Roma Tre News 1/2013

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Periodico di Ateneo

Anno XV, n. 1 - 2013

ECOLOGIA DEI SAPERI

In questo numero: Marta Antonelli, Eugenio Barba, Massimo Cacciari, Serena Dandini, Mauro Dorato, Elisa Germana Ernst, Guido Fabiani, Aldo Fiori, Francesca Greco, Giacomo Marramao, Leticia Marrone, Elio Matassi, Massimo Mattei, Enrico Menduni, Mario Panizza, Stefania Parigi, Carlo Alberto Pratesi, Elizabeth Sombart, Emanuele Trevi, Carlos Zelarayรกn


Sommario Editoriale

Primo piano La fabbrica della conoscenza Lo sviluppo edilizio di Roma Tre e la riqualificazione urbana del quadrante Ostiense/Marconi di Mario Panizza

Democrazia e postdemocrazia Una diagnosi dei mondi globali di Giacomo Marramao «Sapere aude!» Scienza, valori e democrazia di Mauro Dorato

Start upper Quando l’università insegna a trasformare un’intuizione in un business di Carlo Alberto Pratesi

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Lo spirito libero «di gran scienza amante» Verità e ricerca nella nuova filosofia di Bruno, Campanella e Galileo di Elisa Germana Ernst

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Oro blu Risorse idriche: ricerca accademica e risvolti applicativi di Aldo Fiori

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Il tradimento dei chierici di Francesca Gisotti

L’acqua che mangiamo Che cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamo di Francesca Greco e Marta Antonelli «La chiaroveggenza dell’orecchio» L’università e il ruolo formativo della musica di Elio Matassi

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Digital decide Le avventure della conoscenza e della didattica nell’era digitale di Enrico Menduni

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Oscar Niemeyer Il Novecento fra architettura e ideologia di Michela Monferrini

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Pasolini vivo e morto Il «corpo insepolto» della dialettica artista-società di Stefania Parigi

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Una grammatica nuova per un tempo nuovo Università, politica e nuovi diritti di Leticia Marrone e Carlos Zelarayán

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Rischio naturale Il territorio come pericolo e come risorsa e la politica universitaria in Italia di Massimo Mattei

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«Ti ricordi com’era bella l’Italia?» Una giornata con Antonio Tabucchi di Paolo Di Paolo

La letteratura illumistica di Leonardo Sciascia La ricerca di una verità più affidabile di quella data dalla Storia di Michela Monferrini Incontri Guido Fabiani. Spiegare di nuovo le vele di Alessandra Ciarletti

Massimo Cacciari. Il potere che frena di Federica Martellini

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Eugenio Barba. L’Odin Teatret a Roma Tre di Mirella Schino

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Serena Dandini. Ferite a morte di Francesca Gisotti

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Rubriche Popscene Ultim’ora da Laziodisu Non tutti sanno che…

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Elizabeth Sombart. «I servitori della musica» di Valentina Cavalletti

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Emanuele Trevi. Qualcosa di scritto di Federica Martellini

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Recensioni La scienza narrata Potenzialità di un racconto ancora tutto da scrivere di Francesca Gisotti Le pratiche del Buen Vivir Un paradigma di sviluppo alternativo in Ecuador di Genny Sangiovanni e Chiara Scarcello Arte e spiritualità L’ex voto di Yves Klein per santa Rita da Cascia di Martina Stoppioni

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Periodico dell’Università degli Studi Roma Tre Anno XV, numero 1/2013 Direttore responsabile Anna Lisa Tota (professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi) Caporedattore Alessandra Ciarletti Vicecaporedattore e segreteria di redazione Federica Martellini romatre.news@uniroma3.it Redazione Ugo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini Hanno collaborato a questo numero Marta Antonelli (PhD researcher King’s College London e assegnista di ricerca in Politica Economica presso l’Università IUAV di Venezia), Mauro Dorato (professore ordinario di Filosofia della scienza), Elisa Germana Ernst (professore ordinario di Storia della filosofia del Rinascimento), Aldo Fiori (professore ordinario di Idrologia applicata), Gianpiero Gamaleri (presidente Adisu Roma Tre), Francesca Greco (PhD researcher King’s College London - United Nations World Water Assessment Programme - UNESCO), Giacomo Marramao (professore ordinario di filosofia politica e presidente del Corso di studio in Filosofia), Leticia Marrone (Universidad Nacional de Avellaneda, Buenos Aires), Elio Matassi (professore ordinario di Filosofia della musica), Massimo Mattei (professore ordinario di Geologia), Enrico Menduni (professore ordinario di Sociologia della comunicazione e dei media), Maria Palozzi (responsabile Ufficio di coordinamento centrale per le biblioteche), Mario Panizza (rettore Università degli Studi Roma Tre), Stefania Parigi (professore ordinario di Cinema italiano), Carlo Alberto Pratesi (professore ordinario di Marketing), Genny Sangiovanni (studentessa CdL in Scienze economiche), Chiara Scarcello (studentessa CdL in Giurisprudenza), Martina Stoppioni (critico e curatore indipendente), Carlos Zelarayán (Universidad Nacional de Avellaneda, Buenos Aires) Ringraziamo Poalo Di Paolo per la gentile concessione del brano pubblicato a p.47 tratto dal suo romanzo Mandami tanta vita (Feltrinelli 2013) Immagini e foto Leonardo Candamo©, Francesco Galli, Andrea Jemolo, Fabrizio Loiacono, Angela Morelli© (www.angelamorelli.com), Jan Rüsz, Yves Klein Archives Paris Progetto grafico Magda Paolillo Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma 06 64561102 - www.conmedia.it Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico Impaginazione e stampa Stilgrafica s.r.l. - Roma - Tel. 06 43588200

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In copertina L’immagine di copertina è ideata e realizzata da Bia Simonassi (www.freeyourideas.net - http://treebookgallery.blogspot.it - http://theprojectlabshow.blogspot.it/)

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Finito di stampare luglio 2013 ISSN: 2279-9192 Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998


Verso un’ecologia dei saperi di Anna Lisa Tota

Andate in Somalia e guardate il vostro capitalismo, guardate il vostro socialismo, guardate gli occhi dei bambini che muoiono di fame. (Ko Un)

Ko Un è il maggiore poeta coreano vivente. Più volte candidato al premio Nobel per la Anna Lisa Tota letteratura, questo monaco poeta è considerato uno degli scrittori più importanti nel panorama contemporaneo. Le sue poesie zen, la sua militanza civile ne fanno uno scrittore capace di restituire alle parole della poesia una profonda forza di trasformazione. Ko Un ci propone un modello di scrittore militante, impegnato nella vita sociale e civile del proprio paese e del mondo intero. Molti artisti, scrittori, registi e musicisti di tutto il mondo ci hanno proposto negli ultimi decenni con il loro lavoro concezioni delle arti che presuppongono la militanza civile. Che dire allora dei saperi scientifici? Quale la loro posizione rispetto all’impegno attivo nel quotidiano?

In un’epoca di profonda crisi e trasformazione, come quella che stiamo attraversando, possiamo guardare alle scienze come a qualcosa di congiunto alla vita quotidiana e all’universo dell’etica sociale e pubblica? Possiamo come scienziate e scienziati, come donne e uomini intellettuali prendere parola, contribuire a produrre la conoscenza pubblica su questioni rilevanti e sottrarci a posizioni scientifiche, secondo le quali l’autorità della scienza si legittima a prezzo della sua avalutatività?

Da Gregory Bateson in poi ci siamo spesso interrogati sull’ecologia delle parole che pronunciamo e che ascoltiamo, sulla qualità delle immagini che guardiamo, sulla responsabilità con cui agiamo nella vita quotidiana, consapevoli del fatto che pensieri, parole e azioni lasciano tracce profonde nel sentire nostro e degli altri, come se un grande inconscio

collettivo junghiano potesse conservarne memoria. In un’epoca di profonda crisi e trasformazione, come quella che stiamo attraversando, possiamo guardare alle scienze come a qualcosa di congiunto alla vita quotidiana e all’universo dell’etica sociale e pubblica? Possiamo come scienziate e scienziati, come donne e uomini intellettuali prendere parola, contribuire a produrre la conoscenza pubblica su questioni rilevanti e sottrarci a posizioni scientifiche, secondo le quali l’autorità della scienza si legittima a prezzo della sua avalutatività? È un tema che nei decenni è stato molto caro alle scienze sociali e a molte altre discipline, pur con prospettive talora del tutto antitetiche (come quelle di Max Weber e di Julien Benda, da una parte e di Antonio Gramsci e di gran parte dei cultural studies, dall’altra).

Roma Tre ha, come naturalmente inscritta nel proprio DNA, una vitalità legata ai saperi che si coltivano, una tensione civile e morale ad unire scienza e territorio, a trasformare i saperi scientifici in conoscenza pubblica

I saperi scientifici si basano e presuppongono l’avalutatività come posizione di partenza oppure tale assunto è mero riflesso del loro essere asserviti alle logiche dell’autorità istituzionale, del potere personale, oppure di quello economico? Gli studiosi che si sono mobilitati rispetto a questa concezione dei saperi sono moltissimi: da Michel Foucault a Ivan Illich, da Rudolf Steiner a Georges Gurdjieff, da Edward Saïd al movimento sulla decrescita in ambito economico. Ma certamente non soltanto questi. Da molti anni Roma Tre ha come naturalmente inscritta nel proprio DNA una caratteristica che, sebbene presente fortunatamente anche altrove, qui trova una sua naturale collocazione istituzionale. Si tratta di una vitalità legata ai saperi che si coltivano, di una tensione civile e morale ad unire scienza e territorio, di una “naturale” inclinazione a trasformare i saperi scientifici in conoscenza pubblica. Questa vocazione del nostro Ateneo risuona profondamente nel percorso di ricerca di molti studiosi e scienziati che qui lavorano da anni, ma anche nelle tesi di laurea dei nostri studenti e delle nostre studentesse più promettenti. Per questo motivo abbiamo pensato di dedicare questo numero di Roma Tre News a quella concezione del sapere scientifico che per molti anni abbiamo tutti condiviso e che condividiamo ancora. Questo numero è dedicato anche a salutare e a ringraziare il nostro rettore uscente prof. Guido Fabiani e dà il benvenuto al nuovo rettore prof. Mario Panizza.

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Che cosa augurarci nel lavoro comune dei prossimi anni? Certamente di continuare a coltivare una concezione dei saperi che possa contribuire alla qualità della vita di tutte le specie viventi su questo pianeta, di continuare ad insegnare e a praticare l’autonomia della conoscenza che contribuiamo a produrre con il nostro lavoro all’università, di poter diventare sempre di più un polo di innovazione scientifica e tecnologica, contribuendo a consolidare i saperi scientifici ma al contempo rivitalizzandoli e restituendo loro la capacità di dialogare con la vita. La separazione tra vita e scienza è destinata a rendere sterile qualsiasi sapere. E infine di poter realizzare ancora più pienamente quella vocazione internazionale che spinge tanti di noi a intessere relazioni scientifiche con molte università in tutti i diversi continenti. Co-

me saranno le nostre aule del futuro a Roma Tre? Forse sui nostri banchi potranno sedere gli uni accanto agli altri studenti e studentesse cinesi, giapponesi, americani, russi e argentini, studenti e studentesse provenienti da tutti i diversi paesi europei. Speriamo in un’università che parli il linguaggio del multiculturalismo, quello della biodiversità e quello della sostenibilità. Questa è l’università che tutti amiamo, in cui vorremmo lavorare con i nostri studenti e studentesse, e che vorremmo far frequentare ai nostri figli e alle nostre figlie. Non è tanto lontana da quello che a Roma Tre abbiamo già iniziato a realizzare. Basta leggere queste poche frasi che abbiamo scelto per voi, pronunciate da alcuni degli ospiti che negli ultimi anni hanno onorato il nostro Ateneo con la loro presenza.

«Nel moderno sistema educativo non solo io, ma anche i miei amici, abbiamo la stessa opinione: nella formazione moderna (…) si presta attenzione solo alla mente o alle conoscenze del futuro e non si presta abbastanza attenzione al lato più etico e morale. Quindi vorrei approfittare di questa occasione per chiedervi la cortesia di pensare più a come coltivare il cuore – non la preghiera, non necessariamente la meditazione, ma ragionare sulla base delle scoperte scientifiche. Se il cuore è più compassionevole, il cervello funziona più normalmente, più efficacemente, e in questo modo si può vedere la realtà con maggiore chiarezza. Se la nostra mente è troppo agitata, allora non riusciamo a vedere la realtà come si deve. Quindi una mente calma è essenziale per conoscere la realtà. Di solito la chiamiamo oggettività. È molto importante. Per conoscere la realtà, la ricerca obiettiva e imparziale è estremamente essenziale». (dalla Lezione Magistrale di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, Laurea Honoris causa in Biologia, 14 ottobre 2006)

«Solo quando c’è pace e tranquillità, l’albero del sapere dà i suoi frutti, la creatività artistica si rivela e il carro della civiltà va avanti. Però, un qualunque silenzio non è tranquillità e una qualunque pace non è quella durevole. Una pace duratura è quella che è stata costruita su due pilastri di giustizia e democrazia, altrimenti anche se c’è silenzio, non è di tranquillità ma di soffocamento. Dobbiamo custodire e considerare sacra la pace e, ancora prima, ritenere importanti la giustizia e la democrazia. D’altro canto la pace ha due facciate, quella interiore e quella esteriore; come il mondo in cui viviamo e di cui non conosciamo tutti i profondi segreti. Senza la pace interiore non è possibile una pace esteriore, ma la pace interiore è la tranquillità di una vita vissuta con uno scopo. Coloro che ancora non hanno uno scopo nella propria vita sono individui confusi che non trovano pace in nessun luogo e non trovano il proprio io da nessuna parte. (…) È il compito di noi insegnanti aiutare i nostri allievi in questa loro ricerca, illuminare il loro cammino così che possano trovare la loro strada e trovare se stessi e, vivendo felici, possano essere utili anche per gli altri. (…) Una società in grado di porre questo obiettivo in testa ai propri programmi didattici (…) proseguirà senza alcun dubbio verso la pace. (…) In altre parole la pace comincia dalla scuola, poi si sviluppa a livello nazionale e raggiunge il territorio mondiale. È così che insegnanti e professori agiscono in qualità di pilastri della pace a livello nazionale e globale e in questa direzione il rapporto fra le comunità scientifiche di tutto il mondo è l’elemento più importante per lo sviluppo e la stabilità della pace. Scambio di studenti e professori, traduzione di libri in lingue diverse, creazione di università virtuali e creazione di corsi di studio internazionali sono tutti di grande aiuto per la realizzazione del contatto e rapporto internazionale. (…) Se vediamo il mondo come un villaggio globale, dobbiamo essere partecipi di tutti i suoi doni e vantaggi, tra gli altri, anche il sapere. Non possiamo pretendere di essere una comunità globale se una parte della popolazione del mondo viene privata del sapere. Dobbiamo essere generosi come il cielo, fare fertile l’albero della conoscenza come la terra, diffondere l’amicizia come il vento, essere ostili e furiosi contro l’ignoranza e l’intolleranza, come il fuoco. Dobbiamo essere umani, essere gentili. (dalla prolusione di Shirin Ebadi, inaugurazione a.a.2003-2004, 20 febbraio 2004, Nel nome di Dio, dello spirito e della saggezza)


La fabbrica della conoscenza

Lo sviluppo edilizio di Roma Tre e la riqualificazione urbana del quadrante Ostiense/Marconi gato, quasi subito, l’Ateneo a prevedere un’area inLo sviluppo edilisediativa sempre più ampia, localizzata nello stesso zio di Roma Tre si settore urbano - tra l’Ostiense e Testaccio -, ma meè accompagnato no raccolta, non più interamente percorribile a piecostantemente al di. Questa sopraggiunta necessità ha provocato la piano di recupero ricerca accelerata di aree e manufatti idonei, intendell’area ex-indusificando le trattative con le amministrazioni pubstriale lungo il Tebliche e in particolare con il Comune. Da ciò è derivere. Il tema evocativo del lavoro è pertanto nel caratLo sviluppo edilizio di Roma Tre si è tere del nostro paaccompagnato costantemente al piano di trimonio immobirecupero dell’area ex-industriale lungo il liare e nello spirito di un progetto in Tevere. I progetti mirano al pieno evoluzione, semrecupero della memoria storica e, allo pre attento al riMario Panizza stesso tempo, alla trasformazione del spetto delle esigenze del contesto. Gli edifici offrono sagome poco territorio attraverso strutture moderne; “universitarie”, ancora legate all’impronta iniziale, da qui la metafora di “Fabbrica della e neppure un riuso molto profondo ha potuto annullare la loro personalità: l’adeguamento funzionale li Conoscenza”, utile a rappresentare il ha però trasformati in impianti nuovi, arricchiti dal passaggio verso la formazione di aree comfort, originariamente inesistente, indispensabile dense di attività culturali all’attività scolastica. I progetti mirano di conseguenza al pieno recupero vato il primo fenomeno indotto e in parte destabidella memoria storica e, allo stesso tempo, alla tralizzante, superato solo grazie a un attento programsformazione del territorio attraverso strutture moma di interventi, che ha rivelato il limite di aver fatderne; da qui la metafora di “Fabbrica della Conoto partire l’attività di un Ateneo senza che questo scenza”, utile a rappresentare il passaggio verso la disponesse delle sedi sufficienti per sostenere la formazione di aree dense di attività culturali. crescita con rassicurante tranquillità. La scelta di insediare Roma Tre nel quadrante sudQuesto allargamento del bacino di influenza si è ovest della città, tra la via Ostiense e viale Marconi, saldato in modo del tutto naturale con il rafforzaha seguito quindi l’obiettivo di realizzare un Ateneo mento, all’interno inserito nella città, della politica accaintegrato e senza demica, del “potere barriere, destinato a della didattica” e riqualificare un setquindi delle Facoltà tore che, all’inizio che, contraddicendo degli anni Novanta, le intenzioni iniziaera ancora abbonli, sono diventate il dantemente inutilizfattore di normalizzato e, in alcune sue zazione dell’assetto parti, soggetto a edilizio. Il progresforte degrado. sivo assestamento Anche la scelta acha determinato il cademica ha avuto formarsi di quattro una direzione chiainsediamenti princira: privilegiare le pali, comprendenti strutture di ricerca, le otto Aree didattiaffidando ai Diparche: Valco San Paotimenti, e non alle lo; l’asse lungo la Facoltà, il compito via Ostiense; l’ex di impiantare l’asMattatoio di Testacsetto edilizio. Il successo delle Progetto Valco San Paolo - Coordinamento del Piano di Assetto, Rettore prof. arch. cio; e, più eccentrica, la sede di piazza iscrizioni ha obbli- Mario Panizza

primo piano

di Mario Panizza

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Polo Tecnologico - Progetto Piano di Assetto, Rettore prof. arch. Mario Panizza, progetto prof. arch. Michele Furnari

Accordi di Programma Il 23.06.1993 viene stipulato il I Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Roma e il Comune di Roma. Basato su uno studio di fattibilità dell’Università La Sapienza, l’Accordo prevede che il nuovo Ateneo si insedi nell’ambito territoriale Valco San Paolo / Ostiense in modo che la città risulti “dotata di un nuovo rilevante complesso di attrezzature per la cultura, per la ricerca, per la didattica”. A questo scopo si individua una dotazione di immobili e aree per un totale di mq 60.316 distribuiti in due zone: al Valco San Paolo per mq 50.701 e all’Ostiense per mq 9.615 (tabella E/1 e F/1 allegate al III Accordo di Programma). A fronte di tale dotazione vanno realizzati standard di parcheggio (pertinenziali e pubblici) per un totale di mq 43.707. Il 23.07.1998 viene stipulato il II Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Roma e il Comune di Roma. L’Accordo prevede la realizzazione del nuovo Ateneo non solo nell’ambito territoriale di Valco San Paolo / Ostiense, ma anche in quello di Ostia Lido. A tal fine si incrementa la disponibilità degli spazi per un totale di mq 108.969 (all’Ostiense per mq 74.138, al Valco per mq 27.085 e a Ostia per mq 7.745) portandola a complessivi mq 169.285. Nello stesso Accordo per la prima volta viene definito uno standard universitario di mq 9 per studente, per cui la dotazione totale è stimata in circa 18.000 studenti. Infine, a fronte di tale dotazione vanno realizzati standard di parcheggio (pertinenziali e pubblici) per un totale aggiuntivo, rispetto a quanto già previsto, di mq 89.315. Il 13.04.2000 viene stipulato il III Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Roma e il Comune di Roma per l’approvazione della localizzazione di aree e strutture da destinare a sedi universitarie. Il nuovo Accordo muove dalla constatazione che le dotazioni previste nei due precedenti accordi “non soddisfano pienamente le esigenze insediative” di Roma Tre. Per meglio disciplinare queste previsioni di sviluppo viene redatto il ‘Progetto Urbano Ostiense-Marconi’ con l’obiettivo principale di verificare la capacità di questa parte della città di accogliere nuovi interventi e di definire gli indirizzi per la realizzazione degli interventi di insediamento di Roma Tre. A seguito poi di una verifica dello stato di attuazione degli Accordi precedenti, vengono riviste le assegnazioni complessive dei due Accordi precedenti (vedi tabella G/1, H/1 e I/1 allegate al III Accordo di Programma), per cui la dotazione complessiva del II Accordo di Programma viene portata da mq 108.968 a mq 141.667. Vengono inoltre concessi ulteriori mq 34.675 all’Ostiense in modo che la dotazione totale dei tre Accordi sia portata a mq 236.658, sufficiente (in base allo standard di mq 9) a una popolazione di circa 26.300 studenti. Il 28.12.2004, sulla base di una documentazione presentata al Sindaco nell’aprile 2002, concernente le esigenze di sviluppo dell’Ateneo, viene stipulato il IV Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Roma e il Comune di Roma per l’approvazione della localizzazione di aree e strutture da destinare a sedi universitarie e per il piano di utilizzazione del complesso dell’ex-Mattatoio. Si prende atto dell’esigenza di aggiornare il progetto Urbano Ostiense-Marconi quale strumento procedurale che regoli la trasformazione dell’area “mediante l’inserimento di importanti funzioni urbane, quali quelle universitarie ritenute in grado di contribuire in termini sostanziali alla riqualificazione e allo sviluppo dell’intero quadrante urbano”. Si procede di conseguenza ad alcuni assestamenti delle assegnazioni precedenti sia stralciando immobili precedentemente assegnati (ad esempio Mercati Generali) sia mediante nuove assegnazioni (comparto Ostiense-Garbatella) per cui la dotazione complessiva sui tre ambiti urbani – Ostiense per mq 157.223, Valco San Paolo per mq 76.052 e Ostia per mq 7.745 – risulta di mq 241.020 sufficiente (in base allo standard di mq 9) a una popolazione di ca 26.700 studenti.


della Repubblica collegata a Castro Pretorio. È questo il piano, ormai consolidato, intorno al quale si sta rafforzando l’intero assetto dell’Ateneo, riassorbendo anche quelle funzioni amministrative che, ancora troppo parcellizzate, riducono l’efficienza del servizio. Il riordino in un numero molto più contenuto di Dipartimenti e la soppressione delle Facoltà non dovrebbe incidere eccessivamente sull’impianto edilizio, in quanto la riunificazione della didattica e della ricerca tenderà naturalmente a confermare la strategia delle Aree. Potrebbe addirittura mitigare il prevalere delle priorità didattiche e far riemergere il disegno dei poli di ricerca. Il progetto urbanistico di perseguire una stretta relazione con la città ha conservato invece una linea di attuazione coerente: l’Ateneo ha sempre inteso proporsi come parte costituente di un tessuto sociale e il suo impegno è rimasto diretto al recupero e alla riconversione dell’edilizia esistente, con l’obiettivo di ottimizzare la presenza universitaria all’interno della città. Negli anni quattro Accordi di programma hanno

portato, su tre ambiti urbani, a una dotazione complessiva di mq 241.020 (Ostiense mq 157.223, Valco San Paolo mq 76.052 e Ostia mq 7.745) sufficiente, secondo lo standard di 9,5 mq/studente fissato dal piano strategico degli Atenei romani, a una popolazione di circa 26.700 studenti. Al momento sono utilizzati, per la didattica, la ricerca e i servizi generali,

La scelta di insediare Roma Tre nel quadrante sud-ovest della città, tra la via Ostiense e viale Marconi, ha seguito quindi l’obiettivo di realizzare un Ateneo inserito nella città, integrato e senza barriere, destinato a riqualificare un settore che, all’inizio degli anni Novanta, era ancora abbondantemente inutilizzato e, in alcune sue parti, soggetto a forte degrado

Aula Magna della Facoltà di Architettura - Progetto Recupero Ex Mattatoio prof. arch. Francesco Cellini; Progetto del Padiglione 8 prof. arch. Stefano Cordeschi

aree e superfici per un totale di 195.206 mq. Di questi, 117.617 sono immobili e aree che ricadono all’interno degli ambiti urbani Ostiense e Valco San Paolo, come da Accordi di programma, mentre 77.589 sono relativi a immobili al di fuori delle assegnazioni degli Accordi di programma. In base ai quattro Accordi di programma rimangono perciò a disposizione, negli ambiti urbani Ostiense, Valco San Paolo e Ostia, immobili e aree per totali mq 123.403. L’attuale piano per lo sviluppo edilizio parte dalla situazione di 5,14 mq/studente e, non prevedendo, almeno nei tempi medi, sensibili incrementi o decrementi di studenti, il raggiungimento dello standard ottimale di 9,5 mq/studente comporterebbe quasi il raddoppio della superficie edilizia attuale. Si ritiene tuttavia che il conseguimento dell’obiettivo di 7 mq/studente, intermedio tra quello attuale e quello ottimale, possa assicurarci una condizione di buona qualità. La programmazione dei prossimi anni tenderà proprio a questo e si rivolgerà a consolidare l’insediamento nel settore urbano Ostiense-Marconi. Assumere come riferimento uno standard di 7 mq/studente è d’altronde giustificato dal fatto che Roma Tre, al contrario degli altri due Atenei romani, non ha attivato la Facoltà di Medicina e quindi non necessita degli ampi spazi destinati ai reparti clinici. Nella programmazione dei prossimi anni è prevista l’attuazione del

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Residenze universitarie - Progetto Piano di Assetto, Rettore prof. arch. Mario Panizza, progetto prof. arch. Lorenzo Dall’Olio

Quinto Accordo di programma (Roma Tre, Comune di Roma, Regione Lazio, Provincia di Roma) che dovrà mettere ordine tra le esigenze di Roma Tre e le assegnazioni da parte degli enti locali. Esso sarà destinato pertanto a ridefinire gli intendimenti accettati dall’Ateneo e dall’amministrazione comunale sul modello di quanto avvenuto negli anni passati con la sequenza degli Accordi di programma. Con tale strumento sarà possibile trattare in modo omogeneo l’insieme delle necessità dell’Ateneo nel breve e medio periodo: aree da concedere in aggiunta o in sostituzione da parte dell’amministrazione comunale; progetti da approvare attraverso un calendario di scadenze che tenga conto delle realizzazioni per stralci successivi; ma anche adeguamenti di indice, cambi di destinazione d’uso, accorpamenti di quantità edificatorie tra aree limitrofe etc. Solo attraverso un quadro, precisato nelle linee generali, dal quale possano discendere i singoli provvedimenti attuativi, sarà possibile infatti programmare con buona approssimazione lo sviluppo edilizio e rivolgersi alla ricerca dei finanziamenti futuri. Il piano di accrescimento delle superfici edificate si pone d’altronde quell’obiettivo realistico di 7 mq/studente, che potrebbe essere raggiunto nell’arco di otto-

dieci anni. Il nuovo Accordo di programma dovrà rispondere ai temi generali del Piano di assetto urbano Ostiense-Marconi: aggiornamento della viabilità, riqualificazione degli spazi pubblici, completamento della pianificazione di via Ostiense e di Valco San Paolo, interconnessione tra Ostiense-Marconi e Garbatella, Mercati Generali e Italgas, assegnazione di nuove aree. Ciò risulta prioritario per non smarrire il disegno di un sempre più convinto radicamento dell’Ateneo nel tessuto urbano. Tutti i servizi – parcheggi, trasporti, aree verdi etc. – vanno coordinati con le amministrazioni pubbliche affinché il rapporto tra la comunità scientifica e gli abitanti sia sempre più fluido e possa svolgere una concreta funzione socializzante. Con gli interventi programmati, in esecuzione nei prossimi anni, la dotazione ordinaria delle strutture didattiche, di ricerca e amministrative raggiungerà quindi un livello soddisfacente; l’impegno edilizio potrà mirare, finalmente con maggiore determinazione, verso quegli obiettivi, non meno prioritari, destinati a soddisfare le esigenze di quanti permangono a lungo nelle sedi universitarie: gli studenti, i professori, i tecnici, gli amministrativi. Dovrà essere avviata pertanto una solida programmazione di strutture di supporto, comprendendo al loro interno i laboratori scientifici, gli spazi espositivi, le residenze studentesche, le mense, gli impianti sportivi, l’asilo nido, le sedi per le attività associative, i luoghi per il tempo libero etc. Roma Tre dispone di alcune strutture destinate ad attività complementari – la sede di Allumiere, Villa Maruffi, lo Stadio Berra – ed è in attesa della realizzazione delle residenze di vicolo Savini e del completamento degli impianti sportivi di Valco San Paolo. Soprattutto nei confronti dei fuori sede, che a Roma sono circa il 50% degli iscritti, le strutture di supporto alla didattica e alla ricerca potranno rappresentare la vera discriminante tra gli Atenei, determinando il grado di attrattività sugli studenti e Vasca Navale - Coordinatore Progetto Recupero della Vasca Navale prof. Andrea orientando di conseguenza le scelte sulle Vidotto (foto Andrea Jemolo) iscrizioni. Sarà necessario infatti insegui-


re lo standard delle università più “ricche”, sia per Il nuovo Accordo di programma dovrà innalzare il livello di valutazione in campo nazionarispondere ai temi generali del Piano di le, sia per convincere i potenziali iscritti a mantenere assetto urbano Ostiense-Marconi: su Roma Tre un giudizio di preferenza. I laboratori scientifici e didattici dovranno rappreaggiornamento della viabilità, sentare l’aggiunta di qualità e, di conseguenza, la riqualificazione degli spazi pubblici, ragione per far emergere il valore dell’offerta; mencompletamento della pianificazione di se, attrezzature sportive e per il tempo libero dovranno costituire un ulteriore elemento distintivo via Ostiense e di Valco San Paolo, capace di caratterizzare l’insieme delle dotazioni. È interconnessione tra Ostiense-Marconi e indispensabile pertanto, stante la scarsità di risorse, attivare forme di cofinanziamento e cogestione, anGarbatella, Mercati Generali e Italgas, che sperimentali, che incrementino il campo delassegnazione di nuove aree. Ciò risulta l’offerta complessiva, proprio sfruttando il valore prioritario per non smarrire il disegno di della collocazione urbana di Roma Tre. Una valutazione a parte riguarda le residenze per gli un sempre più convinto radicamento studenti fuori sede che, come visto, interessano circa dell’Ateneo nel tessuto urbano la metà degli iscritti. Attualmente la richiesta di alloggi è soddisfatta, nella maggior parte dei casi, dal zio perseguita, tra università e tessuto urbano. Solo mercato privato attraverso posti-letto a costi molto la sovrapposizione funzionale tra Ateneo e città poelevati che ha generato e continua a generare una sitrà infatti assicurare uno sviluppo pienamente intetuazione particolarmente disagiata. La risposta uffigrato, mantenendo chiaro l’obiettivo di far parteciciale a questa esigenza viene dall’Azienda per il Dipare più attori alla pianificazione della città e al reritto allo Studio che però, attraverso le Case per gli cupero di quelle aree non ancora del tutto emerse studenti e gli alloggi convenzionati, riesce a soddidal degrado edilizio. sfare solo una parte marginale della domanda. Per concorrere alla soluzione del problema le università dovrebbero essere coinvolte direttamente nei progetti di “Social Housing” e dovrebbero partecipare, all’interno di un accordo tra organismi pubblici e privati, alla predisposizione di programmi che non mirino esclusivamente alla dotazione ad hoc di case per studenti, ma stabiliscano, e possibilmente impongano, le quantità da riservare ai fuori sede a un canone calmierato. Ne deriverebbe un piano articolato che combini la soluzione economica dell’affitto e del contenimento dei costi di gestione con il miglioramento del controllo sociale e della manutenzione degli immobili attraverso il coinvolgimento degli studenti, che diventerebbero i responsabili diretti degli alloggi. Per la realtà di Roma Tre questa opportunità rappresenterebbe un ulteriore pas- Vasca Navale - Coordinatore Progetto Recupero della Vasca Navale prof. Andrea saggio verso l’integrazione, fin dall’ini- Vidotto (foto Andrea Jemolo)

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Democrazia e postdemocrazia Una diagnosi dei mondi globali di Giacomo Marramao

Prima di pronunciare la mia relazione, desidero esprimere la mia gratitudine al Direttore dell’Istituto Svizzero Christoph Riedweg per avermi invitato a questo importante ciclo dei “Discorsi d’attualità” e rivolgere il mio saluto al Presidente Charles Kleiber (già Segretario di Stato per l’EducazioGiacomo Marramao ne e la Ricerca) e all’Ambasciatore Svizzero Bernardino Regazzoni. Sono inoltre particolarmente felice e onorato di incontrarmi in questa sede con la “Presidenta” (mi permetta di chiamarla così) Ruth Dreifuss: la prima donna che abbia ricoperto la Presidenza della Confederazione Svizzera, ma anche una politica e un’intellettuale che ha saputo affrontare con apertura e rigore le nuove sfide del diritto e della giustizia nel mondo globalizzato. Il tema che ci è stato assegnato investe nodi cruciali del nostro tempo. Ma è un tema di un’ampiezza tale che si sarebbe tentati di affrontarlo con osservazioni puntuali intese come note in margine: come “Randbemerkungen” o “Glosse” sull’attuale stato del mondo. Non si tratta di una battuta, ma del ricalco del titolo del discorso di apertura al meeting annuale dell’InterAction Council tenuto a Vienna il 21 maggio 2007 dall’ex-Cancelliere tedesco Helmut Schmidt: Observations on the Present State of the World. Dal canto mio, presenterò le mie “glosse” in forma di tesi: otto tesi che, nella loro interconnessione, intendono delineare la mia “cartella diagnostica” del mondo globale. Un mondo che viene oggi a trovarsi in una situazione di instabilità e incertezza, nel momento in cui attraversa una cruciale fase di passaggio tra il vecchio ordine internazionale e un nuovo ordine sovranazionale i cui profili stentano ancora a delinearsi. La postnationale Konstellation di cui parla Jürgen Habermas sta di conseguenza ad indicare, nella mia prospettiva, non un punto d’approdo ma una fase provvisoria di transito (o anche di stallo) verso un nuovo assetto del mondo. Vengo, dunque, ad enunciare le mie tesi.

