educazione delle bambine e dei bambini che alla centralità della relazione tra gli adulti che sono impegnati nell’esperienza educativa con loro.

Promuovere, sostenere e consolidare una sorta di “continuità educativa” tra gli educatori “professionali” del nido e gli educatori “naturali” (i genitori) porta con sé, tra le altre, due importanti conse-

guenze che chiamano in causa la consapevolezza, la responsabilità e l’intenzionalità educative. La prima rinvia all’idea che i percorsi educativi orientati allo sviluppo e all’autonomia sono il risultato di un impegno congiunto tra le/i bambine/i e gli adulti che ne condividono la cura; la seconda conseguenza richiama la inevitabilità dello scambio costante e reciproco tra i due diversi contesti nei quali le/i bambine/i crescono: il nido e la famiglia che, in virtù di questo scambio vitale, si influenzano reciprocamente. L’azione degli educatori non si esaurisce quindi nel rapporto con le/i bambine/i, ma si colloca in un sistema complesso di relazioni che risulta fortemente influenzato anche dal tipo di relazione che i genitori hanno con i propri figli; conseguentemente l’intervento degli educatori sarà tanto più efficace quanto più terrà conto del comportamento delle/i bambine/i all’interno del sistema familiare di riferimento.

Nella costruzione degli spazi, dei tempi e delle azioni indirizzati a favorire la costruzione della “continuità educativa” tra la famiglia e il nido, così che stili educativi e relazionali diversi possano comprendersi ed integrarsi, una specificità è rappresentata dalla presenza nei nidi dei minori migranti e delle loro famiglie. I temi della migrazione interessano fortemente i sistemi educativi e sollecitano complesse problematiche organizzative, sociali, culturali; i servizi e le agenzie educative hanno, pertanto, un ruolo chiave nel facilitare e sostenere i processi d’integrazione e di inclusione, offrendo risposte adeguate ai mutamenti generali dell’istituzione familiare e ai bisogni differenziati di famiglie stratificate socialmente. Il rapporto nazionale 2016 realizzato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in collaborazione con la Fondazione Ismu (Istituto per lo Studio della Multietnicità) sugli Alunni con cittadinanza non italiana. La scuola multiculturale nei contesti locali approfondisce, attraverso analisi statistiche, il fenomeno relativo alla presenza nella scuola italiana di alunni e studenti di origine non italiana, nati e cresciuti in Italia o immigrati recentemente. Un dato particolarmente significativo dell’indagine riguarda gli alunni migranti nati in Italia che, già da qualche anno, costituiscono la

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maggioranza raggiungendo nel 2014/15 (anno scolastico di riferimento dell’indagine) il 55,3% degli iscritti stranieri; tale percentuale sale addirittura all’84,8% nella scuola dell’infanzia. Questi dati testimoniano il ruolo decisivo che i nidi e gli educatori possono giocare nel predisporre percorsi d’inserimento e di ambientamento rivolti alle famiglie, migranti e non, orientati a favorire il dialogo tra adulti, educatori e genitori, e a condividere la stagione, unica e irripetibile, della genitorialità. Il modello di servizio educativo prospettato risponde ad una idea di nido come luogo d’incontro tra diverse esperienze e diverse pratiche relazionali ed educative e come luogo di mediazione interculturale che trova i suoi interlocutori privilegiati non tanto nei bambini o nelle bambine, migranti e non, ma nei loro padri e nelle loro madri. Attraverso i racconti e le narrazioni dell’esperienza della maternità e della paternità, scandita dalle differenti espressioni frutto delle variabili culturali di appartenenza, gli educatori saranno impegnati a far emergere le aspettative dei genitori, migranti e non, nei confronti del servizio.

La relazione con le famiglie, che si articola inevitabilmente nella quotidianità, individua come interlocutori dei nidi non solo le/i bambine/i ma anche i loro genitori; questa prospettiva educativa e questa rinnovata consapevolezza degli educatori definiscono il senso più profondo dell’asilo nido come luogo di relazioni

Alcuni interrogativi consentono di avviare una riflessione relativa alle interazioni che – in quanto pedagogisti, educatori, insegnanti – costruiamo con le famiglie e le/i bambine/i provenienti da realtà geografiche, culturali e linguistiche diverse: cosa significa essere madri o padri in terra di emigra-

zione? Cosa significa «fare» o «essere» famiglia durante l’esperienza emigratoria? Quale eredità culturale e valoriale ricevono i figli dai loro genitori? Quella che rinvia al contesto di origine o quella che risponde alle richieste di conformazione provenienti dal contesto migratorio?

Senza spingermi verso sintesi riduttive, vorrei presentare alcuni spunti di riflessione che sono emersi da una ricerca, che ho condotto negli ultimi anni ed è tuttora in corso di completamento; utilizzando strumenti di indagine quanti-qualitativi il percorso ha esplorato i vissuti e le rappresentazioni della genitorialità di madri e padri migranti i cui figli frequentano i servizi educativi (0-6 anni) presenti sul territorio romano. L’argomento è indubbiamente molto vasto e complesso, pertanto gli elementi conoscitivi e i dati finora emersi dalla ricerca sono stati utilizzati privilegiando la prospettiva della formazione in servizio degli educatori e degli insegnanti, finalizzata a comprendere prima e sostenere poi le famiglie in «migrazione».

Dai racconti e dalle narrazioni relative all’esperienza della maternità e della paternità in «migrazione» finora raccolti emerge che le variabili che caratterizzano fortemente le dinamiche di queste famiglie sono molteplici e diversificate. Le motivazioni che hanno determinato la scelta migratoria, il progetto migratorio che la orienta, le politiche di accoglienza messe in atto, i tempi relativi alla costituzione del nucleo famigliare (precedente o successiva all’esperienza migratoria), la composizione del nucleo famigliare (presenza di entrambi i genitori, presenza di un solo genitore, presenza di altre figure adulte di riferimento etc.) sono solo alcune delle variabili che incidono fortemente sui percorsi di analisi e di comprensione delle dinamiche relazionali che attraversano le famiglie migranti; anche il genere, l’età, il livello d’istruzione dei membri del nucleo famigliare, la sua storia, le modalità con le quali è stata intrapresa ed elaborata l’esperienza migratoria, l’eventuale sostegno da parte della comunità di appartenenza e altre variabili ancora, danno forma a una varietà complessa e diversificata di sistemi familiari «migranti».

Sono venuta a contatto, solo per citarne alcune, con famiglie monogenitoriali; con nuclei familiari i cui componenti sono stati separati per anni e poi successivamente hanno potuto ricongiungersi: madri, padri, figli che si ritrovano dopo diversi anni di lontananza e che vivono situazioni di profonda estraneità; famiglie in cui l’adulto di riferimento non è


un genitore ma altri adulti: fratelli grandi, zii, parenti lontani o adulti non parenti. Le differenze all’interno della complessità e della specificità dei vissuti familiari che l’esperienza migratoria determina sono tali da rendere impossibile un lavoro di catalogazione senza correre il rischio di ridurre e sacrificare fortemente i loro vissuti e le loro narrazioni. Però alcune traiettorie interpretative è possibile delinearle; dai colloqui che ho realizzato con i genitori migranti i cui figli, nati in Italia, frequentano i servizi educativi di Roma Capitale è emerso che i servizi rappresentano il primo ingresso nella scena pubblica di queste famiglie. La testimonianza maggiormente condivisa dai genitori migranti ascoltati riguarda la condizione di «partecipazione» alla quale si sentono di dover rispondere in seguito alla nascita dei figli: ai servizi sanitari, ai servi pediatrici e a quelli educativi; per la maggior parte di loro la nascita dei figli modifica e trasforma il progetto migratorio che tende verso un inserimento meno provvisorio e marginale.

Le diverse testimonianze raccolte rinviano anche al tema della responsabilità genitoriale relativa alla eredità da trasmettere ai propri figli in termini di valori e di norme; una eredità che deve poter rispondere sia al bisogno di mantenere saldo il legame con le proprie origini che alla necessità di elaborare e di integrare in modo positivo le influenze e le sollecitazioni provenienti dal contesto d’immigrazione. Tutto ciò rimanda, inevitabilmente, al tema della responsabilità genitoriale in termini di continuità e di fedeltà ai modelli introiettati; responsabilità che attraversano tutte le famiglie, migranti e non, impegnandole nella negoziazione costante tra elementi di continuità e di cambiamento rispetto ai modelli familiari ereditati. La specificità che caratterizza le famiglie migranti riguarda l’ulteriore difficoltà che la mediazione continua tra codici diversi (con la famiglia di origine, con la generazione dei figli, con il contesto sociale) chiama in causa anche la relazione con il gruppo maggioritario che ne condiziona il senso e la direzione, così come dimostrato dagli studi e dalle ricerche realizzati dai Paesi di più antica immigrazione. Ed è proprio con l’iscrizione ai servizi educativi che molte famiglie migranti sperimentano quello che viene individuato come il «distacco culturale» tra la loro storia e quella dei loro figli: il nido rappresenta, infatti, il primo luogo in cui le famiglie migranti sono chiamate a confrontarsi con altre pratiche formative, altre tipologie del fare educazione in cui i rapporti di classe, i condizionamenti sociali, le norme comportamentali, l’imma-

gine di sé, la percezione e l’uso del corpo, assumono volti e significati assai diversi da quelli interiorizzati, presentando - a volte - elementi di forte criticità. Ne consegue che molte delle testimonianze rilasciate dai genitori migranti raccontano lo sforzo e l’impegno profuso nella continua ricerca di spazi di mediazione capaci di combinare, meticciandoli con maggiore o minore successo, il bisogno di mantenere solido il legame con le proprie origini con lo sforzo di integrare le influenze e le richieste di adesione provenienti dal nuovo contesto sociale e culturale. Le numerose e diversificate questioni che si intrecciano e si combinano nel presente percorso di riflessione sui servizi educativi come luoghi di mediazione interculturale sono state solo accennate, ma la ricerca su questo tema va approfondita per le implicazioni che determina sull’immagine e sull’identità dei servizi, sulla qualità della professionalità degli educatori e degli insegnanti e, soprattutto, per il contributo che può offrire alla genitorialità in termini di consapevolezza e di valorizzazione delle risorse e delle competenze in termini emancipativi.

In attesa dei Decreti Legislativi Attuativi della cosiddetta “Buona Scuola” (Legge 107/2015 del 13 luglio 2015) - che ha riformato gli asili nido e i servizi per l’infanzia attraverso la predisposizione del “sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita a sei anni” – l’esperienza realizzata dai servizi educativi per l’infanzia e la “cultura del nido” che sempre più si è diffusa a livello sociale e culturale dovranno diventare patrimonio del lavoro educativo e relazionale del “sistema integrato 0-6 anni” nel suo complesso; ciò significa assumere tra le competenze professionali degli educatori dei servizi educativi e dei docenti della scuola dell’infanzia la ricerca di strategie di raccordo efficaci tra le due realtà che il bambino attraversa. Lo spazio della relazione pedagogica che il nido offre può, pertanto, diventare una straordinaria esperienza di crescita per tutti i protagonisti del “sistema integrato 0-6 anni”: gli educatori, gli insegnanti, i genitori, i/le bambini/e. Le trasformazioni sociali che hanno attraversato profondamente il nostro paese nell’ultimo ventennio, hanno influenzato profondamente il modo di intendere e di vivere la genitorialità e hanno promosso una diversa attenzione verso la presenza dei genitori all’interno dei servizi educativi favorita, tra l’altro, dal bisogno di sostegno psicologico e pedagogico che questi ultimi hanno sempre più manifestato; in questo senso il nido può dare anche un contributo alla qualificazione delle competenze genitoriali.

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Nuovi approdi a Lampedusa Promuovere l’inclusione crescendo piccoli lettori Elena Zizioli

Lampedusa e migranti: queste parole negli ultimi tempi si sono caricate di significati negativi, amplificati soprattutto dai mass media. Il Mediterraneo è diventato il mare dei Elena Zizioli naufragi e delle fughe disperate di chi è costretto a scappare dal proprio Paese. Chi riesce però a guardare più in profondità, a leggere oltre i messaggi allarmistici della cronaca, a conoscere l’isola, scopre una comunità che, pur tra resistenze e rassegnazione, prova a garantire «approdi di dignità» perché sa che dietro a quei viaggi ci sono sogni, speranze e storie di vita, e perché è importante proteggere le persone e non i confini. Dal 2013 sull’isola non approdano solo uomini e donne, in cerca di destini migliori, in fuga da guerre e da Paesi dove la violazione dei diritti umani è la norma, ma anche libri, che non hanno bisogno di essere accolti, ma che accolgono: si tratta di libri speciali, che provengono dai cinque continenti e comprendono tutte le lingue perché non ne parlano nessuna: sono silenziosi. Questi libri realizzati nei più diversi formati e materiali, con le sole immagini provano ad allargare gli orizzonti, a superare i confini: non hanno paura della diversità, anzi hanno l’ambizioso obiettivo di educare bambini e ragazzi, a una cittadinanza planetaria, a sentirsi tutti parte della stessa comunità umana. C’è ormai molta letteratura scientifica sul superamento della subalternità delle illustrazioni rispetto al testo scritto, sulla loro efficacia comunicativa, sull’importanza della loro funzione nel costruire percorsi educativi interculturali perché la lettura si qualifichi anche come un’esperienza di democrazia e non solo come una dimensione cognitiva ed emotiva. In questa collezione singolare dal titolo: Libri senza parole. Dal mondo a Lampedusa e ritorno le immagini sono messaggere delle diverse culture e aiutano a rovesciare le prospettive. Si scoprono personaggi che escono dagli schemi abituali e le scene ritratte mostrano la ricchezza della diversità. Ci

s’introduce così, attraverso le storie, in maniera semplice e immediata, nei differenti universi, per trasmettere valori quali la solidarietà e la tolleranza, per promuovere l’incontro e il dialogo. Tanti sarebbero gli esempi da citare e invitiamo chi fosse interessato a individuarli personalmente: le copie di questi volumi sono, infatti, conservate presso lo Scaffale d’arte del Palazzo delle Esposizioni di Roma, a disposizione di ricercatori, docenti, appassionati e possono girare, a richiesta, per i diversi Paesi, con l’ottica appunto di costruire ponti avvicinando i bambini di tutto il mondo. La mostra è, infatti, parte di un progetto di cooperazione internazionale dal titolo: La biblioteca che verrà, realizzato grazie al vivo impegno degli attivisti della sezione italiana di IBBY (International Board on Books for Young People) (http://www.ibby.org), una rete internazionale composta da editori, librai, docenti, esperti, autori e illustratori di circa 75 sezioni nazionali per facilitare l’incontro fra libri, bambini e ragazzi e favorire l’accoglienza e lo scambio. L’impegno è appunto allestire, sull’isola nel mezzo del Mediterraneo, una biblioteca: una scommessa impegnativa maturata dalla convinzione che un’etica solidaristica non possa prescindere dalla formazione di «teste ben fatte» proprio attraverso i libri, perché quando un testo interessa ed emoziona nel giovane lettore lascia traccia, viene elaborato; nello specifico, l’albo illustrato - precisa lo studioso Marco Dallari - «diviene poi, nel tempo, oggetto del ricordo, traccia visibile di memoria affettiva, cognitiva, identitaria» (M. Dallari, Testi in testa, Erickson, Trento 2012, pp. 56-57).


Del resto, in occasione dell’evento di promozione dell’iniziativa lampedusana al XXIX Salone Internazionale del Libro di Torino, lo scrittore Fabio Stassi ha ricordato che una biblioteca è il «territorio del possibile, prima che del reale. E una biblioteca per bambini e per ragazzi lo è più di ogni altro posto. Uno dei pochi luoghi che ci possono restituire l’unica cittadinanza e identità che abbiamo tutti, quella di esseri umani».

Dal 2013 sull’isola non approdano solo uomini e donne, in cerca di destini migliori, ma anche libri, che non hanno bisogno di essere accolti, ma che accolgono: si tratta di libri speciali, che provengono dai cinque continenti e comprendono tutte le lingue perché non ne parlano nessuna: sono silenziosi. Questi libri realizzati nei più diversi formati e materiali, con le sole immagini provano ad allargare gli orizzonti, a superare i confini

Ci si è adoperati allora per costruire uno spazio che, intorno ai libri, sapesse creare «scambi ed emozioni, parole e memorie comuni», come suggerito da Deborah Soria, responsabile del progetto. Attraverso volumi di qualità si è cercata una riconciliazione tra la dimensione locale e quella globale per decostruire false e pericolose rappresentazioni alimentate dalla paura del diverso, dallo stereotipo del migrante percepito come l’invasore, e nel contempo per contrastare insidiosi tentativi neocolonialisti con l’imposizione di specifici modelli di convivenza, per sottrarsi e superare logiche emergenziali. Lo ha ribadito il sindaco Giusi Nicolini all’inaugurazione del progetto, precisando che i bambini migranti devono poter considerare l’isola non «la tappa di un viaggio» o solo uno spazio da attraversare. Per i minori arrivati in maniera fortunosa sulle nostre coste, infatti, non ci sono strumenti né si progettano momenti d’incontro con gli autoctoni. Una criticità che è diventata nel tempo anche una specificità dell’isola seriamente in difficoltà nell’implementare servizi oltre le urgenze della prima ora, legate alle pratiche degli sbarchi. La permanenza nei Centri di accoglienza è un periodo dove il tempo si dilata perché privo di attività interessanti e stimolanti e questo vuoto educativo inevitabilmente compromette lo sviluppo cognitivo

ed emotivo, specie dei più piccoli. C’è sicuramente bisogno di assistenza materiale e sanitaria, ma anche di nutrire le menti, di restituire a quei bambini, spesso privi di accompagnatori adulti, come documentano gli ultimi rapporti (IDOS, a cura di, Dossier Statistico Immigrazione 2015, IDOS, Roma 2015), il loro diritto all’infanzia perché, come insegnano le fiabe, non esistono destini ineluttabili. Quali migliori strumenti allora di libri colorati accessibili a tutti perché composti con il linguaggio universale delle immagini? Ci sono poi i bambini e i ragazzi dell’isola: circa 1060, i quali vivono anch’essi in una condizione di esclusione. Lampedusa, infatti, espressione di un Sud dimenticato, rappresenta un territorio a rischio di povertà educativa perché privo, secondo il concetto elaborato dall’organizzazione Save The Children, «della possibilità […] di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni» (Save The Children, La Lampada di Aladino, 2014, p. 4, scaricabile all’indirizzo: http://www.savethechildren.it/) . Poche, infatti, le possibilità dopo la scuola dell’obbligo e scarse anche le opportunità per il tempo libero e, sempre secondo il rapporto di Save, l’assenza di libri figura tra gli indici di povertà. Da qui l’idea di una biblioteca pubblica dotata della migliore produzione proveniente da ben ventitré Paesi. Come ha ampiamente dimostrato la letteratura scientifica di riferimento, si pensi, ad esempio, agli studi di J. Bruner o di A. Chambers, il pensiero narrativo costituisce una modalità universale per organizzare l’esperienza, per esplorarla e costruire significati condivisi, dando forma e senso alla realtà, mettendo in relazione passato, presente e futuro. Precisa appunto Chambers che «nell’atto del raccontare a noi stessi cosa è accaduto, a chi, e perché, non soltanto scopriamo noi stessi e il mondo, ma cambiamo e ri-creiamo noi stessi, come pure il mondo attorno a noi» (A. Chambers, Siamo quello che leggiamo, Equilibri, Modena 2011, p.130).

(Per gentile concessione di: Palazzo delle Esposizioni Servizi educativi)

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Il progetto di allestimento di una biblioteca sull’isola di Lampedusa ne è stata una concreta dimostrazione.

Come ha ampiamente dimostrato la letteratura scientifica di riferimento, il pensiero narrativo costituisce una modalità universale per organizzare l’esperienza, per esplorarla e costruire significati condivisi, dando forma e senso alla realtà, mettendo in relazione passato, presente e futuro

Essere attivisti IBBY ha significato ridare voce ad una comunità, rimarcando l’importanza di una riflessione collettiva e restituendo alla lettura una dimensione politica, perché leggere è partecipare. Dal 2013 sino ad oggi si sono organizzati quattro campi con il coinvolgimento, a titolo gratuito, di professionisti specializzati come illustratori, editori, librai, scrittori per l’infanzia, docenti ed anche appassionati lettori. Perché i libri da soli non sono sufficienti, hanno bisogno di «traghettatori» (M. Petit, Elogio della lettura, tr. it., Ponte alle Grazie, Milano 2010, p.9), e cioè di facilitatori, di coloro che come insegnanti ed educatori si fanno mediatori, offrono aiuto, sostegno ed opportunità, incoraggiano e favoriscono il processo di cambiamento. Per una settimana l’anno Lampedusa diventa l’isola dei libri e delle storie e si organizza un ricco programma di attività per i bambini e i ragazzi delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria, e incontri di approfondimento e discussione sull’importanza della lettura con i docenti, dell’unico complesso presente sull’isola: l’Istituto Omnicomprensivo Luigi Pirandello. Con il contributo di alcune associazioni si è cominciato anche a lavorare per costruire percorsi per i minori ospiti dei Centri di accoglienza e a progettare la formazione per gli operatori. Si tratta di fare un investimento sulle risorse locali, affinché l’isola sia sottratta dall’isolamento e possa configurarsi realmente come un contesto educativo, stimolante fin dalla prima infanzia. Oggi, passando per via Roma, la via principale, sede dei locali, si coglie quanto la biblioteca rappresenti uno spazio vivo, aperto alla comunità e al territorio, dove è possibile non solo leggere, ma anche condividere, trovare un luogo di incontro e confronto, e, soprattutto, valorizzare il protagonismo di bambini e ragazzi: i più grandi, con la su-

pervisione degli adulti, gestiscono il servizio prestiti, in attesa che si compia il passaggio dalla fase della sperimentazione a quella della stabilizzazione. Lo sforzo di IBBY in questi anni è stato quello di accompagnare i percorsi di crescita, perché leggere è un diritto di tutti, che va esercitato dalla primissima età. L’impegno a Lampedusa ha sicuramente il carattere dell’eccezionalità, ma rischierebbe di essere mal interpretato se non compreso in un disegno più ampio che la sezione italiana sta portando avanti da diversi anni, affrontando tematiche calde come quella della legalità o della disabilità considerando i libri come motori di cambiamento, strumenti tra i più efficaci per costruire percorsi inclusivi, scegliendo tra la migliore produzione per bambini e ragazzi (cfr. http://www.bibliotecasalaborsa.it/ragazzi/ibby/). Gli obiettivi da raggiungere sono tanti e importanti. Chi scrive è ora impegnata a sistematizzare i risultati dell’esperienza lampedusana perché, oltre ad essere sostenuta, possa essere replicata come buona pratica in altri territori; in quest’operazione c’è il sostegno della casa editrice Sinnos, in particolare della sua presidente Della Passarelli, tra i primi editori coinvolti nel progetto e in molte delle iniziative promosse da IBBY Italia. Dopo l’allestimento della biblioteca, parole come Lampedusa e migranti non solo si sono caricate di significati positivi, ma ne hanno richiamate altre come cittadinanza, diritti, partecipazione, con piena soddisfazione degli attivisti IBBY, i quali, con il loro esempio di cittadini responsabili, hanno dato piena attuazione all’art. 2 della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».


Libro delle mie brame

La lettura come imprescindibile strumento di educazione Lorenzo Cantatore

Nelle ultime settialternativi (anzi, probabilmente complementari mane hanno fatto nella formazione dell’immaginario infantile) per il giro del mondo accedere ad una narrazione purchessia. Questo fele immagini di nomeno di indubbia crescita culturale si è verificato Saber Hossein, il assieme ad un progressivo innalzamento, più o maestro afgano che meno generalizzato, dei livelli d’istruzione. Tuttaporta libri in bicivia occorre richiamare un dato contraddittorio e cletta ai bambini sconcertante. Le statistiche ci dicono che, nonodel distretto di Bastante tutto ciò, la percentuale dei lettori (in partimiyan, lontani da colare nel nostro Paese) tende inesorabilmente a scuole e bibliotecalare. Pare che tra i lettori più forti ci siano i gioche. La vicenda, vani (le giovani in primis), ma qui interviene l’amsenz’altro di granbiguità che la presenza dei testi scolastici nella loro Lorenzo Cantatore de impatto mediabiblioteca attribuisce alle statistiche che hanno per tico, ha sollevato nuove riflessioni sul privilegio oggetto il loro rapporto con il libro. La parola “leteducativo offerto dall’oggetto-libro ai lettori giotori”, infatti, si riferisce a quella fascia di popolavanissimi. Oggi, nel mondo occidentale e in quello zione che fa uso del libro stampato non per motivi occidentalizzato, la produzione editoriale destinata di studio o di lavoro, ma per godere di un’espeall’infanzia ha raggiunto un livello quantitativo e rienza culturale significativa nel tempo libero, qualitativo molto elevato. Il grande lavoro che, a finalizzata ad accrescere il proprio profilo intelletpartire dagli anni Sessanta del Novecento, è stato tuale ed emotivo, a tenere costantemente aperti gli fatto per rinnovare radicalmente i codici comuniorizzonti del pensiero e dell’immaginazione, ad alcativi (linguistici e iconici) del libro per bambini lenare l’atteggiamento critico e attivo di fronte ai ha conseguito, proprio nell’ultimo decennio, risulfatti della vita. Qualcuno sostiene con preoccupatati d’eccellenza, dovuti forse anche alla concorzione che la lettura stia percorrendo una pericolosa renza crescente del contributo culturale che i new «deriva elitaria» e che, negli anni, sarà un’arte pramedia (app, videogiochi, e-book, le varie forme ticata da una comunità sempre meno numerosa. della crossmedialità etc.) hanno messo in campo. D’altra parte i neuroscienziati incrementano la prePare, infatti, che questa competizione non abbia occupazione con i risultati delle loro ricerche suldato luogo a una l’apporto straordinaresa incondizionata rio e unico che la letda parte del vecchio tura letteraria (di un caro libro, ma che romanzo, di un racanzi lo abbia stimoconto, di una poesia, lato ad affinare semdi un saggio) rapprepre più e sempre senta per la mente meglio i suoi struumana. Recentemenmenti di seduzione. te (Roma, ottobre Non si tratterebbe 2015) il rapporto fidunque (come spesso nale Censis-Treccani siamo portati a pensu La trasmissione sare, banalizzando la della cultura nell’era questione) di passare digitale ha affermato con forza che la letdel vecchio al nuovo Prime pagine del manoscritto autografo di Lewis Carroll, Alice’s Adventures in Wonderland (1865). Il disegno tura favorisce «lo svima di tenere in vita, rappresenta la prima scena del racconto, Alice annoiata luppo di facoltà parallelamente, strumentre ascolta la sorella maggiore che le legge un libro analitiche in misura menti diversi e non senza figure

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maggiore rispetto alla decodifica di messaggi iconici». La rinuncia a questa possibilità di crescita, dunque, provocherebbe danni irreversibili nelle nuove generazioni. Dal punto di vista delle scienze dell’educazione, una situazione così complessa ha innescato un serrato dibattito accademico soprattutto fra teorici, storici e critici della letteratura per l’infanzia. Da qualche anno, per molti di noi che ci dedichiamo alla formazione universitaria di educatori e di insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria, è diventato inevitabile lavorare con i nostri studenti intorno a teorie e a pratiche che fanno riferimento al piacere della lettura, alla lettura sensuale (E. Detti), alle emozioni della lettura (M.C. Levorato), alla formazione del lettore (S. Blezza Picherle) e alle tecniche di lettura ad alta voce applicabili alle varie età dell’infanzia (R. Valentino Merletti), finalizzate a tamponare l’emergenza della cosiddetta crisi della lettura. L’imperativo è: far accostare con gioia il bambino al libro affinché da adulto sia un buon lettore. La lettura in sé come azione (ancor prima della letteratura per l’infanzia come corpus di testi che la sollecita) sembra essere diventata una vera e propria disciplina di studio, un’arte per la quale si possono stabilire regole da apprendere e rispettare se si vogliono ottenere effetti positivi sulla formazione di chi ci sta di fronte. Leggere ai/con i bambini è un’attività che non si può improvvisare e che richiede una buona preparazione purché, alla base, ci sia un forte interesse personale. Oggi chi siede su una cattedra universitaria di Letteratura per l’infanzia ha due obbiettivi primari, uno lontano e uno vicinissimo: il primo riguarda l’autorevolezza culturale che gli studenti universitari di adesso sapranno conquistarsi nel momento in cui diventeranno insegnanti e si porranno di fronte ai bambini con la sfida “impossibile” di un libro in mano, il secondo (più urgente e decisivo, propedeutico

