RISK_12_web

Page 1



risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA



risk

56

quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

M

A

I

O

Americhe

Marco Saccone

Parola d’ordine, niente tagli! Andrea Nativi

Medioriente Emanuele Ottolenghi

Gli alleati e il loro scontento Stefano Silvestri

Americhe Riccardo Gefter Wondrich

Le preoccupazioni dell’Europa

Africa

John R. Bolton

Maria Egizia Gattamorta

Obama ha fatti i conti senza l’oste

pagine 60/65

Anonimus

Tre presidenti, ma una sola vision Mario Arpino

LA STORIA

La Casa Bianca sempre più in guerra

Virgilio Ilari

Pietro Batacchi

pagine 66/71

L’industria militare mette le ali Michele Nones e Alessandro Marrone

pagine 5/39

LIBRERIA

Mario Arpino Andrea Tani

Editoriali

R

pagine 72/79

Michele Nones Stranamore pagine 40/41

SCENARI

DIRETTORE Andrea Nativi •

L’eurozona a rischio Bretton Woods John Makin

L’araba fenice irachena Osvaldo Baldacci

Obama & Netanyahu, nemici-amici Pierre Chiartano pagine 42/59

SCACCHIERE Unione Europea Alessandro Marrone

CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Pier Francesco Guarguaglini

Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa

RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000 Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione Cinzia Rotondi Abbonamenti 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma


IL PENTAGONO VA ALLA GUERRA La Quadrennial Defense Review è l’importante documento che contiene gli orientamenti strategici della politica di Difesa degli Stati Uniti. È il frutto di un lavoro complesso condotto da centinaia di analisti ed ufficiali impegnati per mesi a predisporre i documenti di base, elaborati sulla base delle direttive del Segretario alla Difesa, il quale recepisce a sua volta le decisioni in materia Difesa assunte dal governo e dal presidente Usa. In questo caso Barack Obama. Il quale si è ben guardato dal ridurre le risorse dedicate alla Difesa malgrado il contesto economico nazionale ed internazionale. La Qdr è un documento, prescritto ogni quattro anni dal Congresso, di grande importanza e trasparenza, che va letto in “rete” con gli analoghi documenti che riguardano altri settori dell’Amministrazione. C’è un documento di indirizzo analogo per il Dipartimento di Stato, per la Comunità Intelligence e così via. Quella del 2010 è anche la prima vera Qdr “di guerra”, i due precedenti documenti infatti non avevano questa caratteristica, quasi gli impegni militari in Afghanistan ed in Iraq fossero rilevanti sì, ma non così cruciali per gli Stati Uniti. Proprio per questo uno dei saggi che costituiscono questo dossier di Risk è dedicato alla disamina della situazione nei teatri di guerra e all’impegno attuale e in prospettiva delle forze armate statunitensi sui diversi fronti. Se quella di quest’anno non è una Qdr di vera “rottura” rispetto al passato dipende dal fatto che gli Usa sono in guerra e questo richiede una notevole continuità. Inoltre il Segretario alla Difesa è Robert Gates, che aveva preso il posto di Donald Rumsfeld nel corso della seconda presidenza Bush ed aveva già impostato un cambiamento di rotta che con la presidenza Obama è continuato e si è rafforzato, ma nel segno di una sostanziale continuità, pur con qualche novità, anche importante. Abbiamo cercato di analizzare e contestualizzare la Qdr, esaminandone anche con un certo dettaglio il contenuto e le sue conseguenze per quanto riguarda la politica di difesa, la struttura delle forze, gli investimenti, i rapporti con gli alleati ed al contempo abbiamo approfondito aspetti specifici, quale i problemi e le prospettive che pone a livello complessivo di politica internazionale e di relazioni con i partner, oppure le nuove scelte per quanto riguarda il deterrente nucleare, la sua riduzione e il contrasto alla proliferazione nucleare o ancora i cambiamenti che la Qdr impone al complesso industriale-militare. La Qdr, pur nella sua stringatezza, poco più di un centinaio di pagine è veramente la “chiave” per comprendere come cambia ed evolve lo strumento militare dell’unica Superpotenza. Ne scrivono: Mario Arpino, Pietro Batacchi, John R. Bolton, Andrea Nativi, Michele Nones e Alessandro Marrone, Stefano Silvestri e un “insider” che abbiamo firmato come “Anonimus”.


D

ossier

IL NUOVO CORSO DEL PENTAGONO: LA QUADRENNIAL DEFENSE REVIEW

PAROLA D’ORDINE: NIENTE TAGLI! DI

C

ANDREA NATIVI

i voleva un grand commis repubblicano in grande sintonia con un presidente democratico per mettere a punto la nuova politica di difesa statunitense. E il risultato raggiunto da questo “dream team” formato da Barack Obama e Robert Gates è davvero quello di cui un’America in guerra aveva bisogno. La Quadrennial Defense Review presentata lo scorso febbraio è il documento

di indirizzo che definisce non solo la politica di difesa, ma anche le scelte strategiche, organizzative e gli investimenti del Paese che più spende per la propria sicurezza. Già, chi si aspettava che Obama avrebbe tagliato la spesa militare per contenere il deficit federale o per finanziare altri progetti ha dimostrato ancora una volta di non comprendere che Obama ha sì regalato agli Usa quella riforma del sistema sanitario che rischia di costargli molto caro alle elezioni di mid term il prossimo novembre, ma è sempre il Comandante in capo di un paese in guerra. Quindi niente tagli. E così lo stanziamento richiesto per il FY 2011 ammonta a 708 miliardi di dollari, compresi quasi 160 miliardi di dollari per le spese di guerra in Iraq/Afghanistan. La spesa per la difesa continua a crescere di un bel 2% al netto dell’inflazione e il bilancio “core” non viene affatto ridimensionato. Dunque la spesa militare cresce meno, ma certo non diminuisce. E non è destinata a scendere neanche in futuro. Nel periodo 2001-2011, il bilancio ordinario per la difesa Usa è aumentato del 40% in termini reali. L’aumento è stato invece del 70%, sempre in termini reali dal 2001, considerando anche le “spese di guerra”. Come termine di

comparazione si può considerare che il picco annuo di spesa durante la guerra in Vietnam è stato, in termini reali, di 534 miliardi di dollari… i 708 miliardi di dollari del FY 2011 rappresentano quasi il 33% in più, ovvero il valore più alto dal 1948. Tuttavia in rapporto al Pil (Gdp), nel periodo 1948-2011 la spesa per la difesa ha rappresentano 7,6%, mentre oggi siamo al 4,6% considerando il “War Supplement” (3,5% se riferito al solo bilancio ordinario), ovvero il 18% del Bilancio Federale. Non è poco, ma è sostenibile da un Paese in guerra. Secondo alcune analisi effettuate dal Pentagono è anzi probabile che un livello di «impegno” militare più o meno equivalente a quello attuale diventi una costante per il prossimo decennio»…almeno. E del resto oggi gli Usa hanno dispiegati in teatro di guerra o comunque in zona operativa quasi 400mila uomini. Di Lunga Guerra si parlava nell’era Bush. E le cose non cambiano con Obama. La Quadrennial Defense Review 2010 risponde però compiutamente alle sfide che gli Stati Uniti stanno affrontando e saranno chiamati ad affrontare in futuro, cosa che non accadeva certo nella sua precedente edizione. 5


Risk

Lo stanziamento richiesto per il FY 2011 ammonta a 708 miliardi di dollari, compresi quasi 160 miliardi di dollari per le guerre in Iraq/Afghanistan. La spesa per la difesa continua a crescere di un bel 2% al netto dell’inflazione e il bilancio “core” non viene affatto ridimensionato La Qdr è primariamente dedicata a soddisfare le esigenze che derivano dai conflitti in corso, senza dimenticare l’investimento a lungo termine indispensabile per mantenere una leadership tecnologica ed operativa nei confronti di potenziali avversari, a partire dalla Cina. Un’altra novità della Qdr consiste nel recepimento dell’approccio obamiano al multilateralismo e all’engagement degli alleati, con una netta inversione di tendenza rispetto alla concezione precedente, che prevedeva sostanzialmente un approccio totalmente indipendente ai problemi della difesa e sicurezza. E la Qdr chiarisce ampiamente che ci si penserà due volte prima di impegnare le Forze Armate in nuovi conflitti e prima di farlo si parlerà con gli alleati e si valuteranno pro e contro e gli interessi in gioco e si dovrà essere certi che la missione sia chiara e realistica e che ci siano le risorse necessarie ed un piano adeguato per ottenere il successo. Evidentemente il “peso” della sconsiderata guerra all’Iraq ha permeato la politica Usa come il Pentagono. Non solo, il Pentagono si attrezzerà per poter aiutare i Paesi amici in difficoltà nonché per “costruire” rapidamente Eserciti e forze di sicurezza “locali”, in modo che non si ripetano i buchi di sicurezza che tanto sono costati e costano in Iraq ed Afghanistan. Non 6

di meno gli Usa sono e rimangano l’unica nazione capace di proiettare potenza e sostenere operazioni su vasta scala a grande distanza e per lungo tempo. Ma il contributo dei partner non è affatto trascurato o trascurabile. Altra novità strategica consiste nell’abbandono del precedente obiettivo strategico: la capacità di combattere e vincere simultaneamente due conflitti regionali. Lo scenario militare e strategico rende invece necessario essere in grado di impegnarsi contemporaneamente su più fronti ed in modo diverso, anche con minimo preavviso, compreso il “fronte domestico” in caso di attacco o di catastrofe naturale (la lezione di Katrina a New Orleans non è stata dimenticata). Mentre Obama cavalca la battaglia “politica” volta ad un progressivo disarmo nucleare, gli Usa non trascurano ed anzi aggiornano il proprio arsenale e soprattutto dedicheranno sforzi crescenti a contrastare la minaccia costituita dalla proliferazione delle armi per la distruzione di massa, quelle nucleari in primis. Ed è significativa la costituzione addirittura di un Joint Task Force Elimination Headquarters volto appunto ad eliminare tali armi: questa si è che è controproliferazione. E se il deterrente strategico nucleare viene ridimensionato, si conferma l’importanza della Difesa Antimissile, che non viene affatto messa in sordina come qualcuno poteva pensare. La difesa antimissile viene però rifocalizzata e i soldi concentrati su un più limitato numero di programmi. Diventa sempre più importante conquistare e mantenere la supremazia nel campo della cyberwar, una forma di conflitto che si combatte in qualche misura anche in tempo di…pace. E gli Usa in questo campo stanno compiendo investimenti massicci, hanno sviluppato una dottrina e creato comandi dedicati e interforze da cui dipendono cyberguerrieri. Nessun Paese ha sviluppato capacità di tale livello, sia difensive che offensive. Altrettanto prioritario è il dominio in quello che è destinato a diventare un nuovo campo di battaglia,


dossier lo spazio. Gli Usa hanno sempre goduto di assoluta superiorità in questo campo, che neanche l’Urss al suo apice riuscì mai a contrastare. Ora però la situazione sta cambiando, l’accesso allo sfruttamento militare dello spazio è alla portata di sempre più paesi che vi dedicano risorse significative (Cina ed India ad esempio) mentre diversi programmi spaziali militari statunitensi non hanno dato i risultati sperati a dispetto del dispendio di denaro. Non è un caso se il documento enfatizza le capacità antisatellite sviluppate dalla Cina. Parallelamente dovrà continuare a cambiare la consistenza, la struttura e le capacità delle forze armate, per ottenere una maggiore flessibilità ed una superiore “impiegabilità”, privilegiando le componenti oggi più impegnate, a partire da quella per le operazioni speciali e “riscoprendo” ufficialmente le capacità controguerriglia (Coin) che erano sparite, anche terminologicamente, dal lessico del Pentagono fin dalla fine del conflitto in Vietnam.

La mobilità rimane importante,

ma non a discapito della “protezione”, quindi i mezzi, i sistemi, i veicoli devono per prima cosa fornire a chi li utilizza la massima sicurezza, anche se questo va a detrimento della leggerezza e della mobilità strategica. Certo, in futuro i mezzi dovranno essere sicuri, ma anche leggeri. Per ora però è il primo requisito ad avere rilevanza. E lo conferma il fatto che i miliardi di dollari investiti nell’acquistare a ritmo folle i veicoli protetti pesanti Mrap (solo l’industria Usa è capace di queste incredibili accelerazioni produttive, come dimostrò nella II Guerra Mondiale ed ha ripetuto in questi anni per rispondere all’emergenza) non saranno affatto sprecati: saranno invece Esercito e Marines a modificare la struttura e la organizzazione dei propri reparti per sfruttare questi mezzi super-pesanti. Una scelta all’insegna del pragmatismo. E visto che discettiamo di terminologia, ogni Qdr, ogni Amministrazione è caratterizzata dall’utilizzo ripetuto di parole e slogan: nell’era di Rumsfeld era in

voga Transformation, ora invece si utilizzano Ribilanciamento (Rebalancing) e Riforma (Reform) e non solo nel campo della difesa. Quello che conta però è la sostanza e la Qdr delinea chiaramente il nuovo mandato per la macchina militare statunitense, per la quale ci sono quattro priorità e sei “missioni”. Le priorità sono le seguenti: • prevalere nelle guerre in corso; • prevenire ed esercitare deterrenza per evitare nuovi conflitti; • prepararsi per sconfiggere gli avversari e avere successo in una vasta gamma di contingenze; • preservare e potenziare le forze armate basate esclusivamente su volontari. Quanto alle missioni assegnate, da cui discende il “ribilanciamento” di politica di difesa, dottrina e capacità militare, esse sono: • difendere gli Stati Uniti e supportare in patria le autorità civili; • ottenere il successo nelle operazioni controguerriglia, di stabilizzazione e controterrorismo; • costruire le capacità nel campo della sicurezza dei paesi partner; • scoraggiare e sconfiggere gli attacchi in tutti quelli scenari nei quali si vuole negare “l’accesso” alle forze statunitensi; • prevenire la proliferazione e contrastare le armi per la distruzione di massa; • operare in modo efficace nel cyberspace; Per realizzare tutto questo la Qdr spiega che sarà necessario spendere meglio e in modo diverso le risorse allocate ed anche rifondare il rapporto tra il Pentagono e il complesso industriale militare, cambiando completamente il modo in cui la Difesa acquista i sistemi, le tecnologie e gli equipaggiamenti dei quali ha bisogno. In poche parole: si deve fare più in fretta nel dare ai warfighters ciò di cui hanno davvero bisogno e chi non mantiene le promesse e non rispetta i termini contrattuali…pagherà caro. Al contempo è stata anche decisa una completa revisione della politica export e di cooperazio7


Risk ne industriale nel campo della Difesa, con un allentamento degli attuali strettissimi limiti. Un progetto però che non troverà una agevole accoglienza in un Congresso molto sensibile alle sirene del protezionismo. In parte, il percorso all’insegna del rinnovamento il segretario alla Difesa Robert Gates lo aveva già avviato durante la presidenza Bush, ma il processo è stato accelerato dopo il cambio della guardia alla Casa Bianca ed è già stato implementato con la proposta di bilancio per il FY 2010 e viene ora confermato con la proposta per il FY 2011. Gates non ha avuto esitazioni a cancellare (o meglio, a provare a cancellare, ché il Congresso spesso è recalcitrante ad accettare certe scelte) una serie di grandi programmi di acquisizione di nuovi sistemi d’arma, decidendo che certe capacità non erano più necessarie o, quantomeno, il livello raggiunto si poteva considerare sufficiente rispetto alle reali esigenze. La scure ha anche tagliato programmi in difficoltà a causa di ritardi, aumento astronomico dei costi, problemi tecnici. In altri casi semplicemente si è deciso che nel nuovo contesto, con più guerre in corso, la priorità deve essere assegnata a ciò che può immediatamente aiutare i soldati a prevalere sul campo di battaglia, a proteggerne la vita,

tutto il resto o quasi non ha la stessa urgenza e in molti casi può attendere. Anche perché il livello della minaccia convenzionale che gli Usa potrebbero affrontare a breve o medio termine in un conflitto tradizionale è tutto sommato relativamente modesto, se non quantitativamente, certo qualitativamente. E gli equilibri militari non cambieranno, perché gli Usa continuano ad investire più di tutti i potenziali avversari messi insieme. In ogni caso Gates ha fermato l’acquisizione dei super velivoli da combattimento F-22, ha deciso di sospendere l’acquisto degli aerei da trasporto strategici C-17, ha cancellato lo sviluppo di un secondo tipo di motore per i caccia F-35, un pezzo alla volta ha smantellato il programma di rinnovamento ipertecnologico dell’Esercito, l’Fcs, ha affondato ben due programmi della Marina, quello per i supercostosi cacciatorpediniere Ddx e quello per gli incrociatori Cgx, ha rinviato la costruzione di nuove portaerei, ha cancellato il programma per un aereo spia navale, ha stoppato il progetto per nuovi satelliti da sorveglianza con sensori all’infrarosso. Tutto questo consentirà di conseguire almeno parte dei risparmi desiderati, risparmi che, all’insegna del rebalancing saranno re-investiti in modo diverso.

Il bilancio della Difesa Usa FY 2010 e FY 2011 (valori in miliardi di dollari)

Personale Esercizio Ammodernamento Ricerca e sviluppo Edilizia militare Budget di base Spese di Guerra Bilancio complessivo 8

FY 2010 (Approvato dal Congresso)

FY 2011 Richiesta al Congresso

Crescita reale (FY 2010 to FY 2011)

10-Anni Incremento reale annuale (FY 2000 to FY 2010)

$135.0 $184.5 $104.8 $80.1 $26.4 $530.7 $162.7 $693.4

$138.5 $200.2 $112.9 $76.1 $21.1 $548.9 $159.3 $708.3

1.5% 7.4% 6.5% -6.0% -20.8% 2.3% -3.1% 1.0%

3.8% 3.1% 4.2% 5.1% 6.0% 3.9% N/A 6.7%


dossier Alcuni programmi saranno quindi accelerati, altri procederanno alla velocità prevista, ma ci saranno anche nuove iniziative, ad esempio quella volta ad acquisire velivoli leggeri controguerriglia, probabilmente con propulsione ad elica, semplici, economici, disponibili rapidamente. Aerei dei quali l’Aeronautica statunitense avrebbe fatto volentieri a meno malgrado si tratti di mezzi di cui c’è oggettivamente un urgente bisogno. Si spenderanno poi molti soldi per potenziare le flotte elicotteri, per ora continuando ad acquistare versioni migliorate dei modelli già in servizio, non dimenticando però investimenti a lungo termine per riportare negli Usa quella leadership nel campo dell’ala rotante che è stata perduta a vantaggio dell’Europa. Ancora, aumenteranno gli investimenti nei velivoli senza pilota (Uav), impiegati essenzialmente per ricognizione, intelligence, sorveglianza ma anche, come accade costantemente in Pakistan, per attacchi mirati. È semplicemente incredibile la rapidità con la quale gli Usa sono arrivati ad impiegare migliaia di velivoli robotici , in una gamma dimensionale che va dal minuscolo al colossale. E la Qdr vuole che gli Uav aumentino ancora di più, in modo da averne, ad esempio, 65 per la sorveglianza di teatro costantemente in volo, giorno e notte.

Tutto questo beninteso non esclude gli investimenti in sistemi ad alta tecnologia: ne è una conferma “l’emersione” dal mondo classificato del programma per un nuovo bombardiere strategico (che serve anche a mantenere impegnata la base industriale aeronautica) e quello per un missile da crociera a lungo raggio ed alta velocità. Armi che contro i talebani sono del tutto inutili. Lo stesso si può dire per le capacità navali subacquee, con una accelerazioni dei programmi per i nuovi sottomarini d’attacco, per quelle spaziali, quelle di attacco elettronico Una buona parte dei soldi disponibili sarà dedicata al personale. Il Pentagono si prende cura dei suoi uomini e delle sue donne e vara non solo aumenti delle retribuzioni, ma anche iniziative per

La Qdr è primariamente dedicata a soddisfare le esigenze che derivano dai conflitti in corso, senza dimenticare l’investimento a lungo termine utile a mantenere una leadership tecnologica ed operativa nei confronti di potenziali avversari, a partire dalla Cina migliorare la qualità delle vita di chi indossa un’uniforme, così come delle famiglie dei militari, con una particolare attenzione per i feriti, molti dei quali vengono strappati alla morte solo grazie ai prodigi della nuova medicina militare e di combattimento o per le vittime di stress post traumatico, che ormai si contano a decine di migliaia. Dopo gli scandali e i disastri della organizzazione della sanità militare le cose sono decisamente cambiate (anche perché Gates ci mette poco per mandare in pensione o licenziare chi sbaglia) in meglio ed il Congresso non deve più essere convinto ad aprire i cordoni della borsa per finanziare i programmi di aiuto ed assistenza ai veterani ed ai feriti che tornano in Patria. Un altro aspetto importante dell’attenzione per il personale consiste nell’ampliamento della consistenza degli organici, in particolare di Esercito e Usmc, le due Forze Armate più massicciamente impegnate nei conflitti. In questo le amministrazioni Bush (la seconda) ed Obama seguono una identica linea. Oggi gli organici hanno raggiunto una consistenza tale da consentire, anche grazie alla totale riorganizzazione delle forze, con il “recupero” di decine di migliaia di militari ai ruoli operativi, di sostenere gli sforzi militari in atto senza dover costringere il personale a turni troppo lunghi e ripe9


Risk tuti troppo frequentemente. L’obiettivo, per il personale in servizio attivo - trascorrere due anni nelle proprie basi stanziali per ogni anno “al fronte” - è stato raggiunto e per il personale della Riserva e della Guardia Nazionale e si sta arrivando a cinque anni tranquilli per ogni anno di mobilitazione. L’emergenza dunque è stata superata. Nel corso degli scorsi anni l’enfasi era posta nell’aumentare rapidamente la forza organica delle due Forze Armate più impegnate, questo anche riducendo contemporaneamente il personale di Marina ed Aeronautica, oltre che con programmi di reclutamento e di “re-arruolamento” molto aggressivi, che hanno portato a chiudere un occhio o entrambi sulla qualità delle reclute. Ora queste misure di emergenza non sono più necessarie, si è arrivati ad una stabilizzazione, mentre la crisi economica rende molto competitiva una carriera militare anche per chi in precedenza non la avrebbe presa in considerazione. Si è arrivati al punto che il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale Casey, ha spiegato al Congresso che non è più necessario prevedere aumenti straordinari e temporanei degli organici, il personale a disposizione è sufficiente. Certamente un “ribilanciamento” c’è stato ed è stato tutto in favore di Usmc e Army. Ma forse la Forza Armata che ha ricevuto il maggior potenziamento, e questo fin dai primi anni dell’era Bush, è l’Usscom, il Comando delle Forze Speciali che, negli Stati Uniti, un passo alla volta, è diventato quasi una Forza Armata indipendente. Tradizionalmente le Forze Speciali hanno nel il singolo operatore il sistema d’arma principale e per formare uno specialista con la qualità richiesta si richiedono anni di addestramento ed una selezione severissima. Non di meno le Forze Speciali continuano a crescere e per il prossimo anno è previsto un incremento di altri 2.800 uomini. Non solo, il bilancio del Comando a sua volta galoppa e crescerà del 5,7% del FY 2011, mentre praticamente tutti i programmi di acquisizione di nuovi sistemi, arma10

menti e materiali vengono approvati e ricevono anche la massima priorità. Questo del resto è naturale visto che sono proprio i membri delle Forze Speciali ad avere il più massacrante ritmo di impiego, senza che sia poi possibile aumentare rapidamente e con grandi numeri la forza impiegabile. L’espansione di questi anni, infatti, ha avuto un “costo” sulla qualità, mentre i ranghi dei veterani sono stati falcidiati. Per fortuna la componente e le capacità controguerriglia delle Forze Armate “regolari” sono state potenziate (la Marina ad esempio ha ricostituito le forze leggere da impiegare lungo le coste, i corsi d’acqua interni, recuperando quanto dimenticato dai tempi del Vietnam) ed hanno potuto, almeno in parte alleviare il livello di impegno delle più pregiate Forze Speciali, che solo ora cominciano a poter avere un po’ di respiro. Il ribilanciamento significa anche non pretendere che tutte le attività debbano per forza essere svolte da personale in uniforme: facendo di necessità virtù i militari hanno imparato il concetto dell’”approccio globale” che è fatto proprio anche dalla Qdr e che in pratica significa impiegare tutte le risorse di cui l’Amministrazione può disporre, compreso il personale civile, a partire da quello dello State Department che infatti è massicciamente mobilitato per la “surge” in Afghanistan. Tutto questo avrà anche l’effetto di ridurre, in qualche misura, il ricorso ai contractor civili, ai quali si sta cercando di togliere ogni “visibilità” mediatica, e che comunque vedranno ridursi lo “spettro” di missioni e ruoli appaltati. Anche se è ben chiaro che Forze Armate professionali come quelle Usa non possano assolutamente fare a meno dei servigi delle società specializzate. Ecco perché la Total Defense Work Force includerà militari, civili…ma anche una folta schiera di contractor. Del resto ciò è naturale considerando la natura complessa delle sfide da affrontare, che spesso avranno un carattere, cosiddetto “ibrido”. Da tutto questo deriva la struttura delle forze che la Qdr delinea per la durata del piano quinquennale FY 2011-2015.


dossier

STRUTTURA DELLE FORZE 2011 – 2015 ESERCITO 4 Comandi di Corpo d’Armata 18 Comandi di Divisione 73 Brigate da Combattimento, di cui 45 active e 28 reserve (così suddivise) • 40 di Fanteria • 8 Blindate leggere • 25 Pesanti 21 Brigate di Aviazione dell’Esercito (13 active 8 reserve) 15 Battaglioni antimissile Patriot, 7 Battaglioni antimissile Thaad

MARINA 10-11 portaerei d’attacco, con 10 stormi aerei imbarcati 84-88 unità navali principali da combattimento, comprese 21-32 unità dotate di missili antimissile Aegis/Standard 14-28 unità navali minori da combattimento 14 unità cacciamine 29-31 navi da assalto anfibio 53-55 sottomarini nucleari d’attacco 4 grandi sottomarini nucleari lancia missili da crociera 126-171 aerei basati a terra, con o senza equipaggio, da pattugliamento, sorveglianza e guerra elettronica 3 gruppi preposizionati di unità da trasporto per supporto alle forze terrestri 30-33 unità navali da supporto logistico di combattimento 17-25 unità navali di supporto o sede di comando 51 navi da trasporto strategico di tipo Ro-Ro

MARINES 3 MEF’s (Marine Expeditionary Forces) 4 Divisioni (3 Active, 1 Reserve) • 11 reggimenti di fanteria • 4 reggimenti d’artiglieria 4 Stormi aerei (con 6 gruppi di aerei, 7 gruppi elicotteri, 4 gruppi comando, 4 gruppi supporto) 4 Gruppi Logistici (con 9 reggimenti) 7 Staff di comando per reparti di proiezione

AERONAUTICA 8 Stormi per sorveglianza e intelligence (con fino a 380 velivoli di prima linea) 30-32 Stormi da trasporto e rifornimento in volo (ciascuno con 33 aerei di prima linea) 10-11 Stormi da attacco (ciascuno con 72 aerei di prima linea) 5 Stormi da bombardamento (con complessivamente fino a 96 aerei di prima linea) 6 Stormi da caccia (ciascuno con 72 aerei di prima linea) 3 Stormi comando e controllo e 5 Centri di comando operazioni aeree e spaziali 10 Stormi operazioni spaziali e cyberspace

FORZE SPECIALI Circa 660 team operativi 3 Battaglioni Ranger 165 elicotteri e convertiplani per trasporto e supporto di fuoco Questa struttura delle forze lascia discreti margini di manovra al Pentagono per “aggiustare il tiro” in corso d’opera e presenta numeri che potrebbero sembrare molto riduttivi rispetto alla situazione attuale. Ma così non è, perché in molti casi, ad esempio in campo aeronautico, si considerano solo gli aerei di prima linea, non quelli della riserva d’attrito, in manutenzione, utilizzati per addestramento etc. Un taglio dei mezzi rispetto alla precedente struttura di forze c’è, ma in compenso è aumentato il numero dei soldati e la capacità di mettere e mantenere a lungo boots on the ground. Ed è ciò che serve per avere la meglio nei conflitti che gli Usa stanno combattendo.

