Diego Arria, L'Espresso, febrero 2009

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PRIMO PIANO

Per sempre

CHAVEZ Ha vinto il referendum e regnerà a vita sul Venezuela. Ritratto di un dittatore populista. Tra moglie, amanti e amicizie pericolose DI ANTONIO CARLUCCI - FOTO DI FABIO CUTTICA Sopra e a destra: sostenitori di Chavez festeggiano a Caracas la vittoria nel referendum. A sinistra: il presidente Hugo Chavez

nato un nuovo dittatore. Il Fidel Castro del Ventunesimo secolo. Si chiama Hugo Rafael Chavez Frìas ed è stato autorizzato da un voto popolare a governare a vita il suo Paese, il Venezuela. Chavez, al potere da dieci anni, reincarna sotto forme moderne la tradizione latino-americana del Libertador, il rivoluzionario che si met-

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te alla testa del popolo per liberarlo dall’oppressione e poi lo imprigiona di nuovo, mostrando tutte le facce del potere assoluto e impadronendosi dello Stato in ogni sua articolazione. Chavez aveva già provato a dicembre del 2007 a chiedere un plebiscito per togliere dalla Costituzione il vincolo dei due mandati presidenziali. Ma era stato sconfitto con un margine di poco meno di tre punti percentuali. Adesso ce l’ha fatta. Come? Utiliz-

zando lo Stato come fosse sua proprietà privata, dai soldi alle strutture, dal tempo agli uomini, in un crescendo populista che ha pochi esempi nel mondo. Sotto lo sguardo compiacente del suo mentore Fidel Castro e di una festante claque che va dal presidente della Bolivia Evo Morales al leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, dal presidente dell’Ecuador Rafael Correa a quello dell’Iran Mahmud Ahmadinejad. Hugo Chavez è stato tutto e il suo contra-

L’espresso

rio dal 1992 a oggi. Un ufficiale golpista e un militare che mente ai suoi uomini dicendo che stanno andando a una parata invece che all’assalto del palazzo presidenziale. Il politico che in nome del socialismo promette l’inferno ai ladri e ai corruttori e poi lascia i suoi compagni di avventura liberi di rubare a man bassa. Un padre e marito premuroso e un ganimede impenitente che usa le guardie del corpo per proteggere le sue avventure di un’ora. L’uomo

26 febbraio 2009

che ama stare in mezzo al suo popolo allo stadio del baseball e colui che fugge a gambe levate quando quello stesso popolo lo contesta. Chi è stato accanto a lui negli ultimi 25 anni tratteggia un ritratto che, fotogramma per fotogramma, appare illogico e contraddittorio ma che, visto come un film, trova spiegazione nel delirio del potere assoluto.

Figlio di un maestro di campagna, Hugo Rafael nasce a Saboneta il 28 luglio 1954, nello Stato di Barinas, una regione sud occidentale del Venezuela. Per ragioni economiche, cresce nella casa della nonna paterna. Fin dalle scuole elementari fa grup-

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Nato in una famiglia povera, diventò soldato per sbarcare il lunario. Da lì è cominciata la sua ascesa

po fisso con altri tre ragazzi, innamorati persi come lui del baseball: Jesus Perez, che è stato suo ministro degli Esteri e ambasciatore all’Unesco e i fratelli Vladimir e Federico Guevara, figli di un maestro orgoglioso di aver insegnato ai ragazzi i rudimenti del comunismo. «Tra i primi libri che ho messo loro in mano», ha raccontato il maestro a Cristina Marcano e Alberto Barrera Tyszka, autori di una biografia di Chavez, «c’erano il “Contratto sociale” di Rousseau e “Il Principe” di Machiavelli». Magro, un po’ allampanato, soprannominato Tribilìn, il nome in spagnolo del disneyano Pippo, spende la sua vita a Barinas fino a quando, diciassettenne (1971), non entra nell’Accademia militare per la stessa ragione per cui era stato cresciuto dalla nonna. Problemi economici risolti affidandosi in questo caso alle cure dello Stato. È un Venezuela tranquillo, quello dei primi anni Settanta, non attraversato dalle aspirazioni rivoluzionarie che tormentano altri paesi latino americani e neanche dalla furia fascista di latifondisti e militari. Al potere c’è una sonnacchiosa Democrazia cristiana che governa quasi 25 milioni di venezuelani sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti. C’è il petrolio che arricchisce la borghesia locale, e questo basta a mandare avanti le cose senza preoccuparsi di larghi strati di povertà e analfabetismo. Per Chavez la carriera militare è un modo per sbarcare il lunario. Sulle sue performance esistono versioni differenti: chi lo ricorda ultimo della classe, chi sventola il suo punteggio più che decoroso, ottavo su settanta, ma aggiungendo che la pagella è stata riscrit-

