Il fiore rosso e il bastone

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Brossura | collana VIE | pp 144 | euro 13 Traduzione dal tedesco Fabrizio Cambi KELLER www.kellereditore.it | www.kellerlibri.it



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IL FIoRE Rosso E IL BasTonE Traduzione di Fabrizio Cambi

Keller editore


Questi testi sono apparsi in Germania all’interno del volume Der König verneigt sich und tötet. otto dei nove scritti sono pubblicati da Keller editore in due libri Il re s’inchina e uccide (2011) e Il fiore rosso e il bastone.

Immagine di copertina Ombre verdi © Eleonora Grassi | Keller editore

Titolo originale: Der König verneigt sich und tötet Traduzione dal tedesco: Fabrizio Cambi © Carl hanser Verlag münchen 2003 Published by arrangement with marco Vigevani agenzia Letteraria © 2012 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it PRIma EdIzIonE, noVEmBRE duEmILadodICI


Il fiore rosso e il bastone



Il fiore rosso e il bastone

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elle riunioni, nelle quali la gente trascorreva gran parte del suo tempo durante la dittatura, emergeva nella forma più chiara il modo di esprimersi nella società rumena rigidamente sorvegliata. Probabilmente non era tipico solo di quella dittatura. Qualsiasi elemento semiautentico, ogni accenno personale, ogni movimento, anche di un dito, erano stati eliminati dagli oratori. Vedevo e ascoltavo figure interscambiabili che, staccandosi dalla propria individualità, si affidavano alla piatta meccanica di una posizione politica per essere adeguati alla carriera. In Romania l’ideologia del regime nel suo complesso faceva tutt’uno con il culto della personalità di Ceauşescu. usando lo stesso metodo con cui da bambina il parroco mi voleva inculcare il timor di dio, i funzionari diffondevano la loro religione socialista: qualunque cosa tu faccia, dio ti vede, egli è infinito ed è ovunque. Le migliaia di ritratti del dittatore sparsi nel paese del dittatore erano sostenuti dal martellamento della sua voce. Quella voce, che risuonava per ore nei suoi discorsi trasmessi alla radio e alla televisione, doveva gravare nell’aria esercitando un con-

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trollo quotidiano. Quella voce era nota a tutti nel paese, come il frusciare del vento o il cadere della pioggia. La sua intonazione e i gesti che l’accompagnavano erano noti come il ricciolo sulla fronte, gli occhi, il naso, la bocca del dittatore. E il rimasticare gli stessi elementi preconfezionati e prefabbricati era conosciuto come il rumore degli oggetti quotidiani. La ripetizione degli elementi precostituiti non assicurava più del tutto il riconoscimento quando si teneva un discorso pubblico. Per questo i funzionari si davano un gran daffare nelle loro uscite pubbliche nell’imitare la gestica di Ceauşescu. Il primo portavoce del regime aveva la quarta elementare e aveva non solo difficoltà con i contenuti più complessi, ma anche con la grammatica più semplice. soffriva inoltre di un disturbo nel linguaggio. Cambiando le vocali e nelle rapide sequenze delle consonanti, la lingua gli restava impigliata e farfugliava. Cercava di non far notare quel difetto linguistico scandendo le sillabe che pronunciava quasi abbaiando e facendo svolazzare incessantemente le mani. Per questo l’imitazione del suo modo di parlare provocò uno stravolgimento della lingua rumena particolarmente vistoso e tragicomico. allora dicevo spesso che i funzionari più giovani nel paese erano i più vecchi. Infatti, a quel che pareva, facevano l’imitazione del dittatore senza sforzo e meglio 78