Scena iniziale del film di Wolfgang Petersen, La storia infinita (1984) tratto dall’omonimo romanzo di Michael Ende (1979)

direi) riguarda la possibilità di “contaminare” il set dei piaceri della vita, che ciascuno studente ventenne ha in sé probabilmente già organizzato, con un po’ di piacere della lettura. Tutto ciò perché i maestri e gli educatori di domani non potranno far breccia nell’intelligenza “radiografica” che il bambino mette in atto di fronte all’adulto, se avranno la pretesa di trasmettere una gioia mai provata e una consapevolezza non conquistata sulla base della propria esperienza. Dunque il primo obbiettivo è avvicinare i nostri studenti ai modi, ai tempi, agli spazi, ai materiali di godimento che la lettura di un testo letterario può creare nella nostra vita, integrando e non sostituendo le occasioni di felicità che ci procurano altri media, con caratteristiche (modi, tempi, spazi, materiali) completamente diverse. Questo lavoro esige l’abbattimento prelimi-

Nel 2015 il rapporto finale CensisTreccani su La trasmissione della cultura nell’era digitale ha affermato con forza che la lettura favorisce «lo sviluppo di facoltà analitiche in misura maggiore rispetto alla decodifica di messaggi iconici»

nare del tabù che vede la letteratura per l’infanzia come una letteratura di serie B, più facile, che non richiede particolari strumenti interpretativi, che non può accendere l’attenzione culturale di un adulto se non in relazione al bambino (con tutti i pregiudizi limitativi che ciò comporta), infine come la «grande esclusa» (F. Butler) dal Gotha letterario. Da oltre quarant’anni, invece, un’attenta riflessione epistemologica, affiancata da una sempre più sistematica esplorazione storica (alla cui origine, in Italia, c’è l’impegno ermeneutico di A. Faeti e della sua scuola nell’ateneo bolognese) ha dimostrato l’importanza della letteratura per l’infanzia nella costruzione dell’immaginario collettivo e la sua problematicità interdisciplinare. Tutto ciò ne fa un prodotto culturale che se da una parte soddisfa il desiderio d’immediatezza proprio della comunicazione infantile, dall’altra sollecita il gusto adulto per la molteplicità delle ipotesi interpretative che ne possono scaturire. «Il libro per bambini» ha scritto E. Beseghi «è un vasto universo comunicativo, dai confini aperti, capace di stringere sorprendenti collegamenti con altre discipline e di offrire allo sguardo curioso e appassionato dello studioso un immenso potenziale». Dunque l’adulto che si occupa di educazione letteraria (ma direi anche di


educazione tout cour) dei bambini dovrebbe imparare a cibarsi di buona letteratura per l’infanzia, cercandovi soddisfazione per i propri vagabondaggi intellettuali ancor prima che per quelli dei suoi piccoli allievi, e facendo di essa un passaggio fondamentale nella ricerca dell’identità personale. Il posizionamento forte della letteratura per l’infanzia al centro dei curricoli della scuola dell’infanzia e primaria, in modo marcatamente transdisciplinare e interculturale, è stato felicemente espresso (dopo non poche difficoltà) anche a livello di amministrazione centrale nelle Indicazioni nazionali per il curricolo del 2012. Questo documento ha legittimato in modo definitivo e incontrovertibile la specificità di tale settore della produzione letteraria e la conseguente esigenza di formare peculiari competenze (sia autoriali che di critica letteraria e pedagogica) che lo rispettino e valorizzino. Nelle Indicazioni si parla chiaramente della necessità di favorire nel bambino la «nascita del gusto per la lettura» per produrre «aumento di attenzione e curiosità […] fantasia […] piacere della ricerca» e avvicinamento «all’altro e al diverso da sé». Si è dunque orientati ad affermare l’importanza sociale della «lettura di letteratura» come serbatoio di immagini con cui pensare e strumenti per creare e ri-creare (J. Bruner; A. Chambers). Opportunamente il testo ministeriale insiste sulla promozione della lettura spontanea, «realizzata abitualmente senza alcuna finalizzazione, al solo scopo di alimentare il piacere di leggere». Una concezione della lettura, dunque, non necessariamente connessa all’apprendimento e allo studio, a quella rendicontazione scolastica che, nella storia del rapporto libro-bambino, pro-

Copertina di Leo Lionni, Piccolo blu e piccolo giallo (1959), Babalibri, Milano 1999

babilmente ha spesso pregiudicato la possibilità di un incontro felice, martoriando l’approccio al testo letterario con percorsi didattici e valutativi decisamente respingenti. Gianni Rodari, nella sua insuperata Grammatica della fantasia (1973), aveva già individuato la responsabilità negativa di molta scuola nel favorire la tecnica della lettura piuttosto che il gusto della lettura. In questa prospettiva il ruolo dell’insegnante dovrebbe essere invece quello di un sensibile e preparato suscitatore di conversazione (sia su un piano informale sia in forma strutturata e consapevolmente organizzata) intorno a ciò che si è letto. Al centro di questo processo occorre sollecitare e collezionare le battute di commento, spesso esili, rapide e casuali, dei piccoli lettori per tutelarne e valorizzarne l’autorevolezza critica. L’innata inventiva linguistica e la capacità di stabilire significati e connessioni inarrivabili per la mente dell’adulto, rendono irrinunciabile l’apporto critico del bambino. Ciò avviene soprattutto

L’imperativo è: far accostare con gioia il bambino al libro affinché da adulto sia un buon lettore

di fronte a quella straordinaria tipologia testuale che è l’albo illustrato, dove il complesso intreccio fra parole e immagini, e soprattutto la consistenza materiale dell’oggetto, amplificano il significato della parola lettura (sia personale e silenziosa che di gruppo e ad alta voce) attribuendole una dimensione totale rispetto all’esperienza che il bambino può avere del tempo, dello spazio, del rapporto con l’adulto e con i pari, della possibilità stessa di costruire un approccio narrativo e simbolico, emotivo e riflessivo, ai fatti della vita: «a complicated poetic form that requires absolute concentration and control» (M. Sendak). L’allarmismo da caccia alle streghe che alcune derive della cultura e della politica contemporanee, in Italia, hanno recentemente dimostrato nei confronti di alcuni albi illustrati, fra cui un autentico capolavoro come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni (1959), accusati di incoraggiare improbabili disorientamenti gender nei piccoli lettori, non può far altro che spronarci a difendere i diritti del bambino lettore, il suo inesauribile bisogno di «fantastica» (ancora un conio di Rodari), così come la ricchezza e la varietà di una letteratura per l’infanzia che non rinunci mai alla sua più specifica vocazione che è quella, infine, di fortificare e moltiplicare, sempre, i ponti fra l’arte e la vita, se è vero che «i libri aiutano a vivere meglio» (B. Munari).

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Una svolta nella storia dell’educazione Quando i fanciulli frenastenici uscirono dalle strutture manicomiali Fabio Bocci

Desideriamo soffermare la nostra attenzione su un preciso episodio, collocabile tra fine ‘800 e inizi ‘900, che ha rappresentato una vera e propria svolta nella storia dell’educazione benché non sia ancora del tutto iscritto nel Fabio Bocci patrimonio della cultura pedagogica del nostro Paese. Si tratta del momento in cui i fanciulli cosiddetti deficienti escono per la prima volta dalle istituzioni manicomiali per essere educati e scolarizzati all’interno dei nascenti Istituti Medico Pedagogici. Possiamo considerare questo evento come la prima tappa di quel lungo processo che ha portato l’Italia a dare vita negli anni Settanta del Novecento all’integrazione scolastica degli allievi disabili e a essere oggi un punto di riferimento per quel che concerne l’educazione inclusiva. Prima di delineare gli scenari, i protagonisti e gli accadementi più salienti di quella che abbiamo definito altrove una mirabile avventura (Bocci, 2011) intendiamo porre in evidenza almeno tre presupposti imprescindibili per comprendere questa storia all’interno della Storia dell’Educazione. 1. Per ovviare i rischi di una banalizzazione lessicale del concetto di inclusione è necessario operare una contestualizzazione storica, quindi scientifica e culturale, di ciò che caratterizza l’attualità: non può esserci progettualità senza la conoscenza delle radici che danno forma e sostanza alla nostra identità (Canevaro & Goussot, 2000; Caldin, 2001; Goussot 2007; d’Alonzo 2008; Pavone, 2010; Crispiani, 2016). 2. Parliamo, infatti, di una identità plurale, poiché le tracce dei disabili nella storia non sono palesi. Si tratta, come evidenzia Andrea Canevaro, di farsi promotori di una curiosità verso le microstorie, le quali «devono essere raccolte attraverso le testimonianze dirette, i racconti orali, l’immersione in situazione […] L’ipotesi che accompagna questa

curiosità è che la ricerca delle tracce degli handicappati e delle handicappate nella storia porti alla molteplicità» (Canevaro, 2000, p. 12). 3. Ne deriva, pertanto, che l’operazione di ricostruzione storica è complessa e articolata: molte vicende non sono, se non in minima parte, presenti nella Storia della Pedagogia e nella Storia dell’Educazione e vanno rintracciate all’interno della/e storia/e di altre discipline contigue alla Pedagogia: la Psicologia, la Medicina e l’Antropologia (Bocci, 2011). Tenendo conto di questi presupposti ci apprestiamo a raccontare di quando la cosiddetta infanzia anormale da oggetto di contenimento sociale divenne soggetto di interesse pedagogico.

Nel gennaio del 1899 nasce la Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti. Ne è promotore Clodomiro Bonfigli, il quale in una celebre lezione tenuta nel 1893 − e alla quale partecipa come studentessa Maria Montessori − ribadisce con forza la fondamentale funzione dell’educazione quale «base di qualsiasi intervento di prevenzione delle malattie mentali»

Gli scenari e i protagonisti Concentriamo l’attenzione su tre scenari che tracciamo nella loro essenzialità. Il primo ha a che vedere con l’alienista milanese Andrea Verga (1811-1895). Come rileva Valeria Paola Babini (1996), a questo studioso va il merito di aver coniato nel 1877 il termine frenastenici e di aver sollevato la questione della loro collocazione al di fuori dei manicomi. Verga, che sta cercando di definire qual è esattamente l’oggetto di studio della Psichiatria, colloca la frenastenia, in quanto stato di sonnolenza di tutte le funzioni dell’intelletto e delle affezioni morali, al di fuori della follia (che invece si rivela per uno stato di esaltazione). I frenastenici, quindi, devono essere ubicati in speciali stabilimenti che non siano però gli istituti manicomiali. L’articolo Frenastenici e imbecilli di Verga suscita


un grande interesse che porta alcuni colleghi, tra questi Clodomiro Bonfigli (1838-1919), Giuseppe Sergi (1841-1936), Augusto Tamburini (18481919), Enrico Morselli (1852-1929), Sante De Sanctis (1862-1936), a impegnarsi per aprire asili, scuole e istituti rivolti ai fanciulli deficienti. A fornire una spinta considerevole a tale impegno sociale (ecco il secondo scenario) è il dibattito in voga intorno al tema della degenerazione che ha nelle teorie di Benedict-Augustin Morel (18091873) il suo punto di riferimento. Morel definisce la degenerazione come una deviazione patologica della specie e ipotizza una trasmissione per via ereditaria dei fenomeni patologici conseguenti, considerando l’idiozia come l’ultimo stadio. Le teorie di Morel influiscono molto sugli studiosi del tempo, come dimostra questo passo dell’antropologo Giuseppe Sergi (1889): «se la sopravvivenza dei più forti nella lotta per la vita consola l’antropologo e il sociologo, facendo sperare in una evoluzione delle razze umane, evoluzione che, del resto, non è utopia, ma un fatto ben accertato, la sopravvivenza dei deboli impensierisce l’uno e l’altro per gli effetti perniciosi alle società umane, e richiama con grande interesse l’attenzione del legislatore».

Il rischio della degenerazione, tuttavia, conferma l’imprescindibilità di una azione educativa, che apra la strada a quella che sempre Sergi definisce

una eugenetica ecologica (Tedesco, 2011). L’ambiente migliorato, unitamente allo sviluppo di una educazione efficace, infatti, è in grado di modificare i caratteri ereditari dell’uomo fino a renderlo libero da qualsiasi retaggio di atavica brutalità. Su questo convincimento si innesta il terzo scenario che ha come epicentro la nascita, nel gennaio del 1899, della Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti. Ne è promotore Clodomiro Bonfigli, docente di Psichiatria e Clinica psichiatrica dell’Università di Roma, il quale in una celebre lezione tenuta nel 1893 − e alla quale partecipa come studentessa Maria Montessori (1870-1852) − ribadisce con forza la fondamentale funzione dell’educazione quale «base di qualsiasi intervento di prevenzione delle malattie mentali» (Pesci, 2002, p. 101). Dismessi i panni di professore e fattosi eleggere in Parlamento nel 1895, Bonfigli dedica anima e corpo all’idea di dare ai fanciulli deficienti una educazione all’interno di strutture con finalità pedagogiche. Una iniziativa che trova già riscontri all’estero, come non manca di rilevare Maria Montessori in un suo scritto del 1889: «Bastò che Séguin, nel 1831, scoprisse come l’idiota non è incapace di apprendere, ma solo non arriva a seguire i mezzi comuni di educazione; e che egli svolgesse un nuovo programma per l’educazione degli idioti affinché contemporaneamente in Francia, in Isvizzera e in Germania sorgessero altri istituti adatti alla riabilitazione dei fanciulli deficienti».

Il lessico burocratico di una nota del presidente della Deputazione provinciale di Reggio Emilia del 12 luglio 1899 nasconde un evento storico straordinario. Per la prima volta, in modo ufficiale, i fanciulli deficienti escono da un manicomio, dove sono degenti, ed entrano in un istituto nella veste di educandi

Sulla scia di queste esperienze, si attivano anche in Italia una serie di sperimentazioni, che preludono e accompagnano l’evento centrale della nostra narrazione e che vedono protagonisti soprattutto medici ma anche insegnanti. Tra queste ricordiamo: l’Istituto Italiano pei Frenastenici fondato da Antonio Gonnelli-Cioni (1854-1912) nel Gennaio del 1889 a Chiavari e poi trasferito a Vercurago. A Gonnelli-Cioni, figura ingiustamente obliata dalla

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pedagogia italiana (Pesci, 1999; Bocci, 2016a), va anche assegnato il merito di aver inaugurato nel 1894 il primo Corso di ortofrenia per insegnanti specializzati nell’educazione dei deficienti; l’Istituto ototerapico sorto nel 1889 a Milano e diretto da Giovanni Longhi. l’Ipocofocomio Italiano aperto a Milano nel 1887 da Luigi Olivero che poi ripete l’esperienza a Nervi nel 1891 con il Paedagogium affidandone la direzione a Enrico Morselli, direttore del Manicomio di Genova; la Scuola Segatelli pro Idiotis fondata a Milano nel 1894 da Cristina Segatelli; l’Asilo scuola pei deficienti poveri realizzato a Roma (in via Tasso, 24) da Sante De Sanctis nel 1898 (con la collaborazione di Sergi e di Ezio Sciamanna, successore di Bonfigli come ordinario di psichiatria e relatore della tesi di Maria Montessori). È doveroso menzionare anche Giuseppe Ferruccio Montesano (1868-1951), che diviene il cardine della Scuola Magistrale Ortofrenica di Roma, sorta il 7 aprile del 1900, e Ugo Pizzoli (1863-1934) che istituisce nel 1899 a Crevalcore un Laboratorio di pedagogia scientifica a cui fa seguito, nel 1902, un Corso di Pedagogia Sperimentale per insegnanti (Bocci, 2016b).

La nascita dell’Istituto Medico Pedagogico Venerdì 11 Marzo 1899, in sintonia con lo Statuto della Lega Nazionale, si riunisce il Comitato Emiliano per la protezione dei fanciulli deficienti. Fautore dell’iniziativa è Augusto Tamburini che raccoglie attorno a sé studiosi e politici. Lo scopo del Comitato è di sensibilizzare l’opinione pubblica e reperire fondi per l’apertura del primo Istituto Medico Pedagogico italiano. L’appello promulgato nel Giugno del 1899 (cfr: il testo riprodotto nell’immagine) e che fa leva sui rischi della degenerazione e sui benefici dell’educazione trova immediato riscontro: il 2 Luglio 1899 si inaugura a San Giovanni in Persiceto (Bo), grazie alla donazione di un privato, il primo Istituto Medico Pedagogico italiano per frenastenici. A questo punto si attiva una sorta di circolo virtuoso. Il 12 Luglio 1899 il Presidente della Deputazione Provinciale di Reggio Emilia comunica a Cesare Sanguinetti, Presidente del Comitato, quanto segue: «Nel porgere alla S.V. i più vivi ringraziamenti per la comunicazione fatta colla pregiata Nota contro distinta, mi fo premura significarle che giusta deliberazione presa da questa Deputazione Provinciale, nella sua adunanza 7 corrente, venne già disposto per l’invio all’Istituto Medico-Pedagogico testè

apertosi in S. Giovanni in Persiceto di quei fanciulli degenti nel locale Manicomio, che dalla Direzione fossero ritenuti suscettibili di qualche istruzione. Tanto ad evasione della Nota contro citata. Con ossequio, Il Presidente».

Il lessico burocratico nasconde un evento storico straordinario. Per la prima volta, in modo ufficiale, i fanciulli deficienti escono da un manicomio, dove sono degenti, ed entrano in un istituto nella veste di educandi. Il primo nucleo è di 64 ma ben presto il numero dei frenastenici aumenta: 170 nel 1901; 221 nel 1902. La sede è trasferita a Bertalia e la direzione è affidata a Giulio Cesare Ferrari (1868-1932) grande studioso (tra i primi ad occuparsi di marginalità e devianza minorile) e uomo di rara sensibilità. E proprio a lui spetta il compito di annunciare il 21 giugno 1904 che un manipolo di allievi dell’Istituto ha superato l’esame per il passaggio dalla prima alla seconda classe elementare (cfr: il testo riprodotto nell’immagine). Si coglie tra le righe − oltre all’umiltà di Ferrari che attribuisce il merito agli insegnanti − una nota di commozione per l’attestazione di qualcosa che solo fino a pochi anni prima era ritenuto impossibile. Inizia così un itinerario storico, fatto di conquiste scientifiche, culturali e sociali, che noi abbiamo ereditato e del quale dobbiamo tenere gran conto per comprendere il senso autentico di ciò che chiamiamo oggi educazione inclusiva.


Children with disabilities improvising together

Collective musical identities in Japan Trever Hagen

As an aesthetic way of knowing, improvisational structures, contents and forms reveal cultural codes and values. These cultural scripts underpin genre and instrument conventions, practices, and craft. Improvisation, Trever Hagen therefore, is one tool to show how what we are emerges from how we do things together in real-time, and that our musical principles have tacit aesthetic commitments to a learned regime of an aesthetic world. This essay examines how aesthetic worlds of improvisation afford different social relations (e.g., of identity) and thus potentially alternative types of ‘self’. I address what one can ‘be’ in the aesthetic world a free improvisation ensemble of children with cognitive and physical disabilities. Using methods adopted from an analytic autoethnography of musical learning and sensory ethnography (Anderson 2006; Pink 2007), I examine how a learned aesthetic way of knowing in jazz improvisation is transferred to an environment of free improvisation with the Oto-asobi project in Kobe, Japan, an ensemble of children and young adults with mixed cognitive disabilities. The artsled data collection occurred over ten months in 2012-2013. I conclude by offering a conception of improvisation that is not based on linguistic features (that are often modeled on jazz improvisation) but rather sensory experiences of mutual attunement that configures ability. Central to analyzing musical learning is how to conceptualize aesthetic worlds and how they unfold during musical events (DeNora 2003: 49). Aesthetic worlds emerge from regimes, ecologies and commitments; learning to improvise in unfamiliar aesthetic regimes helps us not only to understand how musical materials allocate sameness and difference between worlds, it is also an entry point for participation in those worlds. To outline an aesthe-

tic world—a specifically musical one—we can examine three components:

aesthetic regimes: the principles and practices shaped by genre, style and instrument inscriptions, performativity of these practices and experience, or feedback. aesthetic commitments: expectations, intent, and mutual trust upon shared musical conventions and their affordances in performance.

aesthetic ecologies: aesthetic materials pulled together through collective activity that sustain regimes and commitments; for example tones, places, histories, icons, objects, and spaces.

We have aesthetic commitments to these regimes that are revealed as personal vocabularies and appropriate musical responses; knowing the commitments to a regime, one is privy to the response of ‘what do to’ in certain situations. I examine Otoasobi’s aesthetic world through ecologies that are made available via material configuration; regimes that then build out and craft this ecology; and the commitments that interact between regimes and ecologies.

Improvisation, therefore, is one tool to show how what we are emerges from how we do things together in real-time, and that our musical principles have tacit aesthetic commitments to a learned regime of an aesthetic world

People, Spaces and Objects: aesthetic ecologies

Established in 2005, the Oto-asobi project holds workshops and performances on free, collective improvisation that bring together, children and young adults with different cognitive and physical impairments along with musicians, music therapists, improvisers and dancers. The workshops follow an organized pattern that unfolds over the course of Sunday afternoons in a large rehearsal room at the Kobe University’s Department of Human Expression. Otoasobi’s workshops explore collaborative musical configurations to locate the

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Per gentile concessione di The Oto-asobi Project

comforts of conventions that can translate to public performances. This reciprocal activity of workshops-performance enhances future identity claims and activities through event programming. Participants prepare the rehearsal space by bringing a collection of university instruments from an adjacent storeroom. Violins and biwas are arranged on a table next to a grand piano (stage left); on the floor are three plastic boxes of bells, whistles, shakers, rattlers (center); a drum kit and guitar amplifier (stage right). These instruments are always present. Many items are not used in what could be considered ‘appropriate’ ways of performing the objects (i.e., a prescribed approach within a specific ecology), particularly those objects that may require technical training to produce sound such as buzzing on a mouthpiece for brass instruments or the bowing of a violin. Yet the boundaries of what constitutes ‘to play’ begin to come forth as one observes how participants appropriate a wide-range of these objects’ sonic affordances (e.g., drumming the back of an acoustic guitar, strumming a violin like a guitar). These material configurations (their temporal marker of setting up/taking down, position, and appropriation) are the entry point in how the space, objects and people begin to interact. The subsequent musicking becomes empowering for Otoasobi in that these common objects help structure an ecology of recursive sounds, patterned responses

and aesthetic choices; they are touchstones to which participants can return to that configures position-taking, sound vocabularies and collective timbres within the group. The objects are portable and flexible which allows parts of the aesthetic ecology to transfer to different spaces and sustain musicking regimes and commitments. This ecology reveals the interactive relationship between objects, spaces and actors’ abilities (‘What can I do here?’) and knowledge produced from these mediated opportunities (‘How and what to do here?’), which assemble aesthetic regimes and commitments.

The Otoasobi workshop is divided into three sections that are sandwiched between the set up/take down. They include whole collective play (unformatted sound play), small group improvisation (duos and trios), and large group collective improvisation (entire ensemble)

Formats, Repetoires and Activities: Aesthetic regimes

The Otoasobi workshop is divided into three sections that are sandwiched between the set up/take down. They include whole collective play (unformatted sound play), small group improvisation (duos and trios), and large group collective improvisation (entire ensemble). These organizational


components of free musical activity improvisation may be arranged shape the princimaterially to conples and practices figure the boundaof Oto-asobi. In ries of ‘talent’ and the first section, constitute musicwhole collective king within an play functions as a ecology. As such, warm-up where these various repeople join in as pertories of free they arrive. Duimprovisation and ring the second, Per gentile concessione di The Oto-asobi Project game pieces allow names of every for ways of being participant are put within the group, on a chalk broad and small groups are chosen to an aesthetic regime wherein ‘being able’ is presupmake small performances (i.e., non-idiomatic muposed by participation. sical interaction). The final section sees the entire Performing Our Music: aesthetic commitments Oto-asobi ensemble engaged in collective improvisation, which may last up to thirty to forty minuIn this scene of whole-group sound play I explored tes. During the workshop, caretakers and parents musically with other participants. At first, I relied discuss and plan the next scheduled performance, on the musical conversation structure of ‘call and which typically involves brainstorming ‘games’ to response’. It is a foundation of the blues and proplay. vides an axiom of improvising in jazz training: Activities like ‘game pieces’ enter the group’s renever repeat back what someone else has said. Thepertoire based on which musical formats have worrefore ‘call and response’ was a natural representaked in the past. Otoasobi’s game pieces develop tive linguistic structure to orientate the musical John Cage’s chance music that entail extra-musical interaction; it was a comfortable resource to fall rules to “diminish barriers between art/life” and back on in an unfamiliar situation. Yet this musical thereby to “minimize intention and ego-investructure was an aesthetic commitment to a regime stment” (Corbett, 1994: 181). Game pieces are of practice that was anything but certain in an Otoaleatoric—drawing on chance arrangements like asobi context. throwing dice, choosing cards or flipping coins I approached participants who were playing various (Curreri, 2013). For example, in a 2008 perforinstruments; I attempted to elicit a ‘response’ from

The aesthetic world of Otoasobi shifts the focus from intentionality to chance, from musical conversation to relationality and parallelism. The sonic materials improvised with are not necessarily confined to syntax that presupposes meaningful interaction for recognition or apprehension. Rather, meaning is felt in precognitive sensory atmospheres (e.g., loud or quiet; sharp attacks or ambient drones)

mance, caretakers took the stage, each with a vacuum cleaner, and performed a coordinated improvisation using amplified suction sounds. Such group object repurposing and manipulation on stage during a performance sheds light on how

the ‘call’ I was playing. Sometimes this was ignored; other times there was a ‘call-call’ mimicking structure. My efforts rarely got me anywhere. This could be attributed to a number of reasons, one being that the some Otoasobi members were not familiar with those commitments in the jazz or blues aesthetic world; or transversely, I was unfamiliar with the commitments in the Oto-asobi world. Thus there was an initial impasse in bringing together shared backgrounds of aesthetic worlds during this musical event. This was felt through attempting to engage a conversational, representative, idiomatic structure instead of adapting to the non-idiomatic mode of improvisation in Otoasobi. But how does one learn how to play non-idiomatically when your aesthetic commitments (embodied musical expectations that feedback into ‘what is appropriate’) are to another idiom? After two months of rehearsals, I set down the trumpet and began to play simple passages on vi-

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braphones, drums, piano and violin. These instruments invite anyone to play them regardless of skill yet deter engagement because of discursive rules on ‘how they should be played’. Moving away from a regime of practice, I began to change musicking patterns from ‘doing’ (‘What to do’ in this space) to ‘being’ (‘How to be’ in this space): rather than employing a musical grammar, I followed others’

Therefore disability is a representational identity that has a situational and temporal definition wherein the musical space relieves the social construction. Otoasobi evidences the socio-musical process of transforming disability in real-time. This transformation - from A (disabled) to B (abled) - is bridged through music

method of engagement with objects and interactions. The resulting sound production contributed to the collective musical object and experience, or ‘being’. The musical experience was not structured by songs per se but non-metered rhythmic patterns and volume swells that happened simultaneously in relation to the multiple activities of performers— singing, dancing, strumming, blowing, hitting. More than musical phrases or harmonic structures, the materiality of musical sounds are key points in Oto-asobi’s collective improvisation: volume, attack, pitch, decay, distance and proximity all became pathways for group participation. This group sound is Oto-asobi’s aesthetic world, and in playing it they enact an enabling space. The

Per gentile concessione di The Oto-asobi Project

music is vulnerable in its untrained-ness, but displays and shares truthfulness of a body’s talent and core musicality, or inclination. The aesthetic world created is an equal playing field where exerting one’s regime (e.g., call and response) may not always work due to differing aesthetic commitments. By ‘unlearning’ aesthetic expectations of creativity and credible improvisation within the musical experience, one is able to ‘be able’ and ‘be’ in the group. Aesthetic worlds and transformation

The aesthetic world of Otoasobi shifts the focus from intentionality to chance, from musical conversation to relationality and parallelism. The sonic materials improvised with are not necessarily confined to syntax that presupposes meaningful interaction for recognition or apprehension. Rather, meaning is felt in precognitive sensory atmospheres (e.g., loud or quiet; sharp attacks or ambient drones). On Sunday afternoons, the Otoasobi ensemble transforms musical abilities and inscriptions. Therefore disability is a representational identity that has a situational and temporal definition wherein the musical space relieves the social construction. Otoasobi evidences the socio-musical process of transforming disability in real-time. This transformation—from A (disabled) to B (abled)—is bridged through music. Non-idiomatic improvisation enacted the collective identity of Otoasobi as “abled” as it lacks a discursive grammar that shapes interaction, thus there is not an inscription of ability, or rather, disability. [NdA The research was supported by the Japan Society for the Promotion of Science].