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ta quando lui era già al potere. Cominciata la carriera da ufficiale, Chavez ne affianca subito un’altra da cospiratore. Con altri ufficiali comincia a sognare di ripulire il Paese come fece Fidel Castro a Cuba: questa volta nel nome di Simon Bolivar, il Libertador che mise fine al dominio coloniale spagnolo. Nasce l’Esercito Rivoluzionario Bolivariano, poi ribattezzato MRB-200, che però usa gli stessi metodi delle altre dittature fasciste latino americane ed entra in azione la notte del 2 febbraio 1992 per decapitare la presidenza di Carlos Andrés Perez. Tra errori, tradimenti e paure dei congiurati il golpe fallisce. Per Hugo Chavez si aprono le porte del carcere. Ed è la sua fortuna. Perché dalla cella comincia a costruire il personaggio che sei anni più tardi e solo dopo due di carcere darà la scalata a Palazzo Miraflores. Accanto ha la moglie Nancy Colmenares, affettuosamente ribattezzata La Negra, e i tre figli Rosa Virginia, Maria Gabriela e Huguito. Ma riceve regolarmente anche la visita di Herma Marksman con la quale convive dal 1984 e il cui rapporto si chiude nel 1993. La sua amante, nella cui abitazione di Caracas si erano svolte le riunioni dei congiurati, è furiosa per un’intervista nella quale Chavez parla così della moglie Nancy: «Senza di lei e il suo supporto non so come avrei potuto far crescere il movimento». Uscito di prigione licenzia Herma, formalizza la separazione dalla Negra con il divorzio e comincia una relazione con Marisabel Rodriguez, che è l’esatto contrario di Nancy, pelle bianca, occhi blu e capelli biondi. La sposa, ha una figlia (Rosinés) e una re-

lazione contrassegnata da burrasche e calme piatte: Marisabel ha ambizioni politiche (entra in Parlamento), vuol dire la sua su tutto, si atteggia perfino nel taglio di capelli a Evita Perón. La loro unione si conclude nel 2004 e ancora oggi si trascina tra liti e tribunali. Ma è nel 1998 che Hugo Chavez corona il suo sogno. Entra a Palazzo Miraflores, non con i carri armati ma con un voto popolare che fotografa il regime democristiano imploso per la sua inefficienza. Chi sia Chavez in quei giorni lo sa solo lui. «Non sono comunista, ma nemmeno anticomunista!». E poi: «Sono un bolivarista!». E ancora: «Mi danno del radicale, del rivoluzionario? Bene, è quello che sono e che devo essere!» Un occhio alla Terza via di Tony Blair, un ammiccamento alla rivoluzione cubana, un affondo anti-Usa, bisogna attendere fino al 2005 per vedere Chavez dichiararsi un socialista che vuole costruire in Venezuela il socialismo del Ventunesimo secolo. Il suo governo dei primi anni, sostenuto da consensi vicini all’80 per cento, si snoda tra

Un campo di golf e, sopra, un quartiere di Caracas. A destra: sostenitori di Chavez e, in alto, Diego Arria

Foto: Steve Pyke - Contour / Getty Images, Ap / La Presse

PRIMO PIANO mille contraddizioni. Minaccia di nazionalizzare tutto, ma poi è portato ad esempio dal Fondo monetario internazionale per l’applicazione dei consigli ricevuti. Crea una milizia popolare distribuendo Kalashnikov ai suoi sostenitori e sceglie come principale finanziatore della sua campagna Gustavo Cisneros, un magnate della televisione Venevisìon, un tipo che definirlo conservatore è quasi dargli del comunista (poi Chavez lo rinnega e lo accusa di essere un narcotrafficante). Fino al 2002, il presidente del Venezuela, che sarà oggetto di un golpe ispirato da Washington e che fallisce dopo due giorni, ha un problema irrisolto: non controlla ancora lo Stato e, soprattutto, l’industria petrolifera. Chi lo mette in condizioni di farlo, chi gli suggerisce le mosse giuste e gli fornisce i consiglieri è Fidel Castro. Tra i due nasce un feeling che oggi è un legame a filo doppio. Castro, abbandonato dai russi, con una crisi economica e politica che può farlo affondare, capisce che nelle sue mani Chavez è una gallina dalle uova d’oro. Ha il petrolio (e ne riceve subito quanto gliene serve), è un populista doc, è una spina nel fianco degli Stati Uniti. Castro ha finalmente un figlio naturale da coltivare. E per legarlo a sé, il vecchio Fidel usa un trucco da bambini. Prima di lasciare Caracas, sussurra all’orecchio di Chavez che i servizi segreti cubani hanno sventato due complotti. «Volevano ucciderti», gli dice. Caracas e il Venezuela cominciano a riempirsi di cubani. Aiuti nobili, medici, infermieri e maestri nelle poblaciones e nelle