La prima tesi è un tentativo di risposta a una domanda ricorrente non solo nell’ambito della “triste scienza”, ossia l’economia, ma nel meno triste, talora anche fin troppo ottimistico o edificante, entourage dei sociologi: Che cos’è la globalizzazione? Come ho tentato di argomentare (e documentare) nei miei lavori degli ultimi quindici anni, la cosiddetta mondializzazione – rectius: il complesso di fenome-

ni che siamo soliti raccogliere sotto lemmi quali mondialisation, Globalisierung, globalization – non è un fenomeno riconducibile a una logica unitaria, a una mono-logica: sia nel senso sdrammatizzante e armonizzante della “fine della Storia” (della Storia intesa come campo millenario di conflitti tra potenze o tra blocchi ideologici contrapposti) in un mercato mondiale finalmente unificato sotto il principio della libera concorrenza (F. Fukuyama); sia nel sen-

La globalizzazione – o meglio questa globalizzazione – si presenta con un profilo ancipite, accessibile solo alla luce di un approccio bi-logico. Essa appare infatti segnata dalla compresenza e coabitazione conflittuale di due trend: la tendenza alla uniformazione tecnoeconomica e la tendenza alla diaspora cultural-identitaria

so allarmistico o apocalittico di uno scenario postideologico globale attraversato da uno “scontro di civiltà” (S. Huntington). Al contrario, la globalizzazione – o meglio questa globalizzazione – si presenta con un profilo ancipite, accessibile solo alla luce di un approccio bi-logico. Essa appare infatti segnata dalla compresenza e coabitazione conflittuale di due trend: la tendenza alla uniformazione tecno-economica e la tendenza alla diaspora cultural-identitaria. Riguardo al primo lato, occorre precisare che il tratto distintivo dell’attuale globalizzazione non è dato dalla mera unificazione dei mercati: come gli storici dell’economia più seri hanno da tempo documentato, il mercato mondiale era molto più interdi-

Ruth Dreifuss


pendente nella fase storica che va dal 1870 al 1914 (fase concordemente definita come “età dell’imperialismo”). Il profilo peculiare della mondializzazione odierna va piuttosto rintracciato in un fenomeno inedito: l’intreccio dei mercati finanziari con lo straordinario moltiplicatore rappresentato dalle tecnologie postelettroniche e digitali del “tempo reale”. Il potenziale che si sprigiona da questo intreccio consente ai capitali finanziari di dislocarsi da un’area all’altra del pianeta con una velocità prossima al “grado zero” dell’istante, senza che la sovranità dei singoli stati (ivi compresi gli stessi Stati Uniti d’America) possa esercitare su questa spinta transfrontaliera e “deterritorializzante” il minimo controllo. Non per nulla alcuni studiosi hanno coniato per questa nuova fase il neologismo “Finanzcapitalismo” (anche se – detto per inciso – sarebbe interessante andare a verificare in che misura alcuni tratti costitutivi della nuova forma di organizzazione del capitale globale erano stati intravisti, già nel lontano 1911, da Rudolf Hilferding nel suo Finanzkapital). Riguardo all’altro lato della doppia logica del globa-

Il mondo globale viene oggi a trovarsi in una situazione di instabilità e incertezza, nel momento in cui attraversa una cruciale fase di passaggio fra il vecchio ordine internazionale e un nuovo ordine sovranazionale i cui profili stentano ancora a delinearsi

le, va rilevato un paradossale contrappasso: quanto più avanza il processo di omologazione tecno-finanziaria, tanto più si differenziano le Lebenswelte: dove, sotto la categoria (spesso usata dallo stesso Habermas) di “mondi-della-vita”, vanno intese non solo le “differenze culturali” o le varie “comunità immaginate” translocali o fondamentaliste, ma soprattutto le varianti etiche e antropologiche specifiche che il capitale globale tende ad assumere nelle diverse aree del pianeta. Il “sistema-mondo” di cui parlava anni fa Immanuel Wallerstein sulla scorta di Fernand Braudel appare, pertanto, simultaneamente concentrato nelle sue logiche di potere e diffuso nelle sue strutture di organizzazione sociale e nelle sue forme simbolico-identitarie. Come in Der Mann ohne Eigenschaften di Robert Musil o nel recente film Babel (2006) del regista messicano Alejandro Gonzáles Iñárritu, il nostro mondo tecnologicamente e comunicativamente uniformato appare sempre più simile, come la Kakania o la Torre di Babele, a una ricapitolazione cacofonica di proliferanti e intraducibili idiomi.

Vengo alla seconda tesi. Lo sdoppiamento “bi-logico” tra il trend di uniformazione del capitale globale e il trend di differenziazione delle forme-di-vita dà luogo a una struttura di relazione bidirezionale tra il “Supercapitalismo” (R. Reich) e l’articolazione geoculturale del mercato globale. Senza tale articolazione, ogni approccio di tipo geopolitico è destinato ad assumere sembianze antiquarie. Abbiamo qui a che

fare con un radicale mutamento dell’ordine della spazialità: non solo nel senso – come molti vanno dicendo – che si è passati dallo spazio moderno allo spazio globale, ma piuttosto nel senso che le logiche ‘dure’ del potere sono emigrate dagli spazi dei sistemi politici rappresentativi per radicarsi sempre più nella nuova spazialità non-euclidea disegnata dai rapporti tra geoeconomia e geocultura. Ci troviamo

Il “sistema-mondo” di cui parlava anni fa Immanuel Wallerstein sulla scorta di Fernand Braudel appare, pertanto, simultaneamente concentrato nelle sue logiche di potere e diffuso nelle sue strutture di organizzazione sociale e nelle sue forme simbolico-identitarie

così al cospetto di due conseguenze rilevanti, decisive per il futuro del mondo. In primo luogo: il Potere non è una nozione obsoleta, come aveva sostenuto il postmoderno filosofico. Non è, come aveva affermato Richard Rorty nella sua raccolta di saggi Truth and Progress, una sorta di Fantasma dell’Opera effimeramente rievocato da Michel Foucault ma destinato a essere relegato nel retrobottega del Teatro filosofico occidentale. In secondo luogo: il Potere non è neppure – come pensa il mio amico e collega Habermas – un residuo di “intrasparenza” destinato progressivamente a dissolversi con la crescita di una comunicazione razionale e herrschaftsfrei, “liberadal-dominio”. Il potere è piuttosto un fenomeno che attraverso la comunicazione si alimenta, spostando

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costantemente i propri baricentri strategici. Questi baricentri si trovano oggi dislocati nei mercati economici. A rigore, anzi, non si dovrebbe più parlare di Mercato, ma dei nuovi poteri finanziari che, per il tramite dei mercati e dei nuovi media della comunicazione, determinano le politiche dei governi. Il fenomeno della politica necessitata, i cui vincoli sono precostituiti dai poteri della finanza globale, investe tuttavia le democrazie occidentali in misura molto maggiore dei sistemi politici di altre aree: come ad esempio quelle dell’Asia e dell’America Latina (a partire da paesi come Cina, India e Brasile). In quei paesi il capitale globale viene – come accennavo prima – declinato in forme etico-culturali sensibilmente diverse da quelle del capitalismo occidentale: in forme tendenzialmente anti-individualistiche (India), comunitario-gerarchiche (Cina) e solidaristiche (Brasile). Per questa ragione ho insistito nei miei lavori sulla necessità di rivedere il (pur straordinario) quadro comparativo delle etiche economiche consegnato da Max Weber nella Religionssoziologie: quadro nel quale le etiche extra-occidentali (a partire dal confucianesimo) venivano ritenute sostanzialmente inadeguate a promuovere lo sviluppo di una società dinamica e produttiva. Un analogo limite è dato tuttavia riscontrare (con una parziale revisione negli ultimi anni) nella stessa prognosi sul futuro del capitalismo stilata da Marx: per il quale il progressi-

Una economia di mercato non determina una società di mercato. Per questa decisiva ragione il capitale deve di volta in volta adattarsi, come un camaleonte, a forme di relazione sociale modellate nei diversi contesti su basi etiche e antropologico-culturali differenti

vo espandersi del modo di produzione capitalistico avrebbe determinato una sostanziale omologazione dei rapporti sociali a livello planetario. Oggi possiamo invece constatare che il dominio capitalistico su scala globale non produce una mera uniformazione ma dà luogo a una simultanea differenziazione delle forme di organizzazione sociale. Ma l’effetto di questo fenomeno ha una portata enorme, riassumibile nella seguente formula: il modo di produzione fondato sulla forma-merce non produce società. Detto in breve: una economia di mercato non determina una società di mercato. Per questa decisiva ragione il capitale deve di volta in volta adattarsi, come un camaleonte, a forme di relazione sociale modellate nei diversi contesti su basi etiche e antropologicoculturali differenti. Inoltre, nell’attuale scenario globale società plasmate da etiche di tipo comunitario sembrano capaci di sviluppare (certo, fra contraddizioni e conflitti, e con ibridazioni mostruose e inquietanti) livelli di produttività ben superiori alle società individualistiche e consumistiche dell’Occidente. Abbiamo così un paradosso alla seconda potenza, che mette in scacco i nostri pervicaci “orientalismi”: finanziarizzazione in Occidente, produzione in Oriente.

Terza tesi. Dobbiamo a un geografo attento alle implicazioni socioantropologiche della nostra condizione ipermoderna (termine che preferisco di gran lunga a postmoderno) come David Harvey la definizione del mondo globalizzato come un mondo caratterizzato dal fenomeno della “compressione spaziotemporale”. Si tratta di una formula indubbiamente suggestiva ed efficace. Ritengo tuttavia che essa vada assunta dissociando i due termini della congiunzione: il globale – o meglio: il glo-cal, determinato dal cortocircuito di global e local e dal double bind di globalizzazione del locale e localizzazione del globale – è sì compressione dello spazio, ma è an-

Dobbiamo a un geografo attento alle implicazioni socioantropologiche della nostra condizione ipermoderna (termine che preferisco di gran lunga a postmoderno) come David Harvey la definizione del mondo globalizzato come un mondo caratterizzato dal fenomeno della “compressione spazio-temporale”

che, contestualmente, diaspora del tempo. Per fare un esempio macroscopico: marines americani e miliziani iracheni o afghani si trovano compressi nello stesso spazio, ma vivono tempi qualitativamente diversi. Allo stesso modo, di tempi radicalmente diversi fanno esperienza gli immigrati che si trovano fianco a fianco con gli autoctoni nelle metropoli dell’Occidente. Non considerare questo fenomeno della


divaricazione tra spazialità del contatto e temporalità esperienziale preclude ogni possibilità di affrontare in modo congruo e politicamente efficace il tema cruciale dell’incontro fra culture e forme-di-vita nella globalizzazione. Vorrei ancora sottolineare il senso propriamente politico di questa sfida, che so essere particolarmente cara a Ruth Dreifuss anche sul terreno dei diritti e dei criteri di giustizia. Siamo al cospetto di una nuova scena, determinata dalla riemergenza – nella struttura ancor più complessa degli spazi pluriculturali delle nostre società – della pressione esercitata sulle forme tradizionali della rappresentanza politica di quelle potestates indirectae che caratterizzavano la vita delle istituzioni nella fase precedente la formazione degli Stati-nazione moderni (aspetto che si avverte meno nella Confederazione Svizzera, trattandosi di uno Stato plurilinguistico aperto da sempre alle differenze religiose e culturali). Le autocitazioni sono sempre poco eleganti. Vi prego, dunque, di scusarmi se, per ragioni meramente funzionali alla mia argomentazione, ricorderò che, nel mio libro Passaggio a Occidente (di cui è pronta l’edizione inglese ampliata, con il titolo The Passage West. Philosophy After the Age of The Nation State, Verso, London-New York 2012), ho paragonato l’attuale processo di destrutturazione della forma-Stato sovrana della modernità alla proiezione all’indietro del film della sua genesi e formazione. In breve: destrutturandosi, lo Stato sembra fare emergere, uno dopo l’altro, le diverse componenti, i diversi “mattoni”, con cui il suo edificio era stato costruito. Vediamo così riemergere quelle “potestà indirette” che erano state progressivamente neutralizzate (ma mai completamente debellate) con l’av-

vento della sovranità: poteri economici, poteri religiosi e poteri culturali, con le loro prerogative e i loro privilegi. Ma vi è una differenza decisiva. Il ritorno di queste potestà avviene oggi in un tempo e in uno spazio segnato da un radicale mutamento della composizione culturale delle nostre società che, in assenza di un governo politico della dinamica in corso, rischia di innescare una mutazione delle nostre democrazie in assetti corporativi o populistici di stampo “postdemocratico”. Il tutto in uno scenario che il dibattito corrente tende a rubricare sotto la formula – per molti aspetti equivoca e ingannevole, come vedremo – del “multiculturalismo”.

Quarta tesi. Alla luce delle ragioni dette, la nostra epoca globale può essere certo definita poststatuale,

La nostra epoca globale può essere certo definita poststatuale, ma non postmoderna. Essa appare sì segnata da una tensione duale tra sovranità democratica e vecchie-nuove forme di potestà indiretta (di tipo economico, religioso e culturale). Ma proprio per la presenza attiva di questi poteri indiretti non può essere neppure definita come una forma di “modernità liquida” (seconda la fortunata formula di Zygmunt Bauman)

ma non postmoderna. Essa appare sì segnata da una tensione duale tra sovranità democratica e vecchienuove forme di potestà indiretta (di tipo economico, religioso e culturale). Ma proprio per la presenza attiva di questi poteri indiretti non può essere neppure definita come una forma di “modernità liquida” (seconda la fortunata formula di Zygmunt Bauman). Nessun liquido, nessun corso – a partire da quello monetario – si dà senza una sorgente. E anche nel mondo globalizzato la sorgente (talora palese, talora occulta) va rintracciata, risalendo all’indietro il corso dei flussi, nei poteri di fusione della ipermodernità globale, quasi sempre dislocati rispetto ai luoghi ‘deputati’ della rappresentanza e degli stessi governi. In breve: il fatto che il nostro “ordine posthobbesiano”, come lo ha definito Philippe Schmitter, ci restituisca talvolta dei tratti prehobbesiani, non significa che il discorso del e sul potere debba seguire la medesima sorte del torreggiante concetto di sovranità. Solo ridefinendo e ritematizzando il contrasto tra politica e potere è possibile, pertanto, fronteggiare le minacce della postdemocrazia (termine che assumo qui in un’accezione diversa da quella proposta da Colin Crouch).

Quinta tesi. Dobbiamo prendere atto del collasso dei due principali modelli di integrazione nella cittadinanza che abbiamo finora teorizzato e praticato in Occidente: il modello dell’universalismo identitario, proprio delle versioni assimilazioniste di matrice re-

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pubblicana, e il modello del differenzialismo antiuniversalista, proprio delle versioni “forti” del multiculturalismo (il multiculturalismo “a mosaico”, secondo la definizione di Seyla Benhabib, o, come io preferisco chiamarlo, il multiculturalismo dei “ghetti contigui”). Per semplificare all’estremo, sperando di farvi divertire come faccio con i miei studenti, potrei sinteticamente denominarli modello-République e modello-Londonistan. Il primo prospetta la sfera pubblica della cittadinanza come uno spazio egualitario ma indifferenziato in cui tutti sono cittadini, a prescindere dalle differenze sociali, religiose, culturali, ma anche dalla differenza di sesso (ne seppe qualcosa la povera cittadina Olympe de Gouges,

La pluralità non è soltanto interculturale ma anche intra-culturale, non solo intersoggettiva ma anche intrasoggettiva, non solo fra identità diverse ma interna alla costituzione simbolica di ciascuna identità: sia essa individuale o collettiva

ghigliottinata per aver osato scrivere una “Dichiarazione dei diritti della donna”…). Il secondo delinea al contrario la sfera pubblica come uno spazio in cui ogni “differenza” deve presentarsi nei suoi tratti specifici come un raggruppamento omogeneo che sta accanto agli altri come una autoconsistenza insulare, come una monade senza porte né finestre (difficile, allora, dar torto a Slavoj Žižek quando osserva che questo modo di intendere e praticare la “tolleranza multiculturale” è il terreno di coltura più propizio per l’insorgere dei fondamentalismi). Si tratta allora di comprendere che entrambi i modelli dipendono in ultima istanza da un paradigma identitario: quello che si presenta come multiculturalismo altro non è – secondo la definizione calzante di Amartya Sen – che un “monoculturalismo plurale” o, se si preferisce, una pluralità (statica) di monoculture presuntivamente omogenee. Si tratta allora, nella politica come nella cultura, di prendere definitivamente congedo dalla logica dell’identità e della reductio ad Unum. La mappa dei problemi che la globalizzazione ci presenta, nell’attuale fase di passaggio dalla modernità-nazione alla modernità-mondo, segnala che noi viviamo in un doppio movimento di contaminazione e di differenziazione. Dobbiamo pertanto partire dalla realtà del meticciato, e non semplicemente – come affermano le filosofie politiche variamente ispirate al neocontrattualismo di John Rawls, dal “fatto del pluralismo”. La pluralità non è soltanto inter-culturale ma anche intra-culturale, non solo intersoggettiva ma anche intrasoggettiva, non solo fra identità diverse ma interna alla costituzione simbolica di ciascuna identità: sia essa individuale o collettiva. Risiede qui la decisiva ragione che mi ha spinto ad avanzare la proposta di un universalismo della differenza: di un nuovo pattern teorico – nettamente demarcato per un verso dall’universalismo dell’identità di stampo illuministico, per l’altro dall’antiuniversalismo delle differenze di stampo

multiculturalista – in cui il concetto di differenza (al singolare) funge da criterio e vertice ottico che attraversa ogni coagulo identitario (da assumere, pertanto, in chiave anti-essenzialistica, come risultato contingente di processi dinamico-relazionali). Di conseguenza, la stessa riattualizzazione, nell’ambito della filosofia sociale e politica (penso soprattutto ad autori come Paul Ricoeur e Axel Honneth), della tematica della “lotta per il riconoscimento” (desunta dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel) rischia di ricadere nel paradigma identitario nel momento in cui assume le identità da riconoscere come un dato anziché come un problema.

Sesta tesi. La forma dominante del conflitto del nostro tempo è in ultima istanza riconducibile a un meccanismo simbolico di reazione ai fenomeni di meticciato e ibridazione crescente. La sensazione di sradicamento indotta dalla velocità crescente della compressione e interpenetrazione fra le diverse forme-di-vita spinge a cercare stabilità e sicurezza in comunità blindate improntate a una pervicace ossessione identitaria. Nella prima edizione di Passaggio a Occidente (2003) ho sostenuto, prima che lo sostenesse Amartya Sen nel suo brillante saggio Identity and Violence (2006), che i conflitti dell’era globale presentano caratteri assai più simili ai conflitti fondamentali che avevano segnato le guerre civili confessionali nella fase pre-Westphalia che ai conflitti di classe tipici dell’età industriale. La drammaticità che oggi viene ad assumere il nesso identità-violenza – con il correlato fenomeno dei fondamentalismi – può essere pertanto spiegata solo alla luce di una diagnosi specifica e circostanziata dei meccanismi


che hanno prodotto l’insorgenza della dominante identitaria del conflitto. In uno scenario globale che viene sempre più differenziandosi in grandi aree geoculturali e geoeconomiche e vede sempre più restringersi gli spazi di manovra e le pretese egemoniche dell’Occidente, sotto la spinta dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica); in questo scenario che ha indotto alcuni filosofi (come per esempio Jean-Luc Nancy) ad azzardare paragoni con la Grossraumpolitik del secolo scorso, fino ad affermare che «gli anni Trenta sono davanti a noi»; ebbene, proprio in questo scenario l’Europa avrebbe in potenza tutte le carte per delinearsi (rovesciando le prognosi dei suoi grandi intellettuali, da Hegel a Marx, da Tocqueville a Weber) come il futuro dell’America. E ciò per due ragioni. In primo luogo, l’Europa ha già conosciuto – per dirla con Voltaire – “l’inferno in questa vita” durante le guerre di religione e – possiamo aggiungere noi – nel corso della lunga guerra civile del Ventesimo secolo; e, avendo fatto esperienza della diversità e della lotta mortale fra irriducibili differenze, sa che la propria identità non potrà mai fondarsi sulla loro soppressione; sa che la vera lingua dell’Europa è la traduzione, che nell’idea della traduzione (em-

Quello che si presenta come multiculturalismo altro non è – secondo la definizione di Amartya Sen – che un “monoculturalismo plurale” o, se si preferisce, una pluralità (statica) di monoculture presuntivamente omogenee. Si tratta allora, nella politica come nella cultura, di prendere definitivamente congedo dalla logica dell’identità e della reductio ad Unum

patica, non meccanica) tra le diverse storie e formedi-vita si trova consegnata anche la chiave segreta di ogni politica; sa che il suo essere-in-comune dipende, ad onta della frattura delle sue Nazioni, dalla miracolosa somiglianza delle sue straordinarie cittàmondo (Ginevra, Venezia, Amsterdam, Firenze, Barcellona, Genova, Palermo, Marsiglia, Napoli, Amburgo, Roma, Parigi, Londra, Anversa, Zurigo, Milano…), che hanno sperimentato nel corso dei secoli forme di integrazione orizzontale tra etnie, culture, religioni, improntate a una logica radicalmente diversa dall’integrazione verticale degli Stati nazionali (dove nella compartimentazione fra le diverse nazionalità si perdeva l’intensità degli intrecci e la fecondità dell’ibridazione fra le diverse storie). Per tutte queste ragioni sono convinto che una comunità europea dovrebbe basarsi sulla politica della traduzione tra forme-di-vita e tradizioni diverse sperimentata dall’Europa delle città, anziché affidarsi passivamente alle logiche conflittual-consociative dell’Europa delle nazioni. In secondo luogo, nel bagaglio della sua straordinaria tradizione culturale e filosofica, l’Europa disporrebbe degli strumenti per delineare un tertium – non una “terza via”, poiché di ter-

ze vie sono lastricati i cimiteri del Ventesimo secolo – tra i modelli di globalizzazione prospettati dai due colossi dell’età globale, il modello individualisticocompetitivo statunitense e il modello paternalisticocomunitario cinese, riproponendo un’idea di individuo non competitivo ma solidale e un’idea di comunità non gerarchica ma tesa a valorizzare la singolarità irriducibile di ciascuna/o.

Una comunità europea dovrebbe basarsi sulla politica della traduzione tra formedi-vita e tradizioni diverse sperimentata dall’Europa delle città, anziché affidarsi passivamente alle logiche conflittualconsociative dell’Europa delle nazioni

Vengo così all’ottava e ultima tesi. L’Europa avrebbe la capacità di giocare un ruolo di avanguardia nel XXI secolo, invertendo il destino del tramonto assegnatole dai suoi grandi intellettuali otto-novecenteschi e ponendosi paradossalmente come futuro dell’America. Ma questa capacità la detiene, al momento, solo in potenza. Nella realtà effettuale, essa appare anni-luce distante dal ruolo di global player che dovrebbe competerle. Per colmare questo divario abissale tra potenza e atto non vi è che una strada: porsi come obiettivo la propria trasformazione da entità eminentemente economica e tecnomonetaria in vero e proprio soggetto politico. Ma per far ciò non dovrebbe limitarsi a ridefinire il proprio spazio e ruolo politico sulla scena globale, senza schiacciarlo sulla dimensione giuridico-amministrativa. Dovrebbe compiere un passo ben più coraggioso e decisivo: prendere congedo dalla fase del disincanto, innescata dal crollo delle ideologie ma ormai divenuta un alibi per un cinismo politico sempre più contestato dai movimenti di protesta, per porre all’ordine del giorno un “reincantamento” della politica. Reincantamento non deve significare in nessun caso re-mitizzazione o re-ideologizzazione, ma piuttosto una rottura con la tendenza entropica del sistema dei partiti, volto a restituire alla politica la sua funzione simbolica di orizzonte di senso dell’agire individuale e collettivo e di medium di comunicazione (anche conflittuale) fra le generazioni. Questa pare a me la sola via per sfuggire alla morsa delle due opposte e convergenti polarità neutralizzanti che stanno soffocando lo spazio politico: il polo del potere tecnofinanziario e il polo dei movimenti identitari di marca neopopulista e fondamentalista. In conclusione, l’endiadi su cui si regge il potere globale – disincanto politico/mito identitario – va diametralmente rovesciata nell’imperativo: reincantare la politica, demitizzare l’identità.

Questo testo riproduce la relazione tenuta da Giacomo Marramao in occasione di un confronto con Ruth Dreifuss (prima donna ad essere stata eletta Presidente della Confederazione Elvetica), organizzato dall’Istituto Svizzero di Roma il 12 aprile 2012, nell’ambito del ciclo Discorsi d’attualità. I testi delle relazioni di Marramao e Dreifuss saranno prossimamente pubblicati in volume in quattro lingue (italiano, inglese, francese e tedesco).

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«Sapere aude!» Scienza, valori e democrazia di Mauro Dorato

Il valore della conoscenza scientifica nella società contemporanea non si limita alle applicazioni tecnologiche che da essa scaturiscono, malgrado questo sia l’aspetto sul quale la percezione pubblica della scienza tipicamente si sofferma. Il sapere scientifico è infatti reso possibile da alcuni valori che fanno Mauro Dorato parte integrante del suo metodo. Tra questi l’oggettività (ovvero sia l’intersoggettività sia la postulazione di una realtà indipendente da noi) l’autonomia intellettuale ed etica (che dipende dalla responsabilità e dall’onere di mettere alla prova dei fatti le proprie credenze), e un atteggiamento critico nei confronti della tradizione che è forse il suo portato culturale più importante. In quel che segue cercherò brevemente di mettere in luce il legame tra questi valori e il metodo con il quale la scienza sottopone le sue ipotesi al tribunale della natura.

Il primo capitolo di Scienza e metodo, pubblicato più di cent’anni fa dal matematico francese Poincaré, si intitola La scelta dei fatti. Poincaré cita Tolstoj per sottolineare che non possiamo conoscere tutti i fatti, dato che essi sono di numero infinito: si deve necessariamente scegliere. Tuttavia, se la scelta dei fatti dipende da preferenze soggettive, fino a che punto le descrizioni di tali fatti possono essere valide per tutti?

Scienza, intersoggettività dei fatti e loro oggettività Il primo capitolo di Scienza e metodo, un classico della filosofia della scienza pubblicato più di cent’anni fa dal matematico francese Poincaré, si intitola La scelta dei fatti. Perché questo titolo in un testo che parla di fisica? Poincaré cita Tolstoj per sottolineare che non possiamo conoscere tutti i fatti, dato che essi sono di numero infinito: si deve necessariamente scegliere che cosa vogliamo conoscere, un po’ come quando decidiamo cosa visitare in un pae-

se straniero. Tuttavia, se la scelta dei fatti dipende da preferenze soggettive, fino a che punto le descrizioni di tali fatti possono essere valide per tutti? Il problema di come scegliere i fatti da conoscere si pone in modo non dissimile a uno scienziato, a uno storico e a un direttore di giornale. Nessuno è interessato a sapere esattamente quante vespe ci siano oggi in Italia, né di che colore fossero i calzini dei grandi elettori di Obama: più che tutte le verità, vogliamo verità interessanti per noi. Per esempio, l’utilità che la conoscenza di certi fatti può avere per la nostra sopravvivenza è un fattore che determina i nostri interessi in modo decisivo. Come illustrato dalla storia della medicina e della tecnologia, cerchiamo di conoscere fatti che servano a scopi pratici e migliorino le nostre condizioni di vita. Tuttavia, bisogna riconoscere che mentre nella fisica esistono fatti oggettivamente più importanti di altri – quelli ripetibili, nota Poincaré, si impongono naturalmente alla nostra attenzione, perché ogniqualvolta a certi eventi ne seguono sempre altri, possiamo formulare utili leggi predittive – nel mondo della biologia e ancor più in quello della storia, l’irripetibilità, l’individualità e la contingenza sembrano regnare sovrane. In assenza di una stabile gerarchia di fatti sociali ripetibili (cioè di leggi), sembrerebbe che la scelta di illuminare alcuni aspetti della realtà sociale piuttosto che altri sia affidata all’arbitrio più assoluto degli interessi soggettivi, con conseguenze immaginabili sulla verità o completezza delle nostre descrizioni: raccontare certi fatti omettendone altri, o pubblicare statistiche che illuminino solo alcuni aspetti di certi fenomeni sociali, può generare una rappresentazione parziale o addirittura distorta della realtà. Il problema sollevato dall’imprescindibile scelta dei fatti è dato quindi dall’eventualità che alcuni aspetti della realtà – che pur sarebbe nel nostro interesse conoscere – possano essere più o meno deliberatamente omessi da uno studio, da un libro di storia o da un mezzo di comunicazione di massa deputato a fornire “informazioni”. Oggi molte delle informazioni di cui si ha bisogno si traggono dalla rete attraverso i motori di ricerca, ma l’evoluzione degli attuali algoritmi fa sì che due persone che utilizzino la stessa parola chiave per fare la loro ricerca ottengano risultati diversi. Questo accade perché i motori di ricerca (insieme alle reti sociali) sono infaticabili raccoglitori di informazio-


ni sulle nostre preferenze personali, e filtrano dunque i fatti che vogliamo conoscere per venderli alle ditte pubblicitarie. In un recente libro su questo tema, Pariser (2011) ritiene che proprio per questo informazioni importanti ma lontane dai nostri gusti personali potrebbero faticare sempre di più ad arrivarci: quel che abbiamo “cliccato” in passato determina le risposte che otterremo in futuro dalla rete,

Oggi molte delle informazioni di cui si ha bisogno si traggono dalla rete attraverso i motori di ricerca, infaticabili raccoglitori di informazioni sulle nostre preferenze personali, che filtrano i fatti che vogliamo conoscere per venderli alle ditte pubblicitarie

felicità o addirittura la vita di un maggior numero di persone di un fatto Y, allora X è tipicamente più importante di Y. Lo scoppio di una guerra, l’elezione di un papa o un disastro radioattivo, da questo punto di vista, sono più degni di essere riportati rispetto a un delitto passionale o alla crisi coniugale di un vip, malgrado molti di noi siano più attirati dal secondo tipo di notizie che dal primo. Tanto per fare un esempio, un qualunque giornale a diffusione nazionale che non avesse riportato in prima pagina il recente attentato alla maratona di Boston non avrebbe assolto al suo compito. Questo prova che una gerarchia dei fatti sociali da conoscere è determinata da valori etici condivisi ed esiste anche nella realtà po-

Informazioni importanti ma lontane dai nostri gusti personali potrebbero faticare sempre di più ad arrivarci: quel che abbiamo “cliccato” in passato determina le risposte che otterremo in futuro dalla rete, cosicché ognuno di noi vivrà in una sorta di bolla quasi solipsistica

cosicché ognuno di noi vivrà in una sorta di bolla quasi solipsistica. Eppure, nonostante i filtri dei motori di ricerca e dei mezzi di comunicazione, che scelgono di illustrare certi fatti omettendone altri in funzione di interessi ben precisi, esiste una “gerarchia di fatti” anche nel mondo sociale. Essa è meno facilmente rilevabile rispetto a quella esistente nel mondo naturale, e questo sia per il carattere più “fragile” delle regolarità storico-sociali rispetto a quelle naturali, regolarità che pure esistono, sia per il tipo di interessi in gioco nel primo mondo. Per capire che cosa intendo dire basta mettersi nei panni di un direttore di giornale, che ben sa che tale gerarchia è almeno in parte dipendente dal numero di persone coinvolte da un certo evento e quindi dalla sua potenziale rilevanza sociale o storica. Se un fatto di cronaca X coinvolge la

litica; non a caso, le prime pagine dei giornali, pur con le loro differenti interpretazioni (spiegazioni) dei fatti, coincidono quasi sempre nel riportare quelli davvero importanti. Ammesso che le scienze ci aiutino in modo effettivo a realizzare il valore dell’intersoggettività, più difficile è sostenere che esse ci permettano di conoscere un mondo indipendente da noi. E questo soprattutto considerando che in passato molte teorie che vantavano un discreto successo predittivo sono state successivamente rimpiazzate da altre che hanno abban-

Immanuel Kant

Baruch Spinoza

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donato certe entità non osservabili postulate dalla teoria precedente (sfere cristalline, epicicli, ed etere sono solo alcune tra queste). Più che affrontare la complicata questione della continuità nella scienza, vorrei qui far notare che il postulato dell’oggettività (in base al quale c’è “un modo in cui le cose stanno” che è indipendente da noi) non è solo alla base dell’attività scientifica, ma anche del nostro asserire alcunché. Il fatto che potremmo non venire mai a sapere cosa sia avvenuto ad

La democrazia è incompatibile con l’esistenza di una casta di eletti dotata di poteri conoscitivi particolari e di un rapporto privilegiato con le fonti del sapere

Ustica (mancanza di certezza) non implica che non ci sia una verità sulla causa di quel disastro aereo. E d’altra parte, tutta la moderna microbiologia si basa sulla postulazione dell’esistenza di entità troppo piccole per essere osservate ad occhio nudo ma la cui esistenza è in grado di spiegare l’insorgere di molte malattie in modo assai più efficace delle credenze medievali che la peste sia dovuta o all’avvelenamento dei pozzi da parte degli ebrei o ai nostri peccati (Dorato 2007). In una parola, il batterio della peste esiste indipendentemente dalle teorie e dai microscopi che utilizziamo per osservarlo. Si noti che ammettere che le scienze siano un efficace strumento per raggiungere il valore dell’oggettività ha almeno due conseguenze etiche importanti: 1) riconoscere una realtà indipendente da noi implica che l’autorità delle credenze scientifiche venga da una fonte extraumana. Per esempio, la scoperta biologica che non esistono razze umane non dipende dall’arbitrio o dall’autorità di singoli esseri umani, ma da evidenze empiriche riscontrabili con metodi tra loro indipendenti che convergono tutti verso lo stesso risultato; 2) l’accettazione di un ordine naturale retto da leggi alle quali siamo noi stessi soggetti è il primo passo verso quella saggezza già predicata da Spinoza.

Henri Poincaré

Scienza, autonomia, e critica della tradizione Secondo Kant il motto dell’illuminismo «abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto senza la guida di un altro» (l’oraziano aude sapere) e, come è noto agli addetti ai lavori, la sua opera critica fu in parte una riflessione filosofica sulla nuova fisica di Newton. E il grande portato culturale della unificazione newtoniana tra fisica terrestre e fisica celeste si manifestò nella consapevolezza, da Kant racchiusa nel valore dell’autonomia, che l’essere umano è in grado di arrivare alla verità da solo, ovvero senza l’aiuto della rivelazione divina. Tale autonomia − anche rispetto a un sapere consegnatoci dalla tradizione che va indagato criticamente – implica la fatica di sottoporre ogni nostra ipotesi alla dimostrazione (in matematica), alla conferma osservativa (in ambito empirico) o all’argomentazione razionale (in filosofia). Non v’è dubbio infine che il valore dell’autonomia intellettuale non solo è stato storicamente incoraggiato dai successi conoscitivi della scienza, ma ha anche favorito il diffondersi dell’autonomia etica, che insiste sulla capacità di darsi regole soggettive

Le teorie scientifiche sono fallibili: storicamente si è visto che le teorie successive correggono quelle precedenti generalizzandole. Trovare errori nelle teorie precedenti presuppone un atteggiamento critico e scettico nei confronti delle autorità, ciò che permette il progresso stesso delle teorie

di comportamento che possano al contempo essere fatte proprie da tutti. Se l’universalità delle leggi naturali è rispecchiata dalle leggi etiche, queste ultime risultano anche indipendenti da un sapere religioso mutevole geograficamente e temporalmente. L’atteggiamento critico nei confronti delle teorie scientifiche consegnateci dalla tradizione è inscindibilmente legato all’autonomia, e dipende essenzialmente dal fatto che queste ultime sono fallibili: storicamente si è visto che le teorie successive correggono quelle precedenti generalizzandole. Trovare errori nelle teorie precedenti presuppone però avere un atteggiamento critico e scettico nei confronti delle autorità, ciò che permette il progresso stesso delle teorie. Si noti infine che oggettività, autonomia, il coraggio di valersi del proprio intelletto, ovvero quei valori incarnati nel metodo scientifico, non sono con il carattere collettivo dell’impresa scientifica. Il fatto che il controllo di un’ipotesi dipenda dal contributo di tutti gli addetti ai lavori e, in linea di principio, da quello di tutti noi, implica che le teorie scientifiche debbano poter essere giustificate pubblicamente. Una necessità di giustificazione che si dovrebbe estendere anche alle leggi approvate dai parlamenti dei paesi democratici. In una parola, i valori scientifici sono infatti strettamente congiunti a quelli democratici: la democrazia è incompatibile con l’esistenza di una casta di eletti dotata di poteri conoscitivi particolari e di un rapporto privilegiato con le fonti del sapere.


Start upper

Quando l’università insegna a trasformare un’intuizione in un business di Carlo Alberto Pratesi

Il mondo sta cambiando. Cambia l’economia e cambia il mercato del lavoro. Come devono cambiare le università? 0 Negli ultimi decenni i diversi Corsi di laurea hanno insegnato agli studenti tutto ciò che serviva per essere assunti dalle imprese o dalle altre organizzazioni, pubbliche e private; hanno sfornato potenziali manager, esperti per gli uffici stuCarlo Alberto Pratesi di, aspiranti professionisti per le società di consulenza, amministratori pubblici, agenti e venditori, professori e creativi, avvocati e scienziati. Nessuno, o quasi, si è mai posto il problema di aiutare chi fosse interessato a intraprendere la strada

Tutti sappiamo che si possono insegnare le strategie di marketing, le formule della finanza, le regole dell’organizzazione, le tecniche di programmazione e i principi della chimica, ma quanto è davvero possibile trasferire ai giovani lo spirito imprenditoriale?

pire come conquistare il mercato sia un’eccezione alla regola. Questo non vuol dire che non ci si debba provare, anzi: seguendo l’esempio dei loro coetanei che ce l’hanno fatta (uno per tutti Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook), sono encomiabili i tanti ragazzi che ogni anno cercano di diventare startupper di successo. Il loro sforzo è essenziale per un’economia come quella attuale, caratterizzata com’è da interi settori in fase di inarrestabile declino.

