Plot magazine 1

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anno I / numerouno / settembre 2003 / euro 5,00

Plot storie per lo schermo / anno I / numerouno / settembre 2003

ISSN 1723-5057

La rivista di Affabula Readings / www.affabula.it


storie per lo schermo Rivista quadrimestrale/anno I/numerouno/settembre 2003 Registrazione Tribunale di Torino N°5716 del 21 luglio 2003 Direttore responsabile Alberto Barbera

SOMMARIO

Redazione Andrea Bisoli Stefano Boccardo Daniela Camisassi Biagio Cappiello Roberta Di Maggio Anna Gasco Helen Jardine Silvia Teresa Olivo Tiziana Ripani Mauro Sassi

Editoriale di Alberto Barbera

pag. 2

Plot, storie per lo schermo a cura della Redazione

pag. 3

Affabula Readings di Mauro Sassi

pag. 4

Segreteria di redazione Tiziana Ripani

RACCONTI

Responsabile Affabula Readings Mauro Sassi

E

Progetto grafico Antonino Varsallona

TRATTAMENTI

Illustrazioni e storyboard Claudia Amerio

Sottopressione di Fulvio Bergamin

pag. 7

Copertina da un’idea di Tiziana Ripani foto di Anna Jardine elaborazione di Gianpaolo Alciati

Giallo piombo di Francesco Ribolla

pag. 27

Latte dolce di Fernanda Moneta

pag. 39

Tic di Davide Puzzo

pag. 53

Frammenti di Anna Gasco

pag. 63

Amanti del crimine di Danzio Bonavia OPM

pag. 81

Ufficio stampa e promozione Daniela Camisassi Marta Franceschetti Redazione e amministrazione Associazione F.E.R.T. programma Affabula Readings Piazza Carignano 8 - 10123 Torino Tel. +39 011 532 463 Fax +39 011 531 490 E-mail: info@affabula.it www.affabula.it www.fert.org Editore Fert Rights srl Corso Peschiera 148 - 10138 Torino Stampa Arti Grafiche Giacone sas Viale Fasano 14 - 10023 Chieri (TO)

SOGGETTI

Distribuzione in libreria DIEST distribuzione Via Cavalcanti 11 - 10132 Torino Tel./Fax 011 898 11 64 L’elenco delle librerie dove è possibile trovare PLOT è pubblicato sul sito www.affabula.it Un particolare ringraziamento a Claudio Papalia e ad Elena Testa per i preziosi suggerimenti. ©Associazione F.E.R.T. Tutti i diritti di riproduzione dei materiali contenuti nella rivista sono riservati.

Anime migranti di Carlo Ghioni

pag. 89

Eurokonsult di Grazia Licari

pag. 91

Boycott di Davide Celli

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Come inviare i vostri progetti

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Qualche sera fa, a una domanda rivoltagli da una spettatrice durante un incontro pubblico – “Oggi è più difficile trovare i soldi o una buona idea per fare un film?” – Gabriele Salvatores ha risposto senza esitazione: “Una buona idea!”. È paradossalmente vero che, in tempi di crisi economica come quelli che stiamo attraversando, non sono tanto i finanziamenti (pubblici o privati) a far difetto al cinema, ma soprattutto i buoni soggetti e le buone sceneggiature. Altrimenti detto, resta il fatto che – dopo anni di magra per l’industria audiovisiva nazionale – una volta rimessa in condizione di affrontare la strada, la macchina del cinema italiano deve ancora fare i conti con problemi di approvvigionamento energetico. Insomma, c’è la carrozzeria, ci sono gli autisti, si sono messe insieme le gomme indispensabili per circolare, ma manca la benzina. E la benzina, nel cinema, sono per l’appunto le idee. Questa rivista, della quale tenete in mano il primo numero, si propone di dare un piccolo contributo a questa ricerca. Nelle intenzioni di chi l’ha progettata e realizzata, assomiglia un po’ a una lente di ingrandimento, a una lavagna. È uno spazio dove alcune (speriamo buone) idee vengono fissate o, per non uscire dalla metafora, “affisse”. Si mettono in mostra, si offrono alla lettura interessata di chi è in cerca di spunti, di suggestioni. Nella peggiore delle ipotesi – nel caso cioè che nessuno si dimostri intenzionato a realizzarle – potranno comunque aspirare ad avere una vita propria, come racconti che bastano a se stessi e al piacere dei lettori, che speriamo di trovare anche al di fuori della ristretta cerchia dei soliti addetti ai lavori. Quelle del primo numero sono storie di operai e impiegati che vengono sostituiti come pezzi di ricambio, storie di psicanalisti dilettanti alle prese con problemi troppo umani e troppo difficili, storie di integrazione e di disagio, fantapolitica e ribellione, contro una vita troppo povera e arida, contro il potere occulto delle multinazionali, per il gusto della sfida. Un’ultima considerazione. Non è un caso, forse, che questa rivista nasca a Torino dove, con singolare costanza mista a cocciutaggine, si cerca da sempre di ritagliare e difendere spazi per l’espressione di voci fuori dal coro. Dove esiste un festival nato vent’anni fa con l’intenzione di offrire visibilità a chi non l’aveva, e cresciuto al punto da far sentire la propria voce anche altrove. Dove si stanno sperimentando nuove forme di sviluppo e promozione della produzione cinematografica, dando vita a un distretto industriale della produzione audiovisiva del quale fanno parte, oltre al già citato Torino Film Festival, anche una delle più apprezzate Film Commission, il Museo Nazionale del Cinema, i nuovissimi studi Lumiq, e la F.E.R.T. Con l’ambizione, neppure troppo segreta, di favorire la rinascita di un’industria cinematografica nella città che il cinema, in Italia, l’ha visto nascere. Queste storie non vengono pubblicate per essere premiate, ma solo suggerite. Se qualche produttore trarrà giovamento dalla nostra iniziativa, vorrà dire che avremo raggiunto il nostro scopo. A quel punto, il gioco passerà nelle loro mani. Buona lettura a tutti. Alberto Barbera

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Plot, storie per lo schermo Il lavoro svolto in questi anni da Affabula Readings è stato un’opera di emersione e di illuminazione: dai cassetti degli autori alle mani degli editors, che devono illuminare in una storia i punti drammaturgici indispensabili, dalle scrivanie alle ribalte dei readings, il percorso dei progetti che abbiamo seguito deve approdare ai riflettori dei set. Oggi abbiamo deciso di editare una rivista. Pubblicare soggetti e trattamenti, lo sappiamo, significa confrontarsi con il problema della narrazione in forma cinematografica. Cosa rende queste storie interessanti agli occhi di un pubblico di lettori? Proprio il fatto che sono imperfette, a metà strada. Se hanno un valore letterario non è per essere letteratura, ma per comunicare meglio le loro intenzioni. Hanno un valore strumentale, certo. Per lo scrittore, per il produttore, per il regista e in generale per l’uomo di cinema, sono storie spogliate delle ambizioni letterarie, pronte per essere tradotte, rielaborate, comprese nelle loro potenzialità cinematografiche. Soprattutto questi racconti fanno intuire le atmosfere, i dialoghi, le facce degli attori, il colore degli sfondi. Leggendoli si ha la sensazione di avere tra le mani delle fotografie mosse, di ritrovare la freschezza delle istantanee. Qualcosa sembra sfuggire, eppure molto è suggerito e questo è il loro vero valore. Non è quindi soltanto ad un pubblico di lettori che Plot propone le sue storie. L’intenzione è quella di creare un ponte tra autori e produttori audiovisivi, di collegare ideazione, story editing e realizzazione dei film. Per questo motivo la rivista presenta testi a diversi stadi di sviluppo. Una sezione è dedicata ai soggetti, una ai trattamenti e ogni progetto è accompagnato da presentazioni tecniche degli editors e dell’autore, per facilitare nuovi, possibili contatti. Le storie sono state scelte perché suggeriscono contesti e punti di vista insoliti e originali. Ci interessano tutti i tipi di storie, quelle che raccontano l’Italia di oggi, ma anche quelle più fantastiche, che vogliono staccarsi dal filone più classico del cinema italiano, per raccogliere la sfida delle tecnologie digitali e dei media interattivi. Questa rivista non è altro che un’istantanea di quel cantiere a cielo aperto che è la redazione di Affabula. Prendiamo una manciata delle storie più preziose e proviamo a mettere loro le gambe, per dargli la possibilità di varcare le frontiere, quelle tra i Paesi e anche quelle tra le persone, prima che si dissolvano, a contatto con lo schermo, nel buio della sala. La Redazione