degli anziani. naturalmente questi ne avevano più bisogno perché la loro carriera era appena agli inizi. ma dopo aver avuto a che fare con i bambini delle scuole materne, non riuscivo a evitare l’idea che i giovani funzionari non imitavano affatto. Erano loro stessi, era proprio la loro gestica, non ne avevano altre. Per due settimane avevo fatto la maestra d’asilo e avevo notato che l’imitazione di Ceauşescu era già parecchio evidente nei bambini di cinque anni. andavano pazzi per le poesie di partito, per i canti patriottici e l’inno nazionale. a quell’asilo ero arrivata dopo un lungo periodo di disoccupazione a seguito del licenziamento dalla fabbrica e da alcune scuole che non mi prendevano più per l’accusa di “individualismo, non adattamento alla vita della comunità e mancanza di coscienza socialista”. L’anno scolastico era cominciato da molto e io dovevo sostituire una maestra malata d’itterizia la cui guarigione non si poteva ritenere imminente. Quando accettai il posto pensai che non potesse essere peggio che nelle scuole. Ci sarà pure ancora un po’ d’infanzia in questo stato, non si potrà impiegare con bambini così piccoli la vuota e sistematica distruzione mediante l’ideologia, qui c’erano ancora costruzioni, bambole o balli. E poi non avevo soldi, solo debiti e rate della casa che dovevano essere pagate ogni mese. sapevo che nel mio caso non sarei dovuta arriva79


re a dipendere dall’affittuaria. Perché qualsiasi padrone di casa alla prima minaccia dei servizi segreti mi avrebbe messo in mezzo alla strada. mi foraggiava mia madre, una contadina del consorzio di produzione agricola che doveva sgobbare molto per mantenermi a galla. Il primo giorno di lavoro la direttrice della scuola materna mi portò al mio gruppo. Quando entrammo nell’aula, in modo quasi criptico disse: “Inno”. automaticamente i bambini si misero in semicerchio, premettero le mani perfettamente diritte lungo le cosce, allungarono il collo e rivolsero gli occhi in alto. dai piccoli banchi erano balzati dei bambini, mentre in semicerchio stavano e cantavano dei soldati. Più che cantare si gridava e si abbaiava. sembrava che contassero il volume sonoro e la posizione del corpo. L’inno era molto lungo, negli ultimi anni erano state aggiunte alcune strofe. Credo che allora avesse raggiunto la lunghezza di sette strofe. dopo il lungo periodo di disoccupazione non ero aggiornata e non conoscevo il testo delle nuove strofe. dopo aver cantato l’ultima strofa il semicerchio si sciolse, i bambini lasciarono la posizione dell’attenti e tornarono a essere chiassosi e turbolenti. La direttrice prese una bacchetta dallo scaffale e disse: “senza questa non va”. Poi mi bisbigliò qualcosa all’orecchio e chiamò a sé quattro ragazzini. aggiunse che dovevo guardarli 80


bene e dopo li rimandò ai loro posti. Quindi mi mise al corrente delle funzioni dei loro genitori o nonni. uno era perfino il nipote del segretario del partito e disse che occorreva prestare particolare attenzione perché non ammetteva obiezioni e lo si doveva proteggere dagli altri qualsiasi cosa combinasse. Poi mi lasciò in balia del gruppo. nello scaffale c’erano circa dieci bacchette, rami d’albero dello spessore di una matita e lunghi quanto un righello. Tre di quelli erano spezzati. Per la prima volta quel giorno nevicava a grandi fiocchi arruffati, che quell’anno restarono a lungo per terra. Chiesi al gruppo se avevano voglia di cantare una canzone sull’inverno, ma non ne conoscevano nessuna. allora chiesi se conoscevano una canzone sull’estate. scrollarono la testa. non conoscevano neanche una canzone sulla primavera o sull’autunno. Finalmente un ragazzino propose una canzone sulla raccolta dei fiori. si parlava di erba e di prati. E dunque una canzone sull’estate, pensai, anche se in questo caso la distinzione non valeva. ma finiva subito lì: dopo la prima strofa sull’estate, nella seconda la canzone andava verso il culto della personalità. Il fiore rosso più bello veniva donato all’amato capo. nella terza strofa il capo era contento e sorrideva perché per tutti i bambini del paese era il migliore. I particolari della prima strofa, il prato, l’erba, la rac81


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