Il corretto atteggiamento nei confronti dell’innovazione e della imprenditorialità è più facile trovarlo in alcune specifiche aree del mondo, dove c’è sintonia tra i laboratori universitari, finanza e imprese, e dove i giovani talenti sono naturalmente portati a tentare di tradurre in business i loro brevetti e le loro intuizioni.

Ma qual è il ruolo delle università in questo processo? Tutti sappiamo che si possono insegnare le strategie di marketing, le formule della finanza, le regole dell’organizzazione, le tecniche di programmazione e i principi della chimica, ma quanto è davvero possibile trasferire ai giovani lo spirito imprenditoriale? Perché è proprio quello l’ingrediente indispensabile: infatti, se non c’è la giusta mentalità, servono a ben poco le agevolazioni fiscali, i finanziamenti e gli incubatori d’impresa. Il corretto atteggiamento nei confronti dell’innovazione e della imprenditorialità è più facile trovarlo in alcune

della auto-impreditorialità, fondando dal nulla la propria azienda. Anzi, l’idea di fondo che tutti, almeno finora, hanno implicitamente condiviso è che per creare un’impresa – oggi usiamo più volentieri il termine “startup” – non sia indispensabile aver studiato: oggi sappiamo che non è così. Tranne poche (e spesso famose) eccezioni, per creare un’azienda di successo non è quasi mai sufficiente una buona idea, una qualche propensione naturale al rischio e qualche risparmio da investire. Prova ne è che il tasso di fallimento delle nuove imprese innovative è straordinariamente alto. L’esperienza delle società di venture capital (ossia quelle che investono proprio nelle startup) insegna che su dieci idee finanziate, nel giro di sette anni ne falliscono quattro; tre vanno in pari (cioè recuperano solo i costi); due generano un piccolo guadagno, e solo una è un successo, cioè fa moltiplicare per venti il capitale iniziale. Se si considera che le idee finanziate sono meno dell’1% di quelle sottoposte alla valutazione da parte degli investitori, è facile ca- Il campus principale di Technion (Israel Institute of Technology)

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Roma Tre, InnovAction Lab, partita da una partnership specifiche aree del mondo, dove c’è sintonia tra i labotra il Corso di Laurea in Economia e management e ratori universitari, finanza e imprese, e dove i giovani quello in Ingegneria informatica, e oggi aperta a tutti gli talenti sono naturalmente portati a tentare di tradurre in atenei di Roma. Quello di InnovAction Lab è un perbusiness i loro brevetti e le loro intuizioni. Di certo non corso formativo del tutto originale che si articola su mebastano bravi docenti: occorre un sistema complessivo no di una decina di seminari di 90 minuti l’uno, tenuti che integri e sostenga il sistema educativo. L’esempio con cadenza settimanale o bisettimanale da docenti e della Silicon Valley e il suo perfetto network dove atemanager con una reale esperienza di startup internazionei di grande prestigio (Stanford e Berkeley) collaboranali e capaci di trasmettere entusiasmo ai partecipanti. no con investitori, amministrazioni, consulenti e azienAgli studenti vengono presentati i problemi tipici di chi de è noto a tutti. Ma non è certo la California l’unica fonda una nuova azienda innovativa (dalla costituzione culla delle startup. Oggi si parla sempre di più di New del team, che deve essere obbligatoriamente multidisciYork dove il sindaco Bloomberg è riuscito a ricreare plinare, alla presentazione ai fondi di venture capital) qualcosa di molto simile; in Europa ci sono Barcellona, senza dare alcuna indicazione su come tali problemi Berlino, Helsinky, Tallin. A oriente la punta di diamante possano essere risolti (non ci sono volutamente testi, riè Israele – universalmente riconosciuta come la “startup nation” – che oggi ha più aziende quotate al Nasdaq di Europa, Corea, Giappone, Singapore, Cina e India mesA oriente la punta di diamante è Israele – se insieme. Il cuore è il campus del Technion, l’univeruniversalmente riconosciuta come la sità battezzata da Albert Einstein, che ha vinto tre premi “startup nation” – che oggi ha più Nobel negli ultimi sette anni. I brevetti nati negli ultimi anni attorno all’università sono tantissimi: dalle memoaziende quotate al Nasdaq di Europa, rie flash (le “chiavette Usb”) al software per “zippare” i Corea, Giappone, Singapore, Cina e file; dalle piante che sopravvivono con pochissima acIndia messe insieme. Il cuore è il campus qua, alle pillole-videocamere che consentono di fare una colonscopia o navigare nelle arterie. Questo anche del Technion , l’università battezzata da grazie a una straordinaria densità di ingegneri particoAlbert Einstein, che ha vinto tre premi larmente intraprendenti. Come per esempio Yaron Samid, che ha fondato Bill Guard, la start up che scopre Nobel negli ultimi sette anni dagli estratti conto delle carte di credito tutti quegli adviste, risorse web o indicazioni di best practice da sedebiti che abbiamo autorizzato senza saperlo; o Ishay guire). Durante il periodo dei seminari i ragazzi costiGreen, fondatore di Soluto, un software che una volta tuiscono i team a cui vengono affiancati dei mentor, installato sul Pc segnala e aggiusta i programmi e le apsempre scelti tra imprenditori con esperienza concreta. plicazioni che creano problemi: ha 33 anni ed è già alla Al termine del ciclo di seminari, gli studenti hanno a terza impresa (le altre due le ha vendute a caro prezzo). disposizione due prove di investor-pitch (brevi presenUzi de Haan, del Bronica Entrepreneurship Center, tazioni da sette minuti) nel quale illustrano il business spiega che tra i motivi del miracolo economico israeliaplan del loro progetto e ricevono feedback. no c’è prima di tutto quel senso di perenne insoddisfaI team migliori secondo il giudizio degli investitori e zione che caratterizza da sempre il popolo ebraico. E dei fondi di investimento vincono borse di studio per poi il continuo stato di tensione politica, gli straordinari approfondire i temi dell’imprenditorialità innovativa: la investimenti in ricerca (inizialmente nel settore agricolo summer school InnovAction Camp nella sede di Allue nella difesa) e l’effetto combinato di quattro poli unimiere di Roma Tre o gli study tour in USA, Israele versitari di eccellenza (oltre al Technion, Ben Gurion, (ospiti del Technion) e Singapore. L’ultima giornata fiJerusalem e Weizman Institute) che insieme danno vita nale di premiazione (lo scorso anno è stata il 4 luglio al a un’economia che attira i venture capital di tutto il Teatro India) ha racmondo, e dove aziencolto in platea 800 de come Google, persone tra le quali la Ibm, Yahoo o Intel giuria composta dai fanno shopping di rappresentanti di cirstartup e fondano i ca trenta società di loro laboratori di riinvestimento (non cerca. solo italiane) e una La formula magica di settantina tra busiquesto miracolo sta ness angel, startupanche nella giusta per, imprenditori e combinazione tra inmanager. Le prime terventi pubblici e tre edizioni del perimprenditorialità pricorso hanno visto navata, unita a una culscere ben 25 startup, tura di fondo pronta a che complessivamenvalorizzare le idee e te sono riuscite a racle diverse culture. Ed cogliere sul mercato è proprio questa la fiquattro milioni di eulosofia ispiratrice di una importante ini- Yaron Samid, fondatore di Bill Guard, la strat up che scopre dagli estratti conto ro. Niente male come inizio! ziativa concepita a delle carte di credito gli addebiti non autorizzati


Lo spirito libero «di gran scienza amante»

Verità e ricerca nella nuova filosofia di Bruno, Campanella e Galileo di Elisa Germana Ernst

organizzato una congiura per far ribellare i popoli conDopo essere stato ditro la tirannia del sovrano spagnolo e la malvagità dei chiarato «eretico impesuoi ministri. Ritornato nella nativa Stilo dopo quasi nitente, pertinace et ostidieci anni di lontananza, Campanella, constatando il nato» dalla commissione degrado di una società dominata dalla violenza, dal dei cardinali inquisitori, disordine economico e dall’ingiustizia, predica l’apsentenza alla quale aveprossimarsi di una profonda renovatio, che sembra anva fatto seguito la lugununciata, all’alba del nuovo secolo, da inconsueti sebre cerimonia della degni celesti e terrestri, proclamando l’esigenza di rifongradazione ed espulsiodare l’associazione sociale e politica alla luce di prinne solenne dall’Ordine, il 17 febbraio 1600 Giordano Bruno viene Senza dubbio sia per Bruno che per arso vivo in Campo de’ Campanella e Galileo risulta Fiori. La carcerazione e Elisa Germana Ernst irrinunciabile la scelta di quella che il processo a suo carico si erano protratti per otto anni, da quando, il 23 magritengono la verità, anche se essa risulta gio 1592, Giovanni Mocenigo, che l’aveva ospitato in pericoloso contrasto con le dottrine, nel suo palazzo per alcuni mesi, aveva presentato alfilosofiche e religiose, della tradizione l’Inquisizione veneziana una denuncia in cui elencava gli errori e le eresie che gli aveva sentito pronunciare. cipi razionali e natuAll’iniziale periodo rali, entro un contedi carcerazione a Vesto profetico. La conezia erano seguiti spirazione viene gli anni romani, e stroncata brutalmendopo ritardi, pause e te dall’invio di trupindugi la vicenda pe spagnole al coprocessuale era premando di Carlo Spicipitata nella seconnelli e il suo ispiratoda metà del 1599, re trascorrerà quasi quando l’imputato si trent’anni nelle carera irrigidito nel riceri di Napoli e poi fiuto di abiurare otto di Roma. proposizioni, in A pochi decenni di quanto, come afferdistanza, la mattina mava al cadere del 22 giugno 1633, dell’anno, non aveva nel convento di Sannulla da ritrattare e ta Maria sopra Minon sapeva di che nerva, il settantenne cosa avrebbe dovuto Galileo Galilei, ingipentirsi. nocchiato di fronte ai Il 1599 è anche l’anmembri del Sant’Ufno della cospirazione fizo in seduta plenaorganizzata in Calaria, dopo avere bria da Tommaso ascoltato la lettura Campanella, fallita della sentenza che lo sul nascere in seguigiudica «vehementeto alla denuncia inmente sospetto d’heviata al Vicerè di resia» per avere soNapoli da due comstenuto dottrine in plici che si dissociacontrasto con le Sano, nella quale lo incre Scritture, conformavano che Camtravvenendo a un panella e altri frati precetto che gli era domenicani avevano Galileo Galilei, incisione di Samuel Sartain da un ritratto di H. W. Wyatt

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stato notificato dal cardinale Bellarmino già nel 1616, dichiara, «con cuor sincero e fede non finta», di volere abiurare, maledire e detestare gli errori e le eresie che gli vengono imputati. Tre studiosi che, pur presentando aspetti molto diversi fra di loro, risultano accomunati da persecuzioni e condanne. Le ragioni di tali conflitti vengono quasi prefigurate dal giovane Campanella in un sonetto intitolato Al carcere, scritto, ancora prima della catastrofe calabrese, in una cella del Sant’Offizio romano. Nella

Per Campanella l’amore spassionato per la verità richiede un atteggiamento di ricerca continua, in modo da essere pronti ad abbracciarla da qualsiasi parte risplenda, avendo soprattutto il coraggio di andare oltre alle dottrine contenute nei libri degli uomini quando non corrispondono più a quelle che si leggono nel grande libro della natura

medesima prigione sono rinchiusi anche altri pensatori, a partire dallo stesso Bruno, e Campanella si interroga sui motivi di questa sorta di “appuntamento fatale” in un luogo che egli paragona ad altri luoghi misteriosi e terribili come l’antro di Polifemo, il labirinto di Creta, il palazzo d’Atlante. Un incontro che, a suo dire, in verità non deve stupire e che risulta inevitabile, in virtù di una legge simile alla forza di gravità o all’irresistibile impulso che spinge la donnola a dirigersi, con un misto di paura e attrazione («timente e scherzante»), verso le fauci del rospo che la divorerà. Secondo Campanella, si tratta di un destino iscritto in

La statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, a Roma. Particolare

ogni spirito libero che, «di gran scienza amante», decida di abbandonare la «morta gora» del trito sapere convenzionale per slanciarsi audacemente nel «mar del vero, di cui si innamora». E senza dubbio sia per Bruno che per Campanella e Galileo risulta irrinunciabile la scelta di quella che ritengono la verità, anche se essa risulta in pericoloso contrasto con le dottrine, filosofiche e religiose, della tradizione. Delineando nello Spaccio della bestia trionfante una radicale riforma morale e civile, Bruno colloca la Verità, autentica stella polare cui indirizzare lo sguardo, nel luogo più alto dei cieli, in modo che risulti indenne dal «livore dell’invidia» e «dalle tenebre dell’errore»: «Ivi starà stabile e ferma; là non sarà exagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che vanno errando per questo tempestoso pelago d’errori; et indi si mostrarà chiaro e terso specchio di contemplazione» (I, 3). Non è poi un caso che le pagine introduttive della prima opera a stampa di Campanella, la Philosophia sensibus demonstrata (Napoli, 1591), esordiscano proprio con la parola «verità», che viene raffigurata, nella vignetta del frontespizio, come una sfera che galleggia sull’acqua, mentre i venti che soffiano da ogni parte cercano di sommergerla e un giovane frate tenta di raggiungerla a nuoto. La verità può venire occultata e perseguitata, afferma l’autore, ma alla fine emerge dalle tenebre, ed egli non esita ad affermare che ad essa ci si deve dedicare in quanto è bella di per sé, al di là degli onori, della gloria, delle ricompense, o dei sacrifici che richiede, e che ad essa, se necessario, si deve anteporre anche la vita. Ma l’amore spassionato per la verità richiede un atteggiamento di ricerca continua, in modo da essere pronti ad abbracciarla da qualsiasi parte risplenda, avendo soprattutto il coraggio di andare oltre alle dottrine contenute nei libri degli uomini quando non corrispondono più a quelle che si leggono nel grande libro della


natura, una metafora tradizionale che in questo contesto viene ad assumere una molteplicità di implicazioni e modulazioni. Leggere il libro della natura significa innanzitutto privilegiare i dati e i fatti dell’esperienza rispetto alle parole degli altri libri, e in primo luogo di quelli di Aristotele, emancipando la ragione umana dalla sudditanza ad ogni principio di autorità. Nella Cena de le Ceneri Bruno, con l’adozione della dottrina copernicana proiettata in una visione infinitistica del cosmo, non solo sancisce il crollo irreversibile della cosmologia tradizionale, ma celebra la liberazione della ragione umana dagli immaginari confini delle sfere celesti: «Il Nolano ha disciolto l’animo umano e la cognizione che era rinchiusa ne l’artissimo carcere de l’aria turbu-

Campanella celebra in un sonetto la filosofia naturale di Bernardino Telesio, che ha trafitto e ucciso con le sue frecce Aristotele, il «tiranno degli ingegni», restituendo all’uomo quella libertà che è inseparabile dalla verità

lento; … ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia... Non è più impriggionata la nostra raggione co i ceppi de fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo che non è ch’un cielo, un’eterea reggione inmensa». Per ristabilire quei nessi corretti fra cose e parole, che nella tradizione aristotelica si erano logorati e perduti, Campanella celebra in un sonetto la filosofia naturale di Bernardino Telesio, che ha trafitto e ucciso con le sue frecce Aristotele, il «tiranno degli ingegni», restituendo all’uomo quella libertà che è inseparabile dalla verità. Da parte sua, Galileo, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, per bocca di Sagredo esprime un’ironica simpatia nei confronti della disperazione di Simplicio, che non si rassegna nel vedere crollare la maestosa costruzione della filosofia aristotelica, che rappresenta un sicuro rifugio per tanti studiosi, «dove, senza esporsi all’ingiurie dell’aria, col solo rivoltar poche carte, si acquista-

no tutte le cognizioni della natura». Un dolore, da parte di Simplico, simile a quello provato da chi, dopo avere costruito, con infinite fatiche e spese, un «nobilissimo palazzo», lo vede «per esser stato mal fondato, minacciar rovina», e non riuscendo a darsi pace per la perdita di un edificio così ricco e adorno, si sforza con

L’Apologia per Galileo di Tommaso Campanella è una coraggiosa perorazione della libertas philosophandi, nella convinzione che sia possibile, e necessario, evitare lacerazioni e scontri rovinosi per tutti individuando punti di accordo fra le certezze e il continuo movimento del pensiero

ogni mezzo, facendo invano ricorso «a catene, puntelli, contrafforti, barbacani, e sorgozzoni», di porre rimedio a un crollo che si presenta come inevitabile. I tre autori sono poi concordi nel riconoscere che il libro della natura è divino al pari di quello della Scrittura, ed è nella natura che si manifesta e si comunica all’uomo l’infinità della potenza di Dio e della sua sapienza. Sempre nella Cena Bruno afferma: «Questi fiammeggianti corpi son que’ ambasciatori, che annunziano l’eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossì… abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi: se l’abbiamo appresso, anzi di dentro più che noi medesmi siamo dentro a noi». Fra i due libri ugualmente divini non può e non deve esserci conflitto, e quando le parole della Scritture sembrano non accordarsi con nuove esperienze e scoperte, spetterà ai suoi interpreti ritrovare quell’accordo e quella compatibilità che non possono venir meno, anziché esasperare i contrasti. Come ci ricordano sia

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Bruno che Campanella e Galileo, la Scrittura si propone di comunicare un messaggio morale universale espresso in un linguaggio semplice e derivato dalla vita comune, in modo che risulti accessibile a tutti gli uomini, e non certo enunciare dottrine scientifiche in un linguaggio specialistico indirizzato a pochi. A proposito di tale delicato problema, la posizione più lucida è quella enunciata da Campanella nell’Apologia pro Galileo, scritta già nel 1616, quando sulle dottrine di Galileo, da lui conosciuto in giovinezza a Padova e nei confronti del quale manifesterà una costante stima e amicizia, si addensano, con le prime denunce, le pesanti nuvole delle accuse teologiche. Nella sua densa operetta Campanella non intende difendere dottrine proprie. Egli infatti nutre talune riserve nei confronti dell’eliocentrismo a causa della sua difficile compatibilità con i principi telesiani, secondo i quali il sole, sede del principio del caldo, è leggero e dotato di movimento, mentre la terra, sede dell’antagonistico principio del freddo è pesante e immobile. Inoltre, la sua immagine di una natura come «animal grande e perfetto», percorso dalla vita in ogni sua minima fibra, è molto lontana da quella galileiana di un libro che, secondo il famoso passo del Saggiatore, «è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Ma, nonostante queste differenze, Campanella rivendica la piena liceità da parte dello scienziato di leggere direttamente il libro della natura, per emendare i libri umani, sempre bisognosi di correzioni e integrazioni. Nell’Apologia egli fa appello al suo sconfinato sapere teologico per ridefinire i rapporti fra filosofia, scienza e teologia, e individua il nodo del problema nell’indebito valore dogmatico conferito alla filosofia aristotelica, che, come ogni dottrina umana, andrà modificata, corretta, o lasciata cadere, alla luce di una sempre più approfondita lettura del libro naturale. L’abbandono

dell’aristotelismo, pertanto, non comporta il crollo della teologia, ma, esattamente al contrario, essa verrebbe danneggiata dall’ostinata e cieca adesione a un sistema fisico che non fosse più in accordo con i nuovi dati dell’esperienza e venisse smentito dalle nuove scoperte.

I tre autori sono concordi nel riconoscere che il libro della natura è divino al pari di quello della Scrittura, ed è nella natura che si manifesta e comunica all’uomo l’infinità della sapienza di Dio

Più che un difesa del copernicanesimo, l’Apologia per Galileo è una coraggiosa perorazione della libertas philosophandi, nella convinzione che sia possibile, e necessario, evitare lacerazioni e scontri rovinosi per tutti individuando punti di accordo fra le certezze e il continuo movimento del pensiero.


Il tradimento dei chierici di Francesca Gisotti

Osservando l’attuale panorama italiano c’è un fenomeno che vediamo ricorrere con sempre più frequenza. Si tratta di una sorta di permeabilità dei ruoli, di una mancanza di demarcazione fra sfera pubblica e privata, di un tentativo da parte degli intellettuali di riflettere sulla vita politica del Paese Francesca Gisotti sempre più dall’interno, abolendo quella distanza necessaria per un’analisi al tempo stesso lucida e costruttiva. Ci troviamo così, sempre più spesso, a costruire la nostra opinione davanti agli schermi televisivi, dove i comici, non più maschere bensì mediatori di uno smascheramento, sembrano essere diventati gli unici possibili depositari di “verità nascoste”. E se è vero che questo è stato, fin da secoli lontani, il loro compito, oggi assistiamo a una sorta di gioco delle parti, in cui le distanze sempre più si assottigliano. Uno scenario che avrebbe colpito Julien Benda, uno dei maggiori teorici della funzione dell’intellettuale nella vita politica del Novecento. Il tradimento dei chierici (1927) è frutto di un dibattito maturato alla fine del XIX secolo, in concomitanza con l’affaire Dreyfus, che chiamò in causa i maggiori esponenti del mondo culturale francese. Quale deve essere il ruolo dell’intellettuale all’interno della vita politica di un paese e quali le sue responsabilità nell’orientamento spirituale e culturale della società? L’analisi di Benda nasce dall’osservazione di un’Europa in preda al “trionfo delle passioni”, in cui la naturale organizzazione politica delle nazioni sta gradualmente lasciando spazio all’insorgere di movimenti ideologici e razzisti. In nome di posizioni definite come “volontà realiste” si compiono i più grandi scempi dell’umanità, mentre valori “disinteressati o metafisici” vengono considerati in conflitto con la sfera pratica e per questo superati. La cosa più grave è, secondo Benda, l'adozione di questi comportamenti da parte di chi, più di ogni altro, avrebbe dovuto opporvisi: i chierici. Chierico sta qui per filosofo, religioso, letterato, artista, insomma per tutte quelle categorie di individui che ci si aspetta prediligano la sfera più alta dell’essere umano e che invece sono i primi a mettere in atto il tradimento della propria missione, alla ricerca di benefici personali o spinti da una sorta di furore cieco. La critica di Benda va poi ancora più a fondo, risultando perciò più problematica e meno scontata. Secondo lo scrittore, infatti, altrettanto condannabili sono quegli intellettuali che esaltano il pacifismo fine a se stesso, anch’esso frutto di un’emotività

priva di supporto razionale, che rifiuta l’uso della forza anche quando è necessaria per ripristinare diritti universali. Per lui i modelli da seguire sono, da un lato, Leonardo, Goethe, Malebranche che hanno fatto dell’elevazione spirituale il fine della propria attività, dall’altro Erasmo, Kant, Renan, moralisti che predicavano il superamento delle passioni terrene in nome di principi trascendenti. Tuttavia, non bisogna pensare che Benda inviti l’intellettuale ad un totale estraniarsi dal dibattito politico. Fra coloro che vengono citati come rappresentanti del giusto chierico c’è Zola che, in nome di un ideale universale, quello della giustizia, si batté a favore di Dreyfus pubblicamente. Nel corso del tempo, Il tradimento dei chierici è stato sottoposto a numerose riletture e interpretazioni. Sicuramente l’opera non può essere decontestualizzata dal suo momento storico e, per molti aspetti, non si può non riconoscerle di aver anticipato tragicamente i tempi. A distanza di vent’anni Benda rimise mano al testo, alla luce dei mutamenti culturali e storici intercorsi. Ne emerge un quadro ancora più desolante e pessimista. Il nuovo mito dei chierici è ora l’ordine come strumento di controllo delle masse. Un ordine imposto brutalmente dai regimi totalitari, ma anche esaltato come valore estetico in paesi democratici come la Francia. Visto come uno principio pratico cui mirare, in contrapposizione al disordine antifunzionale dei governi liberali, secondo i suoi cultori l’ordine andrebbe imposto in ogni ambito della vita sociale. Una posizione avvalorata dall’idea che una nazione sia una costruzione monolitica dove le particolarità individuali debbano scomparire fra le pieghe di una sovrastruttura massificante. Parallelamente, secondo Benda, nuovi pericoli si anniderebbero anche in quell’orientamento filosofico che, concependo la realtà come un incessante fluire, finirebbe per negare alla ragione la possibilità di fissare le cose per analizzarle razionalmente. Ne consegue che ogni ideale, ogni fermo principio si ritrova costretto a sottomettersi alle logiche del cambiamento e l’essere umano, privo di punti fermi, finisce per perdersi in un continuo fluire di sollecitazioni materiali. Ovviamente è questa una posizione discutibile e il dibattito è destinato a continuare. Quello che mi sembra fondamentale di quest’opera è la sua strenua difesa del ruolo dell’intellettuale. Non solo uomo di cultura, impegnato in sterili conversazioni all’interno dei salotti borghesi, bensì faro per la società, concepita come insieme di persone il cui spirito debba essere costantemente

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Oro blu

Risorse idriche: ricerca accademica e risvolti applicativi di Aldo Fiori

to alle attività antropiche, e principalmente allo sverL’acqua è il principale samento di inquinanti di origine industriale e agricoelemento della vita biola, nonché ai rilasci dalle discariche incontrollate. logica del pianeta; la Inoltre, i previsti scenari di cambiamento climatico sua presenza è anche suggeriscono, sia pure con una qualche incertezza, importante per il clima un’ulteriore diminuzione delle risorse idriche dispodella Terra, svolgendo nibili in alcune aree del pianeta, quali ad esempio una funzione di termol’area del bacino del Mediterraneo. regolazione che mantiene una temperatura mite sulla superficie terreDel totale dell’acqua dolce disponibile, stre. La presenza di accirca due terzi si trova nei ghiacci polari, qua è stata la condizioe il rimanente sotto forma di acqua ne essenziale per lo sviluppo e il sostentamenAldo Fiori sotterranea. Il totale delle acque to della vita e ha svolto contenute nei fiumi costituisce soltanto lo un ruolo fondamentale nella trasformazione del terri0,006 % circa delle acque dolci; la torio e nello sviluppo delle civiltà. La circolazione dell’acqua in natura avviene attravermaggior parte della risorsa idrica so un sistema complesso di percorsi che coinvolgono impiegabile è quindi immagazzinata nel diverse matrici ambientali e che determinano il ciclo idrologico. L’acqua che è impiegabile per gli scopi sottosuolo umani (acqua dolce) si trova sia sulla superficie terPoiché la risorsa idrica è distribuita in maniera diserestre, tipicamente nei fiumi e nei laghi (acqua superguale nel pianeta, la sempre crescente domanda di ficiale), che nel sottosuolo (acqua sotterranea). Del acqua ha spesso motivato il trasferimento di risorse totale dell’acqua dolce disponibile, circa due terzi si idriche tra diverse regioni, a volte mediante impotrova nei ghiacci polari, e il rimanente sotto forma di nenti opere ingegneristiche, innescando potenziali acqua sotterranea. Il totale delle acque contenute nei fiumi costituisce soltanto lo 0,006 % circa delle acque dolci; la maggior parte della risorsa idrica impiegabile è quindi immagazzinata nel sottosuolo. L’uso dell’acqua per i vari scopi (principalmente civile/idropotabile, agricolo e industriale) è cresciuto notevolmente nel tempo. Nei primi 80 anni del secolo scorso si è osservato un aumento dei prelievi di acqua dolce di circa il 600%. La domanda di acqua dolce è in continuo aumento, a causa principalmente della crescita demografica e dello sviluppo produttivo, non solo nei tradizionali Paesi avanzati ma anche (e soprattutto) in quelli emergenti. Bisogna poi considerare come una quantità rilevante di risorse idriche sia divenuta di fatto inutilizzabile a causa Migrazione di un inquinante in una falda acquifera per diversi istanti temporali successivi al rilascio dell’inquinamento associa- (simulazione numerica)


sociati (captazione sostenibile, protezione del territoconflitti regionali per la sua spartizione (le cosiddette rio, bonifica di acque contaminate, tutela degli ecosi“guerre dell’acqua”) o fenomeni di più recente svistemi etc.). Alcuni di questi problemi sono stati afluppo quali il “land grabbing”, ossia l’acquisto di vafrontati nel corso degli anni dal gruppo di ricerca in sti terreni agricoli in paesi in via di sviluppo da parte Idrologia del Dipartimento di Ingegneria. di stati o grandi compagnie transazionali, anche per supplire alla mancanza di risorse idriche per l’agricoltura nel proprio territorio di origine. Una quantità rilevante di risorse idriche è L’acqua è quindi un elemento indispensabile per lo divenuta di fatto inutilizzabile a causa sviluppo della civiltà e la vita degli ecosistemi presenti dell’inquinamento associato alle attività nel pianeta, ma essa può anche essere fonte di gravi problemi (ed eventualmente disastri) quando è conantropiche, e principalmente allo centrata nel tempo o nello spazio, generando alluvioni sversamento di inquinanti di origine o innescando fenomeni di dissesto idrogeologico, quaindustriale e agricola, nonché ai rilasci li frane o colate detritiche. La crescente antropizzazione, lo sviluppo delle attività umane e una gestione dalle discariche incontrollate spesso non corretta del territorio hanno nel tempo acuito tali problemi, rendendo più complessa la geL’idrologia è la scienza che tratta tutte le fasi dell’acstione idraulica del territorio e l’interazione tra il dequa presenti sulla terra; le sue pratiche applicazioni corso naturale delle acque e gli insediamenti umani. riguardano importanti aspetti quali la progettazione e L’Università di Roma Tre, con la collaborazione della gestione delle infrastrutture idrauliche, la captaziol’Associazione Idrotecnica Italiana, ha organizzato ne e distribuzione dell’acqua, l’irrigazione e il drenel corso dell’anno accademico 2012-2013 un ciclo naggio, la generazione di energia mediante impianti di seminari intitolato H2.0: acqua in rete a Roma3. I idroelettrici, il controllo e la mitigazione delle piene, seminari, promossi dal Comitato di Indirizzo Permal’erosione e il trasporto di sedimenti, il recupero di nente di Ingegneria, sono rivolti agli studenti della acqua contaminata, la tutela degli ecosistemi naturali laurea triennale e hanno lo scopo di informare gli sensibili al ciclo dell’acqua, per citarne alcuni. L’idrostudenti sulle principali problematiche associate allogia riguarda quindi la distribuzione dell’acqua nel l’acqua e di promuovere la condivisione di conopianeta, la sua circolazione e trasformazione nelle vascenze tra il mondo della formazione universitaria e rie fasi (liquida, solida, vapore), le sue proprietà fisiquello delle imprese, della pubblica amministrazione co-chimiche e la sua interazione con l’ambiente nella e di tutti i soggetti che lavorano nell’ambito delle risua accezione più ampia. Cambiamenti della distribusorse idriche. I seminari hanno riguardato quindi dizione, circolazione o delle versi aspetti legati all’acproprietà fisiche dell’acqua qua, quali ad esempio possono avere importanti l’impiego dell’acqua come conseguenze per gli ecosifonte energetica rinnovabistemi naturali, incluso le, le interferenze con le l’ambiente antropico; tali infrastrutture viarie, le cambiamenti possono essegrandi opere idrauliche re sia di origine naturale (quali il MOSE e il canale che indotti dalle attività di Panama), i sistemi di umane: gli uomini coltivaapprovvigionamento idrico no, irrigano e fertilizzano i (quali la rete di distributerreni, disboscano foreste, zione dell’ACEA) e temi prelevano acqua dal sottoconnessi agli estremi idrosuolo o dai corsi d’acqua, logici (piene e alluvioni) e costruiscono dighe, scarialla Protezione Civile. Schema del ciclo idrologico Oltre che sul campo della didattica inerente al mondo dell’acqua, l’Università di Roma Tre è anche impegnata sul fronte della ricerca scientifica applicata ai temi delle risorse idriche. Le attività di ricerca sono principalmente indirizzate alla comprensione dei fenomeni naturali legati al ciclo dell’acqua e allo sviluppo di strumenti operativi, quali ad esempio modelli matematici, per affrontare al meglio la gestione delle risorse idriche, Esempio dell’elevata eterogeneità frequentemente riscontrata negli acquiferi: distribuzione della conducibilità in tutti gli aspetti a esse as- idraulica in una sezione verticale dell’acquifero di Columbus (USA)

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cano reflui nei fiumi o nelle falde acquifere, e svolgono molte altre attività che possono avere importanti effetti sulla circolazione e disponibilità dell’acqua in natura. Le scienze idrologiche studiano quindi i processi fondamentali legati al ciclo dell’acqua al fine di meglio comprendere le dinamiche principali e prevedere possibili effetti futuri legati a cambiamenti, siano essi naturali che antropici.

L’Università Roma Tre, con la collaborazione dell’Associazione Idrotecnica Italiana, ha organizzato nel corso dell’anno accademico 2012-2013 un ciclo di seminari intitolato H2.0: acqua in rete a Roma3 con lo scopo di promuovere la condivisione di conoscenze tra il mondo della formazione universitaria e quello delle imprese, della pubblica amministrazione e di tutti i soggetti che lavorano nell’ambito delle risorse idriche

I processi fisici legati al ciclo dell’acqua sono in genere assai complessi, poiché coinvolgono matrici ambientali assai diverse tra loro, quali ad esempio il sottosuolo e i reticoli idrografici, caratterizzate da una struttura fortemente eterogenea e spesso non completamente conosciuta. Tale complessità ha richiesto negli ultimi decenni un notevole impegno da parte della comunità scientifica internazionale, coinvolgendo competenze e metodologie assai diversificate, in un’ottica multidisciplinare. Ciò ha condotto a un notevole avanzamento della ricerca nel settore dell’idrologica scientifica, con uno sviluppo a volte impetuoso che ha visto negli anni recenti emergere nuove branche della disciplina che trattano temi specifici, quali ad esempio lo studio delle mutue interazioni fra l’acqua e i processi ecologici (ecoidrologia), delle interazioni tra l’acqua e gli insediamenti umani (socioidrologia) e la diffusione di epidemie veicolate dall’acqua. Ciononostante, i problemi aperti nelle scienze idrologiche sono ancora numerosi, quali ad esempio la comprensione e modellazione dei meccanismi fondamentali che guidano la trasformazione della pioggia in deflusso superficiale, il trasporto di contaminanti nei bacini e nel sottosuolo, l’interazione tra atmosfera-suolo-vegetazione, per citarne alcuni. Il gruppo di ricerca in Idrologia del Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Roma Tre è impegnato da anni in alcuni di questi temi di frontiera. Di particolare interesse è il tema del trasporto di inquinanti nelle acque sotterranee, considerata la loro importanza nell’approvvigionamento idrico, il loro sovrasfruttamento e il diffuso grado di inquinamento oramai raggiunto in numerosi paesi. Il tema è talmente importante e diffuso da avere suscitato l’interesse dell’industria cinematografica Hollywoodiana, che ha prodotto negli anni recenti alcuni film di successo (ad esempio A Civil Action e Erin Brockovich con attori protagonisti rispettivamente John Travolta e Julia Roberts) che hanno trattato famosi casi di inquina-

mento delle risorse idriche sotterranee avvenuti negli Stati Uniti. L’acqua che filtra nel terreno costituisce un vettore per le sostanze inquinanti disciolte, che vengono trasportate e disperse lungo la direzione principale del moto filtrante. Quest’ultimo è guidato dalla permeabilità del terreno, che è in genere estremamente variabile nello spazio. Di conseguenza, i percorsi dell’inquinante nel terreno sono molto articolati e all’apparenza caotici e di difficile comprensione, almeno secondo gli schemi concettuali comunemente adottati. Ciò ha richiesto lo sviluppo di un nuovo paradigma nello studio di tali fenomeni, culminato nella recente disciplina dell’idrologia sotterranea stocastica. Questa considera la permeabilità come una variabile casuale spazialmente distribuita, che induce velocità e traiettorie parimenti casuali ed eterogenee. Le problematiche che emergono da questo tipo di analisi sono comuni ad altri campi della fisica e dell’ingegneria che trattano sistemi complessi e disordinati, come ad esempio la conducibilità termica ed elettrica o la resistenza di materiali compositi. L’approccio stocastico consente di cogliere al meglio le complesse dinamiche dei moti di filtrazione e degli inquinanti trasportati nel sottosuolo, riuscendo nello stesso tempo a spiegare fenomeni che sono stati osservati nel passato ma finora non completamente chiariti, quali ad esempio l’emergenza e l’auto-organizzazione di flussi preferenziali che conducono rapidamente l’inquinante verso bersagli sensibili, ad esempio pozzi e centri abitati; la ritenzione di inquinante per opera di zone caratterizzate da basse velocità, che è spesso tra i responsabili dello scarso successo riscontrato dalle comuni tecniche di bonifica dei siti inquinati e la dispersione “anomala” che spesso si osserva nei siti sperimentali e nelle applicazioni, non facilmente riconducibile a schemi e paradigmi adottati nel passato.

