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Mario Arpino Giancristiano Desiderio Giulio Fraticelli

FORZE ARMATE: QUALE FUTURO

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2013

gennaio-febbraio

numero 70 anno XIII euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Una nuova politica per la Difesa Lettera aperta al ministro della Difesa MICHELE NONES

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Le ragioni del guerriero Geopolitica e militari in Italia CARLO JEAN

Riccardo Gefter Wondrich

Eserciti condivisi: conviene! L’evoluzione degli eserciti nel nostro Paese e in Europa LUIGI RAMPONI

Virgilio Ilari

FORZE ARMATE: QUALE FUTURO

Carlo Jean Alessandro Marrone Davide Matteucci

Il domino siriano

Michele Nones

Il dittatore di Damasco resiste sullo sfondo del confrontro tra Riad e Teheran ANTONIO PICASSO

Luigi Ramponi

Stranamore

www.riskrivista.it

RISK GENNAIO-FEBBRAIO 2013

Ferdinando Sanfelice di Monteforte

DIFESA E SICUREZZA NAZIONALE DI FRONTE A CRISI, NUOVA POLITICA E RIFORME Parigi, giochi senza frontiere Alessandro Marrone

Una storia di famiglia tra impero e fascismo Mario Arpino

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •


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quaderni di geostrategia

DOSSIER

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Una nuova politica per la Difesa

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I

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Virgilio Ilari pagine 68/73

Le ragioni del guerriero Carlo Jean Stranamore

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LA STORIA

Michele Nones

Far tornare i conti delle stellette

M

LIBRERIA

Eserciti condivisi: conviene!

Mario Arpino Giancristiano Desiderio

Luigi Ramponi

pagine 74/79

Un Paese più sicuro e protetto Giulio Fraticelli

La Difesa nell’angolo Mario Arpino

Marina militare anticrisi Ferdinando Sanfelice di Monteforte pagine 5/57

SCENARI

Il domino siriano Antonio Picasso pagine 58/63

SCACCHIERE

Europa Alessandro Marrone

Americhe Riccardo Gefter Wondrich

Africa Davide Matteucci pagine 64/67

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DIRETTORE Michele Nones REDATTORE Pierre Chiartano COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Giorgio Brazzelli Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Giuseppe Orsi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

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FORZE ARMATE: QUALE FUTURO Arriva la nuova politica, con la crisi che ancora morde l’economia del paese. Ecco lo scenario in cui dovranno muoversi le forze armate del nostro paese, rispondendo come sempre alla chiamata dello stato che chiede riforme e qualche sacrificio. In questo caso significherà tagliare dove possibile e risparmiare quando conviene. Come succede da diversi anni, da quando i nostri militari hanno imparato a muoversi all’interno di organismi e contesti internazionali, la risposta degli uomini in divisa è e sarà un bell’esempio di pragmatismo e fedeltà alle istituzioni. Chiunque arriverà governare l’Italia avrà la responsabilità politica di una struttura, in cui continueranno a prevalere la professionalità e l’attaccamento alle istituzioni. Naturalmente la pianificazione dello strumento militare e, più a monte ancora, le ambizioni internazionali dell’Italia, devono realisticamente tener conto delle risorse disponibili. Le maggiori limitazioni non provengono dall’opinione pubblica, ma dalla cultura politica e dagli assetti istituzionali del paese. Si discute sul numero di militari che dovranno comporre i nuovi assetti delle forze armate, ma al di là dell’aritmetica – che conta – è importante capire quale sia l’interesse nazionale che dovranno difendere e preservare. Grazie agli Usa, l’Italia è entrata a far parte di molti «club esclusivi», da cui i partner europei avrebbero voluto escluderla. I limiti della partecipazione italiana è consistita soprattutto nel fatto che il nostro paese non ha mai saputo dire che cosa volesse. L’interesse italiano sarebbe quello di ricoprire nel Mediterraneo un ruolo analogo a quello tedesco nell’Europa continentale. La «dottrina Obama» ha diminuito l’interesse Usa per il Medioriente. Parigi ne è preoccupata e spiega la sua pretesa di intervenire in nome dell’Europa, dell’Occidente o dell’umanità, in conflitti che «con molta fantasia» vengono definiti «di necessità», ma che derivano da scelte della Francia per promuovere i suoi interessi nazionali. In Italia, i bilanci della difesa presentano un tasso di vulnerabilità elevato, anche per lo scarso livello di cultura militare esistente nella classe politica, per la fiducia che «mamma America» continui a soddisfare le nostre esigenze di sicurezza e per la tacita convinzione che il ruolo principale delle nostre forze armate sia di permetterci di essere presenti nei vari fori internazionali che contano. Ne scrivono: Arpino, Fraticelli, Jean, Nones, Ramponi, Sanfelice e Stranamore


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ossier

LETTERA APERTA AL MINISTRO DELLA DIFESA

UNA NUOVA POLITICA PER LA DIFESA DI

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MICHELE NONES

aro Ministro, preparando questa lettera aperta ho riletto quanto scritto in due analoghe lettere aperte nel maggio 2008 (Risk n.2) e, due anni prima, nel gennaio 2006 (Liberal Risk n.8) e ho dovuto amaramente prendere atto che posso permettermi di fare solo qualche lieve ritocco perché gran parte dei problemi sono rimasti gli stessi e così i suggerimenti. Mi auguro, di conse-

guenza, che Lei voglia trarne qualche spunto di riflessione per impostare la Sua azione di direzione politica della complessa macchina militare. Anche in questa occasione mentre scrivo non so chi sarà il destinatario. Non è, però, un problema perché la politica della difesa ha assunto da molto tempo una caratteristica di forte stabilità in una logica bipartisan che sono certo, come tutti, che anche Lei vorrà mantenere. Ciò rappresenterà per Lei un triplice vantaggio: • avere la responsabilità politica di una struttura in cui continuano a prevalere la professionalità e l’attaccamento alle istituzioni e sulla cui lealtà Lei potrà, quindi, fare pieno affidamento; • contare su un consenso dell’opinione pubblica molto più ampio di quello rappresentato da qualsiasi maggioranza parlamentare e che si riflette spesso nelle stesse aule parlamentari; • muoversi a livello internazionale contando sulla grande credibilità acquisita grazie all’impegno delle Forze Armate nelle missioni per il mantenimento e il ristabilimento della pace (contrastando una deriva che molti ritenevano, altrimenti, inarrestabile) e gra-

zie all’opera del Suo predecessore che ha fatto del nostro Paese uno dei protagonisti a livello europeo e transatlantico. È un patrimonio prezioso che va tutelato e rafforzato perché rappresenta uno dei pochi punti in cui il nostro paese ha raggiunto una condizione di normalità rispetto ai nostri partner. La stessa riforma, appena approvata dal Parlamento e che Lei dovrà attuare, punta a migliorare l’efficienza e garantire la sostenibilità dello strumento militare: non si tratta, quindi, come in altri settori di impedire il tracollo o assicurare un accettabile funzionamento della macchina statale, ma di proseguire sulla strada fin qui tracciata, caso mai accelerandone i tempi. Il ministero della Difesa e le forze armate hanno vissuto in questi ultimi venti anni e soprattutto dopo l’11 settembre una profonda trasformazione. L’area tecnico-operativa e in particolare quella legata alle attività internazionali ha registrato un forte miglioramento in termini di capacità e di efficienza. Su di essa si sono giustamente concentrate l’attenzione e le risorse. Ma siamo ormai giunti ad un momento delicato perché il resto della macchina non ha subi5


Risk to un conseguente adeguamento. Si registra, quindi, uno squilibrio fra la parte emersa dell’iceberg e la molto più vasta parte immersa che la sorregge. A quest’ultima dovrebbe essere particolarmente dedicata la Sua attenzione, anche tenendo conto che la gestione delle missioni internazionali può fare ormai affidamento su una ben collaudata catena di comando e su vertici militari in grado di eseguire compiutamente le direttive politiche ricevute. Certo la Sua presenza presso i reparti impegnati nel mondo a tutela della pace sarà necessaria per testimoniare a loro il ringraziamento e l’affetto del paese e alle autorità di quei paesi il mantenimento degli impegni presi. E vi è anche una comprensibile esigenza di visibilità politica. Ma sarebbe auspicabile che riuscisse a dedicare gran parte delle Sue energie a dare impulso ad una radicale trasformazione della struttura interna della Difesa. Gli uomini che oggi stanno all’estero, poi tornano e sapranno tutti apprezzare gli sforzi messi in atto per consentire loro di continuare a lavorare meglio anche a casa. La nostra politica della difesa richiede un nuovo

La “familiarizzazione” con i problemi della sicurezza e difesa e la consapevolezza dei rischi e delle minacce è il presupposto fondamentale per creare il necessario clima di collaborazione politica. È solo in questo contesto che la riforma dello strumento militare potrà essere portata a compimento 6

impulso e, in parte, un adeguamento. Il rapido cambiamento dello scenario strategico, politico, militare, economico e tecnologico impongono una capacità di adattamento e, in alcuni momenti, anche un salto qualitativo. Fra i problemi da risolvere gliene vorrei indicare alcuni, insieme a qualche possibile linea di azione, senza avere la pretesa di affrontarli tutti, né di dare risposte esaustive. L’approccio che suggerisco è prima di tutto basato su una diversa metodologia perché ci si augura che Lei possa mantenere l’incarico abbastanza a lungo per realizzare la trasformazione della Difesa, ma siamo tutti consapevoli che il suo completamento richiederà per lo meno un decennio. Si tratta, quindi, di prendere le opportune decisioni affinché in questo arco di tempo diventino completamente operative. Partendo dall’alto della piramide ministeriale e andando verso il basso rischia probabilmente di posticipare i risultati più appariscenti della trasformazione, ma si assicurerà l’effettiva capacità di portarla a termine grazie ad una struttura di vertice in grado di meglio aiutarla e condividerne le responsabilità sul piano della messa in pratica delle Sue indicazioni e decisioni.

Il primo obiettivo è quello di ridare alla struttura amministrativa e operativa della Difesa la forma di una piramide anziché quella dell’attuale strano prisma. Il ministro dovrebbe avere un ristretto gabinetto formato dai suoi consiglieri e da un minimo supporto di segreteria. Le funzioni dell’attuale gabinetto andrebbero ridistribuite fra stato maggiore della Difesa e segretariato generale della Difesa. I capi delle due strutture dovrebbero essere i diretti collaboratori istituzionali del ministro senza nessun altro filtro. I consiglieri ministeriali dovrebbero affiancare il ministro solo nella gestione della sua responsabilità politica, senza sovrapporsi alle attività della struttura interforze. Pur tenendo conto che il Suo incarico presenta una notevole complessità e coinvolge profili di ordine militare, politico, diplomatico, industriale, giuridico, sociale e di raccordo col Parlamento, le istituzioni locali e i mass media,


il gabinetto potrebbe essere ridotto a poche decine di persone, tutti compresi. Sotto i due organismi interforze, gli stati maggiori di forza armata dovrebbero essere finalmente ridimensionati trasferendo verso l’alto più competenze e responsabilità, in linea con lo spirito della riforma dei vertici del 1997. A livello inferiore, il ruolo dei comandi ed ispettorati logistici andrebbe ricondotto al ruolo di sola gestione del supporto logistico dei mezzi in servizio, trasferendo anche tutti gli ammodernamenti alle Direzioni tecniche del segretario generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti, soprattutto tenendo presente che da tempo la vita operativa dei grandi sistemi d’arma si allunga a livello di piattaforma e si accorcia a livello di sottosistemi ed apparati che spesso vengono sostituiti più di una volta. A loro volta le direzioni tecniche devono essere strettamente controllate del segretario generale della Difesa/Direttore nazionale degli armamenti, il quale deve essere messo in condizione di esercitare davvero tutte le sue prerogative nel campo della politica degli armamenti. Affinché questa trasformazione sia efficace bisogna reimpostare la gestione delle risorse umane, chiave di volta di qualsiasi struttura operativa. Se si vuole un’impostazione interforze, non è pensabile che la responsabilità sia lasciata quasi esclusivamente agli stati maggiori di forza armata. È necessario attribuire un maggiore ruolo allo stato maggiore della Difesa nella selezione e nella valutazione del personale destinato agli organismi interforze in modo da assicurare un alto livello qualitativo e una maggiore tutela di quanti vi vengono impiegati. Questo consentirebbe anche al segretariato generale della Difesa di poter operare più efficacemente in modo continuativo.

Il ruolo dei sottosegretari è fondamentale in un ministero ampio e diversificato come quello della Difesa. Con 208mila dipendenti fra militari e civili (a cui si aggiungono 106mila carabinieri) e un bilancio complessivo di 20,7 miliardi di euro, con 6.600 uomini impegnati in missioni internazionali e una


Risk distribuzione capillare sul territorio, con compiti tecnico-operativi e tecnico-amministrativi, la Difesa costituisce la macchina più complessa dello stato. Anche se dovesse gestire solo l’ordinaria amministrazione un ministro non potrebbe farcela da solo a far fronte ai molteplici impegni che, per legge, da lui dipendono. La presenza dei sottosegretari non è, in questo caso, il tributo pagato alla logica della «casta», ma una parte indispensabile del vertice politico del ministero. Dovendo Lei affrontare anche la trasformazione dello strumento militare, la necessità di potersi avvalere di sottosegretari capaci e di sua fiducia risulta imprescindibile. Quello che è mancato fino ad ora, complice la logica di coalizione che ha caratterizzato i nostri governi, è prima di tutto un forte e convergente legame politico fra ministro e sottosegretari. Anche nelle situazioni migliori si è sempre registrata una certa gelosia o, comunque, separazione che ha impedito una gestione condivisa del ministero. L’ideale sarebbe, evidentemente, che il ministro avesse un ruolo determinante nella scelta dei sottosegretari. Questo non è probabilmente ancora possibile fino in fondo, ma sicuramente il nuovo quadro politico può favorire un’evoluzione in questa direzione. All’interno di questa nuova logica ci si può domandare se dimensioni e complessità della Difesa non giustifichino la presenza di un viceministro, oltre che di sottosegretari. Questo consentirebbe, ad esempio, di delegare in via permanente e con più ampi margini di autonomia la gestione dell’area tecnico-amministrativa. In ogni caso, la ripartizione delle deleghe fra i sottosegretari ha fino ad ora seguito un approccio amministrativo-burocratico con attribuzioni di competenze legate alle diverse forze armate anziché un approccio funzionale. Le tre grandi aree di attività da seguire sono soprattutto: tecnico-operativa, tecnico-amministrativa e personale. La prima dipende dal capo di stato maggiore della Difesa e a lui dovrebbe essere affiancato un sottosegretario. La seconda dipende dal segretario generale della Difesa/Direttore nazionale degli armamenti che, a sua volta, ha due 8

Il patrimonio immobiliare non più necessario, è stato molto assottigliato nel corso degli scorsi anni e, quindi, si potranno ricavare ulteriori significative risorse solo procedendo ad una coraggiosa chiusura e alienazione delle sedi non indispensabili. Il problema è, anche, quello di risparmiare i costi di gestione e manutenzione di queste strutture vicesegretari per il procurement e per affari generali e personale. Anche in questo caso la ripartizione dei compiti fra i sottosegretari dovrebbe seguire il modello organizzativo del ministero. Il sottosegretario per il procurement risulta particolarmente importante in questo momento perché il processo di internazionalizzazione dell’industria e di integrazione del mercato europeo della difesa, oltre che la riduzione delle risorse disponibili, presentano implicazioni anche sul piano politico e dovrebbero essere seguite con continuità e specifica competenza. Il sottosegretario delegato per affari generali e personale potrebbe seguire anche i Carabinieri e, più in generale, i compiti di concorso delle forze armate per far fronte ad esigenze di sicurezza e a situazioni di emergenza.

In questo decennio l’attività del ministro e del ministero della Difesa si è sempre più frequentemente intersecata con quella di altri ministri e ministeri, nonché con lo stesso presidente del Consiglio e i suoi uffici. Problemi e implicazioni di politica


dossier internazionale ed europea hanno richiesto una stretta collaborazione con gli Esteri e le Politiche comunitarie, mentre quelli di politica industriale e tecnologica hanno coinvolto lo Sviluppo economico e l’Università e Ricerca, quelli finanziari l’Economia, quelli inerenti la sicurezza l’Interno e il dipartimento delle informazioni per la Sicurezza della Pcm. Su tutte le questioni più importanti la Difesa ha partecipato, inoltre, alle iniziative di coordinamento interministeriale promosse dalla presidenza del consiglio dei Ministri. Il ministro, quindi, deve impegnarsi in prima persona per garantire un’efficace collaborazione interministeriale. Questi rapporti dovrebbero passare anche attraverso il coinvolgimento del gabinetto del ministro il quale dovrebbe poi delegarne la partecipazione all’organismo della Difesa più competente in materia. Ma questo presuppone che il gabinetto abbia una struttura ristretta, flessibile e qualificata in grado di aiutare il vertice politico a fissare le linee di azione senza sostituirsi alle strutture designate. Un problema analogo si pone per il rapporto con l’industria dell’aerospazio, sicurezza e difesa che rappresenta la base tecnologica e industriale del sistema della difesa. Nell’attuale scenario l’industria ha bisogno di uno stretto e collaborativo rapporto col suo principale cliente, la Difesa. L’incertezza che caratterizza la minaccia a livello internazionale, ma anche la rapida evoluzione di tutti i fattori in gioco, possono trovare come unica risposta un costante e tempestivo confronto fra domanda e offerta che consenta a ciascuno di compiere più consapevolmente le proprie autonome scelte. Questo rapporto non sembra, però, aver trovato fino ad ora una sua forma compiuta al vertice della piramide. Sulla scena i diversi attori sono sembrati muoversi troppo spesso in maniera disordinata e irregolare, basandosi troppo sull’indole personale dei protagonisti. Adesso, più che rivitalizzare vecchi riti e sedi di incontri, bisognerebbe cambiare approccio, soprattutto con un’operazione di chiarezza. Vanno rispettate meglio le competenze a livello di strutture e, una volta sta-

bilita l’organizzazione del vertice del ministero, anche a livello politico. Se Lei dovesse decidere di delegare un Suo sottosegretario per il procurement e le questioni industriali, come qui auspicato, toccherà a Lei sostenerlo, evitando che vengano prese iniziative che lo possono delegittimare. Nei rapporti con l’esterno, infatti, non conta tanto quello che può essere scritto nei decreti di delega, quanto l’autorevolezza che deriva dal poter davvero rappresentare il ministro e il governo.

Il Bilancio continua a rappresentare

la vera «spada di Damocle» per la Difesa e di questo Lei dovrà necessariamente farsi carico. L’equazione è relativamente semplice: l’Italia spende per la funzione difesa meno dei partner con cui ci confrontiamo, mentre ha le stesse esigenze come capacità di difesa e sicurezza. Sotto il livello raggiunto quest’anno non si può scendere perché i risparmi, che saranno nel tempo realizzabili con la riduzione quantitativa dello strumento militare, dovranno essere destinati al funzionamento e all’investimento per recuperare le limitate spese effettuate fino ad ora e far fronte alle nuove esigenze imposte dal mutamento dello scenario strategico e dall’evoluzione tecnologica. L’auspicato processo di trasformazione produrrà uno strumento militare più efficiente, ma non meno costoso: meno uomini, ma più addestrati, equipaggiati, retribuiti. Ogni forma di auspicabile “efficientamento” e risparmio dovrà essere utilizzata per ridurre il peso del personale sulle spese per la funzione difesa che da oltre il 60 per ceno dovrà scendere verso il 50 per cento. Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare non più necessario, è stato molto assottigliato nel corso degli scorsi anni e, quindi, si potranno ricavare ulteriori significative risorse solo procedendo ad una coraggiosa chiusura e alienazione delle sedi non indispensabili. Il problema è, anche, quello di risparmiare i costi di gestione e manutenzione di queste strutture. Fra esse vi sono ancora molti aeroporti che, pur essendo già utilizzati per il traffico civile, 9



dossier gravano ancora sul bilancio della Difesa. Altro aspetto su cui Lei dovrebbe porre grande attenzione è quello di un rafforzamento della logica interforze e degli stessi organismi interforze. È un processo già in atto, ma che continua ad incontrare resistenze a vari livelli. Il valore delle tradizioni delle forze armate va preservato e non cancellato, ma adeguato al tempo in cui viviamo e reso compatibile con le nuove esigenze. Il punto di equilibrio va coraggiosamente spostato di più verso la dimensione interforze. Questo significa: rendere interforze tutte le attività che lo possono essere sia sul piano operativo sia su quello gestionale; applicare la regola del candidato migliore per ogni incarico interforze, indipendentemente dalla sua divisa; far pesare di più il giudizio del capo si stato maggiore della Difesa e del segretario generale della Difesa/Dna nell’iter delle valutazioni degli ufficiali ai fini della carriera (che sono oggi eccessivamente legate all’attività di forza armata).

Infine, ma non meno importante, si registra nel nostro paese una preoccupante assenza di una cultura della difesa che condiziona negativamente la disponibilità ad investire in sicurezza e difesa. Questo si traduce, fra il resto, in difficoltà ad accettare vincoli e limitazioni funzionali ad assicurare maggiori e migliori capacità in questo campo. Basti ricordare le difficoltà incontrate per l’addestramento e le esercitazioni o la realizzazione di nuove infrastrutture. Ma questo si traduce anche in polemiche e, in alcuni casi, opposizione alla nostra partecipazione a talune missioni internazionali per il mantenimento o il ristabilimento della pace. Il problema maggiore è quello del disinteresse, se non rifiuto, verso i problemi internazionali. La globalizzazione viene da molti percepita come un fenomeno negativo e, quel che è peggio, come una scelta. È, quindi, forte l’illusione che basti estraniarsi da una crisi per non esserne coinvolti. Le missioni internazionali vengono percepite come il nostro legame con queste aree di crisi: basterebbe recider-

lo per potersene dimenticare. È diffusa l’idea di un’Italia e di un’Europa che si potrebbero chiudere in se stesse come una fortezza, indifferenti a quanto avviene attorno. Questo approccio, anche culturale, andrebbe sistematicamente contrastato perché rischia di rendere più difficile e complesso ogni sforzo per creare il necessario consenso nei confronti delle missioni internazionali a cui partecipiamo e, più in generale, di ogni impegno assunto nel campo della difesa. La diffusione di una moderna cultura della difesa che, senza creare allarmismi, renda più consapevole l’opinione pubblica sulle minacce e i rischi insiti nel nuovo scenario strategico è un’operazione di alto profilo politico che richiederà tempo ed energie e che non può essere delegata alle sole forze armate. È un’attività che va rivolta verso l’esterno e nella quale Lei sarà costretto ad impegnarsi in prima persona. Ma è un investimento ad elevato rendimento perché contribuirà a rimuovere per lo meno una parte degli ostacoli che inevitabilmente incontrerà il complesso processo di trasformazione delle nostre forze armate. Il nuovo Parlamento sarà caratterizzato da un forte ricambio dei suoi componenti e dall’arrivo di forze politiche nuove, alcune delle quali sembrano affrontare le questioni della sicurezza e della difesa in termini molto ideologici. Lo stesso atteggiamento potrebbe caratterizzare molti giovani parlamentari, giustamente preoccupati per la crisi economica e le sue implicazioni sociali. Verso il nuovo Parlamento dovrà esserci una forte attenzione da parte del ministro e del ministero, dedicandovi le necessarie risorse per offrire con continuità adeguate informazioni, volte a consentire a tutti i suoi componenti di avere l’esatto quadro dei problemi sul tappeto, delle soluzioni adottate e delle tendenze in atto. La “familiarizzazione” con i problemi della sicurezza e difesa e la consapevolezza dei rischi e delle minacce è il presupposto fondamentale per creare il necessario clima di collaborazione politica. È solo il questo contesto che la riforma dello strumento militare potrà essere portata a compimento. 11


Risk GEOPOLITICA E FORZE ARMATE IN ITALIA

LE RAGIONI DEL GUERRIERO DI •

S

CARLO JEAN

trutture delle forze armate ed entità e ripartizione del bilancio della Difesa non costituiscono variabili indipendenti dalla politica e dalla strategia. L’efficienza va sempre subordinata all’efficacia, collegata a sua volta a previsioni e a scelte e condizionalità geopolitiche esterne e interne. Occorre definire a che cosa le forze armate debbano servire e come e quando si prevede d’impiegarle, per ne-

cessità o per scelta, cioè per opportunità. Ogni pianificazione presuppone la definizione di una strategia globale, di quella che gli americani chiamano National security strategy (Nss). Parlamento, governo ed opinione pubblica devono poi essere in condizioni di valutare se le capacità possedute dalle forze armate siano coerenti con le esigenze, beninteso in coordinamento con gli altri strumenti d’azione esterna dello stato, incluse le alleanze su cui il paese può contare, e nell’ambito delle risorse che si sono individuate come disponibili per la difesa. Tale verifica è fatta, sempre negli Usa, con la Quadrennial defence review (Qdr), e con le Strategic guidelines, che definiscono il ruolo delle forze armate nella strategia globale e in quella generale militare prescelta. Esse sono anche alla base della compatibilità fra ambizioni e risorse. Tale processo logico vale non solo nel caso in cui la pianificazione sia “trainata” da una minaccia, cioè da un nemico ben definito, come avveniva nella guerra fredda. Vale anche quando si devono strutturare le forze militari in un contesto di rischi diffusi e di contingenze imprevedibili, almeno nel dettaglio. In tal caso, va predisposta una gamma di capacità, complessivamente sostenibili con le risorse che si prevedono disponibili. Anche la definizione di che cosa significhi sostenibilità presuppone scelte strategiche. 12

Non può essere effettuata con criteri solo contabili e neppure sulla base di interessi industriali, incluse le prospettive dell’esportazione degli armamenti, che consente di mantenere capacità tecnologiche e produttive. Occorre inoltre tener conto delle collaborazioni internazionali in campo atlantico ed europeo e delle esigenze dell’interoperabilità con i nostri alleati. In altre parole, non ci si può limitare ad affermare che «l’Italia vuole la pace» (ma quale?), la governance mondiale (ma la si ritiene proprio possibile?) e che la sua politica di sicurezza trova i suoi paradigmi di riferimento nell’Onu, nell’Alleanza atlantica e nell’Europa, facendo “seriosamente” finta che quest’ultima esista per davvero e che le Nazioni unite contino qualcosa. Occorre, per quanto possibile, scendere a un certo livello di dettaglio nel dire che cosa si vuole e si può fare. Solo esso permette di definire le priorità fra le varie capacità da creare e di ripartire le risorse disponibili, senza indulgere a visioni corporative delle singole forze armate. Queste ultime posseggono ineguagliate capacità di attirare «l’acqua al loro mulino». Occorre cioè contrastare le inevitabili tentazioni delle forze terrestri, navali e aeree di inventarsi minacce ed esigenze di sicurezza ciascuna per proprio conto, spesso ricorrendo ad argomentazioni capziose, se non ridicole. Ad esempio, affermando che occorre concentrare le


dossier risorse sulle forze terrestri perché gli uomini vivono sulla terra, oppure su quelle navali, dato che l’80 percento del commercio è per via marittima, oppure su quelle aeree, poiché l’aria copre sia la terra che il mare. Una pianificazione deve poi tener conto di quanto possano dare i nostri alleati e quanto essi si aspettano da noi, senza “santificare” la tenuta delle alleanze, che tendono, nella complessità e incertezza dell’evoluzione della nostra area di interesse strategico, a trasformarsi in coalizioni ad hoc. Il tempo rappresenta un paradigma fondamentale. Occorre decidere quando le capacità debbano essere disponibili, quali siano i tempi di preavviso (quindi il ruolo, spesso troppo trascurato, della mobilitazione), la durata della permanenza in operazioni. La definizione di tali fattori è essenziale per la ripartizione delle risorse. Qualora occorra creare una capacità operativa immediata, vanno privilegiati i settori dei fast cost (personale, addestramento, scorte di munizionamento e di parti di ricambio, eccetera). Qualora si decida di dare priorità al futuro a più lungo termine, va invece data priorità ai low cost, cioè alla ricerca e sviluppo e all’approvvigionamento di nuovi sistemi d’arma. Le risorse sono sempre limitate, anche qualora la finanza pubblica ne renda possibile l’adeguamento alle esigenze, come fu nel caso delle “leggi promozionali” degli anni Settanta. Ogni scelta è sempre una rinuncia. Anche una pianificazione «trainata dalle capacità» presuppone la definizione di che cosa si vuole dalle forze armate e di come e quando si prevede di impiegarle. Senza di essa, non possono essere giustificati politicamente i vari programmi: ad esempio, l’acquisto di due sottomarini o di un centinaio di F-35, entrati entrambi nelle polemiche della campagna elettorale italiana. In assenza di una strategia di sicurezza nazionale, gli interrogativi «a che cosa servono?» e «sono proprio necessari?» non possono avere una convincente risposta. Se non l’hanno, non è pensabile che non vengano contestati e, tanto meno, che sia possibile un adeguamento dei fondi.