11


Risk

IL PENTAGONO CONTINUA A RAGIONARE DA SOLO: MA SI RIVELERÀ UN ERRORE

GLI ALLEATI E IL LORO SCONTENTO DI

I

STEFANO SILVESTRI

n sintesi possiamo affermare che gli Usa divengono molto più realisti e abbandonano molte delle illusioni del loro più recente passato, ma che tutto ciò, pur andando in genere in una direzione auspicata dagli alleati, potrebbe risolversi in maggiori problemi, in primo luogo per gli alleati stessi. Non è che ogni nuovo presidente cambi la politica estera e di difesa degli Stati Uniti, né

tanto meno il quadro delle alleanze internazionali. Abbiamo al contrario l’esperienza di un alto tasso di continuità, anche se a volte mascherato da qualche mutamento di linguaggio o di accento: e Barack Obama non fa veramente eccezione. Tuttavia, al di là dell’ideologia e dei pronunciamenti politici, il fatto è che la situazione internazionale sta rapidamente evolvendo e che gli Stati Uniti e i loro alleati debbono far fronte a problematiche militari e di sicurezza significativamente diverse da quelle del passato. Ciò richiede importanti adeguamenti sia in campo dottrinale, sia per quel che riguarda la pianificazione operativa e finanziaria, sia infine la gestione delle coalizioni e delle alleanze. La continuità quindi deve far posto ai mutamenti, e non è mai una cosa facile o indolore. Gli Stati Uniti si confrontano alla moltiplicazione degli scenari di crisi che mettono a dura prova le loro pur ampie risorse. Dalla fine della Guerra Fredda, lo scenario di riferimento usato dal Pentagono per pianificare le Forze al suo comando puntava a disporre di capacità sufficienti a condurre contemporaneamente due importanti guerre “regionali” (così definite per distinguerle dalla passate guerre mondiali). Oggi 12

invece il Pentagono si è esercitato su tre diversi scenari, ognuno volto a esaltare l’importanza di disporre di diverse capacità. Il primo scenario prevede che gli Usa siano contemporaneamente impegnati in una grande operazione di gestione di crisi e stabilizzazione, in un aperto conflitto con un importante attore regionale, tecnologicamente avanzato, e in operazioni di concorso alle autorità civili per rispondere ad una catastrofe umanitaria o ambientale sul territorio nazionale. Ciò dovrebbe dimostrare la capacità delle Forze armate di condurre una guerra regionale pur mantenendo importanti capacità sia all’estero che in casa propria. Il secondo scenario, più simile a quello tradizionale, prevede di affrontare allo stesso tempo due avversari regionali, mentre il restante delle Forze viene mantenuto al più alto livello di allarme, sia in patria che all’estero. È lo scenario volto a testare la capacità delle Forze di condurre importanti operazioni militari congiunte. Il terzo scenario prevede infine una grande operazione di gestione di crisi e stabilizzazione, una grande operazione dissuasiva e di contenimento in un teatro operativo separato dal precedente, un conflitto di media importanza caratterizzato da


dossier operazioni contro-guerriglia e attività di supporto alle autorità civili in patria. Esso mira in particolare ad evidenziare le necessità delle forze speciali e di contro guerriglia nonché le procedure e le capacità di stabilizzazione, state-building, contenimento e dissuasione. Si delinea insomma una crescente consapevolezza americana della necessità di pianificare risposte a scenari molto diversificati che potrebbero dover essere affrontati in contemporanea, con forze certo importanti e tecnologicamente prevalenti, ma allo stesso tempo relativamente scarse sul piano numerico e obbligate ad adattare la loro dottrina operativa a situazioni estremamente diverse tra loro. Ciò sottolinea non solo l’esigenza di aggiornare la propria strategia, ma anche e soprattutto quella di disporre di Forze con capacità, addestramento e armamenti distinti e dissimili, che tuttavia devono essere in grado di operare congiuntamente. Anche da ciò deriva l’esigenza, più volte sottolineata nella Qdr, di migliorare le capacità di comunicazione di dati a tutti i livelli e tra tutte le Forze, di accrescere le capacità Isr (Intelligence, Ricognizione e Sorveglianza), di rendere più sicuro lo spazio cibernetico (anche attraverso la costituzione di un apposito Comando Strategico), di intensificare gli investimenti per l’uso sicuro dello spazio extraterrestre di ampliare e arricchire le capacità delle Forze Speciali, di potenziare le forze civili di stabilizzazione, intervento e ricostruzione, eccetera. Se tutto questo gli Usa pensano di farlo da soli, ciò non toglie che siano anche perfettamente consapevoli della impossibilità di rispondere efficacemente a una tale molteplicità di scenari senza l’aiuto fondamentale degli alleati e dei paesi con cui collaborano militarmente, per due ragioni in particolare: il contributo di capacità militari e competenze aggiuntive da un lato e la disponibilità alla concessione di basi avanzate per la condotta delle operazioni e le missioni di dissuasione e contenimento dall’altro. Sul piano più strettamente militare tuttavia ciò implica un’accresciuta cooperazione internazionale per garantire la piena interoperabilità delle Forze, sia in termini dottri-

nali ed operativi, sia grazie a maggiori capacità linguistiche e di comunicazione dei dati (ad esempio la condivisione dell’Intelligence, non solo al livello tattico), sia grazie a maggiori trasferimenti tecnologici. In altri termini, il successo nei nuovi conflitti richiederebbe idealmente che la modernizzazione e l’adeguamento delle Forze alleate accompagni quello delle Forze americane e vada nella stessa direzione. Ciò tuttavia da un lato accresce le pressioni sui bilanci della difesa dei paesi alleati e d’altro lato tende a predeterminare ed indirizzare le loro scelte dottrinarie e tecnologiche, secondo le linee scelte dall’amministrazione e dall’industria americane. Si pone qui un problema di concertazione e negoziale, all’interno in particolare della Nato, che la Qdr non prende neanche in considerazione, ma che invece sembra erroneo sottovalutare - perché è tutto da dimostrare l’assunto implicito nella Qdr che le scelte statunitensi siano necessariamente le migliori, anche quando, per la loro importanza e peso finiscano per diventare le uniche possibili. Nello stesso tempo è chiaro dal contesto della Qdr come gli Usa si siano ormai rassegnati all’inevitabilità di condurre quelle operazioni di lungo periodo di stabilizzazione, anti-terrorismo, gestione di crisi e state-building, che per troppi anni gli Alti Comandi americani ritenevano essere del tutto improprie e per le quali le loro Forze erano significativamente impreparate. Sul piano operativo ad esempio è interessante notare quanta attenzione ed investimenti si preveda di dedicare alla neutralizzazione della minaccia delle Ied (ordigni esplosivi artigianali o non tradizionali) e alle operazioni di concorso alle autorità civili, in patria e fuori. Anche qui è evidentemente essenziale la dimensione della cooperazione internazionale e della integrazione delle operazioni militari con le attività di altri soggetti, quali ad esempio le Nazioni Unite. Semmai, in questo campo, un lettore europeo è portato ad esprimere qualche dubbio sulla prospettiva che l’insieme di tali attività debba necessariamente avere una conduzione militare e non piuttosto civile, e quindi sulla catena di comando e controllo delle operazioni stesse. Un dubbio che viene in qualche modo raf13


Risk forzato ed ampliato dal silenzio della Qdr sulla possibilità che tali operazioni non siano a conduzione nazionale americana, ma quanto meno internazionale (Nato, Onu od altro). La tendenza americana ad operare autonomamente dagli alleati e dalle organizzazioni internazionali di cui fanno parte pone grossi problemi politici e di coordinamento che la Qdr semplicemente ignora. Ciò peraltro si accompagna alla constatazione della opportunità di costruire nuove architetture multilaterali di sicurezza regionale, a partire ad esempio da reti di sistemi difensivi contro i missili balistici, ma inclu-

Dalla fine della Guerra Fredda, lo scenario di riferimento usato dal Pentagono per pianificare le Forze al suo comando puntava a disporre di capacità sufficienti a condurre in contemporanea due guerre “regionali” (così definite per distinguerle dalla passate guerre mondiali). Oggi invece il Pentagono si è esercitato su tre diversi scenari, ognuno volto a esaltare l’importanza di disporre di diverse capacità dendo anche l’estensione di garanzie dissuasive e difensive e l’approntamento di maggiori capacità per condurre operazioni di contrasto, distruzione e se necessario di contenimento dei danni collegati alle armi di distruzione di massa e alla loro proliferazione. Inevitabilmente, una tale politica porterà ad estendere notevolmente il numero e l’importanza degli impegni americani nei confronti dei paesi alleati ed amici, 14

accrescendo anche le probabilità di impiego delle Forze e la rigidità del loro dispiegamento. Vi è qui una possibile contraddizione con la ricerca di una maggiore flessibilità e libertà di impiego e con il dimensionamento delle Forze disponibili che può essere corretta solo da una maggiore cooperazione e integrazione delle Forze alleate, a condizione però che ciò sia reso politicamente, strategicamente e tecnologicamente possibile. Un aspetto particolare di questo problema traspare anche da altri documenti e dichiarazioni dell’amministrazione americana. Così ad esempio, nella sua Npr (la Nuclear Posture Review, appena completata dal presidente Obama), oltre a ribadire l’obiettivo del disarmo nucleare generale e completo (del resto già sottoscritto nel Trattato di Non Proliferazione e affermato più o meno sinceramente da una lunga serie di Presidenti americani), ribattezzato con linguaggio più evocativo “opzione zero”, si modifica la dottrina nucleare inserendo una sorta di principio di no-first-use (rinuncia all’uso per primi dell’arma nucleare contro gli avversari), “alleggerito” e corretto dalla affermazione che tale principio non vale nei confronti di stati che non siano parte del Tnp o che siano in violazione di esso. La cosa non è stata molto commentata, ma potrebbe in realtà nascondere alcuni problemi destinati ad accrescere le divisioni tra alleati e a complicare il lavoro in corso nella Nato per definire il nuovo Concetto Strategico. Si afferma in particolare che tale rinuncia corrisponde alla nuova realtà di una diminuita minaccia convenzionale, in particolare in Europa, cosicché, ad esempio, non è più necessario ipotizzare l’uso di armi nucleari contro un attacco condotto da un avversario in posizione di schiacciante superiorità convenzionale. Ma se questo può essere vero per quel che riguarda ad esempio la Germania o l’Italia, ormai lontane dalla vecchia linea del fronte, non può essere invece applicato ad altri paesi membri della Nato, come le Repubbliche Baltiche, che infatti hanno guardato con notevole trepidazione all’intervento militare russo in Georgia e all’assenza di una risposta militare occidentale, ovvero ad un alleato fortemente esposto


dossier a crisi e minacce convenzionali, non convenzionali o asimmetriche come la Turchia. Che lo esprimano pubblicamente o meno, è certo che tali paesi vedano in simili dichiarazioni un appannamento delle garanzie difensive e dissuasive americane nei loro confronti e temono l’emergere di nuove vulnerabilità non pienamente compensate dalla loro partecipazione all’Alleanza Atlantica. Ugualmente ambigua nei suoi effetti politici e dissuasivi potrebbe risultare l’idea, avanzata dall’amministrazione americana, di sviluppare invece (e con funzioni almeno in parte sostitutive del vecchio firstuse nucleare) una capacità convenzionale di Prompt Global Strike (attacco globale immediato) basato sull’utilizzo di missili intercontinentali con testate convenzionali di nuova concezione. Se infatti da un lato tali capacità diminuiscono il rischio dell’uso di testate nucleari specializzate, tattiche o sub-strategiche, ad esempio per attacchi contro-forza, per la distruzione di obiettivi di alto valore strategico o per missioni anti-proliferazione, d’altro lato tendono a riportare l’intera idea della dissuasione in ambito convenzionale, rendendo più facile l’uso della forza e diminuendo l’effetto deterrente implicito invece nell’armamento nucleare, Poiché nella maggior parte dei casi l’interesse degli alleati è più quello di evitare una guerra che di combattere una guerra, sia pure vittoriosa, ciò potrebbe accrescere le diffidenze e il divario tra le percezioni della minaccia all’interno delle coalizioni. Si delinea insomma una sorta di mixed blessing. Da un lato gli alleati vedono riconosciuta la crescente importanza del loro contributo, d’altro lato è evidente anche l’aumento della domanda contributiva americana, mentre sembra cambiare, non sempre a loro favore, l’antico e consolidato equilibrio tra reciproche responsabilità e rischi. La progressiva evoluzione da una strategia essenzialmente dissuasiva ad una strategia più esplicitamente difensiva, oltre che di intervento regionale, corrisponde alla realtà di una maggiore importanza delle guerre effettivamente guerreggiate (anche se più limitate o circoscritte,

almeno per ora, rispetto ad una guerra mondiale), ma non è fatta per tranquillizzare e presuppone un peso in aumento dei costi finanziari oltre che umani. Sul piano industriale e tecnologico, questi sviluppi indirizzano il Pentagono verso la ricerca di importanti risparmi (tagli di programmi, maggiore efficienza in fase contrattuale e di scelta dei mezzi e delle tecnologie, eccetera) e ad un rafforzamento della base industriale e di ricerca nazionale, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese e alle università. Come abbiamo osservato, ciò potrebbe creare qualche problema per gli alleati, ma in compenso sottolinea anche la volontà della Difesa americana di rivedere in modo fondamentale la legislazione relativa alle esportazioni di armamenti e di tecnologie così da rendere più semplice e produttiva la cooperazione internazionale in questi campi. Poiché tuttavia questo obiettivo, fortemente sottolineato dalla Qdr, dovrà necessariamente passare sotto le forche caudine del Congresso Usa, è anche legittimo non aspettarsi molti miglioramenti a breve e dubitare sulla portata finale delle innovazioni auspicate. Nel contempo, la sottolineatura operata dalla Qdr, rispetto alle tecnologie elettroniche, cibernetiche, delle comunicazioni e spaziali, delineano la prospettiva di un crescente peso americano in questi settori strategici dell’innovazione tecnologica, volto a confermare e rafforzare la superiorità nazionale americana, con buona pace degli alleati, che dovranno quindi, se vorranno mantenere la loro competitività, adeguare le loro priorità e i loro investimenti. Nel complesso questa Qdr segnala una importante svolta delle priorità americane in direzione di un maggiore realismo e di un adeguamento al contesto reale dei conflitti in corso e prevedibili: una risposta certamente più efficace, ma che richiede all’Europa un analogo e realistico approfondimento delle proprie scelte, reso purtroppo più difficile sul piano politico dalla prevalente impostazione “pacifista” della sua opinione pubblica e dal notevole ritardo del suo dibattito politico interno su questi argomenti. 15


Risk

SENZA L’OMBRELLO USA, GLI ALLEATI FARANNO DA SOLI?

LE PREOCCUPAZIONI DELL’EUROPA DI JOHN •

S

R. BOLTON

ebbene i resoconti informativi sulle politiche nucleari che il presidente Obama sta mettendo in campo si siano incentrati sulle loro implicazioni per gli Stati Uniti, non è di certo meno importante comprendere gli effetti su amici ed alleati della America. Eventi quali il “Nuovo Start”, il trattato sul controllo degli armamenti siglato con la Russia, la pubblicazione del Nuclear

• Posture Review dell’attuale amministrazione, il recente vertice di Washington sulla sicurezza nucleare, e l’incertezza che aleggia sulla conferenza di aggiornamento del Trattato di Non- Proliferazione Nucleare, prevista per maggio, si ripercuotono su tutte le capitali del mondo. Le politiche intraprese da Obama si dimostrano negative in egual misura tanto per l’America quanto per coloro che da decenni fanno affidamento sul deterrente nucleare statunitense come pilastro della propria strategia nazionale di difesa. Poiché le capacità di Washington diminuiscono, e dato che l’eventualità dell’utilizzo delle armi nucleari si riduce, gli alleati chiedono con forza garanzie sul se l’ombrello nucleare statunitense continuerà a fornire loro la protezione di cui hanno goduto nei tempi passati. Molti alleati comprendono chiaramente che i nostri reciproci avversari globali non hanno nessuna intenzione di imitare Obama nel suo tentativo di ridurre l’entità dei programmi di difesa nucleare. I nostri amici denotano di conseguenza una sempre maggiore insicurezza. Se Washington non continuerà a mantenere l’ombrello protettivo che così a lungo ha garantito stabilità strategica, altri paesi inizieranno a prendere decisioni diverse su come proteggere se stessi, ivi compre16

sa, per alcuni, la possibilità di sviluppare propri arsenali nucleari. All’interno dell’Amministrazione vi sono strenui sostenitori di un’America che si impegni in una “rinuncia al primo utilizzo” delle armi nucleari. Quantunque il Nuclear Posture Review abbia in un certo senso “semplicemente” esteso le “Negative Security Assurances” vi sono pochi dubbi sul fatto che il concetto di “rinuncia al primo utilizzo” abbia fatto proseliti nelle stanze dell’attuale amministrazione. Tali costrizioni auto-imposte circa l’utilizzo degli armamenti nucleari avvalorano i timori dei nostri alleati sul fatto che Obama abbia dimenticato la lezione più importante della Guerra Fredda riguardo alla deterrenza nucleare statunitense. Non vi è mai stato dubbio alcuno che un attacco sovietico condotto attraverso il cosiddetto Fulda Gap e diretto contro l’Europa occidentale avrebbe creato scompiglio tra le forze NATO, dilagando probabilmente sino alla Manica. Pertanto, la minaccia di una ritorsione nucleare da parte statunitense in risposta ad un tale attacco – un caso di certo non ambiguo di primo utilizzo statunitense di armi nucleari – rappresentava precisamente ciò che era giudicato necessario al fine di mantenere le forze sovietiche sull’altro lato della Cortina di Ferro.


dossier I rischi derivano non solo dalle politiche sul nucleare dell’amministrazione Obama. Cancellando i progetti di siti di difesa missilistica in Polonia e nella Repubblica Ceca, il Presidente ha dimostrato di non riporre più piena fiducia negli arsenali missilistici come cardine del sistema di difesa nazionale. Inoltre, e ciò risulta altrettanto importante, la Russia ed altri attori hanno rapidamente interpretato la decisione di non sviluppare le strutture difensive in Europa orientale come una retromarcia di Washington in risposta alle minacce di Mosca. Nella migliore delle ipotesi, Obama ha dimostrato di essere pronto a fare ricorso al sistema missilistico di difesa statunitense solo in quanto moneta di scambio, riesumando così quella sciagurata opzione politica che Ronald Reagan aveva coerentemente ed energicamente respinto. Se il suolo statunitense si ritrovasse ad essere vulnerabile, la sua volontà di rischiare un confronto con un avversario si ridurrebbe considerevolmente. In tali circostanze, gli alleati degli Stati Uniti non potrebbero contare, come invece avveniva ai tempi della Guerra Fredda, sulla minaccia di rappresaglie nucleari da parte di Washington nel caso di aggressione. Di conseguenza, gli europei dovrebbero ora essere molto preoccupati per il fatto di essere sempre più soli nel confronto con la riemergente minaccia incarnata da una Russia belligerante. Poiché il “Nuovo Start” non limita le armi nucleari tattiche, la Vecchia Europa, proprio per via della sua prossimità geografica, si rivela assolutamente vulnerabile da tale punto di vista, a tutto vantaggio della Russia. Appare pertanto assolutamente ironico che alcuni paesi membri della Nato abbiano recentemente invocato la rimozione dal suolo europeo delle ultime armi nucleari tattiche statunitensi, la qual cosa non farà altro che accrescere l’attuale vantaggio di Mosca. Per di più, dato che il conflitto in Afghanistan ha aperto nuove crepe in seno all’alleanza atlantica, l’Europa deve valutare se tale vetusta organizzazione sia in grado di rinnovare i suoi originari obiettivi di difesa di fronte alla minaccia posta da Mosca. Nel Pacifico, le preoccupazioni si rivelano egualmente acute, in special

Poiché il “Nuovo Start” non limita le armi nucleari tattiche, la Vecchia Europa, proprio per via della sua prossimità geografica, si rivela assolutamente vulnerabile da tale punto di vista, a tutto vantaggio della Russia modo in Giappone. Costretto a misurarsi con la non ambigua realtà di una Cina impegnata in una constante espansione e modernizzazione delle proprie capacità militari convenzionali e nucleari, e con una Corea del Nord che già ospita armamenti nucleari, il Giappone si trova inevitabilmente ad affrontare il dubbio se dotarsi o meno di un proprio deterrente nucleare. L’ambiguità statunitense riguardo la difesa missilistica non fa altro che aumentare le preoccupazioni di Tokyo, data la sua vicinanza all’Asia orientale continentale ed ai missili balistici lì collocati. La Corea del Sud, Taiwan e l’Australia, tra gli altri, condividono i timori nipponici, ognuno di questi attori a seconda delle proprie circostanze. Così, mentre si registrano indubbie variazioni tra gli alleati dell’America circa le vere implicazioni del ritiro globale di Obama dalla strategica posizione di dominio nucleare, la direttrice generale non è in dubbio. Il declino statunitense lascia i nostri alleati sempre più soli, incerti sull’impegno e la risolutezza di Washington, costretti ad affrontare decisioni difficili su come garantire la propria sicurezza nazionale. Ironia della sorte, sono proprio i nostri alleati che potrebbero far accrescere il livello di proliferazione nucleare, non tanto i nostri nemici giurati. Questa è la realtà creata dalla ritirata dell’America nucleare, l’esatto opposto del bonario ottimismo dell’amministrazione Obama, secondo cui una ridotta capacità nucleare statunitense incoraggerebbe gli altri a fare altrettanto. 17


Risk

LA NUCLEAR POSTURE REVIEW STATUNITENSE E IL DISARMO NUCLEARE

OBAMA HA FATTO I CONTI SENZA L’OSTE DI

I

ANONIMUS

l primo documento sulla strategia Usa sul nucleare ha visto la luce nel 1994 sotto l’amministrazione Clinton. Con Bush, nel 2001, abbiamo assistito alla prima revisione della strategia e nel 2008 il Congresso statunitense ne ha richiesto una terza. Dobbiamo chiederci se è ancora valida una strategia nucleare statunitense in contrapposizione a quella russa, in un mondo completamente

• cambiato, dopo la guerra fredda. Certamente le migliaia di testate nucleari oggi presenti, e le loro filosofie di impiego, non hanno, di fatto, impedito il rischio del terrorismo nucleare, né tantomeno impedito alla Corea del Nord ed all’Iran di acquisire tecnologie nucleari per perseguire scopi specifici. La nuova Nuclear Posture postula un abbassamento consistente del numero di testate nucleari, ma con una filosofia di impiego poco differente rispetto al precedente documento, quindi le attese di poter incidere direttamente sull’attuale quadro di instabilità globale diventano oltremodo remote. È necessario prendere atto, e il documento lo riporta, che le migliaia di testate nucleari hanno oggi una piccola rilevanza per fronteggiare le sfide odierne legate al terrorismo nucleare ed alla proliferazione. Non si può nascondere, comunque, che passi in avanti nella mutua confidenza tra le parti (Russia – Usa) siano stati fatti: spicca tra le tante iniziative riportate nel nuovo documento, la rinuncia alle testate Mirv (testate multiple nucleari) a favore della testata singola: essa rappresenta un passo decisivo verso la crescita delle misure di trasparenza. La filosofia d’impiego delle armi nucleari non appare, però, sostanzialmente variata rispetto al precedente documento: non viene negato il “First Use” 18

e la triade (missili-sottomarini e bombardieri) continuerà ad essere la spina dorsale della struttura nucleare e gli alleati potranno far affidamento sull’ombrello nucleare americano. Su questo punto e in relazione allo scenario Nato, il documento riferisce che: «il ruolo delle armi nucleari per la difesa dell’Alleanza sarà discusso entro l’anno in concomitanza con la revisione del concetto strategico in atto», rimandando il problema nel campo delle relazioni Transatlantiche Europa – Usa. In Europa sull’argomento noi sappiamo che già alcune nazioni, come la Germania, hanno fatto traspirare opinioni differenziate. Qualunque cambiamento dell’attuale assetto nucleare dell’Alleanza, comunque, sarà fatto solo a valle dei processi in corso. Sul fronte russo è da rilevare ancora la persistenza di ordigni nucleari tattici schierati sul territorio di confine con l’Alleanza che, in un qualche modo, potrebbero creare “agitazione”, se viste con occhi del passato, da parte dei paesi situati ad est dell’Alleanza. È un problema di percezione che trae la sua origine dalla recente storia e quindi da culture differenti: vedremo come l’argomento si svilupperà in Europa entro il 2010. Secondo il presidente Obama, nel discorso del 5 aprile 2009, il


dossier mondo sarà più sicuro senza armi nucleari; al di là delle pur valide dichiarazioni di principio, la realtà si presenta in modo difforme, vi sono oggi paesi che aspirano al nucleare ed altri pronti a richiederne l’accesso, qualora gli attuali processi di nuclearizzazione dei paesi proseguano secondo quanto già in atto soprattutto in Iran. Un punto deve essere chiaro: finchè permarranno armamenti nucleari sparsi nel mondo, gli Usa manterranno un arsenale idoneo per fronteggiare le possibili e malaugurate evenienze. Ecco gli obiettivi della “Nuclear Policy and Posture”: • Prevenire la proliferazione nucleare ed il terrorismo nucleare; • Riduzione del ruolo delle armi nucleari nella National Security Strategy; • Mantenimento della deterrenza strategica con un ridotto livello di forze; • Rinforzare la deterrenza regionale rassicurando gli alleati e i paesi partner degli Usa; • Sostenere un sicuro ed efficiente arsenale nucleare. La top priority diventa, quindi, la prevenzione. Passa invece in secondo piano la riduzione delle testate nucleari a 1.550 rispetto alle 6.000 precedenti. Iran e Corea del Nord in testa, hanno violato, secondo gli Usa, gli obblighi della non proliferazione nucleare assumendo atteggiamenti provocatori che mettono a rischio la stabilità regionale e mondiale. Il Nuclear Proliferation Treaty (Npt) si è indebolito ed è questo il punto nevralgico da rinvigorire, secondo gli Stati Uniti. Per questo sono state preparate due conferenze a brevissima scadenza l’una dall’altra: • Il Nuclear Security Summit di Washington dei paesi nucleari, tenutosi senza la presenza di Iran e Nord Corea; • La conferenza per la revisione del trattato di non proliferazione (Npt), occasione di un vero show da parte del presidente iraniano. Negli ultimi venticinque anni si è assistito alla più grande riduzione di armi nucleari del globo. Durante la guerra fredda gli Usa e l’Urss avevano nei loro arsenali più di 68mila testate nucleari. Le attuali riduzioni a 1.500 testate sono da considerarsi importantis-

sime da un punto di vista numerico, ma ciò non ha impedito o persuaso che altri paesi: India, Pakistan, Corea del Nord ed Iran, acquisissero tecnologie nucleari. Sotto questo profilo è scoraggiante osservare come ad una minore importanza attribuita alle armi nucleari in occidente è corrisposta una corsa alla proliferazione per altri paesi. Il problema oggi è diventato ancora più critico a causa del terrorismo che punta anche sul nucleare per poter raggiungere i propri obiettivi di destabilizzazione del mondo. Il terrorismo è legato ad una ideologia e l’ideologia, per definizione non è negoziabile. Far sedere più paesi possessori di tecnologia nucleare intorno ad un tavolo e condividere con loro le clausole di sicurezza del Nucleare rimane, quindi, uno dei passi fondamentali per arginare il fenomeno, pur nella considerazione che Usa e Russia, da sole, detengono il 95% degli armamenti nucleari. Per la prima volta anche la Cina si è seduta intorno al tavolo, Cina che, come sappiamo, siede anche nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e che dovrà responsabilmente cooperare per la Sicurezza del nucleare su scala globale. Non tutti i paesi in possesso di tecnologia nucleare, purtroppo, hanno preso parte alla conferenza e ciò costituirà un problema, per il fatto che l’erezione di una più alta barriera per l’acquisizione dei materiali nucleari da parte di gruppi terroristici, pur importante sotto il profilo della sicurezza, non sarà, da sola, sufficiente ad impedire la potenziale proliferazione. Serviranno, quindi, ulteriori iniziative per riportare nel campo politico ciò che oggi gioca nel campo ideologico, senza il “defusing” ideologico non possiamo prevedere passi in avanti sul tavolo dei negoziati. Il presidente Obama pensa in termini di persuasione e trasparenza ed ha chiaramente espresso nel Nuclear Summit di Washington l’impegno da parte di tutti i paesi di mettere sotto massima sicurezza, entro il 2012, tutti gli armamenti e tecnologie legate al nucleare: è una validissima iniziativa necessaria soprattutto in questo momento in cui il terrorismo, spregiudicatamente, dichiara di voler accedere al nucleare, pur tuttavia tale iniziativa, da sola, non sarà sufficiente a circoscrivere completamente il 19



dossier problema, in primis perché nel nuclear summit di Washington non tutti i paesi nucleari erano seduti intorno al tavolo. Perché la Nuclear Posture Review 2010 è stata emanata ora? La Nuclear Posture fa parte di tutta una catena di documenti interconnessi tra loro che da una strategia globale scendono poi verso le strategie di singolo settore. Già nella Quadriennial Defense Review 2010 c’era la previsione di policy sulla grande strategia sul nucleare («we will mantenin a safe, secure, and effective nuclear arsenal…»). Era comunque l’elaborazione del nuovo trattato con la Russia (New Start), per l’accordo di riduzione strategica degli armamenti nucleari che aveva bisogno del documento di policy cui ispirarsi ovvero del Npr 2010 che è stato emanato prima della ratifica del New Start: senza il Npr al Congresso Usa non avrebbe potuto procedere all’esame per la ratifica degli accordi, il documento di policy era già stato richiesto, peraltro, nel 2008. Il trattato New Start prevede il numero di testate nucleari indicate nel Npr 2010, ovvero 1.550 declinandole ulteriormente in 800 basate sulla triade di cui non più di 700 schierate contemporaneamente. Sotto al profilo della parità strategica di armi nucleari, le testate Russe saranno equivalenti a quelle Usa e quindi si può parlare di parità strategica e il livello di deterrenza, se comparato agli arsenali di altre nazioni dotate di armamenti nucleari dell’ordine delle centinaia di testate, è da ritenersi elevato. Il nuovo trattato Start come la Npr 2010, quindi, non produrranno effetti significativi su Iran e Corea del Nord, ma serviranno ad innalzare il livello di accesso per le nuove nazioni che aspirano al nucleare. L’altro settore coperto dal Npr 2010 è quello della reazione Usa ad attacchi chimici e biologici. Gli Usa, che hanno già bandito le armi chimiche e biologiche (ma non tutti i paesi, ricordiamo, hanno ratificato la convenzione, rimangono esclusi alcuni paesi medio orientali, oltre alla Corea del Nord) temono che attacchi al proprio territorio possano essere lanciati impiegando proprio queste armi. Nel qual caso gli Usa si riservano la possibilità di reagire col nucleare. Importante, però, è anche l’altra previsione del docu-

mento: ovvero gli Usa non useranno il nucleare contro gli Stati che faranno parte del Npt e si adegueranno alle sue previsioni. Il documento è eccessivamente tecnico nel distinguere i casi di uso e non uso delle armi nucleari, fino a rasentare il paradosso ovvero, in un attacco condotto con antrace su una città Usa da parte di un paese che è osservante del Npt, si potrà o meno rispondere col Nucleare? Il documento dice…dipende. Gli Usa stanno comunque continuando a perseguire gli obiettivi di trasparenza sul nucleare, per rafforzare la loro credibilità nel mondo, sulla reale volontà di perseguire sulla strada indicata dal presidente Obama di azzeramento delle armi nucleari. L’acceso dibattito interno all’amministrazione americana sulla declassifica dei dati riguardanti il numero delle testate nucleari giacenti nei depositi americani, si è concluso con la vittoria del Presidente: il numero delle testate attive dichiarate sono state 5.113. Il presidente Obama ha voluto così ulteriormente aumentare le sue credenziali sul nucleare, in modo da sostenere il trattato di non proliferazione.