Il gruppo di ricerca in Idrologia del Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Roma Tre è impegnato da anni in alcuni di questi temi di frontiera. Di particolare interesse è il tema del trasporto di inquinanti nelle acque sotterranee, considerata la loro importanza nell’approvvigionamento idrico, il loro sovrasfruttamento e il diffuso grado di inquinamento oramai raggiunto in numerosi paesi

Per concludere, l’acqua è una risorsa di fondamentale importanza per l’umanità, e che richiede adeguate politiche di gestione. A tale scopo, è necessario intensificare ulteriormente le attività di ricerca nel settore dell’acqua, adottando nuove metodologie e paradigmi, così da poter sviluppare adeguati strumenti operativi per una corretta gestione e controllo delle risorse idriche, la tutela degli ecosistemi naturali e pianificare politiche per uno sviluppo sostenibile delle attività antropiche.


L’acqua che mangiamo

Che cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamo di Francesca Greco e Marta Antonelli

Siamo stati sempre abituati alle campagne di risparmio idrico in ambito domestico, prestiamo attenzione all’acqua del rubinetto quando ci laviamo i denti e annaffiamo le piante con l’acqua riutilizzata da altre attività. Sappiamo bene quanto sia preziosa questa risorsa e sappiamo che ognuno deve sforzarsi di salvaguarFrancesca Greco darla. Ma se scoprissimo che l’acqua che veramente usiamo ogni giorno per mantenere il nostro stile di vita fosse molta di più di quella che vediamo? Se scoprissimo che oltre ai 125 litri normalmente utilizzati ogni giorno da ognuno di noi in ambito domestico, ce ne fossero altri 3500 che utilizziamo senza saperlo? Una tazzina di caffè per arrivare sul nostro tavolo ha bisogno di 140 litri di acqua, un uovo 135, e si arriva a 15.500 litri per un chilo di carne di manzo. Stiamo parlando dell’acqua virtuale. L’acqua necessaria a produrre tutti i beni e i prodotti che consumiamo. Stiamo parlando di una nuova prospettiva con cui valutare il nostro impatto sull’ecosistema idrico: l’impronta idrica. Ma cosa sono esattamente l’acqua virtuale e l’impronta idrica? Gli ideatori di questi concetti, il professor John Anthony Allan del King’s College Londra/SOAS e Arjen Hoekstra direttore del Water Footprint Network, promuovono da anni una maggiore consapevolezza su questi temi da parte dei produttori e dei consumatori, dei decisori politici e degli agricoltori, al fine di migliorare l’impatto che ognuno di noi ha sulle risorse idriche mondiali. L’agricoltura è il primo grande settore per consumo di acqua a livello mondiale, e arriva a consumare il 70% delle risorse idriche globali, secondo la FAO. Proprio per questo motivo nel 2012 la FAO ha scelto lo slogan «il mondo ha sete perché ha fame» nel celebrare la Giornata mondiale dell’acqua. Sottolineare il legame indissolubile che c’è tra il consumo di acqua dolce e la produzione di cibo, cioè tra sicurezza idrica e sicurezza alimentare, è uno dei primi passi da compiere per ottenere una maggiore consapevolezza di “come” consumiamo l’acqua del nostro pianeta. La risposta è semplice: la mangiamo. Proprio perché siamo “mangiatori di acqua”, capire il legame che c’è tra le risorse idriche e le nostre abitudini alimentari è fondamentale in un mondo che si trova di fronte a grandi disuguaglianze sia fisiche che economiche per quanto riguarda la distribuzione di questa preziosa risorsa. Per fare ciò è ne-

cessario essere consapevoli del peso della nostra impronta idrica nel mondo. L’impronta idrica è il risultato di molte considerazioni. C’è infatti l’impronta idrica interna ed esterna, entrambe determinate dai trend di import ed export di tutti i prodotti e servizi che circolano da e per quel paese. Questo concetto Marta Antonelli può essere applicato al consumo di un individuo, comunità o paese. Per esempio, l’Olanda ha calcolato che la sua impronta idrica “esterna” proviene da paesi specifici come il Kenya, l’India etc. Di solito non si parla quindi dell’impronta idrica “di un prodotto”, ma si usa invece il calcolo del contenuto di acqua virtuale di un prodotto. L’acqua virtuale ha 3 componenti: la componente blu – acqua irrigua – la verde – acqua piovana – e la grigia – acqua necessaria a diluire gli agenti inquinanti usati durante la produzione. L’acqua virtuale che sta a indicare quindi tutta l’acqua che è servita a produrre il bene stesso. L’impronta

Se scoprissimo che oltre ai 125 litri normalmente utilizzati ogni giorno da ognuno di noi in ambito domestico, ce ne fossero altri 3500 che utilizziamo senza saperlo? Una tazzina di caffè per arrivare sul nostro tavolo ha bisogno di 140 litri di acqua, un uovo 135, e si arriva a 15.500 litri per un chilo di carne di manzo

idrica è invece un indicatore del consumo umano, che ci comunica la provenienza (geografica) e la composizione (blu, verde e grigia) dell’acqua consumata da un individuo, gruppo, o nazione in un dato anno, sommando tutti i beni e servizi che vengono prodotti, esportati, importati e consumati da quell’individuo o comunità nell’anno stesso. È quindi un indicatore mobile, che varia non solo di anno in anno, ma anche di mese in mese. I due concetti di acqua virtuale e impronta idrica sono spesso confusi e usati in modo inter-scambiabile. Semplificando, l’impronta idrica si applica agli individui (singoli o in gruppo), mentre parliamo di contenuto di acqua virtuale per i prodotti. Sempre tor-

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nando sul fatto che i concetti possono essere usati in modo diverso, si possono, ad esempio, anche calcolare le importazioni e le esportazioni di acqua virtuale per singola nazione, ma questo non ci darà l’impronta idrica, bensì un numero puro in milioni di metri cubi di acqua. Un elevato contenuto di acqua virtuale è, per esempio, localizzato nelle carni rosse da allevamento intensivo, per via dei vari processi intermedi che consumano molta acqua per nutrire, tenere pulito e mantenere in vita l’animale. Diverso l’impatto di un animale invece nutrito con erba al pascolo o foraggio non irrigato. I vegetali, in generale, per via della presenza di acqua verde in maggiore quantità rispetto alle carni, sono i cibi da preferire in una dieta attenta alle risorse idriche del nostro pianeta. Ecco quindi come potremmo tracciare, alla luce di questi dati, un percorso di sostenibilità idrica per i prodotti agroalimentari.

Non tutte le gocce d’acqua sono uguali Per prima cosa servirà sfatare un mito, o meglio, un proverbio: infatti, se analizziamo la provenienza dei nostri cibi, e le acque con cui sono stati prodotti, scopriremo che non tutte le gocce d’acqua sono uguali. Le acque sono diverse poiché diversi sono i contesti in cui vengono utilizzate per la produzione agricola. Un pomodoro irrigato in Italia da una fonte rinnovabile, per esempio da un fiume, avrà un impatto sull’ecosistema idrico di gran lunga inferiore rispetto a un pomodoro proveniente da una zona desertica, irrigato con acqua sotterranea da una falda non rinnovabile.

Angela Morelli © - www.angelamorelli.com

Perché mangiare l’acqua degli altri? Dall’analisi dei dati elaborati da Mesfin M. Mekonnen e Arjen Y. Hoekstra nel 2011, due scienziati del Water Footprint Network, è emerso che il nostro paese è il terzo importatore netto di acqua virtuale, dopo Giappone e Messico, seguito da Germania e Gran Bretagna. Alla luce della globalizzazione del mercato alimentare mondiale, è stato ormai completamente divelto il legame tra la percezione del valore dell’acqua e il suo vero valore. Nessuno ha idea di quanta acqua serva per produrre un dato prodotto, a meno che non ne sia il produttore diretto. Alla luce del commercio globale

È veramente etico mangiare un prodotto irrigato con acqua non rinnovabile del deserto? Siamo sicuri che le popolazioni di quella zona ne abbiamo beneficiato prima di me, consumatore del grande “supermercato” globale? Perché mangiamo l’acqua degli altri?

di cibo, è evidente che la “de-socializzazione” (Vanaken 2013) dell’acqua nella nostra cultura è ormai un fattore incontrovertibile. Mangiamo acqua proveniente da altri paesi, da posti lontani dalla nostra percezione e cultura, e non ne sappiamo il valore e, soprattutto, la giustizia e l’eticità. È veramente etico mangiare un prodotto irrigato con acqua non rinnovabile del deserto? Siamo sicuri che le popolazioni di quella zona ne abbiamo beneficiato prima di me, consumatore del grande “supermercato” globale? Perché mangiamo l’acqua degli altri? Come possiamo agire per evitare situazioni paradossali e insostenibili?

Cosa possiamo fare noi Come cittadini, la prima mossa, e la più importante, è quella di ottenere l’accesso alle informazioni. Una volta identificato quali sono i prodotti che richiedono più acqua, e una volta assodato di che tipo di acqua si tratta, sarà naturale adeguare i nostri stili di vita a queste considerazioni e questo permetterà anche di evitare inutili colpevolizzazioni. Se io mangio carne, mi informerò e scoprirò presto che la carne di pollo contiene meno acqua virtuale di quella di manzo. Allo stesso modo, se io volessi proprio mangiare carne di manzo, opterei per quella allevata al pascolo, che ha un impatto minore sulle nostre risorse, in quanto i prati da pascolo crescono grazie all’acqua piovana e quindi non vengono irrigati. E così via. Altro passo fondamentale è attivare ed attivarsi per coordinarci con


il settore privato nella protezione dell’acqua a livello internazionale. Molto c’è ancora da fare per promuovere all’interno delle grandi e piccole aziende agricole le buone pratiche per la tutela dell’acqua e per la trasparenza sui dati relativi al suo utilizzo.

Un bambino che pianta un seme di lenticchia e lo innaffia in casa, capisce quanta acqua serve per far vivere la sua piantina. Saprà quindi quanta acqua è caduta dal cielo per far crescer le lenticchie che nascono nei campi. Porterà con sé quell’idea nel suo percorso di vita e nelle sue scelte di consumo future

Alcuni esempi positivi sono quelli delle aziende agroalimentari Barilla e Mutti, due casi illustrati nel nostro ultimo volume, che ci hanno mostrato come hanno ridotto l’uso di acqua nelle proprie produzioni. Nel primo caso, migliorando la tipologia di acqua utilizzata, passando dallo sfruttamento di una falda acquifera in zona arida a una fonte rinnovabile in zona ricca d’acqua in Italia. Nel secondo caso, diminuendo la quantità di acqua irrigua attraverso sonde di rilevamento dell’umidità del suolo, che comunicavano puntualmente quando irrigare non era

necessario. Sono esempi che in Italia dovrebbero essere replicati e potenziati. Il terzo livello di obbiettivi è legato indissolubilmente alla divulgazione e all’educazione: un bambino che pianta un seme di lenticchia e lo innaffia in casa, capisce quanta acqua serve per far vivere la sua piantina. Saprà quindi quanta acqua è caduta dal cielo per far crescer le lenticchie che nascono nei campi. Porterà con sè quell’idea nel suo percorso di vita e nelle sue scelte di consumo future. La politica dovrebbe promuovere nel settore privato e nelle scuole il messaggio della tutela dell’acqua, in tutte le sue forme, comprendendo nel discorso classico anche quello sull’impronta idrica e sugli stili di vita alimentari. A livello accademico ci piacerebbe vedere in un futuro vicino una cattedra multidisciplinare di Politiche idriche nelle nostre Università, come già accade nel resto del mondo. L’acqua è per sua natura un soggetto multidisciplinare, ma poco multidisciplinari sono le sedi in cui se ne discute in Italia. Gli idrologi parlano con gli idrologi, gli ingegneri con gli ingegneri, gli economisti con gli economisti, e così via. Lanciando la sfida di iniziare a parlare di acqua virtuale e impronta idrica a livello accademico anche in Italia, proveremo a raccogliere il più possibile un network di persone che vogliano lavorare a livello multidisciplinare sulla materia acqua, in tutti i suoi significati, dall’antropologia alla meterologia. L’acqua non conosce paesi e confini, e non conosce divisioni. L’acqua è una e una sola, in tutto il mondo. Siamo noi ad essere divisi.

In un mondo di risorse limitate porsi degli interrogativi riguardo i nostri stili di vita e i nostri consumi è non solo auspicabile, ma anche necessario. L’Italia è il terzo paese importatore netto di “acqua virtuale” al mondo. Cosa significa? Perché è importante parlare di acqua e cibo? Per produrre un chilogrammo di pasta secca sono necessari circa 1.924 litri d’acqua. Poco minore è l’impronta idrica di una pizza da 725 grammi: 1.216 litri. Con “acqua virtuale” si intende proprio questo: il quantitativo di acqua necessario a produrre cibi, beni e servizi che consumiamo quotidianamente. Applicando questo concetto, scopriremo che consumiamo molta più acqua di quella che vediamo effettivamente “scorrere” sotto i nostri occhi. Non riusciamo a percepirla come tale semplicemente perché è acqua che letteralmente “mangiamo”, contenuta in maniera invisibile nel cibo che consumiamo e che proviene da ogni parte del mondo. L’acqua che mangiamo spiega, con un approccio multidisciplinare, la problematica idrica e le sue implicazioni economiche, sociali e politiche. Vuole agire idealmente da ponte tra chi svolge ricerca accademica e scientifica e chi si interessa alle grandi questioni della sostenibilità ambientale. Offre molteplici chiavi di lettura attraverso il lavoro dei più grandi esperti italiani e mondiali. Tra questi seAngela Morelli © - www.angelamorelli.com gnaliamo, per la prima volta pubblicati in Italia, i contributi di Tony Allan, ideatore del concetto di “acqua virtuale” e vincitore dello Stockholm Water Prize 2008, e di Arjen Hoekstra, che ha elaborato il concetto di “impronta idrica” e fondato il Water Footprint Network. (dal risvolto di copertina)

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«La chiaroveggenza dell’orecchio» L’università e il ruolo formativo della musica di Elio Matassi

neità» (Hegel) del mondo esterno esaltando la capaIl Dipartimento di Filosofia di cità elaborativa dell’uomo-soggetto. Un modello teoRoma Tre, ora trasformatosi rico di tale portata risulta particolarmente cogente in Dipartimento di Filosofia, applicato alla musica, musica intesa come formaziocomunicazione e spettacolo, è ne. In tal caso, la pratica musicale, l’uso o la padroimpegnato da sei anni in due nanza di uno o più strumenti musicali, diventano, alprogetti: la rassegna All’Opelo stesso titolo, indispensabili conoscenze-nozioni ra con Filosofia per la diffuteoriche, egualmente essenziali all’idea della formasione della cultura del melozione, della musica considerata come “formazione”. dramma nelle più giovani geLa pratica musicale sta sullo stesso piano delle cononerazioni e, in collaborazione scenze storiche e teoriche, diventando un momento con il Comitato per l’apprencentrale per il costituirsi stesso della Bildung. dimento pratico della musica, il progetto concernente l’alfabetizzazione musicale (ossia Elio Matassi La musica è il destino della modernità, è l’apprendimento di uno o due il nostro destino, la dissoluzione della strumenti musicali dai 4 ai 14 anni). «pura contemplazione» Entrambe queste iniziative svolgono un ruolo decisivo nella costruzione formativa del futuro. Il significato di “formazione” corrisponde all’espresIl Novecento ha accolto e rielaborato tale intuizione, sione germanica Bildung, da Bild, “forma”, “immapenso in maniera particolare al capitolo 51 de Il gine” e, dunque, “formazione”, “elaborazione” e caprincipio speranza di Ernst Bloch in cui, a partire pacità di elaborare forme. Non è casuale che l’edall’interpretazione del mito ovidiano del dio Pan e spressione Bild (forma, immagine) abbia la stessa radella ninfa Siringa, si postula una riabilitazione radidice di Arbeit (“lavoro”), perché anche quest’ultima cale dell’uomo attraverso la pratica musicale con dimensione presume una capacità elaborativa e forl’uso di strumenti. Il mito narra che il dio Pan, che è male per cui il soggetto mutua dalla propria cosciensempre stato incline alla sensualità, si era invaghito za le forme attraverso cui trasforma la realtà e la nadella ninfa Siringa e, inseguendola per farla sua, a tura a sua immagine e somiglianza. Entro quest’ottiun certo punto ne aveva perduto le tracce. La ninfa, ca peculiare, non vi è alcuna differenza tra il progetto che sembrava scomparsa per sempre, era stata trache sta a monte del lavoro e quello su cui viene fondato il bisogno dell’arte. Centrale in tale tematica è stato il contributo della riflessione hegeliana, che proprio a tale proposito è stato correttamente definito, nell’ambito della filosofia pratica, come la rivoluzione copernicana. Il concetto di lavoro in quanto processo di elaborazione di forme presume, da un lato, la tradizione della filosofia classica tedesca, l’idealismo trascendentale; e, dall’altro, quella dell’economia nazionale moderna. In tal modo viene rovesciato il modo consueto di impostare il rapporto tra poiesi e prassi. La Bildung (“formazione”) è il risultato di una mediazione fra attività teoretica e pratica e contribuisce a superare la «riottosa estra- Il mito di Pan e Siringa in un dipinto di Pieter Bruegel (1620 c.)


sformata dagli dèi in un fascio di canne palustri; il dio Pan le raccolse, le plasmò costruendo un primo strumento rudimentale (il flauto, da sempre considerato lo strumento musicale primordiale): lo portò alle labbra, emise un suono dolcissimo grazie al quale riuscì a salvare il rapporto, ritenuto perduto per sempre, con la ninfa scomparsa. Fuor di metafora, il dio Pan è nella sostanza l’uomo, un essere per sua natura misero, carente, che però può capovolgere il proprio destino grazie alla musica e agli “strumenti” musicali che è in grado di costruire da sé, con le proprie mani. Dunque musica come materia strutturale dell’identità umana e non come dono gratuito degli dèi. Proprio attraverso gli strumenti musicali è possibile redimere la natura misera, segnata dalle privazioni della condizione umana per restituirla a una dimensione utopicamente alternativa. Non possiamo attenderci la salvezza dall’alto, ma, rovesciando la formula adottata da Martin Heidegger con un giornalista dello Spiegel, «Solo un dio potrà salvarci», possiamo dire: solo noi potremo salvare Dio. Per questo abbiamo bisogno del mondo dei suoni, della musica, che dovrà prendere il posto di quello delle immagini. In tale «chiaroveggenza dell’orecchio» (Bloch), la musica esiste in una luce diversa, è una rivoluzione culturale che i persiani, i caldei, gli egiziani, i greci, gli scolastici, essendo completamente privi di una musica degna di nota, non potevano conoscere. La musica è il destino della modernità, è il nostro destino, la dissoluzione della «pura contemplazione» (Bloch), costruita su un carattere simbolico ipotecato da una «trascendente incomprensibilità» (Bloch), da una visibilità fuorviante, dietro alla quale, come nella civiltà egizia, si nasconde la luce estranea dei miti astrali. Il suono, pur permanendo in una condizione allusiva e inautentica, non potrà essere identificato con un mero sogno; il suo mistero, il suo grado di simbolicità sono sostanzialmente l’eco di noi stessi, che credevamo di aver perduto e che, invece, la musica riscatta. In ultima analisi, il mistero è concepito non come lontananza, o come indicazione di una realtà completamente diversa, ma come vicinanza, introiezione, ovvero la capacità di tornare ad ascoltare noi stessi. Musica ed espressione umana sono un’unica e medesima cosa. Tutta la storia della musica, fino al preromanticismo, dimostra ampiamente il significato di tale immedesimazione: stanno ad attestarlo il ventaglio vario ed emozionale dei modi greci; le tessiture melismatiche dei vocalizzi allelujatici medievali, che non hanno funzione ornamentale, ma vanno al di là delle parole, esercitando una funzione puramente espressiva; così i recitativi di Peri e Monteverdi che riescono a cogliere l’espressività dei tropi medievali; ma anche la polifonia fiamminga che, pur portando al massimo grado l’artificio contrappuntistico, è una verifica flagrante, come riscontrava Lutero, della preminenza dell’uomo-artista sul materiale. L’equazione musica=espressione umana era stata già anticipata genialmente nel dattiloscritto viennese del 1930, di Günther Anders-Stern, Ricerche filosofiche sulle situazioni musicali, in cui la musica

veniva definita come musica dell’uomo per eccellenza, l’unica ad avere la possibilità di trasformare la natura dell’uomo: ciò può avvenire attraverso la pratica degli strumenti musicali, la pratica vocale – la voce dell’uomo è libera, è proiezione-esternazione di libertà, è l’attualità del modo specificamente umano di esprimere la liberazione interiore –, la pratica dell’ascolto che determina qualità e spessore delle “situazioni musicali”. L’insistenza sulla pratica musicale aveva trovato, sempre agli inizi degli anni Cinquanta, una sistemazione parallela a quella di Ernst Bloch nell’antropologia della musica di Helmut Plessner, che ha il coraggio intellettuale di formulare il passaggio dalla filosofia della musica all’antropologia della musica. Proprio perché l’uomo fa parte degli esseri che producono suoni è legittimo parlare di antropologia del-

Musica ed espressione umana sono un’unica e medesima cosa. Tutta la storia della musica, fino al preromanticismo, dimostra ampiamente il significato di tale immedesimazione: stanno ad attestarlo il ventaglio vario ed emozionale dei modi greci; le tessiture melismatiche dei vocalizzi allelujatici medievali, i recitativi di Peri e Monteverdi, la polifonia fiamminga

la musica: «Ciò che gli è negato in rapporto a luce e colori gli è consentito nei suoni. Egli può sfogarsi con un grido inarticolato o con un suono vocale (Laut) articolato o con un suono musicale (Ton) formato. In questa esternazione, in questo scaricare una tensione interna mediante un movimento, l’individuo spacca lo strato in cui si sente limitato rispetto al mondo esterno estraneo» (Plessner). La pratica musicale (strumentale, vocale, dell’ascolto) porta in tal modo a compimento la sua legittimazione teorica. Mentre la materia ottica deve essere necessariamente vissuta nell’estensione, quella acustica viene esperita attraverso il “volume”: le sue oscillazioni di intensità, in quanto oscillazioni di volume, appaiono dilatate in ogni direzione, anche in quella della perdurante prosecuzione nel tempo. Günther Anders-Stern, Ernst Bloch, Helmut Plessner tracciano in maniera circostanziata il rapporto musica-espressione umana, valorizzando al massimo le varie pratiche musicali. L’interpretazione hegeliana della Bildung, non raccolta dalla tradizione del neoidealismo italiano (Croce e Gentile), tiene conto della rilevanza della “pratica” nella costruzione del processo formativo; e sull’importanza di tale acquisizione concordano in larga misura tanto la filosofia che la musicologia del Novecento. Questa ricostruzione dimostra in maniera inequivoca che la nostra tradizione musicale rappresenta un punto di forza dell’identità nazionale.

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Digital decide

Le avventure della conoscenza e della didattica nell’era digitale di Enrico Menduni

Nel mondo analogico l’arrivo di una nuova macchina (un frullatore, un trapano elettrico) era accompagnato da un ponderoso libretto di istruzioni, con schemi e disegni, redatto in varie lingue. L’utilizzatore diligente lo leggeva con cura e poi, con l’aiuto del testo, collegava la spina A alla presa B e questo permetteva alEnrico Mendumi l’apparecchio di girare vorticosamente alla velocità selezionata ruotando l’interruttore C. Un’appendice riguardava i problemi riscontrabili, dividendo accuratamente quelli che l’utente poteva risolvere da solo e quelli per cui doveva di rigore rivolgersi a un centro assistenza autorizzato. Adesso nessuno legge le istruzioni dello smartphone. Si applicano le conoscenze acquisite manipolando precedenti generazioni di telefonini; si procede per tentativi ed errori, qualche volta apprendiamo per caso nuove funzionalità. Siamo consapevoli di utilizzare l’apparecchio all’1% delle sue potenzialità, ma è troppo faticoso impararle tutte. Spesso ci soccorre il consiglio di un amico, più spesso ancora qualche ragazzino che intuitivamente apprende, da nativo digitale, ciò che sfugge a chi è nato in tempi analogici. Magari un tutorial su YouTube ci mostra in video quello che ci serve. Se lo smartphone si rompe sono guai. I pessimisti ti consigliano subito di comprarne uno nuovo (del resto ha già due anni, età considerata pensionabile) ma il prezzo proibitivo ti fa riflettere. Il negozio che te l’ha venduto fa parte della rete di un operatore telefonico, magari ha cambiato gestione o marchio e comunque la persona con cui parlasti all’epoca sarà già stata spostata o licenziata in qualche ennesima ristrutturazione. Quella con cui parli adesso non si mostra particolarmente interessata al tuo problema – visto che rifiuti di compra-

re un apparecchio nuovo – e comunque, questo è evidente, ne sa quanto te. Il centro assistenza generalmente è collocato in località remote e irraggiungibili e la coda di clienti in attesa è lunga. Probabilmente chi ti soccorrerà è il ragazzino cinese in un piccolo negozio pieno di componenti elettronici.

Nel mondo analogico l'arrivo di una nuova macchina (un frullatore, un trapano elettrico) era accompagnato da un ponderoso libretto di istruzioni che insegnava come collegare la spina A alla presa B. Adesso nessuno legge le istruzioni dello smartphone. Si procede per tentativi ed errori, qualche volta apprendiamo per caso nuove funzionalità. Siamo consapevoli di utilizzare l'apparecchio all'1% delle sue potenzialità, ma è troppo faticoso impararle tutte

Imparare dunque segue percorsi molto diversi da quelli dell’epoca analogica. Sono i sentieri pragmatici del consiglio amicale, della relazione di prossimità, del tutorial in video, del forum sul web. C’è qualcuno che sa come si modifica il controllo ortografico sugli sms dell’iPhone? E come si curano i dolori articolari senza ricorrere al cortisone? E a chi rivolgersi per rinnovare la patente? Per ciascuno di questi casi, e per mille altri ancora, ci sono forum in Internet nei quali persone che volontariamente e senza ricevere nulla in cambio (l’“economia del dono”) ti danno dei consigli più o meno inattendibili, dei quali altri utenti discutono l’utilità, oltre ad agenzie, negozi, operatori che colgono l’occasione della tua domanda per proporre a pagamento i loro servizi. Questi piccoli esempi dimostrano che le agenzie istituzionali dell’epoca analogica


sono doppiamente scavalcate: da un circuito di relazioni di prossimità, spesso informali, e dal suo equivalente in Internet, superando distanze e reti relazionali faccia-a-faccia e cortocircuitando la relazione fra chi chiede e chi dà, con una asimmetrica reciprocità. Questo avviene anche per le agenzie formative, la scuola e l’università. Oggi noi, ma anche i nostri allievi e anche i bambini piccolissimi, siamo sottoposti a tanti stimoli diversi, che sono in concorrenza con quelli delle agenzie formative istituzionali. Il problema non è nuovo, e risale all’avvento della comunicazione di massa attraverso i media; i media però erano unidirezionali, generalisti, costituivano loro stessi una istituzione con la quale si potevano istituire rapporti diplomatici, di cooperazione e competizione a seconda dei casi. Internet ha compresso lo spazio della comunicazione unidirezionale dei media istituzionali del Novecento (broadcasting) a favore di una comunicazione moltia-molti, a carattere non solo alfabetico ma anche audiovisivo, che ci raggiunge in ogni momento grazie allo smartphone di cui prima parlavamo, più i tablet e i computer laptop, e che mette a nostra disposizione immense quantità di informazioni accedendo a straordinarie banche dati.

Imparare dunque segue percorsi molto diversi da quelli dell'epoca analogica. Sono i sentieri pragmatici del consiglio amicale, della relazione di prossimità, del tutorial in video, del forum sul web

Ne abbiamo conosciuto molti lati positivi, per noi e per gli studenti, che basta riassumerli: addio al viaggio nella città lontana, nella cui biblioteca c’è (forse) il libro che ci interessa, perché ora quel catalogo è online e probabilmente Google Books, l’Opac degli Opac (il catalogo dei cataloghi delle biblioteche), Wikipedia o Amazon ci dicono molto di più. Addio all’enciclopedia cartacea, fine delle lunghe ricerche di una clip o di un fermo immagine di qualche remoto film muto o classico o comunque sparito dai mercati, e ora reperibile tranquillamente in rete senza uscire dal proprio ufficio. Possibilità di contattare immediatamente grandi folle o piccoli gruppi attraverso i social network e, per comunicazioni dedicate, la posta elettronica. Accesso immediato a milioni di documenti, rapporti, notizie, fotografie: i tradizionali problemi investigativi della ricerca si mutano adesso in una questione di scelta del materiale da utilizzare e di certificazione della sua attendibilità, anche rispetto alle censure che la rete compie e al privilegio delle culture anglosassoni e, in generale, dei più forti. Non si tratta però solo di questo. Il nativo digitale spesso pensa che è inutile imparare una cosa, un concetto, una data, quando al bisogno si può immediatamente accedere ad una fonte di conoscenza. È un errore, ma non è semplice confutarlo in termini comprensibili all’allievo. Il nativo digitale rifiuta spesso di imparare qualche cosa se non è legato ad una “esperienza”, a un “evento”. Ricordo una delegazione di siciliani a Roma, che ammiravano stupiti un quadro di Antonello da Messina ignorando o dimentican-

do che la collocazione normale di quel quadro è molto vicina a loro, nel piccolo Museo Mandralisca di Cefalù. Antonello prendeva corpo solo quando era associato ad un evento (la mostra, il week-end a Roma) ricordabile e raccontabile come tale. Ma vedo anche l’emozione di studenti chiamati a fare qualche cosa

Internet ha compresso lo spazio della comunicazione unidirezionale dei media istituzionali del Novecento (broadcasting) a favore di una comunicazione molti-a-molti, a carattere non solo alfabetico ma anche audiovisivo, che ci raggiunge in ogni momento

(ad esempio, fare una lezione ai loro colleghi, con la guida del docente) piuttosto che la fatica di seguire una lezione cattedratica. Penso spesso alla prima volta in cui la mia memoria pre-Alzehimer fece difetto, e proprio non ricordavo a lezione il nome dello studioso, da me amatissimo, che aveva coordinato il Radio Project a Princeton nel 1938-41... vedo ancora il ticchettare delle dita sulle tastiere dei computer e dei tablet e il coro degli studenti: «Paul Lazarsfeld!». Non sapevano nulla di Lazarsfeld, della nascita delle metodologie quantitative nell’analisi dei media, delle sue discussioni con Theodor Adorno nelle pizzerie del New Jersey, e tuttavia Wikipedia e Google in due minuti li avevano forniti di questo dato, assolutamente inutile (dico io) se privo di un contesto, di una valutazione sull’importanza di quelle discussioni in pizzeria rispetto a milioni di altre e più futili conversazioni davanti e due pizze. È difficile però dire che la conoscenza di questo dato è inutile, o meglio insufficiente, proprio a coloro che ti hanno aiutato.

