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Direttore responsabile

Claudio Carella Redazione

Antonella Da Fermo, Mimmo Lusito (grafica), Fabrizio Gentile, Silvia Jammarrone (foto) Hanno collaborato a questo numero

Guido Alferj, Michele Camiscia, Stefano Campetta, Giuseppe Capone, Michela Ciavatta, Annamaria Cirillo, Galliano Cocco, Sergio D’Agostino, Laura Grignoli, Giovanni Di Iacovo, Giovanna Romeo, Fabio Trippetti, Ivano Villani, Eugenia Zangardi. Editing AB Puzzle Pescara Progetto grafico Ad. Venture - Compagnia di comunicazione Stampa e Fotolito Litografia Botolini - Rocca S. Giovanni (Ch) Allestimento Legatoria D’Ancona - Cepagatti (Pe) Claudio Carella Editore Autorizzazione Trib. di Pescara n.12/87 del 25/11/87 Una copia Euro 4,50 - Abbonamento annuo (sei numeri) Euro 24 Vers. C/C Post. 13549654 Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana Redazione Via Puccini, 85/2 Pescara Tel. 085 34296 Fax 085 27132 www.vario.it redazione@vario.it


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In questo numero 6

Mare La costa delle Sirene

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Museo Archeologico di Chieti Dal guerriero alla Pop Art

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Aurum Distillato di cultura

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Personaggi Massimo Cialente

34

Personaggi Silvia Pegoraro

40

Personaggi Paride Albanese

46

Personaggi Marco Onofrj

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Economia La Tercas

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Universivario Chieti Giganti in Campus

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Universivario Teramo Il medico di Moby Dick

Cosebuone 68 72 74 76 78

Vino, Cantina Tollo Olio, Azienda Forcella Atlante dei Prodotti tradizionali Premio AgorĂ per Delverde e AD Venture Rifugio Tito Acerbo a Rigopiano

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Ribalta Gusto, gusti, modi, mode, eventi Arte Libri Fotografia Cinema TabĂš

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in copertina Adalgisa Dolabella (foto Michele Camiscia)


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La costa delle sirene di Giovanni di Iacovo foto Michele Camiscia

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Tra Scilla e Cariddi? No, tra Martinsicuro e Vasto. Ăˆ qui che i naviganti si lasciano attrarre dal richiamo di un litorale che incanta.

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Il mare d’Abruzzo e le sue Sirene raccontate da un giovane romanziere e dalle immagini di un brillante fotografo

a sirena, figlia del dio fluviale Acheloo e della musa Calliope, nei paesi anglosassoni viene chiamata “Mermaid” , fanciulla del mare, in Egitto “Arusa el bahar”, la bella del mare, in Indonesia “Putri duyung”, principessa marina, in Brasile “Peixe mulher”, pesce donna. Il mito della Sirena si ripete in tutto il mondo e le sue caratteristiche sono ovunque le stesse, sempre legate ai temi dell’ acqua, della seduzione, della sensualità e dell’inganno letale. Le coste dell’Adriatico si sono sempre rivelate ricche di sirene e quindi, ammirando le foto di queste belle ragazze a giocare tra flutti che tremano di luce come sogni d’un adolescente, mi è tornata in mente una mia amica sirena, che quando ero adolescente mi raccontò la sua storia. Si chiamava Miriade. Era una sirena precaria. Eh sì, perché quello della sirena è un mestiere che si è evoluto come tutti gli altri. Miriade lavorava su uno scoglio fatato qualche chilometro al largo della Baia dei Travocchi di Fossacesia. La conobbi nel suo periodo di più cupa malinconia. Poggiarsi mollemente su uno scoglio con il seno coperto da due stelle marine a canticchiare lagne in greco antico andava bene per sedurre i marinai allupati che in epoche lontanissime si avventuravano da Cipro a Gerusalemme, ma oggi, tra veline revisionate da chirurgia estetica, topless tridimensionali sulle copertine e pornografia on-line, ci vuole ben altro per attrarre l’attenzione dei moderni naviganti. Inoltre, la metà da pesce di Miriade, con le sue scaglie che brillavano come sinuose lacrime d’argento, invece che sedurre per l’incanto, veniva fotografata e ripresa da cellulari per poi essere derisa via web su You Tube. Solo i pesci le tributavano ancora il giusto rispetto. Poi un giorno arrivò il colmo. Una motovedetta della capitaneria di Porto si

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avvicinò al suo scoglio. Un minaccioso ufficiale in immacolata bianca uniforme le ficcò in mano un documento. -Signorina Miriade Sirena, questa è un’ingiunzione di sgombero. In questa zona verrà edificata un’isola artificale con alberghi, discoteca e farmacia per ogni evenienza. Prenda le sue cose ed entro dopodomani si trasferisca. -Ma… ma io sono qui da millenni… e poi… io devo incantare i naviganti, condurli alla perdizione… -Guardi, si accontanti di incantare gli automobilisti come fanno le sue colleghe. Quanto ai millenni, be’… si sa che questo è il mestiere più antico del mondo. -Ma cosa dice! Io non sono una meretrice! Troviamo un accordo. Questo scoglio è fatato, farò sì che sia visibile solo agli uomini soli e dal cuore affranto! - Forse non ci capiamo. Qui ci faranno una discoteca, e tra il caldo torrido e la roba che girerà, ci sarà almeno un cuore affranto ogni week-end. Su, si dia una mossa. Fu così che Miriade si trasferì un po’ più a nord, scegliendo di appostarsi nella pinetina sulla spiaggia sotto alla Torre di Cerrano. Moltissimi ragazzi si erano radunati in tribù attorno a dei falò. Dall’ombra della fresca pinetina, Miriade intonò il suo canto ammaliante. Una decina di fricchettoni in cerchio iniziarono a percuotere bonghi e djambè mentre delle ragazze con lunghe gonne presero a ballare sconnesse e felici sui loro bianchi piedini nudi. L’eco delle percussioni sovrastava senza scampo il canto di Miriade. La sirena tuonò le sue strofe con la vibrante forza del suo diaframma al punto che una stella marina le si staccò dal seno. Niente. Quei dannati bonghi rullavano pestati come fosse la marcia di cento chimere inferocite. La voce di Miriade non potè nulla ed esplose in

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colpi di tosse per lo sforzo. Dalla pinetina spuntò allora un giovane barcollante dagli occhi gonfi e lucidi con un sorriso che pareva appartenere ad un’altra persona. - Uè sorella, andato di traverso il fumo? Tò fatti un sorso di ‘sta vodka, io meglio che smetto, ‘che al posto delle gambe ti vedo le pinne! Soltanto i pesci avevano rispetto di lei. Nuotò allora tutta la notte fino ai travocchi alla Madonnina del Porto di Pescara e lì, da sola, liberò il suo canto verso le navi che partivano nella notte. Al mattino gli fece visita una donna in abiti civili, rigida nel suo tailleur grigio. -Non si spaventi, non siamo della polizia. Siamo della Siae. Sono venuta a riscuotere per il suo concerto di stanotte. Più una piccola mora perché non ci ha avvisati, naturalmente. -Ma quale Siae! Ho intonato la Nenia della Nebbia nel Cuore insegnatami dalla regina strega Ecate. È un canto preesistente al mondo stesso! -Quella che dice lei sarà forse una cover. Il ritmo e il ritornello era inequivocabilmente quello di Perdere l’Amore di Massimo Ranieri. Su, firmi qui. Così Miriade, a un passo dalla disperazione, decise di rivolgersi ad una agenzia di lavoro interinale. Esperienze lavorative: Sirena Titolo di studio: Diploma di canto (stregato) Lingue straniere: Greco antico Aspirazioni professionali: sedurre i naviganti e condurli alla sventura I giorni passavano ma alla povera Miriade venivano offerti lavori davvero poco interessanti. La chiamò la polizia postale per cercare di farle attirare in trappola chi navigava in siti pedofili. Le fu anche offerto anche un posto nel Museo delle Meraviglie Marine di Pescara, ma il contratto prevedeva che venisse imbalsamata. Solo i pesci avevano ancora rispetto per lei. Fu così che, scoraggiata e strangolata da una crescente depressione, Miriade nuotò fino ai Ripari di Giobbe e si arrampicò sulla più alta delle sue rupi. Fissò il cuore del cielo. I contorni sfilacciati delle nubi lasciavano filtrare l’ultimo sole, che incoronava il loro corpo bluastro e violaceo come grossi lividi in corsa, aureolati di luce. Poi abbassò gli occhi senza timore, verso la spiaggia di ciottoli e pietre contro le quali avrebbe infranto la sua vita. Recitò una preghiera al dio Acheloo e,

riempiendosi lo sguardo nel mare limpido ed uniforme, tese il suo corpo per l’ultimo slancio. Una mano ferma le afferrò con decisione la spalla. Una voce grottesca, simile a quella degli orchi delle nere caverne di Morla, pronunciò queste parole: -Fermati Miriade. C’è posta per te. Lei si voltò lentamente per fronteggiare l’orco ma si trovò, invece, dinanzi ad una donna. Maria De Filippi. Il sorriso di Maria De Filippi si aprì nel suo volto come uno squarcio. -Miriade. É molto che ti seguiamo. Abbiamo bisogno di te. Uomini e donne sta perdendo audience in maniera vertiginosa. Eppure il nostro staff, tramite approfondite indagini, ha rilevato che lo sviluppo cerebrale di uno spettatore medio dei nostri programmi è del tutto simile a quello di un pesce. In particolare della sogliola dell’Adriatico. Noi sappiamo che i pesci ti amano e ti rispettano. Siamo quindi convinti che, se potessi diventare ospite fisso della nostra trasmissione, il pubblico tornerebbe ad essere incollato allo schermo. -Ma io… io sono nata per ammaliare i naviganti… vivo per condurli con l’inganno del mio canto… - Non preoccuparti. Curerai anche i messaggi promozionali. Venderai vasche idromassaggio. Canterai le tue nenie in greco mentre sguazzi nuda nella vasca e tutti i telespettatori correranno a comprarla convinti che dentro ci troveranno anche te. Allora? Che ne pensi? Miriade ci pensò un po’ su. Guardò le rocce sotto di lei, poi tornò a fissare il viso raggiante della De Filippi. Poche ore dopo, un gruppo di orientali sezionò la parte meno sfracellata del corpo di Miriade per servirla bella fresca nel loro Sushi Bar.

Giovanni Di Iacovo è un giovane scrittore pescarese. Il suo primo romanzo, Sushi Bar Sarajevo, pubblicato da Einaudi nel 2006, è stato un successo. Il suo sito internet è www.giovannidiiacovo.it Michele Camiscia è un giovane fotografo chietino. Collabora con numerose testate giornalistiche locali e nazionali. Di recente ha partecipato a uno shooting di tre giorni sull’Isola di Malta per realizzare la campagna turistica istituzionale. Le modelle di questo servizio sono Adalgisa Dolabella, Giuditta Capaldo e Zulema Paciocco


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Museo Archeologico di Chieti

Dal Guerriero alla Pop Art Chieti e il suo Museo tra passato e presente. L’arte di ieri e quella di oggi si incontrano nella cornice settecentesca della neoclassica Villa Frigerj per omaggiare Mimmo Rotella e la pop art italiana.

na accanto all’altro: le sinuose curve della Chanteuse e quelle, decisamente meno giovanili ma altrettanto mirabili, del guerriero piceno Nevio Pompulledio, meglio noto come Guerriero di Capestrano. Ovvero, l’arte pre-pop di Mimmo Rotella e i suoi famosi décollage, esposti accanto alle statue, ai fregi, alle monete, alle testimonianze romane e preromane della storia abruzzese nelle splendide sale del Museo archeologico nazionale d’Abruzzo a Chieti. La settecentesca villa Frigerj, sede del Museo, fa dunque da contenitore e da collante tra il tempo remoto e quello più recente dell’arte, in una mostra dedicata alla pop art italiana, che oltre ad omaggiare l’artista calabrese recentemente scomparso presenta anche 50 opere dei più illustri rappresentanti dell’esperienza italiana del movimento: Mario Ceroli, Franco Angeli, Fabio Mauri, Schifano, Pistoletto, Pascali e altri. La mostra, che resterà aperta fino al 20 ottobre 2007, non è la prima dedicata all’arte contemporanea a trovare spazio nelle sale neoclassiche della villa teatina,

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Guerriero a 360° Il ritratto del re italico Nevio Pompulledio, meglio noto come Guerriero di Capestrano, è il simbolo del Museo archeologico di Chieti e dell’Abruzzo antico. Il suo ritrovamento da parte del contadino Michele Castagna avvenne per caso, in un campo presso Ofena, nel 1934. In questa sequenza di immagini abbiamo voluto offrirvi una visione completa della statua, solitamente rappresentata secondo un unico punto di vista. Ecco il guerriero com’è veramente.

• Vista di fronte, la statua appare

• Lateralmente si nota

• Gli storici dibattono sul volto del guerriero:

sorretta da due puntelli, il volto

che sui puntelli sono raffigurate

i lineamenti sono stilizzati o si tratta di una vera e

è coperto da una maschera

due lance.

propria maschera funeraria? A guardarlo da qui

e sormontato da un elmo circolare.

la seconda ipotesi sembra più probabile.

• Il puntello destro reca • Sul torace, un disco

una scritta, in lingua picena:

presumibilmente metallico

“Me, bella immagine

protegge il cuore;

fece lo scultore Aninis

a fianco, l’elsa della spada

per il re Nevio Pompuledio”

sulla quale sono raffigurati dei quadrupedi. La mano destra sorregge anche un’ascia.

protagonista negli anni scorsi di altre importanti esposizioni dedicate a De Chirico, Carrà, Sughi, Vespignani, Calabria, fino all’ultima mostra antologica sull’astrattismo italiano (2006), eventi che hanno proiettato Chieti al centro dell’attenzione dei media nazionali. Lo sforzo organizzativo si deve all’associazione culturale Trifoglio e alla curatrice di quest’ultimo evento, Giuseppina Conti: «Non trovo dissonanze nell’accostare alla “storia”, e alle sue espressioni artistiche, la storia recente dell’arte: nel caso dell’astrattismo e della pop art, in particolare, sono numerosi i riferimenti dei protagonisti di entrambi i movimenti all’arte classica

Dimensioni

(basti pensare a De Chirico), e anzi è un singolare dialogo quello che si instaura tra i “pezzi forti” del Museo e le opere più significative degli artisti contemporanei». Un’idea che può far arricciare il naso, quindi, ai “puristi”, ma che, dati alla mano, si è rivelata vincente: oltre diecimila persone hanno visitato l’ultima mostra e le previsioni per la prossima sono ancor più ottimiste. «Il Museo archeologico, con queste iniziative –interviene Maria Ruggeri, direttrice del Museo– ha intrapreso un cammino che lo pone al di là dei rigidi schemi che vorrebbero costringere l’arte in recinti appositi, come fossero riserve indiane dalle quali non si può uscire.

Un unico blocco di pietra calcarea alto 253 cm; senza la base la statua è alta 209 cm, e senza l’elmo scende a 171. Alle spalle è larga 135 cm.


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• Ben visibili da quest’angolazione

• In evidenza il disco sulla schiena,

• A protezione del volto,

i cerchi concentrici sotto l’elmo,

in corrispondenza di quello frontale,

una maschera forse bronzea

identificato come un copricapo

posto a protezione del cuore e sostenuto

eanche due singolari

da parata e forse dotato

da cinghie; presenta ancora tracce del colore

paraorecchie.

di un cimiero oggi perduto.

rosso col quale era dipinta la statua.

• I glutei tondeggianti della statua: quando si dice “un sedere scolpito”…

Vedere un’opera pop accanto a una statua romana può sembrare un’azzardo, invece stimola riflessioni; è lo stesso principio che ha ispirato la costruzione della Piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei, un’opera in apparente contrasto con la struttura architettonica del Museo ma che ne ha rivelato la natura: un simbolico ponte tra l’arte di ieri e quella di oggi». Chieti come Parigi, dunque? Il paradosso è in agguato, ma a ben vedere la domanda non è oziosa. Lo storico Gabriele Simongini, curatore scientifico della mostra (e anche delle precedenti esposizioni) sottolinea come «La potenza originaria, quasi archetipa e la magnetica arcaicità del

L’Ercole Curino

Guerriero di Capestrano danno immagine a valori di purezza in qualche modo primordiale che sono anche la meta contemporanea di parecchi artisti informali. Del resto, su un altro versante, l’aspirazione a una misura classica rinnovata è poi la linfa di quasi tutto l’astrattismo italiano, soprattutto di quello degli anni Trenta; stesso discorso vale per l’alternativa italiana alla Pop Art americana, per la quale (contro le insegne pubblicitarie, i manifesti o gli oggetti di consumo che ispirarono gli statunitensi) i riferimenti sono da ricercare nelle opere d’arte antica, i cicli di affreschi, i

L’altro tesoro custodito dal Museo archeologico è una statuetta in bronzo, forse opera del grande Lisippo


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monumenti su cui non può fare a meno di cadere lo sguardo di chi vive e passeggia in una città italiana; suscita quindi tante riflessioni l’accostamento nello stesso museo dei quadri di Festa, Pistoletto o Tacchi, solo per fare tre nomi, alla mirabile statuetta di Ercole Curino». Al pari di altre istituzioni museali gestite in maniera “illuminata”, quindi, anche il Museo archeologico nazionale di Chieti gode di questi successi e si guadagna un posto di tutto rispetto nel panorama italiano, grazie anche all’attuale allestimento della collezione permanente che –realizzato nel 1984– ha ricevuto, l’anno successivo, una menzione di merito come “Museo Europeo dell’anno”. Quattordici sale divise su più livelli, in cui trovano collocazione reperti che narrano la storia abruzzese a partire dal IX secolo a. C., tra cui, come già anticipato, i pezzi più significativi sono la grande statua del cosiddetto Guerriero di Capestrano (VI secolo a.C.), simbolo dell’intera regione, e la piccola ma pregevolissima statua bronzea di Ercole Curino, rinvenuta sul monte Morrone presso Sulmona nell’area dell’omonimo santuario e risalente al III secolo a. C., ritenuta opera di Lisippo, successivamente portata dalla Grecia in Italia. Con buona pace delle due “star” della collezione, gli altri reperti non sono certo da meno: il Museo possiede infatti una raccolta numismatica composta da oltre 15mila monete, di cui un migliaio circa sono esposte in dodici vetrine tematiche; la collezione Pansa, privata, dovuta alla passione dell’avvocato e studioso sulmontino vissuto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; le statue romane provenienti dal territorio abruzzese, databili tra il I e il III secolo d. C.; e infine la sala antropologica, in cui i resti umani provenienti dalla necropoli di Alfedena e da altre dell’Età del ferro permettono di ricostruire numerosi aspetti legati alla vita delle genti italiche. Quello del Museo archeologico nazionale di Chieti è un patrimonio inestimabile, che ne fa uno dei musei più interessanti d’Europa per la qualità e la quantità dei reperti. Un patrimonio, custodito in un meraviglioso scrigno, sul quale veglia, silenzioso e impassibile, il guerriero di Capestrano.

«Il Museo archeologico ha intrapreso un cammino che lo pone al di là dei rigidi schemi che vorrebbero costringere l’arte in recinti appositi, come fossero riserve indiane dalle quali non si può uscire»

• L’ingresso della mostra, con la grande opera Natura modulare di Gino Marotta (1966).

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Va in mostra la mass culture immo Rotella, il precursore che con i suoi décollages si rivelò “un formidabile saccheggiatore della nuova civiltà urbana delle immagini mediate attraverso le quali filtra tutta una nuova realtà” (G.Simongini, dal catalogo), è l’artista più rappresentato della mostra, con ben dieci opere, raggruppate nel percorso “Mimmo Rotella, cacciatore d’immagini”. L’esposizione, lungi dall’aspirare ad un panorama completo dell’esperienza italiana nella Pop Art, punta sulla qualità delle opere esposte e le suddivide in diverse aree tematiche: Schermi, con opere di Mauri, Pascali e Ruffi; Emblemi d’autorità (Lombardo, Angeli); Natura artificiale (Barni, Gilardi, Pascali, Marotta, Cintoli e Kounellis); La nuova Venere (Bignardi, Bertini, Malquori, Fioroni, Pistoletto e Tacchi); L’uomo seriale (Mambor, Ceroli, Ruffi); L’oggetto-soggetto (Festa, Tacchi, Barni, Buscioni, Gnoli); Memorie italiane (Schifano, Festa); Segnali e presenze urbane (Kounellis, Maselli, Pistoletto). In totale,nelle sale del Museo archeologico sono esposte 57 opere provenienti da importanti collezioni private, gallerie o dagli stessi artisti.

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Qui sopra, due opere di Mimmo Rotella: Mondiale, (1958) e Oltre ogni limite (1969). Qui a sinistra: in alto, Mario Ceroli, Due figure (1966); in basso, Mario Schifano, Futurismo rivisitato a colori (1965). A destra: Gianni Bertini, Stilmec (1967); in basso: Michelangelo Pistoletto, Particolare di pagapedaggio (1974). Qui sotto, il catalogo della mostra, dal quale sono tratte le immagini di questa pagina. Oltre all’ampia e dettagliata introduzione di Gabriele Simongini, nel volume sono presenti testimonianze sull’argomento dei numerosi artisti tuttora viventi che parteciparono all’esperienza Pop italiana.

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Ex Aurum

Distillato di Sergio D’Agostino foto Antonella Da Fermo

Storia della fabbrica simbolo della città, voluta dall’imprenditore Amedeo Pomilio e progettata da un architetto insigne come Giovanni Michelucci, che dopo decenni di oblio torna ad aprire i suoi splendidi spazi

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uò una fabbrica essere anche un luogo di cultura? Quando negli anni Trenta Amedeo Pomilio, padre fondatore di quel marchio di liquori, l’Aurum, che avrebbe esportato con successo il nome della città di Pescara fuori dai suoi confini, si pose il problema, la risposta fu affermativa. Può, anzi: deve. Nacque così, sulla base dell’estro creativo di un imprenditore che distillava in pari misura liquori e idee, vestendo di raffinato design le sue bottiglie, la prima azienda immaginata come luogo di produzione di beni ma anche di cultura: aperta dal lunedì al venerdì alle tute blu, il sabato e la domenica ai cittadini e al teatro, alla musica, alle arti. Insomma, un punto a metà strada tra la fabbrica e la Fabbrica con la maiuscola. A tradurre in realtà quell’intuizione fu un architetto toscano all’epoca già famoso, Giovanni Michelucci, che dalla sua Pistoia decise di trasferirsi sulle rive dell’Adriatico per trasportare oltre la montagna la nave (chi non ricorda le magiche atmosfere del “Fitzcarraldo” di Werner Herzog?), ovvero il sogno di quell’imprenditore così lungimirante che aveva la

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di cultura

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Cin cin Pescara Sindaco D’Alfonso, lo ha fatto scrivere anche sulle brochure: l’ex Aurum è un tesoro ritrovato. È un tesoro come hanno rivelato gli occhi pieni di meraviglia e di gioia delle migliaia di persone che dal 19 al 22 luglio hanno visitato, frequentato, goduto di questa eccezionale struttura. “Ritrovato” perché era stato vinto e sommerso da decenni di polvere e di abbandono, tanto che se non fossimo intervenuti tempestivamente questo bellissimo scrigno sarebbe stato irrimediabilmente perduto, a causa del crollo strutturale che siamo riusciti ad evitare quasi all’ultimo momento. La riapertura dell’ex Aurum e il recupero della pineta dannunziana, potrebbero essere

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elevati a simbolo di un intero mandato da primo cittadino? L’ex Aurum e la Pineta dannunziana che lo accoglie sono, nello stesso tempo, molto di più, ma anche meno di questo. Sono di più perché rappresentano beni eccezionali della città, che hanno un valore collettivo che supera di gran lunga l’operato di un’amministrazione. Senza madre natura, creatrice di una pineta tanto bella e senza il genio di Amedeo Pomilio e Giovanni Michelucci che hanno realizzato un così straordinario ed unico edificio, noi avremmo avuto ben poco da valorizzare. Ma, allo stesso modo, difficilmente possono testimoniare l’intero nostro mandato in cui abbiamo pro-

gettato, avviato, condotto e in molti casi terminato 352 interventi strategici per la riqualificazione e lo sviluppo strutturale della città, e soprattutto se si considera che sono al nastro di partenza grandi opere come la riqualificazione delle aree di risulta e il Ponte del Mare. Diciamo che queste sono due grandi stelle che sfavillano in un bel firmamento. Per troppi anni la città ha solo potuto sperare nel recupero: qual è stata la molla che l’ha convinta a gettarsi in questa impresa? La convinzione teorica sulla necessità dell’intervento penso che non mancasse nemmeno a coloro che negli anni precedenti avevano la responsabilità di questa struttura. Questa volta penso che la


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molla sia scattata per l’incontro di due forze: la profonda attesa della città che voleva la rinascita di questo luogo identitario di Pescara e la determinazione di un’Amministrazione che ha saputo raccogliere tutte le risorse utili, persino tra i residui attivi dei mutui comunali dal 1971 al 1999. Fatta la ristrutturazione, ora c’è da pensare alla gestione futura. Che non è un piccolo problema. Non è un piccolo problema, ma una straordinaria opportunità. Non a caso abbiamo chiamato l’ex Aurum “La fabbrica delle idee”, perché concepiamo questo luogo come una fucina di pensiero e di creatività in grado di proiettare su scala internazionale le funzioni culturali che Pescara può svolgere.