Certamente il rendere noto il livello attuale dell’arsenale nucleare Usa, prova il grande progresso fatto da questo paese nella riduzione degli arsenali nucleari dopo la guerra fredda. Questa percezione da parte degli altri paesi Npt, è importante perché tutti i paesi firmatari si sono impegnati per il completo disarmo del nucleare. Non dobbiamo scordarci che l’ultima conferenza Npt del 2005 fallì per l’accusa rivolta da molti paesi, all’amministrazione Bush, di ignorare gli obblighi verso il disarmo. La strategia Usa per questa nuova conferenza, invece, è quella di ottenere il consenso della maggior parte dei paesi partecipanti, per poter perseguire gli Stati che non si atterranno alle previsioni del trattato, incoraggiando comunque l’adozione di maggiore sicurezza per la salvaguardia del nucleare esistente. L’effetto di questa maggiore trasparenza da parte degli Usa sul resto del mondo, ovvero sull’Iran, non si è fatto attendere: Ahmadinejad ha ribadito le accuse verso i paesi 21


Risk detentori del nucleare di voler impedire, ai paesi non nucleari, la possibilità di accesso verso i programmi per l’energia atomica: tale affermazione comunque è stata oggetto di puntuale replica da parte del segretario generale Onu Ban Ki moon e di Yukiya Amano, responsabile dell’Agenzia per il nucleare. Gli Usa stanno perseguendo la battaglia della non Proliferazione, l’amministrazione Obama ritiene che il mondo stia attraversando un periodo cruciale e sia ad un bivio con possibilità di avviarsi verso un nuovo periodo di proliferazione; secondo la percezione Usa ,ciò dovrà essere impedito per evitare maggiori livelli di instabilità. Per rafforzare la credibilità gli Usa hanno ancora deciso di stanziare fondi per 100 milioni di dollari per aiutare i paesi desiderosi di acquisire il nucleare per scopi pacifici. Obama ha messo il Trattato al centro della sua agenda sul nucleare. La grossa scommessa è la seguente: le cinque iniziali potenze nucleari si impegneranno nella graduale distruzione dei loro arsenali, mentre gli altri paesi si impegneranno a non portare avanti i programmi di sviluppo di armi nucleari. In cambio gli altri paesi riceveranno aiuti per lo sviluppo dei programmi nucleari per scopi pacifici, ma sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Peccato che questa strategia presupponga una negoziazione tra le parti, supportata da una credibilità legata solo all’odierno presidente degli Usa. Peccato che non vi siano i presupposti per la negoziazione, ovvero l’incontro tra le parti Usa – Iran, con la controparte disposta a recedere dal campo ideologico a quello politico. La Nuclear Posture Review 2010 ridurrà certamente le armi nucleari in circolazione tra Usa e Russia e questo è già un buon risultato, ma non è la chiave per la soluzione dell’instabilità regionale in Medio Oriente. Occorrerà agire ancora, con una più ampia solida e determinata comunità internazionale, verso l’Iran per negoziare il futuro in quella regione: il bivio tra una maggiore ovvero minore instabilità si sta avvicinando sempre di più ed è necessario agire in fretta. 22


dossier

NATA NEL 1997 PER VOLERE DI CLINTON, LA QDR NON CAMBIA MOLTO CON BUSH E OBAMA

TRE PRESIDENTI MA UNA SOLA “VISION” DI •

N

MARIO ARPINO

el sistema dell’Amministrazione degli Stati Uniti d’America, la Quadrennial Defense Review (Qdr) altro non è che la revisione quadriennale della strategia e delle priorità del Dipartimento della Difesa (DoD). È quindi una procedura scorrevole di pianificazione dello strumento militare americano, che non si limita tuttavia ad indicare le esigenze operative

di ammodernamento o potenziamento delle forze, solamente uno dei campi di indagine oggetto di direttiva, ma che si allarga a comprendere ogni attività correlata alla sicurezza e agli interessi nazionali del Paese. È una procedura obbligatoria che, nata nel 1997 come logica e pratica conseguenza della Vision del presidente Clinton, pur tra indispensabili varianti e cambiamenti di indirizzo – ricordiamo che c’è stato un 11 settembre 2001 – ha avuto una sua continuità metodologica anche con i due successivi “comandanti supremi”, i presidenti Gorge W. Bush e Barack Obama. Abbiamo parlato di obbligatorietà della Qdr perché deriva dal National Defense Authorization Act (Ndaa) per l’anno fiscale (FY)1997 che, in libera traduzione, formalmente recitava: «….Il segretario della Difesa (noi diremmo il ministro, ndr) condurrà ogni quattro anni un riesame globale della strategia di difesa nazionale, della struttura delle forze, dei piani di ammodernamento, dell’infrastruttura, dei piani finanziari e degli altri elementi relativi ai programmi e alle politiche di difesa degli Stati Uniti, in un’ottica orientata alla formulazione e all’attuazione della strategia di difesa e alla determinazione dei programmi per la difesa nei 20 anni successivi. Ciascuna Qdr dovrà

essere condotta in consultazione con il Chairman of the Joint Chief of Staff (per noi, il Capo di stato maggiore della Difesa, ndr)….». Ciò significa che la Qdr deve fornire le linee guida al Dipartimento per sviluppare una valutazione condivisa del security environment, per esplorare come affrontare, in modo nuovo ed aperto, le sfide più pressanti nel breve e nel lungo termine, per individuare le priorità strategiche, per porre le basi per la pianificazione in tutti i settori collegati. Dopo il 1997, nel 2001 e nel 2006 ci sono state altre due Qdr, mentre quella del 2010 è la quarta. In questi anni, ci sono già stati due emendamenti ai Therm of Reference approvati da un Ndaa. Quello del 2003, voluto da Bush, variava la legislazione per le procedure di bilancio e veniva posto in essere per la Qdr 2006 e per le richieste DoD del FY 2007. Più rilevante la modifica Ndaa per il FY 2008, la prima in epoca Obama, che disponeva che la Qdr 2010 tenesse anche conto della capacità delle forze armate di rispondere, oltre a tutte le altre minacce, anche a quelle “nuove” originate dal climate change. Poiché l’impatto di questa disposizione non sarà banale né sulla pianificazione né sui costi, sarà bene menzionarla per intero: «...si dispone che la strate23


Risk gia di sicurezza e difesa nazionale e la relativa revisione quadriennale, effettuata dopo il presente emendamento, includano le linee guida sull’effetto delle previste mutazioni climatiche sulle missioni attuali e future del DoD, compresa la predisposizione delle forze a fronteggiare i disastri naturali originati da condizioni meteorologiche estreme». Come si vede, l’emendamento riflette il disastro organizzativo dei soccorsi per il ciclone Katrina e, in ogni caso, è in linea con la particolare tipizzazione, orientata al sociale, della politica dell’Amministrazione di Barack Obama. Questo è il quadro normativo d’insieme che regola la preparazione delle revisioni quadriennali, indispensabile al lettore per meglio comprendere lo spirito della Qdr 2010. Come ammette lo stesso DoD, è la seconda review elaborata «in tempo di guerra». Assume per questo ampia rilevanza anche per noi, in quanto è destinata ad influenzare in qualche modo non solo il nuovo concetto strategico e la pianificazione della Nato, ma, in una certa misura, anche le pianificazioni nazionali dei singoli membri dell’Alleanza, della quale gli stati Uniti sono i maggiori contribuenti. È ovvio quindi, che come avviene nelle grandi industrie, sia pure tra ampi dibattiti, il parere del “socio di maggioranza” finisca sempre per prevalere. Il lavoro di preparazione non è stato lungo, meno di un anno, ma molto intenso (l’avvio delle attività era stato annunciato dal DoD il 27 aprile dell’anno scorso) ed ha incluso quest’anno anche la Nuclear Posture Review (Npr). I risultati di quest’ultima, che stabilisce la strategia di deterrenza e l’assetto nucleare degli Stati Uniti per il prossimo decennio, si sono già esplicitati con la dichiarazione di Obama a Praga (opzione zero), l’accordo New Start e la trasparenza di Hillary Clinton nel dichiarare, all’apertura della conferenza quinquennale per il trattato di non proliferazione (Tnp), il numero delle testate nucleari ancora operative disponibili negli arsenali americani. Nella dichiarazione pubblica del vice capo di stato maggiore Cartwright e del sottosegretario al DoD Lynn, si preannunciava la principale linea guida di questa Qdr, che avrebbe dovuto trovare il modo di «...istituzionalizzare la capacità di far fronte all’irregular warfare, mantenendo contempo24

raneamente il margine strategico di superiorità tecnologica degli Stati Uniti nella guerra convenzionale….». Il processo avrebbe dovuto essere condotto nell’ambito di un approccio globale di tutta l’Amministrazione, dove il DoD doveva interagire con tutti gli altri dipartimenti, le Agenzie e le Commissioni parlamentari, incluse alcune consultazioni con gli alleati-chiave. L’obiettivo assegnato era quello di affrontare le sfide emergenti, esplorando un modo di bilanciare sforzi e risorse tra il cercare di prevalere nei conflitti attuali e prepararsi a contingenti situazioni nel futuro, senza dimenticare la capacità di counterinsurgency e di continuare con un’efficace assistenza militare all’estero.

I Therms of Reference (ToR) della Qdr 2010, subito resi pubblici già il 27 aprile 2009, riflettono con maggior dettaglio i termini del comunicato iniziale, ponendo maggiormente l’accento sullo sviluppo delle capacità per la “guerra irregolare”, sul supporto anche alle popolazioni civili e l’abilità di costruirsi partner e nuovi alleati. Nei ToR viene anche meglio precisato il significato di “approccio globale”, nel senso che la Qdr dovrà procedere di pari passo con scambio di informazioni per le analoghe revisioni effettuate dal Dipartimento della Sicurezza nazionale, dell’organizzazione per l’Intelligence, incorporando anche linee guida fornite dal National Security Council (Nsc). In aggiunta, stretto coordinamento doveva essere tenuto, oltre che con i singoli capi di forza armata e i comandanti dei teatri, anche con le attività di revisione disposte dal Congresso nei settori del nucleare, dello spazio e della difesa antimissile, i cui studi costituiranno tuttavia corpo collegato, ma separato. Il 30 settembre 2009 viene presentato un progress report di mezzo termine, che non evidenzia particolari novità, e il 1° febbraio 2010 il segretario alla Difesa Robert Gates – a suo tempo nominato da George Bush al posto di Rumsfield, ma confermato da Obama – può presentare al Congresso la Qdr 2010, corredata dalle priorità necessarie a determinare le necessarie risorse da investire. In estrema sintesi, il documento dà le direttive per riequilibrare le capacità militari e riformare i processi e le strutture perché il



Risk DoD sia messo in grado di adempiere ai quattro fondamentali “comandamenti” delle quattro P, individuati in prevalere nelle guerre di oggi (prevail), prevenire e scoraggiare i conflitti (prevent), preparasi a sconfiggere l’avversario e a conseguire il successo in un’ampia gamma di contingenze future (prepare), preservare e migliorare la forza di volontari (preserve). L’articolazione del documento pone la lente di ingrandimento su quatto temi principali, dettagliandoli. Sono il ribilanciamento delle forze, la politica per i personale, il rafforzamento delle relazioni esterne ed interne, la revisione delle procedure e degli assetti per il corretto funzionamento dell’amministrazione della difesa. Per quanto riguarda il primo tema, il ribilanciamento, le missioni di carattere generale sono sei, ovvero: difendere gli Stati Uniti e, all’interno, dare supporto alle autorità civili; prevalere nelle operazioni contro il terrorismo e l’insurgency; costruire una base di sicurezza per i partner; scoraggiare e sconfiggere ogni aggressione o intrusione nel territorio; prevenire la proliferazione delle armi di distruzione di massa (Wmd); operare efficacemente nella difesa del cyberspazio. Occorre, in definitiva, dare una migliore immagine del Dipartimento della Difesa sia all’interno che all’estero. Nel settore della politica del personale, gli imperativi sono la cura dei feriti, un tempo sostenibile per la rotazione dei reparti nelle missioni, la capacità di reclutamento e rafferma, il supporto alle famiglie, lo sviluppo di forze di lavoro correlate alla difesa. Per il rafforzamento delle relazioni esterne ed interne, i passi che la Qdr 2010 indica al DoD sono una più stretta collaborazione con gli alleati; rafforzare i partenariati, ivi inclusi quelli con le capacità “civili” interne agli Stati Uniti e, infine, perseguire un assetto cooperativo ad hoc in ogni approccio ai problemi globali di difesa. Da ultimo, il documento riconosce che svariati anni di guerra hanno richiesto spesso alle forze armate di innovarsi e adattarsi con estrema rapidità. Analoga cosa deve saper fare il DoD, rafforzando la base industriale, il modo di fare gli acquisti, l’approccio procedurale alla sicurezza e rivedendo il sistema di controllo delle esportazioni. L’ultimo precetto è quello di adattare il sistema e le strategie energetiche alle esigenze impo26

ste dal “climate change”. Anche con Barack Obama, è evidente che gli Stati Uniti non vogliono rinunciare alla leadership globale nel settore sicurezza e difesa, continuando a perseguire – pur tra tagli, riduzioni e modifiche alla spesa – una indiscussa ed indiscutibile supremazia. In altre parole, non ostante le strategie presidenziali, oggi indubbiamente più “soft”, e la crisi economicofinanziaria, l’America resta l’America. Una grande Nazione, che continua ad essere ben consapevole del suo ruolo nel mondo. Detto e fatto, la Qdr 2010 ha trovato immediatamente la sua prima applicazione pratica nelle richieste di bilancio per il FY 2011 presentate da Robert Gates come statement di apertura dei lavori dello House Appropriation Committee.

Questo numero di Risk copre

abbondantemente, anche nel dettaglio, le maggiori attività considerate dal Qdr 2010. È tuttavia utile soffermarsi brevemente su due delle attività considerate “collaterali”, ovvero non facenti parte del corpo. La difesa antimissile (Ballistic Missile Defense Review – Bmdr) e la difesa spaziale (per gli americani vale l’acronimo milspace), trattata come Space Posture Rewiew (Spr). Per la Bmdr non c’è molto da dire che non sia già stato detto. La questione antimissile è sul tappeto da anni, ma, come un fiume carsico, scompare per lunghi periodi, per tornare ad emergere altrove nei momenti più delicati delle relazioni internazionali. In questa review viene associata alle minacce regionali a breve e medio termine, con delle priorità che il sottosegretario per la politica di difesa, Michéle Flournoy, ha articolato in sei sotto-priorità: la difesa degli Stati Uniti contro un attacco limitato; la difesa contro le crescenti minacce regionali; la sperimentazione di nuovi sistemi; la sostenibilità di eventuali soluzioni in termini di bilancio; la capacità di legare l’assegnazione di risorse all’evolversi della minaccia e, infine, la cooperazione internazionale in materia, con particolare riferimento a Russia e Cina. Nulla di nuovo. Più interessante, invece, la Space Posture Review (Spr), dove le questioni relative al milspace sono state, comprensibilmente, meno divulgate. Mentre i tagli di Obama alla Nasa sono noti, e riguardano l’esplorazione spaziale


dossier lontana, per quanto riguarda la difesa, o lo “spazio militare”, ben poco è cambiato dai tempi di Bush. Ma nelle attività spaziali americane la Nasa non è tutto e, in ogni caso, il suo assetto attuale non è detto sia definitivo. Sebbene ora sotto la guida di Robert Gates, al DoD è rimasto in vigore il Rapporto sullo Spazio elaborato ai tempi di Rumsfield, dove si parla disinvoltamente di capacità routinaria di distruggere in orbita satelliti altrui e si raccomanda di intraprendere quanto prima sperimentazioni in materia, inclusi «live tests in space». Anche se per il satellite anti-satellite sono stati preceduti dai cinesi – l’evento aveva fatto scalpore – l’Usaf già da tempo ha avviato su Shriver Afb due gruppi speciali dedicati allo Space Control, uno per studiare le tattiche e i mezzi di contrasto spaziale, e l’altro per sperimentare prototipi per la guerra nello spazio. In quanto alle estenuanti gelosie tra le forze armate, a suo tempo con un colpo di sciabola Rumsfield aveva tagliato l’onnipresente nodo gordiano delle rivalità, senza troppi complimenti per gli esclusi, scegliendo l’organizzazione dell’Usaf come la più idonea a farsi carico di tutte le esigenze spaziali militari. Un Sottosegretario di Stato per l’Air Force, che mantiene anche l’incarico di Direttore del National Reconnaissance Office, continua ad essere agente unico per il procurement spaziale. Con Obama, come è successo in diverse attività che riguardano la difesa, nel milspace nulla sembra esser cambiato. Se è così, la Space Posture Review non sembrerebbe variare di molto la politica spaziale americana, i cui limiti andranno meglio delineandosi nel futuro tra ciò che è di pertinenza della Nasa, come l’attività scientifica per l’esplorazione lontana, e quella di carattere più marcatamente militare, che continuerà a far capo al DoD e all’Intelligence. La proposizione che si va delineando, per il futuro, potrebbe essere la seguente: «ampio mandato alla Nasa per riguadagnare la leadership mondiale nelle attività scientifiche connesse all’esplorazione spaziale, e pieno controllo del DoD e dell’Intelligence, anche attraverso l’Usaf, per l’accesso, l’utilizzazione e la popolazione dello spazio vicino, in questo comprendendo le orbite basse, medie e geostazionarie….». La transizione verso la polarizzazio-

Il documento dà le direttive per riequilibrare le capacità militari e riformare i processi e le strutture affinché si rispettino le 4 P: prevail: prevenire i conflitti; prevent: prepararsi a sconfiggere l’avversario; prepare: immaginare conseguenze e scenari; preserve: preservare e migliorare la forza dei volontari ne delle attività in queste due anime della politica spaziale americana potrebbe durare una decina d’anni, durante i quali il controllo strategico del DoD/Usaf e della National Security Agency potrebbe divenire ancora più stringente. In definitiva, il metodo di pianificazione attraverso la Qdr, sembra continuare a funzionare egregiamente. Il problema è che da allora si sono avvicendati tre presidenti degli Stati Uniti e che, pur essendo la pianificazione scorrevole, il ciclo di realizzazione dei programmi tecnologicamente qualificanti è più lungo della durata in carica dei presidenti – circa il doppio – e quindi é difficile osservare tutti i risultati della pianificazione. La Qdr 2010, infatti, ci mostra tagli e interruzioni di programmi iniziati sotto Amministrazioni precedenti. Anche il nostro sistema, con il ciclo “guida ministeriale”, “concetto strategico del Capo di stato maggiore della Difesa”, “assegnazione delle priorità”, formulazione della proposta di bilancio” e “nota aggiuntiva del ministro della Difesa”, “passaggio in Parlamento”, è teoricamente perfetto e dovrebbe funzionare. Per quanto riguarda la revisione della struttura e dei compiti della nostra difesa, un lavoro simile, quindi, a quello svolto ogni quattro anni negli Stati Uniti, questa era stata avviata tempo addietro sotto l’egida del Consiglio Supremo. Ma poi se ne sono perse le tracce. 27


il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

…questo lo fa solo liberal Tutti i giorni in edicola Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro • Annuale 130 euro


dossier

PERCHÉ L’AMMINISTRAZIONE CHIAMA A UN SUPER IMPEGNO MILITARE E STRATEGICO

LA CASA BIANCA SEMPRE PIÙ IN GUERRA DI •

N •

PIETRO BATACCHI

onostante il diverso approccio rispetto all’amministrazione Bush, gli impegni militari americani sono proseguiti anche con l’amministrazione democratica di Obama. Per cui, se da un lato il nuovo corso si è trovato a fare i conti con il disimpegno dall’Iraq, avviato tuttavia già dallo stesso Bush, dall’altro ha portato al doppio surge in Afghanistan

e in considerazione dell’emergere di nuove situazioni di crisi, ha visto l’incremento degli impegni, seppur non diretti, in altri Pesi come lo Yemen o la Somalia. Ad oggi, pertanto, gli Usa devono continuare un superimpegno militare e strategico e con una sovraesposizione che, dopo i fatti dell’11 settembre, sembra essere diventata una costante per la loro politica estera. Con la scadenza della risoluzione 1790 delle Nazioni Unite, che regolava il mandato della missione multinazionale in Iraq, e la successiva entrata in vigore, all’inizio del 2009, dello Status of Forces Agreement (Sofa), è cominciato il ritiro del contingente militare americano dal suolo iracheno e il graduale passaggio sotto l’autorità del governo di Baghdad della responsabilità per la sicurezza di tutte le 18 province del Paese. Passaggio oggi definitivamente completato. La prima tappa del processo è stata completata il 30 giugno 2009, con il ritiro delle truppe dai centri abitati e il passaggio della responsabilità per la sicurezza alle Forze Armate irachene. Al momento, le forze americane in Iraq contano poco più di 80mila unità che, secondo quanto previsto dai piani di ritiro, dovrebbero ridursi sensibilmente entro settembre, per attestarsi sulle 30/50mila. La presenza americana è basata su tre strutture di comando a

livello divisionale, nord, centro e sud, basate su altrettante Divisioni dell’US Army. La prima copre l’area di Balad, Kirkuk, Tikrit, Mosul, e Samarra, la seconda le aree della capitale fino alle città di Ramadi e Falluja e la terza ha la responsabilità per il settore meridionale del Paese, con le città di Najaf e Bassora. Il prossimo passaggio importante avverrà il 31 agosto, quando la tipologia della missione in Iraq assumerà definitivamente le vesti di missione di stabilizzazione ed assistenza, oltre ad una nuova denominazione già definita come “Nuova Alba”. Con la riconfigurazione, i militari americani si limiteranno a compiti di formazione e addestramento per le forze locali, di protezione per il personale militare e civile impegnato nelle varie strutture americane presenti nel Paese, a compiti di supporto per le organizzazioni internazionali e non governative e ad operazioni di antiterrorismo, appannaggio soprattutto delle forze speciali, nel caso le circostanze lo richiedano. Il ritiro completo, secondo quanto previsto dal Sofa, avverrà entro il 31 dicembre 2011. Resta il fatto che, qualora la situazione della sicurezza nel Paese dovesse peggiorare, gli americani potranno graduare i tempi e le modalità del ritiro adattandoli all’evoluzione sul terreno, anche se è difficile pensare al man29


Risk tenimento di una consistente presenza militare americana dopo il termine indicato nel Sofa stesso. Al momento il problema principale è la gestione del ritiro. Un’operazione assai complessa che prevede il trasferimento di gran parte del personale e dei mezzi e degli equipaggiamenti in Kuwait - in totale 2,8 milioni di mezzi, equipaggiamenti, apparati e sistemi, inclusi 88mila container e 41mila veicoli - in considerazione del fatto che l’unico porto iracheno è quello di Umm Qasr. Mezzi ed equipaggiamenti vengono trasportati a bordo di camion guidati da contractor e scortati lungo tutto il percorso designato. Un tragitto che, a seconda della base di partenza, può durare fino a tre giorni. Secondo quanto stimato dai vertici dell’US Army, il limite massimo per il ritiro è di tre Brigate ogni mese. Una volta che i convogli giungono presso le aree di raccolta in territorio kuwaitiano, gli equipaggiamenti vengono preparati per essere spediti negli Stati Uniti, in Europa o in Sud Corea via nave (mediamente vengono impiegati tra i 30 e i 50 giorni). In questo periodo, tutti i materiali, dopo esser stati catalogati, sono sottoposti ad un processo di sterilizzazione, così da eliminare ogni eventuale agente patogeno. Una volta ispezionati da funzionari del dipartimento dell’Agricoltura, sono stoccati in aree sterili in attesa di essere imbarcati verso le diverse destinazioni. Per il rimpatrio o trasferimento delle truppe, invece, viene utilizzato soprattutto l’aeroporto internazionale di Kuwait City. Il Pentagono, per cercare di ridurre i costi dei trasporti, ha previsto che gli equipaggiamenti che possono eventualmente essere schierati nel teatro afgano, o utilizzati come rifornimenti e parti di rispetto per le unità di stanza nelle basi kuwaitiane, siano trasferiti direttamente, senza esser prima spediti negli Stati Uniti. Questa, diciamo, la procedura normale. Per alleggerirla e risparmiare ulteriormente, si è pensato di lasciare buona parte dei loro veicoli in Iraq, trasferendoli direttamente al Governo di Baghdad. È accaduto così con oltre 8mila gipponi Humvee e con una parte dei mezzi antimina Mrap, ancor più pesanti e costosissimi da riportare in Patria, e con gli equipaggiamenti non strettamente militari, inclusi computer, apparati telefonici e veicoli. 30

Per la data del ritiro definitivo, l’obiettivo è pertanto dotare l’Iraq di forze di sicurezza credibili. Finora è stata privilegiata la formazione dell’Esercito, mentre Aeronautica e Marina, sono ancora molto indietro. Questo sia per la tradizione, l’Iraq è sempre stata una potenza “terrestre”, sia per motivi contingenti, data la necessità immediata di una forza di contro-insurrezione per combattere la guerriglia.

Attualmente l’esercito iracheno conta 16/17 Divisioni organizzate su quattro comandi regionali: il Comando Nord, di stanza a Samara, il Comando di Baghdad, che dipende direttamente dal Primo Ministro attraverso il National Operations Center, il Comando Sud, di stanza a Nassiriya, e il Comando Ovest, nella Provincia di Anbar. Sotto il National Operations Center a Baghdad opera, invece, una struttura di immediata disponibilità del Primo Ministro, dalla quale dipende anche la Brigata Baghdad, che si occupa della sicurezza della “zona verde” di Baghdad. In aggiunta, il ministero della Difesa ha istituito due Presidential Protection Brigade, ognuna con tre battaglioni, per la sicurezza del Presidente e del Primo Ministro, e 15 Independent Protection Battalion, per la protezione “VIP”. Infine, vi è il Counter Terrorism Bureau, una struttura divisionale di comando, sempre dipendente dal Primo Ministro, a cui spetta il coordinamento delle attività delle Forze Speciali (queste ultime composte da sei battaglioni, tra cui il 2nd Counter Terrorism Battalion). Per quanto riguarda l’equipaggiamento questo è stato sensibilmente migliorato grazie all’iniezione di armamento americano, soprattutto carri Abrams, alle donazioni ricevute da diverse paesi ex appartenenti al Patto di Varsavia, e con gli acquisti già programmati comprendenti altri Abrams, veicoli ruotati Stryker, cingolati da combattimento LAV-III e veicoli cingolati BTR-4 dall’Ucraina (anche se secondo alcune fonti l’acquisto di LAV-III, Stryker e BTR-4 sarebbe stato cancellato o posticipato per problemi di fondi). Il processo di rafforzamento di Aeronautica e Marina è invece molto più lento. L’Aeronautica ha capacità molto limitate ed i suoi compiti sono circoscritti a rico-



Risk gnizione, sorveglianza, trasporto e movimentazione truppe. Non sono disponibili velivoli per l’attacco ed il supporto delle truppe a terra ed anche quel poco disponibile per ricognizione e compiti utility è ben lungi dall’essere sufficiente per assicurare la necessaria autonomia alle operazioni. Ciò significa che, ad oggi, nel settore aeronautico l’Iraq dipende totalmente dall’appoggio americano. Nell’immediato la priorità è addestrare il personale e rafforzare la rete di infrastrutture. Per quanto riguarda le capacità di attacco al suolo, queste sono completamente assenti. Alcuni Beechcraft e Cesna sono stati riconfigurati per le operazioni di attacco al suolo con l’impiego di missili Hleffire, a partire dallo scorso autunno, mentre resta in cantiere l’acquisizione di F-16, si parlava di 36 aerei ex Usaf, e di T-6 Texan in

Oltre all’Iraq e al doppio surge in Afghanistan, a partire dal 2009, l’impegno americano è aumentato anche in Yemen, in concomitanza con l’acuirsi dei fronti di instabilità che ne minacciano la sicurezza, Ma è alla Somalia che gli Usa guardano con sempre maggiore preoccupazione, temendo che questa possa trasformarsi in un ennesimo paradiso per lo jihadismo globale versione da attacco leggero. Tra le tre Forze Armate, la Marina è sicuramente quella che gode della minore attenzione. In questo gioca la tradizione dell’Iraq - che non ha mai avuto una Marina forte - dovuta alla sua posizione geografica con l’unico accesso al mare, peraltro conteso con l’Iran, costituito dallo Shatt al 32

Arab e dallo spicchio di Umm Qasr. Oggi la Marina irachena ha compiti che si limitano al pattugliamento costiero e sorveglianza delle piattaforme petrolifere ed al controllo/prevenzione dei traffici. I numeri parlano di un organico di 1.500 marinai, inclusi 800 marines, che dovrebbero passare a 3.000 il prossimo anno. Per quanto riguarda gli equipaggiamenti, in servizio ci sono una cinquantina di imbarcazioni: Fab (Fast Assault Boat), Rpb (River Patrol Boats) e barchini a chiglia rigida. L’Iraq punta a rafforzare queste modeste capacità già a breve. Un primo passo è già stato compiuto con l’ordine, concesso nel febbraio 2006 all’italiana Fincantieri, per la fornitura di quattro Opv Saettia Mk IV, una versione modificata dei classe Diciotti, in servizio con la Guardia Costiera italiana e con le forze navali maltesi. Ai Saettia vanno aggiunti anche 15 pattugliatori da 37 m ordinati alla Malaysia, 20 imbarcazioni per il pattugliamento costiero da 30/35 m e tre Offshore Support Vessel da 55/60 m, ordinate tutte dagli Usa. Nel complesso, nonostante gli indubbi progressi, la situazione in Iraq rimane instabile. Una delle minacce principali potrebbe essere rappresentata dalla rinascita dell’insorgenza sunnita nella provincia occidentale di Anbar, soprattutto alla luce del lento ed intermittente processo di integrazione dei miliziani dei Consigli del Risveglio, ovvero dei gruppi di ex insorti sunniti che nel corso del 2007 e del 2008 hanno combattuto contro Al Qaeda in Mesopotamia al fianco delle forze statunitensi, passati nel 2009 definitivamente sotto al responsabilità del Governo di Baghdad. A questo elemento bisogna poi aggiungere la situazione di tensione lungo il confine con il Krg (Kurdish Regional Government), relativa alle aree contese con Baghdad, a cominciare da Kirkuk. La questione è molto delicata anche perché al momento il Governo Regionale Curdo ha accettato che solo una parte dei Peshmerga venisse integrata nell’esercito iracheno: due divisioni – 15ª e 16ª - che rappresentano solo un quarto delle forze curde, circa 30mila uomini. Il resto è stato costituito in una nuova Kurdistan Region Border Guard forte di 21 Brigate dipendente direttamente dal Governo Regionale Curdo. Oltre agli equi-


dossier paggiamenti già presenti nell’arsenale dei Peshmerga, in pratica quelli di un esercito con carri armati, veicoli da combattimento pezzi di artiglierai ecc., questa potrà contare anche su tutti i mezzi ed i materiali, elicotteri compresi, acquistabili dall’esercito iracheno (esclusi eventualmente aerei da guerra).