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Affabula Readings Tutto è iniziato nel 1999. Volevamo importare in Italia un sentimento diffuso nei Paesi anglosassoni verso la scrittura per il cinema, figlio di un approccio più pragmatico alla settima arte di quello imperante nel nostro Paese. Questo approccio ha un pregio fondamentale: crea un linguaggio comune che permette a scrittori e story editor di comunicare, di trasmettersi consigli e opinioni, di rendere la scrittura per lo schermo un percorso virtuoso, al cui sviluppo possono collaborare più persone. In pratica si tratta di condividere un metodo di lavoro, ma questo implica, per molti scrittori e sceneggiatori, un radicale cambio di prospettiva. In questi anni abbiamo cercato di convincere gli sceneggiatori italiani in erba (i professionisti lo sanno fin troppo bene) del fatto che una storia per lo schermo non può essere il parto di una sola mente. Chi vuole scrivere per il cinema non dovrebbe pensare di creare un prodotto su cui l’autore ha diritto di vita e di morte, controllo pieno delle potenzialità e degli effetti. Tutti gli sceneggiatori hanno bisogno di qualcuno a cui raccontare una trama, o leggere un dialogo, qualcuno che giudichi se i personaggi sono vivi e attraenti, se la storia è avvincente e ben scritta. Non è solo una questione di rispetto delle regole drammaturgiche, dei canoni di genere, o delle aspettative del pubblico, è qualcosa che ha a che fare con la natura stessa del prodotto audiovisivo che ha bisogno di tanti imprevedibili interventi prima di diventare definitivo e che diventa definitivo solo quando è impresso sulla pellicola, non sulla carta. Affabula Readings ha offerto e continua ad offrire un servizio di story editing agli sceneggiatori con una storia in fase di sviluppo, perché ci siamo resi conto che troppo pochi progetti godono in Italia, ancora oggi, di questo fondamentale aiuto e perché sappiamo che uno sceneggiatore che non sia mai passato attraverso questa fase di lavoro non si rende conto di come può e deve cambiare una storia quando si confronta con le esigenze di un produttore. In un certo senso abbiamo fatto un lavoro di formazione. La nostra speranza è che questo lavoro contribuisca a creare una generazione di sceneggiatori italiani con una più spontanea e serena familiarità con le regole della drammaturgia e con lo story editing. In quattro anni abbiamo raccolto diverse centinaia di progetti di ogni genere, da autori di ogni parte d’Italia, organizzato decine di readings, nei caffè, alla Mostra del Cinema, al Torino Film Festival, alla Fiera del Libro, alla Biennale dei Giovani Artisti. Tra i progetti che abbiamo contribuito a sviluppare uno è stato girato (Confezioni Fez, documentario di Francesca Borghetti), due soggetti per lungometraggio sono stati acquistati e sono attualmente in produzione (Il sentiero del gatto di Vittorio Moroni e Sovrano invisibile di Francesco Ribolla), altri hanno ricevuto premi, altri sono stati opzionati. Crediamo di fare un servizio utile, nient’altro. Se sei un produttore, magari scorrendo queste pagine troverai il soggetto che stavi cercando, se sei un autore troverai esempi di storie che stanno maturando e l’indirizzo di un gruppo di persone che vuole leggere il tuo progetto e farlo crescere. In ogni caso, se ami il cinema, non avrai perso tempo. Mauro Sassi

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RACCONTI E TRATTAMENTI

Sottopressione

Giallo piombo

Latte dolce

Tic

Frammenti

Amanti del crimine

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SOTTOPRESSIONE Un viaggio nella coscienza umana di Fulvio Bergamin PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: SATIRA SOCIALE

Con Fulvio Bergamin entriamo nel mondo del lavoro. Di più: entriamo dentro la fabbrica. Se escludiamo qualche raro esempio, come il film francese Ressources Humaines, è una realtà che da tempo nessuno ci fa più vedere. Sottopressione è una commedia, attuale e cattiva quanto basta. Quando abbiamo chiesto a Fulvio chi era il suo regista preferito, ci ha risposto Ken Loach. Ma non aspettiamoci una storia realista. L'autore la realtà preferisce esasperarla e in questo modo ce la fa sentire ancora più vera. Sottopressione ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura al Sonar Film Festival 2003.

Un giorno arrivi in ufficio, ti siedi alla scrivania, accendi il computer. Come il giorno prima, come tanti giorni prima. Ma quella mattina c'è nell'aria qualcosa di diverso, di strano. Di impercettibilmente ostile. Sarà quel dirigente che in corridoio non ti ha salutato, tutto preso dai suoi pensieri. Saranno i colleghi che non ti hanno invitato a prendere il caffè con loro. Che strano, ti chiamano sempre. Forse qualcosa si è spezzato fra te e il tuo ambiente di lavoro. Forse qualcuno ha deciso di farti la guerra, di isolarti, di eliminarti dal gruppo… Lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona che è, o è divenuta, in qualche modo “scomoda”, distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni. Staccandosi dal luogo comune che vuole la vita degli operai “semplice” e “normale”, questa storia si propone di affrontare il tema del mobbing mostrando una società sull'orlo del collasso, in cui ogni elemento, ogni personaggio, dagli operai della fabbrica allo stesso protagonista, sono perennemente in bilico. Fulvio Bergamin

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Nonostante tutto mi hanno fatto studiare. A scuola ero una schiappa, ma a fare i temi ero bravissimo. Ricordo lo stupore dipinto sulle facce dei miei compagnucci tutte le volte che prendevo un otto. Non riuscivano a capire come ci riuscissi, tutte le volte, a prendere otto nel tema, io che ero solo, e sono ancora, una schiappa discreta. Allora parlavano di naturale predisposizione per la scrittura, ma sapevamo bene tutti quanti che non era affatto così. In realtà la ragione era un'altra: mentre loro si sforzavano di scrivere la cosa giusta io mi sforzavo d'essere divertente. Non che riuscissi ad esserlo veramente, divertente. Ma il professore aveva l'aria di uno che passava le serate sul divano sgranocchiando pollo davanti alla tv e allora questo mio sforzo lo apprezzava sempre. Avevo sempre desiderato scrivere un raccontino che parlasse di tutte quelle persone che passavano la vita cercando di scrivere la cosa giusta, di dire la cosa giusta o di trovare il momento giusto per dirla, di trovare la donna giusta, le scarpe giuste, gli occhiali giusti, la musica giusta, la casa giusta, il lavoro giusto. Ma ogni volta che prendevo la penna in mano mi ricordavo di non saper scrivere. Non era il mestiere per me. Il lavoro giusto. Se crescevi nel mio paese, a Valdagno, il lavoro giusto era uno solo: all'industria Barzotto, una fabbrica di pannolini. L'industria Barzotto si ergeva solenne sulla valle e sulle centinaia di case che le stavano attorno come dei funghetti ai piedi di una quercia. La Barzotto era per Valdagno quello che la torre Eiffel era per Parigi: la potevi vedere da ogni posizione. La mattina, quando mi alzavo, guardavo fuori dalla finestra e io sapevo che ero uno di quelli che avevano trovato il lavoro giusto. Non facevo mai colazione. Mi svegliavo, mi lavavo i denti, mi chiudevo in macchina, mi dirigevo fuori dal centro ed imboccavo la tangenziale. Mi immergevo nel traffico delle sette. Con le mani fredde, ne fumavo una dietro l'altra, come invasato, non sentendone nemmeno il sapore, e cambiavo continuamente corsia, senza ragione, come per cercare ossigeno e non rimanere soffocato. Poi svoltavo a destra. Mettevo in bocca una caramella e gettavo la sigaretta e, quando svoltavo a destra, c'era questa strada molto lunga che portava all'industria Barzotto. Senza file ai semafori. Senza strombazzi. Senza incroci, senza ingorghi. Senza lamiere accartocciate sui bordi. Si poteva vedere il sole, basso all'orizzonte, esattamente come negli spot delle automobili, dove non c'è mai traffico. Questa strada la percorrevo tutti i giorni per andare a lavorare, questa strada molto lunga che portava all'industria Barzotto. Questa strada dove non c'era mai traffico. E quando la percorrevo io mi sentivo come se qualche bastardo mi avesse improvvisamente proiettato dentro ad uno spot della Mercedes, guardavo il sole basso all'orizzonte e la tristezza cominciava a scorrermi addosso; scendeva dalla fronte, passava per il collo e cincischiava sull'ombelico, attraversava lo stinco e finiva dritta dritta sul piede, che diventava sempre più pesante sull'acceleratore. Non vedevo mai nessuna macchina davanti a me. Né dietro. C'erano mattine che non riuscivo a sopportarlo. E sbandavo; sull'asfalto chilometri di deserto, ma durava solo qualche attimo questo bisogno di chiudere gli occhi. La morte me l'ha mostrata mio padre da bambino. E in quegli attimi in cui guidavo con gli occhi chiusi, vedevo una vecchia distesa sul letto e mio padre che le accarezzava il viso mentre mi guardava: la nonna è morta ripeteva