La vocazione di questa struttura è l’eccellenza, il che ovviamente comporta che la sua conduzione sia di altissima qualità progettuale e gestionale. Abbiamo già insediato una struttura ad hoc per la manutenzione e abbiamo definito la direzione artistica. Ora la struttura amministrativa competente sta predisponendo il bando per la gestione della struttura a partire dal 2008, ma già quest’anno l’ex Aurum ospiterà grandi mostre d’arte, concerti ed eventi. Ringraziamenti particolari, citazioni per qualcuno? Ringrazio tutti quelli che hanno lavorato per restituire luce a questo gioiello, a partire dai progettisti interni all’Amministrazione e dall’impresa

Di Vincenzo che ha lavorato con grande professionalità. In particolare, però vorrei citare l’Architetto Sabatino Di Giovanni che è stato uno straordinario Direttore dei Lavori, che ha seguito con passione e dedizione i due anni del cantiere, e il Senatore Bruno Viserta che con molta discrezione è riuscito a farci avere dal Senato della Repubblica, in una legislatura in cui egli era all’opposizione, un finanziamento di 1.200.000 euro, grazie al quale abbiamo potuto completare le dotazioni e gli arredi dell’ex Aurum. • Nelle foto: l’Aurum rinnovato, il Sindaco Luciano D’Alfonso e alcuni momenti dell’inaugurazione

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Centro per la produzione del celebre liquore, ma anche Fabbrica per eccellenza di arte e cultura: così l’edificio fu pensato negli anni Trenta

sua stessa sensibilità, il suo stesso modo di vedere la vita, di immaginare gli spazi. L’Idea si tradusse nella creazione, alle spalle dell’elegante Kursaal progettato nel 1910 dall’architetto pescarese Antonino Liberi, che aveva ospitato il nucleo originario dell’azienda, di uno spazio più ampio e prestigioso, dove coniugare le esigenze produttive con quelle dell’arte e della cultura. Uno spazio che formasse un tutt’uno inscindibile con il contesto ambientale in cui era inserito, armonia della natura e del costruito. Nacque così, nel cuore del polmone verde per eccellenza dei pescaresi, la pineta dannunziana, quel segno così forte, così particolare, che perfino i bombardamenti a tappeto alleati riuscirono miracolosamente a risparmiare dalla distruzione che invece colpì senza pietà il resto della città. Nacque lo spazio che un architetto colto come Paolo Di Pietro avrebbe definito nel 1995, in un convegno dedicato proprio a Michelucci e alla riscoperta delle sue “radici” pescaresi, come «architettura poetica»: capace, nell’ampio anfiteatro posto al centro del complesso, di accogliere –come descrive Vittorio Pomilio, figlio altrettanto celebre di quella dinastia– il pubblico elegante che da Roma, da Napoli o dal resto dell’Abruzzo accorreva, «per assistere a rappresentazioni della Figlia di Jorio o delle sinfonie di Beethoven». Un autentico “caso”, che fece di quello stabilimento, dei suoi titolari, dell’architetto che lo realizzò e del clima culturale che vi si respirava un esempio acclamato. Che diede a Pescara una stagione irripetibile.

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Dove la guerra non riuscì, potè invece la crisi industriale che colpì il marchio a metà degli anni Settanta: posto sotto assedio da nuovi competitori, il nome dell’Aurum entrò in crisi profonda, fu costretto ad emigrare, e con esso anche il luogo simbolo dell’azienda pescarese cessò di esistere. La storia successiva è quella del rapido declino, dell’oblio, del degrado, del tentativo di abbattere la vecchia distilleria per fare posto al socialismo reale dell’edilizia residenziale, delle battaglie appassionate dei cittadini per impedire la soluzione finale. La storia di un fabbricato comprato e venduto tante volte, come un vecchio calciatore finito nel pacco della spesa che accompagna l’acquisto del nuovo bomber di talento. Vagheggiato dalla città, ma abbandonato all’eterno riposo dalle sue classi dirigenti, che a turno vi hanno immaginato sedi universitarie o Beaubourg alla pescarese, salvo ritrarsi di fronte ai costi certi e alle prospettive incerte. Un fabbricato che solo lo spirito d’iniziativa di qualche pioniere (resta la memoria dei tanti “Fuori uso”targati Cesare Manzo) hanno permesso a giovani e anziani di riscoprire, anche se ormai irreversibilmente come “ex”. Adesso che l’ex è tornato a vivere, che la polvere ha lasciato spazio alle luci, che una classe dirigente giovane raccolta attorno al sindaco D’Alfonso si è decisa a passare dal dire al fare, verrebbe voglia davvero di vedere aggirarsi in quei grandi spazi il vecchio “alchimista” che seppe distillare dalle essenze i liquori, e dalla sua città un sogno.


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Restauro e recupero del complesso “ex Aurum” in Pescara

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I “NUMERI” DELL’EX AURUM i sono voluti poco meno di dieci milioni di euro per ridare un volto nuovo all’ex Aurum, e ai circa 10mila metri quadrati di superficie del magnifico edificio divisi quasi equamente su tre piani. Per un fabbricato così complesso, bisognoso di un restauro integrale prima di essere riaperto al pubblico, l’amministrazione comunale pescarese ha dovuto fare ricorso ad un vero e proprio team: troppe, infatti, le compatibilità di ordine storicoarchitettonico di cui tener conto nel complesso lavoro di restauro e recupero. È nata così una vera e propria task force, coordinata dall’architetto Sabatino Di Giovanni e dal geometra Domenico Ballone, per quel che riguarda la parte progettuale, dall’associazione temporanea di impresa tra il gruppo Di Vincenzo Dino Spa e Archè srl per i lavori. Si diceva delle spese: a farsi carico della fetta maggiore è stata proprio l’amministrazione comunale (circa 7 milioni di euro), seguita dalla Regione (1,8

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milioni) e dal Cipe (600mila). Il progetto di riuso prevede nella zona a piano terra un’area adibita a museo, con spazi destinati ai servizi. Mentre un ruolo di primo piano verrà assegnato alla corte interna, destinata ad accogliere soprattutto nelle sere d’estate manifestazioni culturali e concerti. Salendo al primo piano, l’ex Kursaal (nucleo originario del complesso) svolgerà un po’ le funzioni di sala di ricevimento, mentre gli ampi spazi centrali daranno opportunità, ancora, di ospitare mostre e iniziative d’arte. Soprattutto ai servizi (caffè, ristorazione) guarderà infine lo spazio del secondo piano, occupato per una buona metà da una gigantesca terrazza che promette di diventare l’attrattiva delle sere d’estate per i pescaresi e non solo. Nelle foto dall’alto: il fondatore dell’Aurum Amedeo Pomilio, un manifesto d’epoca e e donne al lavoro nella fabbrica. La grande installazione di Giulio Turcato e un interno della ex fabbrica.


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Massimo Cialente

Io, tra Walter e Luciano Il Sindaco dell’Aquila rilancia il ruolo della città tra il Tirreno e l’Adriatico, lungo la direttrice che parte da Roma e attraverso il capoluogo e Pescara raggiunge i Balcani


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di Guido Alferj foto Claudio Carella

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La medicina è la sua professione, il cinema la sua passione, la politica la sua vocazione. E L’Aquila? La sua ossessione. rillante, colto, aperto al confronto. Tre caratteristiche che sembrano connotare oggi tanti sindaci italiani del centrosinistra, quelli più popolari, quelli più amati dai loro cittadini. Il torinese Chiamparino, ad esempio, o Cacciari a Venezia, Cofferati a Bologna, naturalmente Veltroni a Roma e, perché no?, il vicino pescarese D’Alfonso. Ecco, Massimo Cialente, 55 anni, medico pneumologo, da pochi mesi sindaco dell’Aquila, sembra volersi iscrivere entro il più breve tempo possibile a questo esclusivo club di primi cittadini, a entrare a far parte di questa ristretta cerchia di politici “vicini alla cittadinanza”. I numeri, in effetti, sembra averli davvero tutti. A definirlo “brillante e colto” non si fa infatti troppa fatica: gli argomenti di conversazione non gli mancano, il suo eloquio è chiaro e diretto, è autore di numerosi lavori scientifici pubblicati su riviste mediche, è stato tra i fondatori dell’Accademia aquilana per le Scienze e le Arti dell’Immagine (del cui consiglio di amministrazione è ancora presidente) e infine, quanto all’essere “aperto al confronto”, basti ricordare che tra i politici aquilani da lui più “complimentati” c’è quel Maurizio Leopardi, che è stato suo rivale nella sfida elettorale del maggio scorso. Sfida vinta da Cialente al primo turno, un vero “colpaccio”, se si pensa alle difficoltà che hanno avuto un po’ in tutta Italia i partiti del centrosinistra nell’ultimo voto amministrativo. Brillante, colto, aperto al confronto, dicevamo. Ma al sindacopneumologo serviranno queste doti –che anche molti avversari politici gli riconoscono– per ridare una buona respirazione alla sua città, da tempo asfittica, sofferente di

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asma soprattutto a causa di una crisi –quella che sta provocando una progressiva deindustrializzazione– che la sta prostrando? E qual è la sua migliore ricetta per rilanciare L’Aquila, per ridarle fiato e convinzione nei suoi mezzi? Abbiamo provato a chiederglielo, in una torrida mattinata d’estate, nel suo ufficio di primo cittadino, un ufficio che sta diventando la sua prima casa, visto che –ammette– vi passa ormai gran parte della giornata. E comunque a Massimo Cialente, politico tuttofare, sindaco, deputato Ds al Parlamento, componente di tre commissioni, presidente (come abbiamo già visto) dell’Accademia internazionale per le Scienze e le Arti dell’Immagine, in passato anche consigliere comunale e provinciale, la prima domanda da fare è ovviamente un’altra. Dottor Cialente, possibile che in una città come L’Aquila non c’è nessun altro con cui condividere tanti incarichi, tante responsabilità? «Questa è una domanda che mi aspetto sempre, nelle interviste. E pone un problema reale. Ma è anche vero che io ho cominciato a occuparmi di politica da ragazzino, avevo 16 anni e i pantaloni corti quando sono entrato nel Pci. In seguito, dopo la laurea, mi sono sempre diviso tra lavoro, politica e famiglia. In politica, all’interno del partito, a volte ho anche rinunciato ad incarichi di rilievo. Così come nel 2001, dopo l’elezione alla Camera, ho lasciato il lavoro ospedaliero, una cosa che mi è costata molto anche se non escludo di poter ritornare un giorno. Certo, non per fare il primario, merita di più chi in tutti questi anni ha continuato a lavorare in reparto».


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• Massimo Cialente, nuovo Sindaco dell’Aquila, con la moglie Donatella

E l’Accademia? «L’Accademia dell’Immagine è il grande amore della mia vita, io e Gabriele Lucci l’abbiamo inventata e creata, è un po’ come un figlio, non me la sentirei proprio di abbandonarla». E ora c’è questo nuovo impegno di sindaco, un lavoro nuovo, difficile, che porta via tempo e forze… «Beh, intanto debbo dire che esperienze amministrative già le ho avute, ho fatto la maggioranza, ho fatto l’opposizione, ho fatto il presidente del consiglio comunale, sono stato consigliere provinciale. La mia candidatura è nata così, un po’ alla volta e dopo le primarie i miei hanno creduto nella vittoria. Una vittoria che poi è arrivata al primo turno. E non ce ne sono state molte nel centrosinistra!» Le sue prime settimane al Palazzo comunale? «Pesantissime, più del previsto. Non per crearmi degli alibi, ma qui in Comune ho trovato una situazione allucinante, al di là di ogni più fosca previsione. Così mi sono trovato ad affrontare delle assolute emergenze e con la giunta ci stiamo occupando di queste. Anzitutto dell’emergenza rifiuti: se non ci fossimo dati da fare, avremmo rischiato di ritrovarci l’immondizia in strada dal 27 agosto, dal giorno del corteo della Perdonanza. Nel giro di pochi giorni quindi abbiamo dovuto elaborare un progetto per la raccolta differenziata al ministero, alla Regione, tutto con grande difficoltà». È la solita storia di voi politici, Berlusconi che accusa i governi precedenti di non aver fatto nulla, Prodi che appena tornato a Palazzo Chigi accusa il governo

Berlusconi di avergli lasciato una pesante eredità… «Sì, è vero questo succede spesso, ma qui le cose sono chiare. Le emergenze che ho dovuto affrontare sono legate soprattutto all’assenza da parte della precedente giunta di qualsiasi attività amministrativa, specie negli ultimi tempi». Che fa, accusa l’ex sindaco Tempesta di aver sabotato quelli che avrebbero poi dovuto prendere il suo posto? «No, non penso sia stata un’azione di sabotaggio. Ma è accaduto che gli ultimi anni della giunta Tempesta siano stati caratterizzati da un grande isolamento dell’ex sindaco. Isolato nella città e nella sua stessa maggioranza. Gli assessorati erano diventati dei feudi e i dirigenti erano assolutamente scollegati fra loro, ognuno andava per conto suo. Insomma mi aspettavo una situazione pesante ma non certo di trovare una macchina tanto danneggiata. A parte i rifiuti, c’era l’emergenza della chiusura della piscina comunale, rischiavamo di rimanere fuori dai fondi europei, insomma un problema dopo l’altro. E non è per caso che la Guardia di finanza viene qui quasi ogni giorno a sequestrare libri, documenti…». Insomma, la giunta Tempesta in tanti anni non è riuscita proprio a far nulla di buono? «Non sono così settario… va detto che la municipalizzata a volte ha funzionato, i cimiteri ad esempio sono più decorosi, è stato aperto un asilo nido a prezzi contenuti, e poi molti lavori pubblici sono stati fatti bene, le strade sono state risistemate». Ora invece ci sono grandi progetti, per esempio il discorso avviato con Roma per la cosiddetta “capitale

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diffusa”. Potrà davvero funzionare questa idea o, come dicono molti, Roma si mangerà L’Aquila e gli aquilani rimarranno a bocca asciutta? «Questa è chiaramente una scommessa. Il nostro rapporto fondamentale non può che essere con Roma dove, a est, sta nascendo il cosiddetto quadrilatero – Tivoli, Lunghezza, Guidonia e, appunto, la zona orientale della capitale. Questa grande area si distende verso il carsolano, verso L’Aquila. Il rischio è che questa parte del territorio diventi una periferia poco qualificata, noi dobbiamo batterci per farne una grande opportunità, fare dell’aquilano un centro dell’alta qualità rispetto ad una serie di domande che possono venire da Roma. A questo va aggiunto che occorre riscoprire il ruolo dei singoli territori della nostra regione per capire le vocazioni, gli interessi, le priorità. A cominciare dall’area metropolitana di Pescara, che vedo come una cerniera lungo una direttrice che parte da Roma e che, attraverso appunto L’Aquila e Pescara raggiunge i Balcani». In questo quadro quale dovrà essere il futuro dell’Aquila? «Malgrado la crisi in atto, il futuro resta l’industria. Il Censis dice che sia per presenza di industrie che per numero di addetti in rapporto alla popolazione, L’Aquila ha la più alta percentuale italiana nei comparti tecnici e in quei settori strategici destinati ad avere un grande futuro. E poi i cardini del nostro sviluppo restano la cultura, l’università, il teatro, il turismo naturalmente. Ma l’industria resta il caposaldo dello sviluppo». E parliamo allora anche di politica, del cosiddetto “cialentismo”, dei suoi difficili rapporti con i giornali, dei suoi presunti contrasti con altri esponenti del centrosinistra, della mancata adesione al Partito

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democratico… «La storia del “cialentismo” l’ha inventata un quotidiano locale che mi attaccava in occasione delle primarie ma alla fine mi ha portato fortuna, le primarie le ho vinte con un buon risultato. Se c’è, il “cialentismo” è il mio atteggiamento nel voler credere fino in fondo che la politica si debba autoriformare e riscoprire i suoi valori più rilevanti. Quanto ai contrasti, tutto falso. Si è parlato ad esempio di scarsa sintonia con Giovanni Lolli: è assurdo, lui è fra i miei migliori amici, ci vediamo e consultiamo spesso. Quanto al Partito democratico, ci sono ancora molte cose da valutare, c’è tempo per decidere». Grande amico di Veltroni, grande amico di D’Alfonso. Ma da Pescara le sono arrivate pesanti critiche per il suo no alla Corte d’Appello nella città adriatica. Si torna al campanilismo? «Nessuna polemica nei confronti di Pescara. Insisto sui ruoli e sulle vocazioni. All’Aquila la storia assegna, oltre al ruolo di capoluogo, anche alcune determinate e consolidate funzioni. Sono un grande sostenitore dell’Aeroporto di Pescara o del Porto a Ortona, ma sono contro i doppioni che in passato hanno provocato tanti danni all’Abruzzo. Doppioni, triploni, quadruploni e quintuploni. È finita l’epoca della moltiplicazione dei pani e dei pesci nei due Abruzzi. Con D’Alfonso di queste cose abbiamo già parlato e ci siamo trovati d’accordo che il campanilismo è il rifugio dei politici mediocri. Quando non hai argomenti, ti affidi al campanile. No, sono contro i doppioni, contro due ospedali-azienda, contro due corti d’appello. Non è colpa mia se a Pescara è stato costruito un Palazzo di giustizia che è il doppio di quello che serviva».


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La signora in mostra Da Castelbasso al MuMi di Francavilla, dal Castello dell’Aquila al museo Vittoria Colonna di Pescara, da Morandi a Warhol, da De Chirico a Pollock: la storia dell’arte contemporanea presentata in Abruzzo dalla discendente di Cecilia Gallerani, ovvero la famosa “Dama dell’ermellino” di Leonardo Da Vinci di Guido Alferj foto Claudio Carella e state programmando, magari per i prossimi giorni, un incontro con Silvia Pegoraro, attenti, non presentatevi impreparati. Se avete intenzione di scambiare quattro chiacchiere con lei, datevi quindi prima una bella ripassata a quei testi di storia dell’arte che avete abbandonato in libreria da chissà quanti anni ma, soprattutto, aggiornatevi sugli artisti contemporanei oppure, perché no?, su quelli dell’ 800 e del ‘900. E, se pure ve la cavate con l’arte, non trascurate la letteratura, antica o moderna, per lei le due cose sono assolutamente inscindibili, collegatissime, guai a non tenerne conto. Insomma attenti a non commettere errori e munitevi di una ricca enciclopedia prima di andare all’appuntamento. O, altrimenti, meglio trovare una scusa e andarsene al cinema. O al bar sotto casa. Già, ma sarà davvero così inevitabile incontrarsi con Silvia? Penso proprio di sì. Silvia Pegoraro, giornalista, scrittrice, organizzatrice di eventi culturali, ma soprattutto critico d’arte di provata esperienza e di sicura sensibilità, ha ormai un legame così stretto con l’Abruzzo e con gli abruzzesi, che prima o poi, siate o non siate appassionati di arte, ve la troverete sicuramente di fronte. Oggi inaugura una mostra all’Aquila, domani tiene una conferenza a Teramo, per poi fare una rapida puntata al Museo di Chieti, correndo quindi a Pescara a dare una mano per l’Aurum o a scoprire infine meravigliosi borghi medievali (magari sconosciuti agli stessi abruzzesi) dove creare eventi artistici e portare le ultime installazioni dei più noti artisti del nostro tempo. Castelbasso, ad esempio. Un ritmo frenetico sette giorni alla settimana, ogni mese, ogni stagione. Insomma, un ciclone si è davvero abbattuto sul mondo dell’arte abruzzese, un mondo che –per

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la verità– non è statico, non è paludoso, ma che, una volta pieno di fermenti e idee nuove, sembrava negli ultimi anni un po’ più fermo, meno vivace, quasi arrugginito. Il ciclone che in un modo o nell’altro sta cambiando il volto della politica artistica in Abruzzo, si chiama appunto Silvia Pegoraro, è romagnola di Ravenna, studi classici e laurea in letteratura, fisico da cestista (“pivot”, precisa lei), età in bilico fra gli “enta” e gli “anta” (confessa la data di nascita, 22 aprile, ma non aggiunge l’anno…), grande voglia di fare e grandissima, granitica determinazione. E un’antenata illustre: Cecilia Gallerani, la famosa Dama con l’ermellino ritratta da Leonardo, una della amanti del duca Ludovico Sforza, protettore di Leonardo a Milano, che all'epoca del dipinto doveva avere circa 16 anni. Sembra inoltre che, oltre che per la bellezza estetica, Cecilia fosse molto apprezzata a corte, e anche da Leonardo, soprattutto per la propria intelligenza. Due doti che sembrano trasmettersi per via ereditaria. Oggi, a poco più di sette anni dalla sua prima apparizione a sud del Tronto, tutti quelli che si occupano di arte in Abruzzo, artisti, galleristi, organizzatori di eventi, uomini di cultura e semplici appassionati, debbono fare inevitabilmente i conti con lei. E Silvia, come lo vive questo suo rapporto con l’Abruzzo, cosa ha da offrire e cosa può imparare? «Beh, da offrire –risponde– ho naturalmente la mia esperienza professionale, anni di studi e di contatti con il mondo dell’arte, l’entusiasmo che metto in ogni mio lavoro. Quell’entusiasmo che ho trovato anche negli abruzzesi, quelli con cui ho avuto i miei primi incontri. E poi questa è una regione piena di potenzialità, l’ho capito un po’ alla volta, girando per musei e gallerie, ascoltando tanta gente e documentandomi sugli