Al disimpegno in Iraq si è accompagnato contestualmente l’incremento della presenza militare in Afghanistan segnato dal surge deciso dall’amministrazione Obama sul finire del 2009 e che prevede l’invio di 37mila nuovi soldati entro questo autunno. Una parte di questi, circa 7mila uomini, svolgerà compiti addestrativi e di mentoring per le forze afgane, il resto sarà composto da brigate operative; almeno cinque. Attualmente il surge è in pieno corso di sviluppo e si sta concentrando soprattutto nelle aree meridionali del Paese, nelle provincie di Hellmand e Kandahar, dove la presenza talebana è più forte. Qui, nel mese di febbraio, è stata condotta l’operazione Moshtarak per conquistare il distretto di Marjah, centro nevralgico per le operazioni degli insorti e snodo di collegamento fra coltivatori di oppio, trafficanti e talebani. All’operazione hanno preso parte 15mila uomini, metà afgani e metà Marines della II Meb, e una piccola aliquota di soldati Inglesi. All’incremento della presenza militare sul terreno, si è accompagnato anche la ristrutturazione della catena di comando ed il cambiamento di strategia. Per quanto riguarda il primo aspetto, a partire dall’agosto dello scorso anno, nell’ambito di Isaf è stata creato un alto comando, che cura gli aspetti strategici, guidato da un generale a quattro stelle (attualmente Stanley McChristal), ed un comando subordinato congiunto guidato da un generale a tre stelle, per la gestione degli aspetti operativi e tattici, entrambi di stanza a Kabul. Per migliorare il coordinamento con l’operazione Enduring Freedom, sotto la cui responsabilità operano ancora quasi 20mila soldati americani, è stata costituita una nuova struttura funzionale, denominata US ForcesAfghanistan, sotto la quale operano tutti i soldati americani in Afghanistan, comandata dallo stesso McChristal. Infine, proprio contestualmente al surge, il comando

regionale sud, uno dei cinque comandi regionali in cui si articola Isaf sul terreno, verrà sdoppiato in due strutture: Regional Command South West (Hellmand), comprendente inglesi e marines, e Regional Command South East (Kandahar), una struttura interamente, o quasi, US Army. Accanto a questa organizzazione a carattere operativo, a partire dall’ottobre 2009, Isaf ha deciso di creare anche una struttura in grado di coordinare l’addestramento di tutte le forze afgane. È nata così la Nato-Training Mission Afghanistan che ha assorbito i compiti in tale campo esercitati fino ad allora dal Combined Security Transition Command – Afghanistan (la struttura che rappresenta il vertice di Enduring Freedom in Afghanistan). Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, il cambiamento di strategia, questo era di fatto già in atto dai primi del 2009. Rispetto all’approccio largamente convenzionale usato per anni in Afghanistan, con l’avvento del generale Mc Christal alla guida delle forze alleate, si è privilegiato una strategia di contro-insurrezione pura, ispirata alla dottrina Petraeus. Un passaggio molto significativo che ha portato ad un maggiore impiego delle truppe nei villaggi, soprattutto unità di fanteria leggera come i marines, e di personale civile in grado sia di supportare i militari nell’ingaggio dei leader locali (Kei, Key Leader Engagement), sia di costituire un primo embrione di presenza amministrativa negli stessi villaggi una volta bonificati (i talebani hanno infatti creato in gran parte dei territori sotto il loro controllo una struttura amministrativa parallela al cui vertice siedono i governatori ombra). Allo stesso tempo, con un’apposita direttiva emanata nell’agosto 2009, è stato deciso di limitare al minimo l’impiego del potere aereo in operazioni offensive. Il gran numero di perdite civili, provocate dai numerosi raid aerei a cui per anni è ricorsa Isaf per colmare il gap di presenza operativa sul terreno, aveva infatti alienato il consenso di buona parte della popolazione locale, fondamentale invece in operazioni di controguerriglia. Una limitazione, tuttavia, che non è valsa per le attività di ricognizione e intelligence e, soprattutto, per l’impiego dei velivoli non guidati Predator. Anzi, con l’avvento di Obama, i raid condotti con i Predator 33


Risk in territorio pachistano sono cresciuti a dismisura. Tra gennaio e la fine di marzo, questi sono stati ben 27, laddove in tutto il 2009 erano stati 53 contro i 38 del 2008 e i cinque del 2007, ed hanno portato all’uccisione di ben 189 operativi talebani, di Al Qaeda o della rete Haqqani, con nessuna vittima civile collaterale, mentre queste ultime nel 2009 erano state 43 (a dimostrazione del netto miglioramento della precisione degli attacchi). L’ultimo elemento che contraddistingue il cambio di strategia in Afghanistan è il rafforzamento delle forze di sicurezza locali, a cominciare dall’esercito. Ad oggi l’Ana (Afghan National Army) ha un organico di circa 95mila uomini. L’obiettivo è arrivare a 134mila entro il 2011 e, possibilmente, a 250mila uomini nel 2014. Come dimostrato dall’operazione Moshtarak, le forze afghane stanno già adesso svolgendo un ruolo sempre più importante nelle operazioni di contro-guerriglia. Restano però molti problemi in diversi settori tanto che una reale autonomia è ancora di là da venire. Tali problemi riguardano l’equipaggiamento, le capacità di pianificazione e la logistica. Per la gran parte l’armamento è quello ex sovietico – Kalashnikov, mortai da 82 mm, lanciarazzi Rpg, pezzi di artiglieria D-30 ecc.. – e di moderno c’è veramente poco. Gli americani hanno donato qualche migliaio di gipponi Humvee, blindati M-113, la Grecia sta facendo altrettanto con 13 carri M60A3 (potrebbero arrivare ad una cinquantina) mentre continuano le acquisizioni di fucili d’assalto M-16 ed M-4 (l’obiettivo è quello di dotare l’esercito afgano di soli M-16 ed M-4, e pensionare così tutti gli AK-47, entro il 2011). Peggiore la situazione nel campo della pianificazione e della logistica. Se non fosse per la presenza degli Omlt – i team di consiglieri e addestratori dei contingenti Nato inseriti a tutti i livelli organici dell’Ana – l’esercito afgano non riuscirebbe a pianificare un’operazione militare in modo autonomo, con la conseguenza che l’andamento dell’azione sul campo sarebbe affidato esclusivamente all’iniziativa ed all’improvvisazione dei singoli comandanti dei kandak. Uomini d’indubbio coraggio, ma del tutto estemporanei in quanto a tattiche e dottrina. Stesso discorso per la logistica. Senza Isaf e senza Enduring Freedom, l’eser34

cito afgano non ha oggi la capacità di supportare e sostenere per tempi prolungati le sue forze sul campo. Altri due grandi problemi sono il livello di analfabetismo, pari addirittura al 90%, e gli equilibri interni, che attualmente stanno privilegiando troppo la componente tagika a discapito soprattutto di quella pashtun. A partire dal 2009, l’impegno americano è aumentato anche in Yemen, in concomitanza con l’acuirsi dei fronti di instabilità che ne minacciano la stabilità. Gli americani operano nel Paese sin dal 2001/2002, nell’ambito della guerra globale al terrorismo, con forze speciali ed elementi della Cia per l’addestramento e il mentoring delle forze di sicurezza locali e per dare la caccia alle cellule qaediste. Ma non sono mancati neanche i raid condotti con i Predator. Quello del 2002 contro il leader qaedista Al Harithi, una delle menti dell’attacco contro la USS Cole nel porto di Aden nell’ottobre 2000, o i raid condotti lo scorso dicembre e gennaio a seguito del fallito attentato di Detroit. Questo impegno a carattere operativo, è stato abbinato all’assistenza finanziaria. Nel 2009 questa ha superato i 70 milioni di dollari, compresi gli aiuti allo sviluppo del Dipartimento di Stato e quest’anno è stata raddoppiata, raggiungendo i 150 milioni di dollari. Un altro fronte potrebbe riaprirsi anche in Somalia, dove il governo di transizione appoggiato dalla comunità internazionale, e guidato dall’ex leader delle Corti Islamiche Ahmed Sharif, sta combattendo contro i ribelli islamici filo-qaedisti di Shabab e Hizbul Islam. Per dare un maggiore supporto al Governo, che controlla a malapena alcune aree di Mogadiscio e sopravvive solo grazie all’appoggio dei militari ugandesi e burundesi della missione Amisom, gli Stati Uniti starebbero pensando all’impiego di nuclei di forze speciali, con compiti di assistenza per le forze locali e di marcatura dei bersagli, e ad attacchi aerei, soprattutto con i Predator, di stanza nella vicina base americana di Gibuti ed alle Seychelles. Al momento, tuttavia, tale scenario non si è ancora concretizzato, resta il fatto che gli Americani stanno guardando con sempre maggiore preoccupazione a ciò che sta accadendo in Somalia nel timore che questa possa trasformarsi in un ennesimo paradiso per lo jihadismo globale.



Risk

SPAZIO E CYBERSPAZIO AL CENTRO DEL GRANDE BUSINESS, SENZA DIMENTICARE LA DETERRENZA

L’INDUSTRIA MILITARE METTE LE ALI DI

L

MICHELE NONES E ALESSANDRO MARRONE

a pubblicazione della Quadrennial Defence Review (Qdr) rappresenta anche per l’industria della difesa americana un importante appuntamento. Consente, infatti, di avere visibilità sulle prospettive del mercato interno nel breve-medio periodo. La definizione del quadro strategico di riferimento permette all’industria statunitense di prevedere le priorità a livello di

programmi, prodotti e tecnologie, e quindi di segmenti produttivi. Su questa base possono essere definite le strategie industriali e, soprattutto, in quali direzioni indirizzare gli investimenti. È quindi un vantaggio competitivo di non poco conto, se si considera che nel mercato europeo non vi è nulla di analogo, se non nel Regno Unito e in Francia, mentre a livello complessivo si continua a pagare il prezzo di un mercato frammentato e fortemente differenziato in cui l’Eda, l’Agenzia Europea di Difesa, è costretta a conquistare faticosamente, giorno per giorno, il consenso degli Stati europei ad una strategia comune che superi le dimensioni nazionali delle politiche di difesa. Quello americano è il più importante mercato del mondo sia per dimensioni sia per livello tecnologico. È ovviamente il mercato di riferimento per i gruppi americani, ma influenza anche gli altri, e in particolare quelli europei: quasi tutti i grandi gruppi del Vecchio Continente, infatti, stanno aumentando la loro presenza oltreatlantico sia acquisendo società americane (Finmeccanica con Drs, Fincantieri con Manitowoc Marine Group, 36

mentre fin dalla sua nascita nel 1999 Bae Systems, ha una radicata presenza industriale oltre Atlantico), sia costituendo proprie filiali e realizzando nuovi impianti (AgustaWestland, Eurocopter e, già da due decenni, Beretta), sia alleandosi con industrie americane per integrare e personalizzare i propri prodotti secondo i requisiti delle Forze Armate (Alenia Aeronautica con L3, AgustaWestland con Lockheed, Fincantieri con Lockheed e Boeing, Airbus con Northrop Grumman). Gli Stati Uniti sono diventati un importante mercato di sbocco per molti prodotti europei. Si è così venuto a ribilanciare, per lo meno in parte, l’interscambio di sistemi militari, anche se, considerando apparati e componenti, il grado di “americanizzazione” dei prodotti europei resta mediamente elevato, seppur con significative differenziazioni. Vi è, infine, da considerare l’effetto di trascinamento che quel mercato esercita: essendo il benchmarking per il settore difesa, le tendenze che lo caratterizzano sono destinate a riflettersi sull’intero mercato mondiale. Questa Qdr è importante anche perché è la prima della


dossier nuova Amministrazione americana e tiene conto dell’esperienza sul campo maturata prima in Iraq e poi in Afghanistan. Il prolungarsi dell’attività degli insorgenti e delle perdite americane ha evidenziato alcune carenze anche in termini di equipaggiamenti, sia quantitativamente sia qualitativamente. Nello stesso tempo sono stati tuttavia conseguiti risultati importanti grazie all’utilizzo di alcuni nuovi prodotti sviluppati o perfezionati in questi ultimi anni. Tutto ciò ha determinato una profonda riflessione, soprattutto in due direzioni: il ruolo della deterrenza nucleare e quello dei nuovi sistemi d’arma, oltre che, più in generale, dell’utilizzo dell’incredibile quantità di informazioni disponibili. In termini generali la Qdr sostiene che il deterrente americano rimane basato sulle forze terrestri, navali ed aeree capaci di combattere conflitti su piccola e grande scala e di rispondere al completo spettro di minacce poste da stati e attori non statali. Le Forze Armate americane sono messe in grado di operare dalle capacità nello spazio e nel cyberspazio, e rafforzate dalle capacità di interdizione fornite dalla difesa antimissilistica e contro le armi di distruzione di massa (WmdWeapons of Mass Distruction), nonché dalla resilience (resistenza, capacità di adattamento e di rapida ricostruzione) del sistema-America e dal posizionamento globale degli Usa. La Qdr conferma che, fino a quando l’obiettivo dell’Amministrazione di un mondo senza armi nucleari non sarà raggiunto, le capacità nucleari rimarranno una “core mission” del dipartimento della Difesa. Sarà perciò mantenuto un arsenale nucleare sicuro ed efficace al minimo livello possibile coerentemente con gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati, per esercitare la deterrenza contro attacchi agli Stati Uniti e ai loro alleati e partner. Gli Stati Uniti si propongono inoltre di rafforzare il loro approccio alla deterrenza in molteplici modi. In primo luogo, migliorando la capacità di identificare gli autori di attacchi nel cyber-

In merito alla tanto attesa riforma del sistema di controllo delle esportazioni americane, la Qdr sostiene in termini estremamente netti che l’attuale sistema è una “reliquia” della Guerra Fredda e deve essere adattato ad affrontare le minacce attuali: così come è oggi impedisce la cooperazione, la condivisione tecnologica e l’inter-operabilità con gli alleati spazio, nello spazio o attraverso Wmd, al fine di poter attribuire loro la responsabilità degli attacchi e impedire di nascondersi o di usare intermediari. Allo stesso tempo, per rafforzare gli impegni presi con alleati e partner, si punta a una stretta consultazione con loro su nuove, specifiche, architetture di deterrenza regionali, che combinino la presenza americana avanzata in loco, rilevanti capacità convenzionali incluse difese missilistiche, e un continuo impegno a mantenere il deterrente nucleare esteso. Tali architetture regionali e nuove capacità, come spiegato nella Ballistic Missile Defence Review e nella Nuclear Posture Review, rendono possibile un ruolo ridotto per le armi nucleari nella strategia di sicurezza nazionale americana. La resilience degli Stati Uniti è un’altra importante dimensione dell’approccio alla deterrenza, come lo è la capacità degli Stati Uniti di assistere gli alleati nella risposta ad attacchi e a disastri naturali. Infine, gli Stati Uniti lavoreranno con i paesi con cui c’è affinità su tali questioni per rafforzare le norme di com37


portamento nei casi in cui un attacco contro una nazione abbia effetti su tutti, in particolare nello spazio e nel cyberspazio. Per mettere in pratica questo approccio la Qdr propone le seguenti linee guida operative: • ampliare le capacità future di colpire a lunga distanza; • sfruttare maggiormente le operazioni sottomarine; • aumentare la resistenza delle basi e infrastrutture americane all’estero; • garantirsi l’accesso allo spazio e l’utilizzo di asset spaziali; • rafforzare le capacità di intelligence, sorveglianza e ricognizione; • annullare i sensori e i sistemi di rilevazione nemici; • rafforzare la presenza e la capacità di reazione delle forze americane all’estero. In questo contesto, assumono maggiore importanza rispetto al pre-11 settembre diverse capacità convenzionali. In primis, quella di inviare soldati americani (Forze Speciali o vere e proprie truppe) in operazioni militari oltremare volte ad eliminare/punire gli aggressori non statali che abbiano pianificato attacchi contro gli Usa: aumenta, quindi, l’importanza del posizionamento mondiale di basi americane, delle capacità expeditionary, dei sistemi di sorveglianza e intelligence, ecc.. In secondo luogo, la capacità di costruire e dispiegare un sistema regionale di difesa antimissile tale da rendere inutile/inefficace per stati come l’Iran o la Corea del Nord la minaccia di mandare un missile nucleare contro il territorio di paesi alleati. Infine, aumenta l’importanza delle capacità tecnologiche necessarie per rendere sicuri nuovi possibili teatri di attacco come il cyberspazio e lo spazio, e usare gli asset spaziali e cibernetici per rafforzare le suddette capacità convenzionali. Tutto questo comporta un’ulteriore crescita delle capacità tecnologiche e industriali americane in modo da assicurare alle Forze Armate le nuove capacità operative perse38

guite. Per quanto riguarda il rafforzamento della base industriale americana, la Qdr ribadisce chiaramente che la sicurezza e la prosperità dell’America sono sempre più collegate con l’efficienza della base tecnologica e industriale nazionale. Per mantenere il vantaggio strategico anche in futuro, il Dipartimento della Difesa ha bisogno di una forte e realistica strategia di lungo termine per modellare la struttura e le capacità della base tecnologica e industriale della difesa, una strategia che tenga meglio conto della rapida evoluzione della tecnologia civile, così come dei requisiti eccezionali dei conflitti in corso. In merito alla tanto attesa riforma del sistema di controllo delle esportazioni americane, la Qdr sostiene in termini estremamente netti che l’attuale sistema è una “reliquia” della Guerra Fredda e deve essere adattato per affrontare le minacce attuali: così come è oggi impedisce la cooperazione, la condivisione della tecnologia e l’interoperabilità con gli alleati e i partner, ostacolando la competitività industriale degli Stati Uniti. Il Dipartimento della Difesa lavorerà, quindi, con gli altri Dipartimenti e Agenzie e col Congresso per assicurare che il nuovo sistema affronti tutte le minacce che gli Stati Uniti dovranno fronteggiare in futuro.

In conclusione, lo scenario

che si prospetta è quello di un nuovo balzo in avanti delle capacità tecnologiche e industriali americane sia nelle dimensioni spaziali e cibernetiche, sia nel settore della sensoristica su tutte le piattaforme possibili, della comunicazione, protezione dei mezzi e del personale, trasporto aereo, automazione e controllo remoto delle piattaforme , armamento di precisione, capacità antimissili, ecc. L’effetto complessivo sarà un rafforzamento dell’industria americana nel campo degli armamenti convenzionali, come auspicato dalla Qdr. La stessa “apertura” sulla necessità di allentare i vincoli ai trasferimenti di prodotti e tecnologie


nei confronti di alleati e partner, oggi fortemente ostacolata dalla International Trade Armaments Regulation (Itar), deve essere vista anche come espressione della volontà di consolidare l’industria americana, evitando che le difficoltà e la lentezza delle attuali procedure spingano soprattutto le industrie europee verso soluzioni “Itar free” a livello di componenti e apparati. Soluzioni che danneggerebbero il flusso di eccellenze tecnologiche americane verso la base industriale europea, e quindi la solidità dell’industria di oltre Atlantico. Questa spinta finirebbe, di fatto, anche col minare gli sforzi sul piano dell’interoperabilità. Inoltre, rischia di precludere futuri programmi di cooperazione intergovernativa perché, come si è visto e si sta vedendo col programma F-35 Joint Strike Fighter, ogni trasferimento di tecnologia comporta uno sforzo inaudito per superare le defatiganti procedure americane di controllo sulle esportazioni. E questo andrebbe a discapito dell’auspicabile maggiore comunalità dei mezzi fra le Forze Armate alleate, oltre che della possibilità di ottenere un co-finanziamento dei sempre più costosi programmi di ricerca e sviluppo per nuovi equipaggiamenti. Per l’industria europea si profila, di conseguenza, una nuova sfida tecnologica. La sua crescente presenza diretta sul mercato americano offrirà nuove opportunità, soprattutto in quelle aree in cui l’industria europea ha raggiunto livelli di eccellenza, come l’elicotteristica, il trasporto aereo tattico, l’aerorifornimento, alcuni segmenti della cantieristica, i cannoni navali, i velivoli da addestramento. Ma nello stesso tempo emergerà ancora più il differenziale col suo mercato di riferimento, quello europeo. Se l’Europa non si sveglierà al più presto, creando un mercato europeo integrato che renda più efficienti gli investimenti nel campo della difesa e possibilmente gli aumenti, il divario tecnologico transatlantico rischierà di accentuarsi e diventerà incolmabile.


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Controllo delle esportazioni militari:sì,ma in linea con la Ue Anche l’anno scorso l’industria italiana dell’aerospazio, sicurezza e difesa è riuscita a far crescere le esportazioni, ottenendo autorizzazioni per 4,9 miliardi di euro (esclusi i programmi intergovernativi) con un aumento del 61% sull’anno precedente. Si è così confermato il trend di crescita che si era già evidenziato con un aumento del 29% nel 2008 e dell’8% nel 2007. A queste autorizzazioni vanno aggiunti circa 1,8 miliardi dei programmi intergovernativi, destinati ad equipaggiare anche le nostre Forze Armate, ma in questo caso l’attività esportativa è compensata da analoghe importazioni volte ad assicurare il rispetto del principio cost sharing/work sharing e, quindi, non possono essere considerate vere esportazioni. Sono, comunque, anch’esse un indicatore importante delle capacità tecnologiche e industriali raggiunte dall’industria italiana, perché attestano il loro riconoscimento da parte degli altri partner internazionali che accettano un alto grado di interdipendenza per componenti e parti tecnologicamente avanzate. I dati sono stati pubblicati a fine marzo nel Rapporto del presidente del Consiglio sulle esportazioni militari. Fra quelli più significativi vi è il forte aumento delle autorizzazioni più importanti (sopra i 50 milioni di euro) passate da 8 a 22, che da sole coprono quasi il 60% di tutte le autorizzazioni concesse. Fra i principali clienti al primo posto vi è l’Arabia Saudita col 16% (soprattutto grazie ai velivoli Typhoon venduti dal Regno Unito, ma realizzati da un consorzio europeo), seguita da Germania con l’8%, Stati Uniti con il 7%, Regno Unito con il 5,6%, Qatar con il 4,7% (elicotteri medio-pesanti AW-101), India con il 3,6% (nave logistica classe Etna), Romania con il 3,2%, Spagna con il 2,9%, Emirati Arabi Uniti il 2,6%, Marocco con il 2,3%. Bisogna, però, considerare anche il valore delle esportazioni effettuate nel 2009 che si attesta su 2.205 milioni di euro con un aumento di quasi il 25% sull’anno precedente. Di queste 924 milioni di euro, pari al 42%, sono dovute ai programmi intergovernativi. Va, comunque, sottolineato che c’è una sfasatura temporale fra le esportazioni

40

autorizzate (che si svilupperanno, ma a volte non completamente, negli anni successivi) e quelle effettuate (autorizzate anche in anni precedenti). Questi positivi risultati portano ad alcune riflessioni: 1) L’industria italiana ha dovuto e deve trovare nuovi sbocchi sul mercato internazionale a causa della limitatezza del mercato domestico, non più in grado di favorire il necessario e continuo processo di innovazione tecnologica imposto dal mercato militare. 2) Per rimanere sul mercato, l’industria italiana della difesa si è dovuta rafforzare e internazionalizzare nell’ultimo decennio, diventando un player nel mercato mondiale. Ma questo spinge ancora di più verso l’export. 3) Sul mercato della difesa non pesano solo le capacità tecnologiche, industriali e commerciali, ma anche il supporto del Governo e delle Amministrazioni pubbliche. Bisogna, quindi, rafforzarlo e renderlo più sistematico in modo da valorizzare la disponibilità che si è riscontrata, soprattutto in questi ultimi anni. 4) Questa strategia comporta l’assunzione di impegni verso i paesi clienti, soprattutto per quanto attiene la tempestività del supporto logistico e la gestione dei programmi intergovernativi, che coinvolgono la credibilità dell’intero sistema-paese. Ma i lacci e laccioli che caratterizzano il nostro sistema di controllo delle esportazioni sul piano normativo e procedurale rappresentano un fattore di alto rischio per l’attività. Per questo è da tempo indispensabile adeguare la nostra normativa ed allinearla con quella dei principali paesi europei. I nuovi impegni assunti dall’Italia in sede europea e, in particolare, il recepimento della Direttiva europea sui trasferimenti intracomunitari e della Posizione Comune sulle esportazioni verso i paesi terzi impongono una profonda trasformazione del nostro sistema di controllo delle esportazioni e sono, quindi, un’occasione unica per dare al nostro paese un moderno sistema di controllo delle esportazioni militari che sia più efficiente senza essere inutilmente rigido e complicato.


dossier

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Chi ha paura dei missili di Teheran e Damasco? Se l’Iran non perde occasione per suscitare preoccupazioni, si tratti del programma clandestino militare nucleare o dei missili balistici, la Siria non è da meno. Se infatti Teheran intensifica gli sforzi per dotarsi di sempre più numerosi missili balistici, con gittata via via superiore, la Siria avrebbe pensato bene di cedere un buon numero di missili Scud-D agli Hezbollah libanesi. Quanto a Teheran, se il programma nucleare per fortuna procede molto meno speditamente di quanto non si pensi, sia grazie all’embargo internazionale, che per quanto blando e selettivo, in realtà “morde”, sia perché gli iraniani, per quanto in gamba, un po’ di pasticci li combinano, sia perché le operazioni della comunità intelligence, sulle quali non è il caso di addentrarci, ottengono buoni risultati, in campo missilistico le cose vanno diversamente. Lo stesso Pentagono ora sostiene che l’Iran potrebbe disporre di un missile balistico intercontinentale in grado di raggiungere gli Stati Uniti già nel 2015. E sicuramente ha costruito un arsenale che comprende circa mille missili, con una gittata compresa tra 150 e 2mila km. Particolarmente preoccupanti sono le nuove versioni del missile Shahab 3, del quale complessivamente sono in servizio circa 300 esemplari. L’arma è operativa dal 2003 e può arrivare a circa 1.800 km di distanza. Più recentemente è apparso il missile Sejil-2, un bistadio a propellenti solidi, che viene accreditato di una gittata compresa tra i 2mila ed i 2.500 km e che sarebbe prossimo ad entrare in servizio. Per non parlare dei possibili sviluppi del vettore spaziale iraniano Simoregh, che potrebbe costituire la base per un missile intercontinentale. Per fortuna questi missili non dispongono ancora di un veicolo di rientro e di una testata nucleare. Ma consentono comunque di “battere” una quantità di possibile bersagli, nella regione del Golfo, di minacciare Israele nonché di colpire anche l’Europa. E

anche se per ora non sono vettori di armi nucleari la preoccupazione è più che legittima e provoca infatti in molti Paesi una corsa ai sistemi di difesa antimissile nonché la ricerca di “protezione” da parte di chi dispone di un deterrente nucleare, come è il caso per gli Stati Uniti e la Francia. Quanto all’asserito possesso da parte di Hezbollah di missili Scud-D, se confermato, si tratterebbe di uno sviluppo destabilizzante. Lo Scud-D infatti, lungo 13 metri, porta una testata di 500 kg fino a 700 km di distanza e quindi può mettere sotto tiro la maggior parte di Israele. Le autorità libanesi e siriane hanno smentito decisamente le accuse israeliane e statunitensi. In particolare il ministro degli Esteri libanese ha ricordato che accuse del genere hanno portato alla Seconda Guerra del Golfo e all’invasione dell’Iraq, senza poi che si trovasse alcuna arma di distruzione di massa e relativo vettore. In effetti sembra piuttosto difficile immaginare che Hezbollah, pur con tutto l’addestramento fornito dalla Siria, cerchi di impiegare un missile così complesso, a propellenti liquidi, che richiede una lunga preparazione prima del lancio e che è piuttosto “delicato” da conservare e mantenere in efficienza, per non parlare del propellente. Sul fatto che sia possibile invece nascondere missili Scud e relativi veicoli di trasporto e lancio non ci sono dubbi: i posti dove nascondere un grosso autocarro non mancano. Però Hexbollah ha già razzi d’artiglieria come gli M600 che pur avendo una gittata inferiore, 250 km, sono a propellenti solidi, di rapido e relativamente facile utilizzo e discretamente precisi. Per ora quindi non c’è nessuna certezza sulla presenza degli Scud. E forse la diffusione di queste notizie potrebbe invece essere legato al cauto e lento processo di riavvicinamento che Washington sta compiendo nei confronti di Damasco. E che Israele vede ovviamente come il fumo negli occhi. 41


S

cenari

EUROPA

L’EUROZONA A RISCHIO BRETTON WOODS DI JOHN

MAKIN

attuale dibattito sulla sostecomporterebbe la fine della Uem. nibilità della presenza Nei quasi quarant’anni trascorsi greca all’interno deldalla fine del sistema di Bretton l’Unione Economica e Monetaria Woods di tassi fissi di cambio, i Europea (Uem) ricorda, sotto molti governi e le banche centrali aspetti, gli eventi che hanno condotto hanno ripetutamente imposto al collasso del sistema di Bretton svariati, inutili fardelli nel tentatiWoods – un altro regime valutario in vo di mantenere dei tassi di camultima analisi insostenibile – creato in bio rivelatisi insostenibili. Nel seguito al secondo conflitto mondiale 1971, i governi negarono per un e che ebbe termine con l’interruzione periodo la fattibilità di espedienti della convertibilità del dollaro in oro quali la fluttuazione dei tassi di dopo l’agosto del 1971. Il periodo di cambio. In realtà, i tentativi espeaccresciuta flessibilità nei tassi di riti nel dicembre 1971 al fine di cambio che seguì la fine del sistema ritornare velocemente al sistema di Bretton Woods si rivelò vantaggiodi tassi fissi, definito al tempo dal so. La stessa possibilità esiste con presidente Nixon «il più signifiriferimento alle conseguenze dell’atcativo accordo monetario nella I tassi fissi di cambio sono tuale crisi valutaria in Europa. In ogni storia del mondo» furono avari di una zavorra: perché la caso, per il momento i governi eurorisultati. A partire dal febbraio Grecia non sarà mai la Germania. Esattamente pei ed il Fondo Monetario 1973, tutti i meccanismi di ancocome l’Argentina non riuscì Internazionale (Fmi) hanno promesramento valutario vennero a stare dietro agli Usa e finì so 110 miliardi di dollari per la abbandonati in quanto pochi per collassare. Una lezione che Bce e Fmi sembrano Grecia, al fine di risollevare la non paesi, se non nessuno, erano aver scordato. eccellente eurozona, la quale racchiudisponibili o in grado di perseguide (assieme alla Grecia) Spagna, re politiche coerenti con i tassi Portogallo ed Irlanda in un’unione valutaria nominale fissi di cambio. Né avrebbero dovuto farlo. con paesi del calibro della Germania. Anche tale siste- L’abbandono delle regole sancite a Bretton Woods ma si incrinerà; ma per l’Europa gli effetti saranno – sebbene al tempo non venne pienamente comprepositivi, a dispetto dei molteplici avvertimenti da parte so – fu positivo. Gli shock petroliferi del 1973-74 dei politici europei di quale “inimmaginabile” disastro avrebbero distrutto qualsiasi sistema di tassi fissi in

L’