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la nonna è morta lo diceva sorridendo come se si trattasse di una cosa buffa come se fosse scivolata sulla neve e a me scappava da ridere la nonna è morta quanto deve essere costato a mio padre dirmelo sorridendo. Venne mia zia ad afferrarmi per un braccio e a trascinarmi fuori. Non ho mai saputo cosa avesse fatto mio padre subito dopo. Era scoppiato a piangere? Si era ubriacato? Aveva preso mia madre e l'aveva portata in camera a fare l'amore? Avrei dovuto pensare a questo negli attimi in cui guidavo con gli occhi chiusi. Ed invece pensavo che la morte non mi faceva paura. Mi facevano paura le persone che dicevano di non avere mai tempo. Il mio capo ad esempio mi faceva paura. Del resto come si fa a non avere paura di un tizio che entrava in ufficio alle sette di mattina e non usciva mai prima delle dieci di sera. Una lagna continua: “Non ho tempo per te. Non ho tempo per mangiare e neanche per pisciare non ho tempo per ammalarmi non ho tempo per andare a caccia per andare al cinema non ho tempo per la mia famiglia. Non ho abbastanza tempo per mia figlia.” Una mattina non venne al lavoro; nella fabbrica aveva già cominciato a girare la voce che fosse morto. Beh, non era morto. Era uscito di strada con la sua Mercedes nera, si era schiantato in un fossato, ma non era morto. Era vivo e si sentiva indispensabile, e vaffanculo convalescenza, dieci giorni dopo era di nuovo in ufficio, tutto bendato, dalle sette di mattina alle dieci di sera, e mi venivano i brividi tutte le volte che mi parlava: si era portato via mezza faccia, ma non aveva tempo per mettersela a posto. Anche il suo ufficio mi faceva venire i brividi; aveva appeso su una parete tutta una serie di quadretti con dei motti famosi. C'era Voltaire con il suo “Meglio stare zitti e sembrare stupidi che parlare e togliere ogni dubbio.” Ma c'era anche IL TEMPO È DENARO. Eppure quest'uomo che diceva di non avere mai tempo aveva invece molto denaro. Credo che per mandare avanti tutta la baracca si beccasse almeno centocinquanta milioni l'anno. E se si contavano anche i premi produzione poteva superare i duecento. A volte ci pensavo. Io con duecento milioni avrei potuto comprare... sarei potuto andare... ehm, che cosa ci avrei potuto fare con duecento milioni? Non ne avevo la più pallida idea! Non sapevo che farmene di duecento milioni, perciò eccomi di fronte al punto cruciale della mia esistenza, al nocciolo: ERO UN COGLIONE. Essere un coglione di per sé non sarebbe una cosa molto grave. La cosa peggiore che ti può capitare è di dire delle coglionate, e si può anche diventare presidenti del consiglio dicendo delle coglionate. Il problema dell'essere dei coglioni è che gli altri coglioni ti riconoscono subito; cominciano a girarti attorno, sono come un branco di lupi, ti annusano, tu sei uno di noi. Carlo Caneva, ad esempio, non riuscivo proprio a levarmelo di torno. Tutte le volte che entravo in fabbrica me lo ritrovavo fra i piedi. Un tempo era anche stato un buon velocista dilettante, ma ora era solo un ammasso di lardo. Usciva solo per andare al lavoro. La leggenda voleva che Carlo Caneva, nonostante i suoi trentanove anni, per andare alla cena aziendale dovesse chiedere il permesso alla mamma. Che spesso diceva di no. Carlo Caneva faceva l'operaio, part-time per via di non so bene quale menomazione fisica, e se lo incontravi nello spogliatoio ti mostrava con orgoglio una lunghissima cicatrice sul costato, segno indelebile di non so bene quale operazione chirurgica. D'estate al lavoro indossava sempre quelle magliettine metal con i cantanti che facevano le boccacce, ma grazie a Dio era caldo e se le toglieva

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subito. Così poteva attirare le donne mostrando il fisico. E la splendida cicatrice di guerra, ovviamente. Carlo Caneva era ancora vergine e me lo veniva a dire tutte le volte che mi incontrava. Se mi andava bene. Se mi andava male mi raccontava delle seghe che si faceva, e mentre me lo raccontava mimava i gesti, e mentre mimava i gesti lui pensava d'essere divertente, e se non ridevi pensava che ce l'avevi con lui e ti mostrava il pugno. Se invece ridevi continuava a mimare. Insomma non riuscivo proprio a neutralizzarlo. “CHE VOGLIA DI SCOPARE CHE HO” mi diceva, e io sognavo di dargli la risposta giusta, la risposta definitiva. Ma non ci riuscivo. Io che avevo fatto carriera dando le risposte giuste. Come va? Bene capo (cinque punti); ti piace la caccia? Mi piace capo (cinque punti); hai spedito tu in Spagna quegli ordini che andavano in Turchia? No capo (cinque punti), è stato Guiotto (cinque punti); mi lecchi un po' il culo? Certo capo (cinque punti); ti piace questo lavoro? Spero di farlo tutta la vita capo (cinque punti). I miei amici avevano un'idea piuttosto chiara a proposito di un lavoro di successo: un telefono e una scrivania. Io avevo impiegato cinque anni per totalizzare abbastanza punti da conquistarmi un telefono e una scrivania ed ero l'unico del gruppo che ci era riuscito. Gli altri continuavano a passare il tempo in biblioteca a preparare esami e a domandarsi come faceva la gente che non aveva un telefono e una scrivania a lavorare senza impazzire. Beh, io lo sapevo come ci riusciva. Comandavo una squadra di operai e avevo avuto modo di osservarli a lungo; la loro era una routine fatta di sveglie regolate ad orari assurdi, di pranzi in pieno pomeriggio e di cene a mezzanotte. E di gesti piccoli, senza senso: riempire un'asta di coni, spostare un carrello da una parte all'altra, raccogliere i pannolini in un cesto, raccogliere i pannolini in un cesto, raccogliere i pannolini in un cesto, otto ore al giorno. In una parola: la vita dura. Si trattava solo di trovare un modo per non pensarci, per riuscire a resistere. Ognuno di loro aveva messo a punto un sistema. Bicego, ad esempio, mentre lavorava indossava le cuffie del walkman e teneva il volume della musica quasi al massimo. Questo era di gran lunga il sistema più usato dagli operai. Eros Ramazzotti contribuiva ogni giorno alla salvaguardia della salute mentale di migliaia di persone. Zanuso però preferiva il vino. Aveva da poco compiuto vent'anni, arrivava sul posto di lavoro nascondendo una bottiglia, e appena aveva la sensazione di non farcela, si beveva un paio di bicchierini e aspettava che il vino gli andasse alla testa. E così riusciva a terminare il suo turno. Ultimamente però avevo notato che i bicchierini erano diventati tre. Fra le donne era molto diffuso l'uso della vitamina C. Adriana Zonta però sembrava preferire le anfetamine; era stata assunta con contratto a termine e per guadagnarsi la riconferma doveva mettersi in mostra e cercare di fare di più delle altre. Martina la riconferma invece se l'era già guadagnata, ma voleva fare l'attrice; aveva letto le interviste di migliaia di attrici e tutte, nessuna esclusa, avevano prima o poi detto la stessa frase: “Sono stata fortunata.” Così Martina non si preoccupava di studiare recitazione, continuava a lavorare in fabbrica, che tanto era solo questione di culo e prima o poi sarebbe arrivato il suo momento. E poi c'era Fanton, detto il politico, ma solo perché arrivava in fabbrica con qualcosa da leggere. Il suo sistema consisteva nel pensare continuamente a qualcosa di peggio del lavoro che stava facendo, e per lui, operaio da più di trent'anni, delegato sindacale, c'era solo una cosa peggiore del suo lavoro: il sorriso di Berlusconi; lo terrorizzava, sembrava quello di uno squalo. Ma fra tutti, il sistema più curioso era quello messo a punto da Riccardo Priante. Il suo lavoro, come quello di tutti gli altri, consisteva nel raccogliere in un cesto i pannolini che la