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artisti locali, quelli già affermati e quei giovani in cerca di un posto al sole…» Tutto è cominciato a Castelbasso, nell’estate del ’99. Allora Silvia lavorava con Enrico Baj, per lui aveva allestito una mostra a Milano sui Guermantes, 164 ritratti del grande artista lombardo ispirati alla Recherche di Proust. Pittura e letteratura, due generi che Silvia, come lei confessa, ha sempre cercato di fare andare d’accordo, di “contaminare”. E infatti, su quei lavori di Baj, Silvia Pegoraro pubblicò anche un libro, Les Guermantes, appunto, coautore lo scrittore e poeta francese Alain Jouffroy. È Baj a chiedere a Silvia di andare in “perlustrazione” a Castelbasso: gli avevano chiesto di portare nel piccolo centro abruzzese una sua opera, lei si dà da fare ma non riesce a trovare sulle cartine stradali alcuna indicazione. «Ero disperata, ho pensato che ci avessero fatto uno scherzo, il nome di Castelbasso non figurava in nessuna mappa geografica. Poi scoprii che era una frazione di Castellalto, mi misi in viaggio e alla fine la mia ricerca fu compensata dalla bellezza del posto». Nell’estate successiva al festival di Castelbasso Silvia Pegoraro presenta, Baj, frammento e frammento, una mostra di grande successo. «Era una mostra sulla parcellizzazione della materia, sulla pittura nucleare –spiega oggi–. Baj fu

molto contento, e ci fu un grande successo di pubblico». Luglio 2000, quindi, fine della prima puntata dell’avventura abruzzese di Silvia Pegoraro (che comunque continua ad occuparsi, nel piccolo centro tramano, della mostra storica e di quella dei “giovani emergenti”). La seconda puntata, che va avanti ancora oggi, inizia nel 2005, con le elezioni regionali. Stupore dell’intervistatore: scusi, sa, ma cosa c’entrano le elezioni? «C’entrano, c’entrano –risponde sorniona– perché al vertice della Regione Abruzzo viene eletto Ottaviano Del Turco, appassionato di arte, pittore notevole, anche se molto restio a mostrare le sue opere». Del Turco, infatti, va a Castelbasso dove Silvia ha allestito una mostra di Lucio Fontana –ci sono anche alcuni inediti fra cui un crocefisso di ceramica– e… zac, scocca la scintilla artistica. «Sì, Del Turco fu molto colpito da quella mostra, mi chiese se potevo dargli una mano ad organizzare eventi artistici in Abruzzo, se potevo iniziare un rapporto di consulenza, di collaborazione con la Regione, ed ecco perché lavoro ancora qui; la Regione dispone di fondi per promuovere la sua immagine culturale, così presentai subito un progetto di largo respiro che da una parte prevede l’organizzazione di mostre prodotte

direttamente dall’Ente e dalla Presidenza, dall’altra tende a valorizzare alcune manifestazioni di particolare rilevanza». Così, ad esempio, Silvia si mette al lavoro per il Premio Michetti. Al MuMi il suo obiettivo è creare uno spazio per una esposizione permanente dove sia possibile mettere in mostra le collezioni che si sono accumulate negli anni. E l’anno scorso sempre al Premio Michetti ha avuto grande risonanza la mostra sulla famiglia De Chirico, Giorgio De Chirico, Alberto e Ruggero Savinio. «Le loro opere –dice Silvia– non erano mai state esposte tutte insieme, è stata una novità assoluta». Quanto a Francesco Paolo Michetti, Silvia Pegoraro è entusiasta delle opere fotografiche del grande artista abruzzese: «Ai suoi tempi la fotografia era l’emblema della modernità e poi lui la usa come termine di paragone con la pittura, non per tirare fuori la realtà, ma il fantasma del reale». Presto, vedrete, ci sarà a Francavilla una grande mostra sul Michetti fotografo. E all’Aquila Silvia ha trovato anche tre inediti di Michetti da un collezionista. «Sì –spiega– in Abruzzo ci sono molti collezionisti importanti, ma che non amano mostrare le opere in loro possesso, c’è anche chi tiene in casa un Picasso o un Paul Klee…». Le idee, insomma, a Silvia Pegoraro non

Un Bignami per capire (e parlare con) Silvia

ALBERTO SAVINIO Fratello di Giorgio De Chirico, letterato, pittore, musicista. GIORGIO DE CHIRICO Pittore, fondatore del movimento artistico della "scuola metafisica". GIORGIO MANGANELLI Narratore, critico, giornalista, saggista, traduttore, è stato uno dei teorici più coe-

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renti della neoavanguardia. GILLO DORFLES Critico d'arte e filosofo italiano,tra i fondatori del Movimento per l'arte concreta. WOLS (Wolfgang Alfred Otto Schultz) Pittore, capostipite dell'Art Informel, è stato il primo artista europeo a porsi il problema che l'arte possa esprimersi in schemi e strutture avulse da ogni preoccupazione di significazione. LUCIO FONTANA Pittore e scultore, fondatore del movimento spazialista, infrangendo la tela con buchi e tagli, superò la distinzione tradizionale tra pittura e scultura. GETULIO ALVIANI Scultore, tra i rappresentanti più rigorosi dell’arte concreta e programmata. Per Alviani la progettazione di qualsiasi oggetto, dall’arte pura all’architettura, deve essere sempre tesa, non solo “plasticamente”, alla risoluzione del problema. LUCIANO VENTRONE Pittore iperrealista, definito da Federico Zeri “il Caravaggio del ventesimo secolo” PAUL KLEE Scrittore, musicista e pittore. Tra i massimi esponenti dell’astrattismo, è sua la celebre frase “L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile”. RENZO VESPIGNANI Pittore, incisore, illustratore dal taglio documentario e poetico accostabile al cinema di Rossellini e Pasolini. Nel 1956 fonda, con altri intellettuali, la rivista "Città Aperta", incentrata sui problemi

della cultura urbana. ROLAND BARTHES Semiologo, saggista e critico, fra i maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista. MARCELLO MARIANI Pittore di arte informale ed espressionismo astratto che lavora e vive al'Aquila. JACKSON POLLOCK Pittore americano, fra i maggiori esponenti dell'espressionismo astratto, famoso per i suoi “Drip paintings” (quadri sgocciolanti). NUNZIO (Nunzio Di Stefano) Scultore abruzzese, esponente della nuova generazione della scultura italiana. ENRICO BAJ Uno dei più importanti artisti italiani contemporanei, protagonista delle avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta, anarchico convinto e antimilitarista. GIORGIO MORANDI Uno dei protagonisti della pittura italiana del Novecento, considerato tra i maggiori incisori italiani del secolo; la sua fama è legata alle nature morte e in particolare alle "bottiglie". MARIO SIRONI Pittore milanese; inizialmente vicino al futurismo, abbracciò poi temi pre-metafisici. Fu uno dei massimi artisti del Ventennio. MARCEL PROUST Scrittore, saggista e intellettuale francese, conosciuto per essere l'autore di Alla ricerca del tempo perduto.


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mancano. «Il progetto più immediato su cui sto lavorando è una grande mostra su Renzo Vespignani, che poi è quella cui tiene più Del Turco, una mostra che vorrei fare al Castello dell’Aquila». Poi c’è il Colonna, il museo di Pescara al quale la Pegoraro tiene molto e dove ha già organizzato importanti esposizioni, ultima delle quali la mostra aperta il 19 luglio scorso su Andy Warhol, il profeta della Pop Art. «Il museo Colonna è un po’ il mio pallino, lì organizzo mostre, ma anche conferenze, incontri e sono molto orgogliosa inoltre di aver potuto recuperare la collaborazione di Augusto Di Luzio, capogruppo di Alleanza Nazionale al Comune di Pescara, quindi uno dell’opposizione. Quel Museo lo aveva voluto lui, ed era giusto non escluderlo dalle nuove iniziative artistiche». Quindi, anche un ruolo politico per Silvia Pegoraro… «Credo che sia giusto stabilire un dialogo collaborativo tra maggioranza e opposizione, di solito si tende a cancellare quello che si è fatto prima, le realizzazioni delle precedenti amministrazioni. Qualche diffidenza –continua– l’ho trovata in questa mia

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opera di pacificazione, ma alla fine tutti hanno capito che l’importante è unire le forze per realizzare qualcosa che abbia un valore anche al di là delle divisioni, delle conventicole…». Che il “ciclone Silvia” rischi di abbattersi anche sulla politica regionale, sull’Abruzzo, su Pescara? Insomma che fa, dottoressa Pegoraro, si allarga? «Macchè, non ci penso proprio, mi basta il mio lavoro». E se il Presidente della Regione ha scelto la Pegoraro per rilanciare l’immagine culturale dell’Abruzzo, anche il sindaco di Pescara D’Alfonso sembra apprezzare il lavoro del giovane critico d’arte romagnolo. Ultimo atto in ordine di tempo, la nomina a direttrice artistica per il rinato Aurum, sarà lei cioè a decidere cosa fare, in questo primo anno di attività, del recuperato e prestigioso spazio culturale pescarese. «Per me l’Aurum dovrebbe diventare una grande struttura museale, come i grandi musei americani, con una parte gestita dai privati, sul piano commerciale. Quello è un posto straordinario, quasi un miraggio» dice ancora Silvia Pegoraro. Ci spieghi, che vuol dire “quasi un miraggio”? «Beh –risponde– quell’originale fabbricato di archeologia industriale rappresenta un po’ Pescara. Una città-miraggio, sospesa tra la terra e il mare, con una stazione surreale che sembra un mega-aeroporto, con un parcheggio che sembra più grande dello spazio urbano. E poi in fondo c’è questo punto di fuga che porta verso il mare, verso l’orizzonte. Una città affascinante, talmente affascinante che quasi non esiste, un non-luogo, come diceva in un suo aforisma lo scrittore tedesco Wols, “un non-luogo di purezza inattaccabile”, perché il fatto di non esistere ti rende inattaccabile dal tempo».Tutto qui? Neppure per sogno. «Di affascinante –spiega ancora Silvia– Pescara ha anche questa assoluta mancanza di storia, come scrive Giorgio Manganelli nel suo La favola pitagorica, quando,con un’immagine bellissima, conferma che “Pescara non ha rughe”, non invecchia mai». Già, può invecchiare un miraggio? E se l’irruzione del “ciclone Silvia” in Abruzzo creasse malcontento tra i

galleristi locali, tra quanti temono di essere esclusi dalla “torta” dei finanziamenti pubblici nel settore? «No, questo rischio non esiste –dice Silvia– io con i galleristi ho un buon rapporto, apprezzo molto il lavoro che fanno; con Cesare Manzo, ad esempio, che fu il primo ad intuire le grandi potenzialità dell’Aurum e che ha inventato Fuori Uso, una manifestazione notissima a livello internazionale. L’unico appunto che posso fare è che spesso si creano rassegne dedicate ad artisti così così, purchè siano abruzzesi. Penso invece che i pittori locali di valore vadano promossi non in quanto abruzzesi ma in quanto grandi artisti». Poi c’è la polemica sulle mostredoppioni, sulle rassegne che proprio nel periodo estivo, a Castelbasso, all’Aquila o a Francavilla sembrano riguardare pittori dello stesso periodo storico, della stessa corrente artistica… «Macchè doppioni –risponde Silvia– la verità è che oggi nessuna regione può vantare tante mostre importanti, come l’Abruzzo… Le esposizioni di questi giorni a Pescara, l’Aquila, Chieti, Castelbasso sono una ricchezza», risponde. E replica piccata anche a chi l’accusa di non curare abbastanza i giovani talenti. «A Castelbasso –precisa– c’è ogni anno una rassegna di giovani artisti. E giovani sono anche molti dei pittori che espongono in questi giorni all’Aquila. Ci sono poi dei ragazzi di sicuro avvenire che sto seguendo con particolare attenzione: Mauro Di Giovanni, ad esempio, o Umberto Crisciotti, classe 1980». E comunque si dice contraria a fare rassegne solo giovanili, «è come una ghettizzazione». Insomma, tutto questo per farvi capire perchè, quest’estate, Silvia Pegoraro la troverete un po’ dappertutto, al mare o in montagna non riuscirete ad evitarla. Così torno a raccomandarvi di non dimenticare, quando la incontrerete, di portarvi dietro quella massiccia enciclopedia di storia dell’arte…


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Paride Albanese

Timoniere dello stile Storia, successi e segreti di un imprenditore che da 35 anni in Abruzzo è sinonimo di grande moda. E non ha mai smesso di navigare alla ricerca di uno stile unico

di Claudio Carella

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n marchio di qualità e di eleganza. Un punto di riferimento della città anche dal punto di vista architettonico. Un personaggio conosciuto ed apprezzato a Pescara, in Italia, in Lettonia e da qualche tempo anche nella lontanissima Cina. È tutto racchiuso in un nome e un cognome: Paride Albanese. Un imprenditore che ha confezionato la sua professionalità e il suo successo in 35 anni di lavoro nel campo della moda. Cinquantasette anni, fisico asciutto come una sardina, vitalità tipica dell’uomo di mare, pignoleria maniacale nella ricerca del dettaglio giusto, creatività nelle scelte imprenditoriali tipiche di chi può dire di conoscere il mondo. Paride fin da giovane ha conosciuto tutti i porti del globo e non certo per vacanze esotiche a spese di papà, perché i soldi era lui a mandarli alla famiglia. Dice: «Mi sono diplomato alla scuola nautica di Ortona, la mia città, e mi

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sono subito imbarcato come allievo ufficiale addetto alle macchine. Per due anni ho viaggiato lungo il golfo Persico, passando per l’Africa e toccando i porti più importanti del Nord e del Sud America, d’Europa. Ho navigato su mercantili e petroliere, niente lustrini e tanto lavoro, ma anche tantissima esperienza. Perché girare il mondo ti forma come uomo. Poi sono sbarcato a Napoli, era il 25 dicembre del 1972, e sono tornato ad Ortona: sentivo di voler fare altro». L’altro si materializza a Pescara dove arriva quasi per sbaglio: «Stavo aprendo un negozio di abbigliamento ad Ortona, incontrai Ettore Massari per chiedergli di produrre nella sua camiceria una linea personalizzata. Mi rispose con un’offerta, acquisire un negozio che voleva vendere: Manuel Ritz Pipò a Pescara, in via Sulmona, nel cuore della città». La strada dell’esordio è lastricata di buone intenzioni. E di


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debiti. Perché all’epoca soldi non se ne vedevano granchè: «Però per mia fortuna avevo fiutato il cambiamento in corso. Non esisteva ancora un “Italian Style”, così come lo intendiamo ora: c’erano solo marchi come la Rinascente, la Standa, l’Upim, a Pescara River. Lo stesso Benetton si è affacciato nel mondo della moda nel ’73, e Gianni Santomo e Gino Pilota, pietre miliari per il commercio di quel marchio, sono tutti usciti dalla scuola del patròn Monti». L’atelier di via Sulmona diventa così in breve tempo un punto di riferimento: «Proponevo abbigliamento giovanile, quasi un prolungamento delle fortune delle band musicali. Fu un cambiamento epocale: i negozi classici (Sideri, in corso Umberto, il più noto) erano l’uno la copia dell’altro. La Manuel Ritz Pipò era leader indiscusso come proposta moda per le nuove generazioni, come contenuto e come rapporto qualità-prezzo. Con quel marchio dopo due anni aprii un altro negozio a Chieti, un altro ancora a Foggia: tre punti vendita per una moda uomo giovane, ispirata dalla figura del Marlon Brando di “Ultimo tango a Parigi”». In quegli anni, i suoi negozi da cinquanta metri quadrati appena cominciano a conquistare prestigio anche per la particolarissima cifra stilistica che li distingue. La stessa che nel tempo ha reso celebri quelli dieci volte più grandi: «È la mia schiavitù, la mia maniacale esigenza di dare un’immagine del prodotto sempre molto ricercata e sofisticata: le vetrine, ma non solo, il negozio, il rapporto con la clientela, la ricerca continua del prodotto sempre più innovativo, cercando di anticipare le mode e di cogliere le novità». Alla fine degli anni Settanta la svolta imprenditoriale: prima cucita attorno alle fortune della prima promozione in “A” della squadra di calcio («Feci fare un cappellino con i colori bianco-azzurri utilizzando solo i ritagli dei tessuti dell’azienda madre, e fu un business incredibile con 300mila pezzi venduti nel giro di un anno in tutta Italia»), poi nel ’79 con l’approdo nel salotto buono del commercio pescarese, nel centralissimo Corso Umberto I: «Il mio amico Giulio Del Federico mi informò che la Richard Ginori avrebbe dimezzato il suo locale, e anche se indebitato fino al collo riuscii a strappare il contratto. L’affermazione del negozio fu immediata, grazie alla intuizione del cambiamento della società e del costume: Armani, Versace, Coveri, Ferrè, Venturi, e altri stilisti rivoluzionarono la moda. Ma l’altro elemento determinante fu lo stile del locale dove gli abiti venivano presentati e valorizzati come in una galleria d’arte. Il successo di Paride è il successo della sua equipe, meglio: di

un sodalizio, di una famiglia. Condiviso soprattutto con la moglie Clementina Rocco, Clea per gli amici. Architetto e designer, traduce in progetti fattibili le intuizioni del vulcanico consorte. Uno dopo l’altro sorgono così i prodotti più maturi: Fez, moda femminile e Fez Basic per le giovanissime, Reporter moda maschile, Emporio Armani, Manuel Ritz Pipò, tutti nello stesso anno, il 1986. L’approdo nei nuovi attracchi della moda non ferma tuttavia l’ansia dell’ex navigatore, che torna in mare aperto per cimentarsi come imprenditore: «Avviai la consulenza per alcune aziende, come la cagliaritana Grim Srl che produceva abiti di sartoria. Le vendite furono tali e tante che presto si espanse a livello nazionale con il marchio Corsochiaro. I risultati ottenuti furono notati anche a livello nazionale, tanto che cominciarono a piovere offerte. Diventai consulente di diverse grandi aziende, accumulando esperienze nelle materie prime, nella scelta dei colori e nelle tecniche dei vari capi d’abbigliamento, mettendo a frutto quello che avevo imparato dal mio bisnonno: il sarto Peppino Primavera, alla cui bottega si sono formati i famosi Caraceni. Il ’91 è l’anno dell’ennesima svolta: «Mi si offrì l’occasione di rilevare la parte dei negozi della Richard Ginori, un altro grosso investimento contemporaneo all’espansione dell’Emporio Armani. In quel periodo il mercato stava cambiando e la crisi che nel ’92 investì tutta Italia creò non pochi problemi ai programmi che avevo avviato. Mi venne un’altra fortunata intuizione: esportare nei Paesi emergenti (Giappone, Corea) i prodotti e l’immagine italiani; io acquistavo in grosse quantità dalle griffe e le rivendevo in tutti quei posti dove non erano presenti ufficialmente. Nel 1995 aprii a Catignano, uno dei primi outlet in Italia con merce griffata rivolta esclusivamente ai Paesi dell’est». Un’anticipazione dello sbarco in grande stile sulle piazze estere: «Un amico, presidente degli industriali modenesi, mi invitò a seguirlo a Riga, in Lettonia, infilato in una cordata di imprenditori emiliani dove io ero un semplice accompagnatore. Avrebbero dovuto rilevare una grossa area per convertirla in fiera per i prodotti del Modenese, dai tortellini al parmigiano, dall’abbigliamento alle macchine utensili. Avvenne però un fatto imprevisto: il governo cadde lo stesso giorno in cui arrivammo, e così mancando l’interlocutore, gli emiliani decisero di comprare un palazzo, e fui quasi “costretto” a far parte della comitiva, io unico commerciante in mezzo agli industriali della Bassa. Nacque così “Palazzo Italia”, inaugurato in pompa magna alla presenza dei maggiori rappresentanti

• Nelle immagini, Paride Albanese nel suo spazio di Via Nicola Fabrizi

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del governo lettone e di Piero Fassino, all’epoca ministro del Commercio estero. Rimasi l’unico proprietario di questa struttura, che è il fiore all’occhiello delle capitali baltiche». L’idea del palazzo, dalle fredde terre lettoni, torna in riva all’Adriatico: «Avviai così la realizzazione del palazzetto di via Nicola Fabrizi, sempre con l’inconfondibile tocco architettonico di Clea e l’idea di concentrare in un unico spazio tutti gli elementi dello stile di vita italiano. Quindi accanto ai capi di abbigliamento, ai gioielli, agli accessori, ecco spuntare anche fiori, ristorazione, bar, intrattenimento». Nel 2004 l’esperienza commerciale di Paride si unisce a quella produttiva dell’industriale Tonino Perna (“Ittierre” produttrice per prestigiose griffe) per la realizzazione di un grande outlet a Venafro. «City Fashion sorge su un’area di 9mila metri quadrati offrendo a costi contenuti capi esclusivi e di grande qualità, mantenendo per intero il fascino nel negozio esclusivo. L’idea s’è rivelata vincente: una struttura gemella è stata inaugurata a marzo 2007 a Civitanova Marche». Per uno cresciuto sui bastimenti, il richiamo delle sfide in mare aperto esercita però un fascino irresistibile: «Nel 2006 un mio vecchio compagno di scuola, Carmine, titolare della Ferrante, azienda leader nel settore della maglieria mi chiama

per un nuovo progetto: vuole aprire dei negozi in Cina e vuole caratterizzarli con lo “stile Paride”. In Oriente abbiamo incontrato diversi partner, anche molto forti, per creare una joint venture: circa duecento negozi con marchio Ferrante, campionario realizzato in Italia con la mia direzione, produzione e negozi realizzati da soci cinesi, design di Clea». Gli affari che verranno nelle terre del Celeste Impero, oggi trasformate in un nuovo Eldorado per gli imprenditori di tutto il mondo, non fermano i disegni di Paride nella vecchia Europa: «A Riga ho creato da poco una società con un magnate russo che ha molto apprezzato il lavoro svolto. Presto verranno realizzati, proprio in Russia, altri quindici palazzi sullo stesso modello, in cui avrò un ruolo centrale di consulenza. Per molti tutto ciò basterebbe a far tirare i remi in barca, a godersi la vita. Io no, io cerco di sfidare continuamente me stesso. Ho sempre avuto voglia di emergere, ma non per fare soldi: piuttosto, per creare qualcosa che rimanesse, una scuola, un modo di fare, uno stile». A giudicare dai risultati, difficile davvero dire che tanto navigare in mare aperto non abbia portato ad un attracco sicuro: a quel “Paride style” che ne fa un abruzzese davvero speciale.

• Nelle foto, da sinistra: Paride con i figli Pietro e Luca e con il padre Saverio. L’architetto Clea Rocco, compagna professionale e di vita.

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Marco Onofrj

La ricerca

di Fabrizio Gentile foto Silvia Jammarrone arco Onofrj, medico abruzzese e cittadino della comunità scientifica mondiale, tra i più noti nella ricerca e nelle terapie di malattie devastanti come il morbo di Parkinson, vorrebbe che un giorno i suoi allievi finissero per metterlo da parte: «Spero che qualcuno dei miei ricercatori, prima o poi, divenga più bravo di me. In fondo, la missione della ricerca, di un organismo deputato a trasmettere la conoscenza, è costruire intellettuali, creare una scuola. Il resto non interessa, è logica di potere, e a me piace di più il rapporto padre-figlio». Che tra ricerca e potere lo iato esista, il professore non solo lo sa, ma lo vive ogni giorno sulla

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sua pelle. E lo denuncia. Forse perchè, prima del ritorno in Abruzzo da un lungo apprendistato americano, il lavoro equamente diviso tra Chieti e Pescara, dove sorgono le strutture di ricerca che attorno a lui si sono delineate, le sue esperienze formative hanno mosso i primi passi in paesi come gli Stati Uniti, dove il merito è moneta corrente. Paesi –dice– dove la «politica non è una fissazione, come da noi», e le strutture del sapere si modellano con meno ipoteche, maggiore libertà, meno condizionamenti: «Come è organizzata la nostra sanità? Troppo politicizzata», diagnostica Onofrj, che continua: «Risentiamo di scelte fatte tanto tempo

fa, quando si determinò una grande offerta di medici, sul modello della Cina di Mao o della Cuba di Fidel. In termini di sistema questo ha permesso di dare risposte semplici; ma quando si arriva agli aspetti più complessi, alla produzione di eccellenze che possono crescere solo con un importante retroterra, il discorso muta. Ci vogliono anni per creare un bacino d’utenza credibile. Si prenda l’epilessia: un po’ tutti gli ospedali hanno centri di riferimento, ma per alcune patologie si dovrebbe calcolarne uno ogni 5 milioni di abitanti, per la casistica. Crearne a macchia di leopardo è sbagliato».