42


scenari virtù di una crisi di sistema altamente distruttiva che richiedeva sostanziali aggiustamenti dei rapporti di cambio. Oggi, sostanziali aggiustamenti sono richiesti nell’Uem a seguito della turbolenza economico-finanziaria del 2008 causata dallo scoppio della bolla immobiliare. Sin dagli anni ’70, tra i più avventati tentativi di ancoramento di una valuta ad un tasso fisso si possono sicuramente enumerare quelli relativi ad Argentina, Grecia e Cina. L’agganciamento dell’Argentina al dollaro statunitense durò dal 1991 fino al 2001, e si concluse con un default di debito da parte di Buenos Aires e, naturalmente, con la fine di tale rapporto di cambio del peso argentino rispetto al dollaro. Incurante dei costi e delle distorsioni associate a tassi insostenibili, l’Uem ha reso l’Euro la valuta ufficiale di una serie di paesi profondamente diversi tra loro, alcuni dei quali non dovrebbero far parte di un blocco basato su una moneta forte ed incentrato sulla Germania. Fingere che il peso argentino sia uguale al dollaro statunitense o che Grecia e Germania possano operare con una valuta comune non corrisponde alla realtà, a meno che l’Argentina non adotti le politiche monetarie della Federal Reserve o la Grecia quelle della Banca Centrale Europea (Bce), una parente stretta della tedesca Bundesbank. Gli sforzi per unire monete diverse tra loro dovrebbe essere guidato da principi basilari dell’economia. La teoria dell’area valutaria ottimale venne sviluppata molto tempo fa dal premio Nobel Robert A. Mundell, un economista canadese che rifletté a lungo sull’auspicabilità di un tasso di cambio fisso tra Canada e Stati Uniti. Verrà detto di più riguardo a ciò nel contesto di una discussione più dettagliata sul perché l’indice valutario argentino dovesse cadere in pezzi e sul perché l’Uem non avrebbe dovuto accogliere molti paesi europei – tra cui la Grecia. Rilevante ai fini del ragionamento sulla sostenibilità dell’Uem è anche l’innovativa analisi di Robert Triffin sul perché il sistema di Bretton

Woods di tassi fissi di cambio, ivi compreso l’agganciamento del dollaro all’oro, dovesse crollare. Come Triffin spiega nel suo libro Gold and the Dollar Crisis, le disposizioni in virtù delle quali gli Stati Uniti erano obbligati secondo i termini dell’accordo di Bretton Woods a garantire il prezzo dell’oro a 35 dollari l’oncia e a fornire oro, su richiesta, a quel tasso alle altre banche centrali non poteva essere sostenuto. Nel corso degli anni Sessanta, quanto più i prezzi salivano, tanti meno beni – diversi dall’oro – potevano essere acquistati con 35 dollari. Quindi, come sancisce la Legge di Gresham, la fornitura statunitense di oro si esaurì mentre la moneta cattiva (il dollaro) scacciava quella buona (l’oro). Il sistema di Bretton Woods e l’agganciamento del dollaro all’oro misero gli Stati Uniti nella posizione di fungere da fornitore residuale di oro a coloro che avvertivano un’erosione nel potere d’acquisto del dollaro mentre l’inflazione statunitense cresceva. Quando, nell’agosto 1971, divenne chiaro che gli Stati Uniti non sarebbero più stati in grado di provvedere alla crescente domanda di oro, il paese abbandonò il tasso di convertibilità a 35 dollari l’oncia. Le analogie tra il potenziale collasso dell’Uem e quello del sistema di Bretton Woods emergeranno in seguito. È ironico che l’instabilità dei sistemi valutari ancorati ad un tasso fisso – solitamente creati al fine di promuovere proprio una maggiore stabilità – derivino da un aspetto basilare. I paesi che stabilizzano le proprie valute perdono il controllo sulla politica monetaria. Se la Grecia utilizza la stessa moneta della Germania, deve adottare la politica monetaria dell’Uem. Se gli Stati Uniti stabilizzano la propria valuta agganciandola all’oro, devono adottare politiche monetarie che implichino un prezzo fisso del dollaro in oro ed il mantenimento di prezzi stabili. Ciò può essere auspicabile o meno, ma il dire semplicemente che “il dollaro vale tanto quanto l’oro” o che la Grecia ha una valuta forte non significa che ciò sia vero. Quando le politiche divergono, aumenta la pressio43


Risk ne affinché la stabilizzazione ad un tasso fisso si interrompa. Una crisi si origina – come l’attuale crisi greca – e vengono lanciati appelli per una rapida riduzione della spesa nei paesi in cui sono emersi segnali di spesa eccessiva. Se lo sforamento dei termini di spesa prosegue troppo a lungo e l’accumulazione del debito imbocca un sentiero instabile, insostenibile, l’indice valutario si rompe. Avendo accumulato sostanziali debiti con una valuta forte (come accaduto nel caso dell’Argentina e della Grecia), un default accompagna il collasso dell’indice valutario. Gli Stati Uniti non hanno avuto ufficialmente bisogno di dichiararsi inadempienti alla fine del sistema di Bretton Woods in quanto hanno semplicemente svalutato il dollaro nei confronti dell’oro e di altre monete: in concreto, diminuendo il valore reale dei loro debiti con l’estero in termini di valuta forte e di oro. La prontezza dei governi nel godere dei sopravvalutati benefici dei tassi fissi di cambio senza pagare il prezzo di tali aggiustamenti porta a crisi dei tassi di cambio finanziari. Al di là dei casi della Grecia nell’Uem e degli Stati Uniti nel sistema di Bretton Woods esiste una lunga lista di crisi “distruttive” legate a testardi e, in ultima analisi, infruttuosi sforzi per mantenere indici valutari non più praticabili. I governi che causano tali crisi e gli economisti che nel pieno della tempesta lamentano il “fallimento dell’economia” sembrano non riconoscere un fattore fondamentale basato in larga misura sulla teoria economica: un paese o una regione possono stabilizzare il prezzo del denaro in rapporto ad altre valute – il tasso di cambio – o la quantità di emissione della propria moneta, ma non possono fare entrambe le cose. I membri di un’area valutaria ottimale, la cui teoria, come ricordato in precedenza, Mundell elaborò cinquant’anni or sono, devono garantire la mobilità del lavoro, dei capitali, o entrambi, o permettere altrimenti cospicui trasferimenti di risorse tra di loro per godere dei benefici di una moneta unica. Ad esempio, la Grecia non dovrebbe condividere la 44

stessa moneta della Germania (o avere una valuta stabilizzata ai tassi della Germania) come ha invece fatto entrando nell’Uem, a meno che il governo di Atene non sia fermamente disposto ad adottare le politiche monetarie tedesche come sottolineato dalla Bce. L’unico modo per evitare tutto ciò e mantenere una moneta comune sarebbe garantire la possibilità al mercato del lavoro greco di spingersi liberamente verso la Germania frattanto che le pressioni per il deprezzamento della valuta aumentano, come il mercato del lavoro della California può spingersi verso il Colorado o qualsiasi altro stato Usa nelle stesse circostanze. La piena mobilità del lavoro – cioè lavoro greco che si muove rapidamente verso la Germania quando la valuta sopravvalutata crea una fornitura in eccesso del lavoro in Grecia ed una domanda di lavoro in eccesso in Germania – eviterebbe la necessità di aggiustamenti valutari. Per come stanno le cose, cospicui aumenti degli indici di produttività del mercato del lavoro tedesco relativi al mercato del lavoro greco ed una politica monetaria dell’Uem finalizzata a conseguire la stabilizzazione dei prezzi nel nord Europa implicano che l’Euro è sopravvalutato in Grecia.

La Grecia – e in tal senso

anche Spagna, Portogallo e Irlanda – è stata, per un po’ di tempo, sostenuta come membro dell’Uem in virtù di sostanziali trasferimenti finanziari da altri paesi europei, in special modo dalla Germania e dalle banche europee. La stessa Bce ha rappresentato il principale viatico per tali trasferimenti. Quando la Grecia, tra le varie economie mediterranee, ha bisogno di prendere in prestito quantità cospicue di moneta per finanziare la spesa in eccesso (in modo conforme con l’unione monetaria), fa affidamento sulla rendita dei bond greci relativa a quella dei bond tedeschi. Le banche europee acquistano i bond greci per ottenere una rendita superiore. Le banche possono quindi finanziare i loro acquisti “scambiando” i bond greci con la Bce a prezzo pieno, consentendo effettivamente alle banche di


scenari prendere in prestito con un tasso dell’1% dalla Bce guadagnando il 6% - o anche di più – sui bond greci. Tale meccanismo fornisce la stessa arbitraggio in un sistema di valuta instabile di quello fornito dall’ancoraggio del dollaro all’oro. Ciò consentì alle banche centrali straniere di scambiare le proprie quote di dollari con l’oro mentre il materiale prezioso stava acquistando valore in termini reali poiché l’inflazione negli Stati Uniti crebbe costantemente dal 1967. Il sussidio a titolo di prestito da parte della Bce ha comportato che la Grecia potesse agevolmente finanziare attraverso i prestiti il crescente deficit fiscale e con l’estero, a dispetto delle rassicurazioni da parte della Bce secondo cui il debito greco dovesse essere considerato alla stregua di quello tedesco. Quando tale asserzione è diventata sempre più forzata in virtù del rapido aumento del debito dovuto ad un’eccessiva spesa finanziaria, un prestito maggiore alla Grecia è diventato anche più redditizio in quanto la Bce ha facilitato il meccanismo di scambio. Il processo è continuato fino a quando, nel novembre 2009, si è improvvisamente “scoperto” che i prestiti concessi alla Grecia erano aumentati così rapidamente che il governo greco stava ammassando un deficit pari a quasi il 13 % del Pil. Tale deficit è stato definito “insostenibile”, ed i ministri delle finanze europei hanno dichiarato che questo deve essere considerevolmente ridotto. Hanno chiesto che il governo greco effettui tagli alla spesa pubblica ed aumenti considerevolmente la pressione fiscale, la qual cosa inasprirebbe il fardello potentemente recessivo sulla Grecia come risultato delle sinora generose condizioni di scambio concesse dalla Bce. Le banche centrali europee hanno convocato i propri ministri delle finanze e hanno chiesto loro di adottare misure per sostenere la Grecia al fine di evitare una svalutazione del debito o del default greci, in quanto entrambe le misure avrebbero conseguenze drammatiche. A prescindere dal pacchetto di salvataggio per la

Grecia annunciato dai governi europei in collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale, la Grecia molto probabilmente imploderà sotto il peso del proprio debito, probabilmente l’anno prossimo, proprio come avvenne in Argentina nel dicembre del 2001 in seguito ad un decennio di agganciamento al dollaro che patì le stesse conseguenze dell’Uem a causa della membership greca. Gli Stati Uniti e l’Argentina non facevano parte di un’ area valutaria ottimale per gli stessi motivi per

L’agganciamento dell’Argentina al dollaro statunitense durò dal 1991 fino al 2001, e si concluse con un default di debito da parte di Buenos Aires e, naturalmente, con la fine di tale rapporto di cambio del peso argentino rispetto al dollaro. Incurante dei costi e delle distorsioni associate a tassi insostenibili, l’Uem ha reso l’Euro la valuta ufficiale di una serie di paesi profondamente diversi tra loro cui non ne fanno parte nemmeno la Grecia e la Germania. L’Argentina spese e prese in prestito in modo eccessivo sulla base del concetto secondo cui il proprio debito espresso in dollari avrebbe mantenuto valore tanto quanto il dollaro emesso dagli Stati Uniti. L’eccessivo ricorso al credito venne seguito dal crollo quando l’Argentina non fu più in grado di ripagare il proprio debito senza misure politicamente catastrofiche quali una ridu45


zione della spesa pubblica o un aumento delle tasse – la stessa situazione con cui deve oggi misurarsi la Grecia. È ripetitivo affermare che non vi è nulla di nuovo. L’ancoramento del dollaro all’oro – il fulcro del sistema postbellico di Bretton Woods – ha prodotto lo stesso risultato: e cioè lo sforamento budgetario da parte degli Stati Uniti. La politica “burro e cannoni” inaugurata dopo il 1967 dal Presidente Lyndon Johnson fu seguita da una svalutazione del dollaro nei confronti sia dell’oro che delle valute forti di Germania, Svizzera e Giappone. Nel caso dell’Uem e della Grecia – con Spagna, Portogallo ed altri paesi che corrono il rischio di ripercorrere le orme di Atene – l’aspetto più sorprendente è il fallimento tanto della leadership europea quanto della Bce nel riconoscere i chiari segnali di un imminente crollo di un regime di tassi fissi. L’ancoramento non praticabile di valute è, come abbiamo visto, un evento verificatosi spesso, la cui identificazione è descritta da vari precedenti e da un’ampia teoria. Le prime fasi possono funzionare bene e consentire un credito aggiuntivo; ma, a meno che non sussistano condizioni quali un alto livello di mobilità del mercato del lavoro o politiche monetarie stabili, l’ancoramento genera un’instabile catena di eventi. L’aumento del credito che il sistema di stabilizzazione di una valuta inizialmente incoraggia la spesa finanziata dal debito. Quando ciò avviene, o il tasso di cambio si aggiusta o il crollo sul debito addizionale avrà luogo. Il ruolo svolto rispettivamente dall’Fondo monetario e dalla Banca centrale nell’attuale crisi greca è particolarmente preoccupante alla luce delle evidenti lezioni su agganciamenti valutari non fattibili che sono giunte dalle numerose crisi precedenti. Nel 2004, dopo un pesante coinvolgimento dell’Fmi nel


scenari tentativo di sostenere l’insostenibile ancoramento dell’Argentina al dollaro, l’ufficio di valutazione indipendente del Fondo pubblicò un rapporto di valutazione, The Imf and Argentina, 1991-2001. Il rapporto si dimostrò volutamente critico nei riguardi del ruolo dell’Fmi nel prolungare l’agganciamento dell’Argentina troppo a lungo offrendo prestiti insensati. La fine di tutto ciò nel dicembre 2001 comportò un crollo distruttivo del debito del paese. Simon Johnson, un ex capo economista del Fondo, ha attentamente ricordato tali vicende dalle pagine del suo sito web, sul quale ha scritto riguardo alla crisi greca e alle sue analogie con il caso dell’Argentina. Johnson ha citato i severi ammonimenti del rapporto dell’Fmi sulla crisi argentina: «Il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe astenersi dall’avviare o mantenere un rapporto programmatico con un paese membro quando non sussiste un bilanciamento nei pagamenti e vi sono seri ostacoli politici nella definizione di misure di aggiustamento o riforme strutturali necessarie». Tale avvertimento contro un finanziamento continuo per un paese con un debito eccessivo che o svaluta o crolla è stato ignorato nel caso della Grecia. Alcuni giorni dopo che Johnson aveva emesso tale giudizio, l’Fmi ha concesso un prestito dell’ammontare di 15 miliardi di dollari come parte del pacchetto di 45 miliardi complessivi da destinare alla Grecia, finalizzato a scongiurare la svalutazione o il collasso. Ironia della sorte, l’aumento della quota del Fondo che ha consentito l’elargizione di un prestito così elevato alla Grecia – ben superiore all’ammontare normalmente concesso basandosi sulla quota di partecipazione della Grecia al Fondo Monetario Internazionale – è stata parzialmente finanziata attraverso un maggior contributo da parte della Grecia all’Fmi. Nessuno sembra aver notato l’assurdità di questo circolo vizioso di finanziamento o di aver appreso la lezione recentemente impartita dall’Argentina. La continuazione nell’anno appena trascorso delle facilitazioni di scambio da parte della Bce – in base

alle quali essa presta effettivamente fondi sovvenzionati alle banche europee per acquistare il debito greco, consentendo così un maggior eccesso di spesa da parte della Grecia – sembra altresì incomprensibile nel contesto di ipervalutazione crescente della valuta greca. Mentre in pubblico pontificava sulla necessità di disciplina fiscale per evitare pressioni inflazionistiche in Europa, la Bce ha consapevolmente operato da fulcro della dissolutezza fiscale greca che ora deplora così tanto. Non deve meravigliare il fatto che i greci siano rimasti disgustati dall’elevata dose di euro-ipocrisia riguardo l’attuale crisi.

Il fatto ovvio è che l’eurozona, con la sua singola banca centrale e sedici diverse tesorerie nazionali, non sopravviverà allo scoppio datato 2008 della bolla finanziaria. Come corollario a ciò vi è da dire che, data la persistente ricorrenza di tali bolle speculative, gli agganciamenti ad un tasso fisso sono sconsigliabili ex ante ed ancor più dannosi ex post mentre i governi sprecano risorse e ritardano aggiustamenti necessari prestando a comodi tassi fissi di cambio che in ultima analisi si sbricioleranno. Il sistema di Bretton Woods, un accordo globale di tassi fissi di cambio, non sopravvisse all’aumento della spesa statunitense legata alla contemporanea ricerca da parte della “Great Society” del presidente Johnson di riforme sociali e alla costosa guerra del Vietnam. Il sistema implose, i tassi di cambio iniziarono a fluttuare, e l’economia mondiale continuò a funzionare in modo più regolare rispetto a prima, quando gli sciagurati tentativi di sostenere i tassi fissi crearono una miriade di costose distorsioni del mercato. Speriamo che gli europei vedano i costi leggeri prima di quelli pesanti e che le distorsioni vengano visitate in Europa per sostenere la fantasia che costituisca un’area valutaria ottimale. Come Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo stanno scoprendo a loro spese, non è proprio così. E non ho nemmeno affrontato il forzato agganciamento della Cina al dollaro. 47


Risk

IRAQ

L’ARABA FENICE IRACHENA DI

OSVALDO BALDACCI

l 2010 è un anno di svolta per L’affluenza elettorale ha dato un l’Iraq. Un anno molto imporbuon risultato: il 62% di votanti è tante, ma anche un anno che inferiore al 74% di 5 anni fa, ma le lo lascia nudo ed esposto a tutti i condizioni sono del tutto diverse. problemi che vengono dall’assunNel 2005 era il primo voto in assozione di responsabilità. Fondaluto, il primo in cui gli sciiti e mentali le elezioni parlamentari anche i curdi potessero far valere il del 7 marzo, le seconde libere loro numero in rivalsa alla tirannia dopo quelle del 2005 e perciò baathista di Saddam, e intanto le quelle che avrebbero dovuto certiforze internazionali avevano il ficare la normalità della vita policontrollo del paese e persino la Il pareggio tra i principali tica irachena. Con esito quanto guerra civile era appena agli inizi. partiti (91 seggi ad Allawi, meno controverso, alcuni dati Oggi invece le elezioni si sono 89 ad al-Maliki, 70 di Hakim, positivi, ma anche rischi e consvolte sotto l’ombrello dell’orgaSadr e Chalabi, 43 ai curdi) lascia il paese in bilico tra un trapposizioni che potrebbero nizzazione e soprattutto della sicugoverno di coalizione e una affossare il paese. Il sostanziale rezza tutta irachena, la paura di contrapposizione forte. Il pareggio tra i principali partiti (91 rischio è che la rissosità politica attentati è diventata quotidiana non scada in nuova violenza. seggi ad Allawi, 89 ad al-Maliki, (benché sia più lontano lo spettro 70 agli sciiti di Hakim, Sadr e di una vera guerra civile), e, tutto Chalabi, 43 ai curdi) lascia il paese in bilico tra un sommato, la situazione politica dà segni di normaligoverno di coalizione e unità oppure una contrap- tà, compreso il rischio di disaffezione degli elettori. posizione forte. D’altro canto è in pieno svolgi- Le milizie sono rimaste abbastanza lontane dai mento il ritiro delle forze statunitensi dalla terra tra seggi, e soprattutto i sunniti hanno partecipato piei due fiumi, e questo ovviamente influenzerà tutta namente al voto che avevano boicottato cinque anni la regione. Nel frattempo la minaccia di al Qaeda è fa. E ricordiamo poi che il processo elettorale unisempre viva, tra alti e bassi, con da un lato una versale, libero e democratico non è poi così comuripresa delle violenze, dall’altro alcuni grandi suc- ne nei paesi arabi, mentre ha funzionato proprio in cessi incamerati dalle autorità di sicurezza. E su Iraq, dove bisogna rimarcare soprattutto la penetratutto quanto avviene nella piana mesopotamica si zione del senso civico, dato che tutti i leader sia posano gli occhi di chi scruta la valle dai monti politici che religiosi che tribali hanno invitato i citoltre il confine iraniano. tadini a svolgere il dovere di votare. Secondo gli Cominciando dai lati positivi, le elezioni parlamen- osservatori internazionali, poi, le operazioni di voto tari in Iraq hanno ottenuto diversi successi. si sono svolte abbastanza regolarmente e senza

I

48


scenari grandi controversie, per non dire brogli. Certo, quest’ultima opinione non è sposata in pieno dai leader iracheni, e questo è il problema. Fin da subito i principali contendenti si sono affrettati a contestare la piena regolarità del voto, soprattutto in relazione alle aree controllate dagli avversari. Il blocco sunnita di Allawi è stato tra i primi a denunciare irregolarità a favore del governo in carica di al-Maliki, ma con i risultati finali che davano Allawi davanti ad al-Maliki, è stato quest’ultimo a rilanciare le accuse e chiedere il riconteggio manuale delle schede. Riconteggio che i tribunali hanno accordato per il distretto di Baghdad, oltre 1,5 milioni di voti per 68 dei 325 seggi in lizza, rinviando così l’insediamento del Parlamento a fine maggio ed alimentando ulteriori recriminazioni. Come quelle di Allawi, che si chiede perché vanno verificati i seggi dove lui è più forte, ma non quelli dove si è affermato il suo rivale. Analoghi dubbi sono stati sollevati in altre realtà, compreso il Kurdistan. E molto pesante è l’intervento dei tribunali anche in relazione al passato baathista di alcuni candidati, specie sunniti e in particolare legati al Blocco Iracheno di Allawi. Su istanza della commissione anti-Baath, di cui fanno parte molti leader sciiti candidati in liste rivali di Allawi, il tribunale iracheno ha invalidato 52 candidature alle elezioni, annullando anche l’elezione di due deputati, uno dei quali appartiene alla coalizione Blocco Iracheno. Dal punto di vista istituzionale questo potrebbe alterare i risultati finali (Allawi ha vinto di due seggi su Maliki), ma si potrebbe anche decidere che i voti sono comunque del partito e non vanno ridistribuiti; anche in quest’ultimo caso però resta alta l’indignazione soprattutto dei sunniti per il tentativo di continuare ad escluderli cambiando le carte in tavola a partita in corso. Il rischio da tenere sotto controllo è che nella delicatissima situazione irachena la rissosità politica non scada in nuova violenza. Bisogna infatti tener conto che l’Iraq è ancora e forse sempre più un complicatissimo mosaico dove è facile gettare benzina sul fuoco. La divisione in fazioni politiche è

solo una e non la principale della realtà del paese: divisioni etniche, religiose, tribali, economiche e militari sono ben più accese e condizionano la politica più che farsene condizionare. E c’è la forte attenzione internazionale che guarda Baghdad in modo tutt’altro che disinteressato. I risultati finali proclamati ufficialmente (al netto dei ricorsi e dei riconteggi in corso) hanno visto Il Blocco Iracheno di Allawi conquistare 91 seggi, la Coalizione per lo Stato di Diritto del premier alMaliki 89, l’Alleanza Nazionale Irachena di Haki, Jaafari, Sadr e Chalabi 70, l’Alleanza Curda di Talebani e Barzani 43, il Gorran curdo 8, i sunniti di al-Tawafuq 6, la prevalentemente sunnita Alleanza per l’Unità dell’Iraq 4, l’Unione Islamica del Kurdistan 4, il Gruppo Islamico del Kurdistan 2, le minoranza etniche di cristiani e turcomanni 5. è il caso di ricordare che il 25% dei 325 deputati saranno donne, abbastanza equamente divise fra i vari partiti e comunque non tutte schierate dietro una visione occidentale dei diritti delle donne.

La situazione quindi è molto complessa, ulteriormente complicata dal fatto che ognuna delle coalizioni in campo è formata da diverse realtà, e che si sovrappongono alle rivendicazioni politiche quelle personali, etniche, regionali. Gli iracheni apparentemente hanno scelto tra visioni della società e del futuro molto diverse fra loro, forse inconciliabili. Però poi si ritrovano di fronte a una serie infinita di possibilità, spesso determinate più dai tatticismi che dai personalismi che da grandi progetti. Ad esempio è tutto da verificare quale sarà il rapporto tra il Blocco Iracheno di Allawi, la Coalizione per lo Stato di Diritto di al-Maliki e l’Alleanza Nazionale Irachena degli sciiti religiosi. In teoria si tratta di tre idee-paese molto diverse fra loro, alternative. Allawi punta su un Iraq laico, che coinvolga pienamente i sunniti, amico dei paesi arabi e dell’Occidente, ma non ostile all’Iran. Maliki è un nazionalista duro, che sulla carta punta al superamento del confessionalismo, ma di fatto è 49


Risk stato il peggior nemico degli ex-baathisti, e vuole tenere l’Iran fuori dalla Mesopotamia. Gli sciiti del sud sono la formazione più composita e complicata, che comprende anche le milizie di Moqtada alSadr a fianco all’ex Sciri della famiglia Hakim, fino a qui considerato il movimento più responsabile del paese e ora entrato in una coalizione confessionale e considerata molto vicina all’Iran. Cosa succederà adesso, tenendo presente anche il ruolo dei curdi? Chi sono i principali protagonisti? Iyad Allawi, medico di 65 anni, sciita ma “laico a tutti gli effetti”, primo premier ad interim dell’era

Allawi punta su un Iraq laico, che coinvolga i sunniti; è amico dei paesi arabi e dell’Occidente, ma non ostile all’Iran. Maliki è un nazionalista duro, che sulla carta punta al superamento del confessionalismo, ma di fatto è stato il peggior nemico degli ex-baathisti, e vuole tenere l’Iran fuori dalla Mesopotamia. Gli sciiti del sud sono la formazione più complicata, che comprende anche le milizie di Moqtada al-Sadr post-Saddam nel 2004, ha riunito nel Blocco Iracheno la maggior parte dei sunniti e gli sciiti meno religiosi, ottenendo un risultato per molti inatteso. È guardato con simpatia dai Paesi arabi e dall’Occidente. Figlio e nipote di personaggi politici dell’epoca del re (suo nonno uno dei negoziatori per l’indipendenza dell’Iraq dopo il mandato britan50

nico), è stato giovane membro del Baath della prima ora, uscito presto dal partito e affidatosi ai servizi di sicurezza britannici e americani, forte del suo fluente inglese ha legato il suo nome sin dalla fine degli anni ’90 all’opposizione irachena sostenuta dagli Stati Uniti. Negli anni Settanta, dopo un contrasto con Saddam Hussein che quasi gli costò la vita, fugge dall’Iraq e si rifugia prima in Libano e poi in Gran Bretagna. Nel 1979 viene dato per morto da alcuni agenti di Saddam Hussein che si erano introdotti nella sua abitazione di Londra. Nominato primo ministro si oppose invano al progetto americano di smantellare l’esercito e debaathificare l’amministrazione pubblica. Attualmente vanta ottime relazioni sia con gli ambienti sciiti sia con quelli sunniti dopo essere stato a lungo odiato da questa stessa comunità per la sua offensiva contro il bastione ribelle di Falluja (giugno 2004-aprile 2005). Ha dichiarato che la sua priorità sarà quella di ripulire le Forze armate e i servizi segreti dagli elementi intrisi di confessionalismo. Tra le 20 formazioni che compongono l’alleanza del Blocco Iracheno vi sono il movimento di Allawi (il Fronte di concordia) e il Fronte iracheno per il dialogo nazionale di Salah al Mutlaq (leader sunnita la cui candidatura è stata bandita dalla commissione elettorale perché considerato in odore di baathismo) che si sono fusi di recente nel Movimento nazionale iracheno, Rinnovamento del vice presidente sunnita Tariq al-Hashemi, la lista del vice-premier sunnita Rafie al-Issawi. Il Blocco Iracheno, a carattere nazionalista, si oppone alla polarizzazione etnica e confessionale, al sistema di spartizione per quote e vuole preservare l’unità del paese e il suo posto all’interno del mondo arabo. Apparentemente molto diversa è la visione rappresentata dalla coalizione del premier al-Maliki, che l’ha fondata dividendo il suo partito al-Da’wa (inizialmente il partito di ispirazione più religiosa) e sganciandosi dai tradizionali alleati dello Scii. La Coalizione dello Stato di Diritto si compone di 36 formazioni, fra le principali ci sono due delle fazio-


scenari ni di al-Da’wa (quella di Maliki e quella denominata Tanzim al-Iraq), il gruppo dell’attuale ministro del Petrolio Hussein al Shahristani, quello del portavoce governativo Ali al-Dabbagh, e altre formazioni minori capeggiate da leader tribali sunniti, curdi e sciiti, oltre ad altri uomini politici cristiani indipendenti. Si presenta come formazione nazionalista e propone un programma dichiaratamente “non confessionale”, per uno “Stato centralizzato e forte”. Ha già vinto le elezioni provinciali del 31 gennaio 2009. Il premier uscente al-Maliki, 60 anni, quattro figli, sciita nato a Twairij, nei pressi della città santa di Kerbala, ex professore di lingua araba che non parla né inglese né francese, è uno dei principali oppositori all’influenza iraniana in Iraq. Maliki si definisce laico ma non nasconde di appartenere alla scuola sciita che segue la dottrina dell’ayatollah libanese Muhammad Fadlallah, un tempo ispiratore del movimento sciita Hezbollah, ma da anni in rotta con Teheran. E se alle elezioni del 2005 era il favorito dagli Stati Uniti, ancora oggi rappresenta per Washington l’uomo che può dare maggiori garanzie di stabilità in vista del definitivo ritiro militare. Maliki è uno dei più strenui nemici del deposto partito Baath fin da quando era studente universitario. Agli inizi degli anni Ottanta, dopo la messa fuori legge del Da’wa, ripara in Iran, poi in Siria. Dopo il rovesciamento del rais di Baghdad, torna in Iraq dove è eletto alla guida della Commissione sicurezza del Parlamento transitorio nel 2005, è uno dei promotori di una legge anti-terrorista particolarmente aspra, e fa anche parte, dal 2003 al 2004, del comitato incaricato di purgare l’apparato dello Stato dagli ex membri del dissolto partito Baath. Premier dal 2006, ha sostenuto il programma di debaatificazione del paese, operazione da molti percepita come una rivincita sciita contro l’ex potere sunnita. Divenuto Primo ministro quando gli scontri interconfessionali tra sciiti e sunniti avevano toccato il loro apice, Maliki afferma in un primo momento di aver dovuto accettare l’incarico più per senso del dovere che per ambizione politica,

ma rapidamente estende la sua influenza e pone il suo marchio di fabbrica sul paese, finendo per essere tacciato di autoritarismo sia dai sunniti, ma anche dagli sciiti. Si presenta come l’artefice del calo delle violenze nel paese, però negli ultimi mesi si è trovato sotto il fuoco delle critiche per la mancanza di adeguate misure di sicurezza anti-terrorismo. Nel 2008 si attira l’inimicizia, se non l’odio, del campo del giovane leader radicale sciita Moqtada Sadr per la violenta offensiva da lui lanciata per porre fine al regno delle milizie armate nel paese. Nell’occasione ci fu sia il “surge” americano, sia il cambio politico che portò le tribù sunnite ad essere arruolate da governo e americani contro al-Qaeda.