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macchina gli sputava fuori. Non doveva fare altro, quando aveva riempito il cesto ne andava a prendere un altro. Per cercare di rendere tutto questo più interessante, si era inventato una specie di sfida con sé stesso: lui tratteneva il respiro e contava quanti pannolini riusciva a raccogliere senza respirare. Nel giro di un anno era passato da sessanta a novanta pannolini e contava di migliorare ulteriormente il record aumentando la velocità della macchina. Vederlo in azione era uno spettacolo, sembrava Charlie Chaplin, le braccia a mulinello, la faccia rossa e gonfia per lo sforzo. Tutta questa gente era avvinghiata al proprio sistema come un koala alla propria pianta di eucalyptus. Non avevano altre difese. Cosa sarebbe successo a Fanton se Berlusconi avesse smesso di ridere? E Zanuso, che avrebbe fatto Zanuso se tre bicchieri di vino non gli fossero più bastati per terminare il suo turno? Quanti bicchieri giornalieri poteva arrivare a reggere il suo fegato? E l'udito di Bicego? Quanto poteva reggere ancora Eros Ramazzotti? C'era per ognuno di loro questa sorta di limite oltre il quale si affacciava lo spettro dell'esaurimento nervoso. Riccardo Priante raggiunse questo limite quando arrivò a quota centonove pannolini. Ci provava ogni giorno, ma non riusciva proprio ad arrivare a centodieci. Non bisognava essere psicologi per capire che quel ragazzo era depresso. Una mattina cadde a terra, in lacrime. Non riusciva più a lavorare. Il medico gli diede quaranta giorni di malattia. Quando tornò non si reggeva in piedi, barcollava. Faceva fatica anche a parlare. Lo psichiatra aveva deciso di curarlo imbottendolo di psicofarmaci. La madre al telefono mi supplicò di cercare di farlo lavorare, che gli avrebbe fatto bene, che se avesse continuato a passare tutto il giorno in casa non sarebbe mai migliorato. Piangeva, la madre. Non la capivo, Riccardo si era ammalato per via del lavoro, e ora quello stesso lavoro lo doveva guarire. Gli altri operai cominciarono presto ad evitarlo, avevano smesso anche di rivolgergli la parola. Riccardo li spaventava. Erano così patetici: la maggior parte di loro sognava cose come la fidanzata figa, o la macchina sportiva. Avrebbero continuato a girare con una Fiat Uno tutta la vita, tuttavia guardavano con sospetto tutti quelli che sognavano cose diverse, o quelli che, come Riccardo, sembravano non sognare più. Una mattina il capo mi convocò nel suo ufficio. Mi fece accomodare e mi guardò per un po', in silenzio, mentre accarezzava Giuliano, il suo gattone: “Nel tuo reparto la produzione ha subito un calo molto vistoso nell'ultimo mese.” Non sapevo se dovevo rispondere. La cosa più difficile del mio lavoro era capire quando il mio capo era incazzato. Voglio dire, uno che al posto della faccia ha la maschera di un mostro uscito da qualche film dell'orrore sembra sempre incazzato. “Cerca di risolvere il problema alla svelta.” Scossi nervosamente il capo dall'alto in basso per annuire, mi alzai velocemente dalla sedia e me ne andai. Non ero riuscito a pronunciare una sola sillaba. Ma sapevo bene quale fosse il problema: Riccardo Priante. Rimasi a guardarlo per più di mezz'ora mentre lavorava, affascinato dalla sua lentezza. Per molto tempo era stato uno dei nostri operai migliori e ora non riusciva nemmeno a entrare nello spogliatoio senza riempirsi di calmanti. Tornai nel mio ufficio, appoggiai i gomiti sulla scrivania e presi la cornetta del telefono in mano. Composi il numero del mio capo. Riuscivo a trovare il coraggio di parlargli solo al telefono, quando cioè non gli vedevo la faccia. “Capo…”

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“Hai risolto il problema?” “Dobbiamo assumere un'altra persona.” “Ancora? Ogni mese si licenzia qualcuno. Tutti cresciuti nella bambagia, non è possibile. Nessuno che si adatta.” “È per via di quell'operaio, Priante. Gli dobbiamo affiancare qualcuno. Gliene avevo già parlato, gli psicofarmaci che prende gli rallentano i riflessi, non può sostenere certi ritmi di lavoro.” “Beh, mandiamolo via. Fatti portare le domande di assunzione e cerca di trovare in fretta una persona valida. Anzi, aspetta, devo aver da qualche parte quel nominativo che mi ha dato la sorella dell'amica di mia cognata...” “Ma la madre dice ch...” “Me ne frego di quello che dice la madre. Non siamo una clinica. Siamo una fabbrica. Se quello lì non è in grado di lavorare se ne deve andare. Lo devi stancare...” Priante era stato sempre presente al lavoro, non aveva mai combinato guai. Era solo diventato molto, molto, molto lento. Ma questo non poteva essere certo motivo di licenziamento, perciò si doveva trovare un modo per costringerlo a lasciare il lavoro. Stancare, in gergo, significava per l'appunto rendergli la vita impossibile. Non mi era ancora capitato di dover stancare qualcuno, ma l'avevo visto fare diverse volte, e sapevo come ci si doveva comportare: fase A, fase B, fase C. FASE A: il torello. Il mattino seguente Priante trovò il suo posto di lavoro occupato da un altro operaio. Rimase immobile, per un po', a fissare l'altro che lavorava. Poi arrivai io: “BEH, NON HAI NIENTE DA FARE?” No, non lo aveva, e io lo sapevo bene. Il torello consisteva appunto nell'obbligare l'operaio sgradito a girare a vuoto. “BEH, NON HAI NIENTE DA FARE?”, e il poveretto cominciava a girare per il reparto alla disperata ricerca di qualcosa da fare. E quando, dopo qualche inutile giro si fermava, ti avvicinavi e con aria seccata: “BEH? NON HAI NIENTE DA FARE?” In genere il torello non durava mai più di una settimana. “BEH? NON HAI NIENTE DA FARE?” Se era intelligente l'operaio capiva l'andazzo e dava subito le dimissioni. Se non era intelligente prima o poi finiva per risponderti: “SEI TU IL CAPO DEVI DIRMELO TU COSA FARE”, e così si passava immediatamente alla fase B. Priante si pettinava come Adriano Panatta, perciò non si poteva certo dire che avesse un'aria intelligente. Oltretutto da un po' aveva anche un sorrisino ebete stampato in faccia. Tuttavia erano passati quasi due mesi e ancora non si era deciso a rispondermi. Di più, sembrava non avere nessuna intenzione di farlo. “BEH? NON HAI NIENTE DA FARE?” Non mi guardava nemmeno in faccia. Camminava per la fabbrica come uno zombie, avrebbe potuto girare a vuoto all'infinito. “Capo...” “Hai risolto il problema?” “Quel Priante è un osso duro.” “Non si regge nemmeno in piedi. Cos'è, ti dispiace? Scommetto che ti commuovi. No, non ce lo possiamo permettere. Pugno duro ci vuole!” Passai immediatamente alla seconda fase. FASE B: il servizio. La chiamavano manutenzione, ma in realtà si trattava solo di tenere pulito il reparto.