Laureato in Italia, specializzato negli Usa, lavora tra Chieti e Pescara viaggiando da un capo all’altro del mondo per divulgare i risultati del suo impegno scientifico sul morbo di Parkinson e sulle malattie dell’invecchiamento.

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“La salvezza della ricerca dipende dalla capacità di affrancarsi dalla schiavitù del pubblico denaro” • Accanto, il professor Onofrj con il suo team di collaboratori e ricercatori

L’ipertrofia di un sistema sanitario malato finisce così inevitabilmente per produrre i suoi effetti più devastanti a valle, dove università e ricerca si muovono tra anoressia di mezzi e bulimia di personale: «Spesso ci vuole la morte di uno per fare spazio a un altro… In atenei prestigiosi certi colleghi dispongono di un soppalco, una stanzetta. A Messina l’intero centro per il Parkinson dispone dello spazio che io ho dato alle mie due ricercatrici a Chieti». A queste considerazioni sulla natura del sistema Onofrj può dedicarsi nei tanti raid aerei che lo portano in giro per il mondo a tenere lezioni e conferenze. Fino a stabilire qualche piccolo record, come quello che lo ha portato tempo fa a Tokyo per un soggiorno di poche ore pur di tenere una lectio magistralis dopo un volo durato più della permanenza. O nelle vesti di componente di “Scientific Advisory Boards” di colossi farmaceutici mondiali. Onofrj è direttore della Neurofisiopatologia dell’Ospedale di Pescara, professore ordinario di Neurologia all’università “d’Annunzio”, coordinatore del Centro di ricerca clinica del CeSI, il Centro sulle scienze dell’invecchiamento creato dallo stesso ateneo, divenuto punto di riferimento per un bacino di utenti assai vasto ma soprattutto luogo privilegiato per sperimentare la sopravvivenza di una struttura di ricerca di altissimo profilo senza la rincorsa disperata a finanziamenti pubblici, negati con pari determinazione da governi di centrodestra e centrosinistra. A questi incarichi prestigiosi e ad altri ancora (strutture e organismi internazionali) è

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arrivato grazie ai suoi studi e alle sue ricerche cliniche su morbo di Parkinson e demenze. Studi che hanno fatto del 54enne professore pescarese uno dei prodotti di punta di un Abruzzo Valley in grado di esportare conoscenza e sapere senza timori reverenziali di fronte ai competitori: «Nell’animo –dice– sono rimasto uno che si pone delle domande, un ricercatore di base. E forse proprio per questo molto richiesto per condurre sperimentazioni». All’attività di ricerca sul Parkinson si dedicano in Italia una quindicina di centri, dotati degli stessi crediti scientifici a livello internazionale. Negli anni, il lavoro paziente dell’equipe che attorno a lui si raccoglie («Tre ospedalieri, due ricercatori, psicologi, specializzandi, dottorandi e tecnici specializzati anche nella donazione degli organi») ha permesso di identificare alcuni dei meccanismi più importanti alla base della malattia, come le allucinazioni, la fluttuazione dello stato cognitivo, particolari tremori. Ma ha pure aiutato a riconoscere gli effetti collaterali e indesiderati che provocano terapie consolidate nel trattamento della malattia, come l’uso di micro elettrodi per correggere disordini motori. E lo stesso è accaduto per una patologia affine, il morbo di Alzheimer, con la sperimentazione di farmaci che agiscono sul metabolismo degli zuccheri nei pazienti affetti da questa malattia, di cui «non ci si preoccupa all’esordio, ma solo quando iniziano deliri e allucinazioni». Con questo bagaglio alle spalle, che ci farà mai uno così tra Chieti e Pescara e non nei templi della ricerca? «Ho studiato

alla Cattolica, ma ho fatto l’esame di Stato in America. Mi sono laureato nel ‘77, quando si faceva tutto fuorchè studiare. Andai negli Stati Uniti: potevo scegliere tra Houston, Chicago e New York, dove alla fine mi sono sistemato. Nel frattempo, a Chieti sbarcò l’aiuto che mi aveva seguito alla Cattolica. Mi propose di seguirlo. Rientrai, ma fino al 1990 ho continuato ad avere contratti di lavoro negli Usa: ci andavo nei periodi di vacanza, a trent’anni… Questo mi ha dato opportunità economiche per me e la mia famiglia, e pure al Fisco (ride, ndr) cui pago un sacco di soldi». Un ritorno senza rimpianti, ma con una precisa gerarchia: «Del successo internazionale sono contento, meno della dimensione sanitaria locale. Il rapporto con l’università va meglio: con una discreta autonomia si può lavorare bene. E poi vanno considerati anche i vantaggi personali, il non vivere in posti caotici o ipercostosi: fossi rimasto in America, far studiare le mie due figlie sarebbe stato più difficile». Nella sua visione del mondo, Onofrj pensa che la salvezza della ricerca in un Paese come l’Italia dipenda dalla capacità di affrancarsi dalla schiavitù e dal condizionamento del pubblico denaro: oltre metà dei finanziamenti utilizzati dal CeSI sono di natura privata e frutto dei progetti da lui sviluppati, diventati preziosa risorsa economica. Lasciati gli Stati Uniti e rientrando in Abruzzo, sull’asse Chieti-Pescara Onofrj ha importato un modello di quella nuova frontiera della cultura scientifica che da noi resta, troppo spesso, figlia di un dio minore.


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Banca Tercas

Le quotazioni di un territorio di Sergio D’Agostino Immaginate un territorio che da sempre si identifica con la piccola impresa, dove il rapporto tra famiglie e aziende attive farebbe impallidire il mitico nord-est. Pensate ai grandi gruppi bancari, che da postazioni lontane, dai centri del potere economico finanziario nazionale, puntano il cannocchiale su questo territorio, con l’obiettivo di raccogliere, ridando solo in minima parte. Immaginate infine una banca che su quel territorio è piazzata quasi da ottant’anni, difende con ostinazione la propria autonomia, rivendica la sua indipendenza, cresce insieme alla realtà locale, si permette di fare orecchie da mercante al canto delle sirene delle grandi concentrazioni che altrove hanno colonizzato, si concede il lusso di mettere il lucchetto alla porta di casa. Sarà anche di moda parlare di banche del territorio. Ma se davvero in una regione come l’Abruzzo a un modello del genere si potesse pensare, bene, la Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo, la Tercas, ne rappresenta l’incarnazione perfetta. Perchè in giro è raro trovare un cocktail così ben assortito di banca dalle basi solide e antiche e un territorio

che con quella banca si identifica, con quella banca intreccia i suoi destini. A far risuonare così il suo tintinnio è una medaglia a due facce: su una l’autonomia, sull’altra la crescita. A metterla in circolazione, con un consiglio di amministrazione che ruota attorno al presidente Lino Nisii, è soprattutto un team di giovani manager. Quarantenni riuniti attorno al direttore generale Antonio Di Matteo, che sembrano aver mandato a memoria la canzone che fu un po’ il simbolo del “boss”, Bruce Springsteen. Quella “Born to run” , che divenne inno di una generazione nata per correre: «Eh si, per noi fermarsi vorrebbe dire cadere. Semplicemente non ce lo possiamo permettere, soprattutto se teniamo a questo bene prezioso che è la nostra autonomia. Ma per mantenerla, la nostra autonomia, siamo condannati a crescere, e per crescere dobbiamo correre» conferma lo stesso Di Matteo. L’autonomia, in casa Tercas, è un po’ come il blasone del casato in una famiglia nobile: è tutto. Ma si sbaglierebbe a bollarla come alterigia o spocchiosa rivendicazione di isolamento. La verità, in questo caso, sta nella bontà dei


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Il miracolo della Tercas: grandi numeri per un istituto che è riuscito a difendere la propria autonomia dall’assalto delle corazzate nazionali del credito • Sopra, un gruppo di dirigenti Tercas davanti al Duomo: da sinistra, Maurizio Lanciotti, Lino Pompei, Valerio Iustini, Roberto Pietropaoli, Mauro Piattelli, Francesco Corneli (Vicedirettore generale), Alessio Trivelli, Lucio Pensilli, Nico Lucidi e Luca Malavolta; a destra il Direttore Antonio Di Matteo e il Presidente Lino Nisii


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Esiste un rapporto diretto tra qualità della banca e stato di salute del territorio. • Antonio Di Matteo. risultati di una gestione sana: «Questo è un territorio dove impresa e famiglia spesso si identificano. Dove esiste un sistema produttivo particolare, fatto di piccoli e piccolissimi. In un contesto difficile, noi siamo riusciti a raggiungere quote di mercato importantissime: ciò, nonostante la crescita degli sportelli bancari dei tanti gruppi che sono venuti qui per raccogliere, ma si sono ben guardati dall’appoggiare l’imprenditoria locale: gli investimenti si facevano altrove. Le banche che l’hanno perduta, l’autonomia, si sono ritrovate di fronte a problemi sociali, di occupazione, di rapporto con l’imprenditoria: un conto è deliberare a Teramo, a Chieti o a Pescara, altra cosa lontano. E poi qui, probabilmente, giocava un’efficienza della banca, una qualità, forse maggiore che altrove: operiamo in un’area molto ricca, abbiamo sovrabbondanza di patrimonio. Questo ha fatto sì che non sia mai emersa la necessità, come per altri, di avere un socio forte che apportasse patrimonio, ma che così finisce inevitabilmente anche per condizionare tutte le decisioni...». Insomma, il messaggio è chiaro: nonostante la regione sia piccola, nonostante l’assalto all’arma bianca di corazzate bancarie capaci di migliaia e migliaia di sportelli sul territorio nazionale sia tutt’ora in corso, nonostante la concorrenza sia spietata, per le banche locali esiste uno spazio, e pure importante: «La nuova regolamentazione che porta il nome di “Basilea 2” è tagliata soprattutto per le esigenze di territori più evoluti dei nostri, più forti sul piano industriale. Da noi

prevale la frammentazione, con famiglie artigiane e commercianti, mentre i sistemi di rating sono fatti per apprezzare aziende dai bilanci ben più strutturati. Lo spazio che dal 2008 si determinerà con “Basilea 2 “è soprattutto quello delle piccole e piccolissime imprese. La verità è che grandi aggregazioni bancarie lasciano spazi vitali per la crescita dell’economia di un territorio, perchè c’è una correlazione stretta tra banche e territorio. È uno spazio vitale per le banche come le Casse, ma anche per quelle di credito cooperativo, che assolveranno una funzione importantissima: credito alla micro impresa e alla famiglia». Questo legame quasi biologico tra banca e territorio, in casa Tercas è considerato davvero il valore aggiunto: «Esiste un rapporto diretto tra qualità della banca e stato di salute del territorio. In Abruzzo c’è stata una crescita imprenditoriale straordinaria, e questo ha permesso anche a noi di raggiungere risultati importanti, superando momenti di crisi. Come nel caso della Val Vibrata: dieci anni fa qualcuno parlava di crisi irreversibile, ora c’è una ripresa significativa. Le attività sono state diversificate, molti hanno decentrato anche all’estero ma mantenendo il cervello nel nostro territorio». A questa filosofia di vita, Tercas ispirerà anche le proprie mosse future, tracciate nel piano triennale 2008-2010, dove la novità più ghiotta che si annuncia è la possibile struturazione di un plafond di finanziamenti, in collaborazione con i Confidi locali, dedicati a soddisfare le esigenze delle microimprese locali: «Con l’emissione di bond di distretto, puntiamo a convogliare investimenti e risparmio verso le attività produttive. Se uno va a guardare i dati sui grandi fondi investiti in Abruzzo nel capitale di rischio delle aziende, si vedono davvero pochi spiccioli. Protagonisti saranno con noi un grande gruppo internazionale e quegli imprenditori locali che hanno voglia di investire». Autonomia, dunque, anche come capacità di rischiare assieme ai protagonisti dell’economia locale. Ma autonomia anche come diversità. «A rendere possibile questo percorso –spiega sempre Di Matteo– è il controllo che la proprietà, (segue a pag. 56)

Le quote di mercato La rete degli sportelli nel 2006

dal dicembre 2004 al dicembre 2006

(confronto con il 2004)

La raccolta In provincia di Teramo:

L’espansione della rete

Abruzzo 76 (70)

55,73% (2004); 56,86% (2006)

dal 2004 al 2006

Marche 16 (12)

In Abruzzo:

2004: 85

Molise 3 (3)

13,92% (2004); 14,65% (2006)

2005: 92

Emilia Romagna 2 (0)

I crediti in provincia di Teramo:

2006: 101

Lazio 4 (0)

31,76% (2004); 34,63% (2006) In Abruzzo: 8,73% (2004); 9,89% (2006)

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La Tercas in cifre


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Essere Tercas Lino Nisii, Presidente della Cassa di Risparmio di Teramo dal 1981 e Consigliere di amministrazione di Banca Interregionale spa Pistoia di cui la Banca teramana è partner. Avvocato Nisii, per gli abruzzesi il suo nome rappresenta la continuità della banca, la sua memoria storica: come è cambiata in questi anni la Tercas? «Ho l’onore di presiedere e guidare il maggiore ente creditizio della regione da tempo sufficiente per ripercorrere le tappe fondamentali del suo sviluppo con un certo grado di obiettività. Da piccola banca provinciale la Tercas, con più di cento sportelli in 5 regioni, è oggi diventata la realtà di maggior successo del centro Italia. Le fasi più significative di questa evoluzione, di cui l’aspetto dimensionale è solo il più evidente, hanno coinciso con un continuo adeguamento degli assetti organizzativi, commerciali e tecnologici senza tuttavia sacrificare la nostra capacità di essere “Tercas”». Di fronte all’invasione delle corazzate bancarie dalle migliaia di sportelli, come si fa a battere la concorrenza per una banca locale? «Essere banca locale, nostra vera vocazione, è tanto più vincente quanto più l’offerta bancaria si concentra. Rimanendo nella metafora

navale, le corazzate, virtualmente inaffondabili in mare aperto, si mostrano goffe e rischiano di incagliarsi quanto si avventurano in acque basse. Per questo ritengo inutile sfidare la concorrenza dei grandi gruppi emulando la loro strategia. Piuttosto continuiamo a fare leva su un modello basato sulla rapidità e flessibilità decisionale, sulla sperimentata capacità di consolidare rapporti con i clienti fondati sulla correttezza e il reciproco rispetto. Rimaniamo consapevoli dei rischi dell’attività bancaria che ci impongono quel giusto grado di prudenza irrinunciabile per chi sa di poter contare solo sulle proprie forze». Questo modello della Tercas può fare scuola nel resto d’Abruzzo? Esiste una ricetta esportabile? «Questa sintesi è il frutto di anni di esperienza, errori, ripensamenti e scelte non facili. Si basa su persone di prim’ordine che hanno partecipato alla costruzione dell’identità aziendale, hanno saputo interpretare i cambiamenti, riconoscere i propri errori, accettare il nuovo senza pregiudizi.Ogni azienda, ogni banca deve

avere ben chiara la strada da percorrere e rimanere fedele alla sua visione anche sulla base delle risorse scarse disponibili. Ad ogni banca, in Abruzzo come altrove, l’analisi, la scelta, la propria identità». Capitolo sviluppo: c’è un ritardo della politica? In qualche modo spetta alle banche svolgere una funzione di supplenza? A Teramo come sono i rapporti con le istituzioni locali? «Non spetta alle banche giudicare l’operato della politica cui partecipiamo in quanto cittadini e ci sottoponiamo in quanto azienda. Ritengo tuttavia che un sistema ormai maturo abbia il dovere di definire in maniera condivisa ma chiara i propri rapporti, a volte opachi, con l’economia. A livello locale continua una lunga tradizione amministrativa di probità, responsabilità ed in alcuni casi di concreta lungimiranza. Su queste basi, anche per l’apprezzatissima opera di sostegno dell’economia locale svolta dalla Fondazione Tercas, nostro socio di maggioranza, i rapporti non possono essere che ottimi».

Gli indicatori di produttività

La ripartizione degli utili

(variazione % tra 2005 e 2006)

Totale utile netto 26.310.418,16

Depositi/numero di dipendenti sportelli (4,76%)

Riserva legale (5% utile netto)1.315.520,91

Lo stato patrimoniale

Impieghi/numero di dipendenti sportelli (28,88%)

Riserva statutaria (20% utile netto) 5.262.083,63

dal dicembre 2005 al dicembre 2006

Depositi per dipendente (3,79%)

Riserva straordinaria 11.432.813,57

Totale dell’attivo 2005: 2.730.342.662

Impieghi per dipendente (27,69%)

Fondo erogazioni speciali 300.000,00

Totale dell’attivo 2006: 3.064.933.025

Margine di intermediazione per dipendente (23,01%)

Dividendo 8.000.000,05

Variazione 2006/2005: 334.590.363

Risultato di gestione per dipendente (47,40%)

(12,25%)

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Una città protagonista Arte

Mario Nuzzo, Presidente della Fondazione Tercas: «La nostra idea è credere nella banca e nella sua capacità di sostenere le imprese e il tessuto sociale»

Professor Nuzzo, la data di nascita della Fondazione Tercas è recente rispetto alla storia della banca: 1992 contro 1939. Ora è proprio nelle mani della giovane Fondazione preservarne la vita autonoma. « La ragione della scelta operata dalla fondazione di conservare il controllo della banca è nel convincimento condiviso che le banche locali, sono una ricchezza da non perdere. Questo convincimento è confermato dall’esperienza dei territori in cui esse sono invece scomparse, o ne è rimasto solo il nome coi centri decisionali trasferiti altrove. Ciò ha di fatto determinato un peggioramento dell’assistenza alle piccole e micro imprese e alle famiglie, anche a causa dell’introduzione di procedure estranee all’esperienza di queste e alla scarsa propensione ad accompagnare i processi di crescita.

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La condizione perché una banca locale possa svolgere la sua funzione è però il raggiungimento e mantenimento di un elevato livello di efficienza e di competitività. che è la garanzia vera della sua indipendenza, attuale e futura. Da ciò l’impegno della Fondazione ad assecondare i processi di evoluzione della Tercas, favorendo la ristrutturazione interna e ricercando sinergie con altre istituzioni finanziarie che, in posizione di parità, siano interessate a forme di collaborazione che consentono riduzioni di costi e miglioramenti di efficienza. In questa direzione opera anche la scelta di cedere il 15% del pacchetto Tercas all’azionariato diffuso per favorire un legame più intenso e “partecipato” tra il territorio e la sua banca, dando la possibilità di partecipare alla vita della banca non più solo da cliente ma da socio».

Ricerca scientifica Sanità

17,92

9,31 4,13

Assistenza e volontariato

17,92

1,4

Istruzione

• Nel grafico i finanziamenti erogati dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo dal 1992 al 2006 per un totale di 33.103.630 Euro

Quali le scelte più importanti a sostegno di cultura ed economia? «La Fondazione opera principalmente nei settori della cultura, della ricerca scientifica, dell’ assistenza alle categorie deboli, dello sviluppo del territorio In ciascuno di questi settori la Fondazione svolge un’intensa attività per individuare i bisogni, analizzare i mezzi più idonei alla loro realizzazione, scegliere i soggetti che possono concorrere al loro soddisfacimento. In questa prospettiva essa partecipa a Cassa Depositi e Prestiti e al Fondo per le infrastrutture “F2i”. Ha avviato con l’Università di Teramo due importanti progetti nel campo della ricerca scientifica rispettivamente riguardanti “Il Sistema endocannabinoide e la regolazione dell’invasività tumorale”, in collaborazione con il Consorzio Mario Negri Sud di Santa Maria Imbaro, e il progetto di sviluppo del settore agroalimentare “AgroScopeAmpelos “Colline Teramane”-ASA CT”. Nel


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settore dell’assistenza alle categorie deboli ha avviato la creazione di una “rete di accoglienza” a favore di soggetti svantaggiati, sia attraverso interventi sulle strutture fisiche destinate all’accoglienza, sia attraverso la formazione degli operatori destinati a lavorare in questi settori. Ha inoltre avviato con la ASL il progetto per la costituzione del “centro per la cura della macula”, per la diagnosi, prevenzione e terapia della patologia maculare, con particolare attenzione alla degenerazione maculare legata all’età, e il progetto “Hospice”, volto alla realizzazione di un centro residenziale di cure palliative per l’assistenza ai malati terminali. Nel settore della cultura, accanto ad interventi sui più importanti Monumenti della provincia, dal Duomo di Teramo a quello di Atri, va ricordato il sostegno all’Istituto Braga attraverso la realizzazione di un progetto di diffusione della cultura

musicale che si realizza da più di dieci anni mediante attività didattiche e lezioni concerto presso le scuole di ogni ordine e grado della Provincia di Teramo; Il sostegno alla società dei Concerti Riccitelli di recente esteso all’attività teatrale da questa coordinata e l’ attività di produzione nel settore della lirica. Quest’ultima, tradizionalmente realizzata con il concorso della Provincia e dei Comuni di Teramo e di Atri. Si è progressivamente estesa ad un territorio più ampio con il progetto “Fondazioni all’Opera” che già lo scorso anno ha visto la collaborazione delle Fondazioni di Pescara e Fermo e quest’anno si è già esteso alla fondazione di Chieti con la costituzione di un circuito che comprende i Teatri di Teramo, Atri, Fermo, Pescara ed Ortona e, in prospettiva potrà estendersi anche ad Ascoli

Di chi è oggi la proprietà? «La scelta del legislatore è garantire l’indipendenza delle fondazioni e il loro rilievo di “organizzazioni delle libertà civili”, escludendo che abbiano un proprietario, come avviene per le fondazioni disciplinate dal codice civile che si caratterizzano perchè sono patrimoni destinati ad uno scopo ma privi di un proprietario. Il modello è stato usato anche per le fondazioni costituite dalla legge Amato. Questa stabilisce però ch’egli organi delle Fondazione bancarie debbano essere costituiti per la metà da persone scelte in modo da garantire un’ adeguata e qualificata rappresentanza del territorio e per l’altra metà da personalità che per professionalità, competenza ed esperienza possano efficacemente contribuire alla realizzazione dei fini istituzionali. In questo senso si può dunque dire che le Fondazioni appartengono al loro territorio e operano in funzione dello sviluppo di questo».