Un emblematico silenzio

La scoperta dell’infanzia nella ricerca storiografica Francesca Borruso

Nell’ambito della ricerca storicoeducativa sull’infanzia che, dalla seconda metà del Novecento, è in continua espansione nel pensiero occidentale, ci sembra indispensabile fare una premessa di metodo, richiamando Francesca Borruso la distinzione operata da Hugh Cunningham fra la «storia dell’infanzia» e la «storia dei bambini» (H. Cunningham, Storia dell’infanzia, il Mulino, Bologna, 1997). La prima cerca di ricostruire le rappresentazioni dell’infanzia e il ruolo svolto dall’idea di infanzia in un determinato contesto e periodo storico attraverso fonti eterogenee come la letteratura, la trattatistica pedagogica, l’immaginario di una società. Diverso, invece, l’oggetto della ricerca della «storia dei bambini» orientata alla ricostruzione delle condizioni di vita reali di bambini e bambine nei diversi momenti storici e che cerca di rintracciare i vissuti reali, sebbene sia fondata su fonti storiche a volte frammentarie, incerte, di difficile reperimento e decifrazione, correndo il rischio, per lo più, di restare «raccontata da altri», ossia mediata dalla percezione e dalla visione degli adulti. In questa prospettiva preziose possono rivelarsi per lo storico le «scritture bambine», ossia quelle narrazioni infantili che sono state oggetto di preservazione e di cura da parte degli adulti, che però sono rare non appena si voglia risalire il corso dei secoli e per lo più appannaggio di quelle categorie sociali privilegiate che avevano confidenza con la scrittura. L’infanzia, così, si è configurata, per lungo tempo, come uno dei più emblematici «silenzi sociali» della ricerca storica: un continente sommerso, spesso ignorato, se non addirittura occultato e solo negli ultimi anni riportato faticosamente alla luce grazie al contributo delle più recenti correnti storiografiche. Uno dei temi più dibattuti e controversi della storiografia contemporanea è relativo al progressivo

riconoscimento della condizione infantile, ritenuta una delle grandi rivoluzioni dell’età moderna. Secondo Philippe Ariès, infatti, la concezione dell’infanzia, i metodi d’educazione dei figli e con essi tutto il modello di vita affettiva della famiglia subiscono in Europa una profonda trasformazione fra il XV e il XVI secolo, quando il sorgere di una nuova iconografia infantile più vicina al «vero», la progressiva scolarizzazione dei bambini, le trasformazioni dell’abbigliamento infantile, dei giochi e dei passatempi infantili, il delinearsi dell’idea che i bambini fossero innocenti per natura e dovessero essere protetti, emergono come indizi del sorgere del moderno «sentimento dell’infanzia». L’identità infantile, insomma, viene colta nella sua specificità

Uno dei temi più dibattuti e controversi della storiografia contemporanea è relativo al progressivo riconoscimento della condizione infantile, ritenuta una delle grandi rivoluzioni dell’età moderna. Secondo Philippe Ariès, infatti, la concezione dell’infanzia, i metodi d’educazione dei figli e con essi tutto il modello di vita affettiva della famiglia subiscono in Europa una profonda trasformazione fra il XV e il XVI secolo

esistenziale, diventando oggetto di cure materiali ed educative appositamente concepite (Ph. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, 1960). Questi cambiamenti che coinvolgono gli stili di vita e trasformano l’immaginario collettivo sull’infanzia, avvenuti in modo più evidente fra il XVI e il XVII secolo, delineano anche il sorgere di una nuova concezione della famiglia che sempre di più viene considerata come il luogo primario della vita affettiva. «Sentimento della famiglia e dell’infanzia» sembrano, così, strettamente intrecciati nella loro genesi storico-sociale. Questo nuovo «sentire», sostenuto dalla speculazione teorica e da un clima culturale diffuso che lentamente si modifica in tal senso, comporterà anche una trasformazione significativa delle prassi educative, so-

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nari relazionali, sempre asimmetrici, - «lasciate sempre credere all’allievo di essere lui il padrone, ma siate sempre voi ad avere le redini in pugno», scrive nell’Emilio - ma non più dispotici come un tempo. Una trasformazione del «sentire» che si tradurrà storicamente nella nascita, seppur lenta, di una nuova genitorialità: celebre il caso del filosofo illuminista Pietro Verri che si dedica con straordinario trasporto alla cura della sua primogenita Teresa, alla luce della pedagogia roussoiana. Esperienza di paternità decisamente eccezionale e ben poco diffusa nella società del tempo, se pensiamo che lo stesso Rousseau abbandona in orfanotrofio ancora in fasce i suoi cinque figli, nonostante il dolore della madre Thérèse Le Vasseur.

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Pierre Auguste Renoir, Bambina con il gatto, 1887

prattutto in quelle riservate alla prima infanzia. L’uso delle fasce e del baliatico, ad esempio, che erano pratiche utilizzate per secoli da tutte le classi sociali, lentamente verranno abbandonate, prima nelle classi colte ed elevate, mentre sarà possibile riscontrarne la pratica nelle classi lavoratrici ancora nel Novecento inoltrato. Una svolta centrale nella concezione dell’infanzia intesa come stagione della vita valorizzata e colta nella sua diversità dall’età adulta si deve al filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau. In particolare con il Contratto sociale e con L’Emilio, entrambi del 1762, egli avvia una svolta epocale nella concezione dell’infanzia e delle relazioni fra i genitori e i figli, conducendo una critica serrata alle istituzioni educative e alle pratiche educative del tempo. Nel suo percorso educativo progettato per Emilio, volto alla formazione dell’«uomo nuovo», educato «secondo natura» e a contatto con la natura, lontano dal progresso e dalla civiltà corrotta, assume una significativa centralità educativa la figura paterna. E se la madre viene richiamata al suo ruolo di nutrice, il padre viene investito di una responsabilità pedagogica ancora più incisiva, che dovrà durare fino all’età adulta di Emilio. Il suo ruolo educativo sarà quello di guidarlo, senza comandargli mai nulla esplicitamente, bensì impedendogli indirettamente di fare ciò cui deve astenersi. L’educazione negativa di Emilio ci restituisce l’immagine di un educatore non più intento a proibire, comandare con divieti e punizioni, bensì orientato verso sce-

Una svolta centrale nella concezione dell’infanzia si deve al filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau. Con il Contratto sociale e con L’Emilio, egli avvia una svolta epocale nella concezione dell’infanzia e delle relazioni fra i genitori e i figli, conducendo una critica serrata alle istituzioni educative e alle pratiche educative del tempo

Viene evidenziato dalla storiografia più recente, però, che questa «scoperta dell’infanzia» non sia stata affatto lineare e progressiva come l’ha prospettata Ariès, bensì articolata e piena di contraddizioni. In primo luogo, sono diverse le infanzie di bambine e bambini, così come tanta letteratura e storiografia contemporanea ha ricostruito (C. Covato, Memorie discordanti, Unicopli, Milano, 2007). Le bambine, storicamente «educate a non istruirsi», ancora fra Otto e Novecento vengono allevate nella prefigurazione del loro ruolo di mogli e madri, e sono soggette ad un controllo sociale e familiare molto più profondo e pervasivo che coinvolge la loro libertà di movimento, così come i giochi, le letture o la socializzazione con il mondo. Poi le infanzie sono diverse in base al ceto sociale di appartenenza: un’infanzia borghese o aristocratica avrà ben altre condizioni di vita da un’infanzia contadina o operaia, così come un’infanzia vissuta in città, nel pieno dell’urbanesimo industriale, da una vissuta in campagna. Non possiamo trascurare, inoltre, il fatto che la storia dell’infanzia nella società occidentale sia caratterizzata da inequivocabili prove relative alla violenza fisica e psicologica sistematicamente perpetrata sui bambini «a fini educativi», diffusa in


tutte le classi sociali anche se con fenomenologie differenti, tollerata se non addirittura approvata in quasi tutte le società. Una violenza che, sul piano storico, emerge intrecciata a pratiche educative assai condivise, come il tradizionale potere correttivo dei genitori sul figli, giuridicamente definito ius corrigendi e fondato sulla patria potestà, che si declinava come potere dei genitori di infliggere punizioni corporali e psicologiche a scopo educativo. Ritenuto uno dei poteri più temuti e irriducibili della storia del diritto, la patria potestà nel corso dei secoli in Europa ha avuto versioni piuttosto diversificate fra Stato e Stato stemperandosi, molto lentamente, a partire dall’Illuminismo. Dalle storie di vita, però, può emergere lo scarto significativo che intercorre fra le conquiste teoriche – Rousseau già nel ‘700 condanna le punizioni corporali - e le pratiche educative reali, che riflettono spesso l’evoluzione delle mentalità, lente a modificare le proprie «visioni del mondo». Così, nella evoluta Svezia del primo Novecento troviamo un colto ma rigido pastore protestante, padre del celebre regista Ingmar Bergman, che alleva i suoi figli con una inflessibile violenza, facendo emergere l’antica concezione di una disciplina violenta ritenuta un aspetto non separabile dalle cure e dall’amore (I. Bergman, Lanterna magica. L’autobiografia del maestro del cinema, tr. it. Garzanti, Milano, 1997). Fra Sette e Ottocento i modelli educativi riservati all’infanzia aristocratico-borghese sono caratterizzate da maggiori cure e attenzioni rispetto all’infanzia delle classi lavoratrici in cui i bambini vengono avviati al lavoro fin dalla più tenera età, ma è sempre più «sorvegliata e punita» da genitori e precettori che addomesticano all’obbedienza, alla deferenza e all’interiorizzazione di quelle «buone

Jean Baptiste Siméon Chardin, Fanciullo con la trottola, 1736

maniere» che connotano la propria appartenenza di classe. Gradualmente, fra Sette e Ottocento, si diffonde fra i ceti elevati il costume di far di allevare i propri figli in casa: allattati dalla madre o da una balia, maschi e femmine vengono affidati, nella prima infanzia, alle cure di una delle domestiche di casa, per poi nella seconda infanzia essere affidati a precettori o istitutrici che ne curano l’istruzione. Infanzie, così, che restano sotto lo sguardo vigile della famiglia, destinati ad un’educazione gestita all’interno delle mura domestiche, orientata all’assimilazione dei valori borghesi ma, a volte, non per questo meno violenta perché spesso frustrata nel suo più elementare bisogno di calore affettivo. «Lo sguardo di nostra madre ci accompagnava sempre: era l’unica sua carezza» scrive Carlo Leopardi, restituendoci con poche parole, il controllo anaffettivo che la madre Adelaide Antici, nota per la sua rigidità, esercitava sui figli. Ancora fino alla fine dell’800 l’educazione di un bimbo o di una bimba, dopo i cinque-sette anni, se non proseguiva in casa sotto lo sguardo vigile di un precettore, poteva realizzarsi all’interno di un convento o di un collegio, nel quale poteva trascorrere gran parte della propria giovinezza. Un vero e proprio internamento che consentiva rari e sporadici contatti con la famiglia d’origine e la soggezione ad una dura autorità. «I collegi sono universi in miniatura. Racchiudono […] le stesse egemonie e le stesse prevaricazioni delle società dispoticamente organizzate», scrive Octave Mirbeau nel 1899 nel suo romanzo Le Jardin des Supplices.

Il Novecento è alle porte e con esso tutta quella profonda rivoluzione ideologica che porrà l’età infantile al centro della riflessione educativa, valorizzandola e tutelandola nella sua ineludibile alterità, e che farà etichettare questo secolo, secondo la celebre definizione di Ellen Key, come «il secolo dei fanciulli». Ciò nonostante, tra le pieghe della storia sociale sarà sempre possibile scontrarsi in infanzie violentate, invisibili o sfruttate. Ancora negli anni cinquanta Danilo Dolci, giunto in Sicilia con la speranza di progettare con i siciliani un percorso di riscatto dalla mafia e dalla miseria, conducendo una «inchiesta» sulla vita vissuta dagli «ultimi», racconta del piccolo Gino che abbandonato in una famiglia di estranei viene «affittato» a gruppi malavitosi per condurre attività criminali. Testimonianza di un’infanzia «invisibile» e sfruttata di cui nessuno, tanto meno le istituzioni, sembrano prendere atto ( D. Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, 2008).

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L’infanzia Chiara Giaccardi

Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini. Lo ha scritto Dante Alighieri.

Ma guardiamoci intorno. Ne vediamo di bambini? Pochi. Ne sentiamo tanto parlare, ma da adulti troppe volte distratti, noncuranti, persino carnefici. Lo ha urlato con sdegno padre Turoldo: «Dio, perfino i bambini! Sempre e dovunque i bambini sacrileghe vittime dei nostri orgogli di adulti».

Se «il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini», come ha scritto Bonhoeffer, il nostro è davvero flebile. Eppure guardarli, ascoltarli davvero, ci farebbe così bene! «I bambini sono degli enigmi luminosi» scrive Daniel Pennac.

Perché scompigliano il nostro ordine, spettinano le nostre rigidità, ci trafiggono con

domande che ci lasciano muti. Per loro tutto è nuovo. Persino il malinconico Leopardi nota: «I fanciulli trovano tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto».

Cosa lasciamo ai bambini? Quale compito affidiamo loro? Così Alda Merini: «Bambino, se trovi ǯ della tua fantasia legalo con ǯ del cuore. Fa delle tue mani due bianche colombe che portino la pace ovunque».

Livia Candiani ha prestato la sua penna alle voci di bimbi figli di migranti che raccontano il nostro mondo con il loro sguardo. Joy, che ha nove anni, dice: «I miei familiari sognano ad occhi aperti ma pagano a occhi chiusi. A noi manca solo un tocco di pazienza, un tocco di pazienza per favore». E Marius, confida: «Volio giocare ma o paura, volio dire qualcosa ma o paura, volio cantare ma ho paura, tuti mi prendono in giro e o paura, o paura di tuto e sono da solo».

Il bambino è padre dell'uomo. Questi bambini sono il nostro futuro. Prima che la cappa della rassegnazione ci rivesta, prima cha la lama del cinismo tagli tutti i legami intorno, prima che li lasciamo alla deriva e noi con loro seguiamo l'invito di José Saramago: «Lasciati guidare dal bambino che sei stato». (Per il pensiero del giorno, Rai Radio 1, 29 maggio 2016)


Disegnare luoghi per crescere

Il progetto dei servizi per l'infanzia come laboratorio fra pedagogia e architettura Giovanni Fumagalli

Nelle prime pagine del libro-intervista La cultura degli italiani, a una domanda di Francesco Erbani su quale dovrebbe essere l’obiettivo della scuola italiana, Tullio De Mauro risponde proponendo l’esempio delle scuoGiovanni Fumagalli le dell’infanzia di Loris Malaguzzi. Le definisce «sollecitante integrazione di sviluppo fisico e intellettuale, di stimoli della fantasia e di crescenti bisogni di razionalità», mettendole in contrapposizione al più retrivo impianto complessivo della scuola nazionale, dalle elementari alle superiori. Può risultare sorprendente che le più piccole tra le istituzioni scolastiche – addirittura pre-scolastiche – siano prese a modello per l’intero sistema, eppure non v’è dubbio che queste stiano giocando un singolare ruolo guida che riguarda sia il contenuto pedagogico sia la qualità dello spazio in cui questo si esprime. Nel vasto campo degli edifici per l’educazione e la formazione – dell’edilizia scolastica per dirla in modo più burocratico – possiamo individuare uno spostamento di centro dell’interesse disciplinare degli architetti, avvenuto progressivamente dagli anni Settanta-Ottanta ai 2000. Dai grandi progetti di scuole, anche innovativi, che miravano a completare e accrescere la scolarizzazione del paese, ai piccoli ma intensi progetti che accompagnano la

rincorsa a buoni livelli di diffusione nel territorio dei servizi per l’infanzia.

La base pedagogica è l’esplicita consapevolezza del ruolo dell’ambiente nella formazione: l’“ambiente educatore” di Maria Montessori, evoluto in forme contemporanee da Malaguzzi e ancora sviluppato da esperienze più recenti, non solo reggioemiliane, come quelle, per esempio, di San Miniato e di altre località toscane

Una chiara dimostrazione di questo passaggio si è avuta in occasione del concorso-mostra Agibile e Bella – Architetture di qualità per la qualità delle scuole, bandito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali in occasione della Biennale di Venezia 2014, con l’obiettivo di pubblicare le migliori scuole di ogni ordine e grado, dai nidi ai licei, realizzate in Italia negli ultimi venti anni. Tra le dodici opere selezionate, più della metà erano servizi per l’infanzia. L’interesse per questo tema ha precedenti illustri in alcuni momenti fondativi dell’architettura moderna italiana. Basti pensare al sempre citato asilo Sant’Elia realizzato nel 1937 a Como da Giuseppe Terragni, il più importante e talentuoso architetto di quegli anni. Oppure all’asilo aziendale costruito da Luigi Figini e Gino Pollini nel 1940 nel contesto esemplare dell’Olivetti di Ivrea. Peraltro, il confronto tra quegli edifici, opera di progettisti ecce-

Nido aziendale GlaxoSmithKline, Verona, 2005, progetto di Antonio Citterio, Patricia Viel and Partners

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Nido aziendale Cariparma, Parma, 2011, progetto di Michele Zini, Claudia Zoboli, Sara Michelini, Sara Callioni

zionali, e i migliori più recenti illustra bene come si siano evoluti i criteri informatori dei progetti. Quelle magistrali, pionieristiche, realizzazioni del periodo tra le due guerre ripropongono, anche per l’infanzia, il modello della sequenza di grandi aule, poi superato nei decenni successivi. Negli ultimi anni, diverse ragioni hanno concorso a fare di questo tipo di edifici un fertile terreno di innovazione progettuale. Innanzi tutto la dimensione relativamente piccola, che ne ha fatto occasioni professionali accessibili anche a progettisti giovani, sensibili a istanze nuove, generosi nel cercare di tradurle in pratica. Poi la positiva diversificazione della committenza: non solo pubbliche amministrazioni, spesso distanti e burocratizzate, ma anche enti locali minori, aziende, società e cooperative di gestione. Questi fattori hanno concretamente favorito innovazione tecnologica ed evoluzione di nuovi modelli funzionali e spaziali. Per gli aspetti tecnologici, si può dire che i servizi per l’infanzia siano stati i primi edifici pubblici in cui si è applicata diffusamente la costruzione di strutture prefabbricate in legno e in cui si siano sperimentate soluzioni volte al contenimento dei consumi e all’uso di energie rinnovabili. Proprio queste innovazioni tecniche hanno assorbito gran parte dell’attenzione generale, ma più rilevante, anche se meno frequentemente citato, è che questi servizi

abbiano rappresentato un momento di concreto confronto tra architettura e pedagogia. Un’eccezione nel panorama nazionale che, tra le cause profonde dell’arretratezza della propria edilizia scolastica, ha l’assai diffusa mancanza di comunicazione e collaborazione tra architetti e pedagogisti. Distanza denunciata con ironico stupore da Herman Hertzberger – celebre architetto olandese che si è molto dedicato al progetto di scuole – quando, in un’intervista a un Casabella del 2006, a proposito della scuola che allora stava realizzando nella periferia sud-est di Roma, racconta di essersi confrontato con vari controlli su questioni relativamente banali ma mai su temi pedagogici, mai sui temi che rappresentano la vera essenza di un edificio scolastico. Evidentemente in Olanda era abituato a modalità molto diverse. Negli ultimi decenni, è nei servizi per l’infanzia che si sono verificati i più numerosi e fecondi scambi tra pratica educativa e ricerca architettonica. La base pedagogica è l’esplicita consapevolezza del ruolo dell’ambiente nella formazione: l’“ambiente educatore” di Maria Montessori, evoluto in forme contemporanee da Malaguzzi e ancora sviluppato da esperienze più recenti, non solo reggioemiliane, come quelle, per esempio, di San Miniato e di altre località toscane. D’altra parte è superfluo ricordare che le buone pratiche non rappresentano ancora


uno standard nazionale. Al contrario, il panorama è molto disomogeneo, per qualità e per quantità, con territori all’avanguardia e altri che permangono in grave cronica sofferenza.

È nei migliori servizi per l’infanzia che lo spazio all’aperto è stato ripensato, per essere non solo terreno di sfogo ma autentica estensione dello spazio interno, luogo di scoperta e di esperienza della natura Se guardiamo concretamente al disegno dello spazio architettonico, è nei migliori servizi per l’infanzia che la “sezione” si è allontanata dal modello pre-moderno di aula scolastica per diventare un ambiente articolato, in forte relazione con l’esterno, capace di accogliere le varie attività che scandiscono i momenti della giornata. È qui che è cresciuta l’idea di laboratorio, come luogo pre-disposto per dare spazio alle molteplici forme dell’intelligenza, per esperienze pratiche, creative, di scoperta. È qui che lo spazio distributivo è diventato “piazza”, dichiarando con una sola semplicissima parola il superamento del persistente schema di locali allineati lungo corridoi, dando, o anticipando, chiara attuazione all’idea di Hertzberger di “school as a microcity”. È nei migliori servizi per l’infanzia che lo spazio all’aperto è stato ripensato, per essere non solo terreno di sfogo ma autentica estensione dello spazio interno, luogo di scoperta e di esperienza della natura. Si tratta di innovazioni sperimentate, riconosciute anche oltre i confini nazionali, cambiamenti positivi e sostanziali che derivano dall’osservazione e dalla conoscenza dei bambini, delle loro esigenze e delle loro possibilità. Per gli architetti interpretano la sfida a comprendere innanzitutto la misura

dei bambini, non solo in senso strettamente fisico. E rappresentano l’aspirazione a disegnare un contesto adatto ad accogliere discretamente la loro crescita in una comunità di coetanei, a favorire relazioni ed esperienze, a fare da sfondo a percorsi progettati dagli educatori. La condivisione di questi obiettivi, la loro traduzione in criteri progettuali deve aiutare a orientarsi nel panorama delle architetture per l’infanzia, che pure è costellato di progetti del tutto diversi e culturalmente distanti: quelli che tendono a realizzare contesti fiabeschi, luoghi stupefacenti, ipercolorati, iperdisegnati, talvolta anche smisurati. È una tendenza che non ha solo declinazioni commerciali o popolari ma anche interpretazioni raffinate di progettisti prestigiosi. Sono opere in qualche modo regressive quando, dietro a prevaricanti proiezioni di immagini adulte dell’infanzia, si trovano traditi quei criteri pazientemente distillati dal lavoro comune di architetti, designer e pedagogisti. Non è forzato riconoscere nelle migliori innovazioni maturate nel progetto dei servizi per l’infanzia, uno dei riferimenti culturali delle linee guida per la nuova edilizia scolastica promulgate dal MIUR nel 2013. Vi si ritrova il superamento dell’aula, cui si affiancano spazi articolati per il lavoro individuale, di gruppo, laboratoriale. Vi si ritrova la “piazza”, sia pure in una declinazione più complessa, adatta a edifici di dimensioni molto maggiori rispetto a quelle di un nido o di una scuola dell’infanzia. Su queste linee guida si basa l’elaborazione scientifica di una grande campagna di concorsi di idee banditi dallo stesso MIUR – in queste settimane, tra la primavera e l’estate 2016 – con l’obiettivo di rinnovare concretamente l’edilizia scolastica. Vedremo se sarà davvero un passaggio di crescita positiva, se avverrà diffusamente il travaso di qualità auspicato da De Mauro nell’intervista che ho citato in apertura.

Nido comunale la Chiocciola, San Miniato PI, 2014, progetto di Giovanni Fumagalli, Aldo Fortunati, con Lorenzo Caporro

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Asili

Gli edifici per l’educazione dell’infanzia come presidi per un’architettura responsabile Roberta Lucente

Accade spesso che le parole che adoperiamo, sia quando ne pratichiamo un uso specialistico sia quando le associamo ad accezioni comuni, si velino di sfumature di senso molteplici, indipendentemente dalle ragioni per cui le Roberta Lucente usiamo, aprendo a stratificazioni di significato non di rado sorprendenti. È ciò che capita con la parola italiana asilo, che, pur quando associata specificatamente all’età dell’infanzia, di questi tempi più che nell’imminente passato richiama subitaneamente l’idea di rifugio, ricovero, riparo, accoglienza e tutela; forse per effetto del confronto ormai pressoché quotidiano con le cronache di migrazioni dalle proporzioni bibliche e con il doloroso rosario dei disagi e delle violenze che vedono protagonisti i minori.

rio specialistico, aprono invece a un mondo immaginifico e affabulatorio. È un’architettura in cui innocenza, creatività, sogno ed esperienza sensoriale si concretizzano in forme plasmate da mani adulte ma che sono spesso guidate da un io bambino, risvegliato dal subconscio dello stesso progettista (fig. 1) o incarnato dai suoi stessi piccoli utenti, quando coinvolti in processi partecipativi, ormai sempre più di frequenti (fig. 2). È una rassegna di spazi che esaltano la dimensione narrativa, a volte allegorica dell’architettura, come a volerne liberare tutto il potenziale simbolico e figurativo, forti di una legittimazione che proviene loro dagli stessi requisiti funzionali e programmatici posti dal tema.

Ciò si conferma anche nelle prove storiche legate a passaggi chiave nella definizione dei linguaggi

In effetti, anche nel linguaggio dell’architettura la parola asilo sottintende, coerentemente con la sua radice etimologica, un retaggio legato a una visione assistenziale: la stessa che ispirò l’origine dei primi presidi, all’inizio dell’800, mirati ad assicurare la custodia dell’infanzia più che la sua educazione. Nell’evoluzione tipologica di questi edifici, sia quando destinati alla prima infanzia (da 0 a 3 anni) sia quando riservati alla seconda infanzia (da 3 a 6 anni), la visione educativa si impone poi, progressivamente, su quella assistenziale, transitando attraverso il riferimento alla dimensione domestica (evocata nella terminologia italiana dalle parole “nido” e “scuola materna”) proposto dalle sorelle Agazzi alla fine dell’800, per sancire, appena dopo, con il movimento delle Scuole Nuove, il principio della rilevanza del rapporto con lo spazio nel processo educativo dei bambini.

Le immagini dell’architettura legate alla progettazione degli edifici che ancora genericamente definiamo asili, prima di specificarne le varie articolazioni tipologiche ricorrendo a un vocabola-

Fig. 1 - Escuela en el parque, Saragozza, Santiago Carroquino, 2009-2010. L’edificio ripropone nel suo profilo la sagoma della balena di Pinocchio, un ricordo d’infanzia caro al progettista


Fig. 2 - Kita TechnologiePark, Brema, plus+bauplanung GmbH, 2003-2006. Partecipazione dei piccoli utenti al processo creativo dell’edificio

della Modernità, come l’asilo di Giuseppe Terragni (1936-1937) a Como, dove un gioco di vele leggere gonfiate dal vento stempera la tetragona purezza degli spazi e dei volumi (fig. 3), senza che l’autore debba rinunciare a celebrare attraverso questi l’avvento di una maniera razionale intesa come orizzonte progressivo, di cui perciò rendere tanto più partecipi le giovani generazioni. Il palinsesto delle prove più recenti continua talvolta a proporre spazialità candide non dimentiche di simili nobili ascendenze, espressioni in chiave metaforica della condizione di innocenza che contraddistingue l’infanzia (fig. 4). Più spesso, esibisce ambientazioni giocose e vivacemente colorate, in alcuni casi persino disponibili alla metamorfosi (figg. 5-8).

Le immagini dell’architettura legate alla progettazione degli edifici che ancora genericamente definiamo asili, prima di specificarne le varie articolazioni tipologiche ricorrendo a un vocabolario specialistico, aprono a un mondo immaginifico e affabulatorio

Se si accosta questo variopinto corredo di piccole icone contemporanee all’affollato panorama delle

celebrities architettoniche che si sono affermate sulla scena globale negli ultimi venti anni a suon di forme talvolta urlate o comunque magniloquenti (in cerca di primati legati se non ai numeri - di piani, di mq, di kWh di energia prodotta - quantomeno al gradiente di originalità delle soluzioni formali proposte), verrebbe al primo impatto da chiedersi se questa condivisa gioconda leggerezza di espressioni architettoniche non sia il frutto di un processo ormai compiuto, che assevera una prassi diffusa anche al di fuori di questo ambito di applicazione tipologica, in base alla quale ai canoni specifici dell’architettura è anteposta la sua capacità comunicativa, e la necessaria concretezza tecnologica degli edifici è mascherata dietro un’apparenza a tratti ipertrofica, quasi fatua.