Tempi duri per la libertà

colloquio con Diego Arria di Antonio Carlucci «C’è una grande delusione. In particolare nei giovani e negli studenti che si sono impegnati nel referendum. Per loro sapere che Chavez potrebbe essere presidente a vita, significa non avere speranza per il futuro». Parla Diego Arria, ex governatore di Caracas ed ex ambasciatore del Venezuela alle Nazioni Unite, oggi esponente dell’opposizione che cerca con tutte le sue forze di riunire tutti sotto un’unica bandiera. Il voto è stato regolare? «In quale Paese si chiama regolare un voto se il governo usa mezzi e soldi dello Stato come se fossero suoi per fare campagna elettorale? In Venezuela è accaduto questo, in altri paesi democratici non sarebbe potuto accadere». Come giudica il fatto che quasi il 34 per cento degli elettori non ha voluto votare? «Che esistono tre paesi differenti: uno chavista, uno anti-chavista e un terzo che non ha voglia di entrare nello scontro. L’opposizione avrebbe dovuto conquistare questi consensi per smascherare i piani di Chavez, ma non ne è stata capace». Perché? «Non è riuscita a elaborare e presentare una prospettiva politica alternativa a quella

campagne, si affiancano a presenze inquietanti, militari e spie che infestano palazzo Miraflores e i gangli vitali dello Stato. Dal 2002, Chavez affonda l’acceleratore della rivoluzione bolivarista. Cambia anche look per l’ennesima volta: se dalla divisa era passato al liqui-liqui, il costume popolare venezuelano, dalla camicie e pantaloni eleganti di un sarto portoghese della prima presidenza, vira sull’uniforme del Libertador del Ventunesimo secolo, ovvero maglietta o camicia rossa e pantaloni da addestramento, stile paramilitare. E segue le gesta del suo amico Fidel anche nel rapporto con il popolo. Chavez, che ha già una propensione naturale a discorsi senza fine, inaugura la stagione del monologo televisivo senza fine con “Alò Presidente!”. Nello stesso tempo stringe i suoi artigli sulla ricchezza del Venezuela: il petrolio. Chavez usa la Pdvsa, la compagnia petrolifera statale,

di Chavez che non fosse fondata solo sul no a Chavez. Senza prospettiva e programmi è difficile creare una maggioranza alternativa a quella attuale. Non è un caso che gli astenuti siano saliti dal 25 al 34 per cento rispetto al referendum del 2007 che Chavez perse». Questo vuole anche dire che l’opposizione non è unita? «Purtroppo sì, troppi gruppi si autodefiniscono l’opposizione a Chavez. Ma ci sono proprio poche idee su quale deve essere il progetto alternativo a un leader che gode di grande popolarità nel Paese, nonostante il suo governo non abbia fatto granché e ha goduto della stagione felice del petrolio a un prezzo superiore ai 100 dollari». Qual è il futuro del Venezuela? «Chavez continuerà a fare quello che ha fatto negli ultimi anni. Impadronirsi del potere in ogni sua forma piazzando i suoi fedeli dappertutto. È probabile che assisteremo a un assalto a quei giornali e a quelle televisioni che ancora parlano liberamente, che altre aziende saranno nazionalizzate e che gli spazi di libertà si restringeranno sempre di più».

come il suo bancomat. E dà il via libera all’assalto alle finanze dello Stato in nome del bolivarismo. Si crea così una classe di nuovi ricchi che giocano sul cambio del dollaro e sulle nazionalizzazioni che vengono chiamati i robolucionarios, dove robo vuol dire furto. Il petrolio, il cui prezzo in discesa comincia a creargli seri problemi di manovra, è anche lo strumento di politica estera continentale che serve a mettere in fila chi ha bisogno di denaro: l’Argentina, l’Ecuador, la Bolivia. Chavez non perde occasione di giocare partite pericolose: compra armi da Mosca, flirta con Ahmadinejad, finanzia i narcoterroristi delle Farc colombiane per poi recitare la parte di colui che vuole salvare gli ostaggi. L’obiettivo finale? Cambiare le regole del gioco. Ci prova varie volte su aspetti importanti ma non decisivi per il suo potere. E il risultato è promettente. Fino a quando non fa l’affondo su quello che più gli sta a cuore, la norma che impedisce di essere presidente per più di due volte. Va al referendum nel 2007, ma perde per un soffio. Ora ce l’ha fatta. State pur certi che da oggi in poi l’Hugo Chavez Show continuerà per un tempo che nessuno sa quanto potrà essere lungo. n

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