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ovvero la Fondazione, esercita sulla banca con il 75% del capitale sociale. Insomma c’è spazio solo per partecipazioni marginali, di minoranza. Per il futuro c’è da augurarsi che le poche banche rimaste autonome possano restare tali, anche se si pone un problema di crescita delle loro dimensioni, perchè il nanismo è un problema. E poi occorre saper creare valore, con risposte valide alla piccola e media impresa. Quindi rapidità del servizio, qualità del prodotto. Facciamo due conti: se oggi l’azienda fosse quotata in borsa, capitalizzerebbe a dir poco 750 milioni di euro. Credo che altre banche siano state cedute per pochissimo... In realtà questo sono soldi del territorio, della collettività. Nel 2007 produrremo circa 38 milioni di utile netto, con una ricaduta di circa 18-19 milioni di dividendi. Per una banca di queste dimensioni vuol dire produrre un utile netto per abitante di circa 60 euro: sono cifre importanti». Vista da Teramo, con il senno di poi, la mancata fusione tra le quattro Casse di Risparmio che una decina d’anni fa sembrò cosa fatta, per poi svanire nel nulla tra veti e complicazioni varie, appare davvero come un’occasione perduta: «Probabilmente sarebbe stato meglio dare vita a un soggetto unico. Se ci si fosse riusciti, oggi esisterebbe un’azienda di credito con 5-700 sportelli, una dimensione in grado di competere su un territorio molto più ampio, essendo oltretutto le quattro Casse titolari di un’ampia base patrimoniale. Insieme la potenza di fuoco sarebbe stata grande, ma ognuno ha preferito seguire le proprie politiche». Insomma, seguendo la propria strada, salvaguardando la propria autonomia, la Tercas è riuscita a raggiungere traguardi che in altri contesti sarebbero parsi inimmaginabili. Coltivando con pazienza il culto dell’efficienza, «perchè l’azienda va sempre migliorata, e non per il gusto banale di fare utili, ma perchè è un indicatore dell’efficacia dei processi che si mettono in campo». Riuscendo soprattutto, come si dice con brutta parola, a “fidelizzare” la propria clientela: «E poi - dice ancora Di Matteo nell’unico passaggio che può suonare di garbata critica verso gran parte della concorrenza

- questa banca non ha mai fatto operazioni spericolate, qui non sono mai circolati determinati prodotti. Questa faccia pulita ha attratto clientela». Se infine tre parole dovessero servire, ulteriormente a far capire perchè nell’era delle banche Frankenstein, dove ci fonde e si incorpora a più non posso, una piccola realtà locale sopravviva, il direttore generale della Tercas ne declina senza esitazione tre: rapidità, convenienza, comprensione. La rapidità, per prima. «Nel giro di pochi giorni si decide, non si può lasciare per mesi in attesa un imprenditore che ha chiesto un finanziamento». La convenzienza: «Non siamo nelle mani di un gruppo imprenditoriale che incalza sulla ricerca a tutti costi degli utili. La Fondazione, semmai, ci incalza sul sociale:“State attenti alle famiglie, date un’occhiata alle imprese”». La comprensione: «Mettiamo grande attenzione alla condizione del cliente, stargli vicino non vale solo nello splendore, vale anche nei momenti difficili.Tentiamo l’approccio soft, cercando di capire perchè un’azienda o una famiglia siano in difficoltà. Non stiamo a fare gli immobiliaristi, non vogliamo mettere le mani su capannoni, ma fare credito a imprenditori che devono darci la ragionevole certezza della bontà dell’investimento. La garanzia ipotecaria è un accessorio, conta l’idea. In questo incide poi la conoscenza diretta e capillare che abbiamo del territorio e delle persone». A una banca così cosa si può chiedere di più? La risposta a Standard & Poor, una delle più grandi agenzie mondiali di rating, che ha prescritto come cura alla banca teramana, se si può passare l’espressione, di allargare i propri confini: «Da Londra, dove non si ha neanche l’idea di cosa sia l’Abruzzo, la concentrazione diventa un limite. Per questo tra i nostri prossimi obiettivi figura la necessità di ampliare il nostro raggio d’azione». Prima terra di conquista per questa nuova tappa del Risiko bancario, la vicina e ricca Pescara: «Strategica, soprattutto per l’impulso che può fornire la presenza di un aeroporto ai più moderni processi dell’economia».


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UNIVERSIVARIO CHIETI/PESCARA

Giganti

Dal 24 settembre al 7 ottobre prossimo Chieti diverrà capitale continentale della pallacanestro femminile: un traguardo prestigioso, raggiunto grazie alla capacità di “fare squadra” di ateneo, istituzioni locali e sportive

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in campus

S

e “We are basketball”è lo slogan della Fiba Europe (l’organo che controlla la Pallacanestro in Europa), “We are also basketball”, cioè “noi siamo anche pallacanestro” potrebbe essere lo slogan della “d’Annunzio”, che aggiunge un altro importante riconoscimento al suo già ricco medagliere. L’anno che verrà, sportivamente parlando, sarà infattil’anno dell’Europeo di basket femminile, che si svolgerà tra Chieti, Lanciano, Vasto e Ortona, dal 24 settembre al 7 ottobre 2007, organizzato e coordinato dall’ateneo di Chieti-Pescara. È la prima volta che un’università organizza un evento di questa portata, e la Fiba Europe, che ha ratificato l’accordo con l’Ud’A a novembre del 2005 nell’incontro di Tallin, in Estonia,

deve aver fatto affidamento sulle indubbie capacità dell’affiatatissima squadra messa in campo dal mister Cuccurullo, che può ritenersi giustamente orgoglioso della vittoria contro la candidatura di Mosca, antagonista dell’ateneo abruzzese: «La fase finale di un Campionato Europeo –afferma il Magnifico Rettore della “d’Annunzio”– è una manifestazione unica per qualsiasi territorio. Lo sport è un formidabile mezzo di crescita per l’individuo, e la trasmissione della cultura, che è la mission dell’istituzione universitaria e quindi anche della “d’Annunzio”, passa senz’altro anche per eventi come questi, capaci di allargare gli orizzonti di tutti, sportivi e non, in un evento di respiro europeo». Aver ottenuto dalla Fiba Europe l’assegnazione di

• Nelle foto: in alto, la Nazionale di Basket femminile, Federica Ciampoli, ancora la Nazionale, la squadra del Cus Chieti; in basso, il Palacus, il Campus di Chieti Scalo, il manifesto degli Europei, il Rettore Franco Cuccurullo, il Vicepresidente della Provincia di Chieti Umberto Aimola, il Presidente del Cus Mario Di Marco.

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questi campionati è il segno di un crescente prestigio internazionale della “d’Annunzio” e del valore di chi ha contribuito alla messa in moto della macchina organizzativa, già rodata la scorsa estate 2006 con l’organizzazione degli Europei di basket femminile Under 18 e del Torneo delle 10 Nazioni: due eventi che hanno coinvolto in particolare la città di Chieti, contribuendo a creare il clima di attesa per la manifestazione del prossimo autunno. A fare da spalla all’Università è la Provincia di Chieti, principale ente locale coinvolto nell’organizzazione dell’attesissimo campionato. Umberto Aimola, vicepresidente della Provincia e Assessore allo Sport, è anche vicepresidente vicario del comitato organizzatore: «Gli Europei del 2007 sono una magnifica occasione per promuovere il territorio e lo sport. Come Provincia di Chieti abbiamo dato il via a due programmi: “Chieti 7+”, che ha lo scopo di preparare l’evento attraverso manifestazioni culturali quali mostre e incontri, tutti su tematiche sportive; il secondo, “Turista per Sport”, accompagnerà invece lo svolgersi della manifestazione con una serie di appuntamenti volti a far conoscere il territorio a coloro che si recheranno in Abruzzo in occasione degli Europei, quindi anche agli atleti e alle delegazioni internazionali». Del Comitato organizzatore fanno parte anche altri eminenti nomi della “d’Annunzio”, come il professor Carmine Di Ilio, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia e presidente del comitato per lo sport dell’ateneo: «È con grande orgoglio che ci siamo trovati a svolgere un ruolo di rilievo e responsabilità all’interno dell’organizzazione di Chieti 2007. Sono sicuro che con la collaborazione di altre istituzioni pubbliche e private porteremo felicemente a compimento anche il grande onere organizzativo che ci siamo assunti». Della stessa opinione anche il Dirigente generale della “d’Annunzio”, Marco Napoleone: «Quando importanti attività sono chiamate a confortare legittime attese, producendo gli effetti sperati, si può parlare di razionalità ed efficienza organizzativa. Se la macchina del Cus Chieti ha sempre saputo mantenere un virtuoso rapporto tridimensionale tra causa, effetto ed economicità, il modello organizzativo che siamo lieti di proporre, impreziosito dalle esperienze del passato ed arricchito dalle sinergie del territorio, può a ragione proiettarsi verso altri ambiziosi traguardi». Traguardi che anche il Presidente del Cus Mario Di Marco vede ormai approssimarsi, e ai quali guarda con serenità: «Siamo stati in grado di organizzare al meglio questi campionati, grazie al meticoloso lavoro del Comitato organizzatore e alle nostre strutture, che da sole hanno sostenuto già le precedenti manifestazioni. Il lavoro svolto finora varrà anche per il futuro: le strutture messe a punto per gli Europei di basket resteranno a disposizione per i Giochi del Mediterraneo e per qualsiasi altro evento sportivo in grado di lanciare l’Abruzzo con prepotenza sul mercato del turismo». Proprio le due manifestazioni estive hanno suscitato l’approvazione di Giovanni Lolli, Sottosegretario di Stato del ministero per le Politiche giovanili e le attività sportive, che si rallegra «del

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fatto che il Comitato abbia approntato tutto il complesso lavoro di preparazione al meglio, prevedendo tappa dopo tappa tutte le fasi di avvicinamento all’evento. Ci piace pensare che tali manifestazioni possano diventare un eccellente veicolo in grado di avvicinare molti giovani allo sport, un’attività che va considerata come cultura, come educazione al contatto con il proprio corpo e con gli altri, come strumento in grado di educare i ragazzi alla socialità e non solo alla pura competizione». La valenza sociale e la dimensione internazionale degli Europei di basket sono alla base anche del pensiero dell’Assessore regionale allo Sport Enrico Paolini, anch’egli coinvolto nell’organizzazione dell’evento quale vicepresidente del Comitato organizzatore: «Nelle mie vesti di Assessore allo sport e al turismo ho voluto che fossero messe a punto tutte quelle iniziative in grado di unificare questi due elementi. Non dimentichiamo che nel 2009 l’Abruzzo ospiterà i Giochi del Mediterraneo, e gli Europei di Chieti saranno una grande occasione per il rinnovo delle strutture sportive presenti sul territorio, in prospettiva anche del loro utilizzo futuro. La nostra è dunque una strategia che ha lo scopo di dare una vera dimensione internazionale all’Abruzzo» Al coro di voci soddisfatte per l’andamento degli eventi si uniscono anche quelle di Fausto Maifredi, Presidente della Federazione Italiana Pallacanestro, e di Nar Zanolin, Segretario generale della Fiba Europe, che aspettavano da molto tempo il ritorno del grande basket internazionale in Italia: «Dopo quattordici anni –esordisce Maifredi– l’Italia torna ad ospitare un Campionato Europeo femminile. L’augurio è che da Chieti 2007 la pallacanestro femminile esca rinforzata come notorietà per intraprendere con successo quel rapporto con i media, gli sponsor e il pubblico di cui il basket maschile è antesignano». «L’Italia ha un nome nella storia della pallacanestro femminile –commenta Zanolin– grazie alla conquista del primo campionato europeo femminile, disputato nel 1938. Quest’anno è stato decretato dalla Fiba Europe “anno della pallacanestro femminile”. Quale miglior modo di festeggiarlo?»


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UNIVERSIVARIOTERAMO

Il medico di Moby Dick Da Viale Crucioli all’Alaska con le balene (e non solo) nel cuore: viene da lontano e arriva in capo al mondo la passione di un professore dell’Università di Teramo, che ne ha fatto l’oggetto della sua ricerca scientifica 62


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90: sulle coste spagnole, poi su quelle italiane e, negli anni seguenti, su quelle di numerosi altri Paesi del bacino del Mediterraneo, cominciarono a verificarsi numerosi episodi di spiaggiamento di cetacei. In particolare, furono le Stenelle (piccoli delfini, molto comuni nei nostri mari) a subire il maggior numero di perdite in seguito a quella che venne, in breve tempo, identificata come una colossale epidemia dovuta a un Morbillivirus, ovvero un agente patogeno imparentato con quello del morbillo umano. È a questi anni e a questo particolare evento che risale l’interesse, e la conseguente specializzazione nel settore, del professor Giovanni Di Guardo, professore associato di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria della Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università

di Teramo. Un interesse che lo ha portato, recentemente, a presentare una relazione sulle cause di spiaggiamento dei cetacei alla 59ma Conferenza annuale della Commissione Baleniera Internazionale (International Whaling Commission) svoltasi ad Anchorage, Alaska, alla quale è stato invitato a partecipare in qualità di componente della delegazione scientifica che ha rappresentato l’Italia, un’esperienza che davvero pochi possono vantare. «Non ricordo un’altra emozione simile» è il suo primo commento. «Fa un certo effetto essere in un luogo dove le balene sono di casa, parlare ad una commissione sulle cause di morte dei cetacei nel Mediterraneo». Per la prima volta, infatti, la commissione baleniera Internazionale ha ospitato un workshop sulle patologie dei mammiferi marini, al quale Di Guardo è intervenuto relazionando in

• Nella foto di Silvia Jammarrone, il Professor Giovanni Di Guardo.

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merito ad uno studio scientifico effettuato in collaborazione con due colleghi (il professor Bruno Cozzi e il dottor Sandro Mazzariol) della Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università di Padova partecipanti al workshop ed incentrato sui reperti postmortem osservati in una serie di cetacei arenati sulle coste adriatiche dal 2000 al 2006. I dati del report, confrontati con quelli di altre casistiche, hanno permesso di rilevare che la principale lesione osservata è rappresentata dalle polmoniti, spesso causate da parassiti. «Inutile precisare che si sta parlando di patologie, di malattie, delle cause per cui un animale finisce spiaggiato. Tuttavia bisogna dire che la prima causa di morte, diretta e/o indiretta, dei cetacei e dei mammiferi marini è l’uomo», taglia corto Di Guardo, che in quindici anni di studio ne ha viste davvero tante. In collaborazione con altre università ed istituzioni italiane, infatti, ogni volta che si verifica un episodio di spiaggiamento, chi accorre per primo raccoglie “reperti post-mortem” (vale a dire campioni di organi e tessuti, insomma “pezzi” dell’animale) e li analizza, spedendone alcune parti alle altre istituzioni (fra cui la “Banca tessuti dei mammiferi marini del Mediterraneo”, istituita dal 2002 presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università di Padova e con la quale Di Guardo collabora attivamente) che fanno parte della “catena”. «A volte mi capita anche di accorrere sul posto, o di ricevere campioni biologici di animali spiaggiati al di fuori del litorale della nostra regione», ammette il professore. «Ciò succede quando gli altri colleghi veterinari sono impossibilitati a raggiungere il luogo. Del resto non siamo in molti ad occuparci delle patologie e, più in generale, della gestione sanitaria dei mammiferi acquatici». Il campo di ricerca di Di Guardo, nome che tradisce le origini siciliane, una

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carriera cominciata come veterinario presso il ministero della Sanità (oggi della Salute) a Roma, proseguita poi nella sede centrale di Roma dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana, e oggi approda alla docenza presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università di Teramo, è infatti appannaggio di pochi, che sono spesso chiamati a fronteggiare, insieme ad altri importanti attori istituzionali nel campo della sanità pubblica veterinaria, emergenze sanitarie e sociali. Come nel caso, recente, dell’influenza aviaria o della famosa epidemia di BSE, l’encefalopatia spongiforme bovina, meglio nota come “morbo della mucca pazza” (un’altra tematica di ricerca alla quale il professor Di Guardo ha dedicato e dedica tuttora grande attenzione ed interesse): «Compito di un patologo veterinario è quello di studiare le malattie animali, anche al fine di contribuire a conoscere meglio le malattie umane. Purtroppo noi scienziati non sempre brilliamo in termini di efficacia e di adeguatezza comunicative nei confronti del grande pubblico (sorride, ndr)… così, a volte, con la complicità di giornalisti più attenti al clamore mediatico che non alla verità dell’informazione, si possono verificare spiacevoli episodi di distorsione della verità. Nel caso della “mucca pazza”, ad esempio, la comunità scientifica non voleva lanciare grida di allarme ingiustificate, ma i media contribuirono a generare e diffondere una sorta di panico nella popolazione, mentre alcuni giornalisti arrivarono a compiere gesti clamorosi, come nel caso di chi mangiò in diretta una fiorentina, allora ingiustamente bandita dalla tavola dei ristoranti. A dispetto di ciò, tuttavia, le misure attuate dal nostro Paese in osservanza delle disposizioni normative adottate in sede di Unione Europea ai fini della gestione del rischio sanitario relativo a queste malattie sono misure in grado di tutelare nel miglior modo possibile la salute e la sicurezza dei consumatori». L’esperienza abruzzese di Di Guardo ha, per fortuna, solo note positive: il suo interesse scientifico nei confronti della patologia e della gestione sanitaria dei mammiferi acquatici e, più in particolare, dei cetacei, si è perfettamente integrato, infatti, con un ventaglio di attività didattico-formative e di ricerca estremamente qualificate nel settore delle scienze applicate al mare, cui l’Università di Teramo e la Facoltà di Medicina veterinaria hanno dato vita da oltre 10 anni. Fra tali iniziative si segnala, in particolar modo, il Master di I° livello in “Gestione, trasformazione e ispezione delle risorse ittiche”, egregiamente coordinato dal professor Pietro Giorgio Tiscar, con sede a Roseto degli Abruzzi, che da più anni raccoglie iscrizioni e diffusi consensi da parte di laureati in varie discipline tecnico-scientifiche provenienti da tutt’Italia. F.G.

“La prima causa di morte diretta o indiretta dei cetacei e dei mammiferi marini è l’uomo”.


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PERSONE E IMPRESA ABRUZZO, LA BUONA REGIONE

n bel posto da visitare, ma qualcuno ci lavorerebbe?”. Così scrive Dave Blanchard –redattore capo della rivista americana Industry Week– nel reportage sul Press Tour internazionale organizzato nella prima settimana di giugno nell’ambito di “Abruzzo Made in Italy” Programmi di Marketing Territoriale dell’Assessorato alle Attività Produttive e all’Innovazione della Regione Abruzzo. Oltre allo stesso Blanchard al tour hanno partecipato Dietmar Kieser, vice capo redattore di Industrie Anzeiger (Germania); Armin Doetzkies, redattore capo di MT Management & Technik (Russia); Valérie Marcellin, capo servizio L’Usine Nouvelle e Bruno Bayley, redattore di Management Today (UK), coordinati da Oliver Casiraghi, Ufficio stampa internazionale del Progetto “Programmi di Marketing Territoriale”. «La presenza della stampa estera specializzata –ha sottolineato l’Assessore alle Attività Produttive e all’Innovazione della Regione Abruzzo Valentina Bianchi– è stata occasione per presentare al meglio il potenziale di attrazione di investimenti in Abruzzo e illustrare la capacità del territorio di coniugare tradizione e innovazione». L’esempio di Blanchard –sommato alle testimonianze degli altri giornalisti– rivela l’importanza del Press Tour, evidenzia il potenziale di attrazione di investimenti in Abruzzo. «Grande ospitalità, aziende estremamente interessanti, una perfetta organizzazione –commenta Armin Doetzkies, redattore capo di MT Management & Technik–. L’Abruzzo è una regione con enorme potenziale, economico, turistico e paesaggistico». «Questo viaggio –aggiunge Valérie Marcellin, capo servizio L’Usine Nouvelle– mi ha fatto scoprire una regione verde, ma anche industriale. Una regione che merita di essere conosciuta. Le aziende che abbiamo

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visitato, inoltre, dimostrano che è possibile avere nello stesso luogo tradizione e high-tech». Per Dietmar Kieser, vice capo redattore di Industrie Anzeiger «l’Abruzzo si è presentato nel miglior modo. Ospitalità, cordialità e molteplici aspetti interessanti – storico, gastronomico, economico: sono rimasto impressionato». «Sono rimasto sorpreso dalla varietà delle industrie presenti in Abruzzo –spiega Bruno Bayley, redattore di Management Today–. Inoltre mi ha colpito la grande enfasi relativa alla conservazione delle antiche culture e tradizioni, mescolate allo sviluppo di nuove industrie e business». Tutti commenti che si ritrovano nell’articolo di Blanchard: «Ho avuto l’opportunità di visitare una regione della quale non avevo mai sentito parlare prima». E per avere una prima idea si è affidato a Wikipedia, l’enciclopedia on line dove l’Abruzzo, racconta il giornalista americano, è presentato come “regione per la maggior parte montagnosa, storicamente conosciuta per la pastorizia, per il turismo (si scia in montagna, c’è il mare Adriatico), con ottimi esempi di architettura medievale”. E da qui la domanda riportata all’inizio, alla quale Blanchard ha avuto risposta proprio grazie al Press Tour. Nell’articolo racconta come validi esempi le esperienze di Micron, Delverde e Telespazio, esaltando come punti di forza l’identificazione con il territorio, il buon livello della forza lavoro specializzata e il rapporto con il mondo


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accademico, nonché, per la pasta, la qualità delle materie prime utilizzate, a partire dall’acqua. Oltre a Micron, Delverde e Telespazio, il Press Tour ha fatto scoprire ai giornalisti la Honda, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare presso i laboratori del Gran Sasso e l’Atr. E non solo: sono stati presentati i borghi di Stefano di Sessanio, Guardiagrele con la visita alla cantina di invecchiamento dell'Azienda Agricola Santoleri, Loreto Aprutino e Penne, con in più momenti di svago presso l’Hotel Mion di Silvi Marina, il Trabocco Pesce Palombo di Fossacesia,Villa Dragonetti, e Borgo Spoltino. I giornalisti invitati hanno partecipato anche alla cena evento presso il Club Nautico “Marina di Pescara”per la presentazione dell’Atlante dei Prodotti Tipici, realizzato a cura dell'assessorato all’Agricoltura della Regione Abruzzo.Proprio il “Marchio unico per prodotti tipici”è uno dei ventiquattro “Pacchetti localizzativi”(tipologie di investimento) individuati nell’ambito dei Programmi di Marketing Territoriale.

“Di fatto –conclude Blanchard nell’articolo– ogni azienda che ho visitato ha le sue buone ragioni per essere lì. Perché, come ho imparato in Abruzzo, sono soprattutto le persone che fanno di un territorio un punto di riferimento globale. E quando il territorio in questione non è semplicemente “un posto” ma un’intera regione, i benefici per un investitore che arriva prima degli altri possono essere davvero reali”.