Accesso immediato a milioni di documenti, rapporti, notizie, fotografie: i tradizionali problemi investigativi della ricerca si mutano adesso in una questione di scelta del materiale da utilizzare e di certificazione della sua attendibilità, anche rispetto alle censure che la rete compie e al privilegio delle culture anglosassoni e, in generale, dei più forti

La questione centrale è quella di motivare la necessità dell’apprendimento nell’epoca dell’indifferenziata e indiscriminata circolazione di informazioni, di immediato accesso ma di attendibilità da verificarsi caso per caso. Una riproducibilità enhanced, allargata, dell’informazione in cui spesso si perde la gerarchia, il collegamento tra le informazioni e la loro rilevanza ai fini della costituzione di concetti astratti. Il ruolo del docente si sposta, questo è indubbio. Spesso chiacchierando con i colleghi viene discusso

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funzione docente non è mai stata monopolio delle istituzioni formative, ma sempre svolta anche dalla società nel suo complesso, direttamente o indirettamente, o da altre istituzioni a cominciare dalla famiglia. Tuttavia oggi tale ruolo è ancora più discutibile di sempre. Come sempre, chi non sa adattarsi creativamente all’innovazione, per cavalcarla, dominarla, imprimerle il suo proprio segno, è destinato ad una contrazione del suo ruolo. Vorrei concludere questo scritto indicando alcuni aspetti delle trasformazioni in atto. a) Il mercato della formazione sarà sempre più globalizzato. Alla virtuosa competizione e cooperazione Una classe di prima media nel Comune di Trequanda (SI), dove tutti gli studenti a partire da scientifica si affiancherà la concorquest’anno saranno forniti di un tablet, giudicato dalla dirigente scolastica uno strumento indi- renza tra le università di tutto il spensabile per ogni attività di ricerca e documentazione. mondo per reclutare studenti e il lavoro di ciascuno sarà valutato secondo parametri internazionali. Ricordo la prima volta in cui la mia b) Alla formazione istituzionale si aggiungerà una memoria fece difetto e proprio non vasta gamma di occasioni formative (master, sumricordavo a lezione il nome dello mer school, corsi di perfezionamento, full immersion etc.) in tutto il mondo costituendo un secondo studioso, da me amatissimo, che aveva mercato in cui sarà obbligatorio esistere per ogni coordinato il Radio Project a Princeton istituzione formativa che voglia sopravvivere. c) Forme di istruzione a distanza, totali o meglio annel 1938-41... vedo ancora il ticchettare cora miste fra web e presenza, si diffonderanno delle dita sulle tastiere dei tablet e il coro sempre più anche per il loro carattere multitadegli studenti: «Paul Lazarsfeld!». sking, offrendo una formazione sovrapponibile ad altre attività, al lavoro, alle necessità della vita quotidiana. l’aspetto “poliziesco” di questa trasformazione: esad) Videolezioni sono e saranno sempre più disponibimi scritti in cui gli studenti accusano improvvisi doli, vendute come app, scaricabili a pagamento o in lori di pancia e tornano dalla toilette dopo aver acforma gratuita; l’insegnante sarà quindi in diretta o quisito via smartphone tutti i dati necessari, riassunti indiretta concorrenza con i grandi nomi internadei libri e tesi intere che circolano su internet insiezionali della sua disciplina. me alle domande più ricorrenti nelle interrogazioni; tesi di laurea fatte con il copia-e-incolla, magari da appositi istituti e dietro pagamento. Ma che senso ha, Non sapevano nulla di Lazarsfeld e oggi, impartire compiti scritti a mano su foglio protuttavia Wikipedia in due minuti li aveva tocollo a persone che domani dovranno lavorare e forniti di questo dato, assolutamente scrivere in condizioni diverse, con un computer davanti? inutile (dico io) se privo di un contesto Al di là di questo, probabilmente il ruolo del docente sta cambiando. È più un allenatore che un conferene) I libri saranno sempre più e-book e, in parte, offiziere. Si presume che il conferenziere sappia, sull’arcine permanenti in cui il manuale è in continuo digomento, molto di più del suo pubblico. L’allenatore venire e gli studenti potranno scaricare gli aggiordel campione di nuoto sta a bordo piscina, impartisce namenti come per qualunque altro software. consigli, critiche, rimproveri, ma è chiaro che se si f) La semplificazione in atto della videoconferenza buttasse in acqua per gareggiare con il suo allievo, consentirà di costituire classi composte di persone arriverebbe secondo. L’allievo è più giovane, forte e dislocate in istituzioni formative diverse oppure a bravo. L’allenatore gli cede la sua esperienza, la sua casa loro. capacità tattica (cioè relazionale), il suo metodo. Si tratta dunque di sfide enormi. La più importante, di Inoltre, e non è poco, lo conforta nei momenti di cristraordinario valore umanistico, è quella di convincesi, gli è amico, lo sta ad ascoltare nei pomeriggi tesi re le persone ad uno studio non solo tecnico e non soalla vigilia delle gare. Se poi parliamo di uno sport lo professionale, ma astratto e concettuale, in un monnon individuale (il calcio, ad esempio), l’allenatore do dominato da eventi e rappresentazioni in cui i confa funzionare il gruppo, interviene sulle piccole rivacetti ci sono ma nascosti, embedded, difficili da colità, attribuisce a ciascuno un ruolo. Anche questo gliere... soprattutto da parte degli ignoranti. Ma senza deve fare l’insegnante. i concetti, occorre ricordarlo, non c’è eccellenza. II suo ruolo non è mai stato indiscutibile, perché la


Una grammatica nuova per un tempo nuovo

Università, politica e nuovi diritti

di Leticia Marrone e Carlos Zelarayán

Questa parte del mondo che, con José Martí, preferiamo chiamare Nuestra América, è protagonista di uno straordinario quiebre cultural, un momento di frattura culturale, un fruscio inedito – che si manifesta spesso in maniera silenziosa – un altro tempo, che ci induce a mettere in tensione il pensiero per entrare nelle complessità Leticia Marrone della sua trama. Questo quiebre, questa frattura, questo fruscio, ha creato una crepa nel cuore della narrazione colonizzatrice, nel midollo dell’episteme coloniale. Non ci soffermeremo qui sulle trasformazioni politiche, sociali, economiche e culturali degli ultimi dieci anni che confermano quest’affermazione. Avremo scelto altre considerazioni, forse non meno stimolanti. L’irruzione di questo tempo nuovo è un tutt’uno con il ritorno al centro della scena sociale degli invisibili della storia che recuperano, in questa, il proprio posto. Lo fanno da una prospettiva politica, quella prospettiva intenzionalmente accantonata dal discorso

neoliberale, che tendeva a nascondere la propria pretesa totalizzante e la propria fatalità ineluttabile. Oggi assistiamo al declino impietoso dei presupposti delle teorie neoliberali e i suoi assertori devono fare i conti con quello strumento fondamentale della costruzione democratica, sollevato dagli sconosciuti della storia Carlos Zelarayán che ora fanno palpitare le proprie voci. È qui che è evidente in quale misura e con quale profondità la crisi mondiale segnala la fine di un’epoca che, non poteva essere diversamente, è anche la fine delle certezze fragili che hanno (de)nutrito l’agenda (im)politica del più recente passato: fine della storia, globalizzazione, villaggio globale. La società dello spettacolo vede cadere, senza poterlo ancora ammettere, i suoi sofisticati circuiti di controllo. La narrazione neoliberale, con le sue designazioni e il suo vocabolario (frutto della dittatura militare e del Consenso di Washington) passano ora ad occupare

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un posto di secondo piano. I popoli di questo Sud del mondo pronunciano ora altre parole la cui potenza trasformatrice nomina il tempo in cui viviamo, come condizione non negoziabile del tempo futuro: popoli originari, matrimonio egualitario, dittatura civico-militare, bene comune, colonialismo, divario digitale e culturale. Sono tornati nell’arena pubblica concetti polemici, ovvero, nozioni vive di un tempo altro: Stato, populismo, popolo, patria, sovranità, militanza, revisionismo, battaglia culturale, sviluppo, auto-

Per la prima volta nella Nuestra América siamo riusciti a mettere in discussione tutto: la politica, la distribuzione della ricchezza, il debito estero, il ruolo delle banche centrali, il monopolio mediatico, il potere giudiziario, il colonialismo, il ruolo degli Stati, le politiche sociali e ambientali. Forse è questo il successo più significativo degli attuali governi latinoamericani: avere sfidato, dalla parte delle istituzioni democratiche, il potere del capitale concentrato

determinazione, espropriazione etc. In questa disputa sul “modo di nominare” (e di pensare e di sentire e di creare) il mondo, si è aperta una breccia in un passato forzatamente chiuso – un gesto decisamente politico, secondo Walter Benjamin – per liberare sensi sepolti e voci silenziate, ma anche per produrre nuove grammatiche decolonizzanti. Riconoscere la posizione dominante dei gruppi mediatici e denunciare le loro strategie che cercano di (re)imporre un discorso egemonico (bombardamento sistematico, manipolazione, campagne di diffamazione, imposizione dell’agenda, occultamento di informazione etc.), non significa, in nessun modo, sottoscrivere le teorie comportamentiste dell’inizio del XX secolo, né aderire al funzionalismo sistemico e neanche pensare la comunicazione come una sorta di “ago ipodermico” che si inietta a soggetti passivi/macchine riproduttori. Ci sentiamo eredi, piuttosto, delle analisi della Scuola di Francoforte sulla “società amministrata”, i meccanismi della razionalità tecnica, l’omogeneizzazione, la costruzione dei “tipi” e la produzione in serie di merci comunicative e culturali. La mac-

china dell’industria culturale finisce per modellare le percezioni, atrofizzare l’immaginazione e inibire la riflessione critica. Come segnalavano i teorici critici di Francoforte, tuttavia, nessuna logica di dominio riesce a dissimulare, con sufficiente efficacia, la trama costitutiva delle proprie violenze coattive. Ed è in quelle fessure non mascherabili che si collocano, appunto, i primi balbetti della nuova grammatica. Per la prima volta nella Nuestra América siamo riusciti a mettere in discussione tutto: la politica, la distribuzione della ricchezza, il debito estero, il ruolo delle banche centrali, il monopolio mediatico, il potere giudiziario, il colonialismo, il ruolo degli Stati, le politiche sociali e ambientali etc. Forse è questo il successo più significativo degli attuali governi latinoamericani: avere sfidato, dalla parte delle istituzioni democratiche, il potere del capitale concentrato e posto l’attenzione della società sulla necessità di una revisione critica di tutti quei (pre)supposti del discorso unico del neoliberismo. In questo contesto, appena tratteggiato, abbiamo scelto di riferirci ad un aspetto del quiebre cultural di questo tempo inedito particolarmente interessante che è anche un elemento chiave nello straordinario ampliamento dei diritti che è possibile registrare nell’ultimo decennio della storia politica, sociale e culturale dell’Argentina. Parliamo della Legge 26206 di Educación Nacional, promulgata il 14 dicembre 2006. In questa legge si precisa che l’educazione e la conoscenza sono una priorità nazionale e un bene pubblico e un diritto personale e sociale, che devono essere garantiti da uno Stato che intenda costruire una società giusta, riaffermare la sovranità e l’identità nazionale, approfondire l’esercizio della cittadinanza democratica, rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali e rinforzare lo sviluppo economico-sociale della nazione. L’articolo 16, in particolare, stabilisce che l’obbligo scolastico va dall’età di cinque anni fino al termine del ciclo di educazione secondaria comprendendo quindi dodici anni complessivi di scolarizzazione. Questo è un punto chiave, di strategico peso culturale. Solo quando l’educazione secondaria è un obbligo, l’educazione universitaria può essere pensata come un diritto. Anche se in questi anni la prospettiva di ampliamento dei diritti dei cittadini è stata una priorità nell’agenda pubblica, l’educazione superiore non ha ancora ridefinito a pieno il proprio profilo per, tra altre cose, garantire il vero esercizio di un diritto che mette in discussione una lunga tradizione elitista. Il sistema universitario argentino ha ancora una grande sfida davanti.


Nel contesto più generale del sistema universitario argentino, dal 2003 sono state create nove nuove università e, tra queste, quelle che si trovano nel conurbano bonaerense (il cordone di agglomerati urbani

Solo quando l'educazione secondaria è un obbligo, l'educazione universitaria può essere pensata come un diritto

che sorgono attorno alla Ciudad Autonoma de Buenos Aires), sono sorte con una dinamica diversa: ovvero con una esigenza ontologicamente incisa nelle proprie origini: garantire ai cittadini un diritto. Questo è certamente il caso della Universidad Nacional de Avellaneda. Si tratta di un cambiamento sostanziale: iniziare a pensare l’educazione in generale, e l’educazione universitaria in particolare, come un diritto. In questo sta la potenza rivoluzionaria di un pensiero autenticamente democratico. Cerchiamo di rimuovere dal cuore di quel “campo di battaglia” costituito dalla cultura e dalla lingua, parole come efficienza, rischio paese, deficit fiscale, indicatori di qualità, vendita di servizi etc. Oggi quando pensiamo la politica e la democrazia lo facciamo in chiave di democratizzazione, in termini di conquista e approfondimento di diritti. Un dato significativo: l’85 per cento degli studenti della Universidad Nacional de Avellaneda sono la prima generazione di studenti universitari nelle proprie famiglie. È sufficiente per dare un’idea. Pensare la politica in termini di diritti, d’altro canto, ci sollecita a pensare in modo diverso il posto che assegniamo allo Stato nella nostra riflessione sulla politica. In effetti lo Stato diviene così la condizione necessaria e il garante di quei diritti. Ci inscriviamo, in sintesi, nel cuore della grande tradizione repubblicana. Nel caso dell’educazione, e dell’educazione universitaria in particolare, si tratta di un punto di enorme rilevanza. Cambia, tra le tante cose, la rappresentazione che l’università ha di se stessa. Le elite (clericali, di governo, di professionisti, accademiche) che la hanno abitata non si erano forse mai poste fino ad ora questa sfida potenzialmente rivoluzionaria. Crediamo che, probabilmente per la prima volta, l’università in Argentina si pensa come un organismo di un corpo più grande che è lo Stato, incaricato di garantire i diritti dei cittadini, di vegliare affinché quei cittadini abbiano, tra gli altri, quel diritto specifico che è il diritto allo studio.

Ora questo scenario inedito ha bisogno di una convinzione maggiore, che deve ancora essere conquistata in tutta la sua potenza trasformatrice, da parte di due attori centrali e decisivi: gli insegnati e gli studenti. Oggi ci troviamo in questo guado. Ogni testo, ogni narrazione, ogni racconto presuppone, necessaria e inevitabilmente, una selezione, un taglio, una prospettiva, uno sbieco. Anche questo ovviamente. Diversamente, dovremmo ammettere – hegelianamente – un’identità tra le parole e le cose. E non è questo il nostro proposito qui. Abbiamo voluto in ogni caso offrire uno spunto di riflessione su un tema che consideriamo di grande rilevanza e significato. Un incentivo, magari, ad approcciarlo in tutta la sua profondità e in tutta la sua

Nel contesto più generale del sistema universitario argentino, dal 2003 sono state create nove nuove università e, tra queste, quelle che si trovano nel conurbano bonaerense, sono sorte con una esigenza ontologicamente incisa nelle proprie origini: garantire ai cittadini un diritto

possibile evoluzione. Lo facciamo dal più stimolante e sfidante scenario: quello della creazione di un’università statale, pubblica e gratuita come l’Universidad Nacional de Avellaneda, che accetta anche la sfida di porsi come una università popolare, ovvero, la più alta accezione di eccellenza accademica. Lo facciamo stimolati dalla vertigine che emerge con forza da uno scenario inedito, una vertigine di cui ci nutriamo e che però ci chiede una attenzione particolare: la necessità di soffermarci a pensare. É un piacere farlo tra le pagine di una prestigiosa rivista che accoglie, con una generosità che ringraziamo, queste riflessioni sudamericane.

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Oscar Niemeyer

Il Novecento tra architettura e ideologia di Michela Monferrini

A poche persone riesce di attraversare il mondo e insieme il tempo, nascendo all’inizio di un secolo e andandosene negli anni Dieci del successivo; tra quelle poche persone c’è sicuramente l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, nato nel 1907 e scomparso nel 2012, viaggiatore nel tempo e nello spazio, uomo del Novecento ai Michela Monferrini quattro angoli del pianeta. Non solo: perché a lui è toccato il privilegio di disegnare quello spazio, con costruzioni artistiche che ne hanno spesso fatto parlare come di uno “scultore di edifici”, e lo hanno portato a frequenti attacchi contro la mancanza di utilitarismo delle sue costruzioni. Niemeyer cominciò unendo la tradizione al nuovo, inaugurando tra gli anni Trenta e i Quaranta lo stile modernista europeo, riconosciuto “primo stile nazionale

Oscar Niemeyer, nato nel 1907 e scomparso nel 2012, viaggiatore nel tempo e nello spazio, uomo del Novecento ai quattro angoli del pianeta. Non solo: perché a lui è toccato il privilegio di disegnare quello spazio, con costruzioni artistiche che ne hanno spesso fatto parlare come di uno “scultore di edifici”

della moderna architettura”: pensava che ogni edificio dovesse essere figlio del luogo che lo avrebbe ospitato. A Rio, per il Ministero dell’Educazione e della Sanità pubblica – oggi grattacielo Gustavo Capanema –, chiamò a raccolta vari artisti brasiliani (su tutti Roberto Burle Marx, architetto paesaggista che nei suoi giardini tropicali univa la scienza della botanica all’arte), utilizzò azulejos della cultura portoghese, elementi di architettura coloniale, piante tipiche brasiliane. Il dialogo con la natura, la ricercatezza delle linee, la flessuosità delle forme, la ricerca delle altezze (Niemeyer è stato il più grande teorico ed esti- Oscar Niemeyer

A Rio, per il Ministero dell’Educazione e della Sanità, chiamò a raccolta vari artisti brasiliani, utilizzò azulejos della cultura portoghese, elementi di architettura coloniale, piante tipiche brasiliane. Il dialogo con la natura, la ricercatezza delle linee, la flessuosità delle forme, la ricerca delle altezze già presenti in questo progetto, sarebbero rimaste il tratto distintivo della sua architettura anti-razionalista

matore del grattacielo) già presenti in questo progetto, sarebbero rimaste il tratto distintivo della sua architettura anti-razionalista. Inoltre, già si intravedeva la rivoluzione che avrebbe operato nell’impiego di materiali come il cemento armato, quasi riuscendo nella sfida di conferirgli nuove proprietà, spingendone le potenzialità fino all’estremo, facendo dialogare in accostamenti arditi materiali pesanti e leggeri. L’impegno politico di Niemeyer non fu argomento secondario (Fidel Castro un giorno avrebbe detto: «Niemeyer e io siamo gli unici veri comunisti rimasti»). Già dalla seconda opera, la Chiesa di san Francesco d’Assisi di Belo Horizionte, terminata nello stesso anno della sede ministeriale di Rio, si accesero i fuochi della critica: per la forma scelta, non consueta per una chiesa (motivo per cui non venne consacrata per quasi vent’anni), ma soprattutto per i murales affidati a un altro artista brasiliano, il pittore “impegnato” e appassionato di arte italiana Candido Portinari, raffiguranti il Cristo dei poveri, degli emarginati e dei diversi. Seguirono gli Stati Uniti, seguì New York, il progetto del quartier generale delle Nazioni Unite in collaborazione con Le Corbusier, con la complicazione di dover lavorare spesso a distanza per le difficoltà incontrate nell’ottenere il visto (ancora a causa della sua appartenenza al Partito Comunista). Ma seguirono anche numerose altre opere in tutto il Brasile, fino ad arrivare al sogno di una città intera, una città nuova, una capitale nuova per il Paese, l’unica città al mondo costruita interamente nel XX secolo: Brasilia, progettata inoltre in una zona depressa del Brasile, distante da ogni altro centro rilevante e che dunque potesse fare da centro connettore del territorio


due cose? Fotografando un edificio di Niemeyer spesnazionale e da nuovo polo industriale e d’occupazione. so ci si accorge di come vi si rifletta il cielo, e di come Brasilia ha la forma di un arco, o meglio d’un aeroplale linee stiano in armonia con il paesaggio naturale o no (ma la pianta è di progettazione del maestro di Nieurbano circostante. L’architettura smette allora di essemeyer, Lucio Costa). Niemeyer si occupò di progettare re pensata, come spesso accade in tempi più recenti, digli edifici, quelli comuni e quelli governativi (nel pasciplina al servizio dell’edilizia, e rientra a pieno titolo lazzo presidenziale, nel 2012, si sarebbero svolti i suoi nel campo delle arti. Contemporaneamente, viene vista funerali) e la Cattedrale, dove particolarmente evidente come uno strumento politico: ci si può chiedere se e diventa quella ricerca del cielo di cui s’è detto, anche quanto, per esempio, l’asetticità e l’omogeneità archiper la capacità di illuminazione naturale dell’interno. tettonica – che come s’è detto era quantomeno presente L’impegno in campo comunista di Niemeyer e Costa in fase di progettazione – di Brasilia abbia influito sui guidò anche la progettazione della città (lo stesso anno poteri economico-politici della città (e di conseguenza dell’inaugurazione l’architetto ricevette dall’Unione del Paese) o sulla realizzazione e soddisfazione persoSovietica il Premio Lenin per la Pace): non ci sarebbenale e lavorativa dei suoi abitanti. ro state (almeno nella teoria) zone per benestanti e zoLa città, con i suoi grandi spazi e i suoi laghetti artificiane popolari; tutto sarebbe stato omogeneo, pensato apli, mantiene un carattere fittizio, un’aura congelata da positamente per i lavoratori e le loro famiglie e affidato set cinematografico che la rende all’esterno poco atagli enti governativi. traente e soprattutto la lascia percepire come molto poNonostante i soli quattro anni impiegati a progettare, co sudamericana; sembra quasi – al contrario di quel costruire e inaugurare l’intera città, Brasilia testimonia che è accaduto per molti altri progetti – che Niemeyer la grande vitalità e operosità di Niemeyer in età avannon sia riuscito a infonderle un’anima, a farla vivere da zata: nel 2006, quando l’architetto aveva novantanove sola. Ma anche in questo caso emerge il tema dell’aranni, la città venne arricchita da un paio di suoi edifici, chitettura come forma di sapere non isolabile: di questo il Museo e la Biblioteca Nazionale (del resto, tra le senso di inappartenenza che talvolta la città sembra coopere della terza età, spiccano alcuni capolavori come municare persino ai suoi abitanti, quanta responsabilità il Museo di Arte Contemporanea di Niterói). Seguirono pertiene al progetto architettonico e quanta invece a impegni in Israele, in Francia, in Algeria, in Italia (proquello urbanistico? È gettò la sede della giusto immaginare casa editrice Mondaun luogo lasciandosi dori, a Segrate), in guidare dall’ideoloMalesia. gia? Gli anni dei viaggi Alla fine del 2012 il (due decenni, in realfotografo e scrittore tà), sono in realtà gli italiano Thomas Poanni dell’esilio, corloli ha concluso il rispondendo al periosuo lavoro Lost in do della dittatura miBrasilia – Gli sperlitare in Brasile, duti abitanti di Braquando a Niemeyer silia, lavoro di “ricersarebbe stato imposca degli abitanti” sibile lavorare nel Chiesa di San Francesco d’Assisi, Belo Horizonte, Brasile all’interno della città: Paese: subito dopo il ne sono nati scatti colpo di stato, l’ardal respiro ampio e chitetto era stato aldagli spazi deserti; le lontanato dall’ampersone – rarissime – biente accademico, il appaiono minuscole suo studio distrutto, accanto a costruzioni le sue opere criticate imponenti che hanno fortemente. Sarebbe il pregio di ricordare tornato nel 1985, le grandi rappresencontinuando però fitazioni naturali del no al termine della mondo e anche in sua vita a viaggiare e questo caso dialogaprogettare in giro per no con il cielo, il il mondo. quale trova diverse Ancora oggi, attrasuperfici in cui specverso l’opera di Niechiarsi e restare. Vermeyer vengono posti rebbe solo la curiosiinterrogativi che tà di chiedere a quelstanno alla base dello le persone se sono studio dell’architettura: che ruolo ha l’e- «No es el ángulo recto que me atrae, ni la línea recta, dura, inflexible, creada por el felici del luogo in cui stetica? E la funzio- hombre. Lo que me atrae es la curva libre y sensual, la curva que encuentro en las vivono, se si sentono nalità, è sempre pre- montañas de mi país, en el curso sinuoso de sus ríos, en las olas del mar, en el a casa. Ma appunto, ponderante? In che cuerpo de la mujer preferida. De curvas es hecho todo el Universo, el Universo sono poche, piccole e troppo distanti. rapporto stanno le curvo de Einstein» Museo di arte contemporanea di Niteroi, Brasile

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Rischio naturale

Il territorio come pericolo e come risorsa e la politica universitaria in Italia di Massimo Mattei

I recenti terremoti dell’Aquila e dell’Emilia hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale in modo drammatico il delicato rapporto tra eventi naturali, sviluppo urbano e del territorio e prevenzione dei rischi in Italia. Questi eventi hanno confermato la fragilità Massimo Mattei del nostro territorio e l’inefficienza delle politiche messe in atto per la sua preservazione e la sua messa in sicurezza. Eppure si può dire che nessun paese come l’Italia abbia visto nel tempo un’interazione così forte tra attività umane, territorio e ambiente. Città come Roma, Venezia, Catania, Firenze, Napoli, che vantano un patrimonio artistico, storico e culturale unico al mondo, rappresentano esempi eccellenti della relazione intima tra lo sviluppo delle città e territorio, che in alcuni casi ne rappresenta addirittura l’elemento fondante e di unicità. I rapporti tra Venezia e la sua laguna, tra Napoli e il Vesuvio, tra Catania e l’Etna, tra Firenze e l’Arno e tra Roma e i suoi Sette Colli evidenziano quanto la fondazione delle città e il loro successivo sviluppo sia stato determinato in primo luogo dall’assetto del territorio su cui esse sono sorte. Allo stesso modo alcuni dei paesaggi naturali più conosciuti e apprezzati del nostro paese discendono da specifici processi geologici che li rendono unici al mondo. Basti pensare alle montagne delle Dolomiti o ai meravigliosi paesaggi delle Isole Eolie o dell’Etna. Questo equilibrio tra uomo e ambiente è stato profondamene modificato nel tempo e oggi gran parte del territorio italiano viene vissuto come un fattore di rischio, nel quale l’attività antropica ha alterato l’originario rapporto tra uomo e natura. Un territorio vissuto spesso come ostile e non come una risorsa da conoscere, rispettare e utilizzare con equilibrio e prudenza. I rischi naturali in Italia Il territorio italiano nel suo complesso è vulnerabile, pericoloso e instabile. Gli eventi catastrofici sono molto frequenti e le aree a rischio naturale sono distribuite su gran parte del nostro paese. Basti pensare che per quanto riguarda il solo rischio idrogeologico un recente studio del Ministero dell’Ambiente stima (probabilmente per difetto) che la superficie del territorio italiano ad “alta criticità idrogeologica” è pari a 29.517 chilometri quadrati, di cui 17.254 per frane e 12.263 per alluvioni. Si tratta del 9.8% del territorio italiano, con 6633 comuni interessati, pari all’81.9% dei comuni italiani. Le cose non sono molto diverse per quanto riguarda il rischio sismico. La recente riclassificazione sismica del territorio italiano individua le aree di maggior pericolo-

sità sismica attraverso il parametro dell’accelerazione massima attesa, su suolo rigido e pianeggiante, con una probabilità di eccedenza del 10% in 50 anni. Questa mappa mostra in maniera evidente quanta parte del territorio italiano si trovi in aree ad alta pericolosità sismica e come in queste aree siano presenti alcune delle principali città italiane, sia per numero di abitanti sia per valore storico e culturale. E non va certo meglio per quanto riguarda il rischio vulcanico, che per l’area vesuviana e flegrea assume aspetti addirittura drammatici se ai fattori di pericolosità naturale si somma la grande vulnerabilità del patrimonio edilizio e delle infrastrutture. Un rischio che viene tuttavia percepito dalla popolazione come lontano e improbabile, in un’assenza di consapevolezza che chiama in causa la mancanza di un’efficace politica di informazione e prevenzione del rischio. Nei comuni dell’area flegrea il rischio vulcanico è percepito e riconosciuto da una parte minoritaria della popolazione, che indica nel Vesuvio il vulcano vicino più pericoloso, in mancanza di qualunque conoscenza e consapevolezza della situazione reale. In questo quadro molto complesso e preoccupante ci si aspetterebbero politiche incisive che, accanto a significativi investimenti nella prevenzione del rischio, abbiano come obiettivo la creazione di personale tecnico e

Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale (http://mi.ingv.it/mappa_ps_apr04/italia.html)


spesso il numero di docenti presenti nelle singole uniscientifico in grado di operare con competenza in maversità è insufficiente alla formazione di dipartimenti niera diffusa nel territorio. Il ruolo del sistema universitario disciplinari, ma per le Scienze della Terra l’effetto è devastante. Prima della riforma Gelmini i dipartimenti Tra le figure scientifiche che si occupano di rischi natucon netta prevalenza di docenti GEO erano 28, dopo la rali e di sviluppo e preservazione del territorio quella riforma Gelmini di questi ne rimangono solo 8, con le del geologo è sicuramente una tra le principali e quella prevedibili conseguenze che questa nuova configurapiù spesso chiamata in causa riguardo alle catastrofi nazione avrà sulla futura sopravvivenza dei Corsi di Lauturali che interessano ripetutamente il territorio italiano. Di seguito sono presentati una serie di grafici e tabelle che illustrano il peso della geologia all’interno del sisteNessun Paese come l’Italia ha visto nel ma universitario italiano, assumendo, forse a torto, che tempo un’interazione così forte tra la costruzione di una politica di prevenzione dal rischio attività umane, territorio e ambiente naturale passi anche attraverso la formazione di figure professionali con competenze specifiche e con capacità rea in Scienze Geologiche. Corsi che si presentano alle di sensibilizzare l’opinione pubblica e le amministrazioprocedure di accreditamento in una posizione molto inni locali su questi temi. debolita e a volte in assenza dei numeri minimi necesIn Tabella 1 è riportata la variazione nel tempo della sari, pur in presenza di un significativo e generale increnumerosità dei docenti universitari nelle diverse aree mento delle immatricolazioni riscontrato negli ultimi (viene incluso e distinto anche il settore INF che non anni. ha una propria area CUN) nell’intervallo temporale Il futuro della geologia nell’università e nella società 1998-2010. In questo intervallo, che vede la piena apitaliana plicazione della politica delle autonomie universitarie, In assenza di una decisa inversione di rotta nella messa il numero di docenti universitari (PO,PA,RU) cresce a disposizione da parte del ministero di nuove risorse e del 23.7%, passando da 49.226 docenti nel 1998 a di una loro diversa distribuzione nei singoli atenei, nel 60.873 nel 2010. Questo trend di crescita interessa in prossimo futuro le Scienze Geologiche sono destinate misura diversa le aree CUN, raggiungendo un increa un ulteriore e forse definitivo ridimensionamento. A mento di oltre il 200% per l’area INF (legato allo sviparità di legislazione attuale e in mancanza di specifici luppo delle nuove tecnologie informatiche), superiori interventi di reclutamento le simulazioni prevedono un al 40% per le aree IUS, SECS, SPS e minori nelle reulteriore significativo decremento dei docenti di area stanti aree. In questo periodo di sviluppo le aree scienGEO, che nel 2018 saranno ridotti del 25% rispetto a tifiche tradizionali (MAT, FIS, CHI) hanno una crescita quelli presenti nel 1998, in un sistema universitario nel estremamente limitata (inferiore al 10%), con un’unica quale il numero totale dei docenti universitari rimareccezione, rappresentata dall’area GEO, che in questo rebbe sostanzialmente invariato (Fig. 3). La ricaduta di intervallo temporale di crescita dell’intero sistema uniquesto ulteriore decremento del nuversitario italiano subisce addiritmero dei docenti sui Corsi di Lautura un decremento seppure minirea, sui Dottorati di Ricerca e sulla mo nella numerosità dei docenti ricerca scientifica nel campo delle universitari, che passano da 1202 Scienze Geologiche è evidente. nel 1998 a 1188 nel 2010. Lo scenario è quello di un paese con Il dato di numerosità dei docenti un territorio estremamente vulnerabidiventa decisivo con l’avvento nel le, con enormi problemi di sostenibisistema universitario nazionale lità ambientale ed energetica e fortedella riforma Gelmini. La riforma mente indebolito nella propria capaGelmini, già disastrosa per molti aspetti, manifesta i suoi effetti più Proiezione della numerosità dei docenti (PO, PA cità di produrre ricerca e formazione perversi sull’organizzazione dei e RU) di area GEO rispetto al totale dei docenti di alta qualità, proprio in alcuni dei Dipartimenti all’interno delle strut- universitari, a parità di legislazione vigente (da campi cruciali per il futuro sviluppo economico. ture universitarie. Tralasciando Comitato CUN 04) In conclusione, le politiche ministequalsiasi valutazione sulla qualità riali e le scelte dei singoli atenei delle strutture, sulla loro efficienza hanno cambiato progressivamente il nella didattica e nella ricerca, sulla peso delle aree disciplinari all’interloro distribuzione geografica, la rino del sistema universitario italiano. forma Gelmini definisce come uniIn questo processo, guidato princico parametro necessario alla forpalmente dai rapporti di forza all’inmazione dei nuovi dipartimenti terno delle singole università, le quello del numero dei docenti. InScienze Geologiche non hanno avudipendentemente da tutto il resto, to la capacità di far valere le proprie un dipartimento si forma se il nuragioni e le proprie competenze e somero dei docenti è superiore a un no state progressivamente indebolite numero minimo stabilito dalla lege confinate in un angolo di scarsa o ge (numero minimo in alcuni casi nulla rilevanza accademica, politica aumentato dallo statuto delle singole università). Il risultato è forte- Confronto tra la numerosità dei docenti universitari e sociale. Quanto questa sia stata una mente penalizzante per le aree (PO, PA, RU) delle diverse aree CUN nel 1998 e scelta felice per il nostro paese lo vedremo nel prossimo futuro. CUN di minor dimensione, dove nel 2010 (Dati Con.Scienze)

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Pasolini vivo e morto

Il «corpo insepolto» della dialettica artista-società di Stefania Parigi

Cosa direbbe Pasolini se fosse ancora vivo? È una delle domande retoriche più frequenti che accompagnano l’evocazione di un personaggio al quale si è assegnata la funzione di esprimere – in modo profetico – la critica più radicale alle forme della politica, della cultura e dei media contemporanei. Intorno ai suoi pensieri disperati di Stefania Parigi «corsaro» e «luterano», come intorno al nichilismo delle sue ultime opere letterarie (Petrolio) e cinematografiche (Salò o le 120 giornate di Sodoma), si è creata quella mitologia del “veggente” che alcuni intellettuali, tra cui Walter Siti (curatore dell’opera pasoliniana per i Meridiani Mondadori), da tempo cercano di infrangere, in reazione a un’opinione diffusa, che attribuisce al poeta le stigmate del profeta-martire. Si continua, infatti, a individuare nell’assassinio di Pasolini l’esito di un complotto politico o il compimento ineluttabile di un destino già prefigurato, quasi voluttuosamente, nei suoi versi e nei suoi scritti. Questa immagine sacrificale accomuna ormai opposte tendenze ideologiche, determinando una sorta di ecumenismo nella consacrazione di Pasolini: interpretato come la coscienza – e allo stesso tempo il rimosso – di un passato che non smette di proiettarsi nel presente. Il suo «corpo insepolto» – così lo ha definito Marco Belpoliti – assume le sembianze di un monumento nei discorsi che cercano di rimettere in gioco una dialettica artista-società ormai priva di centri e di strategie condivise. Mentre le sue opere letterarie vengono – da alcuni – passate al setaccio di una revisione forse fin troppo intransigente, la sua icona, al contrario, si ingigantisce. Quanto più sembra sbiadirsi la figura dello scrittore

tanto più si carica di emblematicità quella dell’intellettuale eretico, impegnato in uno scontro all’ultimo sangue con il nuovo potere della società di massa. E, paradossalmente, quasi in una logica di contrappasso, proprio il suo conflitto con il mondo dei media e dello spettacolo viene perfettamente inglobato in una dinamica espositiva. Chiedersi «Cosa direbbe Pasolini?» è diventato, infatti, quasi un ritornello da talk show, che si propaga nel web. Grazie soprattutto alle modalità non chiarite del suo feroce assassinio, Pasolini soffre di una continua sovra-esposizione che trasforma i tratti provocatori e dolorosi della sua operatività artistica-intellettuale in elementi coesivi, capaci di conciliare visioni diverse sotto il segno del titanismo tragico. Ma ciò che ha caratterizzato il nucleo profondo delle sue performance rimane non tramandabile perché fondato su un’espe-

Il suo «corpo insepolto» – così lo ha definito Marco Belpoliti – assume le sembianze di un monumento nei discorsi che cercano di rimettere in gioco una dialettica artista-società ormai priva di centri e di strategie condivise

rienza individuale concreta: su di una testimonianza, dunque, non ripetibile. Pasolini ha vissuto nei termini di una vera catastrofe esistenziale il passaggio dalla cultura contadina alla cultura di massa e si è impegnato tenacemente nel cercare le “sopravvivenze” dell’antico nel moderno. L’impossibile aspirazione a una realtà che si manifesti nell’immediatezza fisica, senza i filtri e gli schemi di un’imprescindibile mediazione formale, ha rappresentato il luogo privilegiato della sua ricerca. Le sue interpretazioni della società italiana si basano, similmente alle sue teorie cinematografiche, sull’esaltazione della fisicità come la sede – l’utopica sede – in cui rintrac-


ciare il senso del reale. Il suo sguardo è costantemente rivolto al linguaggio delle cose e dei comportamenti, con un interesse che esorbita dal semplice rilievo sociologico e politico per assumere una prospettiva più ampia, di tipo antropologico. Da qui nascono le famose requisitorie contro la contestazione studentesca o la

Grazie soprattutto alle modalità non chiarite del suo feroce assassinio, Pasolini soffre di una continua sovra-esposizione che trasforma i tratti provocatori e dolorosi della sua operatività artisticaintellettuale in elementi coesivi, capaci di conciliare visioni diverse sotto il segno del titanismo tragico

bruttezza dei giovani con i capelli lunghi. Pasolini legge le trasformazioni sociali e politiche principalmente come «mutazioni» del corpo: quello che egli definisce il nuovo potere totalitario dei mezzi di comunicazione – capace di plasmare i modi di essere e di vivere – ha fatto scomparire, a suo giudizio, i tratti della cultura popolare inscritti nella carne, nel linguaggio, nell’abbigliamento e nella gestualità dei giovani. Si è dissolto, così, il corpo popolare considerato come l’ultima roccaforte di resistenza al potere e alla cultura dominante. Salò rappresenta, da questo punto di vista, l’allegoria di un’apocalisse, in cui si realizza perfettamente l’indistinzione tra il carnefice e la vittima. Il fulcro delle disperate accuse pasoliniane al suo tempo risiede, infatti, nell’annullamento della diversità come forza conflittuale, come spazio di crescita e trasformazione politica: una diversità che coinvolge, evidentemente, anche la sua esperienza e il suo sguardo di omosessuale. Se si prescinde da questa dimensione autobiografica non si capiscono l’irruenza e la profonda disperazione con cui Pasolini si scaglia contro i corpi e i linguaggi deturpati dall’«omologazione», o le sue prese di posizione, giudicate apertamente reazionarie, contro l’aborto. E persino le sue proposte «swiftiane» – così le definiva – di abolire la televisione di stato, insieme alla scuola dell’obbligo, possono apparire, come si commentò all’epoca, soltanto reazioni estreme di un pensiero negativo già espresso dalla scuola di Francoforte. Per Pasolini «l’era dell’edoné» – per riprendere un’altra espressione del suo lessico – ha sostituito quella della «pietà» e i nuovi modi di produzione non riguardano più soltanto la creazione di merci, ma quella di un’orrenda umanità nuova, che passa attraverso il «genocidio» – termine mutuato da Marx – di un patrimonio di Pier Paolo Pasolini

valori arcaico. Tutte le osservazioni e gli sfoghi di Pasolini sono attraversati da un accento sofferente che diventa una sorta di rituale contro la desacralizzazione della vita. La sua radicale “poetica del rifiuto” contro i tempi presenti è segnata, dunque, da una priorità assoluta accordata all’ambito del vissuto. Questo mi pare – al di là degli specifici interventi sulla televisione e sul «processo al palazzo» del potere – il nucleo ancora vivo della sua posizione di intellettuale apocalittico: perfettamente consapevole, nella percezione del proprio isolamento, sia della provocatoria paradossalità delle proposte corsare e luterane sia del sostanziale assorbimento che la società avrebbe dimostrato nei confronti della sua figura contraddittoria. Quale si dimostra, appunto, l’espe-

Un esteta nostalgico del passato, un demistificatore della «tolleranza» del potere democratico, un pedagogo appassionato e, insieme, un esploratore della diversità sociale, un artista che vive l'atto espressivo come un gesto rituale di opposizione, ma anche un funebre cerimoniere della propria morte

rienza di un esteta nostalgico del passato, di un demistificatore della «tolleranza» del potere democratico, di un pedagogo appassionato e, insieme, di un esploratore della diversità sociale, di un artista che vive l’atto espressivo come un gesto rituale di opposizione, ma anche di un funebre cerimoniere della propria morte. Se, poi, un autore del genere, mentre fa del proprio corpo una sorta di opera vivente, viene fatalmente assorbito negli ingranaggi di svuotamento della società mediale, significa che siamo ben lontani dall’avere esaurito quella funzione di “resistenza” al potere a cui si riferirà successivamente Foucault. Siamo ben lontani, cioè, dall’esserci congedati da Pasolini.