La pianificazione delle forze armate in Italia In misura superiore ad altri paesi, in Italia, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, strutture, capacità e necessità finanziarie delle forze armate sono state definite in base alle risorse finanziarie disponibili, determinate in modo cervellotico dai ministeri finanziari e, spesso, ridotte estemporaneamente all’ultimo momento, per soddisfare esigenze politicamente più rilevanti. In Italia, i bilanci della difesa presentano un tasso di vulnerabilità elevato, anche per lo scarso livello di cultura militare esistente nella classe politica, per l’inesistenza di una rilevante lobby della difesa, per la fiducia che “mamma America” continui a soddisfare le nostre esigenze di sicurezza e per la tacita convinzione che il ruolo principale delle nostre forze armate sia di permetterci di essere presenti nei vari fori internazionali che contano. Di garantirci cioè, almeno formalmente, un certo rango, indipendentemente dal ruolo effettivamente svolto dall’Italia. Si tratta di pecche esistenti nella classe dirigente del paese e nel popolo italiano. Nei momenti di difficoltà esso ha reagito sempre con generosità e patriottismo. Ma i parlamentari che avevano assolto all’obbligo militare erano una percentuale inferiore di tre-quattro volte a quelli dei parlamenti francese o tedesco. Si tratta della stessa percentuale degli evasori fiscali! La conclusione è stata la mancanza dell’indicazione di che cosa si volesse

Occorre contrastare le inevitabili tentazioni delle forze terrestri, navali e aeree di inventarsi minacce ed esigenze di sicurezza ciascuna per proprio conto, spesso ricorrendo ad argomentazioni capziose 13


Risk

Senza pianificazione non possono essere giustificati politicamente i vari programmi: ad esempio, l’acquisto di due sottomarini o di un centinaio di F-35, entrati entrambi nelle polemiche della campagna elettorale italiana dalle forze armate! Affermazione che trova conferma nell’esame dei numerosi documenti che, nell’ultimo decennio, avrebbero dovuto giustificare struttura, programmi e bilanci militari. Tale carenza si ritrova anche nella recente legge di ristrutturazione delle forze armate. Non riporta alcuna indicazione su quale strumento militare sia necessario all’Italia, sulle sue ragioni, sulla strategia che s’intende seguire e sulle motivazioni dei principali programmi di approvvigionamento. Beninteso, questa legge ha i suoi meriti: è volta a rendere più efficiente la spesa e sostenibile nel tempo la struttura delle forze armate, riducendone le dimensioni e razionalizzandone le strutture. Non precisa però le ragioni degli obiettivi da raggiungere, né la strategia sulla cui base sono stati determinati, cioè l’efficacia che si intende possedere. Si limita a contenere le spese entro le disponibilità attuali di bilancio.

La legge stabilisce quattro provvedimenti: i) la riduzione del personale militare da 190mila a 150mila unità e di quello civile della Difesa da 30mila a 20mila; ii) la riduzione del personale dirigente militare di circa il 30 percento delle attuali tabelle organiche; iii) una diversa politica di bilancio: pur non subendo variazioni nella sua consistenza complessiva, esso dovrebbe passare da una ripartizione percentuale del 70, 12 e 18 percento fra perso14

nale, esercizio e investimento, ad una del 50, 25 e 25 percento, definita invero un po’ apoditticamente standard, senza tener conto che ogni standard non è scritto nel “Corano”. Non è valido per tutte le ricette. Dipende dall’entità complessiva dei fondi disponibili. Solo in funzione di essa si possono ripartire i fondi fra le capacità operative immediate e quelle differite, fra i fast e i low costs; iv) la vendita di parte del patrimonio infrastrutturale delle ff.aa., con l’allocazione dei fondi così recuperati al bilancio della Difesa. La legge non fa invece esplicito riferimento a valutazioni né geopolitiche né strategiche. Tale omissione non è compensata dal richiamo agli accordi sottoscritti dall’Italia in sede atlantica ed europea, contenuti in particolare nell’unico documento che possieda un certo spessore per la pianificazione delle forze, cioè nel Concetto strategico della Nato del novembre 2010. Esso attribuisce centralità all’art. 5 del Trattato di Washington, cioè alla difesa collettiva dei membri dell’Alleanza. Ma da tempo in Italia ci si basa sull’assunto che non scoppierà nell’avvenire prevedibile un nuovo grande conflitto in Europa. Nessuno si è chiesto se le forze armate, in particolare quelle terrestri e aeree, saranno in condizioni di assolvere gli impegni sottoscritti ai sensi dell’art. 5, come farlo, quando e con quali tempi di preavviso. Non si è neppure approfondita l’eventualità di dover impiegare consistenti forze terrestri nel Sahel, che sta diventando sede di un nuovo terrorismo, pericoloso non solo per l’Europa, ma per il rifornimento di gas dall’Africa Settentrionale. Il premier Cameron ritiene che le forze britanniche saranno impegnate nell’area per oltre un decennio. Certamente nella pianificazione operativa nazionale e Nato esistono maggiori precisazioni al riguardo. Qualche indicazione in più non avrebbe però guastato. La reticenza a fornire dati sui nostri impegni a Est è stata verosimilmente motivata dalla volontà di non suscitare allarmismi nei riguardi del grandioso programma di ammodernamento delle forze armate russe (770 miliardi di dollari aggiuntivi nel prossimo decennio), che tanta preoccupazione solleva nei nostri alleati Nato e Ue


dossier dell’Europa centro-orientale e baltica. La loro preoccupazione è aumentata dallo strisciante disimpegno Usa dalla difesa europea e per la loro diffusa convinzione (più che giustificata, se non altro dalla storia) che l’Europa occidentale non interverrà in loro soccorso in caso di necessità. Sarebbe però interessante sapere quali forze l’Italia pensa di dedicare a tale esigenza. Infatti, l’Esercito avrà due sole Brigate pesanti e le forze aeree (inclusi gli aerei imbarcati) disporranno solo di una novantina di cacciabombardieri di quinta generazione, cioè dei tanto contestati F-35. La cautela nel non sottoporre a dibattito pubblico il tipo di ff.aa. necessario all’Italia e le esigenze strategiche rappresenta una costante italiana. Il suo massimo fu raggiunto con lo schieramento dei missili Jupiter alla fine degli anni Cinquanta, che non fu neppure comunicato al Parlamento. Sono esistite eccezioni. Due vanno ricordate: le discussioni sulle «leggi promozionali» – sull’ammodernamento straordinario delle ff.aa. negli anni Settanta – e quelle sullo schieramento degli euromissili Cruise, nei primi anni Ottanta. I numerosi documenti ufficiali volti a fornire elementi pubblici di valutazione delle esigenze e programmi militari non danno risposta a quesiti del tipo: «a che cosa servano le ff.aa.»; «come è probabile che vengano impiegate?» «dove e quando?»; «quale è la strategia generale di sicurezza dell’Italia, a parte il fatto che essa dà priorità alla gestione possibilmente pacifica delle crisi, agli interventi umanitari e alle scelte atlantica ed europea?»; «come ci si interfaccia con le alleanze a cui partecipiamo?». Manca quindi l’indicazione della logica che ha informato le principali scelte. La sua conoscenza renderebbe gli italiani più consapevoli dell’esigenza di disporre di determinate capacità militari. Potrebbe anche contribuire ad attenuare contestazioni, spesso alquanto assurde, quali quelle sui sommergibili o sui cacciabombardieri. Finite le polemiche elettorali, è auspicabile che si apra un dibattito approfondito, che tenga conto delle realtà, priorità ed esigenze della sicurezza del nostro Paese. Nel documento del 2001 «Nuove Forze per un nuovo

secolo», viene affermato che il bilancio della difesa avrebbe dovuto passare dall’1,5% al 2% del pil, anche per fronteggiare i maggior costi connessi con l’abbandono della coscrizione obbligatoria e la “professionalizzazione” delle ff.aa., operazione “venduta” all’opinione pubblica come uno dei principali «dividendi della pace». In tale documento, incomincia anche a comparire l’affermazione che una nuova grande guerra è impossibile e che l’Esercito deve specializzarsi nelle operazioni di mantenimento della pace, di stabilizzazione e tutt’al più in quelle Coin (Counter-insurgency), con possibilità – peraltro mai esplicitamente riconosciuta – di azzerare le sue capacità combat.

Il Libro Bianco del 2002 definisce in modo più dettagliato gli interessi di sicurezza italiani. Ne prevede la collocazione geografica dall’Europa centro-orientale al Caucaso e dal Corno d’Africa al Maghreb. Il “perimetro” della sicurezza è esteso alla minaccia del terrorismo islamico. Viene sottolineata la centralità della collaborazione con gli alleati, confermata quella delle operazioni di stabilizzazione e di mantenimento della pace, esaltato il ruolo svolto dall’Arma dei Carabinieri e ribadita la necessità della professionalizzazione degli uomini in divisa. Il Libro Bianco prevede 190mila effettivi, con un Esercito ridotto a 12-13 piccole brigate, la priorità dell’ammodernamento della Marina e dell’Aeronautica e la necessità di una migliore collaborazione fra la Difesa e l’Industria degli armamenti. Per inciso, quest’ultima previsione è stata brillantemente attuata. Nuclei di tecnici della Finmeccanica e dell’Iveco hanno operato con le unità impiegate sui vari teatri operativi, in particolare in Afghanistan, procedendo a rapidi e brillanti adattamenti soprattutto della protezione dei mezzi schierati in quel teatro operativo. Ciò non solo ha migliorato la sicurezza dei nostri soldati, ma anche reso possibili interessanti successi esportativi per la nostra industria. Nei documenti del 2005 («Concetto strategico del capo di Smd» e «Investire in sicurezza») il “perime15



dossier tro” degli interessi di sicurezza è allargato (forse anche come ricaduta degli interventi a Timor Est e in Afghanistan). Si afferma poi che l’Italia deve possedere una capacità di proiezione di potenza in tempi molto rapidi, anche a notevole distanza dal territorio nazionale. Le forze d’intervento immediato devono possedere una consistenza tale da consentire una «capacità indipendente di entry force», capace di operare per 30 giorni, con possibilità di prolungamento sino a sei mesi. Viene sottolineato l’impegno italiano nei Balcani e ribadita l’inesistenza di minacce terrestri al territorio nazionale. Chiaramente, tali documenti vanno contestualizzati nelle polemiche allora molte vive circa il ridimensionamento delle forze terrestri e nell’affermazione (storicamente “fasulla”, basti pensare alla «grande Marina» di Benedetto Brin) che l’Italia abbia sempre privilegiato la dimensione geopolitica continentale rispetto a quella mediterranea. Cresceva intanto lo squilibrio esistente fra programmi e ambizioni da un lato e risorse dall’altro. Esso è stato accentuato dalla crisi economica, da quella del debito sovrano e dalla conseguente politica di austerità. L’Italia cresce poco. Sta de-industrializzandosi. Deve anche affrontare il preoccupante invecchiamento della popolazione. L’età mediana dei cittadini italiani è inferiore solo a quella dei giapponesi e dei tedeschi. Le spese sociali e il livello d’indebitamento diverranno insostenibili. Le fantasie di un bilancio della difesa pari al 2% del pil sono state definitivamente accantonate. La difesa ha potuto contare nel 2012 solo sullo 0,82% del prodotto nazionale, a parte i fondi per gli interventi all’estero, che hanno coperto anche una parte delle spese d’esercizio. Essi sono ammontati a circa 1.400 milioni di euro. Hanno permesso di schierare all’estero fino a 8mila soldati; un’entità di forze dell’ordine di quelle schierate dai principali paesi europei – in particolare dalla Francia e dal Regno Unito – che hanno bilanci della difesa di tre-quattro volte superiori ai nostri. Tale contributo alle iniziative internazionali costituisce un «fiore all’occhiel-

Grazie agli Usa, l’Italia è entrata a far parte di molti «club esclusivi», da cui i partner europei avrebbero voluto escluderla. I limiti della partecipazione italiana è consistita soprattutto nel fatto che, una volta entrato, il nostro paese non ha saputo dire che cosa voleva lo» nazionale, anche se non sembra sia stato completamente valorizzato ai fini della nostra influenza politica e soprattutto economica, nei paesi in cui si è intervenuti. Ha influito negativamente l’ossessiva imposizione dei cosiddetti caveat, cioè le limitazioni all’impiego delle forze italiane, che hanno diminuito l’impatto degli sforzi dei nostri soldati e costituito talvolta oggetto di critiche e ironie ingiustificate. Nella realtà, le forze terrestri, inclusi i reparti d’intervento dell’Arma dei Carabinieri, si sono rivelate particolarmente idonee alla Coin. Non per nulla due dei pochi interventi internazionali che hanno avuto pieno successo – quello in Mozambico del 1994 e l’operazione Alba in Albania del 1997 – sono stati diretti efficacemente dall’Italia. A parte questi indubbi successi, vi è da chiedersi se il modello strutturale finora seguito – con la penalizzazione delle capacità combat – sia ancora valido nel dopo-Afghanistan. Non solo per le accennate esigenze a Est, ma anche perché i gruppi terroristi del Sahel dispongono di capacità «ibride». Hanno cioè armi moderne, ma le impiegano con le tattiche proprie dei conflitti irregolari. È poi dubbio che rimanga valido il riferimento ad una difesa comune europea. In Europa la crisi del multilatera17


Risk

In Italia, i bilanci della difesa presentano un tasso di vulnerabilità elevato, anche per lo scarso livello di cultura militare esistente nella classe politica, per l’inesistenza di una rilevante lobby della difesa, per la fiducia che “mamma America” continui a soddisfare le nostre esigenze di sicurezza lismo appare irreversibile. Non si tratta tanto della crisi dell’euro – la quale è rimediabile – ma di quella della solidarietà e progetto di un’integrazione politica e strategica, quale l’avevano immaginata i «padri fondatori». Interventi militari esclusivamente europei anche nelle immediate periferie dell’Europa, che non siano di mera facciata o di ridotte dimensioni – quale quello addestrativo delle forze del Mali – sono del tutto improbabili. All’Europa mancano taluni mezzi indispensabili – quali i Cuav, gli A-10 o i C130 Gunship – di cui dispongono solo gli Usa. Inoltre, è in atto nell’Ue una rinazionalizzazione strisciante delle politiche estere e di sicurezza. La tesi che la crisi finanziaria dell’Eurozona costituirebbe un’opportunità per una maggiore integrazione anche politica e strategica dei suoi 17 stati appare sempre più strampalata. Comunque, ne rimarrebbero esclusi i 10 stati dell’Ue che non hanno adottato l’euro. Tra di essi vi è il Regno Unito, cioè il paese che dispone della più efficiente forza militare europea. La partecipazione di un’America, sempre più riluttante a impegnarsi direttamente, rimane essenziale. La nostra politica militare, come quella dei minori stati europei va quindi ela18

borata in condizioni di sovranità limitata – se non formalmente, almeno sostanzialmente. Al riguardo mi sembra interessante una rilettura del contributo sull’«Elaborazione di una strategia in condizioni di sovranità limitata» del professor Gianfranco Miglio a un saggio che nel 1985 avevo dedicato al «Pensiero Strategico».

Rischio del disimpegno Usa, crisi dell’integrazione europea e risorgere dei nazionalismi rendono meno stabile il sistema di dissuasione che ha garantito la pace in Europa dopo il secondo conflitto mondiale. Esso s’indebolirà ulteriormente qualora i principali Stati europei, Italia inclusa, non si dotino della capacità di intervenire in una difesa avanzata sui confini orientali della Nato e dell’Ue. Il fatto che un’aggressione sia attualmente improbabile è irrilevante. Le Forze Armate non sono inutili quando non vengono impiegate. Anzi, in tale caso, sono più utili, se mantengono gli equilibri strategici. L’utilità della forza non è solo reale, ma anche e soprattutto potenziale. Tale concetto è espresso bene dal romano «si vis pacem, para bellum». Beninteso, il riarmo russo sembra orientato soprattutto a mantenere a Mosca lo status di grande potenza mondiale. Sono però cadute le speranze esistenti negli anni passati sull’inevitabilità della modernizzazione e dell’europeizzazione della Russia. Tale processo è contrastato dalla prevalenza al Cremlino dei siloviki sui civiliki e dalla maggiore rilevanza che stanno assumendo al Cremlino l’Unione eurasiatica e il recupero dell’influenza di Mosca nelle repubbliche ex-sovietiche. Un ripensamento, unitamente alla Germania e agli Usa, sulle prospettive della stabilità in Europa non sarebbe indebito. Esso dovrebbe essere esteso all’eventualità della creazione di un sistema paneuropeo di sicurezza, quale quello immaginato dalla Merkel e da Medvedev, beninteso qualora prosegua l’erosione del tradizionale Pivot on Europe degli Usa.


dossier Geopolitica italiana e pianificazione delle Forze armate L’Italia è un paese «duale» sotto diversi aspetti. Non lo è solo per le differenze fra il Nord e il Mezzogiorno. A esse si sono aggiunte quelle fra le regioni adriatiche e quelle tirreniche quando, dopo la guerra fredda, il nostro paese ha riscoperto la geopolitica mercantile e culturale degli stati pre-unitari, in particolare delle gloriose repubbliche marinare. A questo dualismo, si aggiunge quello di avere due dimensioni geopolitiche: una continentale, l’altra mediterranea. Esse sono complementari solo entro determinati limiti. L’Italia solo nelle fantasie di taluni geopolitici è caratterizzata in Europa dalla sua centralità geografica nel Mediterraneo. Non è uno stato mediterraneo in Europa, ma uno europeo nel Mediterraneo. La «primavera araba» sta accentuando tale sua caratteristica, nonostante la crescita economica dell’Africa. La politica estera e di sicurezza dell’Italia è sempre stata caratterizzata dall’essere la più piccola dei grandi stati europei e la più grande dei piccoli. Questi ultimi, comunque, non hanno mai inteso, né intendono fare blocco con l’Italia. Cercano di appoggiarsi alla Germania, alla Francia o al Regno Unito. Perciò, l’Italia è stata sempre costretta, per tutelare i propri interessi, a cercare di far parte del “club” delle maggiori potenze europee. Ha fatto eccezione il periodo fra le due guerre mondiali. Allora era una grande potenza, essenziale per gli equilibri in Europa. Ha cercato di trarre vantaggi dalla «politica del peso determinante», e dall’essere «invitata a tavola», anziché essere costretta a chiedere – talvolta con petulanza – di esservi invitata. Per far parte del «club dei grandi», all’Italia è stato sempre necessario avere alleati forti sia sul continente che nel Mediterraneo. Dopo l’unificazione, per sottrarsi alle pressioni di Parigi, persuasa di avere quasi un diritto di protettorato sul Regno, i due alleati furono la Gran Bretagna e la Germania. La cosa funzionò finché fra Londra e

Berlino non sorse la competizione che fu all’origine delle due guerre mondiali. Allora l’Italia fu costretta a scegliere fra le due. Fece una scelta felice nella prima; una disastrosa nella seconda. La guerra fredda rappresentò, sotto il profilo geopolitico, un periodo d’oro per l’Italia. Non solo non doveva scegliere. Gli Usa erano la potenza dominante sia in Mediterraneo sia in Europa centrale. Poi, il nostro Paese godeva di talune rendite di posizione oggi scomparse. Esse non consistevano solo nella sua posizione centrale nel Mediterraneo – la cui importanza rimane – ma anche nell’esistenza del partito comunista più consistente d’Europa. Essa creava dubbi sulla nostra affidabilità atlantica ed europea. Come suggerisce Sergio Romano, ciò ci consentì la massima libertà d’azione, unita alla massima impunità nel perseguire interessi contrastanti con quelli degli Usa e degli alleati europei: basti pensare alla disinvoltura dell’Eni di Mattei, ai rapporti con la Russia e con il mondo arabo e allo sfruttamento dei disastri della decolonizzazione francese e britannica. La frontiera nord-orientale era protetta dal Patto di Varsavia dal “cuscinetto” della Jugoslavia. Il fianco sud era garantito dalla Sesta Flotta. L’Italia disponeva di tempi di preavviso che le consentivano di mobilitare per rafforzare la propria difesa avanzata; quindi, di non spendere troppo per mantenere elevata la prontezza operativa delle proprie forze terrestri. Realisticamente, in Mediterraneo doveva limitarsi a un ruolo di supporto della Sesta Flotta. Prima della “conversione” atlantica prima ed europea poi del Pci, le possibilità di intervenire all’esterno assumendo parte delle responsabilità della sicurezza comune dell’Occidente, erano politicamente nulle. Poi, sono aumentate, ma la priorità dell’alleanza “asimmetrica” con gli Usa è rimasta tale. Tale asimmetria si è rafforzata con la riduzione delle risorse destinate alla difesa, nonostante la maggiore flessibilità politica di poterle impiegare in teatri operativi anche lontani, conseguente soprattutto alla professionalizzazione delle forze. 19


Risk L’Italia fra l’Europa e gli Usa Nel corso della guerra fredda, la prevalenza dei legami strategici con gli Usa era rafforzata dal fatto che essi erano garanti anche degli assetti politici interni del Paese. Lo sono tuttora, malgrado il relativo disimpegno o – quanto meno – la minore attenzione Usa per l’Europa. Per qualche tempo ancora, gli Usa non possono disimpegnarsi dal Mediterraneo, anche per l’aumento dell’importanza geopolitica assunta dalla Turchia nel Medio Oriente, nel Golfo ed anche in Africa e in Asia Centrale. Gli Usa continueranno ad essere centrali per la sicurezza italiana. Ciò non deriva solo dalle garanzie di sicurezza che Washington fornisce all’Italia, sia a Est che a Sud. La presenza statunitense costituiva e costituisce tuttora un livellatore di potenza fra gli Stati europei; quindi, consente all’Italia di neutralizzare almeno in parte la sua debolezza relativa in Europa. Lo costituirà almeno fino a quando gli Usa – frustrati dalle divisioni, inefficienze e petulanti pretese europee – non decidano di privilegiare i legami con la Germania. Berlino assumerebbe così in Europa il ruolo di brilliant second degli Usa. A parer mio, l’interesse italiano è quello di ricoprire nel Mediterraneo un ruolo analogo a quello tedesco nell’Europa continentale. Lo shale gas e i petroli non convenzionali diminuiranno l’interesse Usa per il Medio Oriente. Tale possibilità preoccupa fortemente la Francia. Spiega l’attivismo di Parigi e la sua pretesa di intervenire in nome dell’Europa, dell’Occidente o dell’umanità, in conflitti che con molta fantasia vengono definiti «di necessità», ma che derivano da scelte della Francia e sono volti a difendere o a promuovere i suoi interessi nazionali. Grazie agli Usa, l’Italia è entrata a far parte di molti «club esclusivi», da cui i partner europei avrebbero voluto escluderla. I limiti della partecipazione italiana è consistita soprattutto nel fatto che, una volta entrato, il nostro paese non ha saputo dire che cosa voleva, sia per la smilitarizzazione della cultura politica italiana, sia per la permanenza di miti come quello del consenso ad ogni costo e del multilateralismo, «foglia di fico» per mascherare l’incertezza o l’incapacità nel definire 20

gli interessi nazionali italiani o di elaborare visioni di carattere generale sul destino del paese e anche dell’Europa. Ha influito al riguardo la mancanza di un organismo di pianificazione a lungo termine e di gestione degli «stati d’eccezione», cioè di un Consiglio di sicurezza nazionale. La sua costituzione presuppone l’assegnazione al capo dell’esecutivo di poteri molto più ampi di quelli attribuitigli nell’attuale regime parlamentare, di fatto assembleare. Richiede quindi una modifica di una Costituzione, considerata un feticcio intoccabile da coloro che ne traggono vantaggi di varia natura. Da essa dipende in gran parte la marginalità del Paese nel contesto internazionale. Beninteso, la pianificazione dello strumento militare e, più a monte ancora, le ambizioni internazionali dell’Italia, devono realisticamente tener conto delle risorse disponibili, anche in termini politici interni e di prestigio e affidabilità internazionale. In tale settore – come già accennato - le maggiori limitazioni non provengono dall’opinione pubblica, ma dalla cultura politica e dagli assetti istituzionali del Paese. Derivano anche da una certa retorica. Un caso eclatante di scollamento dalla realtà è rappresentato dall’opposizione italiana all’entrata della Germania nel Consiglio di sicurezza. Il motivo addotto è stato che essa avrebbe declassato l’Italia e dall’incapacità di prendere atto che un declassamento è inevitabile per ragioni demografiche ed economiche.

I limiti del “peso” dell’Italia nel Mediterraneo sono emersi chiaramente durante la «primavera araba», in particolare nel caso dell’intervento francobritannico in Libia. Esso ha dimostrato tutti i limiti dell’integrazione europea, tornati evidenti nel caso del Mali. Il continuare ad aggrapparsi ai miti degli Stati uniti d’Europa o dell’Europa «grande potenza globale» è poco realistica. Non ci si può far conto sulla solidarietà europea, quando la Francia non la dimostra, suscitando anche le reazioni di quella che è la maggiore potenza europea – la Germania – anche nei giorni del cinquantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo. In Libia, Berlino ha rifiutato di partecipa-




dossier re; nel caso del Mali, ha deciso, quasi per dare una “bacchettata” alla Francia, di fornire un concorso di trasporto aereo non all’alleato di oltre-Reno, ma solo alle forze africane dell’Ecowas. Come tutto questo influisce sulla pianificazione militare e sul futuro delle forze armate, ammesso anche se non concesso, che esse debbano essere elaborate «a tetto finanziario», cioè dando per scontato che il bilancio della Difesa non superi il plafond attuale? Per quanto tempo? A parer mio, le limitazioni saranno irreversibili almeno per i vent’anni del Fiscal compact (ammesso, ma non concesso, che l’Italia sopravviva a tale “cura da cavallo” di riduzione del debito). Il nostro contributo militare non potrà che essere marginale e subordinato a quello del potente alleato americano. La nostra sovranità sarà tanto meno limitata quanto più si ridimensioneranno le ambizioni, accordandole con le risorse e quanto più si creeranno capacità che potrebbero essere utili per gli Usa, che coprano cioè settori che sono più carenti negli Usa. Cioè, quanto meno si fantasticherà sull’Italia «produttrice», anziché «consumatrice di sicurezza», inventandosi ruoli sproporzionati alle risorse che possiamo o intendiamo – la questione non è diversa – dedicare alla difesa. La «scommessa» sulla centralità degli Usa per la sicurezza italiana non mi sembra un salto nel buio né una pericolosa subordinazione agli umori di Washington, anche se l’arco politico americano sta polarizzandosi sulle «estreme» e manca il consenso bipartisan sulla politica estera e di sicurezza, che tanto l’aveva resa stabile nel corso della guerra fredda. I fondi del bilancio sono stati falcidiati. Quelli dell’esercizio sono stati ridotti al minimo, sotto la soglia di sopravvivenza. Il collasso è stato impedito solo dal fatto che i finanziamenti effettuati per le missioni all’estero hanno consentito un minimo d’addestramento e di manutenzione dei mezzi, anche di quelli navali e aerei. L’unica possibilità di giocare un ruolo discende dal rafforzamento dei legami e della subordinazione dagli Usa, nella speranza che non ci mandino al diavolo e che continuino ad essere integratori dell’Europa. Senza di essi l’Unione si frammenterebbe, verosimilmente anche

L’interesse italiano è quello di ricoprire nel Mediterraneo un ruolo analogo a quello tedesco nell’Europa continentale. Lo shale gas e i petroli non convenzionali diminuiranno l’interesse Usa per il Medio Oriente dal punto di vista economico. Il «modello 150mila effettivi» è troppo ampio per poter essere sostenuto a decorosi livelli di efficienza e di prontezza operativa, che sono quelle che più interessano gli Usa. Va quindi ancora ridotto. Il problema principale da affrontare è quello delle eccedenze di personale. Può essere affrontato solo con un programma finanziario straordinario, che consenta il pensionamento del personale eccedente. Solo così, il ridimensionamento non si prolungherà per decenni, impedendo di mantenere, soprattutto nella truppa, una piramide di età più equilibrata, cioè evitando l’invecchiamento degli effettivi, in cui «il gatto si morde la coda, fino a ridursi a uno scheletro». Si dovranno ridurre non solo il peso delle organizzazioni centrale, territoriale e di supporto, ma anche quello d’istituti sostanzialmente “ludici”, quali i collegi militari, i complessi monumentali militari, e così via. Il modello a cui dovrebbe ispirarsi la difesa italiana potrebbe essere quello olandese, con largo spazio dato alla mobilitazione per “figliazione” delle unità esistenti in pace, con piena prontezza operativa, per avere la possibilità di far fronte ad eventuali emergenze in Europa. 1 ) documenti cui si fa riferimento sono in particolare i seguenti “Nuove forze per un nuovo secolo” (2001); “Libro Bianco della Difesa” (2002); “Concetto strategico del Capo di Stato Maggiore della Difesa” (2005); “Investire in Sicurezza – Le Forze Armate come strumento in evoluzione” (2005); “Italia 2020” del MAE (2008), le Note Aggiuntive ai Bilanci della Difesa e gli interventi dei Ministri della Difesa e dei Capi Militari specie nel corso delle audizioni parlamentari.