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Sociale vuol dire qualità di Michela Ciavatta foto Silvia Jammarrone

• Giancarlo Di Ruscio, AD di Cantina Tollo. Nella pagina a fianco, Hedòs, il rosato più buono d’Europa

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rimus inter pares. Ovvero, il migliore tra i migliori. Questo il verdetto della giuria del Challenge International du Vin, il prestigioso concorso che si tiene all’interno del Wine Expo di Bordeaux (per i non addetti: la massima manifestazione enologica mondiale) che ha assegnato a Hèdos, il già pluripremiato rosato prodotto dalla Cantina Tollo, il premio speciale del Club della Stampa 2007. È successo ad aprile, quando oltre 5200 campioni di vino provenienti da 38 Paesi sono stati debitamente assaggiati e valutati dalla giuria del concorso, presieduta da Francois Bège

(Presidente del Club della Stampa di Bordeaux) e formata da un gruppo di giornalisti specializzati provenienti da Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania. Gli esaminatori hanno assegnato una medaglia d’oro al prodotto vincitore di ogni categoria; alla fine, per decretare il vincitore supremo, i solerti giurati hanno riassaggiato tutte le “medaglie d’oro”, conferendo all’Hédos di Cantina Tollo il premio speciale del Club della Stampa 2007. E il riconoscimento, già prestigioso, vale doppio: perché per la prima volta in questa competizione è stato premiato un vino italiano, e perché a vincere non è stato il classico Chianti


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Miete successi in tutti i concorsi, ribalta i luoghi comuni e punta ancora più in alto. Ritratto di una cantina che con i suoi prodotti è sulla bocca di tutti. o il Brunello di Montalcino, ma un più giovane (artisticamente parlando) Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo DOC. Ha il volto soddisfatto, Giancarlo Di Ruscio, amministratore delegato della Cantina Tollo, mentre racconta della cerimonia di premiazione, svoltasi il 13 giugno scorso: «Il fatto singolare è che il premio è talmente importante che ce lo hanno portato, organizzando una bellissima cerimonia di consegna nella cantinetta del cinquecentesco Palazzo Antinori a Firenze, dove probabilmente non era mai stato stappato alcun vino che non fosse Antinori», ricorda. Tollese D.o.c. (chi più di lui?), un passato da avvocato, oggi Di Ruscio è alla guida di un autentico fenomeno, un’eccezione alla regola che “cantina sociale” sia sinonimo di una produzione di basso livello qualitativo. Lo dicono i numerosi riconoscimenti tributati ai prodotti di Cantina Tollo, che negli ultimi due-tre anni ha fatto letteralmente incetta di premi nelle rassegne nazionali e internazionali. Vinitaly, Concours Mondial di Bruxelles, Mundus Vini di Neustadt in Germania, International Wine Challenge di Londra, Starwine - International Wine Competition di Philadelphia, Abruzzo Wine Festival sono solo alcuni tra i concorsi che hanno visto trionfare nomi ormai noti anche al grande pubblico, come Cagiòlo, Menir, Cretico, Collesecco, Pecorino. E naturalmente anche la competizione di Bordeaux, dove i vini tollesi avevano già raccolto diverse medaglie d’oro prima di essere incoronati imperatori del mondo vinicolo grazie al giovane Hédos. «Il successo –precisa Di Ruscio– non arriva mai per caso. Per quanto ci riguarda, è frutto di un impegno, di un progetto iniziato alla fine degli anni ‘90, improntato alla ricerca dell’innovazione e della qualità totale. Significa avere il controllo completo di tutta la filiera, partendo dal vigneto, perché il vino buono nasce nella vigna, non nella cantina». E significa osservare scrupolosamente un regolamento al quale, dall’ini-


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IL VINO DELLA CANTINA TOLLO

• Di Ruscio con i vini della Cantina Tollo

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zio del progetto, si attengono tutti i soci conferitori, assistiti e guidati dagli agronomi (prima) e dagli enologi (poi) della Cantina Tollo. «Ci siamo circondati di persone estremamente competenti (ritengo che abbiamo uno dei migliori enologi d’Abruzzo, Riccardo Brighigna) e abbiamo fissato con loro alcuni parametri tecnici di estrema importanza per poter aspirare alla produzione di vini di qualità; questo ha determinato anche un controllo sulla resa, ossia sulla quantità di uve prodotte dai singoli soci, che non vengono più pagati al quintale ma secondo gli ettari di terra coltivata». I soci: ovvero la forza della Cantina Tollo, nata nel 1960 grazie all’entusiasmo di un piccolo gruppo di persone desiderose di valorizzare una tradizione antica e di tentare un’esperienza innovativa. «Erano gli anni in cui lo strumento cooperativo viveva la sua stagione dorata, sostenuto com’era da una spinta politica e sociale di grande vigore. Il rischio attuale del cooperativismo, col pas-

sare del tempo e il rinnovarsi delle generazioni, è quello di uno scollamento tra la struttura operativa e quella produttiva. I conferitori per una Cantina sociale sono come la “base” per un partito. Noi cerchiamo di non perdere mai il legame con i soci, che sanno di far parte di un’azienda con una marcia in più. Rispetto alla cantina privata, infatti, la cantina sociale può contare su una quantità di ettari infinitamente superiore a quella di un privato. Una grandinata per noi è uno spiacevole episodio, per un privato può costituire un danno in grado di compromettere l’intera annata. E il secondo punto di forza è la dislocazione differenziata dei terreni». Sono infatti più di 3.500 gli ettari di terreno a disposizione della Cantina, e coprono un’area che va dal nord della Puglia, al Molise fino a tutta la provincia di Chieti. «Non c’è nessuna legge che limiti territorialmente il numero dei soci. Le uniche discriminanti sono la domanda del mercato, che può farci rifiutare una richiesta di adesione se, per esempio, il fornitore produce vino rosso o bianco, e naturalmente la qualità del prodotto, che viene attentamente valutato dalla commissione esaminatrice». Il mercato, un terreno sul quale la Cantina Tollo si muove con sicurezza. Dovuta ai numeri, come quelli che indicano il prodotto di punta della fascia media, il Collesecco (nelle due versioni, standard e Rubino), mantenersi saldamente al comando della classifica dei vini più venduti. «Ma l’intero settore enologico versa in una crisi profonda, che peggiora sempre più. Negli anni ‘90, quando tutti i settori dell’economia tendevano alla concentrazione (fusioni, accorpamenti, accordi)


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allo scopo di presentarsi sul mercato con un’offerta univoca e quindi più forte, il settore enologico è andato invece in controtendenza, sviluppando un’offerta eccessiva (la moltiplicazione dei produttori e quindi dei vini immessi sul mercato) e determinando quindi una gran confusione su cosa sia “di qualità” e cosa non lo sia. A ciò si aggiunge la disinformazione del consumatore, che magari valuta un vino in base a quante stelle ha su una guida, senza sapere che quello stesso prodotto è arrivato molto dietro di noi in un concorso». Troppi vini, dunque, fanno male. Come anche troppi controlli: «Il nostro è un settore sottoposto a regole severe. Ma non sempre le regole tutelano la qualità e il consumatore», spiega Di Ruscio. «Quando le leggi diventano eccessive si trasformano in burocrazia, e questo è un problema che ha incidenza anche sul mercato. Ad esempio, la recente questione dei trucioli (utilizzati da alcuni produttori per “simulare” l’invecchiamento in botti di legno; procedimento più rapido ed economico rispetto a quello dell’invecchiamento tradizionale) sulla quale al momento si dibatte, sta facendo guadagnare enormi fette di mercato a Paesi emergenti nel settore, come Argentina, Sudafrica, Australia, che hanno norme meno rigide e –soprattutto– meno numerose. Mentre noi pensiamo se sia opportuno utilizzare i trucioli, gli altri producono e vendono, tenendo il prezzo anche basso». E proprio sul prezzo Di Ruscio si lancia in una accesa polemica: «I vini italiani non costano più di altri, e quelli abruzzesi sono, degli italiani, tra i meno costosi. Il vino abruzzese necessita di un riposizionamento nel mercato, cosa impossibile finché il 60% della produzione regionale continuerà ad essere imbottigliato e commercializzato da produttori non abruzzesi, che acquistano il prodotto certificato Doc (quello in eccedenza rispetto agli 800mila ettolitri previsti dal disciplinare di produzione del Montepulciano d’Abruzzo) al prezzo da “semilavorato”, lo imbottigliano e lo vendono a prezzi ridicoli. E poi: l’offerta abruzzese è la più scarsa, con qualche Igt e due sole Doc, perdipiù generaliste, cioé non differenziate a livello territoriale. L’Abruzzo merita altre cose, e noi come azienda ce la mettiamo tutta. Ma c’è un grossissimo lavoro da fare, e deve essere uno sforzo collettivo».


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L’OLIO DELL’AZIENDA FORCELLA

Prodotto dalla passione Due fratelli uniti dalla terra e dalla tradizione, un olio che conquista tutti. di Stefano Campetta

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ono un medico con la passione per l’agricoltura. Con mio fratello, ingegnere, abbiamo ripreso da circa dieci anni l’azienda di famiglia, nata nel 1924 su iniziativa di mio nonno, la cui attività è stata proseguita da mio padre». Inizia così una bella storia di impegno e di passione, i cui protagonisti sono i fratelli Gianni e Paolo Iannetti, “produttori di olio di qualità” come si definiscono loro. Una qualità che negli ultimi due anni ha procurato ai due intraprendenti titolari dell’azienda agricola Forcella, sulle colline di Città Sant’Angelo (quasi cinque ettari d’olivo, 1300 piante che guardano il mare e la montagna) notevoli soddisfazioni, consacrate dai premi del 2006 e del 2007 conquistati all’Orolio di Loreto Aprutino e al Sol di Verona, e dai giudizi estremamente positivi sulle loro produzioni che compaiono nelle guide più importanti del settore, la “Guida agli extravergini 2007” di Slow Food (che gli attribuisce il primo posto nella classifica dei migliori extravergine DOP di Abruzzo e Molise) e “L’extravergine 2007” curata da Marco Oreggia, giornalista e critico enogastronomico, sommelier ed esperto assaggiatore di olii vergini ed extravergini d’oliva. Il critico Maurizio Pescari ha dedicato parole di elogio per il loro monovarietà Intosso sul Corriere della sera, lo scorso dicembre. «Pensare che abbiamo cominciato a partecipare in modo più costante ai concorsi proprio due anni fa –ricorda Gianni Iannetti– e già ci hanno chiesto scherzosamente di non presentarci più ai concorsi regionali, di lasciare qualcosa anche agli altri…». Un successo che non turba affatto i sonni dei due fratelli Iannetti, anzi li spinge a proseguire nella ricerca della qualità: «È un’enorme soddisfazione vedere crescere e trasformare il prodotto, e poi mi piace trovare piccoli accorgimenti per migliorarlo. È una sfida con se stessi, si cerca costantemente di raggiungere la perfezione». Accorgimenti che stanno portando l’Agricola Forcella ad un livello più alto di produzione, in tutti i sensi. I fratelli Iannetti stanno traghettando l’azienda di famiglia dall’artigianato puro ad una fase tecnologicamente più avanzata. «In questi dieci anni abbiamo

intrapreso un ammodernamento del processo produttivo, abbandonando i tradizionali sacchi, retaggio della nostra cultura contadina, in favore delle cassette; anticipando il periodo di raccolta delle olive da novembre a ottobre, così da avere un olio a bassa acidità e alto contenuto di polifenoli; abbandonando le presse per una lavorazione “a ciclo continuo” per evitare che l’olio risenta di partite di olive rovinate di produttori precedenti; adoperando per la conservazione contenitori in acciaio, che tengono l’olio separato dall’aria e lo lasciano filtrare per decantazione. Siamo in fase di ulteriore innovazione: il prossimo anno utilizzeremo sistemi con l’azoto, per evitare che l’olio entri in contatto con l’aria. E naturalmente utilizziamo le migliori macchine esistenti, che poi sono quelle italiane: molto sofisticate, lavorano a bassissima temperatura. Tutti questi piccoli passaggi portano ad un prodotto che è in grado di competere con gli oli nazionali più blasonati, ad esempio i toscani». L’avanzamento tecnologico non è (per ora) volto ad aumentare la produzione, che per scelta resta di nicchia: «Vendiamo grazie ad un passaparola ormai consolidato da vent’anni. È una scelta economica: produciamo di meno, rispetto a quanto potremmo fare, ma l’olio è più buono. Anche il prezzo, ovviamente, si adegua». Ma è un prezzo che in molti sono disposti a pagare: l’olio dell’azienda Forcella da Città Sant’Angelo ha valicato i confini regionali, e si trova sulla tavola di enoteche e ristoranti molto speciali, a Roma e Milano, che hanno dimostrato di apprezzare il prodotto: «Dall’oliva Intosso, tradizionalmente da frutta, produciamo un olio ricco di aromi, molto amaro, ottimo sul pane, sulle zuppe, sulla mozzarella e il pomodoro. Lo imbottigliamo in purezza, quindi come monovarietale, e ne impieghiamo una parte nella realizzazione del Dop, secondo i criteri imposti dal disciplinare di produzione». Un olio che racconta una storia. Fatta di qualità, impegno e passione.


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I prodotti Forcella INTOSSO All’olfatto si ha un fruttato con intensità tra il leggero e il medio e con una discreta sensazione floreale ed erbe blsamiche. Al gusto si nota subito una buona presenza dell’amaro quindi vien fuori il piccante che invade, senza aggredire, l’intera cavità orale insieme ad una nota di mandorla e leggerissime presenze di salvia e menta.

DOP All’olfatto si presenta con un fruttato di media intensità, ampio, erbaceo, appena floreale e con leggera nota di mandorla. Al gusto ha un amaro di media intensità con nota piccante discretamente intensa, erbaceo e nota di mandorla amara. Nel finale l’amaro e il piccante si attenuano e rimare una ottima sensazione di dolce.


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ATLANTE DEI PRODOTTI TRADIZIONALI ABRUZZESI

Percorsi di sapore di Fabrizio Gentile

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icischia. ‘Ndurciullune. Lattacciolo, Sgaiozzi, Svivitella. Parole in libertà? No, anzi: la prima è carne di pecora, salata, pepata ed essiccata; gli ‘ndurciullune sono un tipo di pasta, mentre gli altri tre sono nomi di dolci. Ovvero, prodotti tipici regionali, sapientemente, meticolosamente raccolti tutti insieme dall’Arssa col riconoscimento del Ministero dell’Agricoltura in un lussuoso volume, l’Atlante dei prodotti tradizionali abruzzesi (edizioni Carsa), che costituisce il coronamento di un lavoro che l’Agenzia Regionale per i Servizi di sviluppo agricolo ha portato avanti da anni e che di ognuno descrive minuziosamente l’origine, le caratteristiche, la preparazione e la conservazione. «Questo strumento –precisa Marino Giorgetti, coordinatore del progetto– si affianca al vasto progetto di educazione alimentare “Salute a Tavola” che l’Assessorato all’Agricoltura e l’Arssa stanno portando avanti da due anni con l’intento, appunto, di aumentare la sensibilità degli studenti e dei consumatori tutti alla conoscenza e all’utilizzo dei prodotti tipici per arrivare ad una corretta alimentazione». Dalla pasta ai dolci, dal Parrozzo alla Cicerchiata, dal Canestrato di Castel Del Monte alla Porchetta abruzzese, dal Pane nobile di

Guardiagrele alle Zeppole di San Giuseppe; e poi patate di Avezzano, fagioli tondini, aglio rosso di Sulmona, castagne e zafferano di Navelli: una parata di stelle degna di una festa nazionale. E scorrendo le pagine del volume capita di scoprire che, appunto, accanto ai prodotti più diffusi ne esistono alcuni che appartengono a territori più circoscritti, come quelli che abbiamo nominato prima e che probabilmente sono ignoti ai più. «Se si potesse comporre un ideale paniere da presentare agli occhi e al palato dei gourmet, ma soprattutto dei consumatori, si scoprirebbero tanti prodotti e preparazioni di eccellenza, che hanno da sempre un forte legame con la terra di origine e sono dunque unici» spiega Donatantonio De Falcis, direttore generale dell’Arssa. Descritto spesso come un territorio impenetrabile, di difficile accesso e quindi tendente a sviluppare una gastronomia “autarchica”, semplice e al riparo dalle influenze esterne, l’Abruzzo può vantare «una gastronomia di derivazione casalinga –prosegue De Falcis– che si ritrova con assoluta facilità anche nei ristoranti e nelle trattorie della regione, e che ancora oggi conserva nomi onomatopeici o legati ai luoghi e alle genti presso i quali quei prodotti o quelle preparazioni si sono maggior-


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La bibbia dei gourmet: dalla A di Annoia alla Z di Zeppole, tutti i prodotti tradizionali abruzzesi raccolti dall’Arssa in un volume tanto lussuoso da leccarsi i baffi. mente diffuse». È il caso del “Pecorino di Farindola”, o del “Bocconotto di Castelfrentano”, della “Ventricina vastese”; ma anche del “Tacchino alla Canzanese”, che al pari di altri piatti tipici (maccheroni alla molinara, virtù, scrippelle) trova collocazione nell’Atlante in quanto espressione della tipicità regionale, così come gli arrosticini, oggi uno dei modi più diffusi di identificare l’Abruzzo, gastronomicamente parlando, al di fuori dei confini regionali. Quello dell’Arssa è un lavoro che ha, soprattutto, il merito di contribuire a creare un’immagine della regione attraverso ciò che la rende unica, ovvero i suoi prodotti. «L’Abruzzo –afferma Marco Verticelli, assessore regionale all’agricoltura– è riuscito a coniugare la tutela della natura e di gran parte del paesaggio con un florido sviluppo socioeconomico, che l’ha portata ad essere la prima regione del meridione ad uscire dall’Obiettivo 1 dell’Unione Europea, ma anche a mantenere salde le identità dei diversi luoghi, che ancora oggi vivono nelle rievocazioni storiche, nei riti agrari e soprattutto nelle solide e genuine abitudini alimentari». Una terra, quindi, in cui convivono tradizioni diverse, che come tante tessere di un mosaico formano un’immagine unica: quella dell’Abruzzo: forte, gentile e –aggiungiamo noi– da oggi anche più saporito.


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Premio nazionale Agorà per la pubblicità a Delverde e Ad. Venture.

È tutto oro quello che luccica. C’ PREMIO ALLA COMUNICAZIONE DI QUALITÀ PER AGENZIE E UTENTI

ORO

XX EDIZIONE 2007

DELVERDE AD.VENTURE

è Peppino De Filippo che porge a Totò un pacco di spaghetti come fosse uno scettro, sotto lo sguardo attonito di Titina De Filippo. Claudia Cardinale che riempie generosa il piatto di Rock Hudson, sempre di spaghetti. Gli stessi nei quali sembrano perdersi i pensieri di Ugo Tognazzi in “Menage all’italiana”. L’inconfondibile Alberto Sordi alle prese con una spropositata forchettata, Gina Lollobrigida che impasta, le mani piene di farina in “Anna di Brooklin”. E John Wayne che “cala” la pasta durante la pause delle riprese a Cinecittà, nel ’65. Con lui c’è Dean Martin: una scena da serata con vecchi amici. Sono alcune delle immagini scelte per “Nutriamo la stessa passione” - campagna di comunicazione realizzata dall’agenzia pescarese Ad.Venture per il pastificio Delverde di Fara San Martino. La campagna –che riproduce le scene più famose della Commedia all’italiana e del cinema americano degli anni Sessanta, con la pasta sempre in primo piano– è stata premiata con l’Agorà d’oro nazionale primo assoluto di categoria, in occasione della ventesima edizione del Premio. Istituito dal Club Dirigenti Marketing, il Premio Agorà ha l’obiettivo di promuovere la qualità della comunicazione, pubblicizzarla e premiare i protagonisti dell’immagine. Oggi è considerato un festival unico nel panorama italiano che premia non solo le

agenzie ma anche le aziende committenti. E proprio in questa ventesima edizione, per la prima volta nella storia del Premio, l’Agorà d’oro è andato a un’azienda e agenzia abruzzesi. Leonardo Valenti, amministratore delegato Delverde e Ivano Villani, amministratore di Ad.Venture, hanno ritirato il Premio sul palco dell’Auditorium dell’ex Basilica di San Giovanni a Erice, in Sicilia. «La comunicazione per un’azienda come la nostra –così Leonardo Valenti della Delverde– passa inevitabilmente attraverso l’originalità e l’unicità del messaggio. Per raggiungere il proprio target di riferimento, un marchio fortemente legato al territorio, necessita di un salto qualitativo in avanti, di uno scarto, che nel nostro caso si è tradotto nella partnership vincente con Ad.Venture che ringrazio. Il premio ottenuto, ci incoraggia a proseguire su una strategia che si sta dimostrando vincente non solo sul versante strettamente legato al mercato della pasta, ma anche su quello comunicativo». La campagna –oltre l’oro– ha ottenuto anche l’Agorà d’argento nazionale per la migliore comunicazione integrata. ”Nutriamo la stessa passione” ha anche accompagnato gli stand Delverde in occasione delle fiere agroalimentari in tutto il mondo ed è apparsa sulle riviste specializzate del canale Horeca - Hotel, ristoranti, catering.


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www.georesort.it - info@georesort.it - tel. +39 085 8236401


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Rifugio Tito Acerbo

Naturalmente Relax e cime del Gran Sasso, le faggete di Rigopiano, gli splendidi scenari di Campo Imperatore: in questo paesaggio incantevole e incontaminato, una storica struttura torna a vivere dopo dieci anni. Il recupero del rifugio Tito Acerbo, edificato a quota 1136 metri s.l.m. e consacrato nel 1933 al capitano loretese, medaglia d’oro al valor militare, si deve al progetto Georesort, un piano di interventi turistici e culturali, teso a promuovere il territorio attraverso una proposta di vacanza più ecologica e meno consumistica: una formula turistica che offre al turista verde, benessere, enogastronomia, cultura e sport, senza dimenticare il comfort, grazie a quattro strutture fruibili durante tutto l’anno e capace di soddisfare le esigenze di tutti: il Camping Rigopiano, l’Ostello Macchie, il Rifugio Tito Acerbo e l’Hotel Rigopiano, tutte immerse nel verde e dotate di servizi di qualità.

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Il rifugio, recentemente inaugurato, ha conservato nella ristrutturazione le originarie caratteristiche di semplicità e funzionalità. In pietra e legno, arredata con gusto e sobrietà, la struttura trasmette un senso di naturalità e comfort che il verde circostante amplifica. Presso il rifugio è possibile gustare una cucina tipica, a base di prodotti del territorio e ricette tradizionali, come i rinomati arrosticini e la pecora “alla callara”; si può anche pernottare in comode e accoglienti stanze dotate di servizi. Il rifugio continua a rappresentare il luogo dove sostare durante un’escursione, o dove ritrovarsi alla fine di una giornata trascorsa all’aria aperta per una pausa rigenerante. E se volete esplorare il territorio, è il punto di partenza ideale per raggiungere alcune splendide località delle province di Pescara, Teramo e L’Aquila, a cui Rigopiano è ben collegata. L’ineguagliabile patrimonio naturalistico abruzze-


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A Rigopiano, nel cuore del Parco Nazionale, riapre un luogo storico che guarda al futuro senza dimenticare il passato

se, e le bellezze storiche e artistiche di cui è ricco il comprensorio in cui sorgono le strutture, sono il punto di forza del progetto Georesort. Da sempre questa zona ha attirato appassionati cultori della montagna, dei suoi silenzi e della sua bellezza. E oggi, che il tempo è poco e lo stress è molto, concedersi un buon sonno, un cibo naturale e un sano divertimento, significa recuperare veramente il proprio benessere. Testimonial di questo progetto è la simpatica pecora stilizzata che compare sulle magliette, sui cappelli, su tutti gli articoli della linea Georesort: si chiama Peco e vi accompagnerà nelle escursioni, nelle soste pic-nic e resterà come ricordo di una vacanza indimenticabile. Un logo semplice ma di sostanza, simbolo di appartenenza alla nostra regione e di riconoscimento della sua identità: quella di ieri, legata al mondo pastorale, e quella attuale che fa dello sviluppo eco-sostenibile il suo valore di partenza.


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V62 Sommario

Gusto, gusti, modi, mode, eventi

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Venticinque di questi Ensemble 82 Pagina

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LIBRI

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enticinque anni fa, quando Spoltore non era ancora assurta al rango di “città”, quando l’estate abruzzese offriva molto meno di oggi al turista e al cittadino in cerca di svago, quando cioè eravamo tutti un po’ più giovani, nasceva, per mano di William Zola, intraprendente personaggio del mondo teatrale e culturale pescarese, una delle manifestazioni più longeve e più interessanti della nostra regione: Spoltore Ensemble. «Venticinque anni, l’età di una maturità e di una consapevolezza consolidate –spiega Angelo Valori, attuale direttore artistico del Festival– come è acquisita e consolidata l’esperienza di una manifestazione fresca e pulsante come nel suo primo anno di vita, ma che ha saputo anche evolversi, accompagnando i tempi, differenziandosi anno per anno e mantenendo quello che ha sempre promesso. Siamo riusciti ad associare quanto di meglio offre il panorama teatrale nazionale alle intelligenze creative della regione, determinando quell’effetto caleidoscopico in grado di stimolare ogni tipo di pubblico». Piazza d’Albenzio, il Convento, il Castello, Largo Fosse del grano: luoghi storici della manifestazione, rivitalizzati insieme ai vicoli e alle piazzette del bellissimo paese, impreziositi dalla sapiente mano dello scenografo del festival Albano Paolinelli; luoghi che hanno ospitato di volta in volta personaggi come Irene Papas, Vittorio Gassman, Michele Placido, Carla Fracci ed altri notissimi volti dello spettacolo. Oggi, nel 2007, i volti sono quelli già celebri di Moni Ovadia e di Lina Sastri, Paola Pitagora, Roberto Alpi e Virginio Gazzolo; di David Riondino, vero habitué della kermesse; e degli attori, musicisti e danzatori abruzzesi, emergenti e non, che dall’11 al 22 agosto faranno di Spoltore un luogo di suggestioni musicali, teatrali, artistiche ed enogastronomiche. Un’edizione in cui la musica la fa da padrona (tra lirica, etnica, sperimentale, jazz e pop ce n’è davvero per tutti i gusti) e che sarà conclusa dal concerto di Simone Cristicchi, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo. Per festeggiare la sua ormai piena maturità, l’Ente Manifestazioni Spoltore Ensemble ha voluto realizzare una pubblicazione che ripercorresse i 25 anni di eventi artistici (oltre 600) tra foto ed interviste. Curato da Gino Di Paolo, per la parte grafica, e da Livia de Leoni per i testi, il volume 25 anni di Spoltore Ensemble comprende diverse interviste ai direttori artistici quali William Zola, Federico Fiorenza e Angelo Valori, oltre ad Albano Paolinelli, presidente dell’Ente, a cui fa seguito uno scritto di Antonio Zimarino, curatore insieme ad Albano Paolinelli della sezione arti visive.