Si tratta in realtà di un interrogativo di fondo, che affanna gli studiosi di architettura: storici, critici e soprattutto ricercatori praticanti impegnati nell’insegnamento della progettazione. E tuttavia, è proprio il passaggio di scala imposto dal tema degli edifici per l’educazione dell’infanzia a ricondurre il ragionamento nel solco di uno dei mandati a cui i progettisti, malgrado ciò, non possono sottrarsi: quella utilitas di vitruviana memoria intorno alla quale si incardina la funzione sociale dell’architettura e che ne sostanzia i pur imprescindibili conte-

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Fig. 3 - Asilo infantile Sant’Elia, Como, Giuseppe Terragni, 1936-1937

nuti artistici, traducendoli sul piano della dimensione simbolica delle istituzioni umane.

Il passaggio di scala al quale ci si riferisce non è solo quello di un’architettura a misura di bambino, di cui persino le proporzioni urbane è prescritto che siano più contenute, ma di un’architettura che pone al proprio centro i suoi utenti, programmando di stabilire con loro un rapporto di privilegiata empatia. La partecipazione dello spazio architettonico al processo formativo, in buona parte necessariamente veicolato attraverso l’esperienza percettiva, la conseguente esigenza di attivare opportuni canali

Fig. 4 - Asilo nido, Pamplona, Javier Larraz, 2009

di interazione tra esso e i suoi piccoli fruitori, costituiscono infatti un richiamo perentorio a una funzione sociale che l’architettura per l’educazione per l’infanzia meno di altre tipologie edilizie può disattendere.

In passato ciò ha ispirato, in imprenditori pubblici e privati illuminati, azioni straordinarie, che hanno scandito e sospinto l’avanzamento della società del loro tempo a partire dall’attenzione ai suoi componenti più piccoli e indifesi e riconoscendo alla qualità dello spazio costruito un compito decisivo. Le scuole d’infanzia a New Lanark frutto del lavoro

Fig. 5 - Rooftop nursery, Hackney, What_architecture, 2006-2006


Fig. 6 - Fawood children’s Centre, Harlesden, Alsop architects, 1998-2004

pionieristico di Robert Owen (1816), i due pregevoli asili ad Ivrea di Luigi Figini e Gino Pollini (1939) e di Mario Ridolfi (1954-1964) che si devono alla straordinaria opera di Adriano Olivetti, e in parte anche gli asili dei villaggi dell’Eni, hanno lasciato tracce emblematiche nella storia dei paesi dove hanno visto la luce, prima ancora che in quella della loro architettura.

Oggi quella tradizione si perpetua in alcuni esempi emuli, come l’asilo progettato da Alberto Campo Baeza nel 2007 su incarico della famiglia Benetton per i figli dei dipendenti dell’azienda (fig. 3). Ma si declina anche in direzioni nuove e diverse, eleggendo nuovamente gli spazi per l’educazione dei più piccoli a termometro per misurare la capacità

Fig. 7 - Asilo nido Ste Thérèse, La Possession, RozO architectes, 1998-2005

delle società di farsi carico delle proprie parti più deboli e di rispondere alle sfide che si pongono loro di fronte. Dando perciò voce, ad esempio, all’infanzia più disagiata, come quella dei paesi del terzo e quarto mondo. Francis Kéré, architetto originario del Burkina Faso assurto nel novero dei progettisti di fama mondiale, ha realizzato nel suo paese natìo opere significative, di cui molte dedicate alla formazione delle generazioni più giovani (fig. 9).

Il passaggio di scala imposto dal tema degli edifici per l’educazione dell’infanzia riconduce il ragionamento nel solco di uno dei mandati a cui i progettisti non possono sottrarsi: quella utilitas di vitruviana memoria intorno alla quale si incardina la funzione sociale dell’architettura e che ne sostanzia i pur imprescindibili contenuti artistici, traducendoli sul piano della dimensione simbolica delle istituzioni umane

Sono opere che coniugano valore architettonico e comfort ambientale con saperi costruttivi antichi come la tecnica di produzione di mattoni in terra cruda; secondo modalità che soprattutto intendono essere alla portata di tutti, per promuovere la reite-

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Fig. 8 - École Saint-Jean, Strassbourg, Dominique Coulon & Associés, 2013

razione delle tradizionali pratiche di autocostruzione ma in versione più avanzata, consapevole, qualificante, sicura e durevole. Con benefici a molteplici livelli proprio perché trasferiti ai germogli in sboccio della comunità coinvolta nel processo.

Questo genere di sensibilità sta prendendo piede in molte parti del mondo (ed è infatti oggetto dell’attenzione dell’ultima Biennale veneziana) e non solo nella produzione di spazi per l’infanzia. Propone una versione aggiornata dello strumentario progettuale, per affiancare la collettività nelle sue esigenze più impellenti ma anche per non tradire le stesse finalità primarie dell’architettura, e continuare a fare in modo che essa possa essere quella “sostanza di cose sperate” profetizzata da Edoardo Persico nel 1935 parafrasando le parole di San Paolo.

Allo stesso scopo, attraverso i presidi pubblici per l’educazione dell’infanzia continua a perpetuarsi anche la funzione testimoniale dell’architettura,

come nell’esempio de La Courneuve, dove, nella “Cité des 4000”, la memoria dei fatti di sangue che hanno avuto come triste fondale le banlieue parigine a seguito dei disagi e conflitti sociali lì incubati è tramandata attraverso la realizzazione di un emblematico comprensorio di servizi scolastici integrati per i bambini da 3 a 11 anni, elevato a vessillo del possibile riscatto di una comunità e della sua rinascita attraverso la cura degli spazi che i più piccoli abitano e nei quali si preparano alla vita.

Fig. 9 - Scuola primaria a Gando, Burkina Faso, Francis Kéré, 2001


Asili nido nel XXI secolo

Per costruire il futuro delle donne e degli uomini che verranno Paola Gallo

«Il processo di apprendimento comincia alla nascita. Lo sviluppo sistematico degli strumenti e dei concetti dell’apprendimento di base richiede perciò che la dovuta attenzione sia posta nella cura delle bambine e Paola Gallo dei bambini piccoli e nella loro educazione iniziale, che può essere impartita attraverso accordi che coinvolgono i genitori, la comunità o le istituzioni, a seconda dei bisogni». Dichiarazione mondiale sull’educazione per tutti, Articolo 5 Jomtien, 1990, UNESCO.

Pur trattandosi di una dichiarazione globale e specialmente pensata per paesi in via di sviluppo e rapidamente emergenti questa dichiarazione dell’UNESCO sottolinea, nella semplicità e nella compattezza dei termini utilizzati, il ruolo “pivotale” che ha l’educazione della prima infanzia nella società. In questo contesto gli asili nido, che si occupano dei servizi e dell’educazione delle bambine e dei bambini da 0 a 3 anni, possono fornire importanti basi per il loro sviluppo cognitivo e comportamentale. È molto importante per una società investire sull’educazione di alta qualità fin dai primi anni di vita. Questo investimento riduce le disuguaglianze sociali ed aiuta bambine e bambini a far meglio nella scuola materna e primaria. Studi recenti mostrano che i bambini che frequentano la scuola materna e l’asilo-nido hanno meno probabilità di abbandonare gli studi precocemente ed hanno abilità cognitive maggiori. Fin dalla primissima infanzia le bambine e i bambini che frequentano l’asilo nido hanno un approccio attivo verso l’educazione e questo li aiuta a sviluppare positivamente la loro personalità. Gli asili nido italiani, specialmente quelli di alcuni

comuni del nord e del centro, rappresentano un eccellenza al livello mondiale. Tra i più eccellenti vi sono quelli del comune di Reggio Emilia. Hanno architetture innovative, aule-atelier, ampi spazi verdi per giocare all’aperto nella natura, piscine, e soprattutto applicano l’approccio educativo “Reggio Children” di Loris Malaguzzi che considera la bambina ed il bambino come “soggetti di diritti” e “produttori di conoscenza”. Al termine della seconda guerra mondiale la volontà di rinascita e ricostruzione italiana si convogliò a Reggio Emilia anche verso l’attenzione all’istruzione delle bambine e dei bambini piccoli, e Loris Malaguzzi se ne fece portatore. Diceva il Malaguzzi: « (...) i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività ed il contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare». Anche Gianni Rodari partecipò a questo processo culturale aiutando bambine e bambini con le sue meravigliose fiabe e poesie a volare sempre leggeri, ma mai con superficialità, sui temi seri della vita. E mi piace ricordare in questo contesto la sua “Filastrocca solitaria” che si trova in Prime fiabe e filastrocche: Filastrocca solitaria, voglio fare un castello in aria: più su delle nubi, più su del vento un castello d’oro e d’argento. Con una scala ci voglio salire per sognare senza dormire e su un cartello farò stampare: Le cose brutte non possono entrare… O filastrocca solitaria, si starà bene lassù in aria: ma se un cartello scritto così lo mettessimo anche qui?

Gli asili nido possono essere per le bambine ed i bambini come il castello in aria ma senza solitudine. Luoghi dove liberare la fantasia, imparare ad interagire con altri e dove le cose brutte non entrano. Tuttavia in questi ultimi anni gli asili nido sono en-

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trati in crisi. In molti comuni non ci sono più le liste di attesa e non si esauriscono i posti a disposizione. Questo fenomeno non è dovuto alla disaffezione culturale da parte delle famiglie ma alla crisi economica che da anni affligge il nostro paese. Le motivazioni principali sono le rette, che sono spesso alte, il fatto che molte mamme hanno perso il lavoro e quindi sono a casa e il calo della natalità. In base ai dati Istat risulta che il 2015 è stato il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità: siamo ormai a 1,35 figlie/i per famiglia. Iscrizioni ai nidi in calo, dunque, di circa il 4% dal 2013. Non era mai successo prima. E l’Italia è comunque ben lontana dall’obiettivo europeo (strategia di Lisbona) del 33% di bambine e bambini iscritti al nido. In Italia i posti sono solo 17 ogni 100 bambine e bambini e sono quasi tutti al centro-nord. La percentuale di posti nel centro nord oscilla fra 19% e 22% mentre per sud e isole i nidi coprono solo il 7,5% delle bambine e dei bambini. In Europa sono Danimarca, Islanda e Svezia ad avere la maggior diffusione di servizi per bambine e bambini di età inferiore ai tre anni, in questi paesi oltre il 50% di bambine e bambini ne usufruisce. Seguono Belgio, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Slovenia, con valori compresi tra il 50 e il 25%. L’Italia si colloca nel terzo gruppo, quello con valori tra il 10 ed il 25%, insieme con Austria, Germania, Irlanda, Lituania, Spagna e Ungheria. Ora la nuova legge sulla scuola, la n. 107 del 13 luglio 2015, che unifica il percorso educativo da 0 a 6 anni, può rilanciare il ruolo degli asili nido e, sperabilmente, portarci verso l’obiettivo europeo e bilanciare lo squilibrio tra il centro-nord e il sud. Essa prevede «l’istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino a sei anni» e definisce i «livelli essenziali delle prestazioni della scuola dell’infanzia e dei servizi educativi per l’infanzia». Prevede inoltre «la qualificazione universitaria e la formazione continua del personale dei servizi educativi per l’infanzia e

della scuola dell’infanzia», e «la promozione di un’adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere». Il mondo dell’educazione infantile deve dunque affrontare proprio in questi anni nuove sfide per poter costruire questo sistema integrato di educazione e istruzione di alta qualità da 0 a 6 anni. Sono necessari progetti e sperimentazioni che consentano di individuare proposte innovative ed al contempo sostenibili. Queste proposte devono puntare a proporre novità nei programmi di apprendimento della prima infanzia fornendo nuovi stimoli educativi che possano aiutare le donne e gli uomini che verranno a vivere in un futuro di uguaglianza, di rispetto dei diritti dell’altro e di consapevolezza dei propri doveri in una società sempre tesa al progresso scientifico e tecnologico e al miglioramento della propria condizione.

Gli asili nido possono essere per le bambine ed i bambini come il castello in aria ma senza solitudine. Luoghi dove liberare la fantasia, imparare ad interagire con altri e dove le cose brutte non entrano E per l’uguaglianza sociale è, tra l’altro, necessario che anche le donne accedano ai ruoli dirigenziali in tutti i settori, e quindi la maniera di proporre i giochi nella prima infanzia dovrebbe contribuire a sviluppare anche nelle bambine quelle attitudini che le portino a scegliere da ragazze liberamente, ma in misura paritetica rispetto ai ragazzi, discipline come la matematica, la fisica, l’ingegneria. Attualmente invece la numerosità del genere femminile è significativamente minoritaria in queste discipline. E naturalmente sarà poi importante per queste donne e questi uomini poter contare su asili nido di qualità per figlie e figli, come ho potuto contarci io per i miei due figli. Concludo con una frase bellissima e visionaria sull’educazione di John Fitzgerald Kennedy e che immaginariamente riallaccio ai sogni senza sonno della “Filastrocca solitaria” del bambino-Rodari: «Let us think of education as the means of developing our greatest abilities, because in each of us there is a private hope and dream which, fulfilled, can be translated into benefit for everyone and greater strength for our nation».


Lunga vita alle ninna nanne Sogni d'oro (tra ninnoli, nenie e neuroni) Giovanni Guanti

Giovanni Guanti improvvisa sul tema L’improvvisazione musicale, Bergamo, Rassegna Musicalis-Disp/Arte, 25 gennaio 2016 (foto: Marco Rota ©)

D’accordo: si era negli anni ‘70, quando ancora tutto sembrava possibile e sul vinile – oggi tornato di gran moda tra i musicofili più ghiotti di suoni analogici, a postumo scorno di quelli resi frigidi dalla digitalizzazione – si incideva qualsiasi cosa. Vero anche è che l’attuale ricerca scientifica ha individuato nel ventre materno la prima ‘scuola di musica’ dell’essere umano, e che il duo voce (della gestante) – percussione (ritmo della sua macchina cuore polmoni) funge ottimamente da organico strumentale di base fin dai tempi di Eva. Ma sapere è una cosa, sentire (anche se non si è più in fase prenatale e posizione fetale) è ben altra. A tal fine, nel 1975, il medico giapponese Hajime Murooka concepì un singolare LP (Sleep Gently in the Womb, Emi/EMA 773), di cui riporto i titoli delle prime quattro tracce: Womb Sound - Sound from Aorta; Sound from Aorta and Vein; Blood Vessel of Navel Cord and Placenta; Combined Uterus Sound. Ironia della sorte, nei siti dedicati questo prodotto discografico viene classificato nei generi electronic e non-music (sì, a ragion veduta esiste anch’esso) e nello stile ambient. Resta nell’anonimato il contributo di Madre Natura (è ancora lecito usare quest’espressione? ditemelo voi…), fornitrice della ‘materia prima’ (non è mater anch’essa?). E chi, come me, crede nell’aurea massima naturalia non sunt turpia, trova semmai turpi, esteticamente parlando e pur riconoscendo loro una certa qual preveggenza sul tipico collage sonoro postmoderno, le tracce successive a quelle

summenzionate. In esse, infatti, Murooka campiona pagine (soporifere?) del repertorio classico – da Bach a Mascagni, da Massenet a Saint-Saëns – saldandole all’antecedente “paesaggio sonoro per madre solista e feto” tramite due tracce che mixano goffamente l’originario (L’origine du monde, nell’immaginazione pittorica di Gustave Courbet) e l’artificiale: Womb Sound and Wolf-Ferrari: “I Gioielli della Madonna”; Womb Sound and Schumann: “Träumerei”. Non si sottolineerà mai abbastanza come già nel grembo materno, attraverso un’opportuna stimolazione musicale, si instauri quell’ancestrale duetto che, come le neuroscienze hanno confermato, costituisce per il nascituro un formidabile mezzo di potenziamento dei fisiologici processi di maturazione neuronale e psicologica. Processi incessantemente in corso d’opera – come ebbi modo di intuire quando il fisico Fabio Uccelli mi pregò di scrivere una prefazione al suo libro La musica all’origine della conoscenza umana (Edizioni Plus - Università di Pisa, Pisa 2002) – persino nelle strutture microscopiche dell’encefalo (microtubuli). Ora, capisco che TGCOM24 possa non apparire tra le fonti più affidabili (almeno a qualche altero specialista), ma possiede il dono encomiabile della sintesi, risparmiandomi l’onere di citare una monumentale bibliografia: “Voce della mamma ‘accende’ il cervello dei bimbi: per riconoscerla ai figli basta un secondo”. Notizia ancora fresca (19 maggio 2016), reperibile online come la relativa fonte accademica, all’url http://www.pnas.org/content/113/22/6295.full.

L’attuale ricerca scientifica ha individuato nel ventre materno la prima ‘scuola di musica’ dell’essere umano, e che il duo voce (della gestante) – percussione (ritmo della sua macchina cuore polmoni) funge ottimamente da organico strumentale di base fin dai tempi di Eva

“Neural circuits underlying mother’s voice perception predict social communication abilities in children”: questo è il punto! E, visto che sto per

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Giovanni Guanti al leggio, mentre declama Big Fog, “Prosimetro trilingue per voce recitante e chitarra immaginaria”, vincitore del primo premio della XXIX edizione del concorso di poesia Lorenzo Montano – Anterem. Verona, Biblioteca Comunale -Spazio Nervi, novembre 2015

licenziare con Daniela Tortora (Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli) il numero 70 della rivista ‘Civiltà musicale’ (Logisma, Firenze) – intitolato Ninnananna. Un canto infinito e contenente gli atti del convegno “Ninna nanna nasce una mamma: dalla culla alla relazione” (Napoli, 7-8 maggio 2015), aperto dalla lectio magistralis di Roberto De Simone sui canti di culla del folklore partenopeo e conclusosi con gli interventi di neonatologi, ginecologi, ostetriche ed etnomusicologi nell’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di Napoli – penso di avere motivi sufficienti per chiedervi: perché salvaguardare la ninnananna dal rischio d’estinzione? Visto che non è garantito neppure che la voce umana reclami anche in futuro, e non soltanto da parte di embrioni e infanti, quell’atavica attenzione che oggi pare riservata sempre più al suono di televisori, cellulari e videogame. Mamme, cantatele dunque voi, le ninnananne, preferibilmente improvvisando come amor vi spira e ditta dentro, senza spender soldi per raccolte su CD che possono magari lusingare l’adulto, ma certo non ingannano i suoi neuroni né, tanto meno, quelli assai più plastici e versatili dei bambini, ben attenti (per fortuna e finché durerà) a distinguere il live dalla registrazione, l’analogico dal digitale, una voce reale dal suo fantasma virtuale. Che poi anche la (auto)coscienza ci riesca, è un altro paio di maniche: tanto è vero che resta sempre un piacevole e istruttivo gioco di società (solo per addetti ai lavori) distinguere se la fonte è un Maestro in carne e ossa o un suono magistralmente campionato.

Torno all’interrogativo: perché salvaguardare la ninnananna e cosa andrebbe perduto con essa? Ben poco, almeno dal punto di vista dell’erudizione musicologica e letteraria, che ha provveduto per tempo a riempire i propri forzieri di innumerevoli testimonianze (un titolo per tutti: Le ninne nanne italiane, a cura di Tito Saffioti, Einaudi, Torino 1994); e non molto, almeno in ambito prettamente compositivo ed esecutivo, perché di ninnananne cosiddette ‘d’arte’ (e di lullabies berceuses canciones de cuna e wiegenlieder) se ne continueranno comunque sempre a scrivere e interpretare. Tutto, e aggiungo: tutto l’essenziale, andrebbe invece perduto sul piano antropologico e nel più generale processo di ominizzazione, almeno come finora conosciuto; e se non avessi pudore a usare certe espressioni, parlerei di epocale bancarotta della comune e condivisa sensibilità. Aggiungendo che l’unica ninnananna adatta a un mondo che disincanta persino l’universo diadico madre-figlio/a è quella composta da Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, meglio noto come Trilussa. S’intitola Ninna nanna de la guerra, risale al 1914, e che la si apprezzi leggendola in silenzio o ascoltandola per bocca di Gigi Proietti o Claudio Baglioni, resta sempre un veridico bilancio e un monito sarcastico purtroppo ancora inascoltato: Fa la ninna, cocco bello, finché dura sto macello: fa la ninna, ché domani rivedremo li sovrani che se scambieno la stima boni amichi come prima.


So cuggini e fra parenti nun se fanno comprimenti: torneranno più cordiali li rapporti personali. E riuniti fra de loro senza l’ombra d’un rimorso, ce faranno un ber discorso su la Pace e sul Lavoro pe quer popolo cojone risparmiato dar cannone!

Veicolando miti, riti e credenze i canti della culla costituiscono fonti di inestimabile valore per la ricostruzione della cultura di gruppi e strati della popolazione in un preciso momento storico. Grazie al loro studio è progredita, per esempio, la conoscenza della relazione madre-figlio/a, e si è ampliato l’orizzonte di senso della vita femminile entro contesti socio-familiari che soltanto nell’Occidente tardo capitalista possono essere liquidati come arcaici e obsoleti. Sono il primo ad augurarmi, se non altro per riconoscere le pari opportunità, che a farsi cantori di ninnananne siano anche i padri, biologici o meno, e i familiari e gli amici tutti. Resta il fatto che nella stragrande

Non si sottolineerà mai abbastanza come già nel grembo materno, attraverso un’opportuna stimolazione musicale, si instauri quell’ancestrale duetto che, come le neuroscienze hanno confermato, costituisce per il nascituro un formidabile mezzo di potenziamento dei fisiologici processi di maturazione neuronale e psicologica

maggioranza dei casi a partorire è ancora la femmina dell’uomo e che da lei continuano a passare i preliminari processi educativi, tramandati di generazione in generazione e sottesi da residui anche di “mentalità arcaiche”, che ci risultano in parte incomprensibili per il radicale mutamento dei ruoli, ben analizzato da Rosetta Durante (La donna nel canto popolare. La ninna nanna, Editoriale Scientifica, Napoli 2002) e Luisa Del Giudice (“Ninnananna-nonsense? Angoscia, sogno e caduta nella ninnananna italiana”, in ‘Ricerca Folklorica’, n. 22, febbraio 1991, pp. 105-114). Questi studi sottolineano come ci si trovi al cospetto di fenomeni caratterizzati anche da traumatiche e irrisolvibili ambivalenze, che nulla hanno a che

vedere con la patinata sicurezza delle sorridenti mammine che ninnano deliziosi frugoletti nelle pubblicità. Dormire è, infatti, un po’ come morire (lo si va ripetendo da millenni); e se tra le luci della ninnananna brilla la fiduciosa riconsegna materna del piccino alla protezione di Dio, dei santi e degli angeli custodi (per i laici: a Morfeo), tra le ombre resta indiscutibilmente l’esagerata sedazione di una spesso presunta ipercinesi infantile, accompagnata dai sussurri e dalle strida di rito tipici di chi non si rassegna a dormire per forza quando sarebbe ora (quella dei Grandi, ovviamente). Se ci fosse spazio, ma devo limitarmi a un accenno, aprirei un’ampia parentesi sui testi di ninnananne dall’evidente funzione apotropaica contro i rischi della cosiddetta “morte bianca” (“sindrome della morte improvvisa del lattante” o, in inglese, SIDS - Sudden Infant Death Syndrome), dalle cause tuttora ignote e purtroppo non ancora debellata. Eccoci così giunti allo scontro finale: canto sottovoce e dondolio ritmico delle braccia versus movimenti scomposti, irrequieti e senza direzione ai quali, finalmente e con mirabile pedagogia di base, viene imposta una direzione ordinata con soddisfazione, se non reciproca, almeno della madre o di chi per essa. Insoddisfatti dovranno invece restare i più curiosi che si erano chiesti se il bambino dorme per la ninnananna o per il gesto cullante. Si ritiene che narcotico sia quest’ultimo; ma, visto che in genere esso è accompagnato dalla voce, si è prodotto una sorta di “riflesso condizionato” tale per cui, comportamentisticamente, il suono della ninnananna diventa stimolo sufficiente ad abbandonarsi al sonno. Com’è noto, il cervello funziona con ritmi diversi nelle diverse sue zone: la corteccia cerebrale (principale governatrice delle azioni coscienti) ha un ritmo veloce rispetto alle strutture più antiche ossia meno evolute (a cominciare dal talamo) e che governano le emozioni e il sonno funzionando con ritmi molto più blandi. Pertanto, se anche si liquida come troppo schematica l’antitesi tra convulsa vita metropolitana contemporanea e presunta, arcadica quiete d’antan, resta il fatto che in ognuno di noi si annidano e intrecciano complicate poliritmie fisiologiche e psicologiche. Insieme alle rappresentazioni collettive, ai modelli educativi e relazionali, ai vissuti individuali e pubblici, la ninnananna come genere poetico-musicale o come pratica ancestrale irradia non soltanto quiete e benessere ma anche un sorprendente campionario di auspici, vaticini e profezie sul nascituro o sul neonato. Gli augura infatti ogni bene, gli chiama

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Agostino e di Rousseau o della Recherche di Proust? No, vero? Ebbene, questi autori (ma avrei potuto citarne molti altri) non poterono concepire la propria genesi spirituale senza l’abbrivio impresso anche dall’ascolto di affettuose voci femminili che cantavano per chi ancora era privo dell’uso della parola (infante, etimologicamente, significa proprio questo). Muto e afasico quanto si vuole, ma certo non sordo. Anzi, più abile degli individui maturi o presunti tali nel Giovanni Guanti introduce il convegno sull’Arlecchino di Ferruccio Busoni nel decifrare la fisiognomica centenario della sua composizione, Empoli, Cenacolo degli Agostiniani, marzo acustica dei cosiddetti 2016 tratti soprasegmentali del discorso: cioè, in parole tutte le benedizioni del cielo sul capo, gli promette povere, il loro tono. Si tranquillizzino dunque i le più belle cose di questo mondo e gli minaccia se ninnanti: il ninnato – che auguro ninnolo di chi il caso le sculacciate, come in questo esempio tratto sappia crescerlo ancor meglio che come nino de dall’inesauribile forziere di Giuseppe Pitré Usi e oro – non è lì per dar pagelle all’impostazione costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano vocale, alla linea melodica o al lirismo del testo. (1889): E si iddu nun voli dormiri ‘nta lu culiddu Capisce soltanto l’intonazione e l’intonazione è, l’avi ad aviri (se questo bambino non vuole appunto, tutto quello che c’è da capire. Il che dormire, avrà busse sul culetto). avviene, va ribadito, in un battibaleno…

Mamme, cantatele dunque voi, le ninnananne, preferibilmente improvvisando come amor vi spira e ditta dentro, senza spender soldi per raccolte su CD che possono magari lusingare l’adulto, ma certo non ingannano i suoi neuroni né, tanto meno, quelli assai più plastici e versatili dei bambini, ben attenti a distinguere il live dalla registrazione, l’analogico dal digitale, una voce reale dal suo fantasma virtuale

Punto di riferimento ogni volta ci siano da sedare angosce, spaesamenti e inquietudini infantili, i canti di culla andrebbero salvaguardati se non altro perché hanno dato l’abbrivio a innumerevoli illustri otobiografie, per riprendere il termine coniato da Jacques Derrida. Vi immaginate un “Canone Occidentale” orbato delle Confessioni di

Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem (matri longa decem tulerunt fastidia menses) incipe, parve puer: cui non risere parentes, nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est.