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Risk

UNA VERA RIFORMA PER LA DIFESA ITALIANA

FAR TORNARE I CONTI DELLE STELLETTE DI

L

STRANAMORE

o strumento militare nazionale è da sempre afflitto da uno “scollamento” tra forma e sostanza e dal fatto che il “sistema” si considera vincolato alla forma e si rifiuta di correggere la rotta e adeguarsi alla realtà. In parole povere, il sistema difesa, oggetto di una trasformazione continua e lentissima, fa finta di non sapere che mancano le risorse per raggiungere gli obiettivi astrattamente

delineati e tenta comunque di realizzarli. Il risultato non può che essere disastroso. Perchè date le rigidità sistemiche, in particolare sul versante del personale e in qualche misura anche dell’investimento, si finisce per comprimere sempre più la spesa per l’esercizio. Non sorprende quindi se negli ultimi anni la situazione è andata sempre più esacerbandosi, con un crollo della efficienza e delle capacità operative. L’opinione pubblica vede che i nostri soldati riescono ad assolvere (e bene) i compiti gravosi derivanti dalle missioni internazionali alle quali l’Italia partecipa, sia quelle “sine die” di stabilizzazione e controguerriglia, sia quelle convenzionali ad alta intensità (relativa) come quella in Libia. In realtà si tratta di una ennesima cortina fumogena. Intanto i nostri militari riescono a compiere miracoli solo grazie allo spirito di sacrificio, l’inventiva e l’arte di arrangiarsi che da sempre li caratterizza. In secondo luogo per svolgere questi compiti la Difesa sacrifica tutto il resto: i soldi, i mezzi, gli equipaggiamenti, l’addestramento sono finalizzati a rendere possibili queste missioni, a costo di accettare il degrado di tutte le altre componenti. Questo vuol dire che in caso di emergenza la Difesa sarebbe in grado di mettere in campo ben poche capacità militari aggiuntive, non solo quindi reparti operativi dell’Esercito pronti per operazioni combat, ma anche i mezzi pregiati tecnologici (aerei, unità 24

navali, elicotteri) che soffrono per la mancanza di pezzi di ricambio, di manutenzioni, di armamento di precisione, di addestramento ad alto livello. Non a caso il numero stesso di militari impiegato costantemente nelle missioni internazionali continua a scendere: si è passati dagli 8.300 del 2010 a meno di 6mila quest’anno. In passato si era arrivati a impiegare all’estero 12mila militari. E con il ritiro progressivo dall’Afghanistan i numeri continueranno a ridursi. Parallelamente andranno a scendere gli stanziamenti per le operazioni internazionali, che oggi, correttamente, sono extra bilancio e permettono di coprire oltre ai costi vivi anche una parte degli oneri di approntamento di personale e mezzi, dell’addestramento specifico e di ammortamento, inclusa l’acquisizione urgente di equipaggiamenti specifici. Del resto le missioni internazionali rappresentano il “core business” delle forze arnate dei paesi occidentali. Questo almeno per il momento e per il medio termine. In futuro lo scenario potrebbe essere ben diverso e poco tranquillizzante. Basta guardare alla possibile evoluzione dei nuovi governi-regimi nati in seguito alla Primavera Araba sulla sponda meridionale del Mediterraneo. E il processo di contagiodestabilizzazione-insediamento di governi caratterizzati da una componente islamica estremista è tutt’altro che concluso.


dossier E chiaro quindi a tutti gli addetti ai lavori che la situazione della Difesa nazionale è tutt’altro che rosea. La Difesa si sta sempre più trasformando in uno “stipendificio” che esprime capacità operative via via descrescenti, che si sta “mangiando” tutte le scorte e riserve, che spende male i (pochi) soldi disponibili. Una riforma radicale non è quindi più rinviabile. Un progetto in tal senso era stato faticosamente avviato dal governo Berlusconi, ma la legge delega era stata poi lasciata scadere senza che si fosse proceduto alla emanazione dei decreti delegati. Ci ha riprovato il governo Monti, arrivato in zona cesarini a far approvare una nuova legge delega, grazie all’azione del ministro della Difesa Di Paola. Purtroppo non si è riusciti a procedere alla approvazione dei decreti delegati, che saranno preparati e discussi dal nuovo Governo e dal nuovo Parlamento.

L’impianto della riforma

Di Paola è esattamente quello di cui il sistema Difesa ha bisogno. Il concetto di base è quello della invarianza della spesa sui livelli del 2011. Da un lato dunque, per la prima volta, si accetta il concetto per cui non ci si può illudere che una crescita futura degli stanziamenti o magari una “legge speciale” consenta di risolvere il cronico sottofinanziamento di una macchina militare troppo grande rispetto alle effettive possibilità del Paese ed al suo livello di ambizione sulla scena internazionale. Dall’altro si chiede però una certezza ed una stabilità delle risorse senza la quale non è possibile pianificare e realizzare uno strumento militare moderno. Il principio è stato confermato nel bilancio difesa 2013, mentre solo il bilancio 2012 ha subito una riduzione sostanziale e imprevista a causa della necessità di ridurre una tantum le spese per evitare il tracollo finanziario del Paese. Tenendo conto da un lato dell’effetto dell’inflazione (e l’inflazione militare corre sempre più veloce di quella reale) e dall’altro dalla riduzione o scarsa crescita del pil non si tratta di un obiettivo di poco conto. Tuttavia i margini di manovra sono minimi. Il

Il numero di militari impiegato nelle missioni internazionali continua a scendere: si è passati dagli 8.300 del 2010 a meno di 6mila quest’anno. In passato si era arrivati a impiegare all’estero 12mila militari. E con il ritiro progressivo dall’Afghanistan i numeri continueranno a ridursi ministero dovrà fare i conti con una disponibilità di circa 20,7 miliardi di euro all’anno. Depurando questa cifra di voci di spesa “spurie”, a partire dal bilancio dell’Arma dei Carabinieri (5,7 miliardi), dalla spesa per le pensioni provvisorie (dovrebbe sparire nel giro di pochi anni), dalle funzioni esterne, il totale su cui ragionare scende a 14,4 miliardi di euro. Questo è il reale ammontare del bilancio Difesa, il quale non tiene in realtà conto di alcuni elementi: gli stanziamenti per le missioni internazionali, variabili di anno in anno, ma che si vorrebbe mantenere entro il tetto di 1 miliardo di euro/anno (per il 2013 sono stati stanziati 935 milioni fino alla fine di settembre) e gli stanziamenti dei ministeri dello Sviluppo Economico, a sostegno della industria aerospaziale e della difesa e del Miur, il quale conduce diversi progetti di ricerca a assicura il bilancio della Agenzia spaziale italiana, che si occupa anche di programmi “duali” di interesse della Difesa. I fondi di questi dicasteri sono quindi dedicati sostanzialmente all’investimento per ricerca e ammodernamento e consentono alla Difesa di contare su risorse aggiuntive per finanziare alcuni tra i più importanti programmi di ammodernamento, in genere programmi condotti in collaborazione internazionale. 25


Risk

Se i soldi non potranno crescere, l’unico modo per rifondare la Difesa italiana consiste nello spendere meglio e in modo diverso. Oggi infatti ci sono pochi quattrini, ma sono anche spesi male Se i soldi non potranno crescere, l’unico modo per rifondare la Difesa italiana consiste nello spendere meglio e in modo diverso. Oggi infatti ci sono pochi quattrini, ma sono anche spesi male. Secondo l’ormai ben noto scherma di ripartizione ideale un sistema efficiente riserva non più del 50% dei fondi al personale, il 25% all’esercizio ed il 25% all’investimento. Non è certo sorprendente che oggi la Difesa dedichi al personale militare e civile, il 67% all’investimento 23,5% e solo uno striminzito 9,2 all’esercizio. Non c’è bisogno di analisi approfondite per comprendere come, per raggiungere un livello di equilibrio virtuoso, sia “sufficiente” ridurre la spesa per il personale di circa il 17% ovvero 1,65 miliardi e distribuire questi soldi tra esercizio e investimento. Tutto qui. Solo che mentre è facilissmo sciogliere reparti ed unità operative, è abbastanza facile ridurre o postcipare i programmi di ammodernamento, risulta molto difficile se non impossibile ridurre drasticamente il personale ed in tempi ristretti. Oggi lo strumento militare non è più basato su soldati di leva, gli organici sono formati esclusivamente da professionisti e volontari con ferme di breve-media durata. Quindi dipendenti statali a tempo indeterminato e determinato.

Mandare a casa il personale che con i fondi disponibili non ci si può permettere rappresenta la vera sfida della riforma. Il Modello di difesa oggi in vigore, elaborato nel Duemila e mai ritoccato a 26

dispetto di quello che è avvenuto nel mondo a partire dal settembre 2001, prevedeva a regime una forza complessiva di 190mila militari e 30mila dipendenti civili. Era perfettamente chiaro che non c’erano i fondi per poter arruolare, stipendiare, ma anche equipaggiare, alloggiare, armare addestrare in modo decente un numero così elevato di uomini e donne. Eppure si è proceduto come se nulla fosse, continuando a immettere nei ranghi professionisti e volontari. Non solo. Il Modello prevedeva rapporti di inquadramento (il rapporto tra truppa, sottufficiali e ufficiali) molto elevati, come sempre accade in Italia. In pratica ci sono troppi comandanti e pochi soldati. Ma a causa di una serie di interventi legislativi e normativi scriteriati anche questi rapporti sono stati fatti saltare, naturalmente aumentando ancor di più la platea dei gallonati. Qualche numero chiarisce l’entità dello sfacelo: il Modello prevedeva che su 190mila effettivi (avrebbero potuto salire a 194mila considerando anche gli allievi e personale in soprannumero) ci fossero 25.400 marescialli e 38.500 sergenti. Nel 2013, su una forza ridotta a 177mila militari, i marescialli sono più del doppio, 54.600 ed i sergenti meno della metà, 16.800. A questo si aggiunga una straordinaria eccedenza di ufficiali superiori, dal grado di tenente colonnello fino a quello di Generale. E visto che a tutti questi leader bisogna dare qualcosa da comandare si sono gonfiate a dismisura le piante organiche, le strutture, i livelli, spostando verso l’alto il livello di comando. Con il risultato collaterale di “svalutare” il grado. Il tutto senza poi che ci sia una motivazione retributiva. Perchè da anni, purtroppo, stipendio e grado viaggiano su due binari separati. Si può prendere uno stipendio da dirigente senza averne né il grado né la responsabilità, perché la parte base della retribuzione aumenta automaticamente con l’anzianità. E meno male che il sistema militare dovrebbe essere meritocratico! Il disastro è diventato più grave perchè i fondi per la “professionalizzazione” sono stati a più riprese sforbiciati nel corso degli anni. Per trovare i soldi per pagare gli stipendi si è quindi sacrificato il settore degli investimenti e soprat-


tutto quello dell’esercizio. Come se ne sce? Da un lato con una drastica riduzione dei numeri: la legge Delega parla molto appropriatamente di 150mila militari e di 20mila civili. Quindi con un taglio teorico di 50mila posti. In realtà le cose non sono così gravi, perchè un po’ alla volta gli interventi legislativi hanno ridotto gli arruolamenti. Per questo nel 2013 sono previsti 177.300 militari e 30.560 civili. Inoltre, molto opportunamente, il Dl 95/2012 ha fatto saltare il tabù degli organici stabiliti nel Duemila: si dovrà scendere a 170mila militari entro il 2016. Il che non è certo una missione impossibile, visto che si parte da quota 177mila. Molto opportunamente, entro un massimo di 6 anni, saranno soppressi quasi 120 incarichi da generale e ammiraglio, scendendo a 310 (ancora troppi) mentre caleranno a 1.566, ma solo in 10 anni, i posti da colonnello: è mancato il coraggio di fare di più, ma il segnale è positivo al di là dei risparmi che consentirà di ottenere (una dozzina di milioni/anno). Per arrivare alla soglia prevista dalla Legge delega basterà tagliare altri 20mila posti. Ma senza fretta, perchè come sempre accade in Italia la riforma non è certo rapida... si prevede di raggiungere i nuovi livelli solo nel 2024! In altri Paesi occidentali operazioni analoghe sono state condotte in 3-4 anni. Certo, c’è il problema dello “smaltimento” del personale in esubero, c’è l’effetto della riforma pensionistica Fornero che di fatto blocca l’uscita di militari tanto anziani quanto non impiegabili operativamente. Perchè la riforma Fornero non considera che un Esercito che funziona non può che essere giovane, con elevato turnover e mobilità. Peraltro è anche vero che la riforma Di Paola prevede un numero davvero modesto di dipendenti civili della Difesa: i loro ranghi potrebbero essere ampliati facendo transitare al settore civile del ministero i militari che già oggi svolgono funzioni tecniche o impiegatizie. Impiegati in uniforme. Non solo. Le forze di Polizia/Sicurezza lamentano un “buco” negli organici pari a 15mila unità per la Polizia di stato, almeno 6mila tra i Carabinieri, 4mila tra i Vigili del Fuoco. Sia chiaro, anche questi organici potrebbero essere rivisti al ribasso e il personale


Risk

Il terzo ed ultimo versante sul quale si deve intervenire è quello dell’ammodernamento e dell’investimento. Come si è visto i soldi in realtà non abbondano, ma non scarseggiano. Perchè la Difesa Italiana crede di essere quella statunitense ed emette requisiti e specifiche tecniche impossibili distribuito sul territorio ed impiegato meglio, però... Non si vede perché negli uffici non possano andare ex militari di carriera, così come per le strade gli ex militari in ferma breve. È sul personale quindi che si combatterà la “battaglia” della Difesa. E si deve solo sperare che le pressioni politiche e corporative non facciano deragliare il procedimento già avviato. Tuttavia non c’è solo il nodo del personale. La Difesa italiana ha una pletora di strutture operative, logistiche, amministrative, territoriali, formative che non si è mai risuciti a smantellare. Perchè tante forze politiche si lamentano per la spesa “inproduttiva” della Difesa, cambiano idea quando si propone di chiudere questo o quell’ente inutile nella propria circoscrizione elettorale. Anche in questo caso il Dl 95 fa giustizia: nel giro di 6 anni il 30% di queste strutture deve essere abbandonato. Che si possa fare è indubbio. Basti pensare che il capo dell’Esercito, il generale Claudio Graziano ha detto che l’Esercito del futuro, con solo 105mila uomini e 9 brigate invece di 11, potrebbe tranquillamente limitarsi ad utilizzare 15 grandi, moderne e funzionali basi, invece delle 150 attuali! Si parla di una riduzione di un ordine di grandezza! E lo stesso può avvenire per le 28

altre forze armate, anche se l’Aeronautica ha già attuato una drastica riduzione delle proprie infrastrutture operative. Se poi questi beni demaniali saranno non regalati, ma venduti e valorizzati o permutati, portando nelle casse della Difesa il miliardo di euro prudenzialmente stimato... tanto meglio. Perchè in effetti non c’è ristrutturazaione che non comporti un costo iniziale. E il ministero dell’Economia non sembra disponibile a mettere a disposizione i soldi per effettuare la ristrutturazione. Un circolo vizioso dunque. Con i proventi derivanti dalla cessione di immobili la Difesa potrebbe pagarsi almeno in parte la ristrutturazione. Le infrastrutture però sono solo un aspetto del problema... razionalizzando si può spendere meno e meglio. La Delega prevede anche una accelerazione sulla integrazione interforze. In pratica si tratta di costringere le forze armate a collaborare ed a svolgere attività e servizi insieme, con strutture “arcobaleno”, invece di affidarsi a organizzazioni indipendenti di singola forza armata. Non è la prima volta che si tenta una riforma in questo senso. È una sfida durissima perchè ciascuno vuole difendere il proprio orticello, anche al costo di inefficienze, sprechi o di non poter più svolgere una funzione. Il caso della Sanità militare è emblematico in tal senso. La delega consente di superare queste barriere e seguire la strada che è già stata percorsa con successo (non sempre però) in tanti altri Paesi. Se si spende meglio quello che già c’è e se arriveranno soldi extra grazie ai risparmi sul personale, finalmente sarà possibile aumentare l’efficienza, raggiungendo i livelli standard e consentendo finalmente di prepare personale e mezzi, provvedere a manutenzione ed addestramento, costituire scorte di ricambi e armamenti. Insomma ricostituire tutto ciò che consente ad una organizzazione di funzionare. Anche ricorrendo alla collaborazione con l’industria aerospaziale e della difesa alla quale potranno essere affidate, esternalizzandole, funzioni ed attività che la Difesa non può e non vuole svolgere direttamente, perchè non fanno parte della sua missione prioritaria. Il terzo ed ultimo versante sul quale si deve, si vorrebbe intervenire è quello dell’ammodernamento e del-


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dossier l’investimento. Come si è visto i soldi in realtà non abbondano, ma non scarseggiano. Solo sono spesi male. Perchè da un lato la Difesa Italiana crede di essere quella statunitense ed emette requisiti e specifiche tecniche impossibili e comunque costosissime e ipotizza di acquistare quantitativi di mezzi che non si può permettere. L’industria fa finta di crederci e naturamente dice di essere in grado di soddisfare qualunque esigenza fornendo le prestazioni desiderate, nel rispetto dei costi ed i tempi previsti. Il che non avviene. Oggi si vuole voltare pagina. Si parla di smart procurement nel senso che ci si propone di comprare quello che serve per davvero ad aumentare le capacità operative, soddisfacendo innanzitutto le esigenze prioritarie, cercando di bilanciare prestazioni/costi/ tempi e puntando per quanto possibile alla collaborazione internazionale. Non si esclude anche l’acquisto diretto di quello che è già disponibile sul mercato, specie se si tratta di tecnologie e sistemi dei quali sono previsti pochi esemplari da immettere in servizio in fretta. Ora si tratta di passare dalle parole ai fatti. È vero che i vecchi contratti non consentono di ridurre o cancellare le commesse o diluire le consegne se non al prezzo di penali o di liti giudiziarie, ma cambiare non è impossibile. Basta vedere quello che è stato fatto in altri paesi, dove contratti e programmi sono stati rivisti, cancellati, rimandati nel giro di settimane o mesi dall’avvio delle ristrutturazioni dei rispettivi strumenti militari. In Italia per ora si è visto ben poco, se si eccettua il caso del cacciabombardiere F-35, che di colpo ha avuto l’onore delle cronache ed è stato additato al pubblico ludibrio. Senza motivo. Peccato solo che la Difesa italiana sia da sempre molto schizzinosa quando si tratta di comprare usato di qualità... (si posso annoverare poche eccezioni, come quella del noleggio dei caccia F-16 ex Usa o l’acquisto di torrette di carri armati Leopard 1A5 ex tedeschi). E si che con la riduzione degli arsenali in tutto l’Occidente la possibilità di acquistare sistemi ancora moderni o modernissimi a prezzi da saldo è più che concreta. Ma per arrivare a qualcosa del genere occorre rinnovare non solo il modo in cui si

selezionano e si comprano sistemi d’armi ed equipaggiamenti, ma anche il rapporto con l’industria aerospaziale e della difesa, con la quale occorre collaborare, indirizzandola ad operare e ad investire in quei settori chiave nei quali si vuole mantenere una certa indipendenza. In questo settore c’è davvero molto da fare. Occorre soprattutto una pianificazione a medio e lungo termine degli investimenti, con un orizzonte di 15 anni e revisioni almeno quinquennali, che consenta di condurre in modo corretto il ciclo di ammodernamento, che nel campo della Difesa ha tempi necessariamente lunghi. E senza certezza sulle risorse non si può realizzare alcuna programmazione.

La riforma delle forze armate italiane non è più una chimera. Quella rivoluzione per anni invocata e mai attuata può diventare realtà. La Legge delega ne ha definito le fondamenta. Basterebbe darvi attuazione senza troppi stravolgimenti ed il gioco si potrebbe concludere con un vero successo. Una volta tanto. Non è certamente solo questione di soldi. In teoria per definire un Modello di difesa occorrerebbe valutare la situazione strategica del paese, individuare le minacce, gli interessi essenziali nazionali e condivisi, definire il livello di ambizione. Sulla base di tale analisi discenderebbe cosa serve e come organizzare le forze armate e dati questi elementi servirebbe “solo” allocare i fondi necessari per attuare quando previsto. Ma siamo in Italia. E molto realisticamente è opportuno procedere in modo opposto: si stabilisce quando si vuole spendere e partendo da questo vincolo si potrà determinare cosa vogliamo e possiamo fare e quindi realizzare le capacità militari che ci consentano di difendere il paese e suoi interessi. Necessariamente nel contesto della collaborazione internazionale. L’Italia non può sognarsi di fare da sola. Non poteva in passato, non può e non potrà in futuro. Ma è in grado comunque fare la propria parte e contare di più. Se si avrà il coraggio di compiere ciò che è stato troppe volte promesso e mai realizzato. 31


Risk L’EVOLUZIONE DELLE FORZE ARMATE IN ITALIA E IN EUROPA

ESERCITI CONDIVISI: CONVIENE ! DI •

I

LUIGI RAMPONI

l disegno di legge presentato dal governo al Parlamento, dal titolo: «Delega al governo per la revisione dello strumento militare nazionale», costituisce una ottima occasione di riflessione sul futuro assetto dello strumento militare in funzione dell’importante e sostanziale evoluzione della situazione internazionale, delle possibili minacce alla sicurezza nazionale ed alla pacifica stabilità mondiale,al fine

di assicurare all’Italia una organizzazione di difesa e sicurezza adeguata alla nuova situazione. Al di là delle esigenze di trasformazione e riduzione dettate dalla ristrettezza delle risorse economiche disponibili, da realizzarsi tuttavia in termini di: «riduzione della dimensione, accompagnata da un incremento della capacità operativa sul piano qualitativo e tecnologico»; l’evoluzione deve anche portare ad uno strumento e ad un modello di difesa calibrato sulle nuove esigenze dettate dalla nuova realtà in termini di minacce e di esigenze d’impiego. Non si tratterà, quindi, soltanto di ridurre, tagliare, accorpare, ma anche, soprattutto di cogliere l’occasione per avviare un autentico processo di revisione strutturale del modello, in chiave di capacità operativa, dettata dalla necessità di nuovi requisiti e supportata dalle moderne tecnologie. Lo strumento militare: le forze armate e la relativa organizzazione della Difesa, sono il sistema per mezzo del quale uno stato intende difendere i propri cittadini dalle minacce contro le istituzioni e contro la sua stessa esistenza, indipendenza, libertà. Tale strumento deve essere, naturalmente, adeguato allo scopo che si propone e idoneo ad assolvere nel miglior modo possibile il difficile compito assicurando in tal modo ai cittadini una vita serena e una sicura base per lo sviluppo della società. Gli elementi che condizionano la struttura e conse32

guentemente la capacità operativa delle forze armate, sono fondamentalmente e principalmente: la natura ed il «peso» delle possibili e prevedibili minacce alla sicurezza portate contro l’esistenza dello Stato e delle sue istituzioni da «entità» nemiche (stati, organizzazioni di tipo militare di varia estrazione), nei confronti delle quali si deve mettere a punto una adeguata capacità di contrasto; le possibilità, offerte dallo stato dell’arte della tecnologia di realizzare, per poi disporne, di sistemi di offesa e di difesa idonei a condurre le operazioni di sicurezza. Naturalmente tali principali fattori vanno poi integrati da altri elementi quali: la strategia di difesa, la dottrina e i procedimenti d’impiego, la appartenenza o meno a coalizioni, alleanze ed altro. Non deve sorprendere il fatto che tra gli elementi condizionanti non abbia incluso, da subito, le disponibilità finanziarie Per quest’ultimo fattore, comunque certamente determinante, desidero formulare a parte la seguente considerazione. La difesa, la sicurezza, costituiscono, tra le varie priorità che riguardano la vita della società, certamente da sempre, quella primaria perché riguardano l’esistenza stessa dello stato. Per tale ragione, appare giusto ritenere che alla propria difesa lo stato debba dedicare tutto quanto appare necessario in termini di risorse, per garantire la propria esistenza: primo «esi-


dossier stere». Si deve, peraltro, considerare il fatto che la non facile definizione dell’entità della minaccia, spesso dipendente dai comportamenti difficilmente prevedibili dei governanti di altri stati, le iniziative “pacifiste” spesso irresponsabili e strumentali ad altri fini, le urgenze di carattere sociale a volte ineludibili e il senso, a volte purtroppo carente, dello stato e della responsabilità dei governanti propri, rendono assai difficile la definizione della reale entità di risorse necessarie e disponibili per garantire la sicurezza e la difesa. L’Italia, dopo l’ultimo conflitto mondiale, prima per obiettiva mancanza di risorse, poi per gli orientamenti della propria classe politica, ha sempre dedicato e tutt’ora dedica alla difesa, risorse inadeguate ed assai inferiori a quelle assegnate per la stessa esigenza, dagli omologhi, democraticissimi stati europei, ciascuno in rapporto al proprio pil. Ne è derivata, in ambito internazionale e in seno alla stessa Alleanza atlantica, una conseguente scarsa considerazione sulle nostre capacità operative.

Tuttavia, in termini

di considerazione, con le operazioni internazionali di pace, molto grazie alla dedizione, professionalità specifica, senso umanitario e coraggio dei nostri soldati e, in varie occasioni, anche grazie alla validità dei sistemi d’arma e di protezione di produzione nazionale ed ai procedimenti attuati dai comandanti responsabili a tutti i livelli, la stima nei confronti della capacità operativa delle forze armate Italiane nelle operazioni di pace ha raggiunto livelli molto elevati. Il fatto assume grande rilievo, dal momento che in realtà la stragrande maggioranza degli impieghi delle forze armate nel mondo, sul piano internazionale, riguarda proprio le operazioni di mantenimento della stabilità e della pace. Fatta questa precisazione, la disponibilità di risorse, si conferma uno dei fattori determinanti. Purtroppo la loro entità continua ad essere percentualmente inferiore a quella stanziata nei bilanci di spesa degli stati europei omologhi. Inoltre negli ultimi quindici anni, la progressiva riduzione delle risorse finanziarie in termini reali, ha via via inciso nega33


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dossier tivamente sull’esercizio, al fine di preservare un sufficiente finanziamento per i salari del personale e per l’ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma e degli equipaggiamenti. I risparmi auspicati dalla legge delega dovranno, quindi, essere destinati ad incrementare le risorse per l’esercizio. I fattori minaccia e sviluppo tecnologico, sono soggetti a continua evoluzione nel tempo. Una saggia gestione della responsabilità relativa alla garanzia di sicurezza per la nazione, deve nel contempo fornire la disponibilità di uno strumento di difesa pronto a reagire efficacemente alle minacce che si dovessero improvvisamente manifestare, e, contemporaneamente essere capace di utilizzare, in un continuo divenire, le nuove opportunità derivanti dalle conquiste del progresso della tecnologia. Per questo sono necessarie, da parte dei responsabili, elevate capacità professionali di conoscenza e di analisi delle prospettive, alfine di ottenere un impiego ottimale delle risorse che come abbiamo visto, nel caso italiano scarseggiano. Per quanto ha tratto con la minaccia: la caduta dei governi comunisti dell’Urss e degli stati satelliti dell’Europa dell’est, con la contemporanea fine del patto di Varsavia hanno determinato un cambiamento epocale ed una autentica rivoluzione del settore. Da allora sino ai giorni nostri la minaccia si è andata evolvendo. Quali cambiamenti hanno subito le precedenti e quali nuove minacce si sono aggiunte? Proviamo ad elencarle: • La minaccia convenzionale si è fortemente attenuata. • La minaccia nucleare si è a sua volta fortemente attenuata, ma rimane presente, riferita agli stati definiti “canaglia”. • Permane ed è andata aumentando la minaccia vettoriale con testate di distruzione di massa, anche lei riferita soprattutto agli stati canaglia. • I conflitti etnici, religiosi, territoriali che hanno generato l’esplosione del terrorismo come mezzo di lotta e la conseguente fortissima minaccia. • L’insorgenza di situazioni di crisi politica all’interno degli stati (specie quelli istituzionalmente non

Le forze armate e la relativa organizzazione della Difesa, sono il sistema per mezzo del quale uno stato intende difendere i propri cittadini dalle minacce contro le istituzioni e contro la sua stessa esistenza, indipendenza e libertà democratici) che hanno incidenza negativa sulla stabilità e sicurezza internazionale. • La minaccia alle linee di comunicazione marittima portata dalla pirateria che ha progressivamente interessato bacini sempre più allargati. • Il potente profilarsi della minaccia cibernetica, ormai destinata ad assumere un ruolo di primo piano ed a rivoluzionare tipologie di offesa e di difesa e conseguenti assetti e procedimenti d’azione. Da questo sintetico ed essenziale quadro d’insieme della evoluzione subita dalla situazione, emergono le nuove esigenze di sicurezza che, in ordine prioritario, anche se non assoluto, richiedono capacità di: • Difesa contro il terrorismo all’interno dello Stato. • Interventi contro basi, focolai originatori di attacchi terroristici in ambito internazionale. • Difesa antimissile. • Operare nelle missioni internazionali di ristabilimento e mantenimento della pace. • Interventi antipirateria. • Proiezione delle forze • Operare nella dimensione cybernetica. • Controllo informativo ed operativo di vaste aree terrestri e marittime. • Operare in ambiente nucleare (attenuata). • Difesa convenzionale (attenuata). • Attività di intelligence elevata. Appare necessa35


Risk rio potenziare tale capacità, tenuto conto del nuovo tipo di minacce che non possono più essere contrastate dalla ritorsione e che vanno il più possibile prevenute. • Resilienza dopo attacchi terroristici o a seguito di attacchi con testate di distruzione di massa. • Interventi di carattere umanitario. Questo nuovo e attuale quadro delle esigenze operative, va soddisfatto, tenendo conto ed avvalendosi della applicazione dei risultati raggiunti dalla ricerca tecnologica per la realizzazione di nuovi sistemi che mutano e aumentano la capacità operativa offrendo nuovi mezzi e nuove possibilità di contrasto nei confronti delle minacce emergenti. L’evoluzione della struttura deve andare di pari passo con l’evoluzione della dottrina e dei procedimenti d’impiego. Quanto sopra coincide con quanto è stato attuato, nel continuo processo di trasformazione ed adeguamento attuato nell’ambito del Ministero della difesa dalla caduta del muro di Berlino sino ai giorni nostri. Pertanto le linee programmatiche sulle quali impostare la definizione e realizzazione del futuro assetto dello strumento militare nazionale non vanno mutate, ma nel loro sviluppo debbono concentrare l’attenzione sui seguenti elementi.