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«Ti ricordi com’era bella l’Italia?» Una giornata con Antonio Tabucchi di Paolo di Paolo

È stato bello vedere all’opera uno scrittore come Antonio Tabucchi. Con la testa poggiata su una mano e la matita nell’altra, ancora concentratissimo dopo una lunga notte insonne passata a cambiare e spostare parole. Voglio aggiungere una cosa molto sentimentale, ma vera: ero pieno di ammirazione. Mi torna in mente quella Paolo Di Paolo poesia di Pessoa che aveva tradotto: «Mestre, meu mestre querido», che ne è di te in questa forma di vita? Troppi discorsi sono rimasti in sospeso, congelati dopo la sua morte prematura, poco più di un anno fa, come le sue valigie di viaggiatore instancabile, le sigarette, come tutte le ore belle e le risate. Vecchiano, Parigi, Lisbona, l’Alentejo, l’Oceano atlantico, Creta, e quel gusto di vivere, di mangiare bene, di radunare gli amici; i quaderni con la copertina nera, le bozze, le fotografie che sceglieva come un mago per le copertine dei libri, le cartoline. Sua moglie, Maria José, che dice: ti ho preso i giornali. E lui che li sfoglia arrabbiandosi, preso dalla sua passione civile. Sapeva essere anche sferzante, più che polemico. Soffriva per un’Italia che non riconosceva più. Ha ricevuto querele dai potenti, ma non ha smesso di provocarli. In un libro come L’oca al passo (2006) fa sentire tutta l’amarezza sul «buio che stiamo attraversando». Al telefono, da Lisbona o da Parigi, mi chiedeva notizie sulle «fognature italiche» – così definiva la scena politica del nostro Paese. In uno dei suoi ultimi racconti, nella raccolta dal titolo che è un presagio, Il tempo invecchia in fretta (2009), c’è un nipote adulto al capezzale di una zia morente. In televisione passano fotogrammi del Grande Fratello. Dice la zia in un sospiro: «Educare il popolo è tempo perso, del resto questo popolo ora ha fatto i soldi e lo ha educato il Grande Fratello, per questo lo votano, è un circolo vizioso, votano chi li ha educati». È disincanto? È rassegnazione? La zia sembra essersi addormentata: «Invece lei gli sfiorò la mano e gli fece cenno di avvicinarsi di nuovo. Ferruccio, sentì che diceva il soffio, ti ricordi com’era bella l’Italia?». Tabucchi è tra i nostri scrittori più conosciuti nel mondo: ha raccontato il Portogallo buio della dittatura di

Salazar nel memorabile Sostiene Pereira, ha indagato il tempo della memoria pubblica e di quella privata, ha raccolto le luci e le ombre del ventesimo secolo nelle pagine di Tristano muore. Le atmosfere per cui lo si

Vecchiano, Parigi, Lisbona, l’Alentejo, l’Oceano atlantico, Creta, e quel gusto di vivere, di mangiare bene, di radunare gli amici; i quaderni con la copertina nera, le bozze, le fotografie che sceglieva come un mago per le copertine dei libri. Sua moglie, Maria José, che dice: ti ho preso i giornali. E lui che li sfoglia arrabbiandosi, preso dalla sua passione civile. Sapeva essere anche sferzante, più che polemico. Soffriva per un’Italia che non riconosceva più

conosce sono perlopiù portoghesi, ma in realtà c’è molta Italia nei suoi romanzi e racconti: fin dagli esordi del ’75 con Piazza d’Italia – una micro-epopea dal Risorgimento al secondo dopoguerra – e con Il piccolo naviglio, del ’78, da anni introvabile e a breve riedito da Feltrinelli, storia di cinque generazioni di anarchici. In quella che sarebbe stata la sua ultima estate, gli avevo posto alcune domande sul disincanto politico di questi anni. Mi aveva risposto così: «Prendi le migliaia di giovani che nel luglio del 2001 hanno affollato Genova per manifestare contro il capitalismo impazzito, lasciato a briglie sciolte: quei giovani non erano rassegnati. Protestavano contro una forma selvaggia di depredazione della società, difendevano un’alternativa. Se però dieci anni dopo si accorgono che chi li ha pestati a sangue è stato promosso, ha fatto “carriera”, è naturale che il disincanto possa schiacciarli. Ma la colpa non è loro: è dei massacratori e di chi li ha promossi. Ho scritto anni fa che se essere italiani significa digerire la notizia che a Genova ad uccidere Carlo Giuliani sia stato un calcinaccio, dismetto volentieri questa italianità. Sulle vicende di quell’estate di dieci anni fa c’è un libro molto bello di Roberto Ferrucci, intitolato Cosa cambia. Manca il punto interrogativo, e questo non è un dettaglio trascurabile: lo scrittore dà l’allarme, denuncia, ma è come se dicesse: non facciamoci più domande, tanto…».


Per molti anni, Tabucchi è vissuto lontano dall’Italia. Quando gli chiedevo quali umori registrasse tornando nel proprio Paese, rispondeva in questi termini: «Sicuramente scetticismo, perplessità. Rassegnazione, no. Gli italiani non sono arresi: basterebbe dargli un fiammifero perché diventi una torcia. L’accento lo sposterei piuttosto sulla classe dirigente. Quali sono i valori, gli ideali che essa rappresenta? Lei riesce a distinguerli? E mi domando ancora: questa classe dirigente ha una percezione della realtà, un contatto con la realtà concreta, tale che la renda in grado di costituire una guida per i cittadini? Il rischio è di scaricare su quella che viene chiamata “la gente” una responsabilità che forse non ha, o non del tutto. È facile cadere in un qualunquismo all’incontrario che vorrebbe gli italiani tutti cialtroni, disonesti, indifferenti, ma sarebbe preoccupante e ingiusto, come qualunque giudizio sommario su un popolo intero».

La letteratura, l’arte in genere possono essere un buon antidoto al disincanto?, ho domandato. Questa la sua risposta: «Sono convinto che, nonostante la stagione di crisi politica ed economica, la produzione artistica italiana degli ultimi anni – letteraria, cinematografica – sia di ottima qualità, e che non sfiguri al confronto con quella di altri paesi europei. Anzi. Quanto poi questa qualità artistica possa avere influenza su una situazione difficile dal punto di vista civile e morale, non so. Gli artisti sono sempre piccoli David di fronte a un enorme Golia. Non sono loro a far cadere i regimi, ma vivendo nell’Attuale, nel loro tempo, nel loro “ora”, se non altro ne osservano le storture; se non altro, tentano di capire il perché e il quando delle cose, di ciò che non va. E capire è già molto. Con un cerino gli artisti illuminano l’oscurità, in tempo per mostrare a chi abbia occhi quando il sentiero percorso è sull’orlo dell’abisso».

Pubblichiamo di seguito un brano tratto da Mandami tanta vita, l’ultimo romanzo di Paolo Di Paolo, finalista al Premio Strega 2013.

«È andata così. Ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 2 del Regio Decreto 15 luglio 1923, numero 3288, e del Regio Decreto 10 luglio 1924, numero 1081 – tutto si era arenato lì, in una secca di stupidi numeri. La rivista, nell’ultimo anno, era stata sequestrata di continuo. Non passava mese senza inghippi, piovevano diffide: per critiche e commenti falsi, per scritti contro i poteri dello Stato, per diffamazioni ingiuriose – così recitavano le motivazioni. Non c’era da stare tranquilli un minuto, ma fino all’ultimo Piero si era ostinato a pensare che non sarebbe accaduto, che la rivista poteva andare avanti: un piccolo ma solido veliero che resiste alle burrasche più violente. D’altra parte, non aveva forse superato altre battaglie di febbraio? Sempre lo stesso mese gelido, ma tre anni fa – appena di ritorno dal viaggio di nozze con Ada –, era stato chiuso in carcere insieme a suo padre. L’ordine di arresto era stato firmato da Mussolini in persona – PER INTELLIGENZA COI COMUNISTI SOVVERSIVI STOP ATTENDO RISULTATO OPERAZIONE TELEGRAFICAMENTE MASSIMA ENERGIA E DUREZZA STOP. Cella numero 107: il primo giorno Ada gli aveva portato un po’ di carne, una tavoletta di cioccolato, una bottiglia di vino. Un poeta triestino quarantenne gli aveva mandato i suoi saluti, «Mi ricordi un eroe romantico», gli aveva scritto, «mi ricordi Ernani, quello di Verdi, che amo come la giovinezza». Lui aveva sorriso, ma il senso di colpa a volte lo abbatteva. Aveva trascinato suo padre con sé in galera, in quanto gerente responsabile della rivista, e il pittore Casorati, e il tipografo di Pinerolo, che già parecchie volte si era lamentato. Senza avvertire, in più di un’occasione, aveva tagliato qualche frase dagli articoli; il direttore aveva protestato, il tipografo gli aveva risposto per le rime Io corro il rischio di veder rovinato tutto quanto mio padre è riuscito a riunire dopo una vita di sacrifici e di lavoro, nessun tipografo di Torino in momenti come questi si arrischierebbe a pubblicare gli articoli incendiari che stai scrivendo tu ora. Una notte, una squadraccia armata di latte di benzina e di mazze per sfasciare i vetri si era presentata davanti alla tipografia. Già alla fine di marzo del ’23 la tipografia di Pinerolo non esisteva più. Ma come si può tornare indietro? Come si può accettare di tacere? Una volta che la sfida è aperta, occorre condurla fino in fondo, con intransigenza. Non si torna indietro dalle parole dette, non si recede dalle convinzioni. Non l’aveva forse chiarito per tempo? Non era stato mai tenero con Giolitti e con i giolittiani, era stato caustico, aveva usato quintali di ironia, di sarcasmo, ma adesso no, adesso solo parole serie, parole precise. Aveva detto Retorica. Aveva detto Cortigianeria. Aveva detto Demagogismo. Aveva detto Trasformismo. Aveva pesato ciascuna di queste parole. Aveva detto che erano le storiche malattie italiane e che nel fascismo erano riassunte tutte. Aveva detto Tirannide. Aveva detto Esilio in patria. Aveva detto Resteremo al nostro posto. Gli pareva che andare via fosse una soluzione perfino troppo comoda, a buon prezzo. Dove poter essere, se non qui, l’italiano che combatte alla luce del sole, che non se la intende col vincitore, con le sette e con le camorre? L’italiano che non si arrende alle allucinazioni collettive. È comunque una forma di resa, questo viaggio in treno che lo porta lontano? A un amico di Bari aveva spiegato che la situazione non avrebbe fatto che peggiorare. Un mese prima era uscito l’ultimo numero della rivista politica. Ritenuto che i ripetuti sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l’aspetto di critiche e di discussioni politiche, economiche, morali, religiose, che vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di princìpi dottrinari, mira in realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l’ordine pubblico...» (da Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Milano, Feltrinelli, 2013)

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La letteratura illumistica di Leonardo Sciascia

La ricerca di una verità più affidabile di quella data dalla Storia di Michela Monferrini

«Esistevano forse una letteratura piemontese, una letteratura lombarda, o veneta, o di qualunque altra regione italiana?» Con quest’argomentazione un gruppo di scrittori meridionali – Michele Prisco, Mario Pomilio, Giuseppe Bonaviri – rispondeva al tentativo della critica di rintracciare tra loro caratteri stilistici e ideoloMichela Monferrini gici comuni, rifiutando quella gabbia d’isolamento, quella ghettizzazione letteraria, e facendo esplodere – siamo negli anni Sessanta – la polemica sulla letteratura meridionale. Tra questi scrittori vi era anche Leonardo Sciascia,

“L’intellettuale contro”, “l’anticonformista che sfidò il potere”: questa immagine è forse giusta per l’uomo Sciascia, ma non è completa per lo scrittore; coincide con il suo impegno civile, ma taglia fuori la letteratura, che è l’unico vero elemento in cui Sciascia ha sempre riposto la sua fiducia, ben più che sulla “sola” interpretazione della realtà

siciliano di Racalmuto, maestro elementare di origini proletarie, figlio di un impiegato in una miniera di zolfo, così diverso e così letterariamente inavvicinabile a certe altre figure di scrittori siciliani (basti pensare al principe Tomasi di Lampedusa, o alla scrittrice Livia De Stefani, al loro mondo di nobili origini espresso nel Gattopardo, ne Gli affatturati, o in Passione di Rosa). Sono appunto, all’interno di uno stesso contesto geografico, due universi che anche linguisticamente non si sfiorano neppure: Sciascia raccoglie la lezione di Verga, quegli incroci tra lingua e dialetto evidenti nei narratori dalle radici popolari. La sicilianità, e la sicilianità di Racalmuto, Sciascia la esprimeva invece col suo carattere, con il suo modo di essere, di stare, con il suo senso di reticenza: chiuso, impenetrabile, occorreva tutta la pazienza del caso per cercare di sbloccarlo e farlo parlare. Si racconta della sua vergogna anche soltanto di sedere in una trattoria, in mezzo alle persone, motivo per cui

sceglieva di tornare sempre negli stessi luoghi. In direzione di questa tipicità, si muove davvero e forse soltanto il suo primo libro, Le parrocchie di Regalpetra, narrazione – in un luogo dal nome fittizio –, di una società fatta di proprietà terriera e di estrazione di zolfo, di galantuomini e contadini, di una vita assolutamente patriarcale il cui padre-vertice finisce per essere imitato dai figli in tutto, a partire dalla ostinata riservatezza.

Accostare a quello di Sciascia i nomi di chi oggi denuncia (si può fare il nome facile di Saviano, ma la tendenza è evidente) ma denuncia giornalisticamente, prendendo a spunto e supporto la cronaca e non la letteratura, è ancora una volta un errore nei suoi confronti

Ma se da un lato Sciascia non ha fatto nulla per negare in sé i caratteri tipici della sua terra e della sua formazione, paradossalmente lo scrittore si apriva laddove altri non avrebbero pronunciato una parola, si apriva per la denuncia, per la testimonianza, per amore della verità. I quotidiani che il 21 novembre 1989, recavano la notizia della sua morte avvenuta il giorno precedente, lo definivano come “l’intellettuale contro”, come “l’anticonformista che sfidò il potere”, e ciò ha contribuito a veicolare un’immagine che è forse giusta per l’uomo Sciascia, ma non è comple-


ta per lo scrittore; che coincide con il suo impegno civile, ma taglia fuori la letteratura, che è l’unico vero elemento in cui Sciascia ha sempre riposto la sua fiducia, ben più che sulla “sola” interpretazione della realtà. Quando gli si chiedeva quale fosse l’origine e quali le caratteristiche principali della sua letteratura, lui si richiamava – oltre che ai più vicini Pirandello e Brancati – alla grande lezione ricevuta dagli illuministi francesi, Voltaire, Montesquieu, D’Alembert: una lezione di essenzialità della letteratura. La sua scrittura è marcatamente illuministica, non verista; ogni romanzo ha come condizione un’immissione totaliz- Leonardo Sciascia zante in una realtà che è allusiva, mai data per certa. E anzi: spesso sposta i confini temporali a un’altra epoca (come nel bellissimo Consiglio d’Egitto), creando un cortocircuito tra

La sua scrittura è marcatamente illuministica, non verista; ogni romanzo ha come condizione un’immissione totalizzante in una realtà che è allusiva, mai data per certa

atmosfere identiche e diverse ed evidenziando come la verità stesse nelle cose e non nella realtà storica, richiamando a sé la lezione del Principe di Machiavelli. Il grande errore è stato quello di considerare il davvero machiavellico Sciascia come un narratore della realtà prima che della verità, e non capire che il

cuore della sua ricerca (ricerca anche materiale, come lavoro attento e assiduo negli archivi e nelle biblioteche siciliane, con rigorosi controlli basati su un referto storico che non doveva rappresentare un momento narrativo, ma un elemento quasi didattico nei confronti del lettore perché la Storia in Sciascia è fatta di documenti e solo i documenti parlano) è invece proprio, e soltanto, l’avvicinamento quanto più possibile alla verità. Ne Il giorno della civetta c’è un equilibrio perfetto tra la struttura reale, la mafia, e i moduli di comportamento del protagonista in cui Sciascia riesce a incidere, a introdurre gli elementi del fantastico, tra la denuncia e l’invenzione, motivo per cui accostargli i nomi di chi oggi denuncia (si può fare il nome facile di Saviano, ma la tendenza è evidente) ma denuncia giornalisticamente, prendendo a spunto e supporto la cronaca e non la letteratura, è ancora una volta un errore nei suoi confronti. In questo senso, guardando alla biografia dell’uomo Sciascia, è anche più comprensibile la durata breve della sua esperienza da parlamentare, con il Partito Radicale e al fianco di Marco Pannella: il Parlamento gli andava stretto, quello che accadeva nel dibattito politico lo riguardava poco, e forse poco lo interessava, non era oggetto della sua personale indagine. La lezione di Sciascia è tutta, proprio, in questa indagine, ed è l’indagine di uno scrittore che non ha mai preteso di raccontare una sola versione, che sapeva di non poter possedere le chiavi della realtà, che ha cercato di avvicinarsi il più possibile a una verità più affidabile di quella data dalla Storia.

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Spiegare di nuovo le vele Intervista a Guido Fabiani di Alessandra Ciarletti

incontri

Guido Fabiani è stato rettore dell’Università degli Studi Roma Tre dal 1998 al 2013 e presidente del Comitato regionale di coordinamento delle università del Lazio (CRUL) da luglio 2006. È professore ordinario di Politica economica dal 1980, è stato Preside della Facoltà di Economia “Federico Caffè” di Roma Tre dal 1992 al 1998. Nel 2010 è stato insignito del titolo di professore emerito. Laureato in Scienze agrarie, si è specializzato in problemi dello sviluppo economico del Mezzogiorno alla scuola di Manlio Rossi Doria di Portici e in Teoria della pianificazione. Ha studiato in particolare i problemi della pianificazione economica in URSS, come visiting researcher alla London School of Economics, con Peter Wiles e Alfred Zauberman. I suoi principali lavori sono stati pubblicati con Il Mulino, Einaudi e Franco Angeli. Ha collaborato sul piano scientifico con varie istituzioni nazionali e internazionali, tra cui: ISTAT, Formez, Ministero dell’Ambiente, Ministero dell’Agricoltura, Cooperazione allo Sviluppo, UE, CNEL, ONU, FAO, IPALMO. Dal marzo 2013 è assessore allo Sviluppo economico e alle attività produttive della Regione Lazio. Prof. Fabiani lei per 15 anni è stato il Magnifico Rettore dell’Ateneo Roma Tre, un arco temporale ricco nel quale far tesoro di molte esperienze. Qual è stato l’incontro più costruttivo sotto il profilo umano e professionale? Gli anni di vita a Roma Tre sono stati molto formativi da diversi punti di vista, ma soprattutto sotto il profilo umano. Sono tanti gli incontri che potrei e vorrei ricordare, e che mi hanno molto arricchito. Penso in particolar modo a coloro che mi hanno insegnato a coltivare un atteggiamento, uno stile per affrontare le sfide. In tal senso, prima di ricordare gli incontri legati a Roma Tre, penso al mio maestro, il prof. Manlio Rossi Doria, che tra le tante cose mi ha insegnato sempre a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Egli aveva infatti la straordinaria capacità di guardare al futuro e di proiettarsi in prima persona in quel futuro immaginato per migliorare il contesto in cui operava e procedendo sulla strada spesso faticosa della trasformazione delle idee in realtà concrete. Venendo a Roma Tre, un punto di riferimento importante per me è stato Antonio Ruberti, che fu anche ministro dell’Università e della Ricerca dal 1989 al 1992. Egli ebbe l’idea assolutamente coraggiosa e geniale di costruire una nuova Università a Roma, partendo praticamente da niente e mettendo in bilancio solamente cinquanta miliardi di vecchie lire, lanciando anche lui, con intuizione e coraggio, il cuore oltre l’ostacolo. Ruberti aveva un atteggiamento estremamente pragmatico, unito ad una grande forza immaginativa. Accanto a lui, ripercorrendo i primi anni di Roma Tre, vorrei ricordare due incontri, due persone: Biancamaria Bosco Tedeschini Lalli, primo rettore di questo Ateneo, e lo scienziato Francesco Paolo Ricci, primo preside della nostra Facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali. La prima ha tradotto l’idea di Ruberti con una energia, con una tenacia e una volontà impressionanti: da que-

sta donna ho imparato a stare sulle cose e a non mollare la presa fino a quando non si è raggiunto l’obiettivo. Lei lo sapeva fare con una energia particolare che penso di non aver mai avuto! E poi Francesco Ricci. Con lui è stata una sfida continua: battagliavamo su tutto, ci contendevamo spazi, cattedre e progetti, ma con un alto rispetto reciproco, perché a muoverci non era soltanto la nostra voglia di farcela, ma era soprattutto l’impegno di aderire a un progetto più grande di noi, che sarebbe rimasto oltre la nostra stessa presenza. Roma Tre appunto. Di questo vivace rap-

Il mio maestro, il prof. Manlio Rossi Doria, tra le tante cose mi ha insegnato sempre a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Egli aveva infatti la straordinaria capacità di guardare al futuro e di proiettarsi in prima persona in quel futuro immaginato per migliorare il contesto in cui operava e procedendo sulla strada spesso faticosa della trasformazione delle idee in realtà concrete

porto, mi resta oltre al ricordo vivissimo, una bella fotografia che ci fu scattata alla fine della cerimonia di inaugurazione del primo anno accademico di questo Ateneo: fummo sorpresi nel lancio dei nostri tocchi, i volti soddisfatti e ridenti, gli sguardi rivolti al futuro, come due ragazzini… Sapevamo di voler fare insieme una bella cosa, ci univano gli ideali, e una freschezza di atteggiamento, forse un po’ avventuroso, oltre un senso profondo dell’impegno in comune.


Gli anni del suo mandato hanno coinciso con i grandi cambiamenti del sistema universitario italiano. Lei è stato parte attiva di essi, difendendo spesso in prima persona il diritto alla formazione e l’obbligo dell’istituzione all’eccellenza. Dalla sua prospettiva “privilegiata” questi cambiamenti si stanno rivelando opportuni alla formazione della società di domani?

Venendo a Roma Tre, un punto di riferimento importante per me è stato Antonio Ruberti, che fu anche ministro dell’Università e della Ricerca dal 1989 al 1992. Egli ebbe l’idea assolutamente coraggiosa e geniale di costruire una nuova Università a Roma, partendo praticamente da niente e mettendo in bilancio solamente cinquanta miliardi di vecchie lire, lanciando anche lui, con intuizione e coraggio, il cuore oltre l’ostacolo

gli strati più giovani, che ha cambiato, io credo, per sempre il volto dell’accademia. Sul piano della didattica la questione è un po’ diversa e più controversa, perché negli anni del cambiamento c’è stata una forte resistenza da parte del ceto accademico che, diciamo, ha messo tempo a organizzarsi e a recepire e a tradurre e governare il senso della riforma. Ci hanno pensato, poi, anche i vari ministri – ognuno dei quali si è impegnato a fare la propria riforma – a frenare il cambiamento. Tuttavia sono convinto che, al netto dei limiti e delle critiche che si possono fare al sistema attuale, esso stia entrando a regime e sicuramente funzionerà, anche solo per il semplice fatto che è un per-

Noi oggi formiamo capitale umano che perlopiù non viene accolto nel tessuto produttivo e sociale del paese. Si pone un interrogativo lacerante per un giovane: perché investire cinque, sei, sette anni della propria vita con così scarse prospettive? Perché chiediamo agli studenti un impegno, un sacrificio così forte quando poi alla fine, soprattutto in questi ultimi anni, si verifica che una, o forse anche un paio di generazioni, vengano tenute ai margini della società? Tutto questo purtroppo genera un forte disagio sociale che può essere anche esplosivo

L’università che lascio, non parlo di Roma Tre, ma dell’università in generale, è molto diversa da quella che conoscevo quando ho iniziato nel 1992 come preside della Facoltà di Economia e poi dal 1998 al 2013 come rettore. In questi decenni nel sistema universitario italiano sono stati introdotti una serie di cambiamenti che, anche se pieni di limiti e di contraddizioni, sono stati determinanti per la trasformazione dell’unicorso che stiamo facendo insieme al resto dell’Europa versità. Forse il più importante è stato introdotto con per costruire comuni processi culturali e sociali. A il concetto di autonomia, che a onor del vero partiva questo riguardo, come diceva Ruberti, l’obiettivo ultida Ruberti; un’autonomia modulata sul piano finanmo è costruire uno spazio europeo dell’alta formazioziario, sul piano istituzionale e sul piano didattico. Le ne e della ricerca. prime idee di autonomia sono state col tempo e con Senza peccare di superbia possiamo dire – ed è invari interventi successivi abbastanza ridimensionate, negabile – che Roma Tre durante il suo rettorato per cui lo spirito iniziale di grande cambiamento si è sia cresciuta molandato via via attetissimo sia a livello nuando. Ciò nononazionale che interstante, però, sulla nazionale. Cosa si base di questi tre fiporta a casa di queloni, l’università itasto lungo viaggio? liana è veramente È una domanda che cambiata molto; obmi procura molta bligati anche dalla emozione! Penso di situazione economipoter dire che “l’avca e finanziaria del ventura” Roma Tre paese, ci siamo abirappresenti l’espetuati a razionalizzarienza più importanre, a riorganizzarci, te della mia vita. Ho a fare conto sulle ripartecipato e sono sorse disponibili per stato tra i protagonipoter progettare e sti della costruzione pianificare il futuro. di questa nuova istiQuesto atteggiamentuzione, un viaggio to ha creato sopratpieno di difficoltà, tutto una serie di ma anche di enormi competenze interne all’Università, in Guido Fabiani e Bianca Maria Bosco Tedeschini Lalli in occasione dell’inaugurazione soddisfazioni. Ho avuto l’opportunità particolar modo ne- dell’anno accademico 2012-2013, ventennale di Roma Tre

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di veder crescere e contribuire a far crescere questa università praticamente da zero. Ho avuto dei validissimi compagni di viaggio, con i quali ho potuto condividere un ideale e la messa in opera dello stesso, pietra dopo pietra, è il caso di dire! Abbiamo contribuito alla riqualificazione dell’intera zona Ostiense, favorendo, grazie alla presenza di ben quarantamila giovani, una nascita spontanea di servizi e centri culturali, mettendo a disposizione dei nostri studenti ma anche della popolazione di questo quartiere, strutture accoglienti e servizi soddisfacenti. E perché no, mettendo a disposizione della stessa città un teatro universitario, il Palladium che, grazie anche alla collaborazione con il Romaeuropa Festival, ha contribuito ad inserirci nel panorama culturale nazionale e internazionale. Cosa vuol dire oggi, in un paese drammaticamente coinvolto in una grave crisi economica, alta formazione? È un interrogativo che ci poniamo tutti noi che facciamo questo mestiere nell’attuale delicatissima fase storica. Alta formazione significa creare capitale umano da immettere nel processo produttivo, ovvero nel processo di crescita culturale, sociale, civile ed economica del paese. Capitale umano in grado di competere anche a livello internazionale. Ma noi oggi formiamo capitale umano che perlopiù non viene accolto nel tessuto pro-

Il Teatro Palladium

duttivo e sociale del paese. Si pone un interrogativo lacerante per un giovane: perché investire cinque, sei, sette anni della propria vita con così scarse prospettive? Perché chiediamo agli studenti un impegno, un sacrificio così forte quando poi alla fine, soprattutto in questi ultimi anni, si verifica che una, o forse anche un paio di generazioni, vengano tenute ai margini della società? Tutto questo purtroppo genera un forte disagio sociale che può essere anche esplosivo.

Penso di poter dire che “l’avventura” Roma Tre rappresenti l’esperienza più importante della mia vita. Ho partecipato e sono stato tra i protagonisti della costruzione di questa nuova istituzione, un viaggio pieno di difficoltà, ma anche di enormi soddisfazioni

E che cosa direbbe ai giovani in questa delicatissima situazione? Direi loro di non perdere l’entusiasmo, la volontà. Debbono saper lanciare il cuore oltre l’ostacolo. So che è molto difficile, ma la storia ci dice che anche le peggiori crisi economiche e sociali si sono superate, sebbene con costi enormi. Non bisogna cedere alla disperazione, ma insistere nel proprio progetto di vita e semmai guardando all’estero, anche soltanto per una parentesi, non perché lì sia più facile, ma perché è un’esperienza che conta e rende pronti a tornare in Italia per sostenere la ripresa del nostro paese. Perché essa è possibile e ci sarà e dipenderà dai giovani! Di recente ha assunto un nuovo impegno istituzionale: il 22 marzo u.s. è stato nominato Assessore allo sviluppo economico e alle attività produttive della Regione Lazio. Una sfida importante in un momento così complesso. Come pensa di affrontarla? In effetti è una sfida, non so se c’è anche un elemento di follia, perché per certi aspetti sarebbe stato il momento di raccogliere le vele e invece le ho spiegate alla volta di una nuova avventura che si presenta altamente stimolante, perché si impatta proprio con le difficoltà della crisi economica e sociale del paese. Al tempo stesso però sento questo nuovo impegno in linea di continuità con quanto fatto finora: all’università si forma capitale umano, ora devo lavorare affinché i nostri giovani possano trovare accoglienza nel tessuto produttivo.


Il potere che frena Intervista a Massimo Cacciari di Federica Martellini

Massimo Cacciari, filoso e politico. Ordinario di Estetica. Dal 1998 al 2006 è stato inoltre Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Accademia di Architettura dell’Università di Lugano in Svizzera. Nel 2002 ha fondato la Facoltà di Filosofia dell’Università VitaSalute San Raffaele di Milano e ne diviene primo preside. È stato deputato al Parlamento italiano dal 1976 al 1983; sindaco di Venezia dal 1993 al 2000 e dal 2005 al 2010 e deputato al Parlamento europeo nel 1999-2000. Collabora con l’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli e il Collége de Philosophie di Parigi. È stato cofondatore e condirettore di alcune di riviste che hanno segnato il dibattito culturale, politico e filosofico italiano degli ultimi decenni, da Angelus novus a Contropiano, da Laboratorio politico a Il centauro, a Paradosso. È autore di numerose pubblicazioni. Il suo ultimo lavoro Il potere che frena (2013) è edito da Adelphi. Nel dibattito pubblico si ha a volte l’impressione che si vada sempre più accentuando la dicotomia fra sapere e comunicare; fra filosofi, in senso lato, e sofisti, mi viene da dire. La parola è sempre meno uno strumento di analisi e ragionamento e sempre più una tecnica di comunicazione? Si fa una grande confusione tra “comunicare” e “informare”. E tutto sembra ridursi al secondo termine. Comunicare, invece, significa prima di tutto ascoltare, porsi in ascolto, arrischiarsi di cambiare ascoltando, e poi esprimere ciò che questo processo ci porta a pensare. Attenzione! La sofistica è una cosa molto seria! Non era affatto semplicemente una tecnica di informazione (in questo caso nel seno di in-formare e anche educare), ma una scienza dell’argomentazione, e cioè del ragionamento o dell’espressione chiara del pensiero. Altrimenti non si capirebbe come lo stesso Socrate potesse essere confuso con i sofisti! Quando si vuole semplicemente convincere con ogni mezzo o attraverso facili frasi demagogiche non si è affatto VERI SOFISTI, ma illusionisti. L’università è ancora in grado, a suo avviso, di giocare un ruolo nella formazione di un pensiero critico e di una consapevolezza civile nelle generazioni che la attraversano? Non vi è LA università. L’università è fatta di questi studenti e di questi docenti, nome e cognome. Se sono animati da spirito critico, se vogliono conoscere-e-comunicare, l’università sarà critica, altrimenti vi si può insegnare Adorno e Horkheimer da mane a sera e rimarrà una morta gora accademica. Lei è stato a lungo sindaco di una città per molti aspetti eccezionale come Venezia. Qual è il portato di una esperienza accademica e intellettuale come la sua nell’attività politica e amministrativa? Fare-pensare politica è necessario, fare il sindaco o il deputato etc. è occasionale. Essere animali

dotati di logos implica la relazione-comunicazione attraverso il linguaggio, con cui ognuno di noi si esprime, esprime i propri pensieri, che sono soltanto i suoi. E perciò è necessario trovare i modi di un accordo, sempre a rischio. Fare il sindaco significa cercare di accordare i diversi linguaggiragioni della città. Compito in Italia di difficoltà estrema, poiché da noi UN popolo o UN ethos mai è esistito.

Si fa una grande confusione tra “comunicare” e “informare”. E tutto sembra ridursi al secondo termine. Comunicare, invece, significa prima di tutto ascoltare e arrischiarsi di cambiare ascoltando

Negli ultimi decenni abbiamo assistito in Italia ad un mutamento radicale delle culture politiche. Possiamo forse dire che oggi non ci sono più partiti politici come li abbiamo conosciuti in passato, con strutture complesse e articolate, perché non vi sono probabilmente più i soggetti sociali e politici che vi si riconoscevano. Per quali canali passa oggi la rappresentanza politica? È in crisi l’idea stessa di rappresentanza. Discorso ampio e difficile. Ne parlo anche nel mio libretto (Il potere che frena, Adelphi, 2013). La crisi dei partiti è elemento di questa, ben più generale. Certo, conta anche lo smottamento della loro base sociale. Ma la spiegazione non è tanto “materialistica”, quanto proprio culturale: i partiti non hanno saputo registrare il salto d’epoca, la globalizzazione, le nuove culture che avanzavano. Non saprei leggere il futuro. Una domanda a partire dal suo ultimo lavoro, Il potere che frena, edito da Adelphi. Volendo dare una chiave di lettura contemporanea, quali sono in questo momento storico le forme del potere che frena (o che non frena)? Il mio libretto conclude cercando di mostrare proprio il tramonto di ogni “potere che frena”. Le nuove potenze tecnico - economiche sono “s-catenate” - con le conseguenze che viviamo. Attraverso quali “norme” ordinarne la vita? Hic sunt leones.