“Inizia, fanciullino, a riconoscere dal sorriso la madre / (alla madre i lunghi fastidi durarono dieci mesi) / inizia, fanciullino: a chi non sorrisero i genitori, / nessun dio lo onorerà della sua mensa, né una dea del suo letto”. Versi meravigliosi questi di Virgilio (Bucoliche, Egloga quarta, 60-64), e che tali restano a dispetto della parziale imprecisione scientifica. Infatti, non è dal sorriso della madre che il bimbo o la bimba imparano a conoscerla, ma dalla voce. Prima che sia il volto a dare un rassicurante ‘benvenuto al mondo’, la relazione madre-figlio/a è già solidamente impiantata su basi audio-tattili. Non a caso, inizio e fine dell’esistenza si ricongiungono circolarmente nel suono. Una ninnananna invita al sonno e all’abbandono di ogni resistenza e paura, inducendo a chiudere


(provvisoriamente) gli occhi. Considerandoli invece definitivamente chiusi il Bardo Thodol (Libro tibetano dei morti) si rivolge al solo orecchio, stimato tanto più vigile e accorto dell’occhio quanto meno distratto dalle immagini e dalle illusioni del mondo. Mamme indaffaratissime che faticano a mantenere il giusto metronomo, soundscapes sempre più artificiali, duplice eclissi e della voce e della capacità di ascolto, mass media onnipervasivi ai quali (passatemi la metafora) andrebbe somministrata meno cocaina e più oppio, culto della velocità e derealizzazione e virtualizzazione del corpo. Come stupirsi (conclusione scontata) se c’è sempre minor cura delle ninnananne? Eppure – un perfetto parallelismo con quanto riguarda specie animali e vegetali a rischio di estinzione – sembra paradossalmente crescerne il bisogno, e in ragione diretta della loro fragilità. Cosicché al già cospicuo mercato librario e discografico dedicato alla commercializzazione della ninnananna se ne è affiancato un altro, parimenti prospero, gestito da palestre ambulatori e consultori dove si esortano gestanti e puerpere a “liberare la propria voce”. Il che, detto per inciso, non guasta mai! L’utilità e l’insostituibilità della ninnananna risultano ancora più evidenti se si considera, per esempio, che spesso il bambino immigrato esprime nella Scuola dell’infanzia le proprie difficoltà e disagi in vari modi, non ultimi i disturbi del sonno; da qui l’impegno della scuola a progettare interventi capaci di coinvolgere gli stessi genitori nella creazione di un clima distensivo che aiuti, attraverso l’incontro tra culture diverse nelle tradizionali ninna nanne dei vari Paesi, i bambini a superare condizioni di tensione emotiva e di difficoltà nell’interazione con gli altri. È nato così nella Scuola Comunale dell’infanzia Gianni Rodari di Arezzo il progetto “Ninna nanne e filastrocche del mondo”. Ne riporto le motivazioni: L’esigenza di fondo da cui è nata l’esperienza è stata la mancanza di strumenti per gestire l’accoglienza e l’inserimento dei bambini stranieri: in particolare gli insegnanti si sentivano inadeguati a rispondere ai bisogni del sonno, che è un momento molto delicato, nel quale si chiede al bambino di abbandonarsi, di rilassarsi; è un momento in cui è importante creare un ponte tra la casa, l’ambiente affettivo familiare, la scuola, e bisogna quindi avere a disposizione parole

significative, conosciute, che suscitino ricordi, che permettano di sviluppare un senso di benessere e di sicurezza affettiva; si sentiva quindi l’urgenza e la necessità di ricorrere alla lingua materna dei bambini, la lingua degli affetti (cfr. Cartei Carlotta, “Una Scuola dell’infanzia accogliente, tra aspettative delle famiglie immigrate ed esperienze in atto”, in ‘Rivista Italiana di Educazione Familiare’, n. 2, 2008, pp. 73-85: 81-82).

Rifacendosi a un classico del pensiero etnoantropologico dedicato alle cosiddette società illetterate – Colin Turnbull, “La politica della nonviolenza”, in Il buon selvaggio, a cura di Ashley Montagu, Elèuthera, Milano 1999, pp. 173-233 – Francesco Remotti ha invece individuato cos’è (e cosa fu anche per noi), e cosa può (e potrebbe rifare per tutti) una ninnananna, ipotizzando che una società meno violenta possa essere, in fondo, anche la più giusta: un esempio calzante può essere quello della giovane mamma mbuti, descritta da Colin Turnbull, la quale durante gli ultimi mesi di gravidanza non si limita a “portare” (gerere) il feto dentro di sé, ma è solita «andarsene per conto proprio per la foresta, nel posto favorito, a cantare la ninna-nanna al figlio nascituro»: porta il suo bambino in foresta e gli si rivolge con dei canti. Occorre rilevare che queste ninne-nanne sono composte dalla madre appositamente per il figlio che porta in grembo e che, secondo l’opinione dei baMbuti, i feti, già tre o quattro mesi prima che vengano al mondo, sono trattati come esseri intelligenti, alla stessa stregua degli adulti; ed è questo il motivo per cui le ninnenanne non sono fatte di parole affettate e incomprensibili. La mamma mbuti sa di poter parlare direttamente al bambino che porta in grembo, usando le stesse parole degli adulti, e il suo intento […] è duplice: quello di “informarlo” sul mondo in cui tra poco verrà fatto nascere e di “rassicurarlo” circa la bontà di ndura, la foresta in cui dovrà vivere e che come un utero materno lo avvolgerà per tutta la sua esistenza. La donna canta la ninna-nanna «muovendosi come se si cullasse», agitando dolcemente mani e piedi nell’acqua del suo ruscello favorito, «ripetendo frasi semplici, simili a quelle che canta gioiosamente alla foresta quando partecipa

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a una caccia» (cfr. Francesco Remotti, “Fare figli, con chi? Tra famiglie e antropopoiesi”, in ‘Anuac - Rivista dell’Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali’, vol. II, n. 2, dicembre 2013, pp. 78-87: 79).

Prima che mi si accusi di istigare al rimpianto di Tropici più o meno tristi, lasciatemi a un differente delirio: ah, se in Occidente le filosofie fossero (state) più ‘materne’ e più ‘filosofiche’ le mamme! Le prime, salvo lodevoli eccezioni, si sarebbero prese più cura del corpo umano e non l’avrebbero considerato “la tomba dell’anima”: paradigmatico il gioco di parole tra soma (corpo) e sema (sepolcro) nel Cratilo (400c) platonico. Le seconde, in compenso, non batterebbero ciglio né si abbandonerebbero a gesti scaramantici apprendendo (sempre da istruttiva etimologia) che ninna è corradicale non soltanto di piacevolezze come i ninnoli ma anche della funebre per antonomasia nènia (dal lat. nenia o naenia). La quale, nell’antica Roma, designava il motivo intonato dalle prefiche attorno al feretro. Probabilmente, si stava meglio all’interno di quella pizza o schiacciata chiamata placènta (dal lat. class. placenta ‘focaccia’, e questo dal gr. πλακοῦς -οῦντος, propr. agg. sostantivato ‘che ha forma schiacciata’, der. di πλάξ πλακός ‘superficie piana e larga’). Tra il canto per chi stenta ad addormentarsi e il pianto per chi si è addormentato per sempre corrono indistruttibili analogie, facilmente verificabili comparando gli stilemi presenti nei repertori poetico-musicali destinati agli appena entrati nel, o appena usciti dal, mondo. Riferendosi alle usanze funebri della Sardegna, Maria Margherita Satta ha scritto: il lamento vero e proprio cominciava dolcemente, simile ad una monotona ninna nanna, accompagnato dall’oscillare del busto delle lamentatrici, le quali talvolta, in gesto di allontanamento, abbassavano le mani verso il morto. Durante l’esecuzione venivano seguiti determinati moduli oltre che nella mimica anche nel discorso che era intercalato da “ritornelli” ripetentisi con precisa frequenza. Di solito veniva recitato un monologo da una attittadora guida. Talvolta si alternavano due o più lamentatrici che recitavano le strofe. Elemento caratterizzante degli attittidos era inoltre l’idealizzazione dei defunti ad alberi da frutto, a fiori o a colombi, chiamati con suggestive

similitudini di gioielli, diamanti, o con appellativi come stella o luna. Il morto, cioè, non era più reale ma trasfigurato dalla poesia (cit. in Mario Atzori, “Le Tradizioni popolari”, in La Provincia di Sassari: ambiente, storia, civiltà, Edizioni Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1989, pp. 127-143: 139-140).

Veicolando miti, riti e credenze i canti della culla costituiscono fonti di inestimabile valore per la ricostruzione della cultura di gruppi e strati della popolazione in un preciso momento storico. Grazie al loro studio è progredita, per esempio, la conoscenza della relazione madre-figlio/a, e si è ampliato l’orizzonte di senso della vita femminile entro contesti socio-familiari che soltanto nell’Occidente tardo capitalista possono essere liquidati come arcaici e obsoleti Di non trasfigurabile, o edulcorabile, resta invece la strutturale ambivalenza della ninnananna: significati testuali espliciti o impliciti, formule ritmiche e prosodiche, funzionalità collettive e private, vive sopite o cancellate che siano, rimandano infatti tutte all’intuizione espressa dal senno popolare così: appena uno nasce è buono per morire. Addolcita ed equilibrata à la Erich Fromm (“Vivere significa nascere a ogni istante. La morte subentra quando il processo della nascita cessa”), quella spietata sentenza dovrebbe indurre di riflesso a custodire e promuovere tutto ciò che evita l’appiattimento dell’elettroencefalogramma. Con cure speciali, oltre che per se stessi e il nostro prossimo, soprattutto per i più inermi. I quali, galleggiando nel liquido amniotico, sperimentano precocissimamente come l’acqua sia non soltanto gran parte del loro essere ma anche un ottimo conduttore del suono. Certo, l’acustica nell’utero non sarà quella eccelsa di un moderno auditorium, trattandosi di uno spazio progettato nel corso degli eoni a servizio non dell’arte ma della vita. Tale, comunque, da garantire coccole e carezze sonore in un’oasi protetta per sviluppare al meglio inclinazioni affettive e abilità cognitive. Cosa poi se ne farà l’adulto, ipernutrito o a digiuno di ninnananne che sia, è questione che esula da questa chiacchierata.


«Il piccino dell’eroe»

La scoperta del fanciullo nella letteratura greca Adele Teresa Cozzoli

L’epica omerica non rappresenta mai l’infanzia quasi fosse uno spettacolo o un momento dell’esistenza dell’eroe che alleggerirebbe di gravitas il suo statuto ideale, come documenta con chiarezza Il. 16, 711: Patroclo, colto Adele Teresa Cozzoli dal terrore nell’acme della battaglia, tremante, versa calde lacrime cosicché Achille si vede costretto ad apostrofarlo con severità «Perché, Patroclo, piangi, come bambina piccola, che correndo dietro alla madre, vuole che la prenda in braccio e continua a guardarla piangendo, fin quando non la sollevi?». Le uniche immagini sulla figura dell’eroe bambino, Iliade 6, 464 ss. e 9, 486 ss., sono state tradotte da Giovanni Pascoli: Il piccino dell’eroe, «“Oh! ch’io sia morto e la terra, buttandomi sopra, mi celi prima ch’io senta il tuo grido allorché ti trascinino schiava!” Ettore in queste parole, distese le mani sul suo bimbo: dietro, il suo bimbo, sul petto della sua ben vestita nutrice, con un grido piegò, spaventato alla vista del babbo, per la paura del bronzo e de’ crini ch’avea sul cimiero come tremendo lassù, sopra l’elmo, ondeggiare lo vide. E ne sorrise il suo padre, e la madre onorata sorrise. Subito via di sul capo si tolse il prode Ettore l’elmo, e lo depose per terra, che intorno era tutto barbaglio. Egli il suo caro bambino baciò, palleggiò tra le mani, e così disse volgendosi a Giove e agli altri Celesti: “Giove con gli altri Celesti, ben fate che questo bambino mio tale divenga quale io glorioso tra tutti i Troiani, e così buono di forze, e che d’Ilio rimanga signore…”»; Fenice parla dell’infanzia di Achille, «Molto di cuore t’amavo: che tu non volevi con gli altri fuori di casa a banchetto venire od in casa mangiare; sulle ginocchia volevi tu ch’io ti prendessi a sedere; ti sminuzzassi la carne, ti dessi il mangiare ed il bere. Mi spruzzolavi di vino sovente la veste, sul petto: che rigettavi; così, com’è garbo dei poveri bimbi». «A me

— scriveva Pascoli in Epos — pare che ῤαψοδός prima di significare recitatore, sì dei poemi omerici, d’altri carmi, indicasse l’aedo che, venuto già quando le oimai erano da tempo vulgate e trite, si adoperasse a rinnovarle qua e là per gli uditori accostumati adornandoli di particolari tratti ora dal suo umore, ora da un’ispirazione o esigenza locale. Il suo nome veniva dall’abilità di cucire alle oimai primitive il suo panno … Do un esempio di questo lavorìo dei rapsodi. Uno di essi voleva di Achille, di cui i suoi numerosi uditori conoscevano tante imprese eroiche, dare la novità più meravigliosa; rappresentare questo simile agli Dei, questo gigante, questo cuor di leone, questo frangi-schiere e distruggi-città, rappresentarlo bambino, cui, non la madre … ma un aio imbocca la carne tagliata prima accuratamente e col vino; ed il bimbo sulle ginocchia dell’aio, spesso ne rigetta e spruzza le vesti. Il rapsodo prende l’oime dell’ambasceria ad Achille che in origine era fatta da due … ; prende

L’epica arcaica raffigura talvolta i fanciulli, ma non con un valore autonomo rispetto alla figura dell’eroe e soprattutto disconosce al παίζειν un valore paideutico, mentre per lo più fissa il suo focus narrativo ed esegetico solo sulla insensatezza bizzosa e puerile del gioco del tutto privo di serietà che può comportare incoscienza e addirittura esiti disastrosi (Il. 15, 360 ss.)

quell’oime e aggiunge ai due ambasciatori Phoinix, contro ogni verosimiglianza … e lo fa parlare a lungo, alla maniera di Nestore, con quei mitici ricordi dell’infanzia, all’Implacabile». In verità dobbiamo più alla sensibilità di Pascoli, il quale rinveniva così “il fanciullino” letterario e reale, anche in Omero, che non all’antico poeta la catalizzazione dell’interesse verso scene tipiche della vita infantile. Nel primo infatti, l’immagine di Astianatte, l’unico παῖς dei due poemi che non giungerà mai all’età adulta, cristallizza l’icona del popolo troiano e prefigura nostalgicamente la fine

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di Troia, priva di un eroe vendicatore perché morto bambino; nel secondo, il ricordo dell’infanzia bizzosa di Achille anticipa la disposizione d’animo di quest’ultimo, irremovibile nella decisione di non ricongiungersi con l’esercito di Agamennone, dopo l’onta subita. Dunque l’epica arcaica raffigura talvolta i fanciulli, ma non con un valore autonomo rispetto alla figura dell’eroe e soprattutto disconosce al παίζειν un valore paideutico, mentre per lo più fissa il suo focus narrativo ed esegetico solo sulla insensatezza bizzosa e puerile del gioco

Nella realtà pacifica dell’Odissea, laddove cioè ci aspetteremmo qualche menzione in più dei fanciulli e del loro mondo, e dove per di più è attestato il tecnicismo παίζω in riferimento al gioco della palla di Nausicaa e delle sue compagne (6, 100 ss.), di fanciulli, di bambini o di infanti e dei loro tipici trastulli non v’è traccia

del tutto privo di serietà che può comportare incoscienza e addirittura esiti disastrosi, come ad esempio in Il. 15, 360 ss., dove si paragona la distruzione delle fortificazioni achee da parte di Apollo ad un bambino che gioca con la sabbia. Il mondo bellico dell’Iliade non sembrerebbe certo offrire molte possibilità di cogliere sfumature positive nel gioco dei fanciulli, eppure anche nella realtà pacifica dell’Odissea, laddove cioè ci aspetteremmo qualche menzione in più dei fanciulli e del loro mondo, e dove per di più è attestato il tecnismo παίζω in riferimento al gioco della palla di Nausicaa e delle sue compagne (6, 100 ss.), di fanciulli, di bambini o di infanti e dei loro tipici trastulli non v’è traccia. È solo nella tradizione cultuale degli Inni omerici che compare l’impertinente giocosità di un fanciullo divino, il piccolo Hermes. L’inno non è rilevante solo perché presenta per la prima volta un παῖς νήπιος, come protagonista indiscusso di una composizione letterario-poetica, ma soprattutto perché costituisce uno dei primi testi in cui, il gioco, oltre ad essere associato e sovrapposto alla poesia, presuppone potenzialità euristiche d’ingegno e di serietà. L’invenzione della lira, il cui racconto nell’inno fa parte dell’aretalogia del dio, viene infatti presentata come attività ludica: la tartaruga, trovata da Hermes, è un bel e amabile giocattolo (ἄθυρμα) e la costruzione della lira è un vero e proprio atto

di invenzione intuitiva; il balenare dell’idea e la sua traduzione da potenza in atto sono paragonate alla circostanza in cui un uomo, sotto la stretta della necessità, elabora un rapido pensiero o al bagliore che brilla dallo sguardo di chi ha appena intuito qualcosa; ma l’amabile e prodigioso gioco, come fanno tutti i bambini con i nuovi trastulli, va subito sperimentato, cosicché la prima esecuzione delle capacità dello strumento musicale si configura come frutto di un’improvvisazione ludica estemporanea. E sarà ancora il nuovo ἄθυρμα, utilizzato ad arte dal dio, a sottrarlo dalle nefande conseguenze dell’ira di Apollo, che, ammaliato e stupito dal suono e dal canto, placherà infine la sua rabbia contro il fratello per il furto dei buoi. Come in qualsiasi gioco, dopo l’improvvisazione, sono solo lo studio e l’esperienza che però possono far nascere una vera tecnica e talvolta un’arte: anche la lira — come afferma lo stesso piccolo dio rivolto ad Apollo, spiegandogli le potenzialità dello strumento — a chi, dopo lungo studio la mette alla prova con competenza tecnica e dottrina, cantando ella insegna tutto ciò che è gradito alla mente, suo-

Fanciullo con oca, da originale di Boeto, Roma, Musei Capitolini


nata con mano lieve e con delicata esperienza, ma se altri, inesperto o rude ignorante, la tenta con mano rozza allora così stonerà fuori tono. Se si eccettua qualche allocuzione, sono poche o quasi inesistenti le raffigurazioni di fanciulli nel dramma antico: nè i bambini sulla scena sono mai assurti a personaggi drammaturgici veri e propri. È solo in età ellenistica che i fanciulli e il loro παίζειν manifestano per la prima volta piena autonomia letteraria. In Apollonio Rodio (3, 114 ss. e 131 ss.) Eros e Ganimede si divertono con gli astragali come potrebbero farlo due fanciulli comuni mortali nella loro quotidianità, mentre si descrive, di nuovo, dopo l’Inno ad Hermes, un altro giocattolo, la palla aurea donata da Adrastea a Zeus fanciullo, che dovrebbe convincere il piccolo Eros a trafiggere con le sue frecce Medea d’amore per Giasone. Il gioco sembrerebbe dunque aver conquistato pienamente diritto di raffigurazione in poesia. Non solo. La minuziosa descrizione delle palla in Apollonio appare sempre più metalettarariamente ricordare la creazione artistica di un poeta dotto ellenistico, splendidamente perfetta e meravigliosa nel risultato finale, perché dotata di cuciture intertestuali invisibili (κρυπταί δὲ ‘ραφαί εἰσιν), ma ben decodificabili per ogni fruitore competente. Il gioco e il giocare, παίγνιον e παίζειν, dunque, nonché l’attitudine ad essi, in età ellenistica, insieme alla riscoperta e alla valorizzazione del mondo infantile attestata anche nell’arte coeva, in letteratura si sovrappone, si confonde e s’identifica con l’attività poetica. In modo dissacratorio rispetto ai canoni letterari del periodo precedente e alla precettistica aristotelica che vedeva in Omero il modello ideale, il poeta alessandrino pascolianamente ‘conclude il suo canto come un fanciullo, pur essendo non poche le decadi dei suoi anni’, ricrea cioè una lingua poetica nuova e ‘fanciullesca’ che non sia più quella standardizzata dalla dizione epica formulare, attingendo alla prosa e al parlare corrente, e rinviene oggetto di poesia anche nel quotidiano, come potrebbe fare un fanciullo spinto dal suo entusiasmo per il desiderio di conoscere e apprendere, pronto a meravigliarsi per ogni situazione, sia pur non nuova, ma che ai suoi occhi freschi e giovani appare tale. Così ironicamente Callimaco, sul far della vecchiaia, nel Prologo degli Aitia, appartentente alla seconda edizione dell’opera, edita dopo il 246 a. C., teorizza di contro ai suoi detrattori. Ai Telchini, invidiosi critici, che lo accusano di chiudere in breve i suoi canti come un fanciullo, παῖς ἅτε perché, pur non essendo poche le decadi dei suoi anni, non ha com-

posto un poema unico e continuato in molte migliaia di versi in gloria dei re e degli antichi eroi, egli evita di rispondere; introduce lo stesso dio della poesia, Apollo, a dettargli la precettistica dell’arte e, proprio all’inizio del primo libro, nel Sogno, si presenta παῖς ἀρτιγένειος. Egli tornerà quindi ad essere di nuovo παῖς all’inizio del primo libro, ma solo metaletterariamente rievocando il sogno fatto una volta da παῖς, per continuare a chiudere in breve il suo canto ‘come un fanciullo’ (παῖς ἅτε), nel solo modo cioè con cui i suoi avversari con disprezzo gli rinfacciavano di saper fare, ma anche nel solo modo in cui egli intendeva programmaticamente essere poeta. I Telchini tacciano d’immaturità le sue opere, le considerano

L’invenzione della lira viene presentata come attività ludica: la tartaruga, trovata da Hermes, è un bel e amabile giocattolo (ἄθυρμα) e la costruzione della lira è un vero e proprio atto di invenzione intuitiva prive di organicità, di serietà, creazioni spezzate a carattere desultorio, giochi fanciulleschi. I detrattori mormorano continuamente o dappertutto contro il poeta che sa solo creare ‘παῖς ἅτε, ma l’espressione, lungi dal sintetizzare una critica negativa, per Callimaco, poeta filologo, poeta scienziato, è una prerogativa positiva e irrinunciabile. Solo del resto con il παίζειν nella narrazione, cioè con il passaggio improvviso dal realismo al surrealismo, col moltiplicarsi dei punti di vista e dei centri gravitazionali della composizione, col disarticolarsi in segmenti autonomi della struttura principale del racconto e, nella langue, con la polueideia linguistico-stilistica, la poesia alessandrina si poteva salvare dall’unico pericolo in cui sarebbe potuta ricadere: la nuova letteratura, sovrabbondante di cultura filologica, zavorrata da densa e sfoggiata erudizione, rischiava di esprimere una diversa forma di pesantezza, non quella della dizione omerizzante, ma del contenuto. E così la riscoperta anche da parte dei poeti del ‘fanciullo’ che platonicamente (o pascolianamente ?) vive e si emoziona in età adulta ancora in ognuno di noi, balbetta, sorride, ci porge le sue piccole e tenere astuzie, gioca a tenerci per mano da vecchi chiacchierando amabile come un usignolo, traghetta l’antichità greca verso la cultura moderna.

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I bambini ci guardano

L’infanzia nel cinema italiano del secondo dopoguerra Stefania Parigi

Alla morte o alla difficile sopravvivenza dell’infanzia in tempo di guerra viene da sempre attribuita la forza di un’immagine-limite, che diventa il simbolo del crollo di ogni umanesimo. Quando l’effigie cadaverica si conStefania Parigi giunge con lo stato iniziale e pulsante della vita sembra che venga azzerata ogni coordinata di civiltà. Ci troviamo di fronte a una tabula rasa: un paesaggio di rovine, in cui il mondo appare rovesciato, messo sottosopra, invertito. La storia si presenta come il principale agente di distruzione della vita e del suo tempo naturale. Il bambino assume la figura del capro espiatorio: il suo corpo martoriato e infelice diventa un monito, l’icona più radicale e assoluta della catastrofe dell’umanità. L’immagine recente del cadavere del piccolo siriano Aylan sulla spiaggia turca o quella, risalente al 1972, della bimba nuda che fugge dal villaggio sudvietnamita dopo il bombardamento al napalm confermano un antico paradigma fondato sull’oscenità del legame tra la morte e l’infanzia. Un legame che ha inscritto in sé il rituale del compianto e le sue inevitabili retoriche, amplificate dai media attuali della comunicazione. Nel corso del Novecento uno dei momenti più significativi di questa esibizione del corpo offeso dell’infanzia è rappresentato senz’altro dal cinema italiano del secondo dopoguerra. I bambini invadono lo schermo come non era mai accaduto prima. Fin dal film che inaugura il neorealismo, Roma città aperta, girato nei primi mesi del 1945, uno stuolo di ragazzi fa da contrappasso al mondo degli adulti giocando alla guerra. Nel finale i due universi paralleli si incontrano sotto il segno del trauma: i bambini divengono i testimoni dell’esecuzione del prete partigiano, i depositari della memoria tragica della Resistenza. La loro iniziazione alla vita adulta passa attraverso il contatto diretto

con la morte. L’ultima inquadratura del film di Rossellini è dedicata al loro incamminarsi verso la città: i profili infantili sembrano proporsi come destinatari e artefici di un futuro che ancora non si è delineato, ma che viene affidato alle loro mani e ai loro occhi. Come se l’orrore a cui hanno assistito fosse il punto da cui ripartire per invertire le coordinate distruttive della storia. Il paradossale oscillamento tra gioco e morte è presente anche in una delle scene più incisive delle cinque giornate di Napoli che ci viene offerta da Giacomo Gentilomo in ‘O sole mio! (1946), dove uno scugnizzo tira una bomba su un carro armato tedesco pagando con la morte il suo gesto. Mentre, nello stesso film, un gruppo di inquadrature ci mostra, al contrario, una bambina piangente che subisce lo scontro di piazza, avanzando come un corpo sperduto tra le gambe degli insorti i quali corrono in senso inverso, inseguiti da un carro armato tedesco. Si tratta di immagini ad alto grado di pathos che, da una parte, risultano profondamente immerse nella memoria ancora bruciante dell’esperienza vissuta e, dall’altra, offrono figurazioni e composizioni fortemente stratificate nella storia del cinema e dell’arte che si confrontano con la rappresentazione dell’innocenza ferita.

L’immagine recente del cadavere del piccolo siriano Aylan sulla spiaggia turca o quella, risalente al 1972, della bimba nuda che fugge dal villaggio sudvietnamita dopo il bombardamento al napalm confermano un antico paradigma fondato sull’oscenità del legame tra la morte e l’infanzia

In Paisà (1946) e Germania anno zero (1948) quel pallido filo di speranza a cui Rossellini sembrava affidare il congedo dallo spettatore di Roma città aperta sembra affievolirsi sempre di più, mentre si amplia la fenomenologia dell’orrore. Una delle immagini-choc di Paisà raffigura un infante che cammina piangendo tra i cadaveri degli adulti, unico sopravvissuto alla strage dei propri familiari, in un’atmosfera da fine del mondo, sottoli-


neata anche dall’oscurità che avvolge il suo corpo. In un’altra immagine-chiave si assiste al dialogo tra uno sciuscià napoletano, rimasto orfano, e un soldato nero della Military Police, che condividono la stessa sorte di emarginati, in un paesaggio di macerie. Questo confronto interrazziale si chiude con l’apparizione di un vero e proprio inferno, dentro le grotte di Mergellina dove vivono gli sfollati. In altri film del periodo il problema degli orfani si intreccia con le dinamiche interculturali e interrazziali innescate dalla guerra. C’è, per esempio, un’opera poco conosciuta di Luigi Zampa, Campane a martello (1949), che mette in scena, con modalità comiche e, insieme, patetiche, certo lontane dallo sguardo fenomenologico ed essenziale di Rossellini, il problema di un’orfanità che coinvolge tutte le razze e i mescolamenti etnici provocati dal conflitto. In un film del “maestro” di Rossellini, l’ex ufficiale di marina Francesco De Robertis, intitolato Il mulatto (1950), la violenza e l’ibridazione razziale sono al centro di un racconto edificante sulle vicende di un bambino con la pelle scura e i capelli biondi dal nome simbolico di Angelo, presentato come una sorta di extra-terrestre, di mutante. Il culmine della situazione di isolamento e di sofferenza vissuta dall’infanzia viene offerto da Germania anno zero dove un ragazzo tedesco vaga tra le macerie di Berlino, ridotta a una città-cadavere, alla ricerca di cibo per la propria famiglia. Il suo cammino viene descritto come un vero e proprio calvario, consumato in mezzo alle rovine materiali e spirituali della civiltà. Si sono tragicamente invertiti tutti i ruoli sociali e famigliari; i bambini lavorano al posto degli adulti, sono innocenti delinquenti che si macchiano del più atroce e simbolico dei delitti: l’uccisione del padre, ovvero di un ordine malato, che ha condotto all’apocalisse bellica. L’iniziazione alla vita del protagonista av-

viene attraverso un delirio morale ed esistenziale che trova la risoluzione finale nel suicidio. Il bambino è una vittima che si trasforma in un carnefice per poi consegnarsi a un destino di espiazione. Si muove dentro una sorta di frana del tempo e dello spazio, in cui sono saltate tutte le dimensioni normalizzate. Potrà recuperare le forme del gioco, ovvero della forza plasmatrice dell’infanzia, soltanto quando comincerà ad approssimarsi alla propria morte, in una terribile solitudine che è anche una liberazione dalle rete delle responsabilità in cui è stato intrappolato e dall’invivibilità del presente. Al di là della visione antropologica e sacrificale di Rossellini, l’infanzia rappresentata da Vittorio De Sica in Sciuscià (1946) manifesta legami stretti sia con l’orizzonte quotidiano della cronaca sia con quello metastorico della favola. I ragazzi del film trovano i loro modelli tra le strade di Roma, liberata dagli americani. Sono abbandonati e sbandati. Costituiscono l’emblema più incandescente delle dinamiche erosive portate dalla guerra sia nel tessuto

Nel corso del Novecento uno dei momenti più significativi di questa esibizione del corpo offeso dell’infanzia è rappresentato senz’altro dal cinema italiano del secondo dopoguerra. I bambini invadono lo schermo come non era mai accaduto prima. Fin dal film che inaugura il neorealismo, Roma città aperta, girato nei primi mesi del 1945, uno stuolo di ragazzi fa da contrappasso al mondo degli adulti giocando alla guerra

sociale sia in quello privato e affettivo. Attraverso di loro De Sica e Zavattini, che partecipa alla sceneggiatura del film, inseguono il mito di un’infanzia come forza di rigenerazione esistenziale e sociale: mito che si alimenta dell’energia fantastica di trasformazione della realtà tipica dello sguardo infantile e viene simboleggiata da un cavallo bianco in groppa al quale i due protagonisti si muovono nel tessuto urbano come dentro un sogno. Ma, nonostante queste tensioni ideali, l’epilogo delle loro storie sfocia sempre in un destino tragico di morte. Prima di privarli della vita, la guerra ha sottratto loro proprio l’infanzia come età espansiva e formatrice, immettendoli senza rimedio nel degrado, nella confusione e nello smarrimento che caratterizza la società degli adulti.