Nel settore terrestre si dovrà: proseguire l’azione di «alleggerimento» e mutamento di tipologia, delle unità fondamentali d’impiego (Brigate), premiando la mobilità, la protezione, mantenendo l’attuale potenza di fuoco incrementando l’autonomia logistica di supporto, la capacità di proiezione e la capacità C4I Star (forza Nec) per la condotta di operazioni internazionali; sviluppare e incrementare le possibilità operative del singolo combattente, portando a conclusione il programma «Soldato Futuro» nelle componenti (letalità, C4I, protezione, sostegno); continuare l’ammodernamento ed il potenziamento della componente elicotteristica; aumentare il numero e l’entità delle forze speciali anche a costo della riduzione di una o due unità 36

convenzionali (brigate); potenziare le capacità di intelligence (in funzione antiterrorismo); acquisire capacità cyber (difesa ed attacco). Nel settore aeronautico e spaziale il discorso presenta aspetti contrastanti. Infatti, al di là dei procedimenti di razionalizzazione strutturale da sempre in fase di continua progressiva realizzazione a fattor comune con le altre ff.aa., la struttura della componente operativa è ormai definita, programmata e sviluppata con una prospettiva di durata almeno decennale, per cui, in termini di evoluzione strutturale, ben poco può essere previsto. Rimangono, a mio parere, pertanto, scoperte due esigenze di capacità operativa: la prima relativa alla difesa antimissilistica, la seconda relativa allo schieramento di velivoli d’attacco non pilotati, assai meno costosi, il cui impiego non mette a rischio la vita dei piloti e più economicamente impiegabili per le esigenze di controllo di vaste aree. Potrà pertanto risultare eccessiva sia la disponibilità di assetti di difesa dello spazio aereo nei confronti di minacce convenzionali (data la forte attenuazione di tale minaccia) sia la disponibilità di velivoli d’attacco pilotati. Preso atto di tali vincoli, le prospettive di sviluppo dovranno pertanto concentrarsi sulla ricerca e sulla impostazione di programmi di futura realizzazione di sistemi antimissilistici e di assetti Uav. Nel frattempo, è indispensabile garantire la integrabilità nei contesti internazionali (Nato ed Ue) dei segmenti di potere aereo nazionale secondo il concetto della «smart defense» della Nato ed il «pooling and sharing» dell’Eda. Anche in ambito navale il discorso presenta un carattere di forte staticità. Possibili evoluzioni e mutamenti di assetti non sono alle viste. Continuerà certamente il processo di riduzione del numero di vascelli in parallelo con un ben impostato processo di ammodernamento. Evoluzioni, contrazioni e risparmi si potranno certamente realizzare in ambito territoriale eliminando basi e strutture il cui mantenimento in vita appare oggi assai discutibile. Per il futuro l’attenzione e la concentrazione degli sforzi va posta in ter-


dossier mini di impostazione di nuovi assetti e di definizione di nuovi procedimenti di impiego nei confronti della moderna tipologia di minacce, non più originatrici di grandi scontri navali, ma foriere di minacce diffuse e capillari al traffico marittimo. Pertanto, fermo restando i vincoli derivanti dalla ineluttabile realizzazione dei programmi in corso, appare inevitabile l’impostazione, almeno per il futuro, della realizzazione di sistemi di stazza limitata con capacità antisom, anti-nave, caccia mine con capacità specifica e possibilità di impiego di Uav ed elicotteri, del tipo «Litoral combat ship», più adatte di quelle attualmente disponibili, al contrasto delle minacce al traffico navale. Anche presso le singole unità navali già in linea o di previsto schieramento, dovrà essere assicurata la possibilità di impiego di Uav, essenziali per il controllo di vaste aree marittime, specie in funzione antipirateria. Una esigenza che può e deve essere soddisfatta subito è quella relativa al potenziamento dell’attività di intelligence in generale e in particolare nei confronti della minaccia terroristica, piratesca e vettoriale con testate di guerra. Solo un’adeguata conoscenza delle caratteristiche e delle capacità dell’avversario può consentire un’efficace azione preventiva che costituisce oggi, l’elemento essenziale per il contrasto a tali tipi di minaccia. Il potenziamento deve essere realizzato sia a livello globale, sia a livello di aderenza presso le unità impegnate nei singoli teatri d’operazione. L’attuale rapporto di disponibilità di risorse tra quanto assegnato per lo svolgimento dell’attività di intelligence e quanto assegnato per l’attività operativa è decisamente squilibrato a sfavore dell’intelligence. Lo spostamento di una peraltro limitata entità di risorse dall’operativo all’intelligence è assolutamente necessario e fattibile con conseguenze vantaggiose anche per la stessa capacità operativa complessiva e, più in generale, per la sicurezza nazionale. Un settore al quale dedicare il massimo dell’attenzione è quello cibernetico, che già oggi costituisce e sempre più costituirà in futuro, un’area, uno spazio nel quale potranno essere condotti attacchi paralizzanti, sia nei confronti delle

L’Italia, dopo l’ultimo conflitto mondiale, prima per obiettiva mancanza di risorse, poi per gli orientamenti della propria classe politica, ha sempre dedicato e tutt’ora dedica alla difesa, risorse inadeguate ed assai inferiori a quelle assegnate per la stessa esigenza, dagli omologhi, democraticissimi stati europei strutture di funzionamento della vita della società nazionale, sia nei confronti delle possibilità di funzionamento ed impiego degli assetti militari. È pertanto indispensabile mettere a punto sistemi di protezione, organizzazione di resilienza e capacità offensive idonei ad operare efficacemente in ambiente cibernetico. Tale ambiente è destinato a diventare in futuro, nel caso di crisi internazionali, la principale area di conflitto. Il nuovo concetto operativo che in ambito Nato va sotto il nome di «Smart defence» e l’altro che in sede Eda (European defence agency) è indicato col nome «pooling and sharing» definisce un primo importante passo verso l’integrazione dei segmenti di potere terrestre, aereo, navale nazionali, in un sistema unitario Nato ed europeo.

La mancata realizzazione completa dell’unione politica europea e la mancata realizzazione di una «difesa dell’Unione Europea» degna di tale nome, oltre che dar luogo ad una organizzazione difensiva disarticolata, dispendiosa, ridondante nelle sue componenti e praticamente inesistente come complesso 37


unitario, si rivela anche incongruente con una realtà internazionale che presenta, nei confronti della stessa Unione Europea, del suo territorio e della sua popolazione, un complesso di minacce non dirette ai singoli stati, ma unitariamente puntata contro l’Europa nel suo complesso. Questo fatto determina una situazione di difficoltà e di imbarazzo nei confronti dei programmatori militari, i quali sono costretti: da una parte a dar vita ad uno strumento nazionale «indotto ed obbligato» dalla scelta nazionalistica, individualistica dei responsabili (o irresponsabili?) politici che in più di 60 anni non sono stati capaci o non hanno voluto, realizzare un’autentica unione politica europea; dall’altra, debbono prendere atto che la vastità «della minaccia» non potrà essere fronteggiata e battuta singolarmente, ma che l’azione di contrasto dovrà essere condotta da uno strumento unitario internazionalmente integrato. Per la verità, una tale organizzazione difensiva integrata esiste già da tempo ed ha già dato prova di capacità operativa unitario. Parlo, naturalmente, della Nato. La Nato è certa38

mente un’alleanza difensiva solida, ben strutturata ed organizzata, con regole di integrazione delle forze ben definite e con capacità efficaci di intervento, ripetutamente dimostrate. Anche in seno alla Nato, tuttavia, rimane la negatività rappresentata dalla frammentarietà dei partner che perpetua il mantenimento dei tanti eserciti, delle tante marine, delle tante aeronautiche e delle tante organizzazioni di difesa dei singoli partner. L’avvenire, auguriamoci, non troppo lontano, sta nella costruzione della difesa europea con uno strumento unitario ed una guida unitaria, naturalmente nell’ambito di una unione politica di qualunque tipo. Quanto si risparmierebbe riducendo organismi, comandi, enti strutture, ridondanze! Quanto si guadagnerebbe, a parità di costo, in capacità operativa! Con i risparmi ottenuti l’Europa potrebbe dotarsi di tutti gli assetti oggi disponibili solo in ambito Nato di dotazione Usa e, in tal modo, acquisirebbe una completa, autonoma, capacità operativa ed in ambito alleanza, una ben diversa capacità decisionale. Quanto guadagnerebbe l’Europa in credibilità e rispetto in ambito internazionale!


dossier

LA DIMENSIONE TERRESTRE DEGLI APPARATI MILITARI

UN PAESE PIÙ SICURO DI •

L’

GIULIO FRATICELLI

Esercito è la componente fondamentale del nostro strumento militare e tale rimarrà almeno in una ragionevole prospettiva temporale. Chi di questi tempi, in previsione di un disimpegno dall’Afghanistan, volesse chiedere allo Us Army cosa succederà in futuro, si sentirebbe rispondere che nell’area asiatica ci sono sette dei dieci più potenti eserciti del mondo. In questa risposta

non figurano il Medio Oriente (dove gli americani per i noti motivi sono restii a impegnarsi con truppe terrestri) e il continente africano, altra polveriera del pianeta; aree in cui noi italiani potremmo trovarci ad agire in un contesto multinazionale di stabilizzazione. Ma prima di accennare a qualche ipotesi di sviluppo a seguito della legge delega per la revisione delle forze armate, recentemente approvata dal parlamento, possono essere utili due riflessioni, una di sostanza e l’altra di forma, sul modello di strumento che ci accingiamo a perseguire. L’osservazione di sostanza riguarda il personale, in particolare quello militare. Come nel precedente modello a 190mila unità, l’attuale a 150mila (più 20mila civili) difficilmente potrà essere conseguito nei tempi ipotizzati (10 anni), che già appaiono lunghi per un effettivo recupero di risorse da devolvere ai settori esercizio e investimento del bilancio Difesa. Ma tale recupero è l’architrave del modello... ancora una volta si potrebbe assistere a un divario tra risparmi e maggiori esigenze, in cui l’esiguità dei primi condizionerà pesantemente le seconde. Intendiamoci, nel nostro caso una contrazione del personale è inevitabile – e questo era già previsto nel precedente modello – benché le formule su cui si è sempre basata (il rap-

porto percentuale tra spese per il personale, acquisti e investimenti è il 50-25-25 o il 40-30-30) non abbiano che una modestissima valenza empirica, soprattutto nel caso italiano. Il punto è che il personale contrattualizzato non puoi salutarlo in pochi anni, anche dando per scontato (e speriamo che sia così) che non ne verrà ritardato il collocamento in pensione per effetto dei nuovi limiti di età. E se per compensare il ridotto esodo chiudi troppo il rubinetto degli arruolamenti ti troverai più avanti con degli scompensi di carriera e impiego difficili da gestire. Questo è vero per tutte le componenti, ma in particolare per quella terrestre, fondata sulla qualità del personale e degli equipaggiamenti (capital intensive) ma anche sulle dimensioni (labor o human intensive). Occorre pertanto essere preparati a questa difficoltà sistemica e al fatto che un vero miglioramento di situazione, come in tanti altri settori della vita nazionale, si potrà ottenere probabilmente solo con una crescita del prodotto interno lordo, più che con la bontà dei modelli. La seconda riflessione, essenzialmente formale, riguarda l’incipit del modello – certamente imposto dalla eccezionale situazione economica di questa epoca – che parte dalle risorse ipotizzate stabili per arrivare allo strumento militare; cioè 39


l’inverso di quello che la logica suggerirebbe in casi meno impellenti sul piano finanziario. Questo, occorre riconoscerlo, è un atto di realismo e anche di onestà intellettuale. Tuttavia, a parte il fatto che la stabilità finanziaria nel tempo non può essere data per scontata, e lo si è visto subito con la perdita di circa 237 milioni di euro nel bilancio 2013, partire subito dalle risorse per arrivare a un modello essenzialmente numerico comporta due rischi. Il primo, forse un po’ paradossale, è quello di suggerire che, tutto sommato, per confezionare un modello sia più importante disporre di un bravo ragioniere che di un illuminato manager militare. Va subito detto che l’attuale ministro della Difesa può svolgere egregiamente in proprio tutte le sintesi tecnico-finanziarie necessarie. Ma in altre circostanze? Forse nel grande lavoro di preparazione per arrivare alla definizione di uno strumento militare si dovrebbe trovare un po’ di spazio anche per un minimo di attività «pedagogica» verso le istituzioni politiche per far capire 40

un fatto fondamentale: a cosa serve, in concreto, spendere 14 miliardi di euro per la difesa e sicurezza. Altrimenti – e questo è il secondo rischio – qualcuno potrebbe, almeno in teoria, avanzare la tesi che anche 10 miliardi o un qualsiasi altro livello di spesa possa risultare adeguato.

Detto ciò torniamo all’Esercito, partendo proprio da una succinta ipotesi sull’output da ottenere, cioè sulle capacità da esprimere nell’ambito di un impiego joint e combined. Esercizio, questo, che sicuramente è stato svolto dagli «addetti ai lavori» e poi amalgamato in ambito interforze con le altre componenti, anche se ciò non si percepisce compiutamente. Prendiamo allora rapidamente in esame i compiti affidati per legge alle Forze armate italiane (difesa dello stato, realizzazione della pace e sicurezza nel contesto delle operazioni internazionali, interventi per pubbliche calamità e per casi di straordinaria necessità e urgenza) successivamente tradotti in quattro missioni quasi


dossier corrispondenti(1). Si inquadrano in queste missioni gli impegni derivanti dai trattati internazionali e le scelte effettuate sul livello di impiego della forza, che hanno anche un concreto valore statistico, maturato sul piano operativo negli ultimi 15 anni. Impegni che tengono già conto del fattore multinazionale (soprattutto Nato e Ue) ossia mettono a calcolo che da soli non si va da nessuna parte, con una modesta eccezione per la difesa del territorio nazionale, e che quindi una proliferazione di assetti per scopi di esclusiva sovranità nazionale, nel contesto di tali alleanze, hanno sempre meno senso. Tutto ciò considerato e guardando ai prossimi dieci anni si può ipotizzare – a titolo di esempio – che le esigenze operative da soddisfare con la componente terrestre consisterebbero in quattro blocchi di forze. Un primo blocco, atto a svolgere i compiti della prima missione (difesa dello stato) limitatamente al territorio nazionale, dovrebbe essere costituito da un complesso di forze, sempre disponibile, del livello brigata di manovra media o leggera, rinforzata con aliquota di forze speciali/aeromobili. Un secondo blocco, per i compiti di difesa dello stato riferiti ai cosiddetti spazi euroatlantici o a quelli in cui sono comunque in gioco interessi nazionali e collettivi (seconda missione) dovrebbe prevedere forze medie e pesanti per impieghi anche di elevata intensità ma di durata limitata (6-8 mesi), di consistenza pari a due brigate e supporti oltre ad assetti C2 del livello superiore, cioè divisione/corpo d’armata. Va precisato che, in caso di effettivo impiego per tale scenario (possibile ma al momento poco probabile), come del resto per il caso precedente, alle forze inizialmente previste si affiancherebbero tutte quelle comunque disponibili. Occorre altresì ricordare che l’entità di questi impegni è già vista in un ottica di integrazione europea e Nato, cioè in un contesto in cui nessun paese, almeno nel settore terrestre, ha la velleità di mantenere una capacità autonoma autosufficiente. Un terzo blocco di unità assolve-

L'Esercito giocherà una partita importante sul fronte del recupero risorse nel settore infrastrutturale; e qui c'è abbastanza da fare, insieme ad altre istituzioni nazionali e locali. Infatti la disseminazione dei reparti su tutto il territorio, nonostante la politica di accorpamento sinora perseguita, è ancora fonte di eccessiva spesa rebbe la terza missione (contributo alla realizzazione della pace e sicurezza internazionale) cioè del tipo già in atto oggi (Cro, Crisis response operation), per periodi anche lunghi, con forze leggere/medie da impiegare in 2-3 teatri operativi, per un totale di due brigate e supporti, forze speciali e altri assetti. Il quarto blocco (concorsi e altre esigenze della quarta missione) è riferibile a forze che, come nel caso precedente, sono valutabili non solo in base alle previsioni ma anche su base statistica, e sono pari a una brigata leggera e assetti speciali, ad esempio unità del genio. Di questi blocchi si deve prevedere un possibile impiego contemporaneo per il primo, terzo e quarto caso, ma siccome il secondo esige a sua volta un elevato stato di prontezza operativa, in pratica tutti i blocchi vanno considerati contemporaneamente, prevedendo cicli operativi adeguati in cui si alternano impiego, recupero/addestramento alla massima intensità e approntamento, stato di prontezza operativa, e ancora impiego. Se per ragioni di semplicità si prende in esame un modulo base per le 41


Risk

Chi, in previsione di un disimpegno dall'Afghanistan, volesse chiedere allo Us Army cosa succederà in futuro, si sentirebbe rispondere che nell'area asiatica ci sono sette dei dieci più potenti eserciti del mondo unità di manovra costituito da due brigate con supporti e si adotta un ciclo operativo totale di 1824 mesi così articolato: 6 mesi di recupero da una missione Cro e successivo addestramento/approntamento, 6-9 mesi di massima prontezza operativa per missioni Nato/Ue (2da), e 6-9 mesi per approntamento specifico e impiego Cro (3za) di cui 6 mesi di schieramento effettivo, la 2da e 3za missione richiedono un bacino di forze pari a sette brigate di manovra e supporti, con due brigate sempre impiegate in missioni Cro o in elevato stato di prontezza operativa. Aggiungendo una brigata per la 1ma missione e una per i concorsi della 4ta, si arriva a nove brigate di manovra più una brigata aeromobile, cioè dieci in totale (una in meno rispetto a oggi). A rigore non è proprio cosi, perché le nostre unità di manovra sono intercambiabili solo parzialmente, né lo saranno mai completamente, stante la diversità degli scenari di impiego e della tecnologia disponibile. Inoltre questa sommatoria di esigenze va espressa anche in termini di reggimenti, al fine di disporre di una situazione più duttile e più vicina a quella che sarebbe poi la generazione delle task force. Però quello che precede è un dato orientativo utile che, tradotto in termini numerici di personale, comprensivo anche della componente anfibia e di tutti i supporti di comando, tattici e logistici di campagna, porta a un totale per l’intera area operativa terrestre di circa 65-70mila 42

uomini, in relazione all’intercambiabilità delle pedine di manovra. In queste forze è stata considerata anche una riserva del livello brigata, dal momento che l’Esercito italiano, al contrario della maggior parte degli altri eserciti, non ha un bacino di riservisti del tipo guardia nazionale al quale attingere. Infatti, la riserva selezionata esistente fornisce solo elementi singoli per specializzazioni particolari di ridotta entità e di non conveniente alimentazione su base allargata. Si può quindi sostenere che un modello a circa 90mila uomini per l’Esercito consentirebbe di svolgere le missioni previste qualora si riuscisse a risparmiare personale nelle aree logistica/territoriale e forse anche in quella addestrativi, con un migliore uso di metodiche aggiornate, in modo da limitare questa sovrastruttura a 20-25mila uomini. Parlando ancora di brigate ci si può chiedere se tale livello di comando/coordinamento sia quello più rispondente e la stessa domanda ovviamente varrebbe, più in generale, per l’intera struttura di comando e controllo (C2) della componente terrestre.

Ebbene, la brigata costituirà ancora un livello ordinativo fondamentale sotto il profilo della formazione e dell’impiego pluriarma , ma opportunamente adattata alla specifica esigenza operativa con supporti tattici e logistici (in configurazione task force) e resa pienamente proiettabile e interoperabile in ambiente combined e interagency. Va però ancora evidenziato che le pedine di manovra di cui dispone – i reggimenti – sono poi quelle che consentono di realizzare la voluta flessibilità operativa per tutte le missioni, incluse la prima e la quarta. In merito alla tipologia si dovrà tendere a uniformare il più possibile i moduli di manovra e parte dei supporti tattici, in modo da arrivare a una più spinta flessibilità operativa, che comunque dovrà fare i conti con il terreno di impiego e con l’intensità delle operazioni. In tale contesto appare opportuno pensare a brigate polivalenti, con pedi-


dossier ne medie e leggere al loro interno. Al disopra delle brigate tre livelli di comando operativo (divisione,comando intermedio,comando forze terrestri) sono troppi, anche se uno di essi (divisione) è tenuto quasi unicamente in posizione expeditionary. A questo punto la prevista soppressione dei comandi intermedi è pienamente condivisibile; ne consegue un maggior coinvolgimento del livello divisionale che, nella nuova veste, dovrebbe fare capo direttamente al comando forze terrestri. Si è accennato all’opportunità di potenziare le forze speciali. In una situazione ideale il bacino delle Sof dovrebbe essere molto più ampio, per poter fronteggiare impieghi certamente circoscritti, ma in crescente aumento. Peraltro la lunghezza, la selettività e il costo di formazione rendono difficile tutto ciò. Si potrà però quanto meno impostare un programma di accrescimento capacitivo, agendo sull’aspetto ordinativo/ addestrativo ed estendendo parte di questa capacità ad altre forze. Ma i numeri sono solo il primo parametro di un processo che, sotto il profilo qualitativo, comprende tanto addestramento. Molta tenacia dovrà essere posta nel recupero di risorse per tale scopo. Sull’onda di quanto già evidenziato sulla intercambiabilità l’enfasi dovrà essere su una formazione ad ampio spettro, rivolta a tutti i tipi di impiego, dall’alta intensità ai concorsi. Con la contrazione degli organici prevista nella revisione dello strumento ogni soldato dovrà contare di più ed essere preparato a svolgere tutti i compiti conseguenti alle quattro missioni, in ogni scenario di impiego e con un alto profilo di reattività, da esprimere ai più bassi livelli di impiego. Con le risorse disponibili, probabilmente ancora per un po’ di tempo inferiori al necessario, l’uso di sistemi addestrativi largamente basati sul virtuale sarà ulteriormente esteso. Nell’organizzazione della formazione esistono poi sicuramente margini di risparmio e miglioramento, ad esempio attraverso una ristrutturazione basata al tempo stesso

sulle funzioni e sulle diverse categorie di personale, che confermi anche l’esigenza di un Comando d’area, come del resto fanno altri eserciti.

La flessibilità d’impiego

nei vari scenari ha un impatto diretto anche sulla logistica di approvvigionamento e su quella di consumo. Occorre al riguardo conseguire una maggiore mobilità e protezione per tutte le forze, utilizzando le possibilità offerte dalla tecnologia con i materiali compositi e altre soluzioni, ricercando anche il risparmio energetico. Questo ed altro contribuirà ad attenuare gradualmente la distinzione tra le tipologie di unità (leggere, medie, pesanti), accrescendo non solo la flessibilità operativa, ma anche la sostenibilità. In tale contesto si dovrà incrementare la capacita «netcentrica», requisito essenziale per operare combined. Sistemi per la situation awareness, dal singolo uomo al posto comando dei vari livelli, sono un tassello fondamentale del vasto panorama degli equipaggiamenti terrestri che qui non si ha la possibilità di trattare analiticamente. Si può tuttavia confermare la validità dei grandi programmi dell’Esercito quali la Forza Nec, il Vbm Freccia, il «Soldato futuro» e gli elicotteri d’attacco, sottolineando l’esigenza di un rispetto dei tempi e della impostazione a «spirale». Sul piano generale permane l’esigenza di una più forte integrazione tra l’utilizzatore e l’industria nazionale, essa stessa parte inscindibile di una sicurezza «allargata». Infatti, il rapido sviluppo dell’elettronica/informatica accresce la richiesta di sistemi commercial off the shelf e questo accorcia i tempi di acquisizione, privilegiando però le aziende che, operando su una vasta economia di scala, possono più facilmente offrire prodotti maturi, orientando anche le scelte operative. Per noi ciò comporta in genere un esborso di valuta verso fornitori esteri e penalizza quelli nazionali, che spesso possono offrire 43


Risk solo prodotti sviluppati insieme all’utilizzatore e che, dati i tempi contrattuali, rischiano di arrivare alla fase d’approvvigionamento già in parte superati. Una vera revisione dello strumento non si può concepire senza mettere mano anche a queste cose, approfittando della eccezionalità della situazione sotto il profilo economico e della spinta che ne può derivare per rivedere l’iter dell’approvvigionamento degli equipaggiamenti militari. Per la logistica di consumo sarebbe opportuno battere molto sulla tracciabilità dei materiali, quale input iniziale di ogni attività e fattore essenziale di risparmio. Sul piano ordinativo/organizzativo mentre la logistica di campagna appare abbastanza rispondente, quella territoriale necessita di una semplificazione, al fine di ridurre l’attuale linea di comando, sopprimendone il livello intermedio e cercando di fare altrettanto con gli organi logistici. Qui si può fare qualcosa di più in ambito interforze, con la regola del lead service, sin dove applicabile.

L’Esercito giocherà

una partita importante sul fronte del recupero risorse nel settore infrastrutturale; e qui c’è abbastanza da fare, insieme ad altre istituzioni nazionali e locali. Infatti la disseminazione dei reparti su tutto il territorio, nonostante la politica di accorpamento sinora perseguita, è ancora fonte di eccessiva spesa, che dovrà pertanto essere ulteriormente ridotta per fare spazio ad altre esigenze primarie. L’idea di contrarre le oltre 500 infrastrutture in uso va perseguita con decisione, dismettendo (cioè vendendo) o almeno permutando quelle non indispensabili in coordinamento con gli enti locali, secondo progetti che dovrebbero portare anche ad ammodernare quelle da tenere ovvero a realizzarne altre ,sempre con criterio “areale”. Va da sé che una maggiore applicazione di tale criterio comporta la dislocazione dei reparti in opportune basi, vicino alle poche aree addestrative ancora esistenti e alle linee di comunicazio44

ne. In sintesi: ridurre il numero, concentrare, ammodernare. Se è vero che il personale è la risorsa fondamentale, in particolare per l’Esercito, qualsiasi processo di revisione deve quanto meno interrogarsi sui provvedimenti da attuare per rispondere il più possibile alle sue giuste aspettative e favorirne il senso di appartenenza e realizzazione. Il grande progetto di revisione appena avviato implica riduzioni e altre modifiche ordinative in vista di una più efficace utilizzazione delle risorse. Affinché ciò si traduca in un effettivo miglioramento qualitativo, sarà però necessario un grande esercizio di saggezza, per evitare che alla fine rimangano solo delusi e scontenti. Con quello che riescono a fare i nostri splendidi soldati una simile eventualità sarebbe quasi una beffa. A titolo conclusivo si evidenzia che, non essendoci notizia di un ridimensionamento dei compiti e delle conseguenti esigenze capacitive del nostro strumento militare, il preventivato riordinamento sarà basato, per la componente terrestre, sullo snellimento della sovrastruttura di supporto a vantaggio dell’area operativa. Solo cosi, infatti, sarà possibile rientrare nei nuovi volumi organici (circa 90mila) e recuperare risorse per continuare ad assolvere quei compiti. In tale ottica una delle cose più serie che si possano fare è quella di creare una sorta di cronoprogramma annuale, in cui mettere in sistema i più importanti provvedimenti di revisione con il rispettivo stato di attuazione, impostando la revisione stessa come un pacchetto di progetti/obiettivi. Ma forse qualcuno ci ha già pensato.