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• Alcune delle star dell’edizione 2007 di Spoltore Ensemble. In alto: Lina Sastri e Denny Mendez. Qui sopra: David Riondino. A destra: Moni Ovadia, Virginio Gazzolo e i Danzatori scalzi.


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VARIO

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Arte di Annamaria Cirillo

Mostre/Andy Warhol Porte spalancate per Andy Warhol al Museo Colonna di Pescara Evento straordinario per la regione e soprattutto per Pescara, è giunta al Museo Colonna (18 luglio-20 settembre), la mostra su Andy Warhol, l’artista più famoso e rappresentativo della Pop-Art americana. A celebrazione del ventenna-

Festival/ Castelbasso Arte, letteratura, musica, teatro e gastronomia al borgo medievale di Castelbasso (Te Si è inaugurata il 14 luglio la nuova edizione 2007 del Festival “Castelbasso Progetto Cultura”. La manifestazione (14/7-26/8) propone un nutrito calendario di appuntamenti musicali, letterari ed enogastronomici, con una specifica sezione per le arti visive, che si snoda, sino al 26 agosto, tra i suggestivi vicoli del borgo. Due le mostre: “Nel segno della materia, pittura informale europea e americana da Burri a Dubuffet, da Pollock a De Kooning”, curata da Silvia Pegoraro e la mostra “De-forma-Il superamento dell’informale: dalla percezione pit-

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le della sua morte, avvenuta a soli 57 anni nel 1987, l’esposizione presenta 79 opere provenienti da collezioni private (Usa-Spagna-Italia), delle quali ben 42 pezzi unici. Nella mostra è incluso il suo giovanile ”A Gold Book” del ‘75, che consta di 20 opere rilegate a mano e ritoccate in acquerello, eseguite con la tecnica blotted line. I fotoritratti eseguiti dal suo fotografo-amico Dino Prediali (53 straordinari scatti del‘75, “Anticamera con Andy Warhol”), riprendono l’artista anche nei momenti personali del quotidiano. A questi si aggiungono quelli realizzati dai fotografi Hans Namuth e Mimmo Jodice. E poi i pezzi forti: i ritratti di Marilyn Monroe, Mick Jagger, Mao Tse Tung, Joseph Beuys e Liza Minnelli, accanto a famose copertine di dischi (Sticky

torica alla nuova astrazione”, a cura di Chiara Materazzo. La prima mostra (più di 100 opere), allestita nell’ottocentesco Palazzo De Sanctis, presso le mura di Castelbasso, vuole proporre una sintesi dello scontro artistico, tra fine anni‘40 e primi anni‘60, tra la consueta arte figurativa ed il prorompere della pittura informale che dimentica dell’oggetto, si lascia sedurre dalla materia e dall’istintualità dell’inconscio, fissando una emozione che prescinde dall’immagine. In mostra opere anche di Afro, Bay, Burri, Capogrossi, Fontana, Pollock, Scanavino, Turcato. La seconda, di significato duplice già nel titolo: ”sulla forma” e “destrutturazione” della forma, evidenzia il superamento dell’arte informale, attuato da un’immaginario reso in percezione pittorica e nuova astrazione. Interessanti le opere di Filipa Amaral, Raul

Fingers dei Rolling Stones e The Velvet Underground and Nico). Una produzione dalle tante sfaccettature, alcune particolarissime, che tratteggiano fin nell’intimo il percorso dell’artista verso una maturità senza moralismi, nella quale egli ha sempre lasciato spazio, nelle sue insicurezze, ad una “adolescenza del cuore”. Il catalogo della mostra riporta testi critici di Bonito Oliva, Gianfranco Rossini, Maria L. Borràs e Silvia Pegoraro. Una mostra straordinaria, un incontro all’interno del proprio tempo. Andy Warhol Museo d’Arte moderna Vittoria Colonna, Via Gramsci 1, Pescara Tel 085/4283759 18 luglio-20 settembre Orari tutti i giorni 9.00/13.00 e 18/24 (compresi i festivi) biglietto: intero € 8 ridotto € 4

Gabriel, Mario Consiglio, Stefano Errighi. Nel segno della materia Pittura informale europea e americana Castelbasso (Teramo), Palazzo De Sanctis 14 luglio - 26 agosto 2007 In collaborazione con il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone Nell’ambito di CASTELBASSO PROGETTO CULTURA Promosso dall’Associazione “Amici per Castelbasso” Biglietto d’ingresso: € 5,00 Telefono per informazioni: 0861/508000


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Mostre/ Morandi “Oltre l’oggetto-Morandi e la natura morta oggi in Italia” è il titolo della mostra allestita al MuMi di Francavilla, in collaborazione con il Centro StudiGiorgio Morandi ed alla cui inaugurazione è stato presente il Presidente del Senato Franco Marini. A cura di Marilena Pasquali e con intervento di Vittorio Sgarbi, l’esposizione consta di 15 dipinti e 15 acqueforti di Giorgio Morandi (18901964), accanto ad opere di Guttuso, Fontana e Pistoletto. Nei 15 dipinti di Morandi, specie nella linea corposamente morbida delle sue nature morte con frutta, si esplicita immediatamente la identità di un’arte propria e particolare, tenuta in isolamento dal clima culturale del tempo (futurismo, movimento stra-

Mostre/ Visioni e Illusioni Al Castello Cinquecentesco dell’Aquila è aperta la mostra “Visioni e Illusioni-Il realismo visionario nella pittura italiana moderna e contemporanea” curata da Silvia Pegoraro. L’esposizione presenta oltre cento opere (tra cui inediti di Michetti, De Chirico, Savinio, De Pisis, Sironi, Guttuso) di ben 51 artisti, suddivise in due sezioni (storica e contemporanea). Tra l’una e l’altra serpeggia e si individua una vera e propria linea comune di nuova visionarietà, sviluppatasi sino a questo inizio di XXI secolo, un libero fluire dell’immaginario creativo in una ritrovata profondità dell’io. Questa ricerca ha avuto il merito raro (e il coraggio) di attuare anche una seria selezione tra i

paesano, valori plastici) e certo protetta da una sua cultura rivolta a maestri come Cézanne, Chardin, Corot, Vermeer. L’artista sentì anche il fascino di Giotto e dei primi maestri del quattrocento. Ma il momento più singolare della vicenda morandiana si colloca immediatamente dopo il 1930, quando l’artista giunge a sfaldare le forme consuete della sua figurazione (bottiglie,

più interessanti e promettenti pittori figurativi delle giovani generazioni, in specie quelli operanti all’interno di questa esigenza pittorica definibile “Realismo visionario”: Federico Guida, Mauro Di Silvestre, Giovanni Manfredini, Luca Pace, Nicola Samorì, Alberto Zamboni e altri. Visioni e Illusioni. Il realismo visionario nella pittura italiana moderna e contemporanea Castello Cinquecentesco L’Aquila Tel. 0862633229 dal 30 giugno al 20 settembre 2007 Orario: Tutti i giorni 10/19 In agosto: ore 11/22 Ingresso: € 2 ridotti € 1 Informazioni: Accademia dell’Immagine Tel. 086248711 e-mail:info@accademiaimmagine.org Sito web: www.visionillusioni.it,

caraffe, fruttiere, vecchie lucerne ecc) in una materia di colore spesso e sobrio, talora ravvivato da gamme squillanti che si vanno poi sempre più scurendo in un riaffiorare della consistenza volumetrica degli oggetti. Particolari anche le incisioni, acquaforti trasportate nel dipinto talvolta percorrendo un processo inverso ma sempre autonome nel mezzo grafico, fatto di segni sottili e rettilinei, intersecati in reticoli. Guttuso, Fontana e Pistoletto arricchiscono questa mostra da ammirare con intensa attenzione. Oltre l'Oggetto. Morandi e la natura morta oggi in Italia Francavilla al Mare (Chieti), Museo Michetti fino al 30 settembre 2007 orari: tutti i giorni ore18.00 - 24.00 biglietti: intero € 5,00 - ridotto € 3,00 tel. 085/4911161 - 085/4920202


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Arte Mostre/ Castelli Con il patrocinio della Presidenza della Repubblica e la promozione del Comitato Organizzatore Mostre Ceramiche Antiche e Contemporanee di Castelli (Te), dal Museo Statale Ermitage di S.Pietroburgo sono tornate in Italia, per una mostra itinerante, a Roma, Castelli e Teramo, 77 preziose ceramiche di Castelli emigrate in Russia tra il XVI ed il XVIII secolo, ad arricchire il patrimonio degli zar. Quelle esposte sono opere dei grandi maestri Pompeo di Bernamonte, Orazio Ponpei, Francesco e Carlantonio Grue, Nicola Cappelletti e Carmine Gentile che costituiscono la rappresentanza dei principali stili pittorici già adot-

Formazione Centro Dedalo Un vecchio detto popolare abruzzese recita “Chi vò, va. Chi nin vò, cummanne”, ovvero: chi ha voglia di fare, si muove; chi non ne ha voglia, delega ad altri. Colleen Corradi è una che “va”, una che “vuole”, e non si è fermata davanti a nulla per realizzare il suo sogno. Un sogno che tutti possono vedere, a Castiglione a Casauria, dove una vecchia casa di campagna è stata ristrutturata in due anni per ospitare il Centro Dedalo per le arti contemporanee, «Un luogo di incontro, di scambio, di cultura e di sviluppo» secondo le parole della sua creatrice. Padre veneto e madre irlandese, capelli rossi e spirito d’iniziativa, la giovane Corradi ha

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tati, al tempo, a Castelli. Già esposte a maggio, nella tappa romana, presso il Museo Nazionale di Palazzo Venezia, sono ora in mostra, dal 14 luglio al 9 Settembre, presso il Museo delle Ceramiche di Castelli; infine la mostra si trasferrà a Teramo, nella Pinacoteca Comunale, dal 13 settembre al 31 ottobre. Un ritorno dal passato che sancisce definitivamente la paternità di un corpus di 77 capolavori che tornano in patria, pur per il breve periodo delle mostre, a riacquistare la propria identità ed il proprio territorio. Tuttora Castelli si contraddistingue come un centro all’avanguardia nella lavorazione della ceramica legata alla tradizione, ma capace di adattarsi continuamente alle tendenze artistiche del contemporaneo. Tante le opere di Castelli esposte nei più grandi musei del mondo: Louvre di Parigi, Brithish Museum di Londra, Metropolitan Museum of Art di New York e Museo

trascorso molti anni tra Londra e soprattutto New York, dove ha frequentato l’Art Students League specializzandosi nell’arte dell’incisione. Tornata in Italia, ha riscontrato l’oggettiva difficoltà di chi vuole avvicinarsi a questa particolare arte grafica: la mancanza di strutture adeguate. «Per dedicarsi all’incisione serve un torchio, una stanza per gli acidi, un vero laboratorio e attrezzature idonee. Non è un’arte “da appartamento” come potrebbe essere la pittura o la scultura. All’inizio avevo alcuni amici che mi offrivano il loro spazio privato per stampare i miei lavori, ma poi ho capito che volevo un luogo che fosse aperto a più possibilità. Così ho cominciato a maturare l’idea di questo centro, dove gli artisti possano insegnare ai neofiti, dove chi vuole può trovare tutto ciò di cui ha bisogno per cominciare ad appassionarsi all’arte». L’edificio che ospita il Centro Dedalo ha tre piani, il primo con il laboratorio per le incisioni e una sala per corsi di pittura e scultura; il secondo è uno spazio interamente dedicato alle mostre, e il terzo ha… due camere per gli ospiti: «Negli

Statale Ermitage di S.Pietroburgo. Le maioliche di Castelli. Capolavori d’Abruzzo dalle collezioni dell’Ermitage Castelli (Te), Museo delle Ceramiche Via Convento 14 luglio – 9 settembre 2007 biglietto: intero € 3,60 ridotto € 2,50 orario: tutti i giorni festivi compresi dalle 8 alle 20 Teramo, Banca di Teramo Sala Gambacorta 13 settembre – 31 ottobre 2007

Stati Uniti è un’abitudine molto diffusa quella di ospitare artisti che ricambino l’accoglienza tenendo dei corsi o lavorando per un certo numero di ore. Ho deciso di introdurre questa pratica qui in Abruzzo, dove spesso chi viene invitato resta per pochissimo tempo, un giorno o due. Io invece penso di stabilire un tempo minimo di tre mesi, durante i quali chiunque vorrà potrà conoscere, lavorare e parlare con gli ospiti». Il Centro non si pone in alcun modo in concorrenza con gli istituti scolastici di tipo artistico: «È più uno spazio utilizzabile da chi vuole cominciare, una sorta di scuola di avviamento all’arte tenuta da professionisti del settore ma rivolta tanto agli amatori che ai più esperti. Il principio alla base della nascita di Dedalo è che non si può stare chiusi in casa per fare arte, lo sviluppo nasce dallo scambio di idee, dalla loro circolazione, che innesca il processo creativo. Un conto è dipingere in casa, un altro è farlo insieme ad altri che possono suggerire idee diverse dalle nostre e farci crescere». Info: 808 3380595


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Libri VARIO Testimonianze/Guerre e pace Un giornalista e un funzionario dell’Onu. Uno che va in giro per il mondo a raccontare le guerre e l’altro impegnato a mantenere la pace in quei Paesi dove le armi tacciono dopo aver a lungo tuonato. A volte i due si incontrano, si incrociano, le guerre, per fortuna, ogni tanto finiscono, ma la pace è sempre a rischio. Nei momenti di riposo, ecco che escono fuori i loro diari, appunti scritti nei momenti difficili per ricordare, per riportare alla memoria i piccoli e i grandi avvenimenti di cui sono stati testimoni, i nomi delle persone incontrate, i personaggi che fanno la storia, ma anche quelli minori, i soldati sconosciuti, i ragazzini che si sono salvati dai bombardamenti, i civili cacciati dalle loro case, le vittime della pulizia etnica, i rifugiati, i feriti. Di quegli appunti, di quei loro quadernetti zeppi

Saggi/Teti Il settore dell’Information and Communication Technology in Italia ed in Europa sta attraversando una fase di cambiamento epocale, soprattutto a fronte di una sempre più evidente globalizzazione dei mercati e della evoluzione delle stesse tecnologie informatiche. «Malgrado gli investimenti in Italia nel settore ICT non siano adeguati allo sforzo compiuto da altri Paesi, se pur timidamente, l’economia italiana sta tentando di risalire sul treno dello sviluppo, cavalcando anche l’innovazione e l’utilizzo delle nuove tecnologie». A parlare è il professor Antonio Teti, Vicepresidente dell’Associazione nazionale informatici professionisti, docente dell’Università di Chieti e Pescara e coordinatore dell’ICT Park 2007,“l’evento ICT per il centro-sud” che per tre giorni, lo scorso maggio, ha fatto di Caramanico la capitale dell’informatica. Un’occasione di incontro e confronto

di date e di nomi di località lontane il giornalista – Toni Capuozzo – e il funzionario dell’Onu – Andrea Angeli, hanno fatto due libri che parlano del tempo della guerra e del tempo della pace, un po’ storia, un po’ cronaca. I loro libri – “Adios” di Toni Capuozzo e “Professione peacekeeper” di Andrea Angeli – hanno il pregio del linguaggio diretto, immediato, senza fronzoli e senza retorica, Capuozzo parla dei suoi primi servizi da inviato di guerra, in Nicaragua, Angeli ricorda i suoi mille viaggi intorno al mondo, dal Cile a Baghdad, dai Balcani a Nassiriyah. Tutti e due, appunto, alle prese con le notizie, con gli uomini, con le guerre. E proprio “Le notizie, gli uomini, le guerre” è il titolo della conferenza-dibattito che si svolge mercoledì 8 agosto a Roccaraso (Sala consiliare del Comune,

ore 18), una conferenza nel corso della quale saranno presentati i due libri e in cui i due autori confronteranno le loro esperienze. Vi partecipano il sindaco di Roccaraso, Armando Cipriani, il generale Leonardo Prizzi, comandante del Comando militare Esercito “Abruzzo” e due giornalisti, Guido Alferj, inviato speciale, spesso compagno di lavoro e di avventure sia di Capuozzo che di Angeli, e Franco Totoro, conduttore del Tg3 Abruzzo, nella veste di moderatore.

per approfondire lo sviluppo delle tecnologie informatiche, attraverso l’indagine di nuovi prodotti, e per argomentare i problemi che investono questo vasto settore. Al settore dell’ICT il professor Teti ha dedicato i suoi ultimi due libri, editi dalla Hoepli, Business and Information System Analyst e Network Manager: «Le imprese –spiega Teti– ormai da qualche anno a questa parte, stanno rivedendo il loro modo di utilizzare le telecomunicazioni. Inoltre viene avvertita sempre di più, dalle aziende, l’esigenza di garantire la mobilità interna ed esterna delle comunicazioni dei manager e dei dipendenti. E perfino nel settore domestico, la domotica renderà possibile utilizzare le stesse tecnologie oggi limitate al luogo di lavoro anche in casa. La rete sarà lo strumento di “gestione globale” nelle comunicazioni del nostro futuro: lo dice Thomas Friedman, autorevole esperto del settore, nel suo recente libro The World is Flat, in cui sottolinea l’importanza della nascita di una nuova

forma di società nota come Peer to Peer Society, ovvero una società di individui che interagiscono, comunicano, commerciano, scambiano informazioni tra loro senza intermediari grazie a Internet. Personalmente condivido questa visione e ritengo che Internet e tecnologie innovative come il WiFi e il WiMAX assumeranno sempre di più un ruolo fondamentale per la nascita di un nuovo individuo: l’individuo digitale che rappresenterà il nuovo driver dei mercati futuri».

ADIOS, il mio viaggio attraverso i sogni perduti di una generazione, di Toni Capuozzo (Mondadori) PROFESSIONE PEACEKEEPER, da Sarajevo a Nassiriyah, storie in prima linea, di Andrea Angeli (Rubbettino)


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Libri

Libreria/Edison “Là dove c’era il verde ora c’è una città”, cantava Celentano; e “Là dove c’era una jeanseria ora c’è una libreria” canta Pescara, oggi. Una città che comincia a mostrare segnali di un cambiamento positivo, invertendo la tendenza che negli ultimi anni ha visto scom-

parire i luoghi di cultura in favore di supermercati e, appunto, jeanserie. La libreria Edison, bella e di prestigio, nasce nei locali dell’ex Cinema Corso, e restituisce al centro cittadino la dignità che si merita. Lunga vita alla libreria, e auguri a Pescara.

Romanzi/Merini Il Grande Balzo è quello che compie Nessuno, broker finanziario che rompe le catene che lo legano ad una vita ingabbiata nelle convenzioni sociali, abbandona tutto ciò che ha per seguire una strana energia che si è impossessata di lui, una vocazione al randagismo che lo porterà ad accompagnarsi ad un cane (randagio anch’esso) lungo una strada incerta e senza regole. Il grande balzo è anche quel-

Dizionari/ Il cinema Fantasy

Dizionari del cinema, e sette: il nuovo volume, curato come il precedente Fantascienza da Angelo Moscariello, docente –dal 1996– di Storia del Cinema presso l’Accademia dell’Immagine, presenta con la consueta elegante veste formale un agile manuale per esplorare il genere di riferimento: dallo Studente di Praga,inquietante thriller psicoanalitico datato 1913 al recentissimo Una notte al Museo, la storia dei sogni prodotti dalla fabbrica dei sogni, attraverso schede, saggi, personaggi e immagini. Un viaggio affascinante nell’universo della fantasia. Angelo Moscariello, Dizionari del Cinema - Fantasy Ed. Electa/Accademia dell’immagine, 2007. pag. 351, Euro 20,00

lo che compie Claudio Merini, psicoterapeuta appassionato di teatro e autore di testi teatrali e di saggi di psicologia, che con questo suo primo romanzo affronta una nuova avventura, caratterizzata da una narrazione fresca e agile, diretta e profonda, che tocca corde che spesso, forse, ognuno di noi ha paura di toccare. Claudio Merini, Il grande balzo. Ed. Lupetti, pag. 143, Euro 13,00

Guide/Il Parco Nazionale della Maiella Addentrarsi alla scoperta del Parco Nazionale della Majella, 75.000 ettari di incanti e solitudini, di storia e natura selvaggia, ma anche di angoli quieti e riservati, può essere un’esperienza affascinante, specialmente se a guidarvi sono due profondi conoscitori del territorio. Uno (Santoleri) esperto di escursionismo e illustratore naturalistico, l’altro (Cerceo) esperto di religioni e di misticismo, vi porteranno per mano attraverso i boschi e i valloni con questi trenta esaltanti itinerari. Da conservare.


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Romanzi/Textus Il confine tra cronaca e romanzo, tra giornalismo e letteratura, a volte è così labile che può dare luogo a suggestivi prodotti: la non-fiction è un crossover il cui padre nobile fu Truman Capote, che raccontò in A sangue f r e d d o (1966) un agghiacciante delitto sotto forma di romanzo, con uno stile serrato e appassionante. Altri hanno seguito il suo esempio, fino al recente exploit di Roberto Saviano con il suo Gomorra. La casa editrice Textus ha deci-

so di esplorare questa terra di mezzo con una collana chiamata “I romanzi della realtà”, e diretta da Walter Siti, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’ateneo aquilano, che inaugura le uscite con due autori stranieri: Mathieu Lindon e il suo Processo a Jean-Marie Le Pen, immaginario processo a carico di un giovane accusato dell’omicidio, a sfondo razzista, di un giovane maghrebino, nel quale viene chiamato a testimoniare proprio il noto uomo politico francese, e Gary Indiana, che ricostruisce in Tre mesi di febbre il delitto Versace, raccontando la vita del killer Andrew Cunanan, suicidatosi prima della cattura da parte della polizia di Miami. Due racconti appassionanti che illustrano, tra reportage e romanzo, la società contemporanea. Mathieu Lindon, Processo a Jean-Marie Le Pen. Textus 2005, pag. 104, Euro 14,60. Gary Indiana, Tre mesi di febbre. Textus 2005, pag. 320, Euro 14,60.

Romanzi/Rosato Ancora un’esperienza nella narrativa per Giuseppe Rosato, poeta generoso e prolifico che si concede talvolta al racconto. In quest’occasione Rosato ci offre il ritratto in prima persona di Ofelia, una donna non più giovane, che decide di raccontare episodi della sua giovinezza,per un misterioso motivo che,ovviamente,viene svelato alla fine. Come sempre nell’illustre lancianese la trama è funzionale alle emozioni, ai ricordi, alle sensazioni che costituiscono la materia principale della sua opera letteraria. Chi lo ha apprezzato come poeta non potrà non stimarlo anche come narratore. Giuseppe Rosato, Storie di Ofelia. Universale Carabba pp. 120, Euro 12,50

Saggi/ Di Donato Il diavolo, i lupi, il pastore, il serpente, i sogni, i miracoli e le visioni: questi i personaggi e i temi che dominano il mondo delle credenze e delle tradizioni popolari di Pescosansonesco, un mondo che Mario Di Donato, pittore, musicista e scrittore, conosce bene e che racconta nei suoi coloratissimi quadri. Le edizioni Noubs pubblicano una raccolta dei suoi dipinti (19801995) accompagnata da un libro di racconti, semplci trascrizioni degli aneddoti e delle favole popolari tramandate oralmente dalla gente del paese. Il risultato è suggestivo: tra lo stile trecentesco della pittura di Di Donato e le leggende popolari, si ha l’impressione di fare un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio, e di entrare in un Abruzzo che parla la lingua del medioevo, come del resto il noto The Black (alter ego musicale dell’autore) fa da anni. Le opere pittoriche, presentate in innumerevoli mostre, sono state spesso apprezzate anche da molta critica; chissà che, oltre al poeta dialettale Alfredo Luciani e al Beato Nunzio Sulprizio (protagonista anche di qualche episodio narrato da Di Donato) tra qualche anno potremo annoverare anche il poliedrico artista tra i figli più illustri di Pescosansonesco?