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Una delle immagini-choc di Paisà raffigura un infante che cammina piangendo tra i cadaveri degli adulti, unico sopravvissuto alla strage dei propri familiari, in un’atmosfera da fine del mondo, sottolineata anche dall’oscurità che avvolge il suo corpo

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Al di là della prospettiva di redenzione cattolica della delinquenza presente in alcuni film come Proibito rubare (1948) di Luigi Comencini, l’orizzonte in cui si muovono le immagini infantili del dopoguerra è sempre quello di una perdita non compensabile e di una ferita non rimarginabile. La sottrazione dell’infanzia come fase protetta dell’esistenza viene sottolineata anche in Ladri di biciclette (1948), dove il bambino coprotagonista entra precocemente nell’universo del lavoro e diventa testimone delle disavventure del padre raggiungendo la maturità attraverso una condivisione

Il paradossale oscillamento tra gioco e morte è presente anche in una delle scene più incisive delle cinque giornate di Napoli che ci viene offerta da Giacomo Gentilomo in ‘O sole mio! (1946), dove uno scugnizzo tira una bomba su un carro armato tedesco pagando con la morte il suo gesto

delle sue difficoltà e delle sue sofferenze. Il nuovo e inedito ruolo assunto dal fanciullo nel cinema italiano del dopoguerra potrebbe indurre a leggere la sua presenza come emblema di una società e di un cinema che rinascono sull’azzeramento, mai definitivo, del passato. In realtà l’infanzia è chiamata a incarnare più la pressione luttuosa della storia che un’ideale prospettiva di rigenerazione. Da una parte i ragazzi subiscono le massime conseguenze del trauma bellico e, dall’altra, offrono, più che una promessa liberatoria di futuro, un nuovo modo di guardare il mondo, privo delle mediazioni e dei punti di riferimento della tradizione narrativa del passato. Non soltanto “ci guardano” accusandoci, come ammonisce il titolo di un noto film di De Sica del 1944

– in cui, tuttavia, la guerra rimane fuori dallo schermo – ma ci spingono a rimodulare la nostra maniera di osservare e di conoscere. O meglio sembrano ricondurci a una sorta di grado zero della visione. Alle macerie delle città si aggiungono, dunque, quelle dello sguardo, che perde i suoi tratti autoritari e rimette in discussione le sue coordinate canoniche, naufragando nel caos e nel disorientamento. Nella sua riflessione sul cinema italiano del dopoguerra – compresa in Immagine-tempo – Gilles Deleuze attribuisce al fanciullo del neorealismo la facoltà di produrre un’intensificazione del vedere e del sentire. Non si tratta di una riconquista del mondo quanto piuttosto di uno stato di crisi dello sguardo, che si sottrae a ogni aprioristico eroismo e si immerge nelle sconnessioni del presente, in una sorta di vuoto che coinvolge tutti gli assi culturali, percettivi e conoscitivi del nostro misurarci con la storia e con le storie dell’umanità. Lo sguardo, come afferma Jean-Luc Godard nelle sue Histoire(s) du cinéma, perde la sua “uniforme” e si muove in un tessuto di possibilità e di epifanie, plasmato dalla sofferenza più che dalla proposizione di un nuovo ordine del mondo e della sua rappresentazione. Il mito che informa il cinema neorealista è quello del ritorno a uno stadio aurorale della visione, a una vera e propria, quanto impossibile, infanzia dello sguardo.


Percorsi di crescita fuori e dentro lo schermo Idee e riflessioni per una didattica del cinema Francesca Gisotti

Per molti appassionati di cinema, è ancora nitido, nella memoria, il momento del primo ingresso all’interno di una sala cinematografica; quella sorta di rito di passaggio che segna una delle tante tappe del proprio personale percorso Francesca Gisotti di crescita, attivando quel meccanismo della fantasia che ci permette di “fingere” di credere a qualcosa che già a priori riconosciamo come finzione, messa in scena, racconto. Alain Bergala, cineasta e professore di cinema all’Università Paris III, che fra i primi si è occupato dell’elaborazione di un piano quinquennale d’introduzione dell’arte cinematografica nelle scuole, sottolinea, nel suo libro L’Ipotesi cinema. Piccolo trattato di educazione al cinema nella scuola e non solo, quanto fondamentali siano i film guardati durante l’infanzia per la formazione di un proprio gusto cinematografico, quanto siano decisivi per la formazione di un proprio rapporto col cinema. Ciò, continua Bergala, non ha necessariamente un rapporto diretto con il tipo di film che da grandi si ameranno, quanto con l’approccio ad un’attività,

Il cinema è sempre stato soprattutto un catalizzatore di emozioni, riuscendo a smuovere tutto un universo interiore, soprattutto nei più piccoli fra gli spettatori, altrimenti destinato a rimanere soffocato nella ripetitività delle attività quotidiane, anche scolastiche

quella del “guardare” le immagini, che è meno immediata e “semplice” di quanto possa sembrare. Da anni si parla, della necessità dell’introduzione del cinema come materia di studio nelle scuole

italiane, una battaglia decennale che ha visto intervenire professionisti dei vari settori: pedagogisti, critici cinematografici, accademici, insegnanti. Esperimenti di visioni sono sempre stati fatti all’interno delle scuole. Film sono stati visti per affrontare determinate tematiche e stimolare riflessioni in maniera più diretta e emotivamente coinvolgente. Ci sono opere cinematografiche che hanno saputo offrire analisi della società con una tale lucidità e spirito critico da permetterci veramente di guardare con occhi nuovi e maggiore consapevolezza al reale, di scoprire aspetti inediti di determinati eventi storici, per esempio, che erano rimasti totalmente celati nei libri. Ma il cinema è sempre stato soprattutto un catalizzatore di emozioni, riuscendo a smuovere tutto un universo interiore, soprattutto nei più piccoli fra gli spettatori, altrimenti destinato a rimanere soffocato nella ripetitività delle attività quotidiane, anche scolastiche.

Gli allievi devono avere la possibilità di sperimentare direttamente il processo della realizzazione di un film, dall’idea del soggetto alla postproduzione, calandosi nei panni non solo di registi e attori ma di tutti quei ruoli che costituiscono la troupe Lo studioso di cinema Mark Cousins, autore di un interessante documentario sulla rappresentazione dell’infanzia nel cinema, The story of film. I bambini e il cinema, parla del senso di inadeguatezza provato nei confronti dei propri compagni appassionati di calcio, in una Belfast degli anni Settanta, in cui il clima non era, già di per sé, dei più rassicuranti. Per lui il cinema ha rappresentato una sorta di «stabilizzatore, come le rotelle sulle biciclette», una sensazione che attenuatasi con il tempo, ha però lasciato dentro il desiderio di analizzare il modo in cui il cinema abbia a suo volta raccontato i bambini, a volte anche strumentalizzandoli per fini puramente commerciali. Infatti, nota Cousins, sotto l’etichetta di “cinema

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per bambini” sono stati realizzati film di grande attrattiva mediatica ma totalmente poveri di contenuti e valori estetici. Da qui, il grande lavoro che oggi attende chi vuole avvicinare i giovani spettatori alla Settima Arte e che rende sempre più urgente la necessità di figure professionali con una formazione specifica nell’ambito della didattica del cinema, affinché non ci si limiti più solamente alla

considerazione di esso come veicolo per un racconto o come un linguaggio da conoscere con le sue strutture e le sue “leggi interne” (la cui infrazione ha spesso dato vita ai grandi capolavori) ma vengano proposte opere la cui inspiegabile bellezza non richieda altro, allo spettatore, che la sensibilità di vedere oltre l’immediato percettibile. Ci si aprirebbe così a quella che, sempre Bergala,


definisce come “pedagogia della creazione”, una pratica che pensi all’atto creativo prima come processo mentale che come operazione tecnica e che possa mettere i bambini e i ragazzi nella condizione non più di semplici spettatori, ma loro stessi di creatori dell’opera. Questa è la vera sfida da affrontare, in linea con quella filosofia del learning by doing da cui ormai non si può più prescindere. Gli allievi devono avere la possibilità di sperimentare direttamente il processo della realizzazione di un film, dall’idea del soggetto alla postproduzione, calandosi nei panni non solo di registi e attori ma di tutti quei ruoli che costituiscono la troupe. Solo così ad entrare in gioco sarà «la meravigliosa umiltà che è stata quella dei fratelli Lumière, ma anche la sacralità

che un bambino o un adolescente può mettere in una prima volta presa molto seriamente, come un’esperienza inaugurale decisiva», aggiungo io, per la vita.

Le immagini che illustrano questo articolo documentano la visita guidata alla mostra Lumière! L'invenzione del cinematografo, che ha aperto la settimana del festival Il Cinema Ritrovato – sezione Kids (foto: Lorenzo Burlando ©, per gentile concessione di Schermi e Lavagne – Dipartimeneto educativo della Cineteca di Bologna)

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La buona strada

Intervista a Paolo Naso, docente di Scienza politica all’Università La Sapienza e coordinatore del Programma Mediterranean Hope, promosso dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia

incontri

Federica Martellini

Qualche mattina fa è squillato il telefono a casa di Shewa. Gli uffici comunali della piccola città del centro Italia dove vive avevano per qualche motivo a che fare con due ragazzi etiopi coi quali non sapevano come comunicare e cercavano qualcuno che potesse fare da interprete. Lei è andata perché, anche se non fa l’interprete, la sua lingua madre è il tigrino, è nata ad Addis Abeba e l’amarico lo conosce bene. Tanti anni fa, prima ancora che gli sbarchi e i naufragi diventassero le cronache quotidiane dei notiziari, lei ha fatto quel terribile viaggio, di cui un giorno racconterà tutta la storia ai suoi figli, che le ha lasciato la paura di bagnarsi nel mare e che le ha dato, anni dopo, il passaporto italiano. Ancora oggi, migliaia di persone che avrebbero diritto a chiedere e ottenere l’asilo politico in Europa, per fare la domanda devono mettersi nelle mani di trafficanti e affrontare un viaggio costosissimo e pericoloso o attendere per mesi o anni in qualche campo profughi dell’Etiopia o del Libano, un documento o un matrimonio. Quest’anno, grazie a un progetto promosso dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e dalla Comunità di Sant’Egidio e finanziato con i fondi dell’8 per mille alla Chiesa valdese, circa 300 persone sono arrivate in Italia in aereo, con un corridoio umanitario, senza rischiare la vita su un barcone. L’Italia ha garantito 1000 visti per questa rotta alternativa che sarebbe bello diventasse la buona strada da percorrere per il futuro. Ne abbiamo parlato con Paolo Naso, politologo e consulente delle Chiese evangeliche, che coordina il progetto.

Prof. Naso, qual è il quadro istituzionale e normativo in cui si inserisce il progetto dei corridoi umanitari e quali sono i soggetti promotori? Il progetto nasce da una verifica della fragilità delle risposte che fin qui sono state date alla tragedia rappresentata dalle circa 3000 persone che ogni anno muoiono nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Tradizionalmente, i processi di migrazione sono il frutto di una spinta di espulsione e di una

spinta di attrazione. Il dato nuovo che emerge nell’attuale quadro migratorio è che i processi di espulsione dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana hanno una consistenza che mai si era regiPaolo Naso strata fino ad ora, sono molto difficilmente arrestabili, o comunque condizionabili, anche a fronte di spinte di attrazione che invece sono particolarmente deboli. Da questo punto di vista la chiusura di alcune frontiere, pensiamo a quella turca o a quella greca, non fa altro che trasferire flussi altrove e se anche altrove si bloccassero le frontiere è del tutto prevedibile che i flussi andrebbero in altre direzioni, che oggi non possiamo nemmeno immaginare.

Il dato nuovo dell’attuale quadro migratorio è che i processi di espulsione dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana hanno una consistenza che mai si era registrata fino ad ora, anche a fronte di spinte di attrazione che invece sono particolarmente deboli. La chiusura di alcune frontiere non fa altro che trasferire flussi altrove e se anche altrove si bloccassero le frontiere è del tutto prevedibile che i flussi andrebbero in altre direzioni, che oggi non possiamo nemmeno immaginare Questo è il quadro dunque. Per cui noi, mossi da un approccio che all’inizio era squisitamente umanitario – e qui parlo, oltre che come politologo, anche come esponente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia – insieme alla comu-


nità di Sant’Egidio ci siamo posti il problema non del contenimento dei flussi, ma di come poterli condizionare positivamente, ovvero di come costruire un meccanismo di gestione razionale almeno di una quota parte dei richiedenti asilo, e cioè di coloro che sono in condizione di maggiore vulnerabilità. Abbiamo cercato di individuare degli strumenti operativi che consentissero di delineare un modello alternativo e da questo punto di vista abbiamo lavorato molto sulla normativa europea e abbiamo così trovato una maglia, a nostro avviso abbastanza importante, che è l’articolo 25 del Trattato sui visti di Schengen: questo articolo consente a un paese europeo di rilasciare visti per protezione umanitaria. Ovviamente questo visto ha validità solo nel paese che lo rilascia, ma costituisce un titolo di ingresso legale in Italia per persone che hanno un bisogno urgente di protezione. Diversamente il diritto d’asilo, nel contesto che ho prima delineato, sembra ormai essere un diritto che viene garantito solamente a chi è fortunosamente arrivato in un paese sicuro: prima di arrivare a fare la domanda in Italia o in Germania, si deve rischiare la vita. Ecco, la nostra intenzione era quella di trovare un dispositivo tecnico che consentisse di evitare la tragedia, lo sfruttamento, la brutalità del passaggio coi trafficanti. Sappiamo benissimo quali sono le tariffe, qual è l’ordine di cifre che viene mosso, sono cifre spaventose: si va da un minimo di tre mila fino a un massimo di sei mila dollari per un passaggio, soldi che vengono raccolti in anni di prostituzione, di sfruttamento…

O raccolti dai parenti che vivono già in Europa… Sì, oppure c’è l’investimento della famiglia che, o dall’Europa o dal paese di provenienza, affida a una

persona il compito di fare da testa di ponte. L’aumento enorme, esponenziale, del numero dei minori non accompagnati di questi giorni, ci dice che siamo di fronte a un ulteriore sviluppo del fenomeno: la famiglia, o con l’aiuto dei parenti all’estero o con tutte le risorse che riesce a raccogliere, investe sul minore perché possa arrivare in Europa e poi da lì avviare un processo progressivo di ricongiungimento famigliare. Di fronte a questo, ci è sembrato che questo articolo del Regolamento visti di Schengen aprisse delle maglie interessanti. Ovviamente nell’intento del legislatore europeo si trattava di uno strumento per casi eccezionali e particolari e che comunque fino ad ora non aveva mai trovato significativa applicazione. Non mi risultano neanche altri casi individuali…

Nemmeno in altri paesi europei? No. Esiste una procedura analoga a quelli dei corridoi umanitari e riguarda il Canada, ma parliamo di un’altra base giuridica e di un altro ordinamento. Certamente per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un’esperienza pilota. Una volta individuato il meccanismo, le Chiese evangeliche, la Tavola valdese - che è stato il grande sponsor di tutto il progetto tramite i fondi raccolti con l’8 per mille - e la Comunità di Sant’Egidio hanno avviato una trattativa con le parti interessate del governo italiano: in particolare il Ministero degli interni per quello che riguarda le procedure di sicurezza e l’accoglienza in Italia e il Ministero degli esteri per quello che invece attiene al rilascio dei visti. È seguita una fase di discussione in cui abbiamo avuto una riflessione accurata sulle tecnicalità e sulla fattibilità del progetto e a Natale è stato siglato il protocollo di intesa. Tengo a sottolineare che la negoziazione del testo è durata poco più di

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un mese, siamo quindi di fronte a tempi molto ragionevoli per la rilevanza di una best practice così incisiva nel contesto europeo. Il protocollo garantisce ai soggetti attuatori, quindi le tre organizzazioni che ho detto, la possibilità di gestire tre corridoi umanitari: uno dal Libano, uno dal Marocco e uno dall’Etiopia per un totale di mille visti per altrettanti casi meritevoli di protezione umanitaria.

Il diritto d’asilo sembra ormai essere un diritto che viene garantito solamente a chi ha rischiato la vita e fortunosamente è arrivato in un paese sicuro: prima di arrivare a fare la domanda in Italia o in Germania, devi rischiare la vita

Vale la pena anche ricordare che abbiamo ragionato a lungo sulle sedi dalle quali organizzare i corridoi perché è una scelta politica e anche di sostenibilità (un corridoio dalla Libia, ad esempio, non avremmo evidentemente potuto garantirlo, per ovvie ragioni di sicurezza dei nostri operatori): abbiamo optato per paesi importanti dal punto di vista migratorio e che oltretutto ci consentissero di interagire con profili migratori differenti. La scelta del Libano è facilmente comprensibile, per l’altissimo numero di rifugiati siriani e iracheni - anche se devo dire che nel gruppo che è arrivato il 16 giugno c’erano anche degli yemeniti - e cioè persone che la comunità internazionale ha ricono-

sciuto come meritevoli di protezione. Questo però non esauriva assolutamente l’universo migratorio e dovendo adottare una best practice ci siamo posti il problema di rivolgerci anche ad altri profili migratori. Quello che ci è sembrato più interessante è stato quello dei profughi concentrati in Marocco, un paese che dà delle garanzie dal punto di vista delle possibilità di operare, un paese che sta approvando una importante legislazione in materia di emigrazione ma anche di immigrazione, un paese che in condizioni talora problematiche, accoglie dei giovani subsahariani i quali pensano, sperano, ipotizzano un giorno o l’altro di riuscire a entrare in Spagna attraverso le enclave di Ceuta e di Melilla. Purtroppo sappiamo che anche lì si muore di migrazione e che questa speranza è spesso mal riposta. Il terzo corridoio partirà dall’Etiopia che ha una valenza geopolitica evidente perché il maggior numero di profughi che hanno attraversato il Mediterraneo nel 2015 sono eritrei e ci sono poi anche quote importanti di sudanesi e di somali. A febbraio sono arrivati i primi profughi dal Libano e si deve rendere conto del fatto che il governo e gli apparati ministeriali hanno operato con grande rapidità. Il primo caso è stato sostanzialmente un test, una famiglia di quattro persone con una bambina gravemente ammalata. Di lì a poco c’è stato un primo gruppo di circa cento persone, alcuni anche con delle disabilità molto gravi e abbiamo poi avuto un altro gruppo di cento persone a marzo e uno di circa novanta profughi a giugno.

Per quanto riguarda invece l’apertura dei corridoi da Etiopia e Marocco, quali sono i tempi? Per quanto riguarda il Marocco entro il mese di settembre dovrebbe arrivare il primo gruppo: tutto il lavoro preliminare è stato già svolto. Per l’Etiopia invece dobbiamo ancora partire con la missione esplorativa. E che cosa prevede praticamente la missione esplorativa e l’apertura del corridoio? Una equipe specializzata di operatori delle organizzazioni promotrici impiantano una rete di osservazione territoriale. Noi in pochi giorni non avremmo infatti la capacità di individuare chi ha maggiore necessità, abbiamo bisogno di sensori locali. Quindi, evitando di collaborare con organizzazioni che operano in maniera esclusiva per particolari gruppi politici o religiosi, cerchiamo di individuare associazioni che mostrano una capacità di relazione con diversi soggetti e diverse comunità e con loro


I disegni che illustrano questa intervista fanno parte della serie Disegni dalla Frontiera di Francesco Piobbichi, operatore a Lampedusa per Mediterranean Hope/FCEI

impostiamo un ragionamento che aiuta a condividere il criterio di vulnerabilità che è definito dal protocollo di intesa: quindi persone provenienti da aree di guerre, donne vittime di tratta, donne sole con bambini, bambini non accompagnati, persone con disabilità. Queste persone vengono inserite in una lista; questa lista, con la documentazione a sostegno viene consegnata al Ministero degli esteri, che la comunica a sua volta al Ministero degli interni, che attiva le opportune verifiche dal punto di vista delle norme di sicurezza. A questo punto il Ministero degli esteri è pronto a rilasciare i visti e i migranti vanno all’Ambasciata o al Consolato, lasciano le impronte digitali, prendono il visto e partono con voli di linea. Arrivati in Italia lasciano una seconda volta le impronte digitali. Scendo nel dettaglio per dare la misura del livello di sicurezza che accompagna questa operazione. Le persone che arrivano sono state osservate nel loro percorso migratorio, sono state valutate dall’Ambasciata o, nel caso dei siriani, che sono tutti registrati come profughi, dalle Nazioni Unite. Una volta in Italia, vengono accolte in centri della Chiesa evangelica o della Comunità di Sant’Egidio, attraverso collaborazioni con le parrocchie e quindi vengono ulteriormente seguiti, sempre a spese delle organizzazioni promotrici per un «congruo periodo» - recita il protocollo - che stiamo interpretando in sei mesi. In questi sei mesi avviano le pratiche legali per otte-

nere lo status di rifugiato. Fin qui questo percorso si è dimostrato funzionale ed efficacie: i nomi che abbiamo segnalato si sono rivelati tutti congrui rispetto alla particolare tipologia di migranti che l’articolo 25 consente di titolare di un visto per protezione umanitaria.

La nostra intenzione era quella di trovare un dispositivo tecnico che consentisse di evitare la tragedia, lo sfruttamento, la brutalità del passaggio coi trafficanti

Mi pare di capire che una delle caratteristiche della formula di accoglienza che avete adottato è quella di essere un’accoglienza diffusa, quindi in piccolissimi gruppi. È così? Sì, e questo fa parte di una riflessione e di un’esperienza decennali che non soltanto suggeriscono ma impongono una strada diversa da quella delle grandi concentrazioni. L’accoglienza diffusa ha almeno due vantaggi: il primo è quello di evitare un impatto negativo sulla popolazione locale, che di fronte a un centro che accoglie 50 o 100 persone fatalmente tende a vedere un luogo impenetrabile, pericoloso, che altera la vita della città o del quartiere. D’altra parte anche per i migranti questi grandi centri diventano spesso luoghi di ghettizza-

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zione, se non di vera reclusione, quanto meno psicologica. Non favoriscono affatto l’integrazione perché si tende a riproporre un sistema di relazioni interno a quel gruppo di persone, anche quando sono persone che hanno poco da spartire le une con le altre, ma che però sono quelle che vivono in quel posto, che mangiano quel cibo, che devono prendere quell’autobus. Al contrario l’accoglienza diffusa permette e facilità l’attivazione del volontariato e anche del volontariato meno specializzato e cioè di persone che, senza particolari competenze o preparazione culturale, ma nello spirito, direi, della carità cristiana si rendono disponibili a fare delle cose e questo è un fattore in grado di attivare circoli virtuosi.

Attiva le migliori qualità umane anziché le peggiori. Esattamente. E d’altra parte la comunità se non ha una pregiudiziale ideologica e se non è fatta oggetto di una campagna politica, come talora tristemente accade, potrà trovare in quella casa, in quel luogo una finestra sul mondo. E quindi questa presenza diventa una opportunità per capire che cosa accade, per vedere al di là dei propri confini. Non dimentichiamo poi che molte di queste famiglie hanno bambini in età scolare, il che crea un vettore di integrazione molto importante e vorrei poi sottolineare che in quei primi sei mesi viene attuato un impegno specifico a promuovere pratiche di integrazione e che tutti i profughi vengono inseriti in percorsi scolastici o formativi di vario tipo: i ragazzi in percorsi scolastici canonici, gli adulti in percorsi di formazione linguistica o professionale, proprio perché l’obiettivo è quello di portarli a una progressiva autonomia e da questo punto di vista l’accoglienza diffusa consente sinergie che le grandi concentrazioni non sono in grado di garantire.

Faceva riferimento prima al tema dei minori e dei minori non accompagnati. Che tipo di speciali misure e cautele richiedono questi casi, soprattutto quello dei minori non accompagnati? Quella dei minori non accompagnati sarà la questione dei prossimi mesi. Fino ad ora il dato è stato sotto il 10 per cento, ma negli ultimi sbarchi si è ormai superato il 15 per cento. C’è quindi una netta tendenza all’accelerazione di questa particolare tipologia migratoria. L’esperienza alla quale io posso fare riferimento è l’esperienza della Casa delle culture, un centro delle Chiese evangeliche italiane che opera a Scicli, in provincia di Ragusa, a pochi

chilometri dal Porto di Pozzallo che fa hub. Immediatamente dopo l’arrivo i minori non accompagnati devono essere messi in strutture distinte da quelle degli adulti e la Casa delle culture ospita al momento 40 minori non accompagnati. La sfida in questi casi è completamente diversa. I minori sono soggetti vulnerabili, nel mirino delle organizzazioni criminali e le ragazze richiedono una doppia tutela. Spesso arrivano inoltre con delle informazioni e con dei progetti migratori sbagliati, pensano di poter raggiungere la Germania o la Svezia e oggi questo non è possibile. Dobbiamo quindi fare un lavoro di formazione e di orientamento che spiega a questi ragazzi che arrivati in Italia, in attesa che cambino le norme, e prima fra tutte quelle del Regolamento di Dublino che impediscono al richiedente asilo di raggiungere un paese diverso da quello nel quale ha presentato la domanda, la cosa migliore è studiare l’italiano e imparare un lavoro. C’è un investimento educativo e formativo di altissimo impatto che richiede fra l’altro un investimento finanziario notevolmente superiore rispetto a quello degli adulti. Le norme italiane sulla tutela dei minori sono stringenti, e di questo dobbiamo essere orgogliosi: c’è la tutela garantita dal tribunale dei minori e per questo è chiaro che occorrerà che il legislatore e l’amministratore delle politiche di accoglienza immagini, nel futuro prossimo, un numero più ampio di luoghi deputati ad accogliere i minori non accompagnati.