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In genere i compiti di manutenzione erano divisi fra tutti gli operai. Ogni operaio si doveva occupare di tenere pulito il suo posto di lavoro e il suo macchinario. Erano i compiti più fastidiosi perché si finiva inevitabilmente per sporcarsi. Il “servizio” consisteva nel delegare a un solo dipendente, quello da stancare, tutti questi lavoretti di merda, con una piccola aggiunta: la pulizia dei cessi. All'operaio sgradito non restava altro che licenziarsi: era la cosa più conveniente, qualsiasi lavoro avesse trovato sarebbe stato di sicuro migliore di quello. Cominciai a far pulire i cessi a Riccardo tre volte al giorno, ma a lui sembrava non importare. Passava un terzo delle sue giornate con una ramazza nella mano destra e un secchio d'acqua nella sinistra, senza che nessuno gli rivolgesse mai la parola, tranne me: “Riccardo pulisci il cesso Riccardo puliscilo di nuovo Riccardo fammi due ore di straordinario Riccardo svuota la mondezza Riccardo qui è sporco.” E Riccardo puliva. Lentamente. Senza fiatare mai. A trovarsi un altro lavoro non ci pensava nemmeno. Del resto chi avrebbe assunto un ragazzo in quelle condizioni? Il suo stipendio continuava a pesare sul bilancio e se la produzione non cominciava a risalire quello che si doveva preoccupare di trovare un altro lavoro ero io. Qualcuno aveva anche cominciato ad osservarmi. Ogni tanto il telefono del mio ufficio squillava, ma dall'altro lato non rispondeva mai nessuno. Mi stavano controllando. Probabilmente stava facendo il giro delle scrivanie un fascicolo col mio nome scritto sopra e SCHEDA DI VALUTAZIONE subito sotto e temevo che da un momento all'altro il mio capo avrebbe smesso di chiamarmi per nome. Sarebbe stato un segnale chiaro. Chiamarsi per nome era una di quelle direttive imposte dall'alto, nella convinzione che per formare un gruppo di lavoro solido si dovesse creare nella fabbrica un ambiente familiare. La grande famiglia. Non si sapeva mai molto uno dell'altro, ma ci si doveva chiamare per nome. Se non ti si chiamava per nome eri out. E poi i lavori più schifosi sembravano un po' meno schifosi se ti chiedevano di farli chiamandoti per nome. “Riccardo togli la merda da quel cesso” era molto diverso da “Ehi tu togli la merda da quel cesso.” La fase C consisteva per l'appunto nello smettere di chiamare il dipendente per nome e io Priante già da un po' avevo cominciato a chiamarlo con un fischio, come si fa con i cani. Se qualcuno mi avesse fatto un fischio e poi mi avesse detto “Ehi tu togli la merda da quel cesso” probabilmente sarei scoppiato a piangere. Ma Riccardo sembrava non appartenere più a questo pianeta. Pisciavo apposta fuori dalla tazza e poi gli nascondevo lo straccio. Versavo del lubrificante per terra e poi lo rimproveravo di non pulire il pavimento. Qualsiasi cosa andasse storta era colpa sua. “Ehi tu che cazzo fai ehi tu dove credi di essere ehi tu muoviti coraggio andiamo ehi tu.” Niente da fare, non riuscivo proprio a togliergli quel sorrisino ebete dalla faccia. E il mio capo non era un tipo paziente. Di notte sognavo sempre di ricevere una sua lettera di convocazione e mi svegliavo tutto sudato. Una mattina la trovai lì, quella lettera, sopra la mia scrivania. Mi tremavano le gambe mentre percorrevo il lungo corridoio che portava al suo ufficio. Mi ero anche preparato una specie di discorso, l'avevo ripetuto migliaia di volte davanti allo specchio il giorno prima. Non era male. Ad un certo punto mi sarei alzato avrei battuto il pugno sul tavolo ed avrei gridato: “MA ALLORA

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ME LO DICA LEI COME SI FA, EH, COME SI FA... A STANCARE UNO CHE È GIÁ STANCO?” Quando entrai lui stava di spalle, ad ammirare il panorama seduto sulla sua poltrona. Spazzolai con la mano i peli di gatto dalla mia poltrona e mi accomodai. Quando si voltò verso di me lo guardai in faccia e pensai che anche stavolta non sarei riuscito a dire niente. “Boccaletti arriverà fra tre giorni. Visiterà la fabbrica. Fai in modo che trovi tutto in ordine mi raccomando.” Annuii con il capo. Lui continuava a fissarmi, in silenzio. “Bene.” Annuii ancora. Lui continuava a guardarmi, e io non riuscivo a smettere di annuire. “Beh, che c'è? C'è qualcosa che devi dirmi?” “No!” “E allora che aspetti? Vai a lavorare, avanti!” Non ci potevo credere, avevo ancora il mio lavoro. Ed ero anche riuscito a dire “no.” Si trattava solo della visita di routine di Boccaletti, l'amministratore delegato. Ogni tre mesi veniva qui sulla sua Porsche gialla con tutto il suo seguito di portaborse. Non aveva neanche trent'anni, si diceva di lui che fosse una specie di genio dell'economia. Mah! Una cosa però era sicura: di produzione tecnica non ci capiva un cazzo. Bastava che la fabbrica fosse pulita e ordinata e lui era contento. L'ultima volta l'unica cosa che aveva detto era stata di sistemare la siepe attorno al parcheggio. Questa volta però, mentre il mio capo lo accompagnava in giro per il reparto, osservando la lentezza con cui lavorava Priante, di sicuro si sarebbe chiesto quello che si stavano chiedendo un po' tutti: perché quel ragazzo sta ancora qua? Già, perché? Perché io ero un incapace, ecco perché! Questo gli avrebbe risposto il mio capo, e questa risposta gli avrebbe fruttato almeno una decina di punti. A me, invece, sarebbero stati azzerati in un lampo. Avrei perso il lavoro, il lavoro giusto. No, non doveva succedere. Forse, dopo che gli avessi fatto pulire l'intera fabbrica in soli tre giorni, Priante sarebbe crollato, se ne sarebbe andato. L'impalcatura mobile era alta quasi cinque metri, a perfetta norma di legge. “EHI TU SALI LÌ SOPRA E TOGLI LA MUFFA DA QUELLA PARETE.” Mentre saliva Riccardo sembrava sul punto di cadere ad ogni passo. Quando arrivò in cima sembrava un gatto bloccato su un ramo di un albero. “LA VEDI QUELLA MACCHIA? PASSACI SOPRA LA SPUGNA.” Non si muoveva. Fermo, immobile, a cinque metri di altezza. “MA NON LA VEDI? LA MACCHIA DI MUFFA! È LÌ, SULLA TUA DESTRA!” Niente da fare non la vedeva. “MUOVITI COGLIONE! SPOSTATI A DESTRA! ECCO BRAVO, SULLA DESTRA, CORAGGIO. SPOSTATI ANCORA. SULLA DESTRA, BRAVO. È PROPRIO LÌ, A DUE PASSI DA TE, LA VEDI?” No, non la vedeva. “MA È SULLA DESTRA! SULLA DESTRA COGLIONE. VAI A DESTRA! A DESTRA!” Non avrei mai immaginato che il rumore di una testa che si rompe fosse così simile allo scoppio di una ruota di bicicletta. Quando Riccardo cadde dall'impalcatura gli altri operai accorsero con attrezzi e chiavi inglesi in mano, temendo il guasto di qualche tubo o di qualche macchinario. “Si è sporto troppo che disgrazia chiamate un'ambulanza.”