1)

Difesa dello stato nella sua accezione più ampia riferita non solo al territorio ma anche alle vie di comunicazione e alla protezione dei connazionali all’estero e degli interessi vitali del paese, difesa degli spazi euroatlantici, contributo alla realizzazione della pace e sicurezza internazionale, concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni e compiti specifici in caso di pubbliche calamitò o straordinaria necessità e urgenza


dossier DOVE TAGLIARE LE SPESE TRA RIFORMA E SPENDING REVIEW

LA DIFESA NELL’ANGOLO DI •

T

MARIO ARPINO

ra Riforma e Spending Review, ancora una volta la Difesa è stata messa nell’angolo. Sì, perché la sua ennesima riforma riduttiva la farà davvero, come le è stato ordinato. Se volessimo guardare al passato – cosa non sempre utile, ma talvolta istruttiva – ci accorgeremmo invece che, in altri dicasteri ed in settori di spesa diversi, alle parole potrebbero continuare a seguire solamente

altre parole. Come sempre. Vedasi costi della politica, regioni e province, autoblù, scorte come status simbol, vendita degli immobili demaniali, e così via. Se ne parla da anni, si fanno anche leggi e decreti, ma i risultati sono ancora molto vicini allo zero. Nessuno, si badi bene, con questa crisi in atto – crisi dell’Occidente, e non solo italiana – all’interno del sistema con le stellette vuol sostenere che la «funzione difesa» non debba partecipare anch’essa ad un razionale processo riduttivo e di abbattimento dei costi. Oltre tutto la Difesa ci è abituata, visto che la morsa delle ristrutturazioni – ricordo che già nel 1975 facevo parte di un «gruppo di lavoro interforze» che si occupava proprio della revisione strutturale, organica ed operativa del settore – da allora non si è mai allentata. È un processo permanente, vera e propria colonna sonora che da quarant’anni accompagna le attività del dicastero. Altri paesi, come la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ne rendono pubblici i risultati – e prima ancora le “intenzioni” da trasformarsi in provvedimenti per confrontarsi con un nuovo quadro strategico – con un Libro bianco che viene pubblicato annualmente. In Italia, ne abbiamo visto uno nel 1977, uno nel 1985, una bozza nel Duemila ed un corposo volume nel 2002. Edizioni imperfette sin che si vuole, redatte in assenza di un vero e approfondito dibattito politico, ma

sempre meglio del nulla degli ultimi dieci anni. «Nulla» in senso concettuale, si intende, ed è proprio questo il problema visto che in corpore viri si è comunque continuato ad incidere, e profondamente. Basta ricordare gli effetti del Dl 25/2008, n. 112, nefastamente noto per i «tagli lineari» della spesa. Quelli per la Difesa si leggevano all’art. 63, dove le varie tabelle venivano ridotte del 7 per cento per il 2009 e del 40 per cento nel 2010, mentre a decorrere dallo stesso anno dovevano essere conseguite economie non inferiori a 304 milioni di euro. Con la previsione, in caso di insuccesso, di ridurre «(…) tutte le dotazioni complessive di parte corrente dello stato di previsione del ministero della Difesa, ad eccezione di quelle relative alle competenze spettanti al personale (…)». Danno grave alla qualità della spesa, che ha frustrato ogni tentativo di riequilibrare e frenare lo sbilanciamento già in atto tra le tre componenti, ovvero ammodernamento, esercizio e personale. Oggi, con la recente emanazione della legge 31 dicembre 2012, n. 244, un nuovo strumento di riforma è disponibile. Spiace però vedere come, ancora una volta, si stia forzando una soluzione che per la Difesa ha un impatto esistenziale per mezzo di uno strumento meramente contabile, senza farlo maturare attraverso almeno un tentativo di dibattito politicostrategico. Così, la «Direttiva ministeriale in merito 45


alla politica militare per l’anno 2013» rimane per il disorientato pianificatore l’unico riferimento. Certamente, lo dicono gli stessi capi di Stato maggiore nelle audizioni, entro certi limiti si può ancora risparmiare, comprimere e ridurre. Ma il dibattito vero, questo purtroppo lo dobbiamo ammettere, nella cultura del nostro paese e delle nostre forze politiche ancora una volta è caduto nel vuoto.

Eppure, prima di mettere nuovamente

mano alla forbice, le cose da chiarire a livello politico sarebbero state ancora tante, a partire dalla definizione di quale strumento militare il paese si vuole dotare, e per farne che cosa. È un discorso che andrebbe affrontato seriamente, una volta per tutte e non solo quando si tratta di discutere il rinnovo per le missioni internazionali e reperirne le risorse, o di valutare i principali programmi di investimento, come ricorrentemente si sta facendo nel caso della nostra partecipazione al programma F-35 Joint strike fighter. Ma, sopra tutto, anche in questi casi le discussioni dovrebbero essere non già di tipo ideologico, o populistico-elettorale, ma di carattere politico-strategico, tecnico-operativo, militare e politico-industriale. Anche il rapporto tra il vero significato dell’art. 11 della nostra Costituzione e l’impiego delle forze armate andrebbe discusso e precisato una volta per tutte – sebbene per chi lo legga in buona fede sia assai chiaro – al fine di evitare gli ostacoli e le perdite di tempo che pretestuosamente e ricorrentemente pregiudicano un sereno e proficuo andamento dei rari dibattiti, seppure ci sono. Questa pigrizia viene spesso, e talvolta a ragione, giustificata con la volatilità della materia da dibattere. È vero che non abbiamo più un nemico pronto ad invaderci dalle bocche di San Quirino o dalla soglia di Gorizia di buona memoria. I parametri di riferimento da valutare per la pianificazione militare ormai sono differenti. Ad esempio, l’innegabile regressione globale del “potere” occidentale, durato più di 500 anni anche per la superiorità della sua tecnologia e, quindi, della sua capacità militare ed industriale. Oppure la posizione


dossier e la forza della Nato, che – è inutile girarci attorno – vede nell’incauta operazione in Afghanistan una sorta di sconfitta politico-militare o, quanto meno, una sensibile riduzione della sua credibilità, ulteriormente erosa dalla lenta deriva statunitense. Ancora, importante fattore di pianificazione da dibattere e valutare prima di passare ai tagli sarebbe la riluttanza dell’Unione europea ad organizzarsi credibilmente in termini di sicurezza e difesa, situazione non certo migliorata dalla sempre più evidente tendenza britannica al defilamento da ogni impegno comunitario. Anche il mantenimento e la sicurezza delle fonti energetiche meriterebbero un pensierino in termini di capacità militare, mentre in proposito assistiamo a un continuo palleggio di responsabilità tra l’Unione e la Nato. Non parliamo dei fumosi concetti su cui si impernia la cosiddetta «responsabilità di proteggere», che, in mancanza di un serio dibattito, rischia di rimanere una foglia di fico a disposizione di chiunque ne voglia approfittare. Ricordiamoci della Libia, ed osserviamo ciò che succede in Siria e nel Mali. Ecco, tutti questi sarebbero stati eccellenti argomenti di dibattito politico – ne abbiamo enumerati solo alcuni – da trasformare in altrettanti fattori di pianificazione. Ovviamente non per fare da soli, ma, almeno, per dare utili contributi di pensiero in sede Nato ed europea. Invece, siamo stati sempre rimasti a rimorchio. Ma ormai non c’è più tempo: non l’abbiamo mai fatto, e non possiamo certo pretendere che le forze politiche inizino da oggi, e per farlo con serietà rinuncino ai loro metodi di lotta partigiana proprio in periodo elettorale. C’è la crisi, che è reale. Ma è anche un’ottima occasione per riformare senza discutere troppo e senza contrapposizioni ideologiche. Ben venga, la accettiamo volentieri. Prima o poi, però, anche il passaggio a monte dovrà essere intrapreso, completato e trasformato in una guida in grado di orientare i pianificatori verso il futuro. In questo quadro non certo edificante, abbiamo avuto la fortuna di avere un ministro competente che in tempi brevi è riuscito a trovare e a far condividere dal

Ricordiamoci della Libia, ed osserviamo ciò che succede in Siria e nel Mali. Ecco, tutti questi sarebbero stati eccellenti argomenti di dibattito politico – ne abbiamo enumerati solo alcuni – da trasformare in altrettanti fattori di pianificazione. Ovviamente non per fare da soli, ma almeno, per dare utili contributi di pensiero in sede Nato ed europea governo e dagli stati maggiori, almeno a grandi linee, una dimensione di compromesso per uno strumento militare polivalente, in grado di integrarsi – per piccoli numeri, ma senza sfigurare – nel contesto Nato ed europeo. Ora una nuova legge-quadro di riforma c’è e, nel bene e nel male, è necessario che stati maggiori, ministero, governo e forze politiche collaborino lealmente per poter disporre in tempi brevi dei decreti legislativi necessari per l’attuazione. È un lavoro da fare con il treno in corsa, in quanto né gli impegni né i programmi possono essere congelati senza danno operativo, politico ed economico. E, soprattutto, il lavoro va fatto con reciproca solidarietà e senza tradire lo spirito che ha informato la stesura della legge. Questa, che lascia di fatto intonso il disegno a suo tempo presentato dal ministro Di Paola, è molto chiara ed in solo cinque articoli indica a coloro che avranno la responsabilità di stendere i decreti, tutti i settori in cui è necessario incidere e l’inviluppo di limiti nel rispetto dei quali è necessario operare. Si fa cenno a due o più decreti e a prima 47


Risk vista, considerata l’ampiezza e l’eterogeneità della materia, è assai probabile che si debba usufruire di questa possibilità e andare oltre. L’art. 1 riguarda l’«Oggetto e le modalità di esercizio della delega», l’art. 2 i «Principi e criteri direttivi per la revisione dell’assetto strutturale e organizzativo del Ministero della Difesa», l’art. 3 i «Principi e criteri direttivi per la revisione delle dotazioni organiche del personale militare e civile della Difesa», l’art. 4 tratta delle «Disposizioni in materia contabile e finanziaria», mentre l’art. 5, da ultimo, riassume le «Disposizioni finali e transitorie» ed entra direttamente nel merito disponendo la soppressione del Consiglio superiore delle forze armate. Cosa assai semplice da fare, da anni auspicata, ma – come tante altre cose – mai attuata. Sarà interessante per il lettore andarsi a leggere le valutazioni portate in Commissione, nell’ambito delle varie audizioni che hanno preceduto l’approvazione del Senato e della Camera, dal ministro e dai responsabili militari del dicastero e le osservazioni dei parlamentari. Si trova tutto agevolmente in rete. Premesso che nessuno ha fatto obiezioni sull’esigenza di razionalizzare e ridurre per produrre efficienza, è possibile individuare e mettere a fattor comune alcuni concetti guida per la predisposizione dei decreti.

Tutti riconoscono che nessun paese oggi è in grado di sopportare in proprio uno sforzo finanziario che consenta l’autonomia nel settore della difesa, come pure viene riconosciuto che, anche per il futuro, sarà assai improbabile un aumento delle risorse. Si è convenuto che la nostra struttura è sovradimensionata rispetto alle disponibilità attuali e future, ed è deformata dall’eccessiva quantità di personale attualmente in sevizio. Si è quindi riconosciuto che questo è il primo settore su cui incidere. Si riconosce e si accetta che, in emergenza, questa nuova operazione di riforma debba essere necessariamente condotta invertendo il metodo classico della pianificazione strategica, passando da quello capability driven a quello finance driven. Ciò significa che dalle risorse finanziarie prevedibilmente disponibili discendono a cascata i volumi 48

organici, le strutture e i mezzi, e, di conseguenza, quello che si usa definire il «livello di ambizione sostenibile». In questo processo, Spending review e riforma del settore vanno letti assieme, in quanto, in pratica, l’una anticipa l’altra come primo passo. Ad esempio, se si ferma l’attenzione al settore del personale – il primo sul quale si intende incidere – la riduzione nel primo triennio deve essere di circa 13mila unità (da 183mila a 170mila), per arrivare ad una consistenza totale di 150mila entro il 2024. Al fine della stesura dei decreti legislativi – si ritiene che dovranno essere almeno tre – le capacità complessive vanno suddivise in tre grandi categorie: le capacità non strategicamente prioritarie, da dismettere o da annullare; le capacità da mantenere, previo ammodernamento e adeguamento tecnologico; le capacità strategicamente prioritarie e vitali, da rendere interoperabili, integrabili con quelle degli alleati Nato ed europei, tecnologicamente avanzate, proiettabili e sostenibili anche per il futuro. Va da sé, ed è comprensibile, che l’effetto di questi provvedimenti si ripercuota in modo diverso su ciascuna delle tre dimensioni e, quindi, su ciascuna forza armata. Ipotizziamo, in questo contesto, effetti e proposte sulla dimensione aerospaziale, partendo, appunto, con proposte fattibili e sostenibili nel settore del personale ed in quello ordinativo (o della governance, se vogliamo allinearci al linguaggio internazionale). L’Aeronautica militare, che per sua natura si è sempre basata sull’alta qualificazione tecnologica degli uomini e dei mezzi, si presenta a questa linea di partenza con qualche posizione di vantaggio, in quanto il processo riduttivo iniziato autonomamente da circa vent’anni negli ultimi tempi ha subito una significativa accelerazione verso obiettivi che ormai non distano molto da quelli attualmente in corso di avviamento. Basti osservare che gli organici con le stellette sono passati dai 79 mila del 1990 alle attuali 42mila presenze (riduzione del 45 per cento), sono stati soppressi una settantina di enti ed alienati 25 sedimi, mentre è stato dimezzato il numero degli aeroporti militari. Per quanto riguarda le linee di volo, ne è stata ridotta


dossier di due terzi la tipologia e si è passati da circa 650 velivoli in front line a gli attuali 360. In particolare, per quanto riguarda la linea da combattimento, si è passati da oltre 300 velivoli a 140, mentre l’attività di volo annuale si è ridotta da oltre 150 mila ore alle circa 90 mila attuali. Negli ultimi anni, il volume finanziario dedicato all’efficienza linea si è praticamente dimezzato, e ciò ha costretto a concentrare la manutenzione e l’attività di volo su un numero di velivoli decisamente inferiore a quelli in inventario. L’efficienza e l’efficacia, seppure su numeri più ridotti, sono state comunque incrementate, come si è potuto notare – in verità più da parte degli alleati che del nostro pubblico, considerate le limitazioni imposte dall’autorità politica alla pubblica informazione – in occasione delle recenti attività operative reali. Molto quindi è già stato fatto, ma, sotto la costrizione della disponibilità di risorse e cogliendo l’occasione delle due leggi è possibile proporre ulteriori misure riduttive, che salvaguardino efficienza, professionalità, integrabilità con le aeronautiche dei paesi alleati e di riferimento. Ovviamente, ad ulteriore discapito della dimensione, pur nel mantenimento della «dignità» operativa ed esistenziale della forza armata. Non è certo questa la sede per portare avanti un esame analitico per singolo settore, cosa che possono fare solo gli stati maggiori o gli enti tecnici, ma con un po’ di buon senso e di esperienza vissuta è tuttavia possibile formulare proposte e suggerimenti che, se recepiti all’interno dei decreti, potrebbero assicurare continuità al processo già in corso. Partendo anche in questo caso dall’ulteriore, anche se per l’Aeronautica non drammatica, riduzione del personale in funzione dell’obiettivo globale 2024/150 mila (Spending review più Riforma), si può innanzitutto affermare che i decreti, quindi il codice, debbano necessariamente prevedere di mutare gli equilibri interni in termini di ripartizione tra ufficiali, sottufficiali, truppa e personale civile. La prevista riduzione della presenza sul territorio, resa possibile dalle tecnologie informatiche e da una ulteriore razionalizzazione dei comandi, può consentire senza danno una

L’esempio citato per l’Aeronautica dimostra che il numero dei dirigenti militari in servizio è eccessivo, ma anche sostanzialmente riducibile. Non sarebbe improprio se con l’occasione della Riforma venisse preso in esame anche il numero dei dirigenti in congedo, si parla sempre di generali e colonnelli, che è a dir poco spropositato riduzione bilanciata degli organici, non lineare per categoria, bensì differenziata per esigenze diverse, nella misura globale media di circa il 25-27 per cento degli organici attuali. Ciò significa che all’Aeronautica, per operare nella dimensione del 2024, sarà sufficiente un organico di circa 34mila effettivi, contro quello vigente di 44mila. La riduzione da prevedere in decreto potrebbe quindi consistere in circa 300 unità per gli ufficiali, 2.500 per i marescialli, 8.500 per il ruolo sergenti, mentre rimarrebbe pressoché invariata la consistenza, già minima, dei graduati di truppa. Discorso a parte per il personale civile, consistente oggi in circa 4.500 persone, il cui numero – ai fini dell’assolvimento della missione della forza armata – potrebbe essere contratto in percentuale superiore alla media di quello militare. In previsione di tutto ciò, gli arruolamenti son già stati sensibilmente ridotti, e questo strumento non ha più margini di flessibilità. I decreti dovranno quindi trovare una compensazione graduale per non creare eccessivi squilibri transitori e frustrazioni. Va infatti considerato che, almeno in Aeronautica, la differente tempisti49


ca prevedibile per realizzare la contrazione strutturale (circa sei anni) e la riduzione del personale (circa 12 anni) determinerà in quest’arco temporale un’eccedenza di circa 5mila unità, di fatto non collocabili. Particolare è il caso della dirigenza (generali e colonnelli), che già con la Spending review subiranno un taglio sostanzioso, mediamente del 15 per cento. Più specificatamente, nella nuova struttura aeronautica sarà possibile ridurne il numero di circa 70 unità, di cui una ventina saranno i generali. Andare oltre i numeri indicati, e questo vale sopra tutto per la categoria degli ufficiali, potrebbe pregiudicare il soddisfacimento delle esigenze esterne, interforze e internazionali, che assorbono attualmente circa il 20 per cento della disponibilità. Ritornando a livello Difesa, l’esempio citato per l’Aeronautica dimostra che il numero dei dirigenti militari in servizio è eccessivo, ma anche sostanzialmente riducibile. Non sarebbe improprio se con l’occasione della Riforma venisse preso in esame anche il numero dei dirigenti in congedo, si parla sempre di generali e colonnelli, che è a dir poco spropositato. Per non dire ridicolo nella dimensione italiana, fattore di discriminazione tra categorie e fenomeno unico nell’amministrazione dello Stato, che oltretutto inflaziona di fronte all’opinione pubblica la credibilità dei gradi di vertice e delle relative carriere. Esiste, in effetti, uno sproporzionato «esercito» di generali in congedo delle tre forze armate, dei Carabinieri e della Guardia di finanza che in servizio non avevano mai avuto l’occasione di esercitare le funzioni del grado, non avendolo mai rivestito. È l’effetto perverso delle così dette «promozioni alla vigilia» volute dalla legge 224/86 (legge Angelini), nata quando alcune forze politiche cercavano di conquistare in ogni modo il consenso dei militari di grado elevato. È una legge che può essere senz’altro abolita, magari salvaguardando inizialmente qualche vantaggio economico, da riassorbire successivamente nella pensione. Parimenti, dopo l’incremento dei limiti di età ormai può essere abolito assieme ai relativi benefici anche l’istituto della così detta «posizione ausiliaria», oggi


dossier anacronistico e senza alcun senso pratico. Discorso interessante è quello della riduzione delle strutture territoriali e di comando e controllo. È un settore dove, nonostante i provvedimenti già portati a termine o intrapresi, si può fare ancora molto. Ma, qui, è importante anche la collaborazione delle forze politiche locali, che, mentre dagli scranni parlamentari a parole esortano alla riduzione, quando settimanalmente rientrano nel proprio collegio spesso si oppongono alla soppressione delle strutture che insistono sul territorio. È sempre accaduto ed accadrà ancora: gli esempi da illustrare potrebbero essere centinaia. Ciò che si dovrebbe sancire con decreto – ma per le ragioni appena indicate non è detto che si potrà compiutamente eseguire – è un progetto di «Governance aeronautica» che preveda una struttura di vertice in grado di semplificare i processi decisionali, interfacciare puntualmente le strutture di forza armata con quelle interforze e co-ubicare quelle territoriali. In questo contesto, fatte salve le competenze istituzionali del Comando operativo interforze – anch’esso da rivedere in termini di comando operativo delle tre componenti – è possibile e necessario concentrare in un unico centro di comando e controllo, a livello centrale, tutte le attività attualmente svolte dalle varie sale situazioni degli alti comandi e dello stato maggiore dell’Aeronautica.

Il discorso sui decreti sarebbe ancora lungo, ma in questa sede non può e non deve diventare analitico. Bisognerebbe, ad esempio, introdurre il concetto di manutenzione unificata – laddove compatibile – dei mezzi aerei omogenei (al momento lo sono alcune linee elicotteri) delle tre forze armate, dei Carabinieri e dei corpi dello stato, recepire o meno, ma ufficialmente, i concetti di «Smart defense, smart procurement e pooling and sharing», affrontando le conseguenti rilocazioni anche nel settore industriale. Anche qui, qualche indicazione in sede di decreto può essere data, visto che nel settore il termine «specializzazione» equivale, più o meno, a quello di «rivoluzione». Sarebbe poi necessario

Discorso interessante è quello della riduzione delle strutture territoriali e di comando e controllo. È un settore dove, nonostante i provvedimenti già portati a termine o intrapresi, si può fare ancora molto. Ma, qui, è importante anche la collaborazione delle forze politiche locali dare certezza almeno ai principali programmi in corso, che già sono stati pensati per soddisfare questi concetti, ma che devono continuamente attraversare campi minati ideologici o settari, prima ancora che finanziari. Infine – i tempi non sono affatto prematuri – andrebbe fatta una riflessione sul futuro della gestione militare della componente «spazio», le cui risorse andrebbero centralizzate per non disperdere risorse, expertise, capacità di controllo e di formulazione delle esigenze. Negli Usa ed in Israele, ad esempio, queste attività sono state delegate alle rispettive aeronautiche militari, che già gestiscono la componente aerospaziale. Da ultimo, andrebbe assicurata una continuità certa delle risorse, senza la quale nessuno strumento militare, ancorché ridotto, può essere moderno, integrabile con quelli alleati, interoperabile, economico, efficiente ed efficace. Va poi rammentato che ogni ristrutturazione all’inizio ha un costo, e che solo raramente sono possibili risparmi. Questi verranno dopo, a stabilizzazione avvenuta, ed è importante – la legge lo prevede a partire da un periodo successivo alla Spending review – che ritornino davvero nella disponibilità di chi è stato all’origine del circolo virtuoso. 51


Risk LA DIMENSIONE NAVALE DEL SISTEMA DI DIFESA NAZIONALE

MARINA MILITARE ANTICRISI DI •

N

FERDINANDO SANFELICE DI MONTEFORTE

essuna Marina nasce per caso, né solamente grazie alla volontà dei vertici di governo. Esistono precise condizioni, senza le quali nessuno strumento navale sarà in grado di prosperare. Diceva Alfred Thayer Mahan, a tale proposito: «il carattere di un grande popolo penetra nel carattere del suo governo e lo modella»1, aggiungendo poi che al mare si dedicano i grandi popoli che posseg-

gono spiccate attitudini per il commercio. Infatti, i traffici marittimi procurano ricchezza al proprio paese, e per la loro importanza e vulnerabilità necessitano di una marina militare che li protegga. Questo è il «Potere marittimo», un concetto di una validità talmente generale che, dopo la sua formulazione iniziale nel 1815 2, sotto il regno di Gioacchino Murat, fu ribadito anche dall’ammiraglio Sergey Gorshkov 3, un secolo e mezzo dopo, all’epoca dell’Unione Sovietica. Purtroppo, per dirla con le parole di un capo di Stato maggiore della Marina, in Italia «le signore sono convinte che il mare serva per farci i bagni e i mariti credono che fatto e spedito il prodotto, tutto sia finito. Invece, l’incerto ha principio proprio in quel momento»4. Questo spiega, nel nostro caso, la scarsa attenzione che l’opinione pubblica e la classe politica hanno dimostrato, più di una volta, verso i problemi del mare, che peraltro ci circonda e potrebbe essere la fonte della nostra ricchezza. A titolo di consolazione, va detto che esistono i presupposti affinché questa indifferenza passata si tramuti lentamente in interesse, nel futuro, dato che negli ultimi decenni la maggioranza della nostra popolazione – dopo secoli passati a rifugiarsi nelle montagne, lasciando da sole le nostre prospere e attive comunità marinare – sta finalmente riavvicinan52

dosi alle coste e alle attività sul mare. Ma le due citazioni appena riportate ci ricordano anche che ogni Marina deve svolgere un duplice ruolo: da un lato, essa è infatti parte dello strumento interforze, e quindi deve saper operare in sinergia e all’unisono con le altre componenti, mentre dall’altro ha il dovere di proteggere i propri commerci. Negli ultimi decenni abbiamo curato solo la prima componente, dedicando le risorse della difesa alla creazione di uno strumento navale «simmetrico», di supporto e sostegno al nostro numeroso esercito: quindi la Marina ha sviluppato, con i suoi limitati finanziamenti, solo la componente interforze. Si parlava di scarse risorse per la Marina. Questo è un problema ricorrente, nei 150 anni dall’unità d’Italia, tanto che la prima legge promozionale, resasi necessaria per rimediare alla grave decadenza dello strumento navale, risale al 1877 5. Ad essa, fu poi necessario dare seguiti ulteriori, con provvedimenti analoghi a un ritmo ventennale, sempre per lo stesso motivo, fino ai nostri giorni. Il primo problema dello strumento navale italiano è appunto lo stato di perenne anossia nel quale è tenuto. Dopo il 1949, un altro aspetto ha aggravato questa anossia: nella Nato della guerra fredda, infatti, la maggioranza delle risorse fu devoluta alla componente aeroterrestre dello strumento militare, e questo


dossier accadde in tutti i paesi dell’Europa occidentale, per effetto degli impegni presi nei confronti dell’alleato americano. Le Marine del Continente, di conseguenza, furono relegate nei ruoli sussidiari di scorta contro i sommergibili e di sminamento, mentre il Potere marittimo – con i vantaggi economici che comportava – diventò un’esclusiva di poche nazioni alleate. Nel tempo, quindi, gli strumenti militari europei si sono sbilanciati sempre più, perdendo il loro equilibrio e la loro capacità di fronteggiare situazioni diverse dalla «Terza Guerra Mondiale» che, per fortuna, non è scoppiata. Nel mondo attuale, però, non tutti ci amano, e non potendo contrastarci su terra hanno puntato al nostro punto debole, le Marine: infatti, la pirateria è tornata a colpire, dopo quasi un secolo dal suo declino, insieme al terrorismo, la cui dimensione navale non è stata affatto trascurabile. Si tratta di un approccio indiretto, degno dei più grandi teorici della strategia, che noi chiamiamo, piuttosto ingenuamente, «guerra asimmetrica» dimenticando che ogni buona strategia, mirata com’è a colpire il punto debole dell’avversario, non potrà mai essere «simmetrica». A questo si aggiunge il sorgere di nuove potenze, che subito hanno iniziato a sviluppare imponenti programmi di costruzioni navali, per affermarsi nei confronti dei più piccoli, oltre a confrontarsi nelle aree oceaniche contese. Di fronte a questa situazione, come accade quando mancano i soldi, le Marine – specie quelle europee – cercano sinergie e collaborazioni tra loro; i loro capi hanno infatti creato un «forum», quello dei «Chiefs of european navies», i Chens, per discutere come fronteggiare questa situazione, che rischia di compromettere seriamente il nostro futuro. Anche l’Europa, di fronte alla crescita di questi pericoli, si è preoccupata, commissionando studi su quali capacità siano necessarie per contenere e, se possibile invertire, queste tendenze negative. Il risultato è stato presentato nello scorso giugno ai paesi membri dell’European defence agency6, e indica la necessità di prendere provvedimenti signi-

ficativi, per mettere l’Europa in grado di garantire la propria sicurezza. Vediamo quali.