Tutto questo fa capire come sia diversa la storia di Allawi e Maliki e come rappresentino visioni diverse e ambizioni inconciliabili. Da un certo punto di vista, e anche in un’ottica occidentale, l’alleanza tra i due leader sarebbe la cosa migliore per la pacificazione del paese, dando un governo stabile e solido all’Iraq con ampie garanzie per l’atteggiamento in ambito internazionale, compresi i due temi decisivi delle forniture di petrolio e dei rapporti con l’Iran. A una tale grande coalizione si potrebbero unire i curdi, seppur non senza difficoltà. Ma dato che tale soluzione al momento pare lontana, ecco che entrano in gioco con un ruolo decisivo le altre forse. La più importante e interessante è la composita Alleanza Nazionale Irachena che ha ottenuto 70 seggi e rappresenta gli sciiti religiosi del sud. Comprende il Da’wa dell’ex premier Jaafari (un sayyd, cioè discendente di Maometto), il Supremo consiglio islamico iracheno (Scii) della famiglia al-Hakim (discendenti del profeta) guidata dal giovane Ammar, figlio del defunto Abdel Aziz al-Hakim, le sue Brigate Badr, il movimento di Moqtada Sadr (un altro turbante nero, sayyid) derivato dal famigerato Esercito del Mahdi, il partito Fadila (della Virtù), con roccaforte nel porto meridionale di Bassora; i seguaci di Ahmad Chalabi e il suo Congresso nazionale iracheno. Raduna quindi realtà diverse e molti, forse troppi leader. Lo Scii ad 51


Risk esempio è stato a lungo il primo partito iracheno sciita, considerato un elemento moderato e stabilizzatore molto vicino all’ayatollah moderato di Najaf alSistani. Il suo schieramento a fianco dei filo-iraniani di al-Sadr in chiave anti-Maliki è tattico e forse innaturale e ha portato il partito a un risultato deludente. Come si muoverà nei prossimi passi? Chalabi poi ha sempre un ruolo importante, ma screditato, essendo stato il favorito di Washington per poi rivelarsi un fido di Teheran. Moqtada al-Sadr (che controlla 39 dei 70 seggi) vive in Iran da due anni ed è stato responsabile di molte delle violenze del paese. Eppure questa eterogenea coalizione potrebbe esser decisiva, ha buoni rapporti con i curdi (sulla base di una divisione delle sfere di influenza e di una comune avversione ai sunniti) e radici comuni con al-Maliki. Da cui però la dividono lacerazioni personali e ambizioni dei leader, ma anche una visione del paese che per l’Ina prevede un ruolo più importante per la religione, per gli Sciiti, per l’Iran. Per altri motivi, forse tattici, l’Ina ha anche mostrato qualche spiraglio di apertura verso il Blocco di Allawi (magari per essere ago della bilancia e non solo partner di minoranza di Maliki). Dall’Ina potrebbero anche venir fuori alcuni leader candidabili a premier di compromesso fra le varie coalizioni, come, oltre a Jaafari e Chalabi, il vice presidente Adel Abdel Mahdi, 68 anni, e il più oltranzista ministro delle Finanze Baqer Jaber Solagh, 64 anni, entrambi dello Scii.

Un altro che spera di essere un candidato di compromesso è l’attuale ministro dell’Interno, Jawad Bolani, un laico di 50 anni, che si è messo alla guida dell’Alleanza per l’Unità dell’Iraq con l’Iraqi Constitutional Party, i cosiddetti “Consigli del risveglio” che fanno capo allo sceicco Ahmad Abu Risha, e l’Independent National Movement dell’ex presidente del Parlamento Mahmoud al-Mashhadani. Vuole chiudere il capitolo della debaatificazione e si presenta come laico e nazionalista. Ha pochi seggi, ma potrebbe ritagliarsi un ruolo di super-partes. Per quanto riguarda i curdi, hanno sempre un ruolo determinante 52

negli equilibri iracheni, ma non si può negare che escano un po’ indeboliti da queste elezioni. L’Alleanza Curda, che raduna 13 movimenti curdi, tra i quali gli storici Partito democratico del Kurdistan (Pdk) di Massud Barzani e l’Unione Patriottica del Kurdistan del presidente iracheno Jalal Talabani, ha ottenuto qualche seggio in meno del previsto, incalzata dal Goran e dai partiti islamici, ma soprattutto non è riuscita a conquistare la contesa Kirkuk, sconfitta dal Blocco di Allawi. I curdi potrebbero avere un buon rapporto con Allawi, ma non altrettanto con i suoi alleati sunniti: questi ultimi infatti rivendicano per un arabo lo scranno di presidente della Repubblica ora appannaggio del curdo Talebani. L’eventuale insidia alla presidenza di Talebani poi potrebbe avere conseguenze destabilizzanti perfino all’interno del Kurdistan, la regione più avanzata, stabile e sviluppata del paese. La stabilità curda infatti si basa su un forte e duraturo accordo tra i due leader capo-clan, Talebani, delegato a livello nazionale con la presidenza dell’Iraq, e Balzani, capo del governo locale. Questo equilibrio ha anche garantito che le istanze indipendentiste curde venissero sopite. Se la casella della presidenza dovesse saltare senza adeguate contropartite potrebbe causare effetti a catena sui rapporti tra i curdi e il resto del paese ma anche tra i curdi stessi, nonché su Kirkuk. Inoltre arabi-sunniti e curdi sono in aperto contrasto nelle zone più contese del paese, Mosul e soprattutto Kirkuk, città fondamentali e ricchissime di petrolio. Proprio Kirkuk è il principale problema irrisolto dell’Iraq, e si teme possa essere epicentro di nuove devastanti violenze se, come è accaduto finora, non si sarà in grado di trovare alcuna soluzione condivisa. Resta poi grave la situazione di minoranze, come quella dei cristiani, nel mirino di terroristi e fondamentalisti di varia origine. Gli equilibri politici potrebbero determinare quindi nuove alleanze tra questi grandi gruppi, e persino alcune scomposizioni. Ma le alleanze porteranno anche a una spartizione delle poltrone che non è scontata e dalla divisione delle posizioni di potere nasce-


ranno nuovi equilibri, ma anche nuovi attriti, attriti che dalle stanze di Baghdad avranno ripercussioni certe sul terreno, specie sulle aree contese. E sarà da tener d’occhio in particolare cosa succederà dei curdi e come questi reagiranno, se a uno scenario che li vede protagonisti si sostituirà uno scenario di alleanza sciiti-sunniti oppure una radicalizzazione del potere sciita, che a sua volta preoccuperebbe i sunniti. In questo contesto così delicato si colloca l’imminente ritiro delle forze statunitensi. Le truppe internazionali hanno già lasciato le città lo scorso anno, ritirandosi in circa 300 basi sparse per il paese. Ora sta per prendere il via il grosso del ritiro, che in estate porterà i soldati americani da un numero di 130 mila ad uno compreso tra i 30 e i 50 mila. Se tutto andrà bene. Con l’obiettivo di completare il ritiro entro il 2011, anche se dovrebbero rimanere alcune basi strategiche Usa mentre è evidente che per quanto riguarda capacità militari tecnologiche e speciali l’Iraq non potrà fare a meno di appoggio americano (si pensi all’Aeronautica o alla Marina o all’intelligence elettronica). È chiaro che per un ritiro vittorioso gli Stati Uniti hanno bisogno di un Iraq stabile, sicuro, amico. Al contrario, con una crisi politica accentuata, con il risveglio delle tensioni etniche, con un ruolo vorace dell’Iran, il ritiro internazionale potrebbe fungere da detonatore a nuove violenze. La stessa al-Qaeda, che negli ultimi tempi ha subito colpi gravissimi, sta comunque tentando di rialzare la testa approfittando della confusione e del disimpegno internazionale. Allo stesso modo si hanno nuove notizie della guerriglia baathista, che si era quasi esaurita. Infine, non si può non segnalare il ruolo dell’Iraq come grande potenza petrolifera, con l’intento di raddoppiare le esportazioni. Ha un ruolo chiave in questo momento di crisi economica ed energetica, e ha anche una valenza strategica come alternativa all’Iran. Ma questo solo se sarà garantita la stabilità e lo sviluppo, e se, allo stesso tempo, l’Iraq e i suoi giacimenti non finiranno sotto il condizionamento di Teheran.


Risk

ISRAELE

OBAMA & NETANYAHU, NEMICI-AMICI DI

PIERRE CHIARTANO

la «più seria crisi bilaterale islamico» è stata eliminata dal lesdegli ultimi 35 anni», come sico della Casa Bianca. I consulenl’aveva definita l’ambasciati di Barack Obama si sono messi tore israeliano a Washington, all’opera per sbianchettare da ogni Michael Oren, a marzo. I rapporti documento presidenziale, da ogni far i due storici alleati, Usa e discorso e intervento inerente la Israele, mai hanno attraversato un National security strategy (Nss), periodo così altalenante e difficile. ogni riferimento a questioni religioAlmeno dal punto di vista delle se. Come ha spigato un advisor per apparenze, perché anche una copla sicurezza del presidente Usa, pia di ferro può litigare. E sembra Pradeep Ramamurthy. Molti docuGli Usa sono e rimarranno questo il caso dei rapporti tra menti sono stati riscritti in maniera i garanti della sicurezza dello Washington e Gerusalemme, visto da non presentare la comunità Stato ebraico, ma con Obama si deve discutere, perché è che il Foreign military financing musulmana attraverso la lente del program con cui gli Usa sovven- cambiato l’approccio alla politica terrorismo. Un cambiamento che a mediorientale. Netanyahu lo ha zionano Tsahal, l’esercito con la Tel Aviv qualche preoccupazione capito: e non è d’accordo. stella di David, resta attivo (circa 2 deve aver sollevato. Ma questa spemiliardi di dollari all’anno, un po’ di meno dall’ini- cie di riscrittura della Nss è solo un esempio di come zio del 2010). Durante la guerra fredda, uno dei prin- Obama voglia mettere il suo marchio su tutta la policipali dispositivi militari mediterranei avrebbe dovu- tica estera statunitense. A cominciare dalla promessa to mantenere aperti i rifornimenti navali allo Stato di smantellare l’arsenale nucleare e di limitarne il ebraico. Nel 1962 fu John F. Kennedy a fornire i concetto operativo d’utilizzo. Il cambiamento d’apprimi missili antiaerei Hawk a Israele e nel 1968 fu proccio è radicale e parte dal discorso fatto da Obama Lyndon B. Johnson a consegnare gli F-4 Phantom. all’università del Cairo in Egitto, dove il presidente Tanto per fare un paio di esempi. Gli Usa sono e Usa aveva promesso «un nuovo inizio». Allora fu rimarranno i garanti della sicurezza dello Stato ebrai- messa in piedi una squadra di quattro esperti che co, ma con Obama si deve discutere, perché è cam- hanno elaborato una nuova strategia. Si chiama biato l’approccio alla politica mediorientale. Si parla Global engagement directorate ed è condotto da alla umma islamica, si fa leva sulla stanchezza che il Ramamurthy. Si tratta di parlare al mondo musulmaradicalismo sta generando nelle opinioni pubbliche no di quello che si può fare insieme, dall’economia (quest’ultimo un concetto azzardato per fra i musul- alla guerra alla poliomielite. «Prendi ad esempio un mani) di molti Paesi. Si dialoga con tutti, poi si valu- Paese dove la stragrande maggioranza della popolateranno i comportamenti. La parola «estremismo zione non è in procinto di diventare terrorista. Non ha

È

54


scenari molto senso dirgli che stai costruendo un ospedale per evitare che diventino terroristi», spiega Ramamurthy. Servirebbe ingaggiare i Paesi musulmani su argomenti come l’economia, l’educazione e la sanità. La cosa più incredibile di questa iniziativa è che ha preso spunto dall’azione di un altro inquilino della Casa Bianca: Ronald Reagan. Nel suo viaggio in Cina, nel 1984, il vecchio presidente repubblicano aveva parlato all’università di Fudan a Shangai. Aveva affrontato argomenti come l’educazione, lo spazio, la ricerca scientifica e la libertà, senza mai menzionare il comunismo o la democrazia. I cinesi «non avrebbero fatto attenzione agli Usa perché combattevano il comunismo» spiega il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Ben Rhodes. Ogni diplomatico in procinto di lasciare Washington passa da Ramamurthy o dalla sua vice, Jenny Urizar, per un breefing. Quando gli esperti del Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) sono tornati dall’Indonesia hanno aggiornato il Ged sulle nuove scoperte in campo ambientale. E questo mese ci sarà un summit a Washington sull’economia islamica, cui parteciperanno uomini d’affari di una quarantina di Paesi. Un’occasione per lanciare un nuovo messaggio: «ci stiamo occupando di argomenti ben oltre la guerra al terrorismo». Questo è un aspetto dello scenario in cui si muovono le nuove relazioni tra Washington e Gerusalemme. Da parte israeliana il colpo è stato accusato, niente più endorsement al buio sulle decisioni dello Stato ebraico, come ai tempi di George Bush junior. Forse alla Knesset si conoscono già molte risposte a questo nuovo approccio, ma la Casa Bianca vuole poter giocare le sue carte senza troppe interferenze. A marzo la causa di una nuova crisi dei rapporti erano stati ancora i nuovi insediamenti. Si trattava della costruzione di 1600 case del quartiere di Ramat Shlomò, che il governo israeliano aveva approvato durante la visita del vicepresidente Joe Biden a Gerusalemme, sollevando le forti proteste della Casa Bianca. Dando seguito a tale irritazione il segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva fatto recapitare all’ambasciatore Oren

la richiesta di «cancellare la decisione sui nuovi insediamenti a Gerusalemme Est». E mai, dai tempi George Marshall, un segretario di Stato si era spinto tanto lontano dalla linea di confine della cosiddetta «naturale alleanza» tra Washington e Gerusalemme. Un’escalation che durava da giorni, con un braccio di ferro tra il governo Nethanyau e gli uomini di Obama inviati in Medioriente. La Clinton aveva buttato sul tavolo un piano in quattro punti che, se accettato dal governo israeliano, ne avrebbe sancito la fine politica in mezza giornata. Allora fu definito da alcuni analisti di Washington un tentativo per tenere i toni artificialmente alti per spingere la politica israeliana verso un nuovo governo. Magari con l’inserimento del partito moderato Kadima. Mossa – se mai pensata – fallita al momento. Ribaltare la decisione del comitato urbanistico di Gerusalemme est, indagare sull’accaduto, dare segnali positivi ai palestinesi – come il rilascio di prigionieri, l’alleggerimento dell’assedio a Gaza, il ritiro dei militari da alcune zone del West Bank – rimangono, in presenza della componente della destra ortodossa al governo, richieste inesaudibili. Intanto, per complicare le cose e rendere il clima ancora più incandescente, decine di palestinesi si erano scontrati, a metà marzo, con la polizia israeliana proprio a Gerusalemme Est – un’area conquistata insieme alla Cisgiordsania nel corso della Guerra del 1967 – in un «giorno di rabbia» proclamato da Hamas per protesta contro la consacrazione di un’antica sinagoga in città. Mentre la crisi Usa-Israele si inaspriva, l’inviato americano in Medio Oriente George Mitchell aveva annullato un viaggio nella regione, dopo che il premier israeliano aveva fatto sapere che non avrebbe bloccato i progetti edilizi, a cui gli Usa erano contrari. Se Ehud Barak apriva un estintore ricordando che «la trattativa di pace è la prima di tutte le priorità», parlando a un’assemblea Likud, il premier Netanyahu alzava la voce: «I cantieri a Gerusalemme e in tutti gli altri luoghi continueranno allo stesso modo, come è nostra abitudine da 42 anni». 55



scenari Tanto per scaldare l’atmosfera internazionale, in febbraio era arrivata agli onori della stampa la vicenda della morte di Mahmoud al-Mabhuh. Si trattava di uno dei fondatori dell’ala militare di Hamas, ricercato in Israele per il suo coinvolgimento nel rapimento e l’uccisione di due militari, risalente al 1989. L’uccisione era avvenuta circa un mese prima e lo zampino del Mossad, o quantomeno le implicazioni di ambienti israeliani nell’operazione, avevano scatenato l’ira dei più fidati alleati di Gerusalemme in Occidente. Gran Bretagna, Francia, Germania, Irlanda e Australia che avevano visto i passaporti di alcuni loro concittadini clonati – per fabbricare nuove identità alla squadra di killer che aveva agito a Dubai – non avevano tanto gradito. Una vicenda che non aveva certo giovato all’immagine internazionale dello Stato ebraico. Un altro test della nuova tensione anche all’interno d’Israele, e che spiega le tante insicurezze per la nuova situazione dei rapporti con Washington, è stato l’allarme lanciato dal presidente Simon Peres, in visita a Parigi, sui missili Scud nel sud del Libano. Tutta un’altra cosa rispetto ai razzi Qassam. Missili che sarebbero stati forniti dalla Siria alle milizie di Hezbollah. La Siria respingeva ogni accusa. Per Damasco era solo un diversivo. Parliamo di vettori con un raggio d’azione che avrebbe cambiato radicalmente gli equilibri militari della regione. Hezbollah, che fino ad allora poteva colpire solo le città dell’alta Galilea a nord d’Israele, avrebbe così acquisito le capacità per raggiungere obiettivi come Tel Aviv e Gerusalemme. Una faccenda che stava complicando non poco il nuovo approccio di Obama verso la Siria, proprio dopo la nomina di un nuovo ambasciatore Usa a Damasco, per la prima volta dopo cinque anni. «La Siria dichiara di volere la pace ma poi consegna dei missili Scud a Hezbollah che minaccia costantemente la sicurezza d’Israele» aveva affermato il presidente Peres alla radio israeliana, prima della partenza del viaggio per la Francia. Anche durante l’incontro con il primo Ministro, Francois Fillon, era ritornato sull’argomento. Una

mossa che più di qualcuno al dipartimento di Stato aveva interpretato come un piccolo sgarbo agli Usa, visti i precedenti storici tra America e Francia sul Medioriente. Mentre alla Casa Bianca prendevano tempo, perché l’intelligence Usa nel sud del Libano è rimasta a corto di “mezzi”, per qualche giorno montava la tensione mediatica e diplomatica. Anche l’intelligence israeliana aveva perso gran parte della propria rete humint (human intelligence on the ground, ndr.) in quella zona. Infatti utilizza ancora oggi il sorvolo con aerei per tenere sotto controllo la situazione che, sul campo, è già ben seguita dalla missione Unifil, per tre anni sotto comando italiano. Si traccheggiava in attesa di conferme.

Mike Hammer, membro del National security council rilasciava una dichiarazione: «siamo preoccupati per gli armamenti sempre più sofisticati che stanno raggiungendo gli arsenali delle milizie sciite, reiteriamo le richieste affinché le autorità siriane e libanesi facciano dei passi significativi per evitare che scoppi un altro conflitto nel sud del Libano, non per provocarlo». Anche la comunità dei servizi Usa non aveva notizie in proposito. «Non sappiamo se questo tipo di armi sia entrato o meno in territorio libanese» avrebbe affermato una fonte anonima. Ma c’era un diretto testimone della vicenda, il presidente della Commissione esteri del Senato, il democratico John F. Kerry, che un paio di settimane prima era rientrato da un viaggio in Libano e Siria. Il suo portavoce, Frederick Jones, aveva dichiarato che ciò che il senatore ha appreso prima della sua partenza è ritenuto materiale classificato ma «che il continuo flusso d’armamenti verso Hezbollah solleva delle legittime preoccupazioni da parte d’Israele». La commissione Esteri aveva appena approvato la nomina del nuovo ambasciatore a Damasco, Robert Ford, ma tre membri repubblicani avevano subito sollevato delle obiezioni. Era stata chiesta una verifica delle accuse prima di procedere alla nomina, poi congelata. Mentre l’ambasciatore siriano a Washington, Imad Moustapha, denunciava il rapporto come una «storia 57


Risk ridicola». E a Washington c’era chi affermava che «un ambasciatore non fa primavera». Domenica 9 maggio riprendevano i proximity talks. Gli Usa mettevano subito in guardia Israele e i palestinesi dall’adottare provvedimenti che minassero «la fiducia» in Medioriente. In breve, serviva stare attenti alle dichiarazioni a ruota libera. Il monito arrivava appena dopo un’altra «incomprensione», come la definiva il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Ma la Casa bianca aveva subito messo in chiaro la situazione. «Se l’una o l’altra parte adotteranno provvedimenti che, dal nostro punto di vista, mineranno gravemente la fiducia, reagiremo e le considereremo responsabili», aveva affermato in una nota il portavoce del dipartimento di Stato, Crowley. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, avevano incontrato il diplomatico Usa George Mitchell, a Ramallah. L’Olp aveva approvato questi negoziati indiretti che si dovrebbero svolgere nei prossimi quattro mesi. «Trattative dirette e incontri faccia a faccia devono verificarsi presto» aveva dichiarato il primo ministro israeliano «non è possibile ottenere la pace a distanza, come se si stesse utilizzando un telecomando», aveva aggiunto continuando con le critiche nei confronti del modello scelto dagli Usa per rimettere in moto il processo di pace.

L’obiettivo dei palestinesi, stabilire uno Stato autonomo e indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza con Gerusalemme come capitale, sarebbe messo in discussione dall’occupazione israeliana di questi territori, che dura dal 1967. Saeb Erekat, capo negoziatore palestinese, infatti, riferiva che «ci saranno negoziati diretti solo se il premier israeliano annuncerà l’interruzione completa della costruzione di colonie ebraiche nei territori occupati». Tanto per mettere a loro agio i diplomatici Usa che avrebbero fatto la spola tra i due tavoli. E che le tormentate relazioni tra Usa e Israele destino non poche preoccupazioni per la situazione mediorientale si capisce anche dal comportamento di 58

Mosca. Gli Usa devono giocare un ruolo «più attivo» in Medioriente, affermava il presidente russo Dmitri Medvedev che da Damasco, l’11 maggio, sottolineava come il processo di pace si fosse «deteriorato». Per il Cremlino la situazione è «molto, molto grave». «Sono d’accordo con il presidente Bashar Al-Assad, gli americani devono svolgere un ruolo più attivo». Insomma tutti a dar consigli alla Casa Bianca. Il clima si surriscalda anche all’interno del governo d’Israele. Martedì 11 maggio è stato il turno del ministro della Difesa, Ehud Barak di dover biasimare aspramente alcuni suoi colleghi di governo. Il casus belli sono stati alcuni commenti definiti come «provocazioni» dall’ex generale. Dichiarazioni che non farebbero che danneggiare le già complicate relazioni con gli Usa. «Raccomando a entrambe le parti, la nostra e quella palestinese, di astenersi dal fare dichiarazioni avventate» avrebbe affermato Barak. L’argomento era naturalmente legato alla città di Gerusalemme e alle nuove costruzioni. «Certi commenti non fanno che danneggiare gli interessi d’Israele sia nelle relazioni internazionali che con gli Usa» aveva aggiunto il ministro della Difesa. «Sono considerazioni che fanno apparire Israele non interessata al processo di pace e ne distruggono la credibilità internazionale». Le critiche di Barak erano arrivate giusto poche ore dopo l’uscita del ministro dell’Interno, Eli Yishai che aveva affermato che non sarebbe mai stato d’accordo a un congelamento degli insediamenti a Gerusalemme. E come se non fosse bastato, aveva aggiunto che «questa richiesta americana» non sarebbe mai stata «soddisfatta». Yishai aveva anche sollecitato affinché si facilitassero tutte le nuove costruzioni all’interno d’Israele e specialmente a Gerusalemme «capitale dell’eterna patria della nazione ebraica». I problemi erano nati all’inizio di maggio, quando un rappresentante dell’amministrazione Usa aveva dichiarato che Israele si era impegnata a cessare per due anni ogni costruzione nel quartiere di Ramat Shlomo. Poi realizzato che non era affatto così, si erano riaccese le tensioni. Il 12 maggio il ministro degli Esteri Avigdor


Lieberman aveva rilasciato un’intervista ad Haaretz. Molte delle aperture fatte dagli israeliani verso i palestinesi erano state ricambiate con «degli schiaffi in faccia» aveva affermato Lieberman. «Abbiamo preso la decisione unilaterale per una moratoria, con il blocco di tutte le costruzioni in Giudea e Samaria, abbiamo eliminato un numero incredibile di posti di blocco sulle strade. Riconosciamo l’idea di due popoli e due Stati». Il capo della diplomazia israeliana aveva aggiunto che non esiste alcun accordo con Washington per il blocco delle costruzioni a Gerusalemme est, che non era mai esistito. «L’America non ha mai imposto nulla a Israele». Tutta la faccenda era per il ministro una grande «incomprensione». Sia l’intervento di Yishai che di Lieberman erano giunti dopo che il ministro per la Sicurezza, Yitzhak Aharonovitch, aveva promesso che la polizia avrebbe continuato a demolire ogni abitazione palestinese abusiva nella parte est della capitale, indipendentemente dall’avvio dei colloqui di pace. Gli Usa avevano subito avvisato entrambe le parti di astenersi da portare a termine azioni provocatorie a Gerusalemme est. Poi anche il premier Netanyhau aveva alzato i toni. «Continueremo a costruire e a farlo a Gerusalemme. Continueremo a promuovere piani di sviluppo. E non possiamo farlo in una città divisa» e aveva aggiunto che la convivenza tra arabi ed ebrei non sarebbe stata un ostacolo. Tutto questo avveniva nel Gerusalem Day, la ricorrenza che ricorda la conquista della parte orientale della capitale avvenuta nel 1967. Senza dimenticare, sullo sfondo, la minaccia dell’atomica iraniana e la capacità di Israele di reagire in maniera autonoma, se dovesse percepire un pericolo reale. Da segnalare, su questo versante, la proposta del presidente egiziano Hosni Mubarak a fine aprile, subito appoggiata da Washington, Londra e Parigi, per riesumare la proposta del 1995 della conferenza Ntp. Si tratta di un’iniziativa per «un Medioriente libero da armi atomiche». Mentre a Teheran stanno già pensando a una terza Intifada e visto che Hamas a Gaza ed Hezbollah nel sud del Libano fanno, giustamente, orecchie da mercante, Ahmadinejad sta tentando di buttare l’amo a qualche disperato interlocutore palestinese del West Bank, promettendo soldi e armi.


lo scacchiere

Unione europea /la polonia va alle elezioni

e si divide fra mosca e bruxelles

Dopo la sciagura di Smolensk il paese guarda al futuro DI ALESSANDRO MARRONE

a politica estera polacca, in particolare verso Russia e Ue, è cambiata negli ultimi anni e tale cambiamento potrebbe accelerare in seguito all’incidente aereo dello scorso aprile. Da quando è al governo il partito di centro destra “Piattaforma Civica” di Donald Tusk, liberale ed europeista, la Polonia ha attenuato i tratti euroscettici e la diffidenza verso la Russia che avevano caratterizzato il precedente governo del partito conservatore e nazionalista “Legge e Giustizia”, fondato dai gemelli Kaczynsky. Tusk ha cercato infatti una normalizzazione dei rapporti con Mosca, anche attraverso la rimozione del veto polacco alla negoziazione di un nuovo accordo di partenariato tra Ue e Russia. Il nuovo governo ha inoltre spinto per la ratifica del Trattato di Lisbona, adottando un atteggiamento più cooperativo verso le autorità di Bruxelles, nonché verso la Germania. Allo stesso tempo, Tusk ha mantenuto stretti rapporti con gli Usa: quando Obama ha rinunciato allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca progettato dall’amministrazione Bush, Varsavia ha ottenuto comunque il dispiegamento di una batteria di missili patriot sul