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Fotografia Omaggio a Giuseppe Jammarrone Una mostra al Museo delle Genti d Abruzzo a Pescara e un volume edito da Textus per ricordare il grande fotografo na sorte benevola […] mi offriva l’incontro, per mia colpa tardivo, con un artista, Jammarrone, che così bene coglie e rappresenta l’umano senso, saldo, di tante nostre tradizioni. Ed ho cominciato così […] ad approfondire la mia conoscenza biografica e bibliografica del fotografo: non abruzzese di nascita, ma professionalmente e culturalmente poi fattosi profondamente tale, e già oggetto di significativi scritti da parte di Daniele Cavicchia, Maria Luisa Meoni, Anna Rita Severini, oltre che del fermo giudizio di Diego Carpitella che lo definì «un classico ormai della fotografia antropologica». D’altro canto lo studio delle immagini mi portava sempre più a convincermi che il lavoro fotografico di Jammarrone meritasse che l’attenzione si volgesse dagli oggetti che egli scelse all’occhio con cui li guardò: e cioè che, di là dall’indubbio valore documentario delle fotografie rispetto ai riti, si considerasse lo stile con cui il fotografo li colse nel loro complesso e nei singoli particolari. (Alberto Mario Cirese)

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icordo che, negli anni in cui queste feste erano ancora percepite a livello politico come inutili stagnazioni nel processo di formazione di una cultura nazionale, allorquando i rarissimi estranei, non ancora massificati dalla qualifica di turisti, venivano guardati con poca indulgenza dalla folla dei devoti, Jammarrone quasi tentava di nascondere l’attrezzatura fotografica, rendendo la sua presenza più discreta possibile, tanto che solo dopo molti anni mi sono accorta di essere stata anch'io catturata dal suo obiettivo, durante il rito delle farchie. A Fara Filiorum Petri come a Cocullo, a Taranta Peligna come a Pretoro, a Rapino, Loreto Aprutino, Pacentro ed in altre feste tradizionali, se la gente è ancora protagonista e se, pur essendoci la pro-loco e il comitato organizzatore, ognuno vive l’evento non come un mero spettacolo d'evasione ma in modo profondo e personale, lo si deve anche alla sensibilità di quanti, con Jammarrone, hanno studiato, compreso, documentato queste feste con delicatezza e rispetto. (Lia Giancristofaro)

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el gioco del “se…” avrebbe potuto essere di volta in volta pittore, architetto, poeta, antropologo, e non da ultimo confessore discreto e benevolo. E tutto questo, in fondo, lo è stato. Il suo “scatto”, come un’intuizione geniale, ha creato dipinti surreali, architetture fantastiche, immagini poetiche; ha evocato antichi rituali sottraendoli alla banalità delle feste di paese; ha messo a nudo, con sensibilità e pudore, l’anima di molti, artisti e gente comune. […] Perché per Jammarrone una foto non è solo un esercizio di stile, l’appagamento di una forma di narcisismo, ma un modo di comunicare a chi guarda le proprie emozioni, svelandole insieme a se stessi. (Daniele Cavicchia)

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• In alto un ritratto di Giuseppe Jammarrone. Sotto, I Serpari di Cocullo, le Verginelle di Rapino e le Farchie di Fara Filiorum Petri. Nella pagina accanto, Il Lupo di Pretoro


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“Jammarrone è uno straordinario fotografo di lettura antropologica, capace di appassionate esplorazioni”

(Sandro Visca)

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• Sopra, la processione di S.Andrea a Pescara; sotto da sinistra, il Bue di San Zopito a Loreto Aprutino, la corsa degli zingari di Pacentro. Nella pagina accanto, le Farchie di Fara Filiorum Petri.

“Ad ogni scatto ha cercato un senso di vita mai fine a se stesso” 90

(G. Fiducia)


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“Quando Giuseppe parla dei figli, si vedono nei suoi occhi dei clic che ripetono sempre la stessa emozione�

(Daniele Cavicchia)

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Cinema Registi Stefano Odoardi Stefano Odoardi, ci piace dirlo, è un validissimo autore. Un cineasta di razza, uno che in Abruzzo non si trova facilmente. E infatti vive per la maggior parte del tempo in Olanda, dove la proficua collaborazione con il produttore René Goossens gli ha permesso di realizzare diversi cortometraggi. Ma per girare Una ballata bianca, il film che in questo periodo lo sta portando agli onori della cronaca, come in altre occasioni ha scelto l’Abruzzo: Lanciano, L’Aquila, Bomba, il centro marsicano di Telespazio (e anche

qualche scorcio di una Pescara notturna) fanno da sfondo alla storia di una coppia di anziani, interpretati dagli straordinari Nicola e Carmela Lanci e raccontata dalla voce off di Arnoldo Foà. Descrivere un film di Stefano Odoardi non è cosa facile, tanto il suo linguaggio cinematografico è simbolico e intriso di poesia. Lui stesso ha detto che il suo è “un film sulla flessibilità della tristezza”, frase priva di significato ma altamente evocativa, come i suoi lavori precedenti, che hanno contribuito a farne uno dei registi più

apprezzati nei festival indipendenti di mezza Europa. E Una ballata bianca, il suo primo lungometraggio, ha ottenuto un importante riconoscimento anche oltreoceano, al Tiburon Film Festival (California), dove ha vinto il premio come miglior film, soffiandolo al diretto concorrente Istvàn Szabò (mica pizza e fichi) che si è dovuto accontentare, per il suo Relatives, di quello per la miglior regia. Auguri.

una compagnia di pellegrini in processione che passa accanto alle enormi pale eoliche che giganteggiano sull’intero crinale della montagna di Castiglione Messer Marino, sotto gli occhi di un misterioso personaggio che li scruta in silenzio. Un lavoro di un impatto visivo e simbolico notevole, grazie soprattutto alla presenza nel film del muratore Eliodoro Lalli, volto da pellicola pasoliniana. Fotografia e montaggio del film (16mm, b/n) sono di Luca Reale, fotografo giovane e capace, già collaboratore di Daniele Segre e di Marco Pontecorvo; come per

altri lavori di Viani, anche questo parte da una ricerca fotografica, che presto avrà vita autonoma in una pubblicazione. Quando la neve era bianca (16 mm. col. b&w) è un piccolo viaggio nei ricordi dell'infanzia, in quelle giornate invernali quando la neve, come per incanto, sospendeva il tempo e il sogno prendeva il sopravvento su tutto. From Switzerland to eternity, girato a Berna, è un omaggio affettuoso al premio Nobel H. Zseeman. La madonna del monte e Quando la neve era bianca saranno presentati ad agosto al Festival di San Pietroburgo che ha dedicato una retrospettiva all’autore.

Registi Dino Viani Dall’Abruzzo a Venezia. La bella avventura del regista teatino Dino Viani, che ha presentato alla 52a Biennale d’Arte di Venezia tre suoi lavori, parte per la precisione da Bolognano. Il dalla baronessa Lucrezia De Domizio Durini, ideatrice e curatrice del progetto Difesa della natura. The living Sculpture Kassel 1977-Venezia 2007: 100 giorni di conferenza permanente che ripropongono, a trent'anni di distanza e con gli sviluppi attuali, gli argomenti culturali, ambientali, sociali, economici, umanitari e politici discussi e analizzati da Beuys per 100 giorni a Documenta 6 a Kassel. In quest’ambito, nello Spazio Thetis all'Arsenale Bacini, è avvenuta, lo scorso 24 luglio, la proiezione di tre film di Viani: La Madonna del Monte, Quando la neve era bianca e From Switzerland to eternity. Il primo film segue

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Attori Giampiero Mancini Il volto della legge è abruzzese. La prossima stagione televisiva, quella delle fiction per intenderci, avrà un comune denominatore: Giampiero Mancini. Il popolare attore pescarese, da anni dedito al teatro sia come interprete che come autore, sarà impegnato dal prossimo settembre sui set delle nuove serie di Ris - Delitti imperfetti, Distretto di polizia e La squadra. Mancini prosegue, inoltre, la sua attività di insegnante di teatro presso la sua scuola (SMO Village) e di attore teatrale, con lo spettacolo Far finta di essere… Gaber: quattro date in Abruzzo (il 25 luglio a Tortoreto, il 30 ad Atri, il 14 agosto a Sambuceto e il 20 a Castel Del Monte) per riascoltare i successi del grande cantante-attore milanese.

Festival Frentania FFF, ovvero Frentania Film Festival. La voglia di cinema e l’entusiasmo di un piccolo gruppo di persone, sono alla base della nascita di questo nuovo appuntamento per i cinefili abruzzesi, che affolleranno Lanciano nelle serate estive dal 12 luglio al 28 agosto. Questa “rassegna di cinema d’autore e di produzioni indipendenti” avrà «la formula del laboratorio aperto (di critica e

New Media PhTv Nasce a Pescara, dall’iniziativa di un gruppo di giovani di varia estrazione professionale e di larghe vedute, una nuova realtà dell’affollato mondo della comunicazione. Si chiama PhTv (Ph, acido basico neutro) comincerà a trasmettere dal prossimo ottobre e si potrà vedere solo sul web (“unico

discussione) sulla nuova cinematografia italiana partendo dalle testimonianze di autori e filmaker abruzzesi o che vivono nella nostra Regione» spiega Rolando D’Alonzo, regista cinematografico e promotore dell’iniziativa. «Ci rivolgiamo soprattutto al pubblico giovane, affinché questa possa essere una premessa per fare un discorso a ritroso sull’eredità del cinema del passato, senza trascurare le potenzialità di quello attuale per l’avvio allo sviluppo di una nuova coscienza cinematografica». Il programma prevede, tra documentari e cinema, la proiezione di Senza la terra sotto i piedi di

Stefano Buda e I malestanti trent’anni dopo di Claudio Di Mambro, Luca Mandrile e Marco Venditti; poi La guerra in casa-La linea Gustav: Chieti e provincia di Anna Cavasinni e Fabrizio Franceschelli, Odore d’inchiostro di Haydir Maajeed e Antiquarium di Lorenzo Gobeo; infine L’ultimo treno di Daniel Carril. Per quanto riguarda la sezione-cinema, i film sono: Il giudizio universale di Luca Krstich, l’8 agosto; Il carro del sole di Gianni Di Claudio, il 9 agosto; Il segreto-desarraigo di Dino Viani, il 22 agosto.

mezzo di comunicazione in grado di permettere un libero scambio di opinioni”) all’indirizzo www.phtv.it. La neonata PhTv “non vuole vedere le cose da un altro punto di vista, si propone piuttosto di vederle in altri modi”, recita il “manifesto” redatto dai suoi creatori, e promette di “gridare la sua indipendenza da un sistema spietato di strumentalizzazione mediatica”. Di sicuro, quando il prossimo autunno il palinsesto sarà completo, ne vedremo delle belle. Auguri e buona visione.

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Tabù Le mappe della creatività Dopo aver visto, nello scorso numero, la notissima tecnica dei Sei cappelli per pensare di E. De Bono analizziamo un altro famoso metodo per sviluppare la creatività: le mappe mentali, conosciute anche come mind maps. Questa tecnica nasce a metà degli anni ’60 dalla fantasia e dall’applicazione di uno studioso, Tony Buzan, che rielaborò e semplificò le teorie di Novak ideando le mind maps. Una mappa mentale è un diagramma in cui idee e conoscenze sono rappresentate graficamente. Essa viene costruita su un foglio di carta a partire da un’idea principale che viene collocata al centro dello schema e ad essa vengono collegati i concetti più importanti disposti a raggiera in tutte le direzioni. Ognuno di questi concetti può

essere, a sua volta, collegato con le stesse modalità ad altri concetti secondari in una diramazione anche molto ampia. Colori, simboli e immagini rendono più chiara ed efficace la mappa. La disposizione “libera” consente di arricchire, anche in un secondo momento, la rappresentazione aggiungendo nuovi elementi e nuovi legami La mappa permette, in realtà, di trasformare il processo sequenziale del pensare in una rappresentazione multidimensionale e in un quadro d’insieme in cui è naturale muoversi liberamente, senza dover seguire alcun ordine prefissato. È possibile, quindi, spostarsi agilmente da un concetto all’altro; evidenziare immediatamente le gerarchie e le relazioni tra le idee; tracciare via via

Maledetta America Oggi vorrei spezzare una lancia a favore dei poveri maschietti. Per colpa della sciagurata colonizzazione della cultura nordamericana, quella che una volta era un’attività piacevole e svolta con profitto e diletto da tutti, ora è stata trasformata in un’attività sportiva, che deve essere valutata sotto il profilo della riuscita, in termini di tempo, intensità dei lamenti della partner, sommovimenti e squassamenti valutati dalla scala mercalli o richter, qualità e intensità del bollore che la coppia riesce ad emettere (ovvero in quanti secondi si riesce a liquefare un metro cubo di ghiaccio). Il tutto deve svolgersi fra un lui e una lei che nello spogliarsi devono, negligentemente e con eleganza, liberarsi di capi possibilmente firmati e comunque trendy. Intendo parlare del trombare, ragazzi: trombare è prima di tutto un’attività piacevole.

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Non si può ridurre ad un esame, con voto finale, in cui sono un esaminato ed una esaminatrice, che oltretutto finge di non avere una responsabilità in merito. Attualmente, dopo l’atto sessuale, che prevede che noi maschietti dobbiamo essere in tiro per un tempo mitico, talune si permettono anche di giudicare la prestazione, distruggendo, in un attimo, una reputazione che noi maschietti ci eravamo costruiti faticosamente in anni di duro lavoro sul nostro io. Parlo di responsabilità della cultura nordamericana, perché la pubblicità della televisione, giornali e cinema è la sciagurata sintesi del mito del successo ad ogni costo, di derivazione appunto nordamericana. Ora nei cinema, pubblicità, giornali, film porno, si vede il tipo che magari è stato appena sfraganato di mazzate, ho ha avuto la casa incendiata, la famiglia sterminata,

di Galliano Cocco

percorsi diversi. Questa modalità di lavoro riflette fedelmente (guarda caso) il funzionamento non lineare proprio del nostro cervello. In definitiva, le mappe mentali sono utili perché non seguono un metodo lineare, ma utilizzano strutture, connessioni, rapporti che esistono tra le informazioni, mettendo in pratica un metodo proprio dell’emisfero destro del cervello. Esse sono un ausilio mnemonico prezioso in quanto l’atto stesso di costruirle focalizza l’attenzione e la concentrazione. Inoltre attivano la ricerca nell’ampio hard disk del nostro cervello: infatti le difficoltà maggiori della memoria stanno nel ricordare informazioni isolate e non connesse tra loro.

di Giuseppe Capone

la macchina distrutta, un interrogatorio della polizia, una visita di un agente o una cartella delle tasse con importo stratosferico, che si mette allegramente a trombare. Il maschietto reale, invece, già ha un calo distruttivo della sessualità, dopo un telegiornale in cui ha visto Benedetto XVI, Gasparri, Berlusconi, Parisi, Mastella, oppure una bolletta dell’Enel, la risposta delle analisi del sangue: come può, in questi casi, piombare col suo “ordigno fine di mondo” o gioiosa macchina da guerra su una donna allupata e lasciarla distrutta ed ansimante? E poi se questa cultura nordamericana del cavolo o del successo ad ogni costo fosse veramente giusta, quanti giovani inglesi o americani sarebbero andati a far la guerra in Afghanistan o in Iraq invece di restarsene a trombare a casa? Meditate, gente, meditate.


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Le parole per dirlo Sono con un amico di un amico sotto il suo ombrellone. Siamo soli e ci conosciamo appena. Antonio descrive la sua passeggiata mattutina di venticinque chilometi. Ammirata penso alla mia pigra giornata al sole, lui, invece, avrebbe voluto fare anche una bella nuotata perché “Lavorano anche le braccia” ma si è appisolato suo malgrado al fresco della palma. Così mi informa dell’infarto che ha avuto otto anni prima e turbato racconta come, dopo il brutto evento, si sia ripiegato su se stesso e non abbia saputo reagire per tanto tempo, ingrassando anche tanto. “Otto anni, troppi” continua a ripetere. È questo che avviene a chi si ammala. Oltre all’alterazione fisica si aggiunge la vergogna per essere stati atterriti,

impauriti, vigliacchi. Una vera beffa. Al dolore si unisce il disagio per le proprie reazioni emotive. Chi ha una malattia irreversibile, di qualunque origine essa sia, regredisce, si impaurisce, si deprime, non vede vie d’uscita, a volte desidera la morte. Ma ci sono malattie croniche che possono autorizzare il malato ad abbattersi? Mi viene in mente il funerale di mio padre, quasi ottantenne. Molte persone pensavano di consolare noi parenti evocando disgrazie che oggettivamente erano più pesanti della nostra perdita. Ma il dolore non ha unità di misura oggettive, non esiste una scala di riferimento a cui tutti si possono rifare. Le

di Giovanna Romeo*

emozioni seguono regole individuali e quindi sono uniche e irripetibili. Solo in quest’ottica possiamo accettare che… un bambino pianga disperato perché la mamma è lontana da lui o perchè un giocattolo si è rotto… possiamo avvicinarci ad un adolescente che beve perché si sente solo e non regge il vuoto… ascoltare il profondo malessere di una persona anche se ha raggiunto un ottimo livello economico e sociale e desidera la morte. Antonio, non essere turbato dal tempo che hai impiegato a reagire: ognuno di noi merita tutto il tempo di cui necessita per affrontare la vita. La propria vita. *Psicologa e psicoterapeuta

Incontro APAI Il giorno 28 agosto 2007 alle ore 16 presso i locali di Via Puccini 85/2 si incontrerà per la prima volta il gruppo di iscritti all’APAI (Associazione Patologie Autoimmuni Internazionale) per iniziare un percorso psicologico sul disagio della malattia cronica. Chi è interessato può partecipare gratuitamente. Per informazioni: APAI - tel. 0859353560 www.assoc-apai.org e-mail:apai@assoc-apai.org

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Tabù Relazioni senti-mentali Los suspiros son aire y van al aire. Las lágrimas son agua y van al mar. Dime, mujer, cuando el amor se olvida, ¿sabes tú adónde va? Rima XXXVIII (G.A.Becquer)

L’argomento su cui conversare idealmente coi lettori mi viene dal titolo di un libro postumo (2003) di Stephen Mitchell L’amore può durare?. Trovo che sia una bella domanda. Soprattutto tenendo conto che come sottotitolo l’Autore chiarisce di che si tratta -Il destino dell'amore romantico- specificando che quello a cui allude non è quello dell’attrazione sessuale ma è proprio l’amore romantico, quello dei sentimenti. C’è ancora chi crede all’amore romantico? C’è davvero chi lo cerca? Cosa ci si aspetta dall’amore sentimentale? A partire da queste e da altre domande Stephen Mitchell alimenta i sogni e ci mette in guardia dalle trappole più insidiose, analizzando le componenti fondamentali della passione, il sesso, l’idealizzazione, l’aggressività, il senso di colpa e l’autocommiserazione. Mitchell mostra che l’amore può durare a condizione di non eliminare dalle relazioni cariche di affetto la tensione e il senso del rischio caratteristici della passione romantica. Tutto il resoconto “clinico” (non dimentichiamo che si tratta di uno psicoanalista) tende a vedere i limiti dell’ottica freudiana che attribuisce all’amore una essenza per lo più erotico-animalesca. Si chiede, infatti, se sarà vero quanto dice il padre della psicanalisi che dove si prova amore non si prova desiderio. Certo possiamo convenire che è facile abbandonarsi a un eros appagante dove il legame è occasionale, trasgressivo, segreto. La sicurezza della convivenza (tralasciamo la parola

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matrimonio) conduce via via a una stabilità delle emozioni e delle aspettative, ma il prezzo da pagare è piuttosto pesante sul piano del desiderio. Il piacere, si sa, si nutre di situazioni marcate dalla discontinuità. L’anomalia rassicura perché tiene lontano dai ritmi, dalle gerarchie valoriali della quotidianità. Le esperienze descritte da Mitchell sono una sorta di discorso amoroso dell’era contemporanea tutto giocato sul filo delle antinomie e delle contraddizioni che fanno emergere lo stallo esistenziale dell’uomo contemporaneo. Pare evidente nelle storie narrate una lesione della capacità di amare, da cui si evince che la vita è una sorta di trappola dove non si può né indietreggiare né procedere. Quello che colpisce nella narrazione dei protagonisti del libro non è tanto il discorso sull’emozione di cui si parla, quanto del rapporto dei sentimenti col fattore tempo. Il nocciolo del discorso, insomma, è la durata. Il senso della durata ci ossessiona. Ricordo un bambino che, a proposito della morte, mi chiese a bruciapelo: ma quanto dura la morte? Analogamente ci chiediamo: quanto dura l’amore? Insomma non è l’evento che conta ma la sua durata. Secondo l’autore il filo rosso sta nella convinzione che per coniugare la passione amorosa con l’ideale di durata nel tempo, bisognerebbe ripensare al valore che diamo al concetto di sicurezza e a quello di rischio. Se vogliamo sostenere le tensioni instabili dell’amore romantico –scrive– e se vogliamo riaffermare gli stati d’amore romantico nella stessa relazione nonostante il passare del tempo, allora dobbiamo astenerci dai tentativi che inevitabilmente compiamo per attrarre sotto il nostro controllo le esperienze emozionanti capaci di turbarci. Discorso saggio questo che mi porta per associazione alle parole

di Laura Grignoli*

della sfortunata poetessa russa Marina Cvetaeva quando afferma che la nostra casa la troviamo quando usciamo di casa e ci inoltriamo nella notte. Esiste un dentro e un fuori tra cui oscilliamo continuamente: il dentro è dato dalle abitudini emotive, dal gioco prevedibile e rassicurante degli affetti consolidati; il fuori è lo spazio di una passione di cui si percepisce sia la vitalità sia la minacciosità. Cosa scegliere? La sicurezza o il rischio? È possibile scegliere? Sì, è possibile fare una scelta; molto difficile è compiere una propria scelta. Viviamo un momento in cui ciascuno si vive una dose di altrove in ogni qui. Dividiamo la realtà dalla fantasia, i desideri dai bisogni, le paure dalle certezze. Schierarsi per una cosa o per un’altra, per un’idea o per il suo contrario fa sentire integrati da qualche parte, tranne che dentro se stessi. Ma per tornare all’argomento, ovvero all’amore romantico e alla quantificazione di una sua durata mi rifaccio alle conclusioni dell’autore. L’amore romantico non si coltiva risolvendo le tensioni presenti in una relazione, scoprendo un segreto o cercando in tutti i modi di inventare la novità. Coltivare l’amore romantico in una relazione è un’operazione che ha bisogno di due persone che sono affascinate dai modi in cui, individualmente e insieme, generano forme di vita su cui sperano di poter contare. Implica una tolleranza della fragilità di queste speranze intrecciate di realtà e fantasie, e una comprensione di come, nella ricchezza della nostra vita, le realtà divengano spesso fantasia, e le fantasie divengano spesso realtà.

*Psicologa e psicoterapeuta


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