La Componente interforze Come abbiamo visto, negli ultimi decenni le Marine sono state indotte a concentrarsi anzitutto sulla componente destinata alla cooperazione interforze. L’esperienza pratica e le concezioni nazionali sono convergenti , a dimostrazione che esiste una sostanziale concordanza di idee. La struttura di questa parte degli strumenti navali europei si è infatti rapidamente consolidata in tre capacità principali: La protezione aerea dei contingenti terrestri oltremare, mediante l’aviazione imbarcata, unita alla capacità di appoggio di fuoco mediante aerei e cannoni; La manovra dal mare, in cui forze anfibie costituiscono l’avanguardia per spianare la strada al grosso, costituito dalle forze di spedizione terrestri; l’interdizione marittima, come forma di interferenza umanitaria, per indebolire un avversario – o una fazione – e sventare i suoi fini aggressivi. Ma le forze che svolgono queste funzioni non servono solo durante i conflitti, come nel caso della Libia: tra un’operazione e l’altra, esse si sono rivelate preziose per compiere numerose missioni di prevenzione, di suasion, di contenimento e soprattutto di soccorso umanitario. Si tratta di attività che attraggono di solito un’attenzione episodica, ma creano vincoli di amicizia durevoli: le navi maggiori, come gli incrociatori, le portaeromobili, e le navi anfibie hanno salvato moltissime vite, fin dal 1979. Si passa infatti dal soccorso ai boat people vietnamiti di quell’anno, a quelli per sostenere le popolazioni colpite dai terremoti di Gölcük, in Turchia e di Haiti, dalle inondazioni in Tunisia e dallo tsunami nell’Oceano Indiano, fino a comprendere il sostegno alle operazioni di pace in Albania, in Libano e a Timor Est. Quando gli interventi sono stati multinazionali, la partecipazione italiana è stata dapprima inevitabilmente limitata a fornire navi scorta, con compiti sussidiari, e poi – quando lo strumento delle Leggi promozionali del 1977 è entrato in linea – ha assunto 53


Risk carattere di complementarietà, dando all’Italia un ruolo non più unicamente subalterno, da semplice fornitore di «carne da cannone», bensì uno di maggiore dignità nei confronti degli «azionisti di maggioranza».La necessità, quindi, di una componente di questo genere, basata su un gruppo aeronavale, incentrato su una portaeromobili, integrato da un gruppo anfibio, è stata confermata dagli eventi. Si badi bene, questi gruppi, malgrado siano costituiti da navi costose e ad alte prestazioni, sono solo la riproduzione in miniatura delle analoghe formazioni delle Marine maggiori, per intenderci quella Usa e francese; in un ambiente oltremare, dove la minaccia non è oltremodo intensa, possono però ancora fare la loro parte, oltre a costituire una protezione assicurata per i nostri contingenti a terra, che altrimenti si trovano a dipendere dalla buona volontà altrui, non sempre disponibile. Ma questi gruppi servono anche per contenere le dispute tra le nuove potenze nel mondo, i cosiddetti Bric, sempre più in competizione tra loro. Solo così possiamo sperare di riuscire a pacificare le aree contestate, oltre che a sostenere i nostri diritti di accesso, nel rispetto dei principi dell’Onu.

La Protezione dei Commerci Lo sforzo per costruire la componente marittima per il sostegno alle operazioni interforze ha però comportato, in quasi tutte le Marine occidentali – escluse, in parte, le due maggiori – il decadimento delle capacità necessarie alla protezione dei commerci. Per costruire quelle navi di caratteristiche adeguate ai compiti conflittuali, si è dovuto rinunciare a quella «presenza numerosa» di unità, indispensabile per controllare l’alto mare, nelle zone attraversate dal nostro commercio marittimo, e prevenire attacchi ai mercantili. Questo ha creato una grave vulnerabilità, che nel tempo è divenuta talmente evidente da incoraggiare il risorgere della pirateria, dapprima lontano da noi, nel mar della Cina Meridionale e nello Stretto di Malacca, poi nell’Oceano Indiano e ora anche nel Golfo di Guinea. A questa minaccia – a 54

lungo sottovalutata – si è aggiunto l’uso del mare, a fini di terrorismo, da parte di gruppi come i Tamil e la «Marina di al Qaeda», che hanno causato tanti lutti. Questa debolezza era già stata rilevata, alcuni anni fa, dai capi delle Marine occidentali, tanto che nel 2005, al simposio annuale di Newport, negli Usa, si tentò di incoraggiare la «Marina delle Mille Navi», l’unione delle forze navali a livello mondiale, per contenere questi pericoli. Naturalmente, l’idea era di usare le navi di alte prestazioni, progettate per i conflitti – le uniche disponibili al momento – in attesa che i governi finanziassero quelle idonee al compito di controllo, che comunque esige prestazioni diverse. Ma questo appello cadde nel vuoto: non vi è infatti attenzione a un problema da parte dell’opinione pubblica finché non accada qualcosa di clamoroso, e solo nel 2008 – quando la pirateria era diventata una piaga vera e propria ormai da cinque anni – si è presa coscienza di questa situazione, tanto che l’Onu votò finalmente le risoluzioni per contenerne la diffusione. Mancavano però – e mancano ancora – gli strumenti, e precisamente quelle navi, i veri cavalli da tiro del controllo del mare, che sono i pattugliatori d’altura, noti con l’acronimo di Opv7, negli ultimi anni alcune nazioni hanno costruito queste navi semplici e quindi poco costose, ma in numero ancora troppo limitato, e oltretutto quelle completate finora sono, nella maggioranza, di dimensioni troppo ridotte per poter operare in presenza dell’onda lunga degli oceani. Si tratta di navi con un cannone e le attrezzature per utilizzare da bordo sia un elicottero – con pilota o del tipo Uav8 – sia un plotone di fanti di marina. Dotate di motori diesel, esse devono permanere a lungo in mare, pronte a proteggere i mercantili e intervenire in caso di attacco di pirati o terroristi. Negli spazi oceanici, solo un loro numero elevato può creare una rete di protezione sufficiente ed efficace a contenere la minaccia in mare aperto. Queste navi, però, devono essere sostenute da altre forze, per fronteggiare le minacce nei casi più complessi. Non ci si può illudere, infatti, che la prima contromisura adottata risulti decisiva


dossier per sempre: l’avversario studierà la contromossa, dando luogo a una spirale di violenza che va fronteggiata. Entrano quindi nel problema del controllo del mare altri tipi di nave, che potremmo definire «i Jolly», perché, grazie alla loro polivalenza, sono dei veri e propri moltiplicatori di forze.

Le unità Jolly Il sostegno ai pattugliatori deve essere assicurato anzitutto dalle navi anfibie, ideali per portare forze speciali a bordo: già in questi ultimi anni queste navi hanno risolto situazioni pericolose, come nel caso di un mercantile italiano liberato dai commando britannici, di base su una loro nave anfibia. Questa appunto è il primo e il più importante «Jolly» tuttofare, l’equivalente marittimo del noto «coltello svizzero»: le navi di questo tipo sono infatti in grado di sbarcare truppe in operazioni di pace, di soccorrere le popolazioni costiere, oltre che fornire il sostegno per sventare attacchi di pirati o terroristi. L’altro mezzo sempre più importante è il sommergibile, che è diventato il corrispondente marittimo della cavalleria, per la sua capacità di penetrare in zone dove il nemico ha le sue basi, in modo da dare tempestivamente l’allarme, non appena questi esca dal porto e, se necessario, contrastarlo. La sua silenziosità, insieme alla capacità di non dipendere per giorni dall’aria esterna, ne fanno appunto il mezzo per le missioni più delicate. Infine, altri due tipi di nave si stanno rivelando sempre più preziosi: si tratta anzitutto delle navi ospedale, essenziali a garantire il soccorso umanitario in caso di disastri di grave entità. Molte Marine hanno finora impiegato altri tipi di nave, adattandole a questo scopo, ma spesso questa soluzione ha mostrato i suoi limiti nel fronteggiare le calamità più serie. L’ultimo tipo di nave del quale si sente sempre più la necessità è la nave comando, in grado di dirigere operazioni di controllo in mari lontani, risparmiando le navi maggiori, il cui numero è inevitabilmente limitato, e che non sempre è possibile sottrarre ai loro compiti di sostegno alle operazio-

La continua crescita di impegni sul mare è soprattutto dovuta al fatto che la nostra sicurezza alimentare e quella energetica sono messe in pericolo. Chi le minaccia non sono solo i pirati, ma a questi si uniscono le potenze emergenti ni interforze. In questo caso, molto spesso non si tratta di una nave ad hoc, bensì di mezzi per svolgere la funzione di comando. La modularità delle istallazioni per questo ruolo, resa possibile dalle tecnologie moderne, consente infatti di attrezzare altri tipi di nave – anche mercantili - per svolgere questi compiti, ma questi moduli non sempre esistono, e vanno costruiti. La Marina italiana è stata la prima a trovare questa soluzione relativamente poco dispendiosa, ma efficace, attrezzando una nave logistica.

Le Navi logistiche e Specializzate Dietro le cosiddette «navi combattenti» deve infatti esistere un insieme di mezzi che garantisca loro una permanenza prolungata nelle aree di operazione. Si tratta essenzialmente dei rifornitori, sempre troppo pochi rispetto alle necessità, ma anche di navi specializzate per compiti essenziali, come quelle per lo sminamento: la prima offesa contro ogni intervento è infatti portata dalle mine, usate oggi a fini terroristici, nei passaggi obbligati – il Golfo di Suez è stato già interessato da un tale tipo di attacco – ma anche nelle zone prossime a quelle di probabile intervento, come nel caso del Golfo Persico. Il sostegno logistico, però, non si limita a questo. Lo sviluppo maggiore è dato dal sistema noto come «Sea basing», un insieme 55



dossier di navi trasporto e rifornimento per poter mantenere truppe in alto mare, pronte a far fronte in modo tempestivo a crisi in via di aggravamento. Questo sistema evita infatti problemi nelle relazioni internazionali, durante la delicata azione diplomatica per sventare il peggio, ma consente di intervenire tempestivamente – prima che gli eventi precipitino – in modo da ridurre l’entità e le perdite di ogni intervento di pace. Il duplice ruolo delle Marine viene ormai universalmente riconosciuto. Come afferma l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, «la visione strategica nazionale individua una funzione preventiva di homeland defence and security e una di intervento a carattere expeditionary»9. Per questo viene invocata da tempo una conformazione dello strumento navale nel senso del cosiddetto «High-low mix», con un nucleo dedicato a operazioni interforze, poco numeroso ma di alte prestazioni, integrato da mezzi in numero adeguato al controllo degli spazi oceanici. In effetti, la continua crescita di impegni sul mare è soprattutto dovuta al fatto che la nostra sicurezza alimentare e quella energetica sono messe in pericolo. Chi le minaccia non sono solo i pirati, ma a questi si uniscono le potenze emergenti che, nella loro contesa, cercano di coinvolgerci o danneggiarci. Questo è già accaduto nel Golfo Persico, con il mercantile Jolly Rubino ed è destinato ad accadere ancora; bisogna quindi compiere uno sforzo per adeguare le nostre capacità di gestire senza eccesso di violenza le nuove situazioni, che vedono da una parte i mercantili oggetto di attacchi sempre più frequenti e dall’altra l’aumento del numero di potenze che si fronteggiano sul mare. L’obiezione che viene naturale, e che ha portato ad adottare l’inefficace metodo degli uomini armati a bordo dei mercantili, per evitare il problema di costruire le navi necessarie, è relativa all’impossibilità di compiere un tale sforzo, nella situazione di crisi economica che stiamo attraversando. Questa situazione è vera, tanto che il governo del

premier Mario Monti, nel corso della «Spending review», ha anche tentato di bilanciare lo strumento militare, in modo da migliorare la nostra capacità di rispondere a queste minacce. In questo, egli ha agito a similitudine del presidente del consiglio Giovanni Giolitti, l’unico che provò a togliere fondi da una forza armata per darli a un’altra, invece di seguire l’approccio degli altri governi, dal 1877 al 1977, quello delle leggi promozionali. Infatti, troppo spesso si dimentica che un programma di costruzioni navali è da sempre il mezzo migliore per accelerare la ripresa economica: la cantieristica è infatti un settore industriale che unisce un elevato numero di occupati a un alto valore aggiunto. Non a caso, il precursore di questo tipo d’iniziativa fu il presidente Franklin Delano Roosevelt, che mise in cima al suo programma del New Deal proprio l’ammodernamento della Marina Usa. Non furono soldi male impiegati: senza un tale provvedimento, che fece ripartire l’economia americana, ridando competitività alla Marina, gli Stati Uniti non avrebbero potuto fronteggiare l’offensiva giapponese, arrestandola prima e costringendo poi alla resa l’Impero del Sol Levante. Anche le navi della Legge Navale del 1977 sono state preziose per gli embarghi in ex Jugoslavia, per le operazioni in Golfo Persico e per le tante missioni di pace di questi decenni, giustificando ampiamente lo sforzo compiuto all’epoca. 1

A. T. MAHAN. L’Influenza del Potere Marittimo sulla Storia. Ed. USMM, 1994, pag. 85. 2 G. ROCCO. Riflessioni sul Potere Marittimo. Ristampa a cura della Lega Navale Italiana, 1911. 3 S. G. GORSHKOV. The Sea Power of the State. Ed. Pergamon Press, 1979. 4 V. SPIGAI. Il Problema Navale Italiano. Ed. Forum Relazioni Internazionali, 2003, pag. 24. 5 F. SANFELICE di MONTEFORTE. La Regia Marina dopo Lissa, in RIVISTA MARITTIMA, luglio 1996, pag. 61. 6 Wise Pens International. Report to EDA on Future EU Maritime Operational Requirements and Planned Capabilities. March 2012. 7 La sigla OPV significa “Offshore Patrol Vessel”, appunto “Pattugliatore d’Altura”. 8 La sigla UAV significa “Unmanned Air Vehicle”, alias “Veicolo aereo non pilotato” 9 Prefazione dell’Amm. BINELLI MANTELLI a G. LATTANZI. Marina Militare. Ed. De Siena, 2012, pag. 8.

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Risk

S

cenari

SIRIA

IL DOMINO SIRIANO DI

ANTONIO PICASSO

he dire ancora della Siria? le frizioni con l’Iran diventino prioDue anni di guerra, 45mila ritarie. La guerra in Siria è una valmorti – ma per l’Onu sono vola di sfogo per tutte le espressioni oltre 60mila – un patrimonio di fanatismo islamico. Pochi sono i archeologico e culturale devastato, conflitti dell’epoca contemporanea per non parlare del flusso incontenila cui utilità è risultata così eterogebile di profughi all’interno del paese nea. Nemmeno la guerra civile libae fuori dalle sue frontiere. Questa è nese (1975-2000) ha riscosso un la Siria oggi. Di quella del domani interesse tanto particolare. Onde Damasco resiste sullo non ci è dato sapere. Né le forze in evitare il peggio, bisogna che la sfondo del confronto campo né la comunità internazionaSiria resti un mattatoio. Il cinismo è tra Riad e Teheran, le sembrano intenzionate a mettere confermato dall’ignavia occidentache sa bene che la caduta del dittatore uno stop allo scontro. Come spesso le, dall’intransigenza della Russia – farebbe ripartire accade in simili circostanze, le più di facciata che per convinzione l'onda delle riflessioni geopolitiche di ampio – dai modi di fare poco coerenti di "rivoluzioni". Ecco le tessere del domino respiro fanno spazio alle analisi tattutti i paesi mediorientali. mediorientale, tiche. Non si parla più del compito A corollario di tutto questo, media e tra guerra civile e conflitto mediatico di questa o quella potenza. Di un opinione pubblica hanno certamente ruolo di pacificatore, piuttosto che commesso un grave errore di valudi finanziatore di una delle parti contendenti. Non ci tazione. Ci ricordiamo dell’euforia che aveva coinsi sbilancia nemmeno più su come potrebbe essere volto un po’ tutti noi osservando le prime manifestala Siria dopo Assad, piuttosto che con Assad, ma a zioni di piazza Tahrir al Cairo? La rivoluzione dei conflitto finito. No, il dibattito è concentrato sul gelsomini in Tunisia, la primavera araba tra Egitto e calibro dei cannoni e sulla capacità distruttiva dei Libia e il dilagare delle proteste erano splendide. singoli proiettili sparati. Utilità del confronto intel- Eravamo affascinati dal moto liberatorio delle lettuale? Zero. Pura accademia. Come si è arrivati a popolazioni mediorientali. Il sud del Mediterraneo tutto questo? In due anni sono certamente maturati stava vivendo il suo 1848. Per noi era impossibile quegli interessi politici affinché il conflitto siriano restare immuni all’entusiasmo coinvolgente che restasse a una medio-bassa cottura. La guerra in arrivava su pc, tablet e smartphone, attraverso freSiria fa da diversivo al dilagare della rivoluzione nel netici tweet e post su Facebook. resto del mondo arabo. La guerra in Siria evita che Peccato. Abbiamo confuso il mezzo (i social net-

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scenari work) con l’oggetto, la rivoluzione. Ci siamo illusi che la pulizia morale e fisica data dalla tecnologia coincidesse con il candore degli avvenimenti. Abbiamo pensato che così come le notizie possono scorrere veloci su un display, altrettanto celermente – e magari senza dolore – si sarebbero conclusi i fatti rivoluzionari. Caduti Ben Ali, Mubarak e Gheddafi cos’altro c’era da fare? La rivoluzione era finita. Era già arrivato il momento di ricostruire. «E adesso tocca ad Assad». Così di leggeva su Facebook ai primi di febbraio del 2011. Gli avvenimenti subito successivi presero la velocità classica delle rivoluzioni. La gente scese in piazza a Dara’a. Tra manifestanti e polizia non si capisce chi fu il primo a sparare. Non è mai stato appurato e non lo sarà mai più. Intanto il presidente Assad si dichiarava disponibile alle riforme. I social network venivano svincolati dalla proverbiale censura che il regime Baath – prima con il padre Afez poi con Bashar el-Assad – aveva tenuto al guinzaglio il Paese. In una fase iniziale, sembrò che Damasco avesse gli anticorpi per evitare la sua Tahrir. Poi il baratro improvviso. Il blogger Tal al-Mallouhi venne arrestato perché sospettato di essere un informatore della Cia. I comandi provinciali delle forze di sicurezza persero il controllo della strada. E così pure le organizzazioni responsabili delle proteste pacifiche. Si cominciò a sparare, combattere, morire. Lo switch tra un evento entusiasmante – come sarebbe stato l’ingresso della Siria nel novero delle democrazie – e la guerra civile è apparso brevissimo. In un attimo i blocchi contrapposti serrarono i ranghi. Non si parlò più di riforme e aperture. Bensì di buoni (i rivoluzionari) e di cattivi, il sostenitori di Assad. La spaccatura dicotomica che ancora oggi sussiste ha avuto e mantiene la sua chiave di lettura contrapposta. C’è chi vede nei manifestanti delle pedine al soldo dei complottisti stranieri, mentre la Siria baathista assurgerebbe a baluardo difensivo contro le derive fondamentaliste dell’Islam. Salafiti, al-Qaeda, eccetera. In media stat virtus. Le banalità, proprio perché tali, hanno una loro forza

d’essere. È banale, ma è così. Una rivoluzione non si risolve in pochi mesi. Non ce lo dimostra la Siria di oggi. E nemmeno l’Egitto post-Mubarak. Bensì quel 1848 tutto europeo con cui abbiamo giocato alle analogie storiche due anni fa. La nostra primavera dei popoli, quella del risorgimento italiano, diede i suoi frutti tanti decenni dopo. Lo stesso accadrà in Medioriente. Il confronto storico offre un ulteriore punto di riflessione. Nel 1848, l’Europa della restaurazione post-napoleonica prese definitivamente atto della affermazione di due realtà ideologiche. E della loro irreversibilità. Erano le teorie nazionalistiche da un lato e progressiste dall’altro. Furono le barricate in Ungheria e Polonia e poi nel Regno Lombardoveneto a decretare il crepuscolo del principe di Metternich, fautore della Pax austriae e del ritorno all’antico regime. L’autodeterminazione dei popoli non austriaci e le loro tenaci lotte a svincolarsi dalla corona asburgica, nel 1848, raggiunsero il momento di più concreta e sistematica espressione. E mentre a Milano si combattevano le Cinque giornate, Karl Marx sceglieva l’iper-industrializzata Londra per pubblicare il suo «Manifesto del partito comunista». Così, nello stesso 1848, la società europea rendeva conto che, da quel momento ai decenni a venire, avrebbe dovuto fare i conti anche con il socialismo. Oltre che con i nazionalismi.

Se la Siria del marzo 2011 fosse stata davvero pronta alla democrazia, oggi non saremmo a scrivere di una guerra civile. Se gli oppositori fossero rimasti, com’erano all’inizio, dei puri giovani desiderosi di riforme, la cronaca odierna sarebbe diversa 59


Risk

La campagna di informazione scorretta sugli accadimenti siriani dovrebbe cessare al più presto. Tutti i media dovrebbero avere la stessa possibilità di lavorare in Siria in sicurezza, al fine di essere in grado di informare correttamente l’opinione pubblica internazionale prendendo in considerazione in modo imparziale e completo la pluralità delle voci e posizioni esistenti nel paese Avrebbe potuto combattere e contenere entrambe le ideologie. Senza mai riuscire ad arrestarli. Anzi, la sola possibilità sarebbe stata il compromesso. Oggi come allora, l’Islam politico rappresenta un processo irreversibile. Un nemico, ma anche un interlocutore. Un progetto politico contrario ai nostri schemi liberal-democratici, che ha saputo cavalcare i primi eventi della primavera araba. In Siria si sta assistendo né più né meno che alla estremizzazione di questo Islam. Come a Milano nel marzo 1848, quando il nome dell’Italia iniziò a far tremare i polsi a Francesco Giuseppe, per noi è il Corano – con le sue interpretazioni fanatiche – a infondere paure e paranoie. La ricostruzione degli eventi che hanno fatto da detonatore alla crisi siriana – gli scontri di Dara’a, Latakia, Idlib – chissà quando potrà essere oggetto di una realistica visione. Finora è la logica il solo strumento più adeguato per cercare di capire l’accaduto. Se la Siria del marzo 2011 fosse stata davvero pronta alla democrazia, oggi non saremmo a scrivere di una guerra 60

civile. Se gli oppositori fossero rimasti, com’erano all’inizio, dei puri giovani desiderosi di riforme, la cronaca odierna sarebbe diversa. Tuttavia, mentre le banalità vantano una loro struttura, la storia scritta con i «se» è solo manieristica. Sicché, visto che il passato prossimo prima di essere ricostruito bisogna che diventi remoto, non resta che abbandonarsi al presente e cercare di prevedere il futuro. Un’ambizione, questa, che però richiede una sprezzante consapevolezza. La Siria è tutto fuorché un mondo dalle previsioni di facile realizzazione. Anzi. A Damasco e dintorni si può dire tutto e il contrario di tutto. Però proviamoci.

Scenario 1:

la guerra continua. Per interesse della comunità internazionale, le forze in campo proseguono negli scontri. Sempre più cruenti e selvaggi. Un conflitto costantemente sull’orlo dell’escalation – ricorso alle armi chimiche, coinvolgimento diretto di Turchia, Israele e Iran – senza che però accada il peggio. Perché né la Nato, né la Russia, né tantomeno la Cina intendono sprecare risorse economiche e di uomini in una crisi mediorientale. La storia ci dimostra che in quell’area è meglio apparire come diplomaticamente impegnati, piuttosto che veramente presenti sul campo. È il disastro umanitario della Siria. Così come è successo in Libano trent’anni fa. Tutti facevano finta di adoperarsi per la pace. Questa poi è stata raggiunta solo dopo il declino fisico e morale dell’intero paese. Cosa resterebbe di una Siria in guerra per un numero imprecisato di anni? L’odio. Un sentimento di livore e vendetta che si trasmetterebbe di generazione in generazione. Perché il mio vicino di casa, con cui da bambino giocavo per strada, ho scoperto che è un alawita. Mentre io sono un sunnita. Quindi un musulmano puro e dogmatico. Oggi, quel mio amico d’infanzia ha stuprato mia sorella. Allora io ho ucciso suo cugino. Lui ha dato fuoco alla mia casa. Io gli ho disperso il bestiame. E così via. Lo abbiamo visto nell’ex Jugoslavia. L’intolleranza repressa per tanti anni, grazie alla presenza ingom-


brante di un regime autoritario, si è scatenata all’improvviso. E si è protratta per un decennio. Oggi, in quei Balcani annientati dalle guerre negli anni Novanta, la pace si è tradotta in un delicato equilibrio, pronto a crollare di fronte a ogni espressione di odio mai sopito.

Scenario 2: lo scontro subisce un’escalation che ne abbrevia i tempi. Le forze ribelli improvvisamente entrano a Damasco. Mentre all’estero, Russia e Iran mollano la presa perché stanchi di affiancare un regime condannato a morire. È la fine di Assad. Il presidente e i suoi ultimi fedelissimi combattono nel palazzo presidenziale. Stanza per stanza. Come a Berlino nel 1945, nella capitale siriana si consuma l’ultima pagina del Baath. La più nera. Il crollo di Assad diventa eroico. Quel giovane oftalmologo, timido e dai modi di fare tanto britannici, assurge al martirio. Per le tribù alawite, per i cristiani, per gli sciiti. Per tutti coloro che temono una Siria fondamentalista e salafita. L’opposizione nel frattempo si gode la vittoria. All’apparenza sono superati i contrasti al suo interno. La fazione confessionale e quella laica promettono la ricostruzione. Ma di che tipo? Una road map è, a tutt’oggi, esclusa dal dibattito politico. Altro non si dice che detronizzare Assad. Tuttavia, la domanda sarebbe tanto semplice: e dopo? Una volta caduto il regime, questa democrazia siriana – che anche giustamente avanza le sue pretese – quale identità avrebbe? Sarebbe come l’Egitto, dove a due anni dalla rivoluzione perfino i Fratelli musulmani, la forza politica meglio strutturata di tutto il Medioriente, non sono in grado di assicurare potere politico, stabilità economica e tanto meno il rispetto della vita umana? Nella Siria post-Assad, il caos politico sarebbe collaterale alla furia vendicativa nelle strade. Gli ex sostenitori del regime, alawiti e cristiani soprattutto, verrebbero prelevati casa per casa. All’utopica riconciliazione nazionale verrebbe contrapposta la rappresaglia. Piazze, stadi, scuole. Tutti i luoghi pubblici della Siria ver-


Risk rebbero imbrattati di sangue. Anche lì verrebbe resistenza agli estremismi che fanno parte dell’opinnestato il germe dell’odio. posizione ha tutta la sua ragion d’essere. Ma è anch’esso una fonte di odio. Quanto il regime di Scenario 3: Assad resiste e vince. È l’eventuali- Assad, nel caso dovesse vincere, saprebbe tenere a tà che solleva i maggiori dubbi. Non tanto per la freno i desideri di vendetta che serpeggiano nelle capacità operativa delle forze presidenziali, bensì minoranze etnico-confessionali? per le conseguenze future. Quanto il presidente e i Eppure alcuni timidi sforzi per arrivare alla pace suoi potrebbero rifarsi il maquillage e tornare pre- forse ci sono. Può sembrare strano, ma – di fronte sentabili di fronte all’opinione pubblica internazio- alle mani alzate di Europa, Russia e Stati Uniti – nale? Tuttavia, l’esercito siriano ha ancora qualche l’impegno più concreto è arrivato dall’Iran. Sì, dal asso tattico nella manica. L’esempio più recente è la cattivo dei cattivi. Da quello stato canaglia, per dirla formazione di una componente militare tutta fem- alla Bush, con cui non si può parlare e di cui è minile. Dal momento che la percentuale di uomini impossibile fidarsi. tra le fila delle forze armate si sta assottigliando, sia Sin dall’inizio, Teheran ha cercato di svolgere una a causa dell’alto tasso di mortalità sia per le diser- mediazione, per trovare una soluzione alla crisi zioni, circa cinquecento donne sono state inquadra- attraverso un atteggiamento dinamico nelle relaziote tra le nuove reclute. Al momento la loro unità è ni bilaterali e una stretta collaborazione con i protaancora in fase di addestramento, al campo Wadi al- gonisti regionali e internazionali. L’Iran, alleato traDahab, vicino Homs. E viene utilizzata in operazio- dizionale della Siria, ha sostenuto le iniziative delle ni di check point. Poi le «Leonesse per la difesa Nazioni Unite. Prima con Kofi Annan, poi con nazionale» saranno anch’esse impegnate, alla stre- Lakhtar Brahimi. Ha partecipato attivamente in gua dei commilitoni uomini, nel fronteggiare i ambito regionale insieme a Egitto, Turchia e Arabia ribelli. Quindi in prima linea. L’iniziativa riporta Saudita ai colloqui del Cairo, finalizzati al raggiunalla memoria le guardie del corpo del colonnello gimento di un cessate il fuoco e della stabilità della Gheddafi. In essa c’è ovviamente tanta propaganda. Siria. Per l’Iran, la soluzione deve essere politica. Il Un atto dimostrativo dell’unità nazionale, serrata suo piano ha come cardini la cessazione delle vioancora intorno ad Assad. Un gesto di laicismo con- lenze, il negoziato bipartisan e la fine del sostegno tro i guerriglieri islamisti più fanatici. Stando alle esterno ai gruppi radicali. Con la speranza che si prime notizie, sembra che le leonesse si accanisca- arrivi a un periodo di transizione e poi alle elezioni no soprattutto contro le donne che indossano il velo. parlamentari. Il fatto di coprirsi il volto verrebbe interpretato come una manifestazione di appartenenza al mondo La strategia di Teheran prevede sei punti salafita. Forse anche ad al-Qaeda. Per questo le leo- Arresto immediato di tutte le azioni violente e nesse spogliano le donne di quel velo compromet- armate sotto la supervisione dell’Onu. In questa tente. È la risposta intollerante al fondamentalista. fase il governo e tutti i gruppi armati di opposizioAnch’esso intollerante. ne dovrebbero porre fine immediatamente alle loro La Siria di Assad vincerà con le sue amazzoni? azioni militari, specie nelle zone abitate e collaboOppure grazie alla caparbietà di una società tradi- rare con Brahimi per stabilizzare la situazione sul zionalmente laica, caratterizzata da secoli di convi- territorio. Successivamente alla cessazione degli venza confessionale? Oggi a Damasco dicono che scontri, dovrebbe iniziare la distribuzione degli «quello siriano è un popolo civile, che mai si sotto- aiuti umanitari al popolo siriano in tutte le zone colmetterà di fronte a un Islam che non è Islam». La pite dai combattimenti. A garanzia di questo, sareb62


scenari be necessario sospendere le sanzioni economiche imposte alla Siria e creare i presupposti per il ritorno di tutti gli sfollati nei rispettivi luoghi di provenienza. Contemporaneamente agli sforzi verso la stabilizzazione, Teheran auspica l’avvio di un dialogo nazionale, con l’obiettivo di formare un comitato di riconciliazione nazionale con la partecipazione dei rappresentanti dei diversi gruppi di varia estrazione sociale e politica e del governo siriano. Questo dialogo a sua volta dovrebbe poter creare l’alveo adatto alla formazione di un governo di transizione riconosciuto da tutti, i cui compiti principali sarebbero limitati a indire libere elezioni sia presidenziali, sia parlamentari. Oltre che per la costituzione di un’assemblea costituente per la redazione della nuova carta costituzionale. Le persone arrestate solo per le loro pacifiche attività politiche, di qualsiasi provenienza politica o sociale, dovrebbero essere rilasciate al più presto, sia dal governo sia dai gruppi combattenti. Sarebbero invece i tribunali competenti ad avviare un giudizio equo e giusto contro coloro che sono accusati di azioni criminose. La campagna di informazione scorretta e fuorviante sugli accadimenti siriani dovrebbe cessare al più presto. Tutti i media dovrebbero avere la stessa possibilità di lavorare in Siria in sicurezza, al fine di essere in grado di informare correttamente l’opinione pubblica internazionale prendendo in considerazione in modo imparziale e completo la pluralità delle voci e posizioni esistenti nel paese. Dovrebbe essere istituito infine un comitato per la valutazione dei danni e dei costi della ricostruzione. Obiettivi prioritari del comitato dovrebbero essere la definizione delle modalità più corrette per attirare aiuti e investimenti stranieri. In un secondo momento sarebbe necessario determinare le priorità del processo di ricostruzione nel paese e infine stabilire modalità e caratteristiche della partecipazione di organizzazioni e paesi amici. È la posizione di Teheran, questa! Ci si sarebbe potuti soffermare sulla road map della Turchia. Per