L

60

proprio territorio. I missili americani verranno dispiegati nella base di Morag, a soli 60 km dal confine russo, e gestiti da 100 soldati statunitensi, sancendo fortemente sia la vicinanza politico-strategica tra Polonia e Usa sia la concreta integrazione d Varsavia nell’architettura di sicurezza transatlantica. Tusk ha inoltre spinto molto sul Partenariato Orientale, lanciato nel 2009 dall’Ue con Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Georgia, Armenia ed Azerbaigian per bilanciare l’influenza di mosca su tali paesi attraverso una più stretta cooperazione europea su una serie di importanti materie, dalle tariffe doganali alla libera circolazione delle persone. Il governo Tusk nel 2009 ha firmato con Lituania e Ucraina un accordo per potenziare la partnership strategica tra le rispettive forze armate, che prevede tra l’altro la formazione di una brigata internazionale in grado di svolgere missioni di peace-keeping, nell’ottica di una loro più stretta cooperazione con la Nato. Su questa cauta transizione della politica estera polacca è letteralmente piombato l’incidente aereo del 10 aprile, in cui sono morte 95 personalità polacche tra cui il presidente della Repubblica Kaczynsky. In seguito alla tragedia, il presidente della Camera Komorowsky (a sinistra), ha assunto la presidenza ad interim e indetto le elezioni presidenziali per il 20 giugno. Lo stesso Komorowsky sarà il candidato presidente per la Piattaforma Civica, al momento favorito nei sondaggi, mentre Jaroslav Kazcynsky (a destra), gemello del capo di


scacchiere

stato appena morto, correrà per Legge e Giustizia. Quali dunque gli scenari futuri? La vittoria di Komorowsky garantirebbe una maggiore unità di intenti al vertice polacco sulla strada intrapresa dal 2007, e quindi un maggiore sforzo per migliorare i rapporti con la Russia e l’Ue. Viceversa, la vittoria di Kaczynsky, improbabile ma non impossibile, manterrebbe la difficile “coabitazione” sperimentata dal 2007 tra premier e capo di stato, dando quindi maggior peso alle posizioni nazionalistiche, atlantiste, euro-scettiche e diffidenti nei confronti di Mosca. Tuttavia, i due scenari non sono così radicalmente diversi. Infatti, la vicinanza agli Stati Uniti e la cooperazione con i vicini non russi dell’Europa orientale in chiave euro-atlantica, bandiere dei Kaczynsky, fanno parte anche della piattaforma del governo Tusk, come dimostrato dall’accordo sulla difesa missilistica e dal lancio di una partnership militare strategica con Ucraina e Lituania. Più in generale, il popolo polacco e la sua classe politica condividono un forte sentimento nazionale, facilitato dall’elevata omogeneità etnica, linguistica e religiosa, nonché dalla memoria della resistenza polacca alle invasioni dei propri vicini. Non stupisce quindi che su alcune questioni non ci siano grandi divisioni politiche tra i due maggiori partiti: ad esempio, il riconoscimento della responsabilità sovietica per il massacro di Katyn, ufficialmente negata da Mosca durante la Guerra Fredda, è un punto non negoziabile per entrambi. Proprio su Katyn si è registrata un’importante apertura simbolica di Medvedev, che ha fatto pubblicare online alcuni file dell’archivio di stato russo, finora secretati, che dettagliano come l’Urss nel 1940 abbia pianificato ed eseguito il massacro di circa 22mila ufficiali polacchi, per poi attribuirlo ai nazisti. Il gesto si inquadra in una generale fase di distensione, dimostrata anche dalla prima commemorazione congiunta russo-polacca di Katyn, cui hanno presenziato Putin e Tusk poco prima dell’incidente aereo. Fase continuata con la partecipazione di Medvedev

ai funerali di stato delle vittime polacche svoltisi a Cracovia, e con la decisione di trasmettere sulla tv di stato russa il film-documentario “Katyn”. Il miglioramento del clima tra Varsavia e Mosca non risolve tuttavia gli elementi strutturali di frizione tra i due paesi. Aldilà dei capi di stato e di governo che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, almeno quattro grandi elementi di divergenza hanno caratterizzato i rapporti bilaterali. In primo luogo, la difficile transizione dall’egemonia russa sulla Polonia all’integrazione di Varsavia nella sfera di influenza occidentale attraverso l’ingresso in Ue e Nato. In secondo luogo, il posizionamento geopolitico di Bielorussia e Ucraina: mentre la Russia vuole mantenere o ristabilire la sua influenza sui due vicini, per la Polonia tanto più essi sono indipendenti da Mosca tanto più è garantita l’indipendenza e la stabilità polacca, nonché la sua sicurezza nazionale. Il terzo oggetto del contendere è l’energia: la Polonia vuole ridurre la dipendenza energetica sua e dell’Ue dalla Russia, mentre Mosca persegue l’obiettivo opposto: entrambe le parti per motivi sia economici che politici. Il quarto elemento di frizione sta nella diversa memoria storica delle drammatiche vicende del Novecento coltivata dai due paesi, come esemplificato dal caso di Katyn. Tuttavia, in una prospettiva storica più ampia gli ultimi 20 anni rappresentano una vera età dell’oro per la posizione internazionale polacca: è infatti la prima volta che la Russia non domina la Polonia, come nella Guerra Fredda, che la Polonia non è spartita tra Germania e Russia, come nell’Ottocento, o che Varsavia non è in guerra con i suoi vicini, come nel resto della sua storia. In quest’ottica, la situazione della Polonia non può che migliorare. 61


Risk

Americhe/google e microsoft sempre più verdi La convergenza tra il mondo dell’IT e delle energie rinnovabili è già un business DI

MARCO SACCONE

a diversi giorni nel web si parla degli investimenti che Google sta compiendo nel settore delle energie rinnovabili, a partire dalla creazione di una divisione Google Energy fino ad arrivare all'ultima notizia: 38,8 milioni di dollari investiti in una centrale eolica che produrrà 170 MW, realizzata dalla NextEra Energy Resources in North Dakota. Ma sono solo una parte degli altri 45 milioni di dollari che l’ogranizzazione filantropica di Google (Google .org) ha già investito nella realizzazione di impianti eolici, geotermici e solari termici. La notizia non è nuova. I giganti dell’Information Technology stanno investendo nel campo dell’energia. Nessun investimento in centrali nucleari, nessuna investimento in anacronistici gasdotti. Google e Micrsoft hanno fondato il loro business sulla gestione dei dati, e così continueranno a fare. L’accesso ai dati è ciò che ha da sempre caratterizzato il business model di Google. L’accesso ai dati di consumo energetico, in ottica “smart meter” è ciò che interessa a Google. Di fatto è un investimento nell’efficienza energetica resa possibile grazie alla digitalizzazione dei contenuti. Google ha annunciato partnership con 10 Utilities locali con le quali sta studiando modalità di supporto e gestione delle smart grid perchè si realizza il sogno della “smaterializzazione” dell’energia. Per quanto riguarda Microsoft, la produzione di software è il suo dna: er questo ha creato Microsoft Hohm. La Microsoft, a differenza della rivale ha già le idee molto più chiare in merito al progetto. Hohm infatti è un servizio web gratuito che ti aiuta a fare compiere le scelte più opportune su in termini di risparmio energetico. Il software è on web , scaricabile permette di moniotrare costie e profilarli in tabelle. I modelli inseriti aiutano l’utente finale a scegliere dei comportamenti più consapevoli, perchè spenda meno, perchè risparmi l’ambiente. Credo che siano 4 le ragioni che spiegano questa convergenza di interesse e scelte imprenditoriali.

D

62

La prima di tipo prettamente economico. Una delle più importanti “materie prime” nella catena del valore dell’ Information Technology è l’energia elettrica. Senza di essa, server e hardware sono plastica inerte, senza di essa nemmeno la rete esisterebbe. Investire nella produzione di energia per Google signfica, permettetemi una piccola licenza accademica, una sorta di integrazione a monte. La seconda di tipo finanziario. I ritorni degli investimenti sulle energie rinnovabili sono elevatissimi. Il green è certamente uno dei settori dove gran parte dei venture capitalist sta concentrando le proprie attività di investimento. Le corporation della Silicon Valley non si chiameranno certo fuori da questa partita. La terza di tipo strutturale. I teorici della “dematerializzazione” parlano addirittura della lotta tra atomi e byte, nella quale i secondi sono gli scontati vincitori. Infatti, una volta “smaterializzati gli atomi” il dispaccio dell’energia diverrebbe sostanzialente gratuito, come è già avvenuto per le informazioni. Per ora la sostituzione non è ancora un fatto, se mai c’è una compenetrazione naturale tra bytes e atomi. In questo caso le smart grids, dimostrano come la convergenza tra elettricità e tecnologia digitale sia già realtà. Oggi le informazioni digitali quando accompagnano le reti di ditribuzione elettrica ne aumentano l’efficienza, ne riducono gli sprechi reponsabilizzando i produttori e i consumatori. La quarta è di tipo filosofico. Google, come molte altre società web based, ha nella condivisione, nell’apertura e nel peering la sua raison d’etre, nonchè l’essenza del suo successo. La cultura green è nata con la rete e di essa si nutre: non sarà la politica a guidare il processo di conversione alle energie rinnovabili, saranno gli utenti finali, dotati di piattaforme open, dove possono decidere cosa consumare e in che quantità. Il settore dell’Information Technology non può permettersi di non cavalcare questa convergenza.


scacchiere

Medioriente/come vendere ad ahmadinejad Berlino commercia con Teheran, ma fa passare tutto via Dubai DI

Q

EMANUELE OTTOLENGHI

uante macchine servono al mercato di Dubai? Per chi ci ha vissuto, specie di recente, la risposta non dovrebbe essere difficile. In anno di crisi, con la bolla speculativa dell’Emirato esplosa, sembra difficile immaginarsi che la comunità di residenti a Dubai stia spendendo e spandendo a comprar auto di lusso. Eppure, a guardare i dati Eurostat che riguardano i rapporti bilaterali tra Germania ed Emirati Arabi Uniti, si scopre che nel 2009 la Germania ha venduto auto per trasporto passeggeri per il valore di più di 450 milioni di Euro. È una cifra da capogiro, specie se la si combina con i quasi 350 milioni di euro in equipaggiamento da trasporto di vario genere, i più di cento milioni di veicoli da trasporto merci, i 110 milioni di accessori e parti di ricambio e i quasi 160 milioni di euro di altri veicoli assortiti. Lo strano non deriva soltanto dall’aumento vertiginoso di vendite rispetto ad anni precedenti, ma dal fatto che, se si comparano queste vendite al volume di commercio nella stessa categoria con l’Iran, la Germania non vende più quasi nulla. Macchine: 40 milioni di euro all’anno; trasporto merci: 10 milioni circa; accessori e parti di ricambio: 55 milioni; e altro equipaggiamento da trasporto: circa venti milioni. I dati della Germania nella sola categoria del trasporto destano stupore perché per si tratta di due realtà economiche ben diverse: negli Emirati, tra cittadini dei sette emirati e stranieri residenti ci saranno al massimo quattro milioni di abitanti; in Iran ci sono più di settanta milioni di abitanti. E perché riflettono, forse nella maniera più clamorosa, un dato più generale di inversione di tendenza – il volume di scambio tra Germania e Iran e tra Germania ed Emirati. È un cambiamento che, se messo a confronto, mostra una relazione inversamente proporzionale tra i due rapporti commerciali: più scendono le vendite tedesche all’Iran, più salgono quelle agli Emirati. E il fatto che a Dubai ci sia stata crisi e che il mercato comunque, anche in anni di grande ricchezza, non poteva giustificare simili sbalzi,

sta a significare una cosa piuttosto semplice, certamente risaputa dagli addetti ai lavori, ma ora documentabile ricorrendo a dati disponibili sul sito della Commissione Europea: le compagnie tedesche hanno ridotto il loro volume di affari in Iran per timore di ripercussioni politiche negative. Ma allo stesso tempo non si sono premurati di trovare mercati alternativi. Invece vendono a mediatori e faccendieri, società di import-export che hanno base a principalmente Dubai, Sharjah e Ras al Khaimah, presumibilmente sapendo che da lì le loro merci verranno poi trasportate in Iran. Del resto l’uso di Dubai come punto di transito di traffici sospetti non è nuovo. Non solo Dubai è stato utilizzato dal network di A.Q. Khan per la vendita di tecnologia nucleare militare all’Iraq di Saddam Hussein, all’Iran e alla Libia. Secondo un recente articolo di Matthias Kuentzel, apparso sul WSJ Europe, l’anno scorso fu creata a Dubai una camera di commercio tra Germania ed Emirati che, a novembre, ha creato un “Gruppo di Lavoro Iran” con lo specifico compito di identificare modi per rafforzare il ruolo di Dubai come punto di transito per il commercio con l’Iran “anche per ditte tedesche”. I dati confermano quanto sopra e sollevano la questione anche per le molte ditte italiane che, in tempi difficili, cercano ad ogni modo di trovare nuovi mercati. La tentazione di vendere negli Emirati è forte e il transito a Dubai fornisce un comodo alibi alle nostre imprese che, anche laddove vendessero tecnologia soggetta a restrizioni di esportazione a causa dei suoi possibili usi militari, potrebbero cavarsela protestando innocenza. Per le nostre ditte l’esempio tedesco però non dovrebbe essere da emulare – invece, occorre premurarsi e premunirsi, perché non è da escludere che sanzioni americane ci piombino tra capo e collo nei prossimi mesi: la vendita di prodotti in ingenti quantità a un rivenditore di Dubai non gioverà alla reputazione del Made in Italy, specie quello che spera comunque di continuare a vendere anche in America. 63


Risk

Americhe/le parabole di nestor kirchner

Eletto presidente dell’Unasud, mira ancora alla Casa Rosada (dove c’è la moglie) DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

alla Casa Rosada alla presidenza del Sud America, e (possibile) ritorno. Il 4 maggio scorso l’ex-presidente argentino Néstor Kirchner è stato nominato Segretario Generale dell’Unione delle Nazioni Sud Americane –Unasud - per il prossimo biennio, sbloccando uno stallo che durava da due anni. Acquista così nuovo impulso la parabola politica del governatore della provincia patagonica di Santa Cruz che si ritrovò improvvisamente a dirigere l’Argentina, quando nel 2003 vinse le elezioni dopo l’abbandono di Carlos Menem al secondo turno. Da allora, Kirchner ha continuato ad accumulare potere politico e fortune economiche, facendo eleggere la moglie Cristina alla massima carica dello Stato e mantenendo per sé un seggio in parlamento e la presidenza del Partido Justicialista - la casa comune della variegata galassia peronista. Il suo stile è quello tradizionale del caudillo delle province interne. Non ha mai dimostrato molto interesse per le questioni internazionali, e durante il suo mandato si ricorda uno dei momenti di massima tensione tra Stati Uniti e America Latina: il vertice dei capi di Stato delle Americhe di Mar del Plata del novembre 2005. Al suo carattere irascibile e poco incline alla mediazione si deve in buona misura la crisi diplomatica con l’Uruguay per via dell’industria di cellulosa Botnia installata sulla sponda del fiume che divide i due paesi. La querelle è stata trasferita alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, e ha spinto il governo di Montevideo a porre il veto sulla nomina di Kirchner quale segretario dell’Unasud. La situazione si è sbloccata con l’assunzione del nuovo presidente uruguayano José Mujica, che ha coraggiosamente accettato i costi politici del dietrofront sulla candidatura di Kirchner. L’Unasud è un’entità recente, fortemente voluta dal Brasile quale retroterra continentale della

D

64

propria crescita sulla scena mondiale. È un foro d’incontro e concertazione dei presidenti su temi comuni, uno spazio di convergenza strategica. Al suo interno tuttavia convivono due blocchi, quello radicale Venezuela, Bolivia, Ecuador e quello più proiettato sul libero commercio e le relazioni con gli Usa composto da Colombia, Perù e Cile. Il Brasile sta nel mezzo, con la metà del territorio, del Pil e della popolazione del continente. Questa scarsa omogeneità rende la scelta di Kirchner un po’ sorprendente, non avendo egli ancora dimostrato di possedere la statura politica per rappresentare tutti i dodici paesi del gruppo. I governi di Colombia e Perù hanno contestato tale scelta, e forti riserve sono state manifestate da Uruguay e Cile. Ma Kirchner conta con l’appoggio del presidente brasiliano Lula, e questo basta. Lo scarso livello di istituzionalizzazione fa dall’Unasud una realtà assai differente rispetto alla Ue e all’Unione Africana. Solo 4 parlamenti su 12 hanno ratificato il trattato costitutivo dell’organismo, che finora si è limitato a organizzare riunioni periodiche di capi di Stato, ministri degli Esteri e della Difesa, creando strutture di analisi che non impegnano direttamente i paesi membri. La scelta di Kirchner porta quindi a pensare che il processo di integrazione continentale non avverrà tanto per impulso dell’organo permanente sovranazionale - la segreteria generale - quanto piuttosto sull’onda lunga della crescita economica del Brasile. Sono invece ancora oscure le ricadute sulla politica interna argentina. La rinuncia al seggio di deputato e un impegno a tempo pieno come Segretario Unasud allontanerebbero Kirchner dalla gestione del potere in patria, a un anno e mezzo dalle elezioni generali in cui ci si aspetta di vederlo candidato. Su questa partita tutti i giochi sono aperti.


scacchiere

Africa/l’arcobaleno delle contraddizioni A pochi giorni dal calcio d’inizio dei mondiali, il Sudafrica spera in un riscatto DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

l Sudafrica si appresta a vivere un momento determinante per la sua immagine internazionale: la gestione della Football World Cup 2010 testerà le sue capacità reali e chiarirà se il paese sia effettivamente pronto per guidare l’African renaissance del Ventunesimo secolo. Molto si è detto su questo “gigante della regione australe” nell’ultimo ventennio, sul suo regime segregazionista, sull’efficacia del varo del black empowerment, sulle tensioni razziali sempre pronte a riaccendersi. Certamente la guida di politici illuminati (De Clerk, Mandela, Mbeki) ha permesso di traghettare pacificamente il sistema dall’apartheid all’era post-apartheid ed ha impedito l’implosione dell’apparato statale e sociale. Eppure dopo 16 anni di normalizzazione (quanto meno “tentata”), la rainbow nation riflette numerose contraddizioni e vive sfide inquietanti. Il chiaro-scuro è lampante. La parte luminosa dell’immagine sudafricana è rappresentata da un numero rilevante di buppies (black yuppies) capaci di creare attività imprenditoriali dinamiche come l’African Rainbow Minerals o l’African Fashion International, un mercato emergente e competitivo a livello internazionale, una crescita del Pil oscillante tra il 3 ed il 6% tra il 2004 ed il 2008, un reddito medio procapite di 10mila dollari l’anno, un tasso di corruzione non eclatante ma discreto, una diplomazia abile nelle triangolazioni sud-sud, città moderne (almeno una parte di esse). C’è però anche una parte buia della fotografia: in Sud Africa si riscontra una disoccupazione tra il 22 ed il 24%, un’inflazione del 7% secondo i dati del 2009, un tasso di analfabetismo del 14% su una popolazione di 49 milioni di persone, tassi di criminalità tra i più alti nel mondo, ondate periodiche xenofobe, un elevato numero di malati di Aids. La cosa più drammatica è che tali dati negativi si

I

riscontrano per lo più su una parte della popolazione, quella nera. Nonostante il passaggio relativamente indolore dal 1994 ad oggi, non si può negare che in tale area si registra una doppia velocità. Tale divario risalterà in tutta la sua evidenza proprio durante i mondiali di calcio. Quanti saranno i supporter di colore a vedere negli stadi le prove dei Bafana Bafana (appellativo zulu della squadra nazionale)? Quanti di essi potranno comprare un biglietto per un match? Il miglioramento delle reti di trasporto e la ristrutturazione dei quartieri offriranno vantaggi reali anche “all’altra metà dell’arcobaleno”? L’attuale presidente, Jacob Zuma, dal suo insediamento nel maggio 2009 ha considerato il prossimo avvenimento calcistico come un mezzo per rendere concreta l’unificazione del paese e dimostrare che il Sud Africa è degno di fiducia e pronto per attrarre gli investimenti esteri. Ma il suo sforzo è inficiato da alcuni avvenimenti causati da atteggiamenti “originali” dei responsabili dell’African National Congress a lui vicini. Julius Malema (leader dell’African National Confress – Youth League) non si è creato nessun problema nel premere sull’acceleratore dell’estremismo. E non è stato solo l’inno Shoot the boer cantato in diversi raduni politici a creare paura o a rialzare la tensione, ma qualcosa di più: il richiamo costante alla nazionalizzazione delle miniere e le lodi all’operato di Mugabe. L’assassinio di Eugene Terreblanche il 3 aprile scorso per mano di due giovani lavoratori di colore (a causa del mancato pagamento di alcune mensilità), ha “buttato olio sul fuoco”. Tutto ciò non giova assolutamente nel dare un’immagine rassicurante all’esterno. Eppure questo è il Sud Africa: questo è il regno in cui gli opposti coincidono, questo è l’ arcobaleno delle contraddizioni. 65


La storia

T

I PIEMONTESI CHE UCCISERO IL GENERALE MOORE

u guarda che sfiga. Se non si fosse rotto una gamba giocando a pallone, sarebbe toccato al malinconico Paul McGann (1959), anziché al sanguigno coetaneo Sean Benn, fare l’amore con Assumpta Serna (1957) alias “Comandante Teresa Moreno”, nella fiction televisiva inglese (ITV, 1993-97) incentrata sul personaggio di Richard Sharpe. Manco male, perché Assumpta, malgrado il nome promettente, viene sbudellata in duello dal vilain della quarta puntata, e le scialbe precarie ingaggiate per le altre dodici puntate non reggono il confronto con la guapa. D’accordo, colto pubblico, il serial è una boiata pazzesca. Ma voi, inclita guarnigione, non perdetevi di cliccare “sharpe’s” su youtube. Certo Horatio Hornblower, il nobile ufficiale della Royal Navy di Nelson creato da Cecil Scott Forester (1899-1966) è tutta un’altra classe, e la scommessa di Bernard Cornwell (1944) di reincarnarlo in un proletario della British Army era persa in partenza. Ma, per quanto un po’ stiracchiate, le avventure del bastardo bersagliere divenuto capitano del 2/95th Rifles hanno buone ambientazioni storiche: si 66

di Virgilio Ilari

svolgono al seguito di Wellington dall’India (1803) a Waterloo (1815) e la maggior parte durante quella che gl’inglesi chiamano “Peninsular War” e gli spagnoli “guerra de la independencia nacional” (1808-1813). Uno dei moltissimi memorialisti inglesi di questa guerra (J. Kincaid, Random Shots from a Rifleman, T. & W. Boone, London, 1835; Spellmount and Pen & Sword, 1998) racconta che «our men had somehow imbibed a horrible antipathy to the Italians» (i nostri uomini non potevano vedere gli’italiani), tanto che il 20 gennaio 1812, durante la presa della cittadella di Ciudad Rodrigo, baionettarono allegramente un gruppo di liguri e parmensi del 32° leggero che, a mani alzate, speravano di chiamarsi fuori dichiarandosi italiani. Un po’ bisognava capirli: tre anni prima, il 16 gennaio 1809 nel sobborgo della Coruña, erano stati proprio altri bastardi italiani a beccare con una mortale fucilata al braccio destro il diafano e un po’ fesso generale sir John Moore. Appartenevano al 31° leggero, uno dei dodici reggimenti o corpi speciali dell’armata francese che, per volontà di Napoleone, dovevano mantenere una


fisionomia “regionale” reclutando nei 14 diparti- il comandante, Michele Regis di Costigliole (1777menti italiani annessi all’Impero (Piemonte, 1851), fu poi comandante dell’Armata costituzionaLiguria, Parmense, Toscana, le a Novara nel 1821, e capitaUmbria e Lazio). no del 31° fu Eusebio Bava Il complotto del capitano Il 31°, formato nel 1800 da (1789-1854), futuro generale Argenton per sollevare giacobini, valdesi e barbetti della prima guerra d’indipenl'Armée d'Espagne contro (briganti e contrabbandieri denza e ministro della guerra Napoleone e, con l'aiuto amnistiati) e poi da coscritti sardo. Durante i Cento Giorni cuneesi e valsesiani, aveva già Napoleone accordò il glorioso di Wellington, instaurare combattuto ad Austerlitz e un regime "senza la bava alla nome di 31° leggero al “régiFriedland e aveva fatto parte ment des piémontais” raccolto bocca" e la rivolta dei generali nel Delfinato, che però non della prima spedizione in francesi durante la Peninsular prese parte alla campagna di Portogallo (1807-1808); dopo War: una saga che si salda l’uccisione di Moore il 31° si Waterloo. Oltre che dai docufece la fama di reggimento menti d’archivio, la storia del con quella di Richard Sharpe, d’assalto e si distinse ancora 31° si può ricostruire dalle croil personaggio nato dalla per tutto il resto della guerra nache minuziose di due imporpenna di Bernard Cornwell… peninsulare, in particolare a tantissimi memorialisti, i capiBuçaco (1810), a Salamanca tani Louis Florimond Fantin (1812) e a Orthèz (1814). Alla restaurazione, un des Odoards (1778-1866) e Marie Jean Baptiste battaglione tornato a Torino entrò nella nuova Lemonnier Delafosse (1783-?). Chi è interessato Armata sarda col nome di “cacciatori piemontesi”: trova tutto online sotto il titolo 31st léger – 31e 67


Risk léger (e può scaricarlo gratis dal sito www. scribd.com). Trascurata perfino dai renactors napoleonici italiani, la memoria del 31° è stata evocata da Bernard Cornwell in Sharpe’s Havoc, settimo romanzo della serie, pubblicato nel 2003 da HarperCollins e nel 2007 da Longanesi (col titolo Sharpe all’attacco, ma havoc vuol dire disastro). Lo sfondo storico del romanzo sono le vicende belliche svoltesi nell’angolo nord-occidentale della Penisola Iberica durante il primo semestre del 1809, e in particolare le operazioni del II corpo d’armata francese, comandato dal maresciallo Nicolas Jean-de-Dieu Soult (1769-1851), il quale, fallito il tentativo d’impedire il reimbarco dell’Armata di Moore dalla Coruña, e occupata malgrado la fiera resistenza popolare la parte settentrionale del Portogallo, rimase inattivo due mesi ad Oporto, per poi ritirarsi precipitosamente in Galizia sotto l’avanzata di Wellesley (non ancora divenuto Lord Wellington) da Lisbona. Il romanzo comincia in marzo con la sanguinosa disfatta degli eroici difensori di Oporto: dalla strage si salva a stento un pugno di riflemen comandati da Sharpe, i quali debbono però tornare a Oporto per salvare Kate Savage, orfana di un ricco mercante che per ignote ragioni è rimasta in città assieme alla madre. Sharpe incontra così il “colonnello” Christopher, un agente del Foreign Office che ha sedotto e sposato Kate anche per mettere le mani sulla sua fortuna. Convinto che la Francia finirà per vincere e che Soult, eroe di Austerlitz e Jena e duca di Dalmazia, finirà per accettare la corona della Lusitania settentrionale offertagli dai collaborazionisti portoghesi, l’infernale Christopher fa però il doppio gioco, da un lato come agente provocatore incoraggiando i generali dello stato maggiore francese ad ammutinarsi contro il loro comandante, e dall’altro offrendo al maresciallo la lista dei cospiratori in cambio del monopolio del commercio portuale. Sharpe mangia la foglia quando il suo distaccamento cade in un’imboscata tesagli dai volteggiatori del 31e léger comandati dal coraggioso e leale maggio68

re Dulong – un personaggio storico, Louis-Etienne Dulong de Rosnay (1780-1821), passato dalla carriera diplomatica a quella militare, che fu prima maggiore e poi colonnello del 31°. Naturalmente i Nostri si salvano e rincontreranno di nuovo il 31° nel combattimento di Gijo dell’11 maggio 1809 in cui, secondo la testimonianza di Fantin des Odoards i nostri piemontesi per poco non persero le aquile, inseguiti e sciabolati dai light dragoons e bersagliati da riflemen e light infantry. L’indomani è Sharpe a scoprire le chiatte per il trasporto del vino dimenticate dai francesi che storicamente consentirono a Wellington di passare il Douro prima del previsto costringendo Soult a scappare a gambe levate abbandonando feriti, bagagli, tesoro e artiglieria e a raggiungere la Galizia per tortuosi sentieri di montagna. Una ritirata in cui, come ricorda pure Cornwell, il II corpo fu salvato per un pelo dal finire intrappolato proprio da Dulong che, alla testa di cento arditi del 31°, conquistò due ponti sbarrati dai portoghesi (tra cui quello antichissimo del Diavolo, su cui si celebra il rito del pre-battesimo del ventre gravido con l’acqua attinta con corde e secchi al torrente Misarela). Quanto a Sharpe, chiamato da Wellesley subito dopo la vittoria di Oporto, riceve da Lord Pumphrey, un funzionario del Foreign Office, l’ordine di eliminare il traditore Christopher, fuggito con Kate assieme ai francesi. Inutile dire che Sharpe compie la missione e salva la ragazza. Oltre a Dulong e al reggimento piemontese, è storica pure la congiura dei generali contro Soult, anche se è stata equivocata dalla storiografia inglese seguendo l’erronea interpretazione datane da Wellesley nei suoi dispacci a Castlereagh ed è stata indicata riduttivamente come “la congiura del capitano Argenton”, il quale ne divenne il comodo capro espiatorio quando Napoleone decise di liquidare la faccenda in sordina. L’origine remota stava nella crescente stanchezza dell’esercito per le guerre senza fine imposte dalla megalomania di Napoleone; nella rivalità tra i marescialli e i gene-


storia rali lasciati da soli a cavarsela in Spagna e allontanati dai centri di potere; nel sottile sgomento di dover combattere non più contro un esercito, ma contro un popolo. Il II corpo, isolato in territorio ostile, privo di notizie dalla Spagna per non parlare dalla Francia, era poi, secondo Fantin, come «un vascello in alto mare che fende l’onda e vede subito richiudersi dietro di sé l’elemento che gli ha dato il passaggio». Giudizio identico a quello di Edouard Louis Maxim Guillot, autore nel 1894 di una storia documentata del “complotto del capitano Argenton”, di cui Fantin scrive di aver soltanto sentito parlare, non senza lasciar supporre che in realtà ne sapesse di più («voci straordinarie circolano tra noi; si parla di un complotto tramato con gl’Inglesi; un aiutante-maggiore dei nostri dragoni è stato arrestato come agente di questo nero intrigo, e si dice che abbia fatto ammissioni che compromettono parecchi dei nostri capi. D’altra parte circolavano indecenti motteggi sul conto del nostro generale in capo, chiamato “il Re Nicola”, alludendo alla corona che gli è stata offerta»).