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C'era un lago di sangue sul pavimento, io balbettavo fra le lacrime sempre la stessa frase, continuamente: “Era salito per togliere la muffa era salito per togliere la muffa era salito per togliere la muffa.” Quando arrivarono i soccorsi Riccardo era già morto. La fabbrica per qualche giorno si sarebbe fermata. Gli operai cominciarono ad andare a casa, sconvolti. Solo Carlo Caneva non si muoveva da lì, e continuava a guardarmi, spaventato. Ad un certo punto si avvicinò: “Ma quel muro l'avevo già pulito io ieri, perché l'hai fatto salire lì sopra?” Alzai lo sguardo. Il muro era bianco, perfettamente pulito, e Riccardo non era riuscito nemmeno a toccarlo. Carlo Caneva aveva capito tutto, ma non ero affatto preoccupato, anzi, provavo quasi un senso di eccitazione al pensiero che finalmente sarei riuscito a dargli la risposta giusta, quella definitiva. “Non l'avevi pulito abbastanza bene.” Cinque punti. “Sono cose che capitano.” Boccaletti commentava la morte dell'operaio masticando del vitello. “Ci è piaciuto il modo con cui è stata gestita questa vicenda. I giornalisti sono sempre in agguato, soprattutto quando si tratta di aziende grandi come la nostra. Per noi l'immagine conta più della qualità. Assaggi il vitello è delizioso.” Era la mia prima cena di lavoro e non avevo fame. Boccaletti era seduto di fronte a me e io avevo dovuto comprarmi la cravatta per l'occasione. Ogni tanto osservavo il nostro riflesso sulla vetrata del ristorante: eravamo due uomini in doppiopetto che parlavano di marketing. Le probabilità che il cameriere avesse sputato nel nostro piatto erano decisamente alte. “Il suo capo è davvero un uomo in gamba. Non ci aspettavamo che l'inchiesta venisse chiusa così presto. Di questo abbiamo bisogno. Di uomini come lui. Lei da quanto tempo lavora con noi?” “Sette anni.” “Già, sette anni. Avrà di certo imparato molte cose da un uomo come il suo capo.” “Molte cose certo.” Il mio capo aveva zittito i sindacati con un paio di mazzette. Era tutto quello che sapevo. Non avevo idea di come fosse riuscito a lavorarsi così bene polizia e stampa. Probabilmente non aveva fatto nulla. La morte di uno come Priante non interessava a nessuno. L'unico a sembrare preoccupato era Carlo Caneva. Se ne andava in giro dicendo che Priante era stato ammazzato. Ma nemmeno gli altri operai della fabbrica gli davano peso. Per tutti era un coglione che diceva coglionate e dopo qualche giorno si stancò di farsi ridere in faccia. “Ho parlato col suo capo proprio ieri. Abbiamo deciso di affidargli la direzione della nostra azienda più grande. È un po' in difficoltà e noi pensiamo che il suo capo sia l'uomo giusto. La sua esperienza è preziosa. Non lo assaggia il vitello?” Mandai giù il mio primo boccone e sorrisi. Mi ero imposto di sorridere molto e di ridere di gusto qualsiasi battuta avesse fatto, esattamente come se fossi dovuto uscire con qualche ragazza. “Ha ragione è delizioso.” Boccaletti tirò fuori un foglio di carta e me lo sistemò davanti. “Le stavo dicendo... l'esperienza del suo capo è preziosa. Lei ha lavorato con lui sette anni, e ora che se ne va, vorremmo proporre a lei la direzione della Barzotto. Questo è il contratto.” Tirò fuori una stilografica argentata dal taschino della giacca e me la porse. “È quadriennale.” Credo si aspettasse una faccia stupita. Beh, non solo non ero stupito, ma non mi sentivo neanche particolarmente grato. Avevo fatto i miei calcoli e sapevo che avevo totalizzato da qualche giorno

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abbastanza punti da meritarmi, oltre che un telefono e una scrivania, anche una segretaria. Mentre firmavo pensavo che l'avrei scelta bionda e senza occhiali. La prima cosa che avrei fatto entrando nel mio nuovo ufficio sarebbe stata quella di togliere i terrificanti motti che il mio capo aveva appeso alla parete. Anzi no, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di spazzolare via i peli del suo gatto dalla poltrona. In realtà la prima cosa che feci fu quella di gettare nel cestino un mazzo di fiori che qualcuno aveva lasciato nel mio nuovo ufficio. All'inizio avevo pensato al solito leccaculo, ma non c'era nessun biglietto e un leccaculo non l'avrebbe mai dimenticato. Osservandoli meglio capii che quei fiori erano un omaggio funebre. Evidentemente il ricordo di Priante era ancora vivo dentro la fabbrica. Ma appena avrei assunto il nuovo operaio le cose sarebbero cambiate. Avevo già visto una ventina di candidati. Avevo letto i loro curriculum, mi ero sforzato di memorizzare il loro nome di battesimo per rendere il colloquio meno formale possibile; avevo portato in giro ognuno di questi giorgi e franchi e mattei e giuseppi per i reparti; mi ero prodigato per spiegare loro l'intero processo di lavorazione, sgolandomi per farmi sentire in mezzo al frastuono dei macchinari, pur sapendo che non ci avrebbero comunque capito nulla. E poi, alla fine, gli avevo mostrato il lavoro che avrebbero dovuto fare. Raccogliere i pannolini in un cesto. Raccogliere i pannolini in un cesto. Raccogliere i pannolini in un cesto. Risposero tutti nello stesso modo: “NO. QUESTO LAVORO NON MI PIACE.” Stronzi. Io per conto mio non avevo mai pensato che il lavoro mi dovesse anche piacere. Avevo sempre pensato al lavoro come a una cosa tipo lavare i piatti, o pulire il cesso, insomma a una cosa che DEVI fare, a meno che non ti piaccia vivere nella merda. Provarci pure gusto mi sembrava una cosa da pervertiti. Ogni giorno dovevo fare i conti con un sacco di gente che amava il proprio lavoro. Il mio dentista, ad esempio, aveva sempre stampata sulla faccia la stessa espressione soddisfatta mentre lavorava. “SE NON TI PIACE IL TUO LAVORO SEI FOTTUTO”, mi disse una volta. Il suo lavoro era mettere le mani nella bocca della gente. Raccogliere pannolini in un cesto mi sembrava molto più dignitoso. Possibile che fosse così difficile trovare qualcuno disponibile? Mi restavano ancora otto candidati e io avevo perso già abbastanza tempo. Li convocai tutti nello stesso giorno e alla stessa ora. Diedi disposizioni alla segretaria di farli accomodare nella reception, in modo da poterli osservare dal mio ufficio grazie al sistema di monitoraggio a circuito chiuso. Seduti sulle poltroncine cremisi, una sciccheria imposta da Boccaletti in persona, tenevano tutti gli occhi fissi sul pavimento, in religioso silenzio. Non volevano concedere nessun vantaggio agli avversari. Il più giovane doveva avere trent'anni, l'unico dei cinque che non aveva indossato le scarpe con le quali andava a messa. Fu il primo a parlare: “Che ore sono?” Era anche il solo che non aveva messo l'orologio al polso. Gli altri gli risposero praticamente in coro: “Quasi mezzogiorno.” “Avevate anche voi l'appuntamento alle dieci?” “Sì.” Dopo un'ora stavano ancora tutti lì. Qualcuno aveva cominciato a cincischiare con i piedi, qualcun altro batteva le dita sulle ginocchia, ma nessuno aveva ancora osato alzarsi dalla poltroncina cremisi. Ci vollero altri quaranta lunghi minuti perché il tizio senza orologio, forse spinto dalla fame, tro-