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Il teatro come baratto culturale L’Odin Teatret a Roma Tre: intervista a Eugenio Barba di Mirella Schino

Eugenio Barba è un regista teatrale, una delle figure di spicco del teatro contemporaneo a livello internazionale ed è considerato uno dei maggiori intellettuali europei. Allievo e amico di Jerzy Grotowski, è fondatore e direttore dell’Odin Teatret. Barba ha modificato il concetto di lavoro dell’attore avviato dal regista polacco, attraverso una pratica teatrale che porta l’attore a contatto con la propria ricerca interiore. L’Odin Teatret promuove l’idea e la pratica del teatro come “baratto culturale”, uno scambio attraverso una performance con la comunità e un luogo non fisico di dialogo e scambio tra diverse realtà. Eugenio Barba ha diretto 65 produzioni con l’Odin Teatret e il Theatrum Mundi Ensemble. Tra i titoli più noti ci sono Ferai (1969), Le Ceneri di Brecht (1980), Il Gospel Secondo Oxyrhincus (1985), Talabot (1988), Kaosmos (1993) e Mythos (1998). Fra le produzioni più recenti Sale (2002), Grandi Città sotto la Luna (2003) e Don Giovanni all’Inferno (2006) in collaborazione con l’Ensemble Midtvest. Nel 2000 gli è stato assegnato Premio Sonning. Da metà febbraio a metà marzo 2013, l’Odin Teatret è rimasto a Roma, prima all’Auditorium Parco della musica, poi al Teatro Vascello. L’Odin mancava dalla capitale da una dozzina d’anni, anche se alcuni degli attori vi avevano fatto qualche rapida apparizione. Nella tournée del febbraio-marzo 2013, l’intero ensemble ha presentato il suo ultimo spettacolo: La vita cronica, accompagnato da seminari o incontri che si sono svolti in diversi luoghi, teatri, università, centri sociali. La costante affluenza degli spettatori e l’interesse di un pubblico giovanile, che in gran parte incontrava l’Odin per la prima volta, hanno trasformato una tournée in un avvenimento. Vista l’importanza di questo teatro, vista l’entità della sua influenza – una delle più significative nell’ambiente teatrale del secondo Novecento - a Roma Tre abbiamo organizzato nove incontri con gli attori ed Eugenio Barba, fondatore dell’Odin nel 1964 e suo unico regista-drammaturgo fino ad oggi. Eugenio Barba ha portato ai nostri studenti una Master Class, nella quale, con l’attrice Julia Varley, ha mostrato il modo tanto peculiare con cui l’Odin costruisce i suoi spettacoli. L’attrice Iben Nagel Rasmussen e Ferdinando Taviani, professore emerito di storia del teatro, hanno parlato dei “baratti”, una pratica inventata dall’Odin negli anni Settanta per entrare in contatto con popolazioni spesso lontane dal teatro “scambiando” con loro forme spettacolari. Kai Bredholt, attore, ha portato nelle nostre aule la sua orchestra, la più giovane attrice dell’Odin che danzava sui trampoli, e il racconto del “teatro della reciprocità”: un modo di far teatro che egli organizza con anziani, bambini, disabili, apprendisti danzatori, virtuosi della motocicletta e cavalli. Jan Ferslev ha parlato della sua storia di musicista-attore. Fausto Pro ha guidato gli studenti a visitare lo spazio della Vita cronica. Ha spiegato il modo in cui l’Odin costruisce le re-

lazioni spettacolo-spettatore non solo attraverso le azioni degli attori, o le scenografie, ma anche attraverso la costruzione di uno spazio scenico particolare, ristretto e caratteristico, pieno di sorprese emotive per gli spettatori e di problemi tecnici per gli attori. Eugenio Barba, regista, insieme a quattro studiosi di teatro che da decenni seguono le vicende dell’Odin (Franco Ruffini, Nicola Savarese, Mirella Schino e Ferdinando Taviani) ha parlato della storia dell’Odin. I responsabili dell’archivio dell’Odin (Francesca Romana Rietti, Valentina Tibaldi, Claudio Coloberti, Chiara Crupi e io) hanno mostrato come si possano preservare senza troppo tradirle le tracce e la memoria dei molti percorsi di questo teatro. Non solo dei suoi spettacoli. Il ciclo di incontri si è concluso con uno spettacolo di

Forse uno dei compiti principali, per gli intellettuali del teatro, studiosi o teatranti o studenti che siano, sta proprio nello sforzo di creare momenti così: trappole capaci di catturare una vera esperienza. Una memoria viva

Iben Nagel Rasmussen, donato dall’Odin a Roma Tre. Si era aperto con una presentazione della rivista “Teatro e Storia”, della cui redazione fa parte lo stesso Barba. “Teatro e Storia” non è soltanto una rivista di studi teatrali, ma un ambiente in cui artisti di teatro e studiosi di teatro possono parlare una lingua comune, e confrontare le loro esperienze. E’ uno dei valori dell’Odin aver creato relazioni nelle quali possono convivere studiosi e teatranti, non come osservatori ed osservati, ma come persone ugualmente interessate a preservare e a trasmettere. Nove incontri sono molti, e l’università vive ormai


spettacolo sono stati una esperienza forte. E’ raro sentirsi ringraziare tanto spesso e con tanto calore per una attività nata all’interno d’uno o due corsi universitari, coi loro docenti, i loro programmi e le loro aule. Occuparsi di teatro non è facile. Come si fa a studiare e a far studiare qualcosa che viene costruito con grande cura, che comprende delicati e complessi sistemi di relazione, che vive per brevissimo tempo, e poi scompare? Come si fa a prendersi cura di un bene così immateriale e tanto fuggitivo? Eppure a noi, intellettuali di teatro, spetta il compito di preservarne la memoria. Di garantire una trasmissione al futuro anche nei momenti - frequenti - in cui le tradizioni si spezzano, le tecniche si disperdono, e il teatro sembra solo un costume del passato, apparentemente in stato d’abbandono. La presenza dell’Odin a Roma ha permesso agli studiosi, agli studenti, alla gente di teatro venuta ad osservare e partecipare, di vedere “il teatro” sotto forma di una complessa stratigrafia: lo spettacolo, e i molteplici tipi di relazioni che può instaurare con i suoi Gli attori con cui ho fondato l’Odin spettatori. Le attività con pubblici non canonici, e la erano giovani non ammessi presenza del teatro nelle comunità sociali. Le relazioall’accademia di teatro di Oslo. Anche io ni tra gli attori, e quelle tra attori e regista. Il lavoro di preparazione dell’attore, e la tortuosità delle vie che ero stato rifiutato da molti teatri. portano alla creazione teatrale. Il senso del fare teatro. Nessuno di noi ha potuto apprendere il Così abbiamo potuto osservare come la comunicaziomestiere del fare teatro. Allora abbiamo ne, a teatro, non sia quella diretta. Come passi, invece attraverso un uso voluto, sperimentato e vitale del dovuto inventarcelo. Abbiamo inventato Disordine, che si serve anche della incomprensione. la ruota. Ma la nostra inesperienza ci ha Questi giorni di incontri ci hanno fatto capire il peso fecondo del teatro del passato nella vita di chi oggi fatto inventare una ruota quadrata differentemente e autonomamente pratica un artigianato simile e diverso. stimolarsi a vicenda. Proprio questa stratigrafia complessa costituisce l’imL’Odin Teatret ha quasi cinquant’anni di vita: è stato pronta che il teatro può lasciare. Lo abbiamo sperifondato in Norvegia dall’italiano Eugenio Barba, oggi mentato tutti insieme, teatranti, studenti e studiosi, tanto celebre, ma allora emigrante e autodidatta. Dal con una parità che derivava dal lavoro comune. 1966, l’Odin ha la sua sede stabile in Danimarca. La Forse uno dei compiti principali, per gli intellettuali longevità di questo teatro, coniugata alla presenza di del teatro, studiosi o teaun gruppo stabile di attori , tranti o perfino studenti alcuni dei quali sono preche siano, sta proprio nello senti fin dalla fondazione, sforzo di creare momenti costituisce un caso unico, simili, trappole capaci di nella storia del teatro mocatturare una vera espederno. L’Odin ha profondarienza. Una memoria viva. mente influenzato il teatro L’Odin non è solo un teadi ricerca mondiale con la tro. È un creatore di amforma particolare dei suoi bienti, di relazioni anospettacoli, il modo di lavomale, come quella tra chi rare dei suoi attori, le molil teatro lo pratica, e chi te attività praticate, le sue lo studia. Per noi studiosi strategie. è stato importante. La Ma il teatro è luogo di panostra lunga amicizia con radossi, la sua cultura è bal’Odin Teatret ci ha persata sulla discontinuità: la messo di capire nuovi fama dell’Odin Teatret non problemi da porci. Per impedisce che resti sconoesempio: qual è la dinasciuto a molti spettatori. mica che tiene insieme Per la maggioranza dei nouna compagnia, un grupstri studenti era un nome po teatrale? Un interesse esotico o ignoto. Per una economico, affettivo, poliminoranza, il suo arrivo era tico? un avvenimento clamoroso, Qual è il punto verso cui atteso con ansia. Per tutti, tutte le persone che abitano la sua presenza e il suo La vita cronica, Tage Larsen, foto Jan Rüsz © una endemica carenza di fondi. Abbiamo voluto organizzare questo ciclo a costo zero. Così, abbiamo ottenuto un valore aggiunto, non previsto. Si è coagulato, fin dall’inizio, un gruppo di studenti che si sono occupati dell’organizzazione, della gestione dell’Aula Columbus e dei rapporti con gli attori dell’Odin. Hanno trasformato la sala in una casa di teatro. Hanno diffuso la notizia di questi incontri dentro e fuori le aule universitarie. Hanno aggiunto, ai mezzi canonici di informazione, i loro, ormai altrettanto canonici - facebook o altri tam tam della rete. Il risultato è stato un pubblico sempre crescente, che veniva da tutte e tre le università romane, e da scuole o gruppi di teatro. Sono intervenuti colleghi della Sapienza e di Tor Vergata. E personalità a vario titolo legate all’arte ed all’artigianato scenico. Si è creato, per qualche settimana, un ambiente. E’ stato un risultato dovuto alla generosità dell’Odin e a quella dei nostri studenti. Due generosità capaci di

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gnata da un rapporto forte con gli studiosi, in senun teatro, tutte queste individualità diverse, questi caso anche pratico... ni randagi convergono, il perno che tiene insieme? E Non solo pratico. All’inizio, spesso si è trattato di aiucome poter sfruttare questa loro caratteristica di diti, che potevano sembrare casuali: studiavo sanscrito versità, e saperla tessere in un lavoro comune? all’Università di Oslo quando ho fondato l’Odin, nel Credo che quello che ci tiene insieme sia una ruota ’64, ed è stato proprio il mio professore di sanscrito, quadrata. Knut Kristiansen, a procurarmi il primo locale in cui Quando l’Odin è nato, abbiamo dovuto inventarci il ho lavorato con i miei attori: l’aula di una scuola eleteatro. Proprio come qualcuno che, oggi, inventi la mentare. Poi c’è stato Christian Ludvigsen, che inseruota. gnava all’Università di Århus, in Danimarca. Ero enC’erano decine e decine di fabbriche intorno a noi, trato in contatto con lui perché volevo far conoscere officine, negozi, tutti pieni di ruote. C’erano moltissial mondo intero il lavoro di Jerzy Grotowski, allora me persone capacissime, bravissime a fare le ruote. un oscuro regista che lavorava in una cittadina polacSolo che nessuna di queste fabbriche ci ha preso con ca, a Opole. È stato attraverso Christian che abbiamo loro, nessuno ci ha detto: adesso vi insegniamo noi finalmente avuto una vera casa, un teatro, in Danicome si fa. marca. E’ diventato il nostro primo consigliere letteGli attori con cui ho fondato l’Odin erano giovani rario. non ammessi all’accademia di teatro di Oslo. Anche In Italia il nostro primo legame è stato con Ferruccio io ero stato rifiutato da molti teatri quando, dopo il Marotti, docente alla Sapienza di Roma. Nel ‘69 venmio apprendistato con Grotowski, in Polonia, avevo ne a Venezia, dove eravamo ospiti della Biennale, e cercato lavoro nel paese in cui vivevo, la Norvegia. vide il nostro spettacolo, Ferai. Ci fece una lunghissiNessuno di noi ha potuto apprendere il mestiere del ma intervista, la prima in cui ho accettato di parlare a fare teatro. lungo del nostro lavoro. Più tardi, Marotti mandò da Allora abbiamo dovuto inventarcelo. Abbiamo invennoi a Holstebro una sua studentessa, Angela Paladini, tato la ruota. Ma la nostra inesperienza ci ha fatto ina seguire il processo di creazione di un nuovo spettaventare una ruota quadrata. colo, Min fars hus (La casa del padre). Così, all’inizio La ruota quadrata è stranissima, perché in realtà fundegli anni Settanta, entrammo in contatto con tutto il ziona. Magari non in tutti i contesti. Ma la ruota gruppo di giovani studiosi che si radunava intorno a dell’Odin in genere funziona, come un cingolato è efMarotti, Ferdinando Taviani, Fabrizio Cruciani, Franficiente in terreni in cui una ruota rotonda affonderebco Ruffini, Nicola Savarese, Clelia Falletti. Ferdinanbe. Spinge a una curiosità, una apertura, una bramosia do Taviani insegnava all’Università di Lecce, portò il verso quello che possono avere (e darci) altre culture, nostro spettacolo ai suoi studenti, ma non solo: ci aiualtri saperi spettacolari. Il teatro quadrato, proprio per tò ad organizzare una esperienza veramente anomala, il suo complesso di inferiorità, per essersi sviluppato la nostra lunga permanenza di sei mesi in Salento. E via l’esclusione e per il suo essere stata reinventato lo stesso ha fatto quando si è trasferito all’Università sbilenco, guarda bramosamente verso l’esterno, per dell’Aquila, insieme a te: avete organizzato lunghi apprendere. soggiorni di interazione coi vostri studenti, chiesto di Quando un giovane va all’accademia si sente subito il preparare delle dimostrazioni di lavoro, inventato sesuccessore di Shakespeare, con in più un pizzico di minari particolari. Ci avete obbligato a preparare conCalderón della Barca, e anche un po’ di Pirandello. Si ferenze, per raccontare le nostre vite, le nostre espesente sicuro, inserito in una tradizione. Nel teatro. rienze. Quando sei un escluso, non rappresenti niente, sei soGli attori hanno un sapere incorporato, per loro agire lo te stesso. Devi confrontarti con la tua ignoranza. Devi insegnare a te stesso, da solo. E allora cerchi come un disperato, dappertutto. Sei un po’ come un bambino di strada, nessuno ti cuoce la minestra, e allora rubi una carota a destra, una cipolla a sinistra... È per questo che per voi è stato così costante il rapporto con i libri, con gli studiosi, perfino con le università? Gli studiosi sono tra i depositari del sapere del teatro, soprattutto di quello scomparso. Per me i libri di teatro sono stati uno dei luoghi da cui prendere. Vivi, come sono vivi i teatri orientali... Tutta la storia dell’Odin, fin dagli inizi, è stata se- La vita cronica, Sofia Monsalve, Kai Bredholt, foto Jan Rüsz


è una comunicazione più naturale che parlare. Hanno dovuto scoprire un linguaggio nuovo per raccontare la loro esperienza. Così gli attori dell’Odin si sono impegnati e hanno trovato criteri con cui spiegare il loro modo di procedere, conservando però un aspetto spettacolare - la lingua propria all’attore. Era una sfida: farsi ponte tra due modi differenti di pensare comunicare e capire, quello degli attori e quello degli spettatori, dei giovani, degli studenti. È una delle possibilità di trasmettere frammenti di memoria.

Io, in Vita cronica, più ancora del dolore vedo questo: sensualità, gioia di vivere. Che procede a fianco del dolore, come un’ombra. La gioia non cancella il dolore

Questo vostro ultimo spettacolo, La vita cronica, che ora avete portato a Roma per un mese, e che ha saputo aggregare intorno a sé tanti giovani, è stato fatto da te con un gruppo di attori che lavorano insieme da decenni. C’è un unico attore nuovo, la giovanissima colombiana Sofia Monsalve. Come si fa a conservare vivo il senso e la motivazione lavorando sempre con gli stessi attori – o quasi - per cinquant’anni? Alla base di questo spettacolo c’è stato un desiderio di terremoto. Noi non partiamo da un testo teatrale. Ma sempre, quando ho cominciato a pensare a uno spettacolo nuovo, pur aspettando i materiali che mi dovevano portare i miei attori, ho avuto una qualche spinta di partenza. Cominciavo a prepararmi, trovavo libri, episodi storici, racconti, idee, immagini…e tutto questo diventava stimoli da trasmettere ai miei attori. Di lì partivamo. Questa volta avevo solo una domanda di partenza: dopo quasi cinquant’anni, siamo ancora capaci di lavorare insieme? Cinquant’anni sono tanti. I miei attori sono ormai persone d’età, abituate a lavorare insieme. Ho cercato di rompere questo eccesso di consuetudine immettendo nello spettacolo due ragazze, gio-

La vita cronica, Iben Nagel Rasmussen, foto Jan Rüsz

vanissime, Elena Floris, che è entrata solo come musicista, e Sofia Monsalve, una ragazza poco più che ventenne che aveva collaborato con noi ad altri nostri progetti. Ognuno dei miei vecchi attori mi ha portato materiali che aveva preparato per conto suo. Da questi materiali sono venute molte storie, alcune delle quali sono confluite nello spettacolo, pur cambiando in parte volto: quella della vedova del soldato che ha combattuto sempre in battaglie sbagliate, quella della profuga… A Sofia, invece, ho affidato una storia che viene da un classico della letteratura messicana, Pedro Páramo di Juan Rulfo. È la storia di un giovane che torna al villaggio in cui è nato, e da dove è stato allontanato bambino, per cercare il padre. Parla con moltissime persone, e alla fine scopre che sono tutti fantasmi. Nel villaggio in cui è tornato non c’è più nessuno in vita. Ma da dove viene il nome dello spettacolo? I suoi temi di guerra, e questo filo, che mi sembra essere soprattutto quello del dolore femminile… Il titolo, La vita cronica, l’ho trovato in una poesia di Leminski, un poeta brasiliano che amo molto. Mi aveva colpito: vita cronica. Che significa? Un titolo perfetto. È stato uno spettacolo a cui abbiamo lavorato a periodi per quattro anni, ma solo alla fine c’è stato un periodo continuativo. Prima, avevamo provato quando potevamo, sempre molto poco, tra una tournée e l’altra, tra un progetto e l’altro. Ma intanto lo spettacolo maturava. Il punto di partenza era stato davvero un terremoto: avevo chiesto ai miei attori di preparare un funerale, ognuno di loro doveva creare una scena di funerale così come si fanno in Danimarca, con discorsi, aneddoti, risate, cibo… E il funerale era il mio. Alcuni hanno eseguito, altri hanno reagito con fastidio, qualcuno si è ribellato. E lentamente il mio funerale è scivolato via dallo spettacolo. Non mi interessava uno spettacolo autobiografico. Mi interessava il terremoto. Quello che sempre più ha preso a occuparmi, invece, è stato capire: chi sono le vere vittime della guerra? Mia madre è una vedova di guerra. Tu parli del dolore delle donne, ma a me interessava anche il dolore di lunga durata, quello che ha in sé anche un lato solare. C’è la gioia di quando parlano della vita col marito, con gli occhi che brillano. O la tenerezza con cui parlano ai figli del padre, anche se il padre è stato un terrorista, o ha combattuto sempre guerre sbagliate. Io, nello spettacolo, più ancora del dolore vedo questo: sensualità, gioia di vivere. Che procede a fianco del dolore, come un’ombra. La gioia non cancella il dolore.

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«I servitori della musica» Elizabeth Sombart e la pedagogia Résonnance di Valentina Cavalletti

Nel 1998 Elizabeth Sombart crea la Fondazione Résonnance, con la missione di «offrire la musica nei luoghi dove non arriva», ospedali, residenze sociali-assistenziali e carceri. La Fondazione Résonnance promuove inoltre scuole di pianoforte gratuite senza esami e senza limiti d’età per l’insegnamento della Pedagogia Résonnance. Elizabeth da oltre venti anni si dedica alla formazione di professori e di pianisti mediante master-class presso università e scuole di alta formazione musicale in Svizzera e all’estero. Nel 2006 le è stato conferito dallo Stato Francese il titolo di Cavaliere dell’Ordine Nazionale del Merito per l’insieme della sua opera e nel 2008 il titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere per la sua carriera artistica. Dal 2009 è docente presso l’École Polytechnique Fédérale de Lausanne per la fenomenologia della musica, creando inoltre il Centro Résonnance-CIEPR. Parallelamente conduce la sua attività concertistica. Quale ruolo ha nella sua formazione l’insegnamento del maestro Celibidache che, oltre come compositore e direttore d’orchestra, ricordiamo anche e soprattutto come grande pedagogo? Il ruolo del maestro Celibidache è fondamentale nella creazione della pedagogia Résonnance. Grazie a lui ho imparato la fenomenologia del suono e della musica, seguendo le sue lezioni all’Università di Mainz in Germania e a Parigi in Francia e collaborando insieme per più di 10 anni. La nostra associazione ha poi sviluppato la fenomenologia non soltanto del suono ma anche del gesto. In cosa consiste la pedagogia Résonnance da lei fondata? La pedagogia si suddivide in due parti: la fenomenologia del suono, che studia le leggi dei fenomeni sonori e le loro relazioni, con lo scopo di ridurre all’unità la molteplicità di tutti i parametri che compongono un’opera musicale; la fenomenologia del gesto, che si basa sull’utilizzo della respirazione e del diaframma nell’esecuzione pianistica, vocale e strumentale, affinché il gesto integri e unifichi il fraseggio musicale. Ispirandoci allo stesso maestro Celibidache e agli insegnamenti di Hilde Langer–Rühl, il gesto musicale diventa la conseguenza di un respiro interiore messo al servizio del fraseggio. Non si suona il pianoforte con le sole dita: la forza misteriosa del respiro e la sua padronanza sono le chiavi che consentono di unificare gesto e fraseggio. Come cambia l’ascolto e la produzione della musica con l’approccio fenomenologico al suono e al gesto di cui l’associa-

zione si fa portavoce? È difficile descrivere il portato delle nostre acquisizioni senza poterlo mostrare mediante un pianoforte. Tuttavia si può sostenere che l’ascolto cambia perché assume un ruolo fondamentale e primario che ci permette di essere obbedienti alla relazione giusta tra i fenomeni sonori, senza cercare di riprodurre meramente un’intenzione emozionale. Per fare questo la nostra associazione propone un nuovo incontro con la musica, in primo luogo insegnando a dimenticare se stessi. Dico sempre che ci sono due possibilità: i suoni si esprimo-

Non si suona il pianoforte con le sole dita: la forza misteriosa del respiro e la sua padronanza sono le chiavi che consentono di unificare gesto e fraseggio

no o in una comunicazione orizzontale o diventano comunione all’interno della relazione tra chi li produce e chi li ascolta. Sarebbe molto facile suonare meccanicamente al pianoforte ma, grazie al nostro metodo, noi intendiamo unificare tale relazione in una logica precisa che è completamente al servizio della musica. L’associazione Résonnance opera in diversi paesi europei e in Libano con l’obiettivo di portare la musica classica in quei luoghi di disagio sociale, case di riposo per la terza età, ospedali pediatrici, carceri, case di cura specializzate, dove poter alleviare la sofferenza delle persone. Qual è il


luogo in cui, più di ogni altro, ha sentito che la missione dell’associazione ha trovato un riscontro immediato? Non posso dire che l’ascolto sia migliore nelle carceri piuttosto che nelle case di cura, ciò che importa è l’esperienza nuova e meravigliosa di chi ascolta con gratitudine e in completa libertà. Celibidache invitava le persone ad andare ai concerti lasciando all’ingresso non solo i cappotti ma anche tutta la loro cultura: paradossalmente, meno la gente conosce, meglio sa ascoltare ed emozionarsi per la grandezza della musica. È proprio quando non si rimane nella seduzione di un rapporto orizzontale con l’altro che si raggiunge veramente quella comunione tra chi suona e chi ascolta, che la fenomenologia chiama l’incontro della soggettività. Ci può raccontare una sua particolare esperienza? Considerando che da 20 anni eseguo più di 200 concerti all’anno in luoghi di disagio, non è facile rintracciare nella memoria il ricordo più significativo. Uno dei più toccanti forse è questo: ero a Parigi, in una casa di fine vita, dove solitamente i malati vengono condotti al concerto nei loro letti, in modo che tutti possano parte-

Celibidache invitava le persone ad andare ai concerti lasciando all’ingresso non solo i cappotti ma anche tutta la loro cultura: paradossalmente, meno la gente conosce, meglio sa ascoltare ed emozionarsi per la grandezza della musica

cipare. Quella volta ero arrivata in anticipo ma una donna era già con il suo letto nella sala del concerto: dormiva e l’infermiera mi raccontò che aveva chiesto insistentemente di partecipare, anche se ormai non parlava quasi più. Questa donna aveva un apparecchio attaccato al suo corpo, che emanava una specie di bip: era il rumore della vita che ancora pulsava. Pensai che avrei dovuto integrare quel rumore nel mio inconscio, per non esserne disturbata. Cominciai il mio concerto e alla fine suonai la Berceuse di Chopin. Terminato il brano, mi accorsi di non sentire più il bip. Con grande apprensione, mi voltai per cercare con lo sguardo la donna, che era una persona di colore, e mi accorsi che era diventata totalmente trasparente, quasi dorata. Era morta e c’era ancora una lacrima sulla sua guancia. Mi accostai a lei e pensai alla fine della Berceuse di Chopin, che termina con due accordi sui quali dico sempre Gra-zie. Fino a quel momento non potevo immaginare che questo grazie si sarebbe caricato di un significato e di una dimensione così alta, come quella di accompagnare qualcuno nell’aldilà. Un altro ricordo riguarda la vostra città. Quando andai a suonare al Regina Coeli i carcerati mi dissero che durante il concerto avevano vissuto

una sorta di evasione. Questo è il significato del lavoro della nostra associazione: permettere alla musica di attestare veramente la propria missione, che è anche quella di rendere possibile un’evasione spirituale. Il maestro Sergiu Celibidache, con cui ha lavorato per lungo tempo, non amava la musica registrata, ritenendo la musica dal vivo condizione imprescindibile per la musica stessa. Oggi viviamo nell’era digitale, in cui il modo di fruire la musica si è completamente modificato, per certi versi semplificato. In questo contesto, educare all’ascolto della musica dal vivo è forse sempre più prioritario ma anche più difficile. L’avversione del maestro rumeno in questo senso era fondata? Se qualcuno mi dicesse che ascolta la musica solo sui dischi, io gli direi che è meglio il silenzio. Il disco dovrebbe essere utilizzato come uno yogurt, con una data di scadenza. Il disco è fisso e rimane sempre uguale a se stesso mentre l’ascoltatore non lo è, cambia continuamente. Può essere utilizzato a scopi didattici o formativi, oppure per spronare ad andare a un concerto. Ma invece tanta gente preferisce stare a casa ad ascoltare il proprio disco, accantonando l’esperienza viva del concerto che, come diceva il Maestro, è un’esperienza imprescindibile. Rendere la musica eterna in un disco significa andare contro la sua stessa essenza, perché la musica è in continuo movimento. A mio parere, è invece corretto il discorso contrario: l’ascolto della musica dal vivo dà la possibilità ad ognuno di incontrare l’eterno che è dentro si sé. Eliminare questo aspetto, significa boicottare la missione stessa della musica. In che modo le nuove tecnologie influenzano o possono influenzare la missione della vostra associazione e della vostra pedagogia? La possibilità di divulgare attraverso internet in modo più coinvolgente ed economico facilita la comunicazione interna ed esterna sulla nostra missione. Tuttavia nell’ambito della pedagogia non cambia molto perché non ammettiamo concessioni nell’insegnamento della fenomenologia: il cammino è lungo, è soprattutto un cammino interiore che permette di diventare servitori della musica.

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Ferite a morte

Intervista a Serena Dandini sul progetto teatrale che ha dato voce alle donne vittime di violenza di Francesca Gisotti

Serena Dandini è autrice e conduttrice televisiva. Inizia la sua carriera alla fine degli anni Settanta in radio. Dai primi anni Ottanta collabora con la Rai a programmi televisivi e radiofonici. È ideatrice su Radio 2 di La vita di Mae West, a cui ha lavorato con Laura Betti. Con l’autore Marco Di Tillo firma due puntate di Professione Jazz curato da Adriano Mazzoletti. Nel 1986 partecipa a Italia sera, in cui cura la sezione musicale. Fra le trasmissioni da lei scritte e condotte ricordiamo La TV delle ragazze, Avanzi, Pippo Chennedy Show, L’ottavo nano, Parla con me. Dal 2001 è direttore artistico del Teatro Ambra Jovinelli di Roma. Nel 2011 pubblica il suo primo libro Dai diamanti non nasce niente (Rizzoli), in cui racconta la sua passione per il giardinaggio attraverso aneddoti e citazioni. Tra il 2012 e il 2013 mette in scena il suo primo testo teatrale, Ferite a morte, ispirato a fatti di violenza sulle donne realmente avvenuti. Nel 2013 il testo teatrale diventa anche un libro, edito da Rizzoli. Perseguitate, picchiate, violentate nel corpo e nell’anima. Uccise. Questa è la storia di tante donne, una storia che si ripete tragicamente e incessantemente, in mille varianti ma, sempre più spesso, con la stessa terribile conclusione. Questa è una storia che rivive in mille storie, lontano da noi o nell’appartamento accanto al nostro, proprio là dove avevamo voluto vedere solo una famiglia felice. Questa è una storia che non risparmia nessuno. Non è questione di etnia, territorio o classe sociale, perché le donne vittime di violenza sono sempre di più. E sempre di più sono i loro carnefici. Quotidianamente il bollettino di guerra delle donne uccise viene aggiornato dai mezzi di comunicazione. Il fenomeno ha assunto dimensioni così ampie che sono nate intere trasmissioni per raccontare, con fredda accuratezza, i femminicidi. Questo vocabolo è stato coniato per dare un’identità verbale alla strage che ogni giorno si va compiendo. Una strage fatta di tante vicende individuali che non possono e non devono perdersi nell’oblio, immediatamente sostituite da altri drammatici e sconvolgenti racconti. Perché se è vero che le violenze perpetuate contro le donne si consumano spesso nei microcosmi delle vite familiari o dei rapporti di coppia, è l’intero contesto culturale che ci circonda ad essere chiamato in causa, ad essere direttamente coinvolto. Ed è proprio per questo coinvolgimento, per questa impellente necessità di fare qualcosa che Serena Dandini, una delle più apprezzate donne dello spettacolo italiano, ha deciso di dare voce a chi non poteva ormai più

Ho cominciato a scrivere questi monologhi delle donne morte un po’ alla Spoon river, pensando di dar loro quella possibilità di parlare che non hanno più. Ecco allora che racconti anche una vita più articolata e interessante di quella che spesso emerge nelle cronache dei giornali, dove s’insiste in maniera morbosa sugli ultimi momenti della vittima, solo sulla loro morte e non sulla loro vita

farsi sentire. Lo ha fatto attraverso il mezzo che le è più congeniale, la scrittura teatrale, a cui ha affidato la responsabilità di raccontare la vicenda delle tante donne su cui si è scatenata la spietata violenza di mariti, compagni, ex fidanzati, padri. Con lei, nel doloroso lavoro di ricerca ed elaborazione dei testi, c’è stata Maura Misiti, ricercatrice del CNR. Ne è nato il progetto teatrale, Ferite a morte, che è già una forma di lotta alla violenza, una denuncia contro quella mentalità maschilista che continua a percepire la donna solo come una proprietà su cui esercitare incessanti forme di controllo e oppressione. Ad interpretare questi monologhi, poi raccolti in un libro dall’omonimo titolo, si sono al-


ternate nel tempo alcune delle più importanti attrici italiane e rappresentanti della società civile che hanno permesso alle storie di transitare e essere conosciute in varie parti d’Italia. Lo scorso 16 maggio i monologhi sono arrivati anche presso l’Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre. Ad interpretarli sono state questa volta le studentesse e il personale universitario che, insieme all’autrice del progetto e alle attrici Orsetta De Rossi e Giorgia Cardaci, hanno recitato, con un’intensità toccante, alcune delle pagine più significative dell’opera. Una profonda commozione ha attraversato l’Aula Magna, gremita di studenti, professori e figure istituzionali, partecipi tutti di uno stessa dolorosa emozione. Prima della messa in scena abbiamo intervistato proprio Serena Dandini, presente anche in veste di interprete di uno dei monologhi. Come è nata l’idea di questo spettacolo, che tocca una tematica molto attuale e delicata? C’è stato un evento in particolare che l’ha colpita e che l’ha spinta a farlo o è stato il risultato di un processo di metabolizzazione graduale di tutte le drammatiche vicende degli ultimi tempi? Un po’ entrambe le cose. Io ho avuto sempre una sensibilità particolare verso questo fenomeno che mi face-

Mi ha fatto molto piacere questo invito qui all’università, perché ci siamo resi conto, girando per l’Italia, che il problema grosso degli stereotipi di genere, della diseducazione ai sentimenti e della mancanza di rispetto verso le donne è qualcosa di endemico fra i giovani. È perciò una rivoluzione culturale che dobbiamo fare

va particolarmente rabbia e che non capivo perché venisse ignorato. Adesso le cose stanno cambiando, mentre prima si parlava solo in termini di delitto passionale, raptus, questioni di famiglia in cui non mettere il naso. E allora mi è venuto in mente che tanti studi scientifici, tanti convegni, forse, non arrivavano al punto e che usando il teatro si poteva arrivare allo stomaco delle persone. Ho cominciato a scrivere questi monologhi delle donne morte un po’ alla Spoon river, pensando di dar loro quella possibilità di parlare che non hanno più. Ecco allora che racconti anche una vita più articolata e interessante di quella che spesso emer-

ge nelle cronache dei giornali, dove s’insiste in maniera morbosa sugli ultimi momenti della vittima, solo sulla loro morte e non sulla loro vita. Poi c’è stato l’omicidio di Carmela Petrucci a Palermo, uccisa mentre tentava di difendere la sorella dall’accoltellamento dell’ex fidanzato. Dopo questa tragedia, le ragazze del centro antiviolenza con cui io collaboro mi hanno chiesto di fare qualcosa di concreto. Da questa richiesta è nato il progetto teatrale. Ne siamo stati molto felici. Anche perché adesso, tramite il sito di Ferite a morte, stiamo raccogliendo le firme per chiedere al governo l’immediata convocazione degli stati generali contro la violenza sulle donne. Grazie a persone come Josefa Idem, Ministro delle pari opportunità, e Laura Boldrini, Presidente della Camera, finalmente si sta smuovendo qualcosa. Quasi sempre queste situazioni si verificano all’interno delle famiglie. Quindi, mi viene da pensare che ci sia proprio un problema legato all’affettività, ai legami sentimentali delle persone nella quotidianità. Non sarebbe perciò necessaria, secondo lei, una rieducazione all’affettività? Certamente e infatti non è un caso che oggi siamo all’interno dell’Università. Mi ha fatto molto piacere questo invito, perché ci siamo resi conto, girando per l’Italia, che il problema grosso degli stereotipi di genere, della diseducazione ai sentimenti e della mancanza di rispetto verso le donne è qualcosa di endemico fra i giovani. È perciò una rivoluzione culturale che dobbiamo fare. Se da una parte servono dei provvedimenti urgenti per la protezione delle donne, serve anche un’azione di rieducazione a partire dalle scuole e dall’università. Questo è un modo per affrontare il problema e far tornare a casa un pensiero. In quanto donna di spettacolo, non pensa che anche i mezzi di comunicazione abbiano una responsabilità nello strumentalizzazione del corpo femminile? La deriva estetica dell’immagine è terrificante. Si è diffusa l’idea che basta avere un bell’aspetto per fare carriera, una cosa che sembrava superata con il femminismo. Io non sono per la censura, ma bisogna far capire che ci sono altri modelli, altre possibilità per essere forti, sexy, autorevoli, intelligenti. Ci sono stati dei momenti in cui il coinvolgimento personale verso le storie è stato così forte da sentire quasi un problema nel rappresentarlo e raccontarlo? Il problema di rappresentazione è stato enorme, per me come per le attrici. Ma quest’emotività è giusta; non possiamo solo vivere di “smile” e “mi piace”. Dobbiamo anche farci scuotere nell’interiorità.