L’articolo 25 del Trattato sui visti di Schengen consente a un paese europeo di rilasciare visti per protezione umanitaria. Questo visto ha validità solo nel paese che lo rilascia, ma costituisce un titolo di ingresso legale in Italia per persone che hanno un bisogno urgente di protezione

Un’ultima domanda: che tipo di prospettive intravede per questa buona pratica che voi avete messo in atto come esperienza pilota ma che auspicabilmente potrebbe essere un modello da replicare? Questo è l’obiettivo di questi giorni. Posso soltanto offrire delle informazioni a brandelli che ci dicono quanto sia difficile riproporre e replicare questo modello. Il ministro Gentiloni, con grandissima generosità, ha parlato del nostro modello in sedi istituzionali, in sede europea e alle Nazioni Unite. Ovviamente, come si dice, non c’è peggior sordo


(per gentile concessione della Casa delle culture - Progetto Mediterranean Hope della FCEI)

di quello che non vuol sentire e, nonostante il riconoscimento ricevuto da Ban Ki-moon e anche da papa Francesco, ben poco sembra muoversi. Detto questo i risultati raggiunti sono i seguenti: la conferenza episcopale polacca ha votato un ordine del giorno che assume il modello dei corridoi umanitari come il modello di gestione dei flussi migratori. Certo la situazione politica in Polonia rende questo risultato al momento poco praticabile, ma

L’aumento esponenziale, del numero dei minori non accompagnati di questi giorni, ci dice che siamo di fronte a un ulteriore sviluppo del fenomeno, cioè il fatto che la famiglia, o con l’aiuto dei parenti all’estero o con tutte le risorse che riesce a raccogliere, investe sul minore perché possa arrivare in Europa e poi da lì avviare un processo progressivo di ricongiungimento famigliare

per noi è una piccola vittoria. Il partito socialista svizzero, per quello che riguarda la Svizzera e quindi l’area Schengen, dovrebbe a breve proporre una mozione parlamentare su questo tema. Una partita importante si sta poi giocando in Germania, un paese che sul tema ha sensibilità divise e con-

trapposte, la stessa cancelliera Merkel prova una difficile mediazione, anche interna al suo partito. Alcune chiese evangeliche tedesche regionali hanno assunto il modello dei corridoi umanitari e lo stanno verificando a livello di länder, parlo in particolare della Westfalia e della Renania. Il 23 giugno c’è stato invece un incontro con la dirigenza della chiesa evangelica nazionale (EKD) per verificare se, come hanno già fatto alcune diocesi cattoliche, sono disposti ad avviare una campagna politica presso il governo nazionale. Infine vorrei citare il fatto che il 28 giugno insieme agli amici di Sant’Egidio siamo stati al Parlamento europeo. Questo è lo stato dell’arte, che riflette benissimo la contradditorietà degli scenari politici in Europa, dove si impone un’azione di contrasto all’onda xenofoba molto pervasiva che si è levata. Il tema migratorio non può essere subìto, deve essere agito dalle forze politiche e dai governi: se la questione viene gestita - e costa materialmente e politicamente, dato il quadro generale - è possibile garantire delle buone pratiche e delle politiche all’interno della cornice democratica e della protezione dei diritti umani. Se invece viene subìto, accettando la retorica del «sono troppi» o «aiutiamoci a casa loro», sarà la voce preponderante dei nazionalismi e delle xenofobie a riemergere dominante.

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«Non puoi insegnare niente a un uomo. Puoi solo aiutarlo a scoprire ciò che ha dentro di sé» Intervista a Anna Pollio, coautrice del documentario Unlearning. Invito gentile alla disobbedienza Alessandra Ciarletti

Gaia ha cinque anni e già da due mesi è in viaggio con i suoi genitori, Anna e Lucio. È un viaggio carico di emozioni nuove e intense perchè, con lo zaino in spalla Gaia sta scoprendo modi diversi di vivere la vita: fattorie, educazione parentale, eco villaggi, comunità di autosufficienza. E lei tutte queste cose nuove le vuole raccontare ai suoi amichetti. E da questo desiderio nasce il suo primo approccio all’alfabeto, perché da sempre la scrittura ci aiuta a condividere le emozioni, le storie, ci aiuta a conoscere ciò che è distante, ad alleviare ciò che ci opprime, ad avvicinare il diverso, dandogli nomi che si conoscono. E così con i suoi cinque anni e col desiderio di comunicare le sue emozioni, Gaia impara a scrivere le sue lettere. Lettere che invierà ai suoi amichetti dai molti luoghi che ha conosciuto durante il viaggio: dalla Sicilia, dalla Lombardia, dalla Toscana, dal Friuli, fino all’Austria e saranno i suoi occhi di bambina a raccontare con formule incantate il viaggio diventato documentario, che conosciamo come Unlearning, un invito gentile alla disobbedienza.

Anna, la mamma di Gaia, mi racconta che tutto è iniziato proprio da un disegno della figlia, un pollo con quattro zampe! « Ti rendi conto? – dice Anna – a furia di vedere le confezioni del supermercato con quattro cosci, Gaia ha desunto che il pollo avesse quattro zampe». Il disegno attiva in Anna e Lucio una lenta e inesorabile riflessione sul senso della vita che spesso i figli ulteriormente accelerano: quotidiani ritmi frenetici a partire dalla sveglia, le corse per fare e far fare colazione, bagno,

vestire e vestirsi e poi di corsa giù per le scale, attenzione a non cadere, mamma mi tiri troppo, scusa ma è tardissimo, si ma così cado, dai non frignare che non sto stringendo. Figli finalmente a scuola e noi col polso accelerato al lavoro, poi di nuovo tutto di corsa ma in senso contrario: esco dal lavoro, prendo i figli a scuola, una corsa al parco e poi di corsa a casa che è tardi e devo ancora preparare la cena e stasera non ho niente di avviato, quasi quasi faccio il pollo, sì prendo al volo i cosciotti al supermercato, tanto per una volta non muore nessuno, così per le 20.30 si mangia e poi li mettiamo a dormire e ci rilassiamo un attimo. Quell’attimo arriva alle 22.00 e magari vorresti pure fare due chiacchiere o guardare insieme un film, peccato che al secondo giro di pubblicità ti sei distrattamente abbandonata al sonno della stanchezza!

Tutto è iniziato con un disegno di Gaia che a furia di vedere le confezioni del supermercato con quattro cosci, ha desunto che il pollo avesse quattro zampe e così lo ha rappresentato Credo che molti si possano riconoscere in questi brevi passaggi di vita quotidiana, e tanti possano aver pensato ed essere stati sul punto di voler cambiare vita: be’ loro, Anna Gaia e Lucio, lo hanno fatto e per un intero anno hanno pianificato meticolosamente la loro uscita dal lavoro con aspettativa e senza, organizzato la messa a rendita della loro casa, in modo tale da poter continuare a pagare il mutuo, hanno demolito la propria automobile, troppo vecchia per affrontare un viaggio così lungo, preso contatti con comunità di lavoro e di car sharing e alla fine hanno fatto lo zaino, anzi tre zaini e sotto la pioggia sono partiti per un viaggio che li ha portati per circa sei mesi in giro per l’Italia e non soltanto. Di seguito l’intervista ad Anna, docente di disegno presso una scuola statale, autrice insieme


al marito Lucio del documentario Unlearning e attualmente impegnati in un nuovo lavoro che ha l’intenzione di esplorare le pieghe più libertarie dell’educazione e non dico didattica, per ovvie ragioni semantiche. Ci racconti come è nato questo viaggio?

Volevamo vedere la nostra routine dal di fuori e ci abbiamo messo circa un anno per mettere in stand by le nostre vite, i nostri lavori, le nostre spese perché non avevamo i soldi necessari per far tutto. Quindi abbiamo fatto un bel po’ di ricerca e abbiamo scoperto la sharing economy, un modo diverso di approcciarsi alla vita. Questo ci ha consentito di fare scambio lavoro, dando una mano a sviluppare progetti che già esistono, di partire senza la nostra macchina, condividendo tragitti di automobilisti che comunque avrebbero percorso quelle determinate tratte, e così abbiamo inquinato meno. E abbiamo ricevuto ospitalità gratuita. Si dovrebbe parlare molto di più dell’economia condivisa perché offre moltissime possibilità, abbattendo costi e inquinamento.

Mi ricordo che quando abbiamo proiettato il nostro documentario la Terra di tutti a Bologna, il nostro lavoro è stato l’unico ad essere introdotto da una conferenza di economisti italiani e brasiliani, poiché in Brasile il governo lavora moltissimo per promuovere la sharing economy. È un sistema virtuoso che se utilizzato con lo spirito giusto consente di fare delle esperienze davvero molto belle. Come moneta di scambio, oltre il lavoro, abbiamo usato il baratto e alla fine del viaggio abbiamo speso circa

600 euro, impegnati perlopiù per i bisogni primari di nostra figlia Gaia, che quando siamo partiti aveva cinque anni. Viaggiare ci ha aiutato a mettere ulteriormente a fuoco quanto la vita quotidiana di ciascuno di noi sia piena di bisogni indotti che, come si può immaginare, nel viaggio diminuiscono moltissimo, aiutandoci a prendere coscienza di quanto non siano assolutamente necessari. Così quando siamo tornati a casa con molta naturalezza abbiamo rivisto le nostre spese, stornando le voci superflue con molta più consapevolezza.

Si può davvero uscire dalla zona di comfort? Alla fine del vostro viaggio, vostra figlia Gaia dice «è bello tornare a casa!»

No, non si può fare a meno delle nostre radici, degli affetti, ma si possono guardare le cose in modo diverso. In viaggio abbiamo conosciuto persone molto diverse da noi e se vogliamo molto più coraggiose, perché ci hanno aperto le porte della loro casa. Parlo del cohousing, in cui chi decide di aderire a questo progetto continua la propria vita con la propria famiglia e al contempo decide di condividere alcuni spazi con gli altri: la lavanderia, il luogo in cui si mangia o l’orto: la comunità di cohousing di Fidenza che abbiamo conosciuto è davvero un ottimo esempio in tal senso. Sono esperienze che restituiscono un’intensa impronta sociale di una società che talvolta sembra perdere il senso dello stare insieme. In che modo è cambiata la vostra vita al ritorno?

Quando siamo tornati abbiamo cercato di capire

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cosa ci fosse rimasto addosso, cosa tenere come buona pratica nella nostra vita quotidiana e cosa, invece, non ci interessava sperimentare. Avevamo ben chiaro che volevamo mantenere le nostre radici, arricchendole in qualche modo di esperienze costruttive: in questo modo le radici si fanno meno tiranne e diventano forme di vita attive, non soltanto coercizioni emotive. Appena rientrati a casa abbiamo avuto un primo impatto di felicità, ma poi i mesi successivi sono stati molto duri, perché comunque qualche cosa in noi si era rotto e altro era cambiato. Abbiamo dovuto aspettare per capire in che modo tenere insieme queste nuove esperienze e la vita che conducevamo prima di esse. E così siamo ripartiti da quello che ci sembrava più vicino a noi, come l’educazione di nostra figlia Gaia che si è andata arricchendo delle riflessioni di pedagogisti come Lodi, Zavalloni, Montessori. Durante il viaggio abbiamo conosciuto esperienze di homeschooling e scuole libertarie e con Gaia abbiamo deciso di provare a fare un anno di educazione libertaria al di fuori del sistema scolastico tradizionale e scoprire cosa vuol dire imparare senza un metodo adultocentrico. Questo nuovo approccio ci sta mettendo molto in discussione come genitori, abituati a un certo modo di educazione e quindi anche per noi è un momento molto importante. Attualmente siamo nelle Marche in visita in una piccola scuola libertaria ed è molto interessante vedere come questo metodo faccia davvero bene ai bambini. In questa ricerca non mi interessa l’elitarismo, sebbene sia felice che mia figlia possa fare questa esperienza particolare. Al contrario mi piace condividere questa scoperta soprattutto negli ambienti dove si formano i docenti di domani e non a caso Unlearning è stato proiettato a Scienze della formazione della Bicocca a Milano.

Volevamo vedere la nostra routine dal di fuori e ci abbiamo messo circa un anno per mettere in stand by le nostre vite, i nostri lavori, le nostre spese perché non avevamo i soldi necessari per far tutto. Quindi abbiamo fatto un bel po’ di ricerca e abbiamo scoperto la sharing economy

Una testimonianza che mi ha colpita molto è quella della famiglia di circensi orgogliosi di poter trasmettere ai propri figli un lavoro sicuro, uno stipendio garantito e terrorizzato – il padre – all’idea che i figli possano scegliere

strade diverse. Ho avuto un po’ la sensazione che anche nella costruzione di stili altri, al di fuori del tessuto sociale convenzionale, alla fine regnino sempre le stesse leggi del bisogno e della sicurezza. Chi fra coloro che avete conosciuto esce veramente dalla zona di comfort?

Il documentario non vuole dare risposte ma registrare le esperienze e lasciare a chi guarda una riflessione attiva sui propri punti di forza e sulle proprie debolezze e poi agire di conseguenza. Tutti abbiamo delle paure ed è chiaro che tutti dobbiamo lavorare. Per Marco, il capofamiglia circense, la sua zona di comfort risiede nella vita che ha scelto per se stesso e poi per la sua famiglia. Il disimparare lo devi fare tu… e a mio avviso il punto di forza del documentario è che ciascuno trova il suo punto di vista, anche il suo fastidio. Unlearning non è nato come lavoro a tavolino. È nato dalla voglia di raccontare agli amici cosa stavamo vivendo, facilitati anche dai nostri mestieri, perché Lucio è un filmaker e io un’insegnante di formazione grafica. I dibattiti che hanno seguito il documentario ci hanno consentito di mettere ulteriormente a fuoco che in realtà non vogliamo andare contro niente e nessuno, abbiamo però la voglia e la curiosità di conoscere anche altre realtà, senza fare crociate. Siamo tornati a vivere in città, perché al momento ci va bene così, poi chissà, la città non è un demone, dipende da come la si vive così come la scelta di provare a educare Gaia per un anno al di fuori del circuito canonico non è una critica ad esso. È un grande approfondimento che ci permette di stare insieme ad altre persone nel tentativo di costruire qualcosa. Sì, direi che Unlearning è proprio questo: una scelta di costruzione non una critica. Ciascuno di noi cresce nella convinzione che a un problema ci sia un’unica soluzione: ecco basta stare un po’ di più in natura per comprendere che in realtà per ogni problema la natura offre molte soluzioni e anche noi dovremmo iniziare a pensare così. Bisognerebbe essere in grado di scegliere ciascuno per il proprio meglio. Ci sono persone e realtà che sono più avanti perché è da più tempo che lavorano nel solco di questo approccio alla vita. Bisogna parlare delle piccole realtà affinché non facciano più paura. Il pluralismo è una risorsa non è un impedimento. C’è qualcuno che vi è rimasto nel cuore, qualcuno che è uscito veramente dalla zona di comfort? Gli elfi. Il popolo degli elfi in Toscana circa cin-


quanta anni fa ha cominciato a recuperare alcune zone boschive abbandonate e oggi sono alla terza generazione e vivono di una economia parallela, basata sull’autoproduzione e sono abbastanza slegati dall’economia tradizionale.

Appena rientrati a casa abbiamo avuto un primo impatto di felicità, ma poi i mesi successivi sono stati molto duri, perché comunque qualche cosa in noi si era rotto e altro era cambiato. Abbiamo dovuto aspettare per capire in che modo tenere insieme queste nuove esperienze e la vita che conducevamo prima di esse. E così siamo ripartiti da quello che ci sembrava più vicino a noi, come l’educazione di nostra figlia Gaia

Ma in queste comunità qual è il rapporto con la salute?

Il punto è cosa posso NON delegare all’esterno? E la parte medica è forse la meno delegabile a meno che non ci siano delle risorse interne come ci è capitato di riscontrare nelle esperienze di Avalon e del Rainbow, dove c’erano molti medici che si godevano quindici giorni in natura e al tempo

stesso erano a disposizione qualora fosse stato necessario. La salute se non la deleghi all’ospedale è anche un modo di prendersi cura di se stessi. Le realtà che abbiamo conosciuto sono molto diverse tra loro, e di conseguenza anche l’attenzione per la propria salute. E le scelte, del tutto personali, vanno dal curarsi con la medicina tradizionale all’attenzione per la fitofarmacologia, come ai rimedi della nonna oppure al rifiuto della cura e all’accettazione della malattia. Abbiamo conosciuto una ragazza di 38 anni che quando ha scoperto di avere un tumore, non ha voluto sottoporsi a cure invasive, ha accettato la sua malattia e abbiamo saputo in seguito che è venuta a mancare.

Il documentario non vuole dare risposte ma registrare le esperienze e lasciare a chi guarda una riflessione attiva sui propri punti di forza e sulle proprie debolezze e poi agire di conseguenza. Tutti abbiamo delle paure ed è chiaro che tutti dobbiamo lavorare

Un altro tema importante è la questione alimentare. Nel documentario raccontate l’esperienza di un gruppo di persone che si cibano degli scarti dei supermercati a Graz, in Austria.

Ecco questo punto merita un’introduzione: Roland è un paramedico e fa parte dei dumpster diving un gruppo di persone vegetariane o vegane, presente in tutto il mondo e il focus della loro azione è di rispettare il cibo che la terra ci dà, il cibo non è una merce qualsiasi e non può essere buttato via, come fanno moltissimi supermercati. In Austria il cassonetto è libero mentre in Italia la legge è un po’ più ambigua. In questi cassonetti, va specificato, c’è solo cibo e vengono giornalmente ripuliti. Molte persone si nutrono di questi scarti ma hanno anche un orto. E per quanto possa fare impressione la recente posizione assunta dalla Francia dove finalmente i supermercati possono regalare il cibo che avanza, dimostra che qualche cosa si sta muovendo nel rispetto del cibo e di coloro che non hanno facile accesso ad esso. La loro azione d’urto vuole proprio scuotere le coscienze anche attraverso il disgusto che qualcuno può provare alla vista di persone che frugano nei cassonetti. La cosa bella sono le discussioni che si accendono dopo la visione del documentario, perché sono la dimostrazione che abbiamo un bisogno sociale di confrontarci sui temi centrali della nostra esistenza.

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Audiocronache

Il mondo visto da Roma Tre Radio

rubriche

Sabrina Fasanella

Nel cuore della Napoli studentesca e nel pieno dei festeggiamenti per il 792° anniversario della fondazione dell’Università degli Studi Federico II ha avuto luogo la X edizione del Festival delle Radio Universitarie Italiane. Sabrina Fasanella Dal 3 al 5 giugno il cortile del complesso di San Marcellino e Festo dell’Università Federico II di Napoli si è fatto crocevia di voci, volti, nomi uniti sotto il segno di un’unica passione condivisa: la Radio. Circa 400 ragazzi sono accorsi da tutta la penisola per l’appuntamento annuale promosso da RadUni, l’associazione nazionale degli operatori radiofonici universitari. “Drizza le antenne” è il motto che ha accompagnato questa tre giorni: impossibile per i partecipanti non captare le “onde” positive di un evento di confronto e formazione come questo, che da ormai dieci anni ha il merito di mettere in contatto i protagonisti di quella fucina inesauribile rappresentata dalle emittenti universitarie, promuovendone lo scambio di energie, entusiasmo e idee. Ad un appuntamento come questo non poteva mancare la radio ufficiale del nostro Ateneo, Roma Tre Radio, che ha avuto l’occasione di incontrare i colleghi di Radio Zammù (Catania), RadioBue (Padova), UniRadio (Cesena), Unica Radio (Cagliari), URadio (Siena), RadioEco (Pisa), Radiophonica (Perugia), FuoriAulaNetwork (Verona), Campuswave Radio (Savona), Subway Web Radio (Viterbo), UMG Web Radio (Catanzaro), PonteRadio (Cosenza), PoliTo OndeQuadre (Torino), Radio 6023 (Novara), Radio Frequenza Libera (Bari), UCampus (Pavia), Radiosapienza (Roma), RadioEvolution (Parma), Radio Ca’ Foscari (Venezia), oltre naturalmente ai padroni di casa, F2Radio Lab, emittente della Federico II di Napoli. Oltre ad essere un momento di incontro, quasi una rimpatriata per la grande famiglia delle radio uni-

versitarie, il FRU è ogni anno anche occasione di formazione e approfondimento per i ragazzi e le ragazze che condividono questa passione. I partecipanti hanno potuto confrontarsi con professionisti del mondo della radio e del giornalismo, ascoltandone i racconti, ponendogli domande e raccogliendo i consigli di chi l’etere lo naviga a livello professionale da anni. Tanti gli ospiti illustri del panorama radiofonico italiano, da Lillo Petrolo (610 – Rai Radio2) ad una nutrita rappresentanza della redazione di Radio 105 (Fabiola, Dario Spada, Daniele Battaglia, Lidia Tagnesi), da Gianni Simioli di RTL a Massimiliano Virgilio (Rai Radio 3). Gli incontri hanno toccato la più vasta gamma di argomenti, in linea con l’ampiezza dello spettro di competenza delle radio universitarie: un universo in continua espansione proprio per la sua natura peculiare, che ben combina la tensione verso il professionismo alla creatività e alla voglia di trovare modi sempre nuovi per comunicare. Il mondo della comunicazione sta vivendo un momento di grande trasformazione: da qui le mille sfide che chi vuole lavorare in questo universo deve affrontare, mantenendosi costantemente sintonizzato sul mondo che cambia. Ci si è posti insieme tante domande, ad esempio circa il ruolo e la missione che un’emittente (universitaria e non) debba porsi e si è cercata una risposta insieme ad Ilaria Sotis, che con il suo programma “La Radio Ne Parla” (Rai Radio 1) utilizza quotidianamente il mezzo radiofonico per fare servizio pubblico, dando voce alla gente comune e alle sue reali esigenze. Il direttore di Leggo Alvaro Moretti ha avuto modo di ripercorrere insieme agli

La redazione di Roma Tre Radio festeggia Vincenzo Gentile, Miglior Voce delle Radio Universitarie 2016 (foto: Rossella Biagi)


studenti la sua carriera di giornalista che dalla radio è passato alla carta stampata, gettando luce sul circolo virtuoso che può innescarsi quando la comunicazione percorre le strade della contaminazione tra media diversi. I ragazzi hanno poi potuto attingere agli strumenti e le dritte di Claudio Gentile (Transmedia Hunter) sullo storytelling e le tecniche per riuscire a coinvolgere l’ascoltatore, o ancora farsi raccontare come nasce un programma cult come Dee notte direttamente da Gianluca Vitiello, voce dello storico programma di Radio Deejay. Sono andati alla scoperta della quotidianità del lavoro radiofonico con gli speaker di Radio 105; hanno fatto un viaggio nella storia e nell’esilarante attualità della satira con la redazione di Lercio.it; hanno incontrato Francesco Baschieri, fondatore e CEO di Spreaker, la prima Social Web Radio, piattaforma attualmente utilizzata da alcune emittenti universitarie italiane. Questi e molti altri sono stati i momenti di discussione e di confronto, ma gli studenti, veri protagonisti del festival, hanno soprattutto animato il festival, passando dall’altra parte del microfono, il loro habitat naturale. Una diretta condivisa lunga tre giorni ha permesso ai “fruisti” di incontrarsi attorno ad una postazione radiofonica e di condividere con i colleghi di tutta Italia la propria esperienza, apportando ognuno la propria cifra stilistica. Nell’ambito del palinsesto speciale del FRU 2016 è andata in onda anche la puntata conclusiva della prima stagione del progetto Europhonica, il primo format internazionale che racconta l’Unione Europea direttamente dal Parlamento Europeo di Strasburgo. Durante una tavola rotonda i ragazzi della redazione hanno tirato le somme dell’esperienza appena conclusa e la cornice non poteva essere più adatta: Europhonica è il progetto che forse meglio rappresenta lo spirito in cui opera l’associazione RadUni. La redazione italiana del progetto europeo è composta infatti da ragazzi e ragazze provenienti dalle radio universitarie di tutta la penisola (due redattrici anche da Roma Tre Radio), in un clima di collaborazione e scambio che ci si auspica si inneschi sempre più tra le emittenti studentesche italiane. Uno dei momenti più attesi del FRU è sicuramente il FRUTalent, il concorso bandito da RadUni per eleggere la miglior voce dell’anno tra tutti gli speaker delle radio del circuito: anche per questa edizione i partecipanti hanno avuto l’occasione di mettersi alla prova davanti ad una giuria di qualità rappresentata da Stefano Piccirillo, Pippo Pelo e

Adriana, triade di speaker professionisti di Radio Kiss Kiss che durante la serata del sabato ha ascoltato, giudicato e selezionato il vincitore dell’ambita borsa di studio presso la BIG J Academy. Con grande orgoglio e soddisfazione per la nostra emittente, il prestigioso premio è andato proprio al candidato proveniente da Roma Tre Radio, Vincenzo Gentile, studente di Giurisprudenza a Roma Tre e speaker di DoReMu, il format di approfondimento musicale di Roma Tre Radio in onda ogni venerdì dalle 16 alle 17. Dopo una prima selezione tra 22 candidati, in 8 si sono sfidati durante lo show serale, momento divertente ma anche molto formativo per gli sfidanti quanto per la platea, che ha potuto rubare consigli, dritte e buone pratiche radiofoniche suggerite dalla giuria. Tra un discodisco, un talk ed un’intervista, Vincenzo Gentile si è aggiudicato la borsa di studio del valore di 1.800 euro che gli permetterà di frequentare il prestigioso corso di radiofonia o doppiaggio presso la Big J Academy. Come da tradizione, accanto al premio per la Miglior Voce, è stato assegnato anche il premio al Miglior Programma radiofonico universitario dell’anno, selezionato anche in questo caso da una giuria di qualità composta da esperti del settore quali il professor Giorgio Simonelli, Riccardo Poli e Mariolina Simone, celebre conduttrice del programma Mario and the city su M2O. Il premio è andato alla radio universitaria di Catania per Terremoto. Il giorno prima, format targato Radio Zammù che si è distinto per originalità e qualità, proponendo un servizio di sensibilizzazione sulle tematiche legate al rischio sismico. Infine proprio la caporedattrice di Roma Tre Radio nonché docente del nostro Ateneo Marta Perrotta ha consegnato il primo premio di laurea RadUni a Giovanni Morandini, autore della tesi dal titolo “La letteratura e le webradio universitarie: Radio Ca’ Foscari e Jukebox Letterario”. Il bilancio conclusivo di questa edizione del Festival delle Radio Universitarie è stato ancora una volta positivo, evidente nella soddisfazione di tutti i partecipanti, studenti e non, che con nostalgia hanno lasciato una Napoli calorosa e accogliente. Tra un sorriso e una sfogliatella, buona musica e tante voci, molte domande e risposte inaspettate, il FRU16 ha saputo creare un ponte tra gli studenti ma anche tra la radiofonia universitaria e la radio mainstream, che guarda con sempre maggiore curiosità a quella che è ormai una realtà concreta, diffusa e di grande qualità. Appuntamento al FRU17!

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Palladium

Quante volte per finta sanguinerà Cesare. La Roma di Shakespeare al Teatro Palladium Alessandra De Luca

Le occasioni per celebrare William Shakespeare non sono mai abbastanza. Una circostanza per farlo è stata il quadricentenario della sua morte, che ricorre quest’anno. Le Università Roma Tre, Sapienza e Roma Tor Vergata, Alessandra De Luca insieme con Roma Capitale, lo hanno fatto realizzando un ciclo di eventi scientifici, culturali e performativi dedicati alla pervasiva presenza di Roma antica nell’opera del drammaturgo. La rassegna, dal titolo Shakespeare 2016 – Memoria di Roma, coordinata a Roma Tre dalla prof. Maria Del Sapio Garbero, ha coinvolto anche il Teatro Palladium dell’Università Roma Tre, nel quale si sono svolte due serate shakespeariane. Il 15 aprile è andato in scena Apprehending Rome: the City in the English Mind’s Eye, un reading/dialogo in lingua inglese rappresentato dagli attori del Globe Theatre di Londra: attraverso i passi tratti da vari autori, tra i quali Fynes Moryson, Thomas Nashe, Thomas North, Bernardino Ochino, William Thomas, gli interpreti hanno delineato l’idea di Roma per gli inglesi ai tempi di Shakespeare, e in quali forme e mediazioni essa appariva agli “occhi della mente”.