Nato da una famiglia contadina

dell’Ariège, Jean Constantin Argenton (1775-1809) era stato un volontario del 1792 e si era particolarmente distinto in Egitto all’assalto di Alessandretta e ancora di recente alla sorpresa dell’Escurial (3 dicembre 1808). Lungi dall’essere un promotore, era stato invece coinvolto nella congiura dal suo colonnello, Laffitte, che l’aveva designato per il compito più difficile e pericoloso, quello cioè di prendere contatto con gl’inglesi. Il ruolo di agente doppio che Cornwell attribuisce al personaggio di Christopher fu svolto in realtà dal commerciante portoghese Juan Viana, che da un lato incoraggiava Soult ad accettare la corona della Lusitania settentrionale offertagli con una petizione firmata da ben 30mila nobili e borghesi (che in tal modo speravano di scongiurare la temuta annessione alla Spagna governata da Giuseppe Napoleone, fratello dell’imperatore). E dall’altro istigava un gruppo di genera-

li e colonnelli a ribellarsi contro Soult, offrendo loro di metterli in contatto con gl’inglesi, appena sbarcati in forze a Lisbona, allo scopo di stipulare con loro una convenzione analoga a quella di Cintra che nove mesi prima aveva consentito al generale Junot di evacuare Lisbona e farsi trasportare dalla flotta inglese alla Rochelle. Il denominatore comune tra i congiurati era di liberarsi di Soult: ma non erano temerari al punto di tentare una mossa preventiva e decisero di attendere il momento in cui Soult avesse formalmente accettato la corona, un gesto che poteva essere presentato alle truppe come una ribellione contro le prerogative imperiali. In seguito Napoleone scrisse al maresciallo (il 26 settembre da Schönbrunn) che il suo comportamento poteva quasi giustificare un ammutinamento e che lo perdonava solo in ricordo dei passati meriti. Tuttavia non fu la fedeltà all’imperatore a motivare i congiurati. Alcuni evocavano infatti il nome del generale Jean Victor Marie Moreau (1763-1813), esiliato nel 1804 negli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nella congiura monarchica di Pichegru e Cadoudal, e pensavano di innescare, con l’arresto di Soult, un pronunciamento di tutta l’Armée d’Espagne e poi pure di quelle d’Italia e di Germania contro il regime. E poi, diciamolo pure, a Oporto questi eroi vivevano nel terrore. L’odio degli spagnoli per l’invasore (compensato, secondo Fantin, dalla disponibilità delle donne e dalla sorprendente compiacenza dei mariti, che smentiva la loro fama di maschi gelosi) era nulla rispetto a quello dei portoghesi. La marcia del II corpo era stata una sequela di stupri, stragi, incendi e saccheggi e di ritardatari orrendamente trucidati dai partigiani. Fantin scrive che non poteva vedere un albero senza il terrore di finirci impiccato: «au diable la gloire, quand elle mène à la potence!». Accompagnato da Viana, a dorso di mulo e poi in barca, Argenton si presentò il 20 aprile alle linee inglesi sotto i nomi di “Don Juan de la Rosa” e di “Osire”, ossia “dai molti occhi”. Inviato a Lisbona, fu infine ricevuto il 25 da Wellesley, al quale espo69


Sopra: il contrattacco del 42nd Highlanders contro il 31e légère ad Elviña (La Coruña), 16 gennaio 1809. Pagina precedente: Sean Bean nei panni di “Richard Sharpe” nella fiction ITV tratta dai romanzi di Bernard Cornwell


storia se il progetto golpista, chiedendogli di attaccare il II corpo per far precipitare la situazione e di rilasciargli un salvacondotto per recarsi a sollevare la Francia contro Bonaparte. Tornato a Oporto, il 5 maggio Argenton incontrò ancora Wellesley a Coimbra, rivelandogli forza e dislocazione delle truppe francesi. Sconcertato dalle proposte, alle quali rispose abbastanza evasivamente, il futuro Lord Wellington pensò a torto che dietro ci fosse la setta dei Filadelfi, ipotesi esposta nei suoi dispacci a Castlereagh e recepita come dato di fatto dagli storici inglesi. Soult venne a sapere del complotto l’8 maggio, per un passo falso di Argenton che tentò di agganciare un ufficiale leale dal quale fu subito denunciato. Subito interrogato, Argenton ammise subito la sua responsabilità, denunciando come partecipi del complotto i generali Loison, Delaborde, Merle, Arnaud, Debelle e Quesnel e i colonnelli Laffitte, Donnadieu e Joseph Louis Mejan (1763-1831), quest’ultimo comandante del nostro 31° leggero. Costoro, convocati separatamente da Soult, negarono sdegnati e il maresciallo trovò conveniente pure per sé stesso fingere di credere alla loro innocenza, sostenendo la tesi speciosa di «un intrigue anglais qui a pour objet d’enlever la confiance des troupes» e gettando tutta la colpa sul “traître” Argenton. Il primo a negare senza vergogna fu proprio il promotore del complotto: Louis Henri Loison (17711816), il più odiato dai portoghesi che lo chiamavano “Maneta” per via di una mutilazione, efferato assassino di civili, un ladro matricolato che manteneva a Oporto due attricette tuonando contro Soult e gli “ozi di Capua”, e che durante la ritirata fu messo all’avanguardia per impedirgli di arrendersi al nemico. Gli unici arrestati furono Laffitte e Donnadieu, del resto quasi subito scarcerati. Quanto a Mejan non fu nemmeno disturbato, anche se in luglio fu collocato a riposo. La caotica ritirata da Oporto dette modo ad Argenton di fuggire a Lisbona, dove il ministro inglese Villiers gli dette un passaporto per Londra

con lettere per Canning. Dall’Inghilterra Argenton volle però tornare in Francia, sia per rivedere la moglie che per proseguire nella sua opera per una Francia “senza la bava alla bocca”. Sbarcato il 27 giugno sulla costa di Calais, fu poco dopo arrestato a Boulogne e da lì inviato alla prigione dell’Abbaye. Il 21 ottobre Napoleone ordinò di processarlo e il 14 novembre fu nominata la commissione, presieduta da un colonnello che aveva fatto parte della giuria che nel 1804 aveva condannato a morte il duca d’Enghien. Gli interrogatori dei testi, condotti con scrupolo dal relatore, capitano Bertrand, fecero emergere la reale portata della congiura, consentendo al difensore di Argenton, l’avvocato Ambroise Falconnet, di trasformare l’arringa in un pesante atto di accusa contro Soult. Anche per questo la faccenda fu chiusa rapidamente il 22 dicembre, con la scontata condanna a morte, eseguita il giorno stesso nel prato di Grenelle al Castello di Vincennes, nello stesso punto in cui era stato fucilato il duca d’Enghien. Argenton morì con coraggio, recriminando soltanto la viltà dei generali che l’avevano esposto e abbandonato. Gli fu consentito di comandare lui stesso il plotone d’esecuzione. Falconnet, che aveva irritato l’imperatore osando chiedergli la grazia per Argenton, fu ammonito dalla polizia circa le severe pene comminate dal codice contro la calunnia (nei confronti di Soult). Rimasto in Spagna come generale in capo e poi come capo di stato maggiore per tutto il resto della guerra peninsulare, Soult ebbe una lunga sopravvivenza politica, sia nei Cento Giorni che nelle due restaurazioni. Luigi Filippo ripristinò per lui il grado di maresciallo generale che era stato tenuto da Turenne, Villars e Maurizio di Sassonia e lo fece ministro della guerra e primo ministro. Inviato a Londra nel 1838 per l’incoronazione della regina Vittoria, fu preso per un braccio da Wellington che lo complimentò dicendogli: «finalmente vi ho acchiappato!» Alla caduta del regime, si dichiarò repubblicano. 71


la libreria


libreria

ENRICO CAVIGLIA, LUCIDO, INSOLENTE E FUORI DAL CORO di Mario Arpino uno dei casi in cui prima del libro è necessario parlare dell’Autore, e, scorrendo le pagine del Diario, il lettore ne comprenderà presto la ragione. Enrico Caviglia (1862 – 1945) è ufficiale del Regio Esercito nato a Finalmarina, oggi Finale Ligure. La sua vita e la sua carriera sono quanto mai varie ed articolate. Dopo il collegio militare di Milano e l’accademia militare di Torino, partecipa a tutte le guerre coloniali d’Africa di fine Ottocento – saranno proprio le stragi di Dogali, Amba Alagi e Adua a segnare un modo di pensare già allora fuori dal coro – per essere poi distaccato in Estremo Oriente tra il 1904 e il 1911, dove osserva la guerra russogiapponese. È poi nominato addetto militare presso la nostra ambasciata di Tokyo e la legazione di Pechino, subito dopo la rivolta dei Boxer, successivamente partecipa all’invasione e all’occupazione della Libia nella guerra italo-turca del 1911-12. È un militare convinto, ma non sarà mai solamente un soldato. Appassionato di scultura e pittura, si interessa un po’ a tutto, dalla coltura della seta nel periodo cinese alla geologia del sottosuolo libico, mirando a un’eventuale sviluppo dell’agricoltura. Ottima penna, come il lettore avrà modo di realizzare nelle pagine del Diario, ha uno stile piacevole e diretto, senza gli orpelli dell’epoca. Scrive sulla Rassegna d’Arte di Corrado Ricci, su Nuova Antologia e collabora con il Corriere della Sera di Luigi Albertini. In guerra è abile stratega e coraggioso condottiero. È lui al comando dell’Ottava Armata al tempo del successo di Vittorio Veneto. Sarà poi senatore del Regno e, incarico non gradito, anche ministro della guerra nel corso del primo semestre 1919. Collare

È

ENRICO CAVIGLIA I dittatori, le guerre e il piccolo re Diario 1925-1945 a cura di Pier Paolo Cerone Mursia Editore pagine 621 • euro 22,00 La consulenza editoriale è di Maurizio Pagliani, nella collana “Testimonianze, tra Cronaca e Storia”. Non essendo stata ritrovata la stesura originale del diario, il testo si rifà alla pubblicazione postuma, del 1952. Enrico Caviglia (1862 1945), Maresciallo d’Italia, fu comandante dell’ottava armata ai tempi di vittorio Veneto. Pier Paolo Cervone è giornalista professionista caposervizio a “La Stampa”. Con Mursia ha già pubblicato Enrico Caviglia, l’anti-Badoglio(1992) e Vittorio Veneto, l’ultima battaglia (1994).

73


Risk dell’Annunziata e, come tale, “cugino” del Re, nel 1926 viene nominato Maresciallo d’Italia. Da quel momento, a 64 anni, pur rimanendo a tutti gli effetti in servizio permanente come allora previsto dalla legge, non avrà più incarichi ufficiali e si dedicherà, tra altri mille interessi, alla stesura del suo Diario. La prima pagina è datata 7 aprile 1925, e racconta delle sue valutazioni nel merito delle responsabilità per l’assassinio di Giacomo Matteotti. Ma Caviglia di cose da dire ne aveva sempre molte, spesso gustose, a volte astiose, ma sempre impregnate di una critica ragionata che, mediamente, consente al lettore di entrare sia nello spirito dell’ epoca cui si riferisce che nelle sue verità. E quelle filtrate attraverso la sua osservazione, sempre critica e attenta, danno tutta l’impressione della verità vera, non di una verità tra le tante possibili, perché distillata da fonte autorevole, talvolta dissacrante, ma sempre credibile. Le pagine continuano per vent’anni, senza interruzioni. L’ultima, che è del 9 marzo 1945, precede di un paio di settimane la sua scomparsa, avvenuta a 83 anni, il 23 marzo. L’epilogo della sua ultima guerra era ormai vicino, da lui stesso avvertito, ma il destino, per una volta, non gli avrebbe concesso di essere presente. Questa non è la prima edizione del Diario, quella apparsa postuma nel 1952 a cura del professore genovese Mario Zino, vecchio amico del Generale. Le carte originali ormai risultano introvabili, come pure è difficilissimo trovare ancora – se non con molta fortuna su qualche bancarella – qualche copia ingiallita di quarta mano. È la seconda, che, a cura di Pier Paolo Cervone, è ritornata nelle librerie alla fine dell’anno scorso nella collana “Tra Cronaca e Storia” dell’editore Mursia, dopo una cinquantina d’anni di assenza. Ed è stato un bene, perché, in un’epoca in cui con occhio disincantato stiamo rivisitando in chiave critica un po’ tutto, ricavando spesso da una lettura diversa – più distaccata – dei fatti e degli episodi della nostra storia una visione difforme dal 74

“tradizionalmente noto”, l’acume delle osservazioni di Enrico Caviglia non poteva andare perduto. Anzi, leggendo, scopriamo che è stato un lucido precursore di questo modo quasi insolente e fuori dal coro, di leggere i fatti e gli eventi che pure gli erano stati contemporanei. Mario Cervi, che sul Maresciallo aveva condotto una ricerca approfondita pubblicata poi da Mursia nel 1992 con il libro intitolato Enrico Caviglia, l’antiBadoglio, lo considera una sorta di “bocca della verità” cui è permesso dire tutto di tutti, senza risparmio di giudizi. Forse non era proprio una “mala lingua”, come scrive Cervi, ma un pensatore lucido e indipendente certamente sì. A volte anche dissacratore, quando si tratta di definire alcune “icone sacre” del suo tempo. Se i personaggi che prende di mira più spesso sono D’Annunzio, Badoglio e, per certi versi, anche il Re, pochi sfuggono alla sua sottile ironia, che a volte deborda in sarcasmo. Le persone che non stima diventano le sue vittime preferite, e tra queste spicca la figura di Pietro Badoglio, che egli ritiene, come annota il curatore nelle sua ottima prefazione – ma questo spicca in ogni caso a chiare lettere nel Diario – uno dei principali responsabili della disfatta di Caporetto, se non il responsabile. Il fatto che dopo ogni disastro sparisca, per riemergere subito dopo con superiori incarichi e prebende, Enrico Caviglia non lo può proprio tollerare. E, nelle sue annotazioni, lo dimostra chiaramente per tutto l’arco di vent’anni in cui stende le memorie. Ma anche le critiche a Gabriele D’annunzio sono feroci, tali da far risaltare come lo stesso Caviglia, incaricato dal Re di porre termine all’avventura fiumana, avesse svolto questo ruolo con estremo distacco e con una punta di compiacimento. Il sarcasmo feroce nei confronti di Badoglio, e quasi dispiaciuto nei confronti del Sovrano – al quale come Maresciallo d’Italia ha sempre continuato ad avere libero accesso – compare a tutto campo nelle pagine del Diario che vanno dal 26 luglio 1943 alla fine, con fermata


libreria obbligatoria al giorno 8 settembre ed a quelli immediatamente successivi. L’ottantunenne Caviglia era arrivato a Roma il giorno stesso dell’armistizio, quando Badoglio, il Re e la corte stavano scappando (secondo alcuni) di gran carriera verso Pescara, oppure (secondo altri) stavano trasferendo in altro luogo i poteri dello stato italiano. Essendosi affacciato al Ministero della Guerra ed allo Stato Maggiore ed avendo trovato il vuoto, si era sentito in dovere di occuparlo e, d’iniziativa, aveva cominciato a riprendere le fila di un minimo di organizzazione militare e civile. Ma il Diario non è solo cronologia, è anche – e sopra tutto – una retrospettiva ragionata che inizia già con le sanguinose, improvvide e disorganizzate guerre d’Africa dell’ultimo ottocento. Così, gli eventi ricordati e puntualmente commentati spaziano dalle vicende lontane di Galliano, Barattieri, De Cristoforis, Bottego – tutti conosciuti personalmente dal Maresciallo – a Caneva a Tripoli, a Cadorna, Diaz, il Carso, l’Ortigara, Asiago, Caporetto, poi Vittorio Veneto, Fiume e la Dalmazia, per arrivare a Matteotti, le vicende tra le due guerre, la conquista dell’Impero (sempre con l’odiato Badoglio…), Hitler, Mussolini, il Giappone, il “patto d’acciaio”, la “coltellata alle spalle” alla Francia, i tedeschi, i partigiani, la sua posizione finale di anziano generale rispettato e stimato da entrambe le parti. È un

fuoco d’artificio continuo, inconsueto, spesso sorprendente, mai scontato in termini di giudizi, e sempre scontato, invece, in termini di amor di Patria e di linearità di comportamento. Un soldato colto, sicuro della propria credibilità, che osserva il suo tempo con apparente distacco, ma con intimo coinvolgimento. Il libro è lungo, sono 621 pagine, ma non ci si stanca mai, sia per la vivacità dei contenuti e lo stile dell’estensore, che – i più anziani sanno apprezzare anche questo – per la nitidezza e la giusta dimensione dei caratteri di stampa. L’interessante prefazione del curatore, Pier Paolo Cervone, e la consulenza editoriale di Maurizio Pagliano – si tratta di venticinque pagine – appaiono subito importanti perché sintetizzano il percorso del volume sia in termini strutturali che di contenuto. L’articolazione è in cinque parti, ordinate con criterio cronologico. Questo tuttavia non è riferito alla materia trattata, che in retrospettiva copre un periodo tra il 1888 e il 1925, bensì alla datazione di ciascuno scritto, che, come abbiamo detto, spazia tra il 1925 e il 1945. Si tratta, in effetti, di ben 57 anni di vita italiana. È uno di quei libri che, essendo ponderosi, all’inizio in genere si affrontano curiosando tra le pagine, quasi a saggiarne il contenuto. Ma poi ci si prende gusto e si riparte dall’inizio, per arrivare alla fine senza più saltare una parola.

153 RAGIONI PER ESSERE OTTIMISTI

Scienziati, filosofi, artisti e scrittori uniti in un manifesto contro il pessimismo dilagante. Che vede un futuro migliore (ma disumanizzato) di Andrea Tani uesto saggio è estremamente interessante e confidente sul futuro ma in un modo assai lontano dalle volgarizzazioni che affollano le vetrine dei librai e dominano le classifiche. Nasce da un’idea tanto semplice quanto brillante di John Brokman, che non è un autore ma sarebbe ridutti-

Q

vo qualificare come un semplice curatore di fatiche altrui. Si potrebbe piuttosto definirlo un “impresario della conoscenza”, ovvero un esploratore culturale che randeggia le frontiere del sapere, pronto a percepire gli spunti di fenomeni evolutivi o rivoluzionari che cambieranno la vita di tutti noi. Questa volta la sua trovata è consistita nell’approfittare delle enormi possibilità di Internet per rac75


Risk cogliere in tempo quasi reale le opinioni essenziali di un gran numero di persone informate sui fatti del mondo. Informate sul serio, non fumogeni divulgativi da talk-show; scienziati di riferimento nelle più svariate discipline - fisici, biologi, chimici, medici, filosofi, sociologi, epistemologi, economisti, politologi, storici della vicenda umana e della scienza, neurologi, informatici & informatori, psicologi, insegnanti e chi ne ha più ne metta. Alcuni sono premi Nobel, altri stanno per diventarlo; tutti rappresentano lo stato dell’arte nella rispettiva materia. Qualche nome celebre: Jared Diamond, Brian Greene, Richard Dawkins, Gino Segrè, Lisa Randall. Brokman pone ad essi un preciso interrogativo e li sfida a fornire una risposta non ovvia: «La scienza, dalle sue frontiere, ci pone sempre più domande, domande più mirate e meglio articolate. Su cosa sei ottimista? Sorprendici». Nel giro di qualche settimana Brokman ha ricevuto le sue sorprese e ha potuto affastellare un condensato di approfondimenti, stimoli, intuizioni, provocazioni, distillati di saggezza che raramente si possono rintracciare in un saggio ordinario scritto da una sola persona o al massimo da un gruppetto di esperti pilotati su un tema. Il risultato è effettivamente sorprendente. Oltre ad alzare una folata di aria fresca che ha arieggiato le stantie cantine dei pessimismi imperanti, quasi sempre frutto di un’amplificazione politicamente corretta di slogan avventati, il lavoro è risultato talmente ricco di pensiero, elaborazione ed illuminazione, tutti fondati su fatti consolidati (spesso non a conoscenza del grande pubblico), che veramente le sue conclusioni vanno lette a piccole dosi e metabolizzate con calma, anche se sono esposte in modo assai scorrevole. È bene affrontare un intervento per volta, una o due pagine, seguito dall’opportuna meditazione o solo assimilazione di quello che si è appreso. Si tratta di un ottimo libro da momenti finiti non da applicazioni prolungate. È naturalmente impossibile riassumere tutti gli argomenti 76

toccati, che sono forse un centinaio (alcuni di essi sono dei veri “hits”e vengono affrontati da diversi autori dalle diverse angolazioni) anche perché si toglierebbe a chi è interessato all’argomento il piacere della scoperta. Può essere interessante richiamare per sommi capi gli argomenti più trattati, sui quali curiosamente c’è una certa concordanza, segno che i fatti hanno la testa dura, una volta che vengano determinati con metodi scientificamente impeccabili. Un primo esempio che può essere scovato è la questione del nucleare, sulla quale il saggio si sofferma molto superficialmente, considerandola un tema dell’oggi, mentre gli ottimismi si occupano del domani. Un domani che sullo specifico argomento dell’energia vede una singolare concordia da parte di tutti gli illustri esperti che lo trattano. «Le fonti fossili emettono gas serra e prima o poi si esauriranno» - i “Sommi” sentenziano - «mentre non si esaurirà mai (nei tempi umani) l’energia che proviene dal sole», che poi è alla base di quasi tutte le fonti che l’uomo utilizza – i suddetti idrocarburi, l’idroelettrica, la solare, l’eolica, la meteo marina determinata dai venti (le maree hanno diversa genesi, come il nucleare). L’energia solare fornisce direttamente, in un’ora, tutta l’energia consumata in un anno dall’umanità. Oppure, come altri autori affermano, «7000 volte più energia di quanto ne utilizziamo». Il problema di oggi, ovvero l’insufficiente rendimento dei sistemi diretti di cattura, trasmissione, accumulo e utilizzazione di tale energia, verrà man mano risolto da una tecnologia che sembra avere solo l’imbarazzo della scelta per elaborare soluzioni praticabili e straordinariamente proficue, cosa che farà entro un tempo relativamente celere (i guru non lo dicono, ma è presumibile qualche lustro). Va da sé che tali soluzioni risolveranno gran parte dei problemi generati dall’emissione antropica di gas serra, compresi quelli derivanti dall’automobili, che transiterà celermente sulla propulsione elettrica, almeno quella leggera per uso personale (lo sta già facendo). Vengono forniti svariati esempi delle


libreria possibilità che si aprono, alcune veramente fantascientifiche, come quelle tratteggiate da Alun Andersen, direttore di New Scientist, che ipotizza tre modalità future di conversione diretta della luce solare in energia (molto più efficiente delle conversioni indirette e a cascata attuali): fotosintesi artificiale, celle solari a polimeri autorganizzanti e riprogrammazione della composizione genetica di semplici organismi per produrre combustibili puliti (per esempio idrogeno). Questo futuro così promettente non si crea naturalmente da solo. Occorrono forti investimenti nella ricerca delle nuove tecnologie in grado di avvicinare il momento nel quale diverrà conveniente trasmutare massicciamente dagli idrocarburi al solare, l’eolico e il marino. Questi investimenti sono oggi relativamente limitati, dato che la gran parte di quello che mettono in bilancio gli stati, le istituzioni, le aziende e i privati è mirata alla messa in opera immediata di impianti che utilizzano metodiche ancora non redditizie, tanto da aver bisogno di sovvenzioni per esser competitivi. Questo deriva da un eccesso di entusiasmo ideologico e dall’appeal politico-mediatico che suscitano tali temi, sui quali tutti vogliono dire e fare la loro, anche quando risulta prematuro. Qualcuno dovrebbe mettere in evidenza tale discrasia ma è difficile trovare un compito meno attraente. Comunque vada, una prima ragio-

nevole convinzione che scaturisce dalla lettura di questo libro è che il futuro dell’umanità è destinato ineluttabilmente ad essere caratterizzato da un’energia a costo bassissimo o praticamente nullo, derivante dall’utilizzo diretto ed ecologicamente corretto delle fonti solari, escludendo quindi gli idrocarburi, che saranno riservati alla chimica o ad applicazioni di nicchia. Tale prospettiva dischiude prospettive un tempo inimmaginabili, anche per le aree in via di sviluppo più derelitte che usualmente si trovano in fasce geografiche ad alta intensità di irradiazione solare (quelle stesse che nel contempo rendono difficile organizzare le cose in modo efficiente). La stessa prospettiva aprirà ad esempio la strada ad un’era di incredibile abbondanza caratterizzata da una miriade di macchine che si auto-replicheranno, assorbiranno energia attraverso celle solari, si “nutriranno” di rocce (qualunque cosa ciò possa significare) e lavoreranno per l’uomo in modo proficuo ed incessante, il tutto senza inquinare l’atmosfera.. Sorprende che non venga fatta praticamente menzione da parte di alcuno di altre fonti pulite e illimitate che un tempo andavano per la maggiore, come la fusione fredda (vado a memoria, gli spunti del libro sono inesauribili). Il che può forse significare che si trattava di fughe in avanti, wishful thinking o fenomeni fisici di impossibile traduzione in applicazioni su vasta scala.

JOHN BROKMAN (Curatore) 153 ragioni per esser ottimisti Le scommesse della grande ricerca Il Saggiatore pagine 424 • euro 21,00 Crisi finanziarie, riscaldamento globale, razzismo, criminalità e terrorismo. Guerre. Come si può essere ottimisti oggi? Eppure ci sono almeno centocinquantatre buone ragioni per esserlo. John Brockman, l'editore dell'influente forum scientifico Edge, ha chiesto a illustri fisici, biologi, scrittori, filosofi e artisti di rispondere a una domanda semplice e immediata: «Su cosa sei ottimista e perché?». Soffermandosi sui temi più svariati - l'educazione, la medicina, la psicologia, l'astronomia e persino la fine del mondo - 153 ragioni per essere ottimisti è un caleidoscopio di riflessioni sulla natura umana e sulla sua capacità di cambiare e migliorarsi. Brian Greene, Jared Diamond, Richard Dawkins, Gino Segrè, Lisa Randall e tanti altri rispondono alla provocatoria domanda di Brockman e illustrano la loro visione ottimistica del mondo. Idee illuminanti scuotono il nichilismo che soffoca i nostri giorni e offrono nuove prospettive alla percezione del futuro dell'umanità.

77


Risk Un sottile collegamento fra la trascendenza primigenia e l’auspicata liberazione dell’uomo dalla schiavitù di un’energia che avvelena e devasta il pianeta, fra la religione e la scienza che tendono al medesimo anelito potrebbe essere tuttora percepito, anche se nessuno dei positivi scienziati del nostro saggio ne fa esplicita menzione. Più di uno fa menzione, invece, dell’ineluttabile crepuscolo delle religioni che si accompagna al declino della conflittualità di queste con la scienza, forse perché l’approccio positivista non conosce più ostacoli, almeno nella comprensione e spiegazione del mondo. Una serie di dichiarazioni contenute nel libro sono particolarmente tranchant, nonchè sintomatiche del fatto che ormai si possono pubblicamente demolire tabù un tempo intoccabili. Esse recitano: «Il numero delle persone che stanno realizzando quanto non abbia senso il credo religioso sta crescendo…Mi aspetto di vivere abbastanza per vedere l’evaporazione della potente mistica della religione. «Impareremo presto a liberarci degli inutili dogmi, precetti, enunciazioni e pregiudizi che le religioni hanno costruito nei millenni. La gente comincerà a vedere la scienza come un veicolo per la comprensione reciproca e il rispetto per la vita». Ovvero come una nuova religione razionale laica e immanente e nel contempo una nuova ideologia universale ma paradossalmente de-ideologizzata, basata su una novella comprensione delle leggi che governano l’Universo. Questa comprensione verrà grandemente esaltata – è opinione corale e ripetutamente ribadita di molti coautori del libro – da un avvenimento cruciale che per gli stessi autori era prossimo venturo mentre per noi è già iniziato, ovvero l’entrata in servizio dell’Lhd, il Large Hadron Collider, il colossale acceleratore di particelle costruito presso il Cern di Ginevra che dal novembre 2009 sta rivoluzionando le basi del sapere fondamentale. Nella percezione di molti esponenti della comunità scientifica la sua comparsa equivale ad una moderna Rivelazione razionale e i suoi risultati sono atte78

si con la stessa ansia con la quale il popolo ebraico invocava il Messia. Si tratta, come recita un articolo di Dawkins, della «Spiegazione Scientifica Ultima», soffusa di «Ottimismo Cosmologico» (Paul Steinhard) e derivante presumibilmente dalla «Vera Purezza della Scienza Pura» (Piet Hut, astrofisico). Ma non tutte le 153 ragioni per esser ottimisti volano così alto e presentano simili difficoltà di comprensione/accettazione, a secondo dei livelli culturali e della Weltanshauung di ognuno. Gli argomenti trattati toccano anche temi concreti e facilmente percepibili, come il declino della violenza - paradossalmente generato anche dal fatto che gli uomini, i maschi, si occupano di più della cura di figli in planetaria diminuzione pro-coppia (un altro paragrafo si occupa a questo proposito della «definitiva sconfitta di Malthus») - e quindi il decrescere della conflittualità a livello sociale e internazionale (un capitolo ha come titolo «La guerra finirà») - nonché la spinta all’autoaffermazione dei popoli, la vittoria delle città (che guariranno la povertà dei non abbienti planetari, incredibile..), la diffusione della conoscenza e dell’istruzione, il ruolo della Rete e delle reti future, l’intelligenza artificiale (che secondo Jordan Pallack, «si sveglierà»), la trasparenza politica «inevitabile», l’influsso dell’ambiente nell’attivazione dei nostri geni, la fine degli “ismi” che ancora dilaniano il mondo (fondamentalismo religioso, razzismo, sessismo ma anche, in contraddittorio con quanto sopradetto, ateismo). Segue il progresso morale generalizzato, la comprensione scientifica dell’irrazionalità, il declino della magia, l’avvento di una morte laica e umanista - ma nel contempo nuove prospettive di “immortalità”, o almeno di vite più lunghe e migliori, generate dalla crescente efficacia della medicina nello sconfiggere molte malattie, con forte enfasi su genetica, prevenzione e staminali -, la rivoluzione femminile che riconfigurerà il mondo, il multilinguismo, il ruolo delle neuro-


libreria scienze, la comprensione del sonno (finalmente un soggetto ozioso), la “telepatia universale”, la vittoria «sull’l’ignoranza costruita», la trasformazione climatica, l’esplorazione interplanetaria (con Marte in prima linea). Insomma «L’umanità se la caverà», come afferma Paul Saffo, docente alla scuola di ingegneria di Stanford, grazie alla scienza, e non si troverà de- umanizzata da tutte queste innovazioni, ma anzi ne verrà ri-umanizzata come sostiene George Church, genetista eminente. Anche la felicità tornerà ad essere un bene accessibile, come affermano molti coautori del saggio. E quindi «Viva gli scienziati!» - afferma perentoriamente il softwerista Kai Krause – i quali hanno realizzato i sogni dell’umanità pagando con sforzi enormi e qualche volta con le loro vite. Ogni lettore troverà sicuramente che molti articoli-capitoli del libro sono troppo ottimistici, irrealistici, futili, eccessivamente complicati o platealmente erronei (quest’ultimo caso è riservato presumibilmente agli addetti ai lavori; difficile che il lettore comune possa arrivarci). Oppure che l’umorismo sornione con il quale alcuni autori trattano temi serissimi può disorientare, ad esempio quello di Jill Neimark, nota divulgatrice scientifica, la quale sostiene che «i nostri destini genetici potranno essere cambiati attraverso dei semplici fattori universali, come le vitamine e l’amore». Tuttavia la maggioranza delle sorprese invocate da Brokman stimola sul serio le sinapsi del medesimo lettore e costituisce un ottimo nutrimento per il suo pensiero, oltre a generare una continua serie di sorpresi «Caspita, sarà così veramente»? 79


L

E

F I R M E

del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa OSVALDO BALDACCI: giornalista, analista di politica internazionale PIETRO BATACCHI: senior analyst Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali JOHN R. BOLTON: già Ambasciatore americano alle Nazioni Unite PIERRE CHIARTANO: giornalista di liberal EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano JOHN MAKIN: consigliere del Fondo Monetario Internazionale e già Consigliere al dipartimento del Tesoro Usa ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo IAI nell’Area Sicurezza e Difesa EMANUELE OTTOLENGHI: senior fellow presso la Foundation for Defense of Democracies di Washington MARCO SACCONE: coordinatore di www.geolo.it si occupa dello sviluppo dei progetti green e di comunicazione ANDREA TANI: analista militare, scrittore

80




Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.