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vasse il coraggio. “Buona fortuna“, disse. Nessuno gli rispose. Lui aprì la porta e se ne andò. Il secondo lo seguì mezz'ora dopo. Gli altri continuarono ad aspettare la mia chiamata in silenzio. Alle sei della sera ne erano rimasti ancora due. Uno aveva sempre il culo incollato alla poltroncina. L'altro passeggiava nervosamente per la stanza, avanti e indietro avanti e indietro, palpeggiando qualsiasi cosa trovasse davanti, il tavolino, le riviste di meccanica, i quadri appesi alle pareti. Quando si trovò davanti alla porta palpeggiò la maniglia e sparì per sempre. L'ultimo ometto rimasto continuava a tenere gli occhi puntati sul pavimento. Li alzò per la prima volta quando la segretaria si avvicinò a lui: “Il capo ha detto che il lavoro è suo se lo vuole.” “Ma... e il colloquio?” Non c'era bisogno del colloquio. Non volevo l'uomo migliore. Mi bastava il più disperato. Il nuovo assunto cominciò il giorno dopo. Lavorava sodo. Lavorava sodo perché l'avevo deciso io. Ero io il capo. Decidevo io se le cose andavano bene o se andavano male. Le compilavo io, ora, le schede di valutazione. Tuttavia qualcuno continuava a controllarmi. Non ero riuscito a capire chi fosse. Ogni giorno trovavo nel mio ufficio il solito mazzo di fiori e il mio telefono squillava di continuo senza che dall'altro lato rispondesse mai nessuno. “Ti è mai capitato di vedere Carlo Caneva con dei fiori in mano?” La mia segretaria si mise a ridere: “Carlo a una donna non riuscirebbe nemmeno a rivolgere la parola, figurati portare dei fiori.” Carlo Caneva ogni tanto passava per gli uffici a svuotare i cestini. Non era il solo nella fabbrica ad avere accesso al mio ufficio, ma era l'unico che provava del risentimento verso di me. Non mi rivolgeva più la parola dal giorno della morte di Riccardo. Non avevo bisogno di beccarlo con i fiori in mano per capire che era lui a mandarmeli e a fare quelle telefonate, e liberarmi di lui sarebbe stato molto semplice dal momento che era un “LADRO!” Carlo rimase in silenzio, guardandomi con aria interrogativa. “Non fare il finto tonto con me! Avevo lasciato dei soldi proprio qui, sopra la scrivania.” “Lo giuro, non li ho presi io.” “Carlo, guardati intorno. Vedi qualcun altro oltre me e te?” Carlo sapeva che a quell'ora non poteva esserci nessuno oltre a noi due. Quello che non sapeva era che in realtà io non avevo affatto lasciato dei soldi sopra la scrivania. Lo osservai in silenzio mentre singhiozzava: “Non sono un ladro, lo giuro, non sono un ladro…” Gli porsi una busta: “Tieni, questa è la lettera di licenziamento.” “No, la prego… questo lavoro è tutto quello che ho.” “Ringrazia il cielo che non ti denuncio, piuttosto.” Quella fu l'ultima volta che vidi Carlo Caneva. Ciò nonostante continuavo a trovare il solito mazzo di fiori sulla scrivania e a ricevere quelle misteriose telefonate. L'ansia che provavo nell'attraversare i reparti era insopportabile. Ero costretto a restare tutto il tempo rinchiuso nel mio ufficio, e sempre più spesso mi sorprendevo ad esitare nell'alzare la cornetta. A volte il telefono smetteva di squillare dopo trenta, quaranta secondi, e io cominciavo a logorarmi pensando all'ennesimo cliente che non era riuscito a contattarmi. Altre volte, invece, il telefono continuava a squillare, senza tregua. Continuava e continuava, ed io non trovavo il coraggio per rispondere. Immobile alla scrivania, fradicio di sudore, riuscivo solamente a contare gli squilli.

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“Perché cavolo hai staccato il telefono?” Ogni angolo dell'appartamento era avvolto dal buio. Anna procedeva a tastoni, si aggirava nervosamente per le stanze sbattendo continuamente ginocchia e gomiti. Avevo coperto tutte le finestre con dei drappi neri. Anna ne toccò uno. “No Anna ti prego non lo levare.” Anna voltò il capo nella mia direzione, immobile di fronte alla mia sagoma scura. Poi con un gesto violento tolse il drappo dalla finestra. Il sole non illuminava la mia casa da diversi giorni. Non avevo mai visto Anna così arrabbiata. “Ma ti sei visto?” Fissai il riflesso del mio volto sulla specchiera dell'armadio. Anna non parlava. Dovevo fare veramente paura: le guance cianotiche, un ghigno che mi attraversava la faccia. “Sono sei giorni che cerco di parlarti. In ufficio mi hanno detto che ti sei preso due settimane di ferie. Che cavolo ti è successo?” Non sapevo cosa dire. Odiavo le persone che dicevano cavolo al posto di cazzo. Anna era la mia ragazza; amore e odio e cazzo cazzo e cazzo. Mi avvicinai ed appoggiai la testa sul suo petto. Non piangevo da nove anni. Lei mi strinse: “Forse è meglio se non ci vediamo per un po'. Ho bisogno di una pausa di riflessione.” Mi allontanai ed andai a sedermi sul divano, le mani sulla fronte: “Credevo che le pause di riflessione le prendessero solo i protagonisti dei film americani.” Lei ricominciò a girare per le stanze: “Tu hai qualcosa che non va.” “Cercare di capire se ami qualcuno standogli il più lontano possibile. Gli americani riescono sempre a rifilarci le più grandi assurdità. Scommetto che questa idea ti è venuta dopo che hai visto Michelle Pfeiffer lasciare Al Pacino.” Lei sembrava sempre più spaventata. “Ho bisogno di tempo. Ne hai bisogno anche tu.” “Certo. Non bastava il chewing gum. Non bastava Halloween. Non bastavano i quiz, il jogging, i fast food, il rap. Non bastava il bingo. Adesso mi devo sorbire pure questa cazzo di pausa di riflessione.” Anna non mi guardava nemmeno più. Era sempre più nervosa. Cercava la sua borsetta. La trovò e infilò di corsa l'uscita. Se fossi stato Al Pacino l'avrei rincorsa per le scale e le avrei gridato: “Non mi lasciare Anna non mi lasciare.” La rincorsi per le scale. “TROIA. MI HAI SENTITO? SEI UNA TROIA!” Tornai nel mio appartamento. Dalla finestra potevo vedere Anna che attraversava la strada passando fra le macchine bloccate dal traffico. Raccolsi il drappo nero dal pavimento e ricoprii la finestra. L'oscurità mi avvolse di nuovo. La luce del supermercato era fredda e gialla come quella del mio frigorifero. Il mio frigo era vuoto da tre giorni. Il supermercato invece era sempre pieno; era gigantesco, ottomila metri quadri, quarantacinque casse. Ogni cosa era invasa da numerini e scatoline. Attorno a me vedevo i volti felici ed ansiosi di chi si cimentava nel gioco dei carrelli. La gara era a chi li riempiva di più. Le commesse erano vestite come robot, con i capelli nascosti da un ridicolo berretto e un'avvilente targhetta appiccicata sul petto. Una di loro raccoglieva in una cassetta i pomodori marci che trovava fra quelli esposti. Su alcuni di questi le mosche avevano già cominciato a ronzare attorno. Ma non li buttava.

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Li riponeva accanto a quelli ancora buoni, aggiungendo solo il cartellino del prezzo; mille lire più degli altri! Naturalmente la gente li comprava. Costavano di più perciò dovevano essere più buoni. Mi avvicinai alla commessa, cercando di leggere il suo nome sulla targhetta. “Ehm… Paola, non riesco a trovare gli alcolici.” La ragazza mi squadrò dall'alto in basso, soffermandosi sulle mie occhiaie. “Sono lì in fondo, dove c'è il cartello del tre per due.” Era l'unico reparto deserto. Le bottiglie erano disposte in un ordine preciso: le più economiche in basso e in alto, le più costose al centro. Se avevi mal di schiena o se non eri abbastanza alto eri fottuto... Presi tra le mani qualche bottiglia, guardandole per qualche istante. Le posai, indeciso, e iniziai a camminare per il reparto, tra le bottiglie, lentamente, avanti e indietro, le mani in tasca, il capo chino e lo sguardo rivolto verso il basso. All'improvviso mi fermai, guardai le bottiglie ancora per qualche istante e allungai la mano per prenderne una, ma appena la afferrai e la spostai dal ripiano vidi qualcosa dietro lo scaffale che mi paralizzò, facendomi cadere la bottiglia di mano. Era l'occhio di qualcuno che mi fissava, mi puntava, vitreo e immobile. Io fissavo l'occhio. L'occhio fissava me. Mi gettai sul pavimento d'istinto e non so quanto rimasi lì, supino, indifferente ai cocci della bottiglia che avevo rotto e al vino che mi stava inzuppando i vestiti. Il cuore mi batteva fortissimo. Quando decisi di rialzarmi attorno a me si era formata una piccola folla di curiosi. Nessuno di loro aveva il coraggio di avvicinarsi. Cominciai a correre, scrollando chiunque mi trovassi davanti, sbattendo continuamente nei loro carrelli. “CHI CAZZO SEI?” Gridavo. L'intero supermercato era paralizzato. “CHI CAZZO SEI?” Mi guardavano tutti ammutoliti. Quattro vecchiette si erano stese completamente sul pavimento e mi imploravano di non ucciderle. Un bambino piangeva, disperato. Era la prima volta che vedevo un bambino piangere dentro un carrello della spesa. Sul soffitto, tutte le telecamere erano puntate su di me. “PAOLA COME CAZZO SI ESCE DA QUA?” La ragazza mi indicò l'uscita. La mano le tremava. Fuori, cercai di ridarmi un contegno riaggiustandomi la giacca e ripetendomi più volte “DEVO STARE CALMO DEVO STARE CALMO DEVO STARE CALMO.” Lo ripetevo anche in macchina, a voce alta, mentre guidavo verso la fabbrica. Quel giorno avrei dovuto chiudere un affare importante. I cinesi erano i nostri clienti più prestigiosi. Mentre li accompagnavo nella visita di routine della fabbrica, mi guardavo continuamente intorno. Il movimento della testa, avanti e indietro a destra e a sinistra, era diventato quasi meccanico. Anche l'interprete sembrava imbarazzato. A pranzo, i cinesi mi dissero che non avrebbero firmato il contratto. Solo dopo essere tornato nel mio ufficio mi accorsi che puzzavo d'alcool da fare schifo. Mentre mi toglievo gli abiti sporchi di vino il telefono cominciò a squillare. Dall'altro lato non rispose nessuno. Il cuore ricominciò a battere come impazzito: lì, sull'angolo della scrivania, c'era il solito mazzo di fiori. “Capo? Capo... si svegli.” Avevo la faccia sul pavimento e sentivo un orribile odore di sandalo e patchouli. La mia segretaria aveva acceso un bastoncino d'incenso e me lo stava passando sotto il naso. L'estate scorsa aveva