L’Iran sa che, se Damasco dovesse cedere, sarebbero guai. Per la sua presenza sul Mediterraneo. Per la sua diplomazia in chiave internazionale. Venendo a mancare ormai l’ultimo alleato arabo, il suo isolamento sarebbe drammaticamente accresciuto. Tuttavia, a Teheran sanno che la caduta della Siria innescherebbe ancora una volta il domino delle primavere arabe alcuni aspetti uguale e contraria a quella iraniana. Tuttavia, la voce degli Ayatollah stavolta merita più attenzione del solito perché parla in maniera concreta. Scremandola dell’inevitabile sostegno ad Assad, essa si dimostra imbevuta del più genuino realismo. L’Iran sa che, se Damasco dovesse cedere, sarebbero guai. Per la sua presenza sul Mediterraneo. Per la sua diplomazia in chiave internazionale. Venendo a mancare ormai l’ultimo alleato arabo, il suo isolamento sarebbe drammaticamente accresciuto. Tuttavia, a Teheran sanno che la caduta della Siria innescherebbe ancora una volta il domino delle primavere arabe che non piace più a nessuno. E di nuovo ci si dovrebbe confrontare con il temuto Islam politico. Stavolta non a Damasco, bensì in Giordania e soprattutto nel Golfo. Dal paese dove sul Corano si è costruito un regime – rivoluzionario e teocratico insieme – arriva l’allarme più consapevole. 63


lo scacchiere

EUROPA/Parigi, giochi senza frontiere

Dietro l’attivismo francese, dalla Libia al Mali, c’è l’immobilismo europeo DI ALESSANDRO MARRONE

er la seconda volta in tre anni, la Francia interviene militarmente nell’Africa a nord dell’equatore, prima in Libia e poi in Mali. Il primo intervento ha messo in moto il meccanismo che ha portato al secondo, attraverso la destabilizzazione del Sahel seguita alla cacciata di Gheddafi e il flusso di armi e mercenari dal territorio libico non più sotto controllo statuale, che ha favorito prima il colpo di stato in Mali e poi la presa del nord del paese da parte di una coalizione di milizie, Tuareg e jihadisti. Nel 2011 la spinta interventista della presidenza Sarkozy aveva trovato un partner altrettanto deciso nel governo

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Cameron, un impegno americano decisivo nella prima fase delle operazioni, e un framework Nato per permettere una gestione più collegiale dell’operazione coinvolgendo anche i Paesi come l’Italia che più temevano una destabilizzazione della Libia. L’intervento in Mali ha seguito invece un’altra strada. Essendo il paese parte di quell’Africa francofona ex colonia di Parigi, con la quale il governo francese ha sempre mantenuto legami economici, politici e di sicurezza – inlcusa l’estrazione dell’uranio per le centrali nucleari – l’intervento unilaterale è stata la via maestra per Hollande. La risoluzione approvata a dicembre 2012 dal consiglio di Sicurezza dell’Onu era stata scritta in modo da rendere legale un intervento rapido nel caso il governo di Bamako non fosse stato in grado di contenere l’avanzata verso sud dei ribelli, intervento puntualmente avvenuto a gennaio sulla base di contingency plan e assetti militari francesi nella regione preparati con sufficiente anticipo. Come nel 2011, quando i caccia francesi si alzarono in volo verso Bengasi appena prima che iniziasse il vertice degli Amici della Libia che avrebbe sancito, di fatto ex post, l’intervento internazionale, in Mali la Francia non ha concertato l’intervento militare con gli altri paesi europei. Parigi aveva però in precedenza a lungo spinto per mobilitare l’Unione verso il Mali e in generale nella regione. La Strategia europea per la Sicurezza e lo Sviluppo del Sahel del 2011, e la pianificazione della missione Ue di addestramen-


scacchiere

to delle forze armate maliane decisa nel 2012, sono il frutto tanto dell’azione diplomatica francese quanto del riconoscimento da parte dei paesi europei che questa regione rientra nel vicinato che l’Europa ha interesse a mantenere stabile e sicuro. Riconoscimento che, anche a causa dell’opposizione della Germania, non è arrivato al punto di pianificare una missione militare robusta prima che la situazione sul terreno degenerasse a favore dei ribelli. Quanto l’interesse europeo ad una regione stabile e sicura verrà garantito dall’attuale intervento militare in Mali resta da vedere. Da un lato la Francia ha impedito la presa di Bamako da parte dei ribelli, ha causato la temporanea rottura della coalizione ribelle – con alcuni gruppi Tuareg pronti a schierarsi con chi è temporaneamente in vantaggio nel risiko africano – e ha portato alla riconquista di Timbuctù da parte delle forze filogovernative. Dall’altro lato gli stessi francesi riconoscono che l’intervento militare attuale non può durare in eterno, anzi per la precisione non può continuare «oltre dicembre», e che richiederà un supporto in termini logistici, di addestramento e operativo alle forze armate maliane, e più in generale di institution building del governo di Bamako, unito ad un’opera di mediazione tra i vari pezzi del mosaico maliano. Vista la complessità e l’onere della fase che seguirà i raid aerei, Parigi punta ad un coinvolgimento degli alleati europei e africani. Dal Vecchio Continente alcuni paesi – Belgio, Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Svezia – hanno fornito una manciata di velivoli per il trasporto aereo necessario all’operazione francese, mentre l’Ue ha lanciato la missione Eutm Mali di 200 addestratori, con un budget di 12,3 milioni di euro per 15 mesi. Non molto, e senza una chiara idea di cosa fare in Mali nel medio periodo. L’inadeguatezza dell’impegno europeo dipende da almeno tre cose. La prima è la mancata inclu-

sione nella Strategia per il Sahel di un impegno militare diretto e robusto in caso di crisi: il «comprehensive approach» europeo senza questo elemento non è affatto comprehensive e soprattutto non è efficace, perché se il Mali fosse caduto nelle mani dei ribelli la suddetta strategia sarebbe diventata inutile. Il secondo problema è la mancanza di strutture europee per la pianificazione e condotta di interventi militari del tipo attuato in Mali, che includano strumenti di monitoraggio dei teatri di potenziali crisi e meccanismi per la condivisione dell’intelligence. Il terzo elemento che manca è la volontà politica: elaborare e sottoscrivere buone strategie e dotarsi di strutture europee non serve se poi si ignorano entrambi – come nel caso dei Battle groups Ue, mai usati in sette anni di esistenza. O ci si dota di strategia, strutture e volontà di usarle, oppure il resto dell’Europa – inclusa l’Italia – può solo sperare che chi ce le ha, cioè la Francia, le usi bene e tra due anni non si debba spiegare come l’intervento in Mali abbia destabilizzato un altro stato africano.

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Americhe/tutte le strade portano a cuba Le ombre del tramonto di Castro e Chavez sull’America latina DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

160 anni dalla nascita di José Martí, poeta, pensatore e icona dell’indipendenza cubana, l’isola caraibica si trova al centro di una serie di partite di caratura internazionale, dal cui esito dipenderanno il processo di transizione verso il capitalismo e probabilmente la sopravvivenza stessa del regime castrista. È possibile identificarne almeno quattro: i rapporti con l’Europa, quelli con la nuova amministrazione Obama, l’esito del processo di pace tra le Farc e il governo colombiano, la convalescenza del presidente venezuelano Hugo Chávez. All’ultimo vertice dei capi di stato dell’Unione europea e dell’America Latina, Raúl Castro ha ricevuto dal presidente cileno e anfitrione dell’incontro Sebastián Piñera la presidenza pro tempore, per un anno, della nuova entità di coordinamento regionale: la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici (Celac). Il passaggio di consegne ha una forte carica simbolica, come a dire: in America latina convivono modelli economici e sistemi politici differenti, Cuba fa parte a pieno titolo del consesso regionale e rappresenta l’intera area caraibica. L’Europa ne prenda atto, e pazienza se il suo principale obiettivo al vertice di Santiago era ricevere rassicurazioni sulla tutela giuridica degli investimenti esteri. Nella scelta della presidenza cubana della Celac è chiaro il messaggio anche per la Casa Bianca: il Brasile e tutti gli altri governi latinoamericani non intendono assecondare l’isolamento diplomatico di Cuba. È vero anzi il contrario, come dimostra il fatto che l’ex presidente brasiliano Lula da Silva fosse l’ospite d’onore delle celebrazioni per José Martí. Nonostante la campagna elettorale statunitense abbia quasi completamente ignorato i rapporti con l’America latina, dopo 54 anni questi passano ancora in prima battuta per L’Avana. In terzo luogo, Cuba è la sede dei negoziati di pace tra il governo colombiano di Juan Manuel Santos e le Farc.

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Il risultato delle trattative influenzerà tanto la rielezione di Santos nel 2014 quanto il futuro della storica formazione guerrigliera, per la quale il sostegno ideologico del regime cubano è ormai l’ultima stampella diplomatica per sperare di trasformarsi in un movimento politico. Facilitare la pacificazione della Colombia rappresenta una carta importante che i Castro possono far valere su altri tavoli internazionali. Infine, e più importante di tutti, c’è il rapporto di Cuba con il Venezuela. Da più di due mesi il presidente rieletto Hugo Chávez non appare in video né comunica direttamente con la nazione. È all’Avana, sta lottando con un tumore che lo affligge dall’estate 2011. Il regime cubano gli garantisce un impenetrabile ermetismo informativo: nessun bollettino medico, solo speculazioni sul suo reale stato di salute. Il socialismo castrista rifornisce di sostanza ideologica la «rivoluzione bolivariana» di Chávez. In cambio, il Venezuela gira a Cuba 10 miliardi di dollari l’anno (dati dell’Istituto di studi cubani dell’Università di Miami), senza i quali l’economia dell’isola collasserebbe. Conscio della gravità della malattia, Chávez ha fatto anticipare le elezioni allo scorso ottobre, per vincerle e cercare quindi di pilotare una crisi politica dagli esiti incerti. Anche in questo caso, dietro le quinte i fratelli Castro giocano un ruolo centrale. Chi gestisce l’ordinaria amministrazione a Caracas è il vicepresidente Nicolás Maduro, uomo slegato dalle forze armate e dagli altri gruppi di potere che vorrebbero ritornare alle urne e troncare finalmente l’anacronistica dipendenza politica dall’Avana. Maduro risponde solo a Chávez, e proprio per questo è probabilmente la persona che offre maggiori garanzie di continuità nei rapporti con Cuba. Tutti questi eventi hanno aumentato la proiezione regionale di Cuba, e nei prossimi mesi si vedrà quanto Raúl e Fidel Castro saranno capaci di gestire e sfruttare questa situazione.


scacchiere

Africa/l’eliseo “pacifica” il mali jihadista Ancora una volta la Francia si attiva sul fronte africano DI

DAVIDE MATTEUCCI

11 gennaio la Francia è intervenuta militarmente in Mali. La decisione di Parigi ha fatto seguito all’esplicita richiesta di aiuto del governo di Bamako, dopo che l’offensiva dei ribelli era giunta a minacciare la capitale. Ai francesi sono servite circa tre settimane per fermare i ribelli e ristabilire il controllo sui principali centri urbani del nord (Gao, Timbuktù, Kidal). Raggiunti questi obiettivi, l’Eliseo ha ipotizzato un ridimensionamento della sua presenza militare, auspicando l’avvio di una missione di pace da parte dell’Onu e la formazione di un contingente africano a cui cedere il controllo del territorio. L’intervento francese è stato accolto favorevolmente dalla quasi totalità della comunità internazionale, preoccupata dall’avanzata dei gruppi jihadisti (Aqmi, Mujao, Ansar Dine), che avevano assunto il controllo delle regioni settentrionali del Mali. Le milizie islamiche sono state cacciate dalle città del nord, ma non sconfitte definitivamente: si sono rifugiate sulle montagne al confine con l’Algeria e continuano a costituire una minaccia per il Mali e l’intera regione. Perseguire il loro annientamento, affidandosi esclusivamente all’uso della forza, rischia però di far perdere di vista le vere ragioni della crisi maliana. A dare inizio alla ribellione del Nord contro il governo centrale nel gennaio del 2012 è stata infatti il Mouvement national pour la libération de l’Azawad (Mnla): un’organizzazione laica, nata sulla base delle rivendicazioni politiche e sociali che i Tuareg portano avanti fin da prima dell’indipendenza. Popolo nomade di origine berbera, i Tuareg si sono sempre sentiti discriminati all’interno dei confini statali imposti dal dominio coloniale, che ha privilegiato le etnie nere del sud. Dopo aver sconfitto a più riprese l’esercito di Bamako (dove nel frattempo andava in scena il golpe militare che ha portato alla formazione di un governo provvisorio) e aver procla-

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mato l’indipendenza del Nord del paese (il cosiddetto Azawad), l’Mnla è stato sopraffatto dai gruppi estremisti islamici ed estromesso dal potere. I jihadisti hanno dunque approfittato delle tensioni etniche causa dell’instabilità interna, per aprire un nuovo fronte della loro sfida all’Occidente. Gli estremisti islamici mirano soprattutto a mantenere il controllo dei ricchi traffici (droga, armi, esseri umani) che attraversano il Sahara e attirano l’interesse di attori di diversa natura (restano sospetti i legami tra il governo di Algeri, tiepido nei confronti dell’intervento francese e alcune componenti di Aqmi). Piuttosto che puntare sullo strumento militare occorre quindi cercare una soluzione politica alla crisi, eliminando le ragioni alla base dei rapporti tra le popolazioni settentrionali e gli estremisti. È necessario favorire il dialogo tra le autorità governative e i rappresentanti dei Tuareg, che chiedono maggiore autonomia. Una sfida tutt’altro che facile, resa ancor più complicata dall’oggettiva difficoltà di individuare chi tra i ribelli è realmente legittimato a parlare in nome del suo popolo. D’altronde, il debole governo provvisorio, come tale, è anch’esso in difetto di legittimità, essendo il risultato delle trattative con i golpisti e non di libere elezioni democratiche. In questo quadro, le organizzazioni regionali africane si sono dimostrate ancora una volta incapaci di gestire in modo autonomo le crisi che affliggono il continente. Il più volte ipotizzato intervento di truppe dei paesi dell’Africa Occidentale ha avuto inizio, in modo frammentario, solo successivamente e sulla scia di quello francese. Sventolando la bandiera della guerra globale al terrorismo islamico, la Francia ha così nuovamente esercitato il suo ruolo di gendarme nelle sue ex colonie africane, ribadendo la sua egemonia e salvaguardando i suoi forti interessi economici nella regione. 67


La storia

QUEI “BRAVI RAGAZZI” ALSERVIZIO DI NAPOLEONE di Virgilio Ilari e rileggo la Seconda Inattuale e rifletto sul concetto di «storia monumentale», mi sovviene dell’amico Marziano Brignoli, già direttore del Museo del Risorgimento di Milano. Gli sarebbe piaciuto che l’attuale esercito italiano avesse ricordato in qualche modo le tradizioni di quello cisalpino-italico del 17971814. Una mezza dozzina dei settanta reggimenti italiani al servizio di Napoleone sono ricordati da associazioni di re-enactor, incluso il «1° leggero italiano»: Marziano voleva però che lo facesse l’esercito, dando un nome napoleonico a qualche reggimento vero. Lui, storico della cavalleria, proponeva i «Dragoni regina», giubba verde con mostre rosa. Era il gemello dei «Dragoni Napoleone» e il ministro della guerra italiano aveva proposto di chiamarlo «Dragoni Josephine»; ma l’imperatore aveva giudicato «ridicule» intitolare un corpo militare a «une femme». In realtà i dragoni italiani erano i vecchi ussari cisalpini, tutti repubblicani e giacobini con tanto di orecchino, mustac-

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chi e capelli alla Bruto. La storia del reggimento fu scritta nel 1901 dal generale Eugenio De Rossi (1863-1929) e ripubblicata dieci anni dopo quando l’ufficio storico del Regio esercito, dovendo partecipare a vari convegni internazionali per il centenario delle guerre napoleoniche, promosse una serie di importanti studi sulle truppe italiane e napoletane della Grande Armée e sull’ultima difesa del Regno Italico nel 1813-14. Questo fu però l’unico tributo ufficiale alla memoria del primo esercito italiano fino al 1961, quando, per il centenario dell’Unità, il ministero della Difesa pubblicò un’eccellente sintesi della storia dell’esercito italiano «dal primo Tricolore al primo centenario». A dire il vero nel 1848 c’era stato un tentativo di stabilire una continuità ideale tra il primo esercito italiano napoleonico e il secondo «federale»: infatti quando Carlo Alberto entrò a Milano alla testa dell’Armata sarda il settuagenario Teodoro Lechi (1778-1866), già comandante della guardia di Napoleone Re d’Italia, gli consegnò le «aquile» dei


Teodoro Lechi da giovane e da vecchio

granatieri e dei carabinieri della guardia reale, ora mia, lo stato padano creato da Napoleone per puro conservate all’Armeria reale di Torino. I generali calcolo strategico. Fu mantenuto, con una diversa sardi però non lo gradirono, dopo il rospo imposto insegna, l’Ordine della Corona Ferrea, gli ufficiali da re Tentenna, che aveva liquidato la memoria italiani fecero ottime carriere e furono arciduchi e della più sanguinosa, eroica e nazionale di tutte le feldmarescialli a finanziare, con cavalleresche sotguerre sabaude (la tenace difesa del 1792-1796 con- toscrizioni, la pubblicazione della Storia delle camtro l’aggressione francese) e ricevuto in pompa pagne e degli assedi degl’Italiani in Spagna (1823) magna i traditori che avevano tifato per i francesi. dell’ufficiale del genio Camillo Vacani (1785-1862) Le cose furono chiarite pochi mesi dopo, con la e del saggio di Alessandro Zanoli (1779-1855), fucilazione del generale segretario generale del minimazziniano comandante la stero della guerra italico, L’impronta dell’età Divisione Volontari lombardi Sulla milizia cisalpino-italiagiacobina sulle nascenti e capro espiatorio della sconna (1845). forze armate italiche. fitta di Novara. A onorare la L’esordio non era stato esalAllora come oggi memoria del primo esercito tante. Nel gennaio 1799 l’esercito nazionale italiano, non fu il terzo, quell’Armée d’Italie contava era formato da soldati lo sabaudo del 1861, ma, appena 30mila ausiliari indidi mestiere, suddivisi paradossalmente, l’esercito geni (12mila piemontesi, austriaco, che ne incorporò i altrettanti cisalpini, 4mila in coorti ausiliarie resti nel 1814 ed ereditò, col liguri e 2.500 romani), quasi al seguito delle «legioni nome di Regno Lombardotutti già militari di carriera imperiali» Veneto e con larga autonosotto gli antichi regimi, e in 69


Risk una situazione militare, sociale e morale non migliore di quella dell’esercito di Salò. L’offensiva austro-russa vanificò il richiamo della milizia provinciale piemontese e la leva comunale di 9mila reclute cisalpine e 4mila romane. In compenso almeno centomila italiani (su 10 milioni) insorsero contro i francesi dalla Calabria al Piemonte e almeno 60mila insorgenti e civili furono uccisi in soli sette mesi: in rapporto alla popolazione e al numero di mesi, queste cifre sono il triplo dei partigiani e dei caduti della Resistenza del 1943-45.

Nel 1803 la coscrizione,

con adattamenti della legge francese, fu introdotta anche nella Repubblica italiana: la riforma non fu voluta dalla Francia, ma dal vicepresidente Francesco Melzi d’Eril (1753-1816), al duplice scopo di spurgare il paese dai mercenari e disertori professionali (riuniti in una «legione italiana» e subito spediti all’Elba) e dagli indisciplinati ausiliari polacchi (metà spediti a Santo Domingo e metà in Puglia) e di sgravare lo stato dal peso delle truppe francesi, attribuendo il compito di difendere la Repubblica ad una vera e forte «armata nazionale». La riforma fu perciò duramente osteggiata da Murat, allora comandante delle truppe in Italia, ma fu opportunisticamente accettata da Napoleone in vista della rottura della pace di Amiens, con l’intento – opposto a quello di Melzi – di impiegare i coscritti italiani all’estero (cominciando con l’invio di una Brigata in Puglia e di una Divisione all’Armata sulle coste della Manica) nonché nelle guarnigioni italiane più insalubri e micidiali (Mantova, Peschiera e Venezia), al fine di preservare le truppe francesi. In undici anni furono chiamati 159.466 coscritti italiani, di cui 31.200 nel primo triennio e 33.779 nel solo 1813: e inoltre 1.330 istriani, 9.566 dalmati e 8.067 marinai. Al ministero italico della guerra e marina si susseguirono il civile Birago (1797) e poi i generali Vignolle (1797-99), Polfranceschi (1800), Teulié (1801), Trivulzio (1802), Pino (1804), Caffarelli 70

(1806), Danna (1810) e Fontanelli (1811-14). Le capacità logistiche della Penisola furono potenziate dall’adozione dei sistemi amministrativi francesi, dalla creazione di grandi imprese appaltatrici, dall’aumento dei collegamenti stradali e fluviali. Il Regno contava 8 ospedali militari (con annesse spezierie e scuole di medicina) e 516 caserme, ridotte nel 1806 a 310, con una capienza di 100.568 uomini e 19.252 cavalli. Le manifatture di Gardone e Brescia produssero oltre 100mila fucili e la fonderia di Pavia (con laboratorio sperimentale) 542 bocche da fuoco e modernissimi razzi alla Congrève. A Pavia furono stabiliti un arsenale e scuole d’artiglieria e genio, e polverifici a Venezia, Lambrate, Marmirolo, Spilamberto e Sant’Eustachio (BS). Passato da 174 ufficiali nel 1810 a 315 nel 1813, lo stato maggiore cisalpino-italico ebbe in tutto 65 generali: 17 di divisione e 35 di brigata e 13 aiutanti. I “regnicoli” erano 37 (11 + 18 + 8 nei tre gradi), contro 7 di altri stati italiani (2+2+3), 12 francesi (1+10+1), 5 corsi (1+4+0), 2 polacchi (1+1+0), uno svizzero (Mainoni) e un aiutante svedese (Tibell, che tentò invano di acculturare gli ignorantissimi ufficiali italiani fondando a Milano la prima rivista militare italiana). Quattro (l’avvocato milanese Teulié, Peri, il corso Orsatelli e il francese Levié) caddero in combattimento, e due morirono per cause di servizio (il dalmata Milossevich e il romano Schiazzetti). Nel 1813 l’esercito italiano contava 3.229 ufficiali in servizio attivo: benché Napoleone avesse riservato un quarto dei posti cisalpini ai francesi, la quota degli italofoni (inclusi corsi e dalmati) aveva raggiunto il 72 per cento degli ufficiali della guardia reale e il 52 dell’artiglieria, il 54 dei generali, il 40 per cento degli ufficiali superiori di fanteria e il 60 dei parigrado di cavalleria. Nel 1816 il governo pontificio riconobbe 423 ufficiali ex-italici, 38 ex-francesi e 22 exnapoletani. Malgrado la provenienza da mestieri civili o dall’impegno politico di molti ufficiali nazionali e la ridotta leadership nei confronti delle truppe, e nonostante pochi fossero i generali in


storia grado di comandare una Divisione (i milanesi Pino, Teulié e Bonfanti, i bresciani Giuseppe e Teodoro Lechi, il mantovano Peyri, il modenese Fontanelli, l’emiliano Zucchi, il romagnolo Severoli, il romano Palombini), le prestazioni professionali dello stato maggiore italico furono nettamente superiori a quelle del napoletano, un misto di ex-repubblicani del 1799, ex-borbonici e francesi in gran parte senza speranza di carriera nell’esercito imperiale. La politica di Napoleone era di mescolare i contingenti degli stati satelliti, possibilmente riunendoli in brigate miste con unità francesi, per evitare che si facessero venire strane idee. Eccezionalmente, però, permise la formazione di Divisioni e perfino di Corpi d’armata nazionali. Vi furono così due Divisioni in Spagna (Catalogna e Aragona), due in Russia (15a Pino e Guardia reale, che assieme alla 13a e 14a francese e ad unità polacche, spagnole, dalmate e croate, formavano il IV Corpo della Grande Armée comandato dal viceré principe Eugenio), due unità in Germania nel 1813 (Brigata Zucchi e Divisione Peyri, poi Fontanelli) e quattro nella difesa del Regno italico del 1813-14. Ma fino all’ultimo Napoleone rifiutò l’ipotesi, suggerita da Fouché dopo la sua fuga da Lubiana, di promettere l’indipendenza italiana. Forse è un’invenzione che il principe Eugenio, replicando nel giugno 1812 alle proteste degli ufficiali di cavalleria italiani contro i favoritismi verso i francesi nella distribuzione dei foraggi, avesse detto «signori, ciò che volete non è possibile. E se non siete contenti, tornate pure in Italia, che non mi importa né di voi né di lei: sappiate che non temo più le vostre spade, che i vostri stiletti». Ma è certo che se sognava una corona era quella polacca, non l’italiana, rifiutata nell’aprile 1814 quando la borghesia milanese, istigata dal generale Pino, linciava per procura il ministro delle finanze Prina e pugnalava alle spalle i resti dell’esercito italico. Pochi mesi dopo, Domenico Pino e Giuseppe Lechi, i due despoti del vecchio esercito, tra loro fieramente avversi, si ritrovarono momentaneamente associati come tremebondi

sponsor della farsesca cospirazione dei colonnelli italici, ben monitorata dalla polizia austriaca, che surclassa il grottesco golpe Borghese del 1970.