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Qualcosa di scritto

La letteratura come forma di conoscenza del mondo: intervista a Emanuele Trevi di Federica Martellini

Emanuele Trevi è scrittore e critico letterario. Ha esordito come autore di narrativa con I cani del nulla (Einaudi, 2003) e ha pubblicato per la collana Contromano di Laterza Senza verso (2005) e L’onda del porto (2005). Dopo Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010), è arrivato secondo al Premio Strega 2012 con Qualcosa di scritto. È autore di numerose curatele e saggi, fra cui Istruzioni per l’uso del lupo (Castelvecchi, 1994). Ha inoltre pubblicato i libri-intervista Invasioni controllate (con Mario Trevi, Castelvecchi, 2007) e Letteratura e libertà (con Raffaele La Capria, Fandango, 2009). Collabora con il Corriere della Sera e Il manifesto. È conduttore di programmi radiofonici per Rai Radio 3. Un incontro duplice, con Laura Betti e con Pasolini attraverso di lei. Una metamorfosi. Un’iniziazione. “Una storia quasi vera”. Una scrittura che si muove su un filo sottile che sta fra narrativa e saggistica. Qualcosa di scritto che genere di libro è? Non possiedo il “respiro” del romanziere, e mi sono sempre piaciuti i libri dove tutti i generi letterari sono presenti - ognuno dando una mano all’altro nella

A un certo punto le cose risalgono alla coscienza, come una bollicina d’aria in un liquido. È inutile andarle a cercare, sono loro che si presentano al momento giusto. Che per altri versi è anche il momento “sbagliato”, in un certo senso, perché l’arte non è una terapia, al contrario può anche intasare la coscienza di fantasmi sgradevoli e paure inconfessabili

perciò il passato (…) risuona o ammutolisce. Nel presente riverbera solo quella parte ch’è richiamata per illuminarlo o per offuscarlo». In Qualcosa di scritto lei prende le mosse da un periodo trascorso, nel 1994, fra le carte e le presenze del Fondo Pier Paolo Pasolini. Cosa risuona di quell’esperienza nel libro e, più in generale, nella sua scrittura? Perché lo ha scritto ora? Sono completamente d’accordo con Svevo. Posso solo aggiungere che a un certo punto le cose risalgono alla coscienza, come una bollicina d’aria in un liquido. È inutile andarle a cercare, sono loro che si

In fondo, tutti i libri sono libri contemporanei, nel senso in cui, come diceva il vecchio Croce, ogni storia è storia contemporanea, viva a partire dal punto di vista del presente

presentano al momento giusto. Che per altri versi è anche il momento “sbagliato”, in un certo senso, perché l’arte non è una terapia, al contrario può anche intasare la coscienza di fantasmi sgradevoli e paure inconfessabili. Ma non è detto che dobbiamo mia personale ricerca di senso. “Una storia quasi vesempre stare a “curarci” come se abitassimo nella ra” invece è un’espressione dell’editore, per quanto Montagna incantata di Tomas Mann. mi riguarda abbastanza melensa. Pasolini, come voce narScriveva Italo Svevo che rativa e come figura in«il passato è sempre nuotellettuale, è a suo parere vo: come la vita procede una eredità viva nel preesso si muta perché risalsente? gono a galla delle parti Questa domanda mi è stache parevano sprofondata rivolta molte volte, e mi te nell’oblio mentre altre suscita sempre un certo scompaiono perché oraimbarazzo, perché non mi mai poco importanti. Il piace affatto la maniera in presente dirige il passato cui Pasolini rimane in vita come un direttore d’orattraverso una serie di cichestra i suoi suonatori. tazioni molto scontate ed Gli occorrono questi o estratte dal loro contesto. quei suoni, non altri. E Pier Paolo Pasolini con Laura Betti e Goffredo Parise


Quindi rispondo sempre, a costo di essere antipatico, che quello che mi interessa è il modo in cui Pasolini è vivo per me. Del resto, io non nutro molto interesse per la politica o il cosiddetto “impegno”, quindi mi viene molto facile pensare in maniera individuale e soggettiva. In un’intervista ha detto: «La vita che vale la pena di essere scritta è la vita che mette in condizione il personaggio di imparare qualcosa, di stupirsi, attraverso un amore, un viaggio, un libro, un incontro: quando il tessuto delle abitudini, che è una corazza ma anche una prigione, si rompe perché qualcosa di inedito ci appare. E anche se lo fuggiamo sappiamo che esiste». La letteratura contemporanea sa essere, come lei scrive, «una forma di conoscenza del mondo»? Tutti i libri contemporanei che mi convincono sono una “forma di conoscenza del mondo”. Ma in fondo, tutti i libri sono libri contemporanei, nel senso in cui, come diceva il vecchio Croce, ogni storia è storia contemporanea, viva a partire dal punto di vista del presente, che è l’unico punto di vista umanamente possibile. Per esempio, l’altro giorno ho letto

un bel saggio di Virginia Woolf su Henry James. Ma quel James lì, non esiste più, si è trasformato in un’altra cosa. Quindi anche un cosiddetto “classico” in realtà funziona come un libro appena uscito in libreria. L’unico vantaggio del tempo è che seleziona in un modo molto severo, quindi è difficile che ci trasmetta, a distanza di tanti anni, dei casi di sopravvalutazione o delle fregature belle e buone che invece riceviamo sempre dal presente. Roma, primi anni Novanta. Mentre i sogni del Novecento volgono a una fine inesorabile e Berlusconi si avvia a prendere il potere, uno scrittore trentenne cinico e ingenuo, sbadato e profondo assieme trova lavoro in un archivio, il Fondo Pier Paolo Pasolini. Su quel dedalo di carte racchiuso in un palazzone del quartiere Prati, regna una bisbetica Laura Betti sul viale del tramonto: ma l’incontro con la folle eroina di questo libro, sedicente eppure autentica erede spirituale del poeta friulano, equivale per il giovane a un incontro con Pasolini stesso, come se l’attrice di Teorema fosse plasmata, posseduta dalla sua presenza viva, dal suo itinerario privato di indefesso sperimentatore sessuale e dalla sua vicenda pubblica d’arte, eresia e provocazione. Qualcosa di scritto racconta la linea d’ombra di questo contagio e l’inevitabile congedo da esso – un congedo dall’adolescenza e da un’intera epoca; ma racconta anche un’altra vicenda, quella di un’iniziazione ai misteri, di un accesso ai più riposti ed eterni segreti della vita. Una storia nascosta in Petrolio, il romanzo incompiuto di Pasolini che vide la luce nel 1992 e che rivive qui in un’interpretazione radicale e illuminante. Una storia che condurrà il lettore per due volte in Grecia, alla sacra Eleusi: come guida, prima il grandioso libro postumo di Pier Paolo Pasolini, poi il disincanto della nostra epoca – in cui può tuttavia brillare ancora il paradossale lampo del mistero. (da www.pontedellegrazie.it)

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Popscene

In territorio nemico: nuove forme di scrittura collettiva e nuove forme di romanzo

rubriche

di Ugo Attisani

È uscito da poco per i tipi della Minimum Fax un romanzo che, attraverso le vicende di tre personaggi e in particolare seguendo quella del sottoufficiale di Marina Matteo Curti nel suo tentativo di risalire la penisola da Gaeta a Milano, racconta anche la storia del nostro Paese durante la seconda guerra mondiale e la resistenza alUgo Attisani l’occupazione nazista dopo l’armistizio dell’8 settembre. Il titolo del romanzo è In territorio nemico e quello che lo rende oltremodo particolare è il fatto di essere stato scritto non da un solo autore ma da una collettività composta da oltre cento persone, a vario titolo coinvolte nella realizzazione del romanzo. In territorio nemico è infatti il primo romanzo frutto del metodo di scrittura SIC, ovvero Scrittura Industriale Collettiva, ideato dagli scrittori Gregorio Magini e Vanni Santoni nel 2007 e che fino ad ora aveva dato origine a sei racconti, tutti pubblicati con licenza Creative Commons sul sito dell’associazione sorta per promuovere l’iniziativa. La scrittura collettiva non è certo una novità, soprattutto nel panorama letterario italiano che, grazie ai collettivi Luther Blissett prima e Wu Ming poi, nelle sue varie incarnazioni, è anzi uno di quelli che più ha riconosciuto successo, anche commerciale, alle opere frutto di queste particolari entità creative. La novità e l’originalità di questo esperimento sono però da rintracciare non tanto nel grande numero di scrittori coinvolti nella realizzazione di questo romanzo (al momento il più grande mai registrato nella letteratura mondiale) ma nell’elaborazione di un metodo scientifico in grado di promuovere da un lato la prassi della scrittura collettiva al grande pubblico e dall’altro quello di realizzare un “grande Romanzo Aperto” che sia anche un buon libro. Con questo proposito, che si pone quindi oltre le già sperimentate esperienze collettive di scrittori, e mutuando strutture di lavoro simili a quelle del

teatro e del cinema, si è elaborato un metodo di scrittura che parte dalla suddivisione in singole schede di ogni componente del romanzo stesso, ovvero personaggi, luoghi ed eventi. Queste schede, elaborate da piccoli gruppi di tre o più scrittori, vengono poi trasformate da un direttore artistico, una figura particolarmente importante e innovativa, attraverso vari passaggi di assemblaggio, verifica e ristesura, nel prodotto finale. Il direttore artistico rappresenta un attore terzo e imparziale in questo processo, in quanto non partecipa direttamente alla scrittura ma coordina e segue il lavoro degli scrittori. Per questo romanzo in particolare sono stati coinvolti in tutto ben otto direttori artistici, 78 scrittori e 20 tra revisori, storici e traduttori dialettali. Non è certo un caso che un simile processo lavorativo trovasse poi il suo più congeniale ambito di applicazione nella forma del romanzo storico che, come hanno notato i due fondatori di Scrittura Industriale Collettiva Magini e Santoni, è già quasi di per sé, in quanto scrittura basata sulle fonti, una scrittura collettiva. Probabilmente ancor meno casuale è la scelta di trattare l’argomento resistenziale che, sempre secondo le parole di Magini e Santoni, rappresenta il grande vuoto nella letteratura italiana contemporanea dato che non sarebbe ancora stato scritto il romanzo definitivo sulla vicenda della Resistenza che, invece, ha saputo dare una sintesi politica di sé nella Costituzione repubblicana. In territorio nemico sembra quindi inserirsi a pieno nella definizione creata da Wu Ming 1 di New Italian Epic, e in particolare rispettare il terzo punto delle sue caratteristiche principali enunciato nel Memorandum 19932008: narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro, ovvero «Complessità narrativa, attitudine popular». Questo romanzo è quindi un vero e proprio Unidentified Narrative Object, un Oggetto Narrativo Non Identificato, per rimanere sempre a quanto codificato con New Italian Epic da Wu Ming 1, categoria che in qualche modo sembra contrapporsi ai “libroidi” che, secondo la definizione che ne ha dato Gian Arturo Ferrari, per anni direttore della divisione libri del Gruppo Mondadori, sono «quegli oggetti che dei libri hanno tutte le fattezze ma non l’anima» e che hanno assunto un ruolo centrale nell’ormai antico dibattito sulla crisi dell’editoria.


Ultim’ora da Laziodisu

Gate università, destinazione europea: il Forum europeo di Bologna sul Diritto allo studio universitario di Gianpiero Gamaleri

In Italia garantire il diritto allo studio universitario è un compito costituzionale affidato alle Regioni, le quali si avvalgono dell’opera di specifici organismi, come per il Lazio è Laziodisu, ente dipendente dalla Regione, per gestire le diverse attività, che vanno dalle borse di studio alle residenze universitarie, dalle Gianpiero Gamaleri mense ai provvedimenti a favore dei diversamente abili. Ebbene tutti questi enti sono collegati tra loro dall’Associazione nazionale A.N.DI.S.U. (Associazione Nazionale per il Diritto agli Studi Universitari), di cui fanno parte i presidenti o i direttori degli enti regionali di tutta Italia che si occupano di erogare i servizi di supporto agli studenti universitari. Scopo fondamentale dell’associazione è quello di favorire un efficace “dialogo” tra i diversi enti regionali, in modo da ottenere un confronto utile tra le varie attività che essi svolgono e quindi individuare efficaci linee di intervento a livello nazionale e anche internazionale. In pratica, A.N.DI.S.U. promuove e mantiene i contatti tra gli organismi per il diritto allo studio universitario, collabora con le regioni, le università ed il Ministero dell’Università e della ricerca scientifica al fine di realizzare un più efficace coordinamento nelle attività di indirizzo e di gestione, studia un miglior uso delle risorse disponibili, volto a rimuovere gli ostacoli per il pieno accesso agli studi universitari da parte dei più meritevoli e privi di mezzi così come disposto dagli articoli 3 e 34 della Costituzione. Per fare il punto su tali risultati, l’Associazione promuove anche periodici eventi a livello nazionale e la partecipazione a incontri all’estero, come quello svoltosi nel 2011 a Aix-en-Province per iniziativa franco-tedesca. In questo quadro l’A.N.DI.S.U. promuove a Bologna nei giorni 12, 13 e 14 Giugno 2013, il terzo Forum europeo del diritto allo studio universitario, dopo le edizioni di Perugia del 2008 e di Padova del 2010, nella consapevolezza di quanto sia diventato necessario interpretare in chiave internazionale il diritto allo studio, proiettandolo in un contesto europeo, anche attraverso un utile e costruttivo confronto con le realtà universitarie degli altri paesi. Ad esso prenderanno parte rappresentanti di vari Stati europei, delle associazioni studentesche anche di altri Paesi e di centri di ricerca statistica nazionale ed europea, con l’obiettivo di approfondire i temi portanti del diritto allo studio in chiave europea, soffer-

mandosi in particolare su uno scambio di esperienze e quadri normativi a livello continentale, sulla mobilità internazionale degli studenti, sull’implementazione di politiche che favoriscano gli sbocchi occupazionali più idonei ai neo laureati coerenti con la formazione ricevuta. In questo contesto l’attenzione sarà anche portata sulle realtà extracontinentali, sia del continente americano, sia dei paesi del Mediterraneo e del Medio ed Estremo Oriente. Come dichiarato dal Presidente dell’ A.N.DI.S.U. Marco Moretti, che è presidente dell’Ente per il diritto allo studio della Toscana, «l’auspicio è che da questo forum emerga l’importanza del DSU nella costruzione di uno spazio comune europeo entro il quale gli studenti abbiano capacità di crescere e apprendere senza incontrare barriere di nessun tipo. Solo così gli studenti potranno godere di una piena cittadinanza europea basata su uguali diritti e avere la certezza di poter accedere ad un sistema di benefici univoci in tutto il continente». Il forum di Bologna rappresenta quindi un importante appuntamento per porre le basi di “uno spazio europeo dell’istruzione superiore”, per la creazione del quale occorre riformare il Diritto allo Studio, non più come assistenza prevalente nell’ambito di politiche sociali, quanto piuttosto sistema di servizi agli studenti come fattore di crescita e sviluppo economico dei territori attraverso la valorizzazione della formazione degli studenti nei diversi campi del sapere e nei diversi settori di attività. Uno dei punti fondamentali che saranno trattati a Bologna – attraverso un proficuo scambio di esperienze – sarà quello del rapporto tra formazione e lavoro, tema su cui l’Italia si presenta particolarmente sensibile, come i dati sulla disoccupazione giovanile dimostrano. La comparazione tra i diversi sistemi universitari e tra i diversi interventi nel campo di un diritto allo studio veramente capace di sostenere ed incentivare le diverse attitudini e la capacità d’impegno degli studenti potrà fornire indicazioni quanto mai utili nel difficile momento che stiamo attraversando.

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Non tutti sanno che...

La Biblioteca facile e per tutti: una convenzione tra Roma Tre e la Biblioteca italiana per ciechi “Regina Margherita” di Maria Palozzi

e le modalità di fruizione del progetto sono consultaNel 2006 il Sistema bibbili alla pagina http://www.sba.uniroma3.it, quindi liotecario di Ateneo ha non mi dilungo sui contenuti. Vorrei invece sottolininiziato a usufruire della eare qual è, a nostro avviso, l’importanza di questa Legge 64/2001 che isticonvenzione. tuiva il Servizio civile La Biblioteca “Regina Margherita”, fa un servizio a nazionale, con il progetpagamento, anche se sostenibile, per gli studenti con to La biblioteca per tutdisabilità visiva che, come gli studenti vedenti, posti. Aattraverso la collabsono quindi acquistare i loro libri e studiarli a casa con orazione dei volontari gli strumenti a loro disposizione. Obiettivo del Siscivili si voleva rendere tema bibliotecario e dell’Ufficio studenti con disabilità più facile a tutti gli utenè però quello di mettere tutti gli utenti nella stessa ti l’uso della biblioteca: condizione di fruibilità dei servizi. Lo studente senza migliorare gli strumenti disabilità può comprare il libro di testo e studiarlo di comunicazione, eletMaria Paolozzi dove vuole, oppure trovarlo in biblioteca e conditronici e tradizionali; videre con i colleghi momenti di studio, di scambi culampliare gli orari del servizio per permettere anche turali, di chiacchiere anche, e quindi di crescita peragli studenti lavoratori di usufruirne; creare situazioni sonale e collettiva. Questo deve essere possibile anche ed eventi che avvicinassero l’utente alla biblioteca atper gli studenti che hanno delle disabilità. traverso un linguaggio amichevole, piacevole, creativo Noi cerchiamo di rendere sempre più facile il rapporto e artistico. Il progetto ha funzionato. tra utente e biblioteca, siamo certi che faciliti a sua All’interno della parola “tutti” ci sono gli utenti che volta l’esperienza di confronto e di rispetto dell’altro, hanno possibilità diverse di accesso all’informazione la capacità di chiedere, di farsi comprendere, di necessaria per lo studio perché portatori di una disscegliere l’informazione giusta tra tutta quella proposabilità. Per loro la biblioteca può essere un servizio ta da internet. Questa convenzione è un grosso passo difficile se non addirittura inaccessibile. Ci siamo avanti. quindi impegnati, insieme all’Ufficio studenti con disCi sentiamo di aver rispettato le cinque leggi della abilità, in un ulteriore progetto che abbiamo chiamato biblioteconomia di S. R. Ranganathan, bibliotecario La Biblioteca facile. indiano della prima metà del Novecento, ancora oggi All’interno del Catalogo bibliografico generale di Ateineccepibili e adatte al tempo e alla società in cui vivineo si individua un settore di testi in formato speciale amo: 1.I libri sono fatti per essere usati; 2. Ad ogni lete nel regolamento di accesso ai servizi di prestito sono stati dati privilegi speciali agli utenti con disabilità. In tore il suo libro; 3. Ad ogni libro il suo lettore; 4. Non biblioteca l’attività più ampia riguarda la lettura e obfar perdere tempo al lettore; 5. La biblioteca è un orgabligatoriamente un’attenzione particolare è stata data nismo che cresce. Soprattutto la seconda e la quinta. agli utenti con disabilità visive. Gli strumenti tecnici per permettere loro di “leggere” un libro e studiarlo sono ormai ad un livello talmente alto di evoluzione che per questo aspetto il percorso è stato veramente facile. Le Biblioteche umanistica e di scienze della formazione, che contano un maggior numero di utenti con disabilità visiva, e la Piazza telematica sono ora dotate di postazioni speciali per ipo e non vedenti. Più difficile è stato ottenere i libri di studio in formato elettronico. Verificata la resistenza di quasi tutti gli editori ad inviarceli, abbiamo aperto un canale di comunicazione con la Biblioteca italiana per ciechi “Regina Margherita” che ha portato alla firma di una convenzione tra Roma Tre e la Biblioteca. La convenzione Postazione per utenti con problemi visivi presso la Biblioteca di Scienze della formazione


La scienza narrata

Potenzialità di un racconto ancora tutto da scrivere Nel pensare comune, scienza e letteratura sono spesso considerate discipline in contrapposizione fra loro, l’una costruita su dati certi, sostenuti da test di laboratorio e costantemente sottoposti a nuove verifiche, e l’altra espressione della soggettività e della creatività individuale. C’è chi però ha voluto gettare un ponte Francesca Gisotti fra queste due espressioni dell’essere umano, entrambe fondamentali per la crescita e lo sviluppo della società. Con questo obiettivo, infatti, nel 2002 è partito il Premio Merck (precedentemente Merck-Serono), volto a premiare quei saggi e romanzi, pubblicati in italiano, che hanno sviluppato in maniera originale la relazione fra mondo scientifico e letterario. Nato per iniziativa della società farmaceutica di cui porta il nome, in pochi anni il Premio si è trasformato in un vero e proprio evento culturale, coinvolgendo esponenti importanti del mondo artistico, accademico e dei media. Scorrendo i nomi dei vincitori delle passate edizioni è facilmente riscontrabile l’alto livello qualitativo delle opere scelte. Fra queste spiccano ad esempio: Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, Io non ricordo di Stefan Merrill Block. Si tratta di veri e propri casi letterari, che dimostrano l’apertura del Premio a una svariata molteplicità di possibili interpretazioni del tema. Inoltre l’attenzione del lettore comune verso argomenti considerati, per troppo tempo, poco accessibili o ostici, ha testimoniato la necessità di superare vincoli mentali frutto di convinzioni ormai superate. Anche per quanto riguarda la saggistica ci sono state belle sorprese. È il caso ad esempio di L’uomo che credeva di essere morto ed altri casi clinici sul mistero della natura umana del neuroscen-

ziato Vilayanur S. Ramachandran. Una vera e propria indagine sui rapporti fra corpo, mente ed emozioni, con un’attenzione particolare verso pazienti con difetti fisici o lesioni celebrali. Ecco allora che il Premio Merck sembra aver realmente raggiunto il duplice obiettivo che si era prefissato: avvicinare i lettori ad un mondo non poi così lontano dalla quotidianità ed incentivare l’allargamento degli orizzonti creativi degli scrittori, offrendo loro anche un premio in denaro (10.000 euro, sia per il saggio che per il romanzo). A giudicare i lavori partecipa un numeroso gruppo di rappresentanti del mondo scientifico e letterario che però non vogliono in alcun modo togliere la scena ai veri protagonisti del Premio: gli scrittori. Ed è proprio pensando ai più giovani fra loro che, nel 2006/2007, Merck ha voluto creare un concorso parallelo al Premio, rivolto a tutti gli studenti delle scuole superiori. La scienza narrata, questo il titolo dell’iniziativa, mette i ragazzi alle prese con una bella sfida: scrivere un racconto in cui emerga una propria originalissima visione della scienza e delle sue molteplici applicazioni. L’evento, nella sua prima edizione, ha visto la collaborazione del Liceo Classico Tasso di Roma. Presso l’istituto sono stati attivati laboratori di scrittura creativa tenuti da professionisti del mondo sia scientifico che letterario. Il successo dell’esperimento e la grande passione con cui gli studenti vi hanno aderito hanno spinto gli organizzatori ad estendere i laboratori anche ad altri istituti d’Italia. Quest’anno inoltre è stato anche aperto un blog contenente materiale didattico e consigli di scrittura, un profilo facebook e uno twitter, per favorire ancora di più il coinvolgimento dei ragazzi. La presentazione ufficiale dell’edizione 2013 si è tenuta il 29 gennaio scorso presso il Teatro Palladium ed ha visto la partecipazione di alcune delle figure centrali del concorso. Innanzitutto Antonio Tosco, direttore Health Outcomes & Market Access di Merck Serono S.p.A. e responsabile dell’iniziativa, che ha voluto sottolineare l’importanza di una partecipazione attiva delle aziende all’interno della sfera sociale. Toccando argomenti delicati, quali quello della fecondazione assistita, ha inoltre

recensioni

di Francesca Gisotti

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posto l’accento sul concetto di responsabilità, che dovrebbe essere uno dei principi ispiratori delle aziende che operano in questo settore. Introdotti dal moderatore dell’evento, lo scrittore Giovanni Nucci, hanno poi preso la parola il filosofo della scienza Telmo Pievani, vincitore di una menzione speciale del Premio Merck nel 2012, e la sceneggiatrice Patrizia Carrano. Con estrema chiarezza espositiva e al tempo stesso grande precisione scientifica, Pievani è riuscito a presentare agli studenti in sala una visione alternativa della teoria evoluzionistica. Lungi dall’essere qualcosa di assodato, su cui ormai non c’è più nulla da scoprire, secondo il filosofo la storia della specie uomana sarebbe invece espressione di tantissime storie potenziali, molte delle quali ancora da scrivere e su cui poter esercitare anche la propria immaginazione. Da qui l’invito a gettare il proprio sguardo oltre l’apparenza del reale, assecondando un approccio alla ricerca in grado di stimolare sempre nuove domande e riflessioni. Una metodologia di lavoro condivisa, in tutt’altro ambito, anche dalla sceneggiatrice e giornalista Patrizia Carrano. È lei, nel corso del dibattito, a ribadire l’importanza di ricercare la scienza nella propria vita di tutti i giorni, allo scopo di colmare quella distanza troppo spesso frapposta fra noi e l’oggetto del nostro studio. A rendere ancora più stimolante il dibattito sono intervenuti anche i ragazzi, invitati da Giovanni Nucci ad avanzare dubbi e riflessioni sul lavoro da intraprendere in vista del concorso. Affascinanti alcune delle proposte emerse, come quella di scrivere un racconto avente come fulcro la luce e ambientato su un palcoscenico teatrale o quella di ispirarsi alla vita di qualche scienziato importante per costruire un racconto fra l’autobiografia e il romanzo. Da parte degli esperti due preziosi suggerimenti: essere il più precisi possibili, qualora si decida di far riferimento a teorie scientifiche e matematiche, e fare della chiarezza espositiva uno dei propri principali obiettivi di scrit-

tura. Suggerimenti che richiamano, fra l’altro, i “36 consigli per scrivere bene” di Umberto Eco, pubblicati sul sito del concorso e punto di riferimento fondamentale per qualsiasi scrittore in erba. Su questo e molto altro hanno avuto modo di confrontarsi i ragazzi delle scuole in cui sono stati attivati i laboratori e che, in questa settima edizione, hanno potuto assistere a quattro lezioni speciali. Oltre a quella romana del 29 gennaio, quella del 7 febbraio a Vicenza tenuta dal prof. Edoardo Boncinelli, sul tema Che cos’è la vita?, del 15 febbraio a Napoli tenuta dal prof. Maurizio Ferraris, sul tema Anima e iPad, umano e automa e quella del 20 febbraio a Milano tenuta dal prof. Carlo Alberto Redi e dal dott. Piergiorgio Odifreddi, sul tema Umano e Postumano. Argomenti di estrema attualità, su cui potersi sbizzarrire attingendo direttamente dalla propria esperienza quotidiana di osservatori. Come nel caso del Premio Merck, a stabilire i vincitori, sarà una giuria di qualità. Tre i premi in denaro che saranno assegnati: 1.000 euro al primo classificato, 750 al secondo e 500 al terzo. Inoltre tutti i racconti migliori saranno editati e raccolti in una pubblicazione. Leggendo quelli delle passate edizioni si resta veramente stupiti della forza narrativa e della maturità stilistica di questi giovani. Un caso esemplare è rappresentato dalla vincitrice dello scorso anno, la studentessa del Liceo Classico Cavour di Torino, Cecilia Guiot. Nel suo Sistema, Cecilia rappresenta la sua classe come un organismo perfetto in cui ogni studente incarna un elemento necessario, in continua interazione con gli altri. Solo lei è ancora in cerca della sua identità, è forse potrà trovarla solo al di fuori del sistema. Considerati i traguardi raggiunti, c’è da augurarsi che iniziative del genere coinvolgano sempre più ragazzi, favorendone uno sviluppo non solamente didattico bensì sempre più improntato ad una concreta applicazione del sapere e allo sviluppo della propria personalità.


Le pratiche del Buen Vivir Un paradigma di sviluppo alternativo in Ecuador di Genny Sangiovanni e Chiara Scarcello

Il 5 aprile scorso presso la Facoltà di Economia si è tenuto il seminario Ecuador: La costruzione di un modello alternativo di sviluppo e le minacce alla sovranità dello Stato. La Revolución Ciudadana ed il Buen Vivir organizzato dalla Red de Amigos de la Revolución Ciudadana. La Red è un’iniziativa nata dall’esperienza di un gruppo di giovani molto eterogeneo, composto da studenti, ricercatori, militanti in diverse realtà politiche, singoli rappresentanti della società civile che hanno avuto l’opportunità di visitare l’Ecuador e hanno deciso di portare la propria esperienza nei paesi di origine formando dei comitati internazionali con l’intenzione di diffondere gli ideali e il progetto politico della Revolución Ciudadana. Per inaugurare le attività del comitato italiano, lo scorso 8 febbraio, la Red de Amigos ha organizzato un concerto gratuito presso il teatro Tendastrisce di Roma, durante il quale anche la comunità ecuadoriana ha espresso il suo sostegno all’iniziativa. L’obiettivo del seminario è stato quello di diffondere la conoscenza del concetto di Buen Vivir, analizzarne le implicazioni nel contesto sociale, politico ed economico e comprendere se possa essere considerato un modello alternativo di sviluppo o un modello alternativo allo sviluppo. Per rispondere a questo interrogativo abbiamo invitato ad intervenire al seminario Pasquale De Muro (docente di Economia dei paesi in via di sviluppo), Salvatore Monni (docente di Economia dello sviluppo) e Massimo Pallottino (ricercatore presso il CISP di Pisa), che si occupano da diverso tempo di questi temi e ne hanno fatto oggetto di studio ed esperienza diretta. Ma che cos’è il Buen Vivir? Il Buen Vivir, o Sumak Kawsay in lingua quechua – che significa letteralmente “vita in armonia” – è un paradigma comunitario presente nella maggior parte delle popolazioni originarie che, considerando ogni elemento come interconnesso ed interdipendente, propone uno sfruttamento sostenibile delle risorse naturali; questo implica il rispetto di un codice etico ed il riconoscimento dei diritti di tutti gli uomini, un meccanismo accentuatamente pluralista nella presa delle decisioni, una richiesta di partecipazione e un ascolto profondo delle esigenze della collettività. A questo proposito nella nuova Costituzione del 2008 l’Ecuador si definisce uno stato «plurinazionale e multiculturale» e stabilisce come doveri fondamentali dello stato «La pianificazione dello sviluppo nazionale, lo sradicamento della povertà, la promozione dello sviluppo sostenibile, l’equa distribuzione delle

risorse e della ricchezza, affinché tutti possano raggiungere il Buen Vivir». Può il Buen Vivir rappresentare un’alternativa al modello di sviluppo capitalistico? Le istituzioni economiche internazionali consigliano ancora misure di politica economica omogenee per ogni paese portando i paesi ad una perdita cospicua della capacità di prendere le proprie scelte ed assecondare le proprie esigenze. In Ecuador, invece, dal 2006, grazie ad una congiuntura positiva di movimenti sociali e politici, l’esperienza della Revolución Ciudadana sta sperimentando un sistema che ha riportato il paese ad essere in grado di orientare le proprie scelte, riappropriandosi della propria sovranità, adattando i propri investimenti ai settori più utili alla comunità e dimostrando empiricamente la validità del proprio modello. Partendo dai dati forniti dalla Banca Centrale ecuadoriana, è stato osservato che negli ultimi due anni la disoccupazione è diminuita del 3% e che l’aumento del PIL nel 2012 è stato del 4.8%. Questo risultato è stato possibile grazie ad un forte intervento dello Stato attraverso una regolamentazione del mercato, a maggiori sussidi per la popolazioni e ad investimenti produttivi. Cosa possiamo imparare dall’esperienza della Revolución Ciudadana? Dal 2006 l’Ecuador ha affrontato due processi che hanno rivoluzionato la sua economia ed il suo contesto sociale: il processo di riforma costituzionale e la promozione di una commissione per la revisione del debito estero (per la prima volta nella storia creata da un governo) che ha dettato nuove condizioni ai propri creditori (principalmente banche ed FMI). Per questo, citando le parole del Presidente Correa, possiamo affermare che «la Revolución Ciudadana è stato un cambiamento radicale e rapido della struttura vigente». È ancora presto per capire dove porti l’esperienza ecuadoriana, quello che si può affermare è che, considerando il passato dell’Ecuador, i risultati raggiunti negli ultimi sei anni si possono ritenere particolarmente soddisfacenti.

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Arte e spiritualità

L’ex voto di Yves Klein per santa Rita da Cascia di Martina Stoppioni

mediatamente in quel piccolo oggetto un’opera inedita Di un artista come Yves e dall’inestimabile valore: l’ex voto di Yves Klein per Klein si pensa ormai di Santa Rita da Cascia. sapere tutto. Ogni moviDopo diciotto anni da quel viaggio a Cascia, e sul quale mento ed episodio della la moglie aveva mantenuto il segreto, la storia dell’arte sua breve e intensa vita è si è vista consegnare una sorta di testamento postumo stato passato al setaccio. dell’artista con il quale ci racconta il suo essere un uoMa ai cercatori di oro, di mo di fede. Ma si apriva anche un capitolo inedito della blu klein e di monopink sua biografia. Cercando nei magazzini del convento fu per anni è sfuggita la peritrovato un monocromo blu consegnato in un precepita più grossa, l’ex voto dente viaggio, sul verso infatti l’opera reca la data 1958. per Santa Rita da Cascia, Eppure nonostante il terreno così fertile le ricerche riapparso nel mondo sesull’ex voto si sono fermate e negli anni a seguire le incolare dopo anni di silenformazioni sull’opera si sono limitate a quelle fornite da zio nel 1979. Martina Stoppioni Pierre Restany nel momento in cui autenticò l’opera nel Nella pieghe di una vita 1980, ed anzi nelle varie pubblicazioni che seguirono che si fonde con l’arte assoluta e con un impegno sociada allora molte furono le ipotesi sulla cronologia dei le utopistico e pioneristico al tempo stesso (la costruzioviaggi veri o presunti di Klein a Cascia. ne di una nuova famiglia umana basata sulla sensibilità Un paziente e appassionato lavoro d’archivio, l’incone la climatizzazione di spazi abitati da architetture aetro con Armando Marocco, la madre badessa e la madre ree), si nasconde un’intima propensione alla spiritualità, vicaria del convento di Santa Rita e l’incontro con la nata nella culla di una tradizione familiare, che l’artista vedova di Yves Klein, Rotraut Klein Moquay, mi hanno vive lontano dai clamori dell’arte e nel più grande sepermesso di ricostruire con prova documentaria tre greto: è nel pantheon del mondo mistico di Klein che si viaggi certi di Klein a Cascia, ovvero un primo nel setcolloca la devozione per Santa Rita da Cascia. tembre del ‘58 quando vi si recò con la zia Rose RayNel più completo anonimato, nel febbraio del 1961, un monde che per prima lo pose ancora bambino sotto la anno prima della prematura morte e accompagnato solo protezione della santa, a testimonianza del quale abbiadalla moglie Rotraut, Yves Klein si recò a Cascia per mo un monocromo blu conservato presso il monastero donare una piccola scatolina di plexiglass contenente il e datato sul verso; un secondo e fino ad ora non docusuo credo, il suo testamento umano ed artistico: una mentato viaggio a maggio del ‘59 in concomitanza delpreghiera per Santa Rita, sua protettrice, i pigmenti delle celebrazioni per la festività di santa Rita, a testimola sua ormai consacrata trinità cromatica – I.K.B., monianza del quale esistono alcune lettere per le quali fa nopink e monogold – i lingotti d’oro frutto delle prime fede il timbro postale spedite da Klein alla propria galcessioni di immaterialità pittorica, ultima frontiera lerista Iris Clert; infine l’ultimo viaggio a febbraio del dell’arte concettuale e mistica di Klein. ‘61 quando consegnò l’ex voto. Un forte terremoto nel 1979 scosse la Val Nerina in Oltre alla presenza fisica di Klein a Cascia esiste anche Umbria e il complesso del monastero di Santa Rita da la presenza di santa Rita nelle opere di Klein. La foto Cascia fu danneggiato. In occasione dei lavori di restauscattata per il Dimanche, le journal d’un seul jour, dal ro furono chiamati anche Giacomo Manzù e Armando titolo Le saut dans le vide, è stata fatta al numero 3 di Marocco per realizzare rispettivamente il primo nuovi rue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses, nei pressi di arredi sacri per il presbiterio e una cancellata, il secondo una chiesa dedicata a santa le vetrate. Trovandosi nella Rita; l’opera Ci-Gît l’Espanecessità di utilizzare delce si presenta come un mol’oro, Marocco chiese alle nocromo oro con in alto una suore se per caso non ne spugna blu e in basso al conservassero una piccola centro un mazzo di rose arquantità e queste gli propotificiali color rosa, e le rose sero di usare dei lingotti rosa sono i fiori che nell’id’oro contenuti in una certa conografia rappresentano la scatolina di plexiglass. Arsanta; la chiesa nella quale mando Marocco nel suo Yves Klein e Rotraut Uecpercorso aveva avuto occaker si sposarono a gennaio sione di esporre presso due del 1961 è Saint Nicolas des delle gallerie milanesi che Champs a Parigi, chiesa nelavevano presentato il lavoro di Klein a fine anni Cin- Yves Klein, ex voto per Santa Rita da Cascia, 1961, courtesy Yves la quale vi è una cappella per santa Rita. quanta e così riconobbe im- Klein archives Paris



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