Roma e Shakespeare sono anche i protagonisti della pièce Della rovina, di tempo e di bellezza – Shakespeare e il destino di Roma, spettacolo prodotto autonomamente dal Teatro Palladium, andato in scena il 9 e il 10 aprile (con replica il 14 aprile al Teatro di Villa Torlonia). L’intreccio dialettico di situazioni tratte dai drammi romani di Shakespeare è la base su cui si è costruito lo spettacolo. La regia è stata di Luca Aversano, anche autore del montaggio dei testi e delle musiche, con la consulenza scientifica di Maria Del Sapio Garbero. Le musiche sono state eseguite dal vivo dall’ensemble Mirabilis Harmonia (Susanna Valloni al flauto, Valerio Losito al violino e alla viola d’amore, Ulrike Pran-

ter al violoncello, Angela Naccari al cembalo), le coreografie danzate e ideate da Maria Elena Curzi, i diversi personaggi dei drammi romani di Shakespeare interpretati da Domenico Bisazza, Daniele Di Matteo e dalla sottoscritta, Alessandra De Luca. Più che una critica, vorrei riportare qui alcune mie impressioni e riflessioni sulla natura della messa in scena, essendo stata direttamente coinvolta nel processo di costruzione di uno spettacolo che si confronta non solo con Shakespeare, ma anche e inevitabilmente con temi importanti quali la guerra e l’amore, che hanno fatto la gloria e la rovina di Roma. Una sfida nella sfida dunque, per il regista, per gli interpreti. È inevitabile per un attore una sorta di soggezione, riverenza o forse semplice timore nell’accostarsi al bardo; tanto più nel doverlo fare in un solo spettacolo che prevede la successione in scena di diversi personaggi, interpretati sempre dagli stessi attori. Vestire, l’una dopo l’altra, i panni di donne come Porzia, Volumnia, Tamora, Cleopatra, a primo impatto, devo ammetterlo, mi ha terrorizzata. Come credo sia stato anche per gli altri due miei colleghi. Sì, perché questo è «Della rovina, di tempo e di bellezza»: un percorso fatto di tappe emotive essenziali dal Tito Andronico al Giulio Cesare, dal Coriolano ad Antonio e Cleopatra, animato dalla gestualità espressiva delle musiche di Vivaldi, Haendel, Purcell, abilmente eseguite su strumenti antichi. Niente più di un viaggio attraverso i testi shakespeariani. Gli stessi testi che ci portano in alto come in volo per la loro magnificenza, ma che ci fanno anche sprofondare negli abissi e toccare il fondo delle debolezze umane, delle conseguenze atroci della guerra, del sangue versato da una città votata alla sua fine. E la si sente, nel battere minaccioso del tamburo all’inizio e alla fine dello spettacolo, questa fine imminente; un battito che percuote i sensi come un rito che insiste a ricordarci di che pasta è fatto l’essere umano: vittima delle sue passioni, incapace di «vedere se stesso se non di riflesso, attraverso altri oggetti», atto a «cadere virilmente per la causa della sua nobile patria» e altrettanto atto a «macellare, mutilare, potare il corpo dei suoi due rami», ma sempre affamato, desideroso, pazzamente voglioso d’amore. L’amore di Antonio per Cleopatra,


(foto: Daniela De Angelis)

ad esempio, che non conosce misura. E forse sta proprio in questa assenza di misura la dannazione e la condanna più grande di questi alti personaggi shakespeariani. La passione che dà scacco alla moderazione, la vittoria del trasporto che ha come diretta conseguenza la sconfitta del controllo. Come funamboli dei sentimenti, i personaggi camminano con fermezza sul filo che sancisce il limite tra la vita e la morte. Su quel filo l’equilibrio è fondamentale, tuttavia precario, può bastare un’acrobazia di troppo per precipitare nel vuoto. Ma è proprio di quell’acrobazia di troppo che Cleopatra non riesce a fare a meno, è quell’acrobazia cui Coriolano non sa rinunciare. Il senno scivola nella follia, la bellezza nella rovina, la ro-

(foto: Antonella De Angelis)

vina nella bellezza: c’è l’uomo, con le sue contraddizioni. A questa articolata e molteplice sfida Shakespeare chiama impietosamente l’interprete. La sua portata giustifica i timori iniziali di un attore nell’approcciarsi al grande drammaturgo. Ma proprio nel processo di costruzione dello spettacolo, in quell’artigianato minuzioso che sono le prove, si è svelato il paradosso per me più grande: quei testi all’apparenza così difficili, ostici, ardui, che m’incutevano spavento, si sono dimostrati il più grande aiuto all’interpretazione: la via sana del semplicemente dire, del pronunciare versi che bastano a se stessi. Questa la magia, questa la poesia di un viaggio/spettacolo alla scoperta di «nuovi cieli e nuove terre».

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Gli uomini mangiano i pesci. Intervista ad Anna Vinci

Barbara Bartoli

Anna, com’è nato questo spettacolo? Questo spettacolo è nato da una chiacchierata tra due amiche. Giovanna Casadio, [giornalista NdR] e io, in un caffè romano, in una limpida mattina autunnale, cominciammo a parlare dei nostri figli, e da un figlio suo a uno mio, raccontai dei miei nipotini, esperienza nuova, la vita continua, oltre i figli, i figli dei figli. Era uno di quei giorni di sbarchi, che si susseguivano, commentati da troppe parole di chi guarda e dice. Noi per prime. Sbarchi, come se una parola potesse riassumere tanto dolore. E dalle nostre emozioni ne scaturirono altre, dalla gioia, tristezza. Seguì un silenzio ristoratore, da cui nacque il racconto di Giovanna, che si lasciò andare al ricordo delle sue radici isolane – come mai prima – abbarbicate allo scoglio: ’u scogghiu, nel suono forte della lingua della sua terra, la Sicilia. Le immagini di un altro tempo scacciarono quelle di oggi, poi andavano e tornavano, in un ritmo lento quale onda del mare. E da quelle immagini, l’eco di parole nitide, scaturite dalla esperienza diretta della mia amica, la cui famiglia possedeva una tonnara. Giovanna mi chiese se avessi voglia di scriverne qualcosa. Cosa di meglio per una scrittrice che scacciare la malinconia con le parole? Mi ricordai mentre seguivo le parole di Giovanna che a casa avevo un video con le immagini di una delle ultime mattanze, in un’altra isola della Sicilia, Favignana: I Tonnaroti del fotografo Stefano Fogato. Immagini accompagnate dalla musica di Jean Jacques Le Mêtre, che a lungo ha lavorato col Théatre du Soleil di Arianne Minouckine. Sonorità che evocano il ritmo del mare che s’intreccia alle grida ritmate dei pescatori, che sono preghiera e incitamento. Il seme del lavoro era statogettato.

Qual è il messaggio principale? Il messaggio principale è che tutto si lega. La struttura narrativa, che parte con il dialogo tra due amiche, Miriam e Vita, che si ritrovano in un rito estivo, nell’isola dell’infanzia condivisa, lasciandosi andare al flusso dei ricordi, si allarga a una narrazione collettiva. Vanno in profondità nei loro sentimenti, condotte dall’affetto di sempre, che fa i conti con le esperienze trascorse. Hanno il corag-

gio di parlare, di ascoltare, e di guardare l’una nell’altra e per farlo, non possono non assorbire, lasciarsi invadere dal mondo intorno, sentirlo, conoscerlo e capirlo. Le preghiere che accompagnano il viaggio dei fuggiAnna Vinci, autrice di Gli uomini tivi rivolte a dio, in mangiano i pesci qualunque modo si chiami: Dio, e alle anime dei propri cari, fanno da contrappunto alle parole delle donne, alle preghiere dei tonnaroti, che si affidano alla Madonna che imbarcavano nella “Muciara” del Rais. Mio padre e i suoi pescatori la veneravano. La invocavano nei loro canti: «Aja mola, aja mola / Virgini santa parturienti / Aja mola, aja mola / Virgini Santa partoriu / Aja mola, aja mola / Fici un figghiu comu Diu / Aja mola, aja mola / E pi nomi Gesù chiamau…» La trattavano, i tonnaroti – ricorda Miriam – come trattavano le femmine: la mettevano in un angolo del barcone avvolta da un drappo di reti, così poteva vedere, la evocavano imprigionata e silenziosa. Ma almeno, aveva un senso la mattanza, terribile e necessaria: portava mangiare.

In che modo si lega con il fenomeno dei migranti e deirifugiati? Sul palcoscenico al centro della scena, nella terrazza affacciata sul porto, come ho appena detto, Vita e Miriam si lasciano andare ai ricordi, e nel ritmo delle voci del mare, che incalzano portando verso terra il canto di chi cerca l’approdo, sorge nitido il rito della mattanza, vissuto nella loro infanzia, a Lampedusa, l’isola dove Vita ritorna a volte dal suo nord, mentre Miriam è rimasta in quel Sud dove «Le nostri notti sono blu come il mare...» «Gli uomini mangiano i pesci», sentiva dire da bambina, Miriam, era suo padre che parlava quando lei lo seguiva, un po’ in disparte, là dove


stanno le femmine, attratta e respinta da quel mondo maschile, violento nell’ebbrezza del sangue, ma che riconfermava il patto sacro che lega l’uomo all’altro uomo e alla natura. Oggi che il Mediterraneo è il teatro dello sterminio dei migranti, il patto è spezzato. Che cosa diresti, per convincere le persone a venire a vedere questo spettacolo? Direi che l’arte, in questo caso il teatro, con le proprie regole, aiuta a depurarci dalle tossine di tragedie che ci fanno paura e che mettono in discussione le nostre radici profonde. Il Mediterraneo è stato una culla della nostra civiltà, mare quale grembo, nascita, speranza,desiderio. «Mare, in francese è femminile: la mer – dice Miriam – E se aggiungi un piccolo accento e una altra ‘e’ alla fine, diventa mère: madre. Madre Nostra, l’inizio di una preghiera».

«Al maschile è più duro: Mare Nostrum… Oggi nel nostro mare – conclude Vita – i pesci mangiano gli uomini. Mare Monstrum…Ma…».

C’è un ma che genera speranza. Ritorno al messaggio dello spettacolo, e chiedo: Si ferma forse il desiderio? «Anche i tonni – ricorda Miriam – seguono il desiderio e vanno verso la loro lenta agonia, si uccidono a colpi di coda emergendo dal fondo della camera della morte…». Desiderio – dice Vita – è il principio di tutto. Sta accanto al Padre Eterno, è Nostro come il mare: è il nostro lamento». Che si mettano l’anima in pace i costruttori di fortezze, di barriere, nulla osta al desiderio di andare avanti, di continuare: non chiedono i padri e le madri che portano i figli con loro, più che pane, un futuro, attraverso quello dei figli? Futuro loro, nostro. Della umanità.

«People before borders»: la crisi umanitaria dei rifugiati Amnesty International

Il 2015 viene ricordato come un anno di svolta nell’ambito delle migrazioni forzate. Dalla seconda guerra mondiale si verificato uno dei più grandi movimenti di rifugiati e richiedenti asilo che ha superato le sessanta milioni di persone in tutto il mondo. Alla fine dell’anno gli arrivi sulle coste del Sud Europa avevano raggiunto la cifra di 944.9094 unità. All’approdo dei migranti ha fatto da tragico contraltare la morte di coloro che non ce l’hanno fatta, in misura significativa donne e bambini. In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, negli ultimi cinque anni i minori sono diventati il 51% della popolazione rifugiata mondiale. Nei primi mesi del 2016, il 35% degli arrivi attraverso il Mediterraneo era costituito da minori che rappresentavano anche il 30% dei morti in mare. Nel 2015, solo in Italia, sono arrivati 89.000 minori non accompagnati. Di fronte a questa tragedia epica la risposta della comunità internazionale si è rivelata inadeguata e distaccata. I migranti ed i richiedenti asilo non soltanto sono stati costretti ad intraprendere pericolosi ed illegali viaggi per mare e per terra nel tentativo di raggiungere aree più sicure rispetto a quelle di origine; ma hanno anche sperimentato episodi di abuso, estorsione e violenza da parte delle forze di polizia, dei contrabbandieri e dei trafficanti di esseri umani che hanno soprattutto colpito i bambini. Alla crisi umanitaria in corso i paesi hanno reagito consolidando posizioni securitarie che hanno incrementato le pratiche di controllo e di contrasto all’immigrazione anziché garantire passaggi sicuri e accoglienza. L’accordo stipulato il 18 marzo 2016 tra i paesi membri dell’Unione europea e la Turchia ne è la chiara testimonianza. Di fronte all’incrementarsi dei movimenti di uomini, donne e bambini lungo la rotta balcanica, i governi europei hanno scelto di puntare sulla collaborazione con le autorità turche, conferendo a queste ultime il compito di contenere e filtrare i flussi di migranti e rifugiati diretti verso l’Europa. Amnesty International ha espresso serie preoccupazioni circa la legalità, l’eticità e le conseguenze di lungo termine delle scelte politiche che continuano a caratterizzare il quadro degli spostamenti migratori internazionali. Proprio su queste preoccupazioni poggia la nuova campagna che l’Organizzazione promuoverà a livello globale e che sarà lanciata nel mese di settembre 2016. Lo scopo principale che essa si pone è quello di incoraggiare azioni di advocacy e di pressione sugli attori decisionali e sulla società civile affinché si possa raggiungere nel medio termine un triplice obiettivo: una maggiore ripartizione tra gli Stati delle responsabilità per l’accoglienza e l’assistenza dei rifugiati; un ripensamento della legislazione internazionale sulle migrazioni attraverso l’introduzione di canali legali e sicuri di accesso in Europa; infine, un incremento dell’accettazione pubblica dei richiedenti asilo e del loro diritto di accedere alle misure di protezione. Lo spettacolo teatrale “Gli Uomini mangiano i pesci” rappresenta una delle tante iniziative che Amnesty International sponsorizzerà nei prossimi mesi al fine di favorire una migliore conoscenza non soltanto della dimensione umana sottesa agli episodi di sbarco dei migranti, ma anche delle trasformazioni che l’esperienza di attraversamento dei confini genera nella vita dei suoi diretti protagonisti e nell’organizzazione dei territori nei quali essa si manifesta.

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Keywan Karimi

Libertà negata, sentenza iraniana, sostegno internazionale

recensioni

Costanza Saccarelli

Il trentenne cineasta curdo iraniano Keywan Karimi è l’autore del documentario dal titolo Writing on the City (60’) - mai proiettato in patria - che racconta l’Iran attraverso i graffiti e le scritte sui muri di Teheran dalla Rivoluzione del 1979 Costanza Saccarelli ai giorni nostri. Il regista è conosciuto nell’ambiente cinematografico per i suoi precedenti lavori, in particolar modo per due cortometraggi: - Broken Border (18’) documentario sul contrabbando di petrolio al confine Iran-Iraq, vincitore del premio come Miglior Film Documentario al Filofest (Slovenia) e al FIC Vagòn (Messico); di una Menzione Speciale della giuria al festival di Leiden (Olanda); al Mostremp cinema rural (Spagna); al TSFF (Italia); del Silver Aleph al Beirut Film Festival (Libano). - The Adventure of a Married Couple (11’) film in bianco e nero sulla vita quotidiana di una coppia, ispirato a una storia di Italo Calvino. Il film è stato proiettato in oltre 40 festival vincendo numerosi premi. La sua vicenda giudiziaria inizia l’8 dicembre 2013 quando viene arrestato dalla Guardia rivoluzionaria e confinato in isolamento nella prigione di Evin. Gli vengono confiscati computer, hard drives e il materiale d’archivio in suo possesso. Durante le due settimane di prigionia viene ripetutamente interrogato su Writing on the City e sul contenuto dei suoi dispositivi. Sotto accusa sono alcune immagini del film, concesse con regolare permesso dall’archivio nazionale di Teheran, girate durante gli scontri del 1979 e del 2009. A queste si aggiungono spezzoni di conversazioni su Skype con un produttore considerato “nemico” del regime a proposito di un videoclip mai girato. Il 26 dicembre è rilasciato su cauzione. Il film inedito sul quale Karimi stava lavorando da tre anni viene cancellato. Tra marzo 2014 e settembre 2015 si presenta otto

volte in tribunale per difendersi dalle accuse che il 13 ottobre 2015 diventano sentenza della Corte islamica rivoluzionaria: 6 anni di prigione e 223 frustate per propaganda contro il regime ed insulto alla santità dell’Islam. Gli è stata comminata la pena massima per un film che nessuno ha visto: Karimi, incredulo, ricorre in appello. La comunità internazionale non tarda a farsi sentire. Nello stesso mese di ottobre 2015 un gruppo di filosofi, sociologi e attivisti per i diritti umani sotto il nome di Collettivo di Solidarietà per Keywan pubblica su Kedistan.net una lettera dal titolo Poesia, un crimine contro lo Stato; il CdA dell’ARP (société civile des Auteurs – Réalisateurs – Producteurs), 100autori (associazione dell’autorialità cinetelevisiva), l’SNGCI (Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani) e il SNCCI (Sindacato nazionale critici cinematografici italiani) pubblicano sui loro siti articoli a sostegno del regista; l’Iranian Writers Association e l’Iran’s Pen protestano contro la sentenza; il professore Hamid Dabashi della Columbia University pubblica un articolo su AlJazeera in difesa di Keywan, criticando la politica iraniana di frustare un regista per aver realizzato un film; il 21 ottobre l’on. Marietta Tidei presenta un’interrogazione parlamentare al Ministro degli esteri Paolo Gentiloni per sapere se l’Italia ha intenzione, autonomamente o coordinandosi con la rappresentanza dell’Unione Europea, di compiere i necessari passi diplomatici presso il governo iraniano per promuovere il rilascio di Karimi, dichiarando: «Karimi è un prigioniero di coscienza, detenuto esclusivamente per l’esercizio pacifico del suo diritto alla libertà di espressione: la sua liberazione si configura come naturale e perciò vanno messi in campo tutti gli sforzi possibili per arrivare a questo risultato». A novembre 45 europarlamentari di varie correnti politiche firmano una petizione per Karimi; l’associazione Iran Human Rights organizza una conferenza stampa alla Casa del Cinema a Roma, lancia una petizione, scrive al primo ministro e chiede agli artisti di sostenere Keywan con un video messaggio: tra i primi ad aderire ci sono Mohsen Makhmalbaf, Daniele Vicari, Greta Scarano, Jose Luis Rebordinos e Claudia Gerini; il San Sebastian


Keywan Karimi

Film Festival (Spagna) protesta e si schiera col regista lanciando una nuova petizione. Ovunque si susseguono petizioni, articoli e campagne in suo favore. Diversi i festival internazionali che dichiarano apertamente il loro sostegno. I precedenti lavori di Karimi – Act, Broken Border e The Adventure of Married Couples – vengono proiettati in ogni dove per sensibilizzare l’opinione pubblica sul suo caso. Nascono due pagine facebook: Free Keywan Karimi, che raccoglie tutti gli articoli pubblicati nel mondo; Writing on the City – Writing for Keywan che lancia la campagna Un graffito per Keywan Karimi, raccogliendo le foto di street art che arrivano da ogni dove con l’hashtag #FreeKeywanKarimi. A dicembre 130 documentaristi iraniani scrivono una lettera al capo del sistema giudiziario iraniano e Pen International chiede alle autorità iraniane di

cancellare la sentenza; il Punto de Vista Documentary Film Festival decide di realizzare un film dal titolo 223 Words, una parola per ogni frustata pronunciata da un regista diverso: autori quali Agnès Varda, Andrés Duque, James Benning, Montxo Armendáriz, Victor Kossakovsky, Lynne Sachs, Alan Berliner,Patricio Guzmán,Eugenio Polgovsky, Fernando Arrabal, Lynne Sachs, Basilio Martín Patino partecipano al film. A gennaio 2016, 668 artisti da tutto il mondo firmano una lettera al capo della corte iraniana chiedendo la cancellazione della pena e il rispetto dei diritti del giovane regista; Amnesty International lancia un’azione urgente in sua difesa ed inizia la campagna per Keywan quale prigioniero di coscienza. Vengono raccolte migliaia di firme. Il 21 febbraio 2016 la pena gli viene ridotta in appello ad un anno di carcere, 223 frustate e una multa di 20 milioni di rial (circa 600 euro) con sentenza definitiva ed inappellabile. La sentenza, per quanto ridotta rispetto al primo grado, non soddisfa quanti chiedono la liberazione del regista. A marzo anche Bernardo Bertolucci, Roberto Benigni e Nicola Piovani si schierano in suo favore. Il 13 maggio il Festival del Cinema di Cannes rilascia un comunicato stampa congiunto con Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello, ADAL – Latin American Audiovisual Directors Alliance, ARP – Société civile des Auteurs Réalisateurs Producteurs, La Biennale di Venezia – Mostra Internazionale d’Arte Cinema-

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tografica, la Cinémathèque Française, DAC – Directores Argentinos Cinematográficos, European Film Academy, FERA – Fédération Européenne des Réalisateurs de l’Audiovisuel, Groupe 25 Images, SAA – Société des Auteurs Audiovisuels, SACD – Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques, SCAM – Société Civile des Auteurs Multimédia, SFCC – Syndicat Français de la Critique de Cinéma, USPA – Union Syndicale des Producteurs Audiovisuels, W&DW – Writers and Directors Worldwide, BLOC – Bureau de Liaison des Organisations du Cinéma, ACID – Association du Cinéma Indépendant pour sa Diffusion, APC – Association des Producteurs de Cinéma, DIRE – Distributeurs Indépendants Réunis Européens, GNCR – Groupement National des Cinémas de Recherche, La Guilde Française des Scénaristes, SDI – Syndicat des Distributeurs Indépendants, SFACGT – Syndicat Français des Artistes Interprètes, SFAAL – Syndicat Français des Agents Artistiques et Littéraires de l’Audiovisuel, et du Spectacle Vivant Dramatique, SNAC – Syndicat National des Auteurs et des Compositeurs, SPFA – Syndicat des Producteurs de Films d’Animation, SPIAC CGT – Syndicat des Professionnels des Industries de l’Audiovisuel et du Cinéma, SPI – Syndicat des Producteurs Indépendants, SRF – Société des Réalisateurs de Films, UNEVI – Union de l’Édition Vidéographique Indépendante per chiedere al governo iraniano la grazia per Karimi.

Il 18 maggio il Dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo dell’Università degli Studi di Roma Tre aderisce alla campagna in difesa di Keywan Karimi. Il film Writing on the City, prodotto nel 2012 dall’Università di Teheran e completato ad agosto 2015, è proiettato in anteprima mondiale quattro mesi dopo la prima sentenza, il 12 febbraio 2016 al Punto de Vista, International Documentary Film Festival of Navarra, dove vince una Menzione Speciale. Da allora il film è stato proiettato in oltre 20 festival in tutto il mondo, tra cui il San Sebastian Film Festival in Spagna, Il festival internazionale Vision du Réel in Svizzera, il festival Bafici di Buenos Aires in Argentina. Ogni proiezione è stata accompagnata da mobilitazioni in suo favore. La campagna per liberare Keywan Karimi continua. Il sostegno internazionale da parte del mondo del cinema e delle associazioni umanitarie ha portato alla ribalta il caso del giovane cineasta come uomo al quale sono stati sottratti i diritti fondamentali, primo fra tutti la libertà di espressione. Il tentativo di censura ha acceso i riflettori sulla condizione di uno dei tanti artisti che ogni giorno devono lottare per il diritto di esprimersi attraverso la propria arte. Keywan è in attesa di essere tratto in arresto e portato in carcere. Non può lasciare l’Iran. Non può rilasciare interviste. Continua a lavorare per ultimare il suo nuovo film.


Boyhood

Il cammino silenzioso del tempo nel viaggio di un bambino verso l’età adulta Giulia Pietralunga Cosentino

Boyhood è un esperimento unico nel suo genere; il progetto che Richard Linklater comincia ad immaginare già nel corso degli anni Novanta è dei più ambiziosi: raccontare ed afferrare lo scorrere del tempo, facendo coinGiulia Pietralunga Cosentino cidere l’arte cinematografica con la vita reale. Linklater condensa, in quasi tre ore di film, dieci anni della vita di Mason, a partire da quando era un bambino di 6 anni fino ad arrivare alla maggiore età. Passando dalla spensieratezza dell’adolescenza alle difficoltà di una famiglia allargata , il tempo trascorre inesorabile tra controversie, matrimoni, cambi di scuola, primi amori, prime delusioni sentimentali, gioie e paure. La vita nel suo semplice ed inesorabile fluire. Elogio della banalità quotidiana? Un’opera toccante ed emozionante, invece. Dove, con estrema normalità e senza giudizi, il regista mostra come, non solo la vita del protagonista sia cambiata, ma la nostra società negli ultimi vent’anni, tra avvenimenti storici, mutamenti sociali sia radicalmente e profondamente trasformata. Il regista americano ha tentato un’impresa arditissima che non a caso nella storia del cinema è stata spesso progettata, ma quasi mai portata a termine. Molti altri registi, da Truffaut a Reitz allo stesso Linklater (la serie ‘Prima dell’alba’) hanno seguito attori e personaggi per anni. Ma in questo mosaico di microracconti, volutamente privi di colpi di scena, è proprio il minimalismo di fondo, la banalità del quotidiano che lentamente conquista lo spettatore. La semplice trama di dodici anni di vita di due adolescenti texani - dai sei ai diciotto anni - e dei loro genitori è stata, infatti, filmata nel corrispondente arco temporale e affidata ad un mix di attori professionisti e non, con un budget limitato e rinnovato anno per anno, una piccola troupe e una sceneggiatura sì strutturata ma ovviamente esposta

all’imprevedibilità del destino riservato a ciascuno dei partecipanti. Boyhood vuole rappresentare niente altro che la tragica banalità della vita mentre accade. Non ci sono momenti eclatanti nella vita di Mason; c’è un bambino, come lo è stato ognuno di noi, che cresce e crescendo cambia e insieme a lui cambia il contesto; da Harry Potter a Twilight, da Bush ad Obama. Dodici anni di riprese, una volta l’anno, durante i quali il piccolo Mason (Ellar Coltrane), che all’inizio è un simpatico bambino, è diventato un ragazzino e poi un adolescente pronto alla partenza per il college. Dodici anni in cui non è cambiato solo lui ma i suoi genitori (Patricia Arquette e Ethan Hawke), separati fin dall’inizio e destinati a incontrare altri partner che nel film avranno un ruolo talvolta importante e talvolta saranno semplici volti di passaggio, come realmente accade nella vita di ognuno di noi. Dodici anni durante i quali la società e gli eventi storici hanno portato grandi cambiamenti in America, passando dal dopo 11 settembre e dalla guerra in Iraq fino ad arrivare alla presidenza di

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Obama ma senza che quest’ultimi prendano il sopravvento perché Linklater ha scelto una prospettiva intimista e i grandi eventi ci sono ma sempre sullo sfondo. Perché inseguendo con grande tatto e leggerezza quelle che potrebbero sembrare banalità, Linklater riesce a cogliere il cammino misterioso del tempo, il respiro silenzioso di un’intera epoca con nitidezza e semplicità. Boyhood non racconta una storia ma “la storia”: la vita. Quella che scorre inesorabile, giorno dopo giorno, quell’insieme di istanti spesso insignificanti, vissuti superficialmente, sovrappensiero. Il tono di tutto il film è coerente e uniforme, e vedere i

personaggi invecchiare davvero sullo schermo dà a chi guarda la sensazione di essere «uno di famiglia». Linklater prende per mano il suo pubblico e lo accompagna nel viaggio affascinante della vita, in maniera semplice e disarmante; attraverso gli occhi di Mason, lo spettatore vive il suo prendere coscienza di se stesso, il suo “crescere” fisicamente ed intellettualmente. Lo scorrere del tempo è, in fondo, il vero protagonista di questo percorso di formazione che ci fa spettatori privilegiati, tra il 2002 e il 2014, del viaggio verso l’età adulta del piccolo Mason.


Non insegnate ai bambini non insegnate la vostra morale è così stanca e malata potrebbe far male forse una grave imprudenza è lasciarli in balia di una falsa coscienza. Non elogiate il pensiero che è sempre più raro non indicate per loro una via conosciuta ma se proprio volete insegnate soltanto la magia della vita.

Gi giro tondo Gir Giro t ccambia camb ili mondo cambi mond «. Non insegnate ai bambini non divulgate illusioni sociali non gli riempite il futuro di vecchi ideali l'unica cosa sicura è tenerli lontano dalla nostra cultura. Non esaltate il talento che è sempre più spento non li avviate al bel canto, al teatro alla danza ma se proprio volete raccontategli il sogno di un'antica speranza. Non insegnate ai bambini ma coltivate voi stessi il cuore e la mente stategli sempre vicini date fiducia all'amore il resto è niente.

Giro Gi giro g tondo gi gir t ca ccambia cambi il mondo« mondo mon « Giro Gi giro g tondo ccambia gi cambi camb il mondo« mondo mon « (Giorgio Gaber)



UniversitĂ degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it


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