Ad imitazione della guardia

imperiale, le guardie reali italiana e napoletana furono corpi con rango e paga privilegiati, composti di due distinte aliquote, una formata da veterani trasferiti per merito dalle truppe di linea, e l’altra da pseudo “volontari” che servivano a proprie spese tratti dai ceti dirigenti (ussari di requisizione, poi guardie d’onore) o benestanti (veliti), allo scopo dichiarato di «agguerrire» la società civile e di assicurarsene la fedeltà politica prendendo «in ostaggio» i suoi rampolli. Derivata da precedenti repubblicani (guardie del direttorio e del corpo legislativo cisalpini, guardia del governo, poi del vice-presidente e del presidente), la guardia reale di linea italiana (1805) raggiunse un massimo di 2.283 uomini e 980 cavalli nel 1812 (fanti, dragoni, gendarmi, artiglieri a cavallo e treno); nel 1806 si aggiunsero le guardie d’onore e i veliti reali (1806), nel 1810 i coscritti della guardia e nel 1812 i marinai. A parte un battaglione di veliti impiegato in Dalmazia e in Spagna e una divisione tenuta in riserva nel 1809, la guardia reale italiana combatté effettivamente solo in Russia (5.245 uomini e 1.737 cavalli) e poi – ricostituita quasi exnovo – nella campagna d’Illiria e d’Italia (181314). Comandata da Teodoro Lechi, vi transitarono 15.119 uomini (895 guardie d’onore, 3.679 veliti, 4.920 coscritti e 5.625 veterani di linea) con 281 decorati della corona ferrea su 1.118. Passata da 25 battaglioni di guerra nel 1806 a 48 nel 1808, la fanteria di linea e leggera italiana ne contava 66 nel maggio 1813, ridotti a 37 in dicembre. Oltre ai 7 reggimenti di linea e ai 4 leggeri, ne esistevano però altri 7 di fanteria (dalmata; coloniale dell’Elba; 2 volontari; guardia di Milano; guardia sedentaria di Venezia; veterani e invalidi), 6 di cavalleria (dragoni Regina e Napoleone e 1°- 4° cacciatori a cavallo) e 3 d’artiglieria (a piedi, a cavallo e del treno), più il battaglione zappatori e 26 compagnie sciolte (2 di 71


Aquile della Guardia reale italiana donate da Lechi a Carlo Alberto nel 1848 e conservate nell’Armeria Reale di Torino

bersaglieri volontari e 24 dipartimentali di riserva). A seguito della creazione delle Province Illiriche (1809) il Battaglione leggero Istriano fu sciolto, mentre il Reggimento Dalmato continuò a far parte dell’esercito italico come corpo «estero». Nel luglio 1814 fu immesso nella marina austro-veneziana, mentre i corpi italiani formarono 4 reggimenti di fanteria (N. 13, 23, 38 e 43), 4 battaglioni leggeri e 1 reggimento cavalleggeri (N. 7). Gli austriaci mantennero pure, delle tre legioni di gendarmeria italiane, quella di Milano. Forza militare specialmente addetta al controllo delle strade e alla repressione del banditismo, la gendarmeria fu, col code civil e l’amministrazione provinciale, una delle istituzioni più importanti esportate dalla Francia napoleonica e conservata dalla restaurazione. Le gendarmerie del triennio giacobino (romana, piemontese, ligure, napoletana) reclutate fra i patrioti, riflettevano la fase rivoluzionaria della gendarmerie nationale, cessata però con la riforma del 1798 che la sottopose ai prefetti. Fu questo il modello esteso all’Italia a partire dal 1801, e fu in particolare il generale Radet, emarginato dalla gendarmeria imperiale, a riformare la gendarmeria italica nel 1805 e ad impiantare la napoletana (1806). Passato alla storia per l’arresto di Pio VII (1808), cui chiese perdono alla restaurazione, vedeva la 72

gendarmeria come strumento di guerra di classe contro la plebe reazionaria e a favore della plutocrazia borghese. Tecnicamente obsoleta, ma forte nel 1797 di 214 unità, di cui 35 di primo rango, la flotta veneziana fu impiegata da Napoleone per il trasporto della spedizione in Egitto, e sul Nilo finì pure gran parte delle navi mercantili e da guerra liguri, toscane, romane e sarde. Nel 1802 l’ex-venetianische Marine venne fusa con la Triester Marine a formare la Regia Cesarea Marina austriaca (33 unità sottili e 500 marinai), ma nel gennaio 1806 fu trasferita al Regno d’Italia, formando la Reale Marina Italiana insieme alla Flottiglia italiana di Ravenna, (10 unità sottili e 800 uomini). Per ragioni corporative e assistenziali l’arsenale di marina non fu trasferito a Comacchio. Quello di Venezia, mal collegato al mare aperto, finì per vanificare il controllo delle coste adriatiche e ioniche e impedire l’acquisizione di un vero potere navale. Nel 1809 la marina italiana raggiunse il suo picco di forza, con 213 unità (3 fregate, 23 unità minori, 33 cannoniere e 154 unità locali) e 8.174 uomini (5.238 militari, 431 impiegati, 1.759 operai e 746 forzati), ma fu sempre tenuta in rispetto dalle periodiche crociere di pochi vascelli e fregate inglesi, che nel 1811 distrussero a Lissa la Divisione franco-italiana e incendiarono o catturarono nel 1808-12 3 fregate, 1


storia corvetta, 4 brick e 4 golette italiane. Inoltre la Flottiglia Dalmata fu separata dalla marina italiana e riunita con la marina triestina a formare la piccola marina illirica (1809-13). L’Arsenale di Venezia impostò ben 10 vascelli, di cui 6 per la marina francese, ma poté vararne solo 5 e l’unico (francese) uscito in mare fu subito catturato dagl’inglesi. Alla fine del 1813 la difesa della Laguna veneziana contava 3 vascelli, 2 fregate, 10 unità minori, 9 cannoniere e 71 piroghe. Il costo diretto pagato dall’Italia per le guerre del 1792-1815 si può stimare in circa 4 miliardi di franchi (314 miliardi di euro 2001, pari al 21 per cento del pil 2007). Le spese militari della Repubblica Cisalpina (3,7 milioni di abitanti) e del Regno Italico (6,5 milioni dal 1810) furono nel 17961814 di circa un miliardo, di cui il 45 per cento per le forze terrestri e navali francesi, con un’incidenza media del 59 per cento sulle uscite del 1804-11. Nell’esercito italiano servirono circa 200mila uomini con 5mila ufficiali, inclusi 40mila caduti e 50mila disertori, con una forza media di 9mila uomini e 1.500 cavalli sino al 1803, quando, con l’adozione della coscrizione obbligatoria, triplicarono a 24mila e 3.500. Nel 1807 l’esercito italiano contava 33.763 uomini, di cui 15.279 all’estero, contro 79.096 francesi stanziati nel Regno. Nel 1809 le cifre erano rispettivamente di 50mila, 20.464 e 37.356 e nel settembre 1813 l’esercito italiano raggiunse il picco massimo di 73mila uomini, di cui 36.816 all’estero. Ancora nel gennaio 1814 erano nel Regno 70mila soldati napoleonici: 45.025 (di cui 19.438 italici), con 4.100 cavalli e 52 cannoni, nell’Armée d’Italie, 11.575 negli ospedali e 14.473 nelle piazze assediate di Osoppo, Palmanova, Peschiera e Venezia. Oltre la metà dei 200mila italici furono impiegati all’Elba (1802-14), nel Regno di Napoli (1803-05 e 1806-07), in Dalmazia (1806-09), a Corfù (180714), sulle coste della Manica (1803-05) e di qui in Germania (1806-07), in Austria e Tirolo nel 1809, in Spagna nel 1808-13 (30.183), in Russia nel 1812 (27.397, inclusi 1.900 dalmati) e di nuovo in Germania nel 1813 (28.400). Degli 85.980 uomini e

19.827 cavalli inviati in Spagna, Russia e Germania ne tornarono inquadrati appena 12mila e mille. Presenti in molte grandi battaglie della Grande Armée e famosi per gli assedi di Colberg (1807), Gerona (1809) e Tarragona (1811), furono protagonisti a Maloyaroslavets (24 ottobre 1812), detta perciò «la battaglia degli italiani». Il diario del comandante del 2° di linea italiano ci tramanda lo scambio di battute tra l’Imperatore e Murat, passati il mattino seguente per il campo di battaglia coperto di cadaveri: «N: Cazzo, come mai avete potuto ammazzare tanta gente? M: Voilà le plaisir qu’on a de commander de si braves gens». Diciassette mesi prima, nella presa di Forte Olivo a Tarragona, furono soprattutto zappatori e granatieri italiani a compiere l’eccidio di 1.200 soldati spagnoli, a stento fermato dagli ufficiali che riuscirono a salvarne un migliaio. Se l’esercito e la marina dell’Italia unita hanno gelosamente custodito la loro esclusiva ascendenza sabauda, la storia «civile» della nazione ha interpretato l’età giacobina e napoleonica come «protorisorgimento». Il costo morale e sociale di una rivoluzione passiva, le stimmate indelebili impresse sul carattere nazionale, sono stati minimizzati come l’inizio di un processo di rigenerazione politica culminato nell’indipendenza e nell’unità nazionale. Oggi noi lo vediamo diversamente, dopo la senile rinuncia alla sovranità e un’unità imposta da ipocrisie diplomatiche e burocrazie vessatorie e parassitarie. Il misero coccige di quello che fu l’esercito nazionale oggi è formato, come quelli del triennio giacobino, da soldati di mestiere, sparpagliati in perdute coorti ausiliarie al seguito delle legioni imperiali, nell’indifferenza o nella collera impotente e disperata dei concittadini regrediti al tenore di vita di trent’anni fa. Oggi non abbiamo più fama di tagliagole. Le nostre ragazze che dai Mangusta mitragliano i Talebani non ammazzano più così tanta gente, quando giocano alla PlayStation ed Xbox come il principe Harry, cui «piace pensare di essere abbastanza utile coi (suoi) pollici». Voilà le plaisir qu’on a de commander de si braves filles. 73


la libreria


libreria

UNA STORIA DI FAMIGLIA TRA IMPERO E FASCISMO di Mario Arpino ntrato in libreria per spendere bene i venti minuti di anticipo che avevo sull’inizio di una riunione, approfittando della situazione per cercare qualcosa tra le novità da regalare per Natale, mi sono trovato a rigirarmi tra le mani l’ultimo libro di Lilli Gruber. Il titolo ed il sottotitolo mi hanno subito incuriosito, conoscendo le origini sudtirolesi (pardon, basso-atesine) dell’autrice ed avendo letto con piacevole interesse gli altri suoi libri, pubblicati fino al 2009 in ragione di uno all’anno. Ho immaginato che, trattandosi di una saga familiare riferita ad un’epoca ed un’area geografica abbastanza particolari, l’inconsueto spazio temporale intercorso dall’ultimo lavoro molto probabilmente era stato dedicato alla ricerca, e questo mi ha incuriosito ancora di più. Alla fine ne ho comperati due, uno da regalare e uno per me, che ho messo sotto l’albero. È scritto bene e l’ho letto con calma e cognizione di causa nei giorni dopo Natale, gustandolo fino in fondo. Anche questa volta, non sono rimasto deluso. Anch’io, come l’autrice, sono nato ed ho trascorso la fanciullezza e parte dell’adolescenza in un’area geografica del confine orientale – a poche centinaia di metri dalla Carinzia e un paio di chilometri dalla Slovenia – area che meno di un paio di decenni prima era ancora provincia dell’Impero asburgico. La mia famiglia ha un cognome italiano, ma mio padre era nato con cittadinanza austro-ungarica ed aveva frequentato le scuole dell’Impero in italiano, sloveno e tedesco, a Gorizia e a Lubiana. Parlava perfettamente le tre lingue. Anche quell’area, a similitudine del Trentino-Alto Adige decritto dalla Gruber, dopo l’8 settembre 1943 era dive-

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LILLI GRUBER Eredità Una storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo

Rizzoli pagine 350 • 18,50 euro È il novembre del 1918, e il mondo di Rosa Tiefenthaler è andato in frantumi. L’Impero austroungarico in cui è nata e vissuta non esiste più: con poche righe su un Trattato di pace la sua terra, il Sudtirolo, è passata all’Italia. Il libro racconta una saga familiare che si intreccia a un capitolo poco conosciuto del nostro Novecento. Una vicenda tutta al femminile che emoziona e sorprende: inattesa, profonda, viva. E la protagonista assiste impotente al naufragio di tutte le sue certezze. Intorno a lei, troppi si lasciano sedurre da un sogno pericoloso che si sta affacciando sulla scena europea: il nazismo.

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Risk nuta di fatto appendice del Terzo Reich, governata da un Gauleiter tedesco di nome Reiner, mentre la miniera di zinco dove era impiegato mio padre era commissariata da un irascibile prussiano – vederlo mi impressionava perché era senza un braccio, perso in Russia – di nome Konradi. Tuttavia, non ostante qualche analogia, sapevo che la storia del Tarvisiano e dell’Alto Friuli tra le due guerre differiva alquanto da quella delle province di Belluno, Trento e Bolzano, area denominata dai tedeschi Operationszone Alpenvorland, in italiano Zona operativa delle Prealpi. Il motivo per cui il libro ha suscitato la mia curiosità è quindi spiegato. Finora, come tanti altri italiani, del Trentino-Alto Adige conoscevo bene solo le incomparabili bellezze naturali che si aprono ai villeggianti, e anche un poco della sua storia, per lo più riferita alla letteratura della prima guerra mondiale. Quella che si legge a scuola senza ragionarvi su troppo nei libri di storia o si trova solo cripticamente disponibile nella storiografia ufficiale, che va sempre presa con le pinze. Leggere le vicende raccontate da Lilli Gruber mi è soprattutto servito a capire meglio, dopo quarant’anni che – tradendo il mio Tarvisiano – frequento la Val Pusteria, qualcosa che avevo comunque intuito, e sempre avvertito nell’aria: il carattere peculiare, il comportamento nei nostri confronti, i sentimenti e l’anima delle popolazioni altoatesine, ma anche trentine, di lingua tedesca. Anche se, talvolta, hanno un cognome italiano. È qualcosa di decisamente diverso dai luoghi dove sono nato. Infatti, se il cuore centrale di questo libro-ricerca sono gli accadimenti che condizionano la vita di una famiglia di lingua tedesca tra le due guerre e le traversie nei venti mesi che seguono l’8 settembre, ampio spazio è dedicato a un excursus storico sulle vicende nelle aree a sud della capitale del Tirolo, Innsbruck, che per questo la gente locale non smetterà mai di chiamare Sudtirolo. Così, si apprende quanto antichi fossero gli insediamenti di ceppo tedesco e come Trento, con popolazione di ceppo prevalentemente italiano e ladino, abbia goduto di un breve periodo di appartenenza al regno d’Italia napoleonico. Si comprende perché Andreas Hofer sia considerato 76

ancora oggi l’eroe del Tirolo e come, a seguito del congresso di Vienna, Trento sia stata definitivamente restituita all’Austria assieme a tutto il Tirolo. Nella città la pubblica amministrazione rimaneva tuttavia affidata a funzionari locali di lingua italiana, e ciò nell’Impero, formato da eterogenee popolazioni di undici lingue diverse, era prassi normale. A tratti, dalle pagine del libro emergono anche stacchi che ci aiutano a formarci idee probabilmente più precise, ovvero sfrondate da ogni contenuto retorico o ideologico, sulla vera portata dell’irredentismo trentino. Si comprendono allora la differenza delle prospettive offerte dall’azione del moderato Cesare Battisti piuttosto che da quella dell’estremista nazionalista Ettore Tolomei, notizie poco note sulla strage di cittadini sudtirolesi, di lingua italiana e tedesca, nei sanguinosi combattimenti contro i russi in Galizia e i maldestri tentativi di integrazione condotti dal fascismo. Si comprende anche in quale modo, non riuscendo a “purificare” lingua, costumi e cultura, d’accordo con la Germania nazista il fascismo aveva avviato tra i cittadini di lingua tedesca del Trentino-Alto Adige la politica delle opzioni di nazionalità. Tra questi, ci spiega la Gruber, all’incirca l’80 per cento (200 mila persone) scelse di andare, ma a causa dell’andamento della guerra solo 75 mila lasciarono effettivamente l’Italia, spesso rientrando clandestinamente. La popolazione restò divisa tra «Optanten» e Dableiber» (quelli che restano), con il risultato che questi ultimi cominciarono presto ad essere considerati cittadini di serie B sia dagli italiani che dai tedeschi. Questo è il contesto in cui si svolge la saga familiare, imperniata su microeventi locali che, però, ben si inquadrano – e quindi riflettono – i grandi eventi della storia. Una storia piccola, quella della famiglia, ed una storia grande, quella del Sudtirolo. Tutto lo spirito del libro lo troviamo concentrato nella seconda di copertina, che, come primo assaggio al lettore e senza pregiudicargli il piacere della lettura del testo, ci accingiamo a percorrere. Ci troviamo al novembre del 1918, quando il mondo di Rosa Tiefenthaler è andato in frantumi. L’Impero austroungarico in cui è nata e vissuta si è dissolto, ed il suo


libreria Sudtirolo è passato all’Italia. «Il nostro cuore e la nostra mente rimarranno tedeschi in eterno», scrive nel suo diari Rosa, la bisnonna di Lilli Gruber. In pochi anni l’annessione e il successivo avvento del fascismo cambiano il suo destino. Cominciano le persecuzioni per lei e per la sua famiglia, colpevoli di voler difendere la loro lingua e la loro identità: saranno arrestati, incarcerati, mandati al confino. Ma, attorno a lei, non sono pochi coloro che si lasciano sedurre da un sogno pericoloso che si sta affacciando sull’Europa, credendo – ma resteranno ben presto delusi – che il pensiero della riunificazione di tutto il Tirolo in un’unica Patria tedesca sia nella mente e nel cuore di Hitler. Nata austriaca, vissuta sotto l’Italia, morta all’ombra del Terzo Reich, Rosa è il simbolo dei tormenti di una terra di confine. Intrecciando testimonianze e documenti, lettere e memorie, ma senza volersi del tutto esimere di tentare – in alcuni casi – di romanzare felicemente la Storia, l’autrice apre ai lettori le porte di un Sudtirolo dilaniato e splendido, dietro cui si stagliano un’Italia presa nella morsa di una dittatura e un’Europa travolta dall’incubo e dalla realtà di due guerre mondiali. E lo fa con grande garbo, percorrendo il filo di un ricordo personale e collettivo in un’opera davvero appassionata, illuminata da una felice vena narrativa. Non solo storia, non solo cronaca, non solo ricerca: «Eredità» è anche un avvincente romanzo.Oggi la situazione è sostanzialmente cam-

biata, ma come dice Rosa nel suo diario, la popolazione di lingua tedesca continua, giustamente, a non voler disperdere le proprie radici culturali. L’autrice, in appendice, ce lo spiega cercando di farci comprendere il significato profondo che per i tedeschi ha il concetto di «heimat», una connotazione affettiva difficilmente traducibile che richiama il territorio dell’infanzia, la famiglia, gli affetti, i costumi e la lingua d’origine. La vita nella regione oggi è sufficientemente serena, ed i rapporti interetnici decisamente accettabili. Ma non ancora idilliaci, specie tra le etnie italo-ladine e quella, maggioritaria, con radici tedesche. Ma c’è di più, anche la Gruber lo ammette: all’analisi, la stessa etnia tedesca risulta come entità a se stante, con un rapporto non semplice perfino con i tedeschi d’oltralpe. Certo, il fascino di Innsbruk, di Vienna e persino di Berlino sono ancora avvertiti, ed avvertibili. Tuttavia, e questo è un fatto, i Sudtirolesi in definitiva appaiono come un’entità sociale conformata per essere autonoma o, quanto meno, dotata di un buon grado di autonomia amministrativa. Nell’ambito della regione a statuto speciale, anche quest’area dovrebbe aver finalmente trovato il suo equilibrio definitivo, ma i fantasmi del passato non sembrano ancora del tutto svaniti. Lilli Gruber conclude il suo libro con queste righe: «Rosa ha chiuso gli occhi pensando che i suoi sogni fossero morti, ma in realtà erano solo sospesi. I suoi sogni vivono ancora, e la storia non è finita».

DIECI MAESTRE SUL PIEDE DI GUERRA Storia tutta italiana del suffragio femminile di Giancristiano Desiderio

uando in Italia fu riconosciuto il diritto di voto alle donne? La risposta è scontata: nel 1946. È una risposta giusta ma anche sbagliata o, se si vuole, incompleta. Le prime elettrici italiane, infatti, furono dieci maestre – nove di Senigallia e una di Montemarciano – che nel

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1906 presentarono richiesta di inclusione nelle liste elettorali. La richiesta fu accolta il 28 maggio dalla commissione elettorale provinciale di Ancona. Successivamente, il 25 luglio 1906 la Corte di appello di Ancona, presieduta da Lodovico Mortara – che in seguito sarà ministro della Giustizia – accordò alle dieci maestre elementari il diritto di voto politico. La sentenza, per 77


Risk quel tempo, era qualcosa di più di una sentenza. Era uno scandalo. Ne seguirono polemiche, ma anche apprezzamenti, forse anche ragionamenti. Sta di fatto che – scandalo o non scandalo – quelle dieci donne coraggiose si videro riconosciuto il diritto per il quale avevano battagliato e in quanto iscritte nelle liste elettorali avrebbero potuto esercitarlo. Insomma, potevano votare. Ma non votarono e non aggiunsero i loro dieci voti a quelli dei circa 2.500.000 uomini che costituivano al tempo il corpo elettorale del Regno d’Italia. Non votarono per il più semplice dei motivi: perché non ce ne fu occasione. Al governo ritornò Giovanni Giolitti – meno male, ma non per la vicenda elettorale al femminile – che formò il suo terzo esecutivo, il cosiddetto «lungo ministero», assicurando al paese una stabilità di governo che permise di avviare quelle riforme di cui l’Italia aveva bisogno (e tra queste, se non sbaglio – ma vado a memoria – anche l’ampliamento del corpo elettorale). La Cassazione intervenne sulla sentenza Mortara e la storia delle prime elettrici italiane finì lì, sul nascere. Non solo non se ne fece più nulla ma non se ne seppe più nulla. Quando quaranta anni dopo le donne conquistarono il voto, nessuno ricordò la storia delle dieci prime elettrici italiane e per paradosso fu proprio quella conquista che fece dimenticare definitivamente la storia delle elettrici marchigiane. Ma se sto qui a parlarne vuol dire che la memoria è stata ritrovata, evidentemente.La casa editrice Liberilibri di Macerata ha pubblicato lo studio di Marco Severini intitolato Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane rendendo il giusto e doveroso omaggio alla memoria delle maestre che avrebbero voluto votare e che parteciparono attivamente al vivace dinamismo delle associazioni femminili che nell’Italia giolittiana si battevano per il riconoscimento dei diritti civili delle donne. È una ricerca scrupolosa, condotta sul campo che ha il non piccolo merito di aver ridato a quelle dieci donne un nome, una identità, un volto. Il libro non racconta solo la storia per come andò e 78

le polemiche, ma anche gli apprezzamenti, che suscitò. Fornisce anche per ognuna di quelle dieci donne un profilo. E, allora, è bene riportare anche in questa modesta recensione i loro nomi: Carola Bacchi, Palmira Bagaioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Graziola, Igina Matteucci, Emilia Simoncioni, Enrica Tesei, Dina Tosoni, Luigia Mandolini-Matteucci. Le dieci donne erano tutte di estrazione modesta. Le loro madri erano casalinghe, mentre i padri erano soprattutto impiegati e artigiani. Erano tutte in possesso di un diploma di scuola magistrale, ma tre di loro frequentavano corsi universitari. Furono isolate nella loro battaglia: la stampa conservatrice le derise, mentre la repubblicana e socialista timidamente le appoggiò. Il resto, come si può immaginare, le ignorò.Maria Montessori, anche lei marchigiana – la grande pedagogista che è tanto apprezzata e nota e valorizzata nel mondo quanto è quasi sconosciuta in Italia, così abbarbicata alla tradizione della scuola pan-statale – il 26 febbraio 1906 dalle colonne del giornale La vita lanciò un proclama ed esortò le donne a iscriversi nelle liste elettorali politiche, ribadendo un elementare concetto: nessun divieto era espressamente determinato dalla legge. Il proclama della Montessori, che fu diffuso e divulgato, ebbe vasta eco in tutta Italia. Lo storico Severini aggiunge un particolare significativo sulla pedagogista. Pur impegnata in una discussione critica con Anna Maria Mozzoni, che parlava di «Eva moderna», contrapponendole la «maternità sociale» di Maria di Nazareth, la Montessori affiancò la Mozzoni nella presentazione dell’ennesima petizione in Parlamento. L’effetto delle numerose richieste di iscrizione nelle liste elettorali fu che la vicenda suffragista, che fino a quel momento era stata considerata e dibattuta solo culturalmente e politicamente, si fece spazio nel dibattito sulla natura dell’ordinamento giuridico-costituzionale. Ma a farla entrare – è il caso di dire – di diritto fu, come detto, Lodovico Mortara che era uno dei maggiori giuri-


libreria sti italiani, assertore convinto, sulla base della sua formazione e alla luce di una concezione dinamica dell’ordinamento e dello stato, della centralità della figura del giudice che partecipava all’opera di creazione del diritto. La sentenza destò attenzioni varie: più critiche che consensi, ma questo era da mettersi in conto. Gaetano Mosca scrisse sul Corriere della Sera di aver sbagliato le sue previsioni, sostenendo che nessuna Corte avrebbe accolto i ricorsi per il voto femminile. I maggiori giuristi dell’epoca, da Vittorio Emanuele Orlando a Livio Minguzzi, da Manfredi Siotto Pintor a Giuseppe Favini, si opposero alla sentenza. Vittorio Emanuele Orlando in un suo intervento pubblicato su La Tribuna, pur riconoscendo sia l’autorità scientifica di Mortara sia la necessità da parte del Parlamento di varare riforme che venissero incontro al «vigoroso risveglio del movimento femminista in Italia», affermava che il diritto del voto alle donne «non fosse dalle leggi consentito», confermando così l’opinione che sulla questione aveva, a suo dire, «l’universalità degli italiani», sia favorevoli sia con-

trari. Insomma, il diritto riconosciuto, pur dibattuto e considerato, fu disconosciuto e tutto rientrò.Oggi, però, questa storia al femminile di oltre un secolo fa ha un valore che mi pare vada al di là della vicenda elettorale. In tempi di «quote rosa» – a proposito, la elegante copertina del libro è di uno splendido color rosa – il coraggio delle maestre marchigiane ci dice che il valore dell’azione politica e civile ha una qualità intrinseca che non dipende dalla riserva o dalla quota. Oggi le donne sono presenti in politica, in Parlamento e al governo: alcune per merito (come gli uomini), altre per demerito (come gli uomini) altre per altre virtù (come gli uomini). Ciò che in Italia ancora manca è la figura di una donna alla guida del governo: il primo ministro donna. Siamo un paese di mammoni che crede o finge di credere fino a quando gli fa comodo nella figura maschile del capo ma, ormai, anche qui i tempi sono maturi. Verrà anche il tempo in cui non sarà una notizia dire che il presidente del Consiglio è una donna. E un po’ di merito lo avranno anche le dieci maestre delle Marche, le prime elettrici italiane.

MARCO SEVERINI Dieci Donne LiberiLibri editore pagine 242 • 15 euro Il libro di Severini è il prodotto di una ricerca storica in rosa, dedicata a dieci figure femminili dimenticate: le prime elettrici italiane. Erano tutte marchigiane. La vicenda parte da una sentenza del 25 luglio 1906 della Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara (giurista e poi ministro della Giustizia), che accordò a dieci donne il diritto di voto politico. «Sfortunatamente», nei dieci mesi in cui restarono iscritte nelle liste elettorali dei relativi comuni di residenza, Adele, Carola, Dina, Emilia, Enrica, Giulia, Giuseppina, Iginia, Luigia e Palmira – questi i loro nomi – non ebbero modo di esercitare quel diritto (tra maggio 1906 e dicembre 1909 ci fu il ritorno al potere di Giovanni Giolitti col suo cosiddetto lungo ministero), e una successiva sentenza della Cassazione nel maggio 1907 lo annullò. Le dieci elettrici avevano molto in comune: un’età media di ventotto anni, un’estrazione sociale modesta, un brillante stato di servizio.

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del numero

MARIO ARPINO: generale (r), già capo di stato maggiore della Difesa GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore GIULIO FRATICELLI: generale (r), già capo di stato maggiore dell’Esercito RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America latina VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle istituzioni militari presso l’Università Cattolica di Milano CARLO JEAN: presidente del Centro studi di geopolitica economica, docente di Studi strategici presso l’Università LUISS «Guido Carli» di Roma ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso l’Istituto affari internazionali nell’area Sicurezza e difesa DAVIDE MATTEUCCI: esperto di questioni africane LUIGI RAMPONI: presidente del “Centro studi difesa e sicurezza” FERDINANDO SANFELICE DI MONTEFORTE: ammiraglio (r), docente di Storia delle istituzioni militari presso l’Università Cattolica di Milano STRANAMORE: analista militare e giornalista

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Una nuova politica per la Difesa Lettera aperta al ministro della Difesa MICHELE NONES

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Le ragioni del guerriero Geopolitica e militari in Italia CARLO JEAN

Riccardo Gefter Wondrich

Eserciti condivisi: conviene! L’evoluzione degli eserciti nel nostro Paese e in Europa LUIGI RAMPONI

Virgilio Ilari

FORZE ARMATE: QUALE FUTURO

Carlo Jean Alessandro Marrone Davide Matteucci

Il domino siriano

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Il dittatore di Damasco resiste sullo sfondo del confrontro tra Riad e Teheran ANTONIO PICASSO

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DIFESA E SICUREZZA NAZIONALE DI FRONTE A CRISI, NUOVA POLITICA E RIFORME Parigi, giochi senza frontiere Alessandro Marrone

Una storia di famiglia tra impero e fascismo Mario Arpino

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