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passato due settimane in India e adesso blaterava spesso di reiki, kundalini, yoga e fengshui. Mi aveva anche chiesto di spostare la sua scrivania dietro i classificatori, vicino a un ficus, lontano da quel nodo elettromagnetico che le impediva di trovare l'armonia interiore e il benessere fisico. “Coraggio, ripeta dopo di me: l'armonia è dentro di me, l'armonia è dentro di me, l'armonia è dentro di me...” Niente. Guardavo questa donna di quarant'anni che portava ancora i capelli corvini all'henné sciolti sulle spalle e non riuscivo a dire niente. “Ma che è successo?” “Ha avuto un attacco di panico ed è svenuto. Ho già acceso il bollitore elettrico. Una tisana di betulla la rimetterà in sesto.” “La riunione è già cominciata?” “Non credo comincino senza di lei. Sa, penso che le farebbe molto bene qualche ora di watsu in piscina. Aiuta a combattere l'ansia. Si prenda qualche giorno di ferie.” “La smetta di dire sciocchezze. Sono tornato dalle ferie oggi. E sono già in ritardo.” “Prenda almeno la tisana.” Mi alzai, indossai la giacca e mi sistemai il nodo della cravatta. “Non ho tempo per la sua tisana.” “La produzione è costantemente in calo.” Guiotto era stato per anni il mio compagno di lavoro più stretto ed ora che era diventato il numero due della fabbrica mi mostrava sulla lavagnetta magnetica un grafico tutto in discesa, fissandomi con aria preoccupata mentre pensavo alla cosa giusta da dire. Nella sala calò il silenzio. Gli sguardi degli altri dirigenti si perdevano nell'aria. Guiotto prese di nuovo la parola: “L'impianto è al massimo regime. Sono calati gli ordini di lavoro. Per questo la produzione continua a diminuire. Abbiamo perso quattro clienti in due mesi.” Guiotto si rimise seduto coprendosi il volto con le mani. Paolo Ghello era il più giovane fra gli uomini seduti attorno al tavolo, i capelli corti e il bicchiere sempre mezzo pieno. Sembrava uscito dalla pubblicità del dentifricio. “Gli operai sono preoccupati. Hanno addirittura indetto un'assemblea sindacale. Forse è il caso che lei parli con loro.” “Convocateli tutti in sala mensa.” Gli operai entrarono lentamente, uno dopo l'altro, con i loro fieri cipigli. Non volevo farla troppo lunga. Sistemai il microfono e feci un bel respiro profondo per prendere coraggio. “Buongiorno a tutti.” Nella stanza calò il silenzio. “So che siete preoccupati per il calo di lavoro. Negli ultimi mesi ci sono stati dei cambiamenti ai vertici del gruppo Barzotto. Ora c'è una nuova politica aziendale. C'è in atto una trasformazione: la nostra non è più una fabbrica di quantità, ma di qualità. Il calo di lavoro dipende da questo. Perciò state tranquilli e pensate solo a fare del vostro meglio.” Pensavo di aver fatto un buon discorso. Ma gli operai non sembravano rinfrancati. Uscirono tutti tranne Fanton, che rimase seduto, fissandomi, con le braccia incrociate. Si alzò, si avvicinò e sbatté il pugno sul tavolo: “IO NON ME LE BEVO LE TUE CAZZATE.” “Ma… ma siamo impazziti?” “NO! TU SEI IMPAZZITO. COSA CREDI CHE DICA LA GENTE QUANDO CAMMINI PER I REPARTI VOLTANDOTI OGNI DUE SECONDI? MA GUARDATI! DA QUANTI GIORNI NON DORMI?” “Non alzare la voce con me.” “SEI SCOPPIATO! SONO TRENT'ANNI CHE VEDO GENTE SCOPPIARE QUA DEN-

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TRO. QUELLE MEZZE SEGHE CHE TI STANNO ATTORNO NON HANNO IL CORAGGIO DI DIRTELO. BEH TE LO DICO IO: DEVI ANDARTENE! MI MANCANO SOLO QUATTRO ANNI ALLA PENSIONE. VATTENE HAI CAPITO? VATTENE!” Fanton rimase in silenzio per qualche istante, a fissare la lacrima che mi stava attraversando il viso. In quel momento ebbi la sensazione che se fossi riuscito a dire qualcosa sarei riuscito ad evitare lo sciopero degli operai. Ma i singhiozzi mi soffocarono le parole in gola. Lo sciopero venne proclamato il giorno seguente. Uno sciopero contro di me. Non ero preoccupato. Lo stratagemma per evitare forti adesioni agli scioperi funzionava sempre. Bastava offrire agli operai, singolarmente e con circospezione, otto ore di ferie nel giorno dello sciopero. Era un'offerta vantaggiosa. Per me e per loro. Chi accettava non perdeva i soldi della giornata e allo stesso tempo, non presentandosi al lavoro, evitava di essere accusato dagli altri operai di aver tradito la causa comune. Ordinai a Guiotto di telefonare a casa di tutti gli operai, ma nessuno di loro accettò. Anche gli operai della mia vecchia squadra, Bicego, Zanuso e Martina, si rifiutarono, e sfilarono davanti ai cancelli assieme agli altri, impugnando i cartelli di protesta. I reparti erano deserti, l'adesione allo sciopero totale. Guiotto osservava sorridendo i picchetti degli operai di fronte al cancello della fabbrica. Probabilmente stava già pregustando la promozione a direttore generale, al mio posto. Mentre lo guardavo cominciò a balenarmi in testa l'idea che a fare quelle telefonate e a mandarmi quei fiori avrebbe potuto essere lui. In fondo era sempre stato invidioso di me e del mio successo. Era stanco di essere il numero due. Sognava un posto da direttore? Bene, io avrei fatto diventare il suo sogno realtà. “In Ungheria?” “Il gruppo Barzotto sta programmando di trasferire parte della produzione nei paesi dell'est. La manodopera costa meno della metà. Hanno già aperto un paio di fabbriche in Cecoslovacchia, e ora hanno bisogno di una persona in grado di avviare la prima fabbrica in Ungheria. Io ho proposto il tuo nominativo, e ho insistito molto con Boccaletti.” Guiotto mi guardava perplesso. “Ti ringrazio molto per la fiducia. Però, tu lo sai, mio figlio ha iniziato da poco la scuola… non lo so, forse per lui trasferirsi in un paese così lontano in questo momento potrebbe essere un trauma. Ne dovrei parlare prima con mia moglie.” “Ma certo. Però tieni presente che se non accetti potresti dare l'impressione di uno che ha paura delle responsabilità. Potrebbe essere un grosso ostacolo alla tua carriera. Su queste cose Boccaletti è intransigente.” Guiotto partì il giorno seguente per l'Ungheria. Solo, in un paese lontano in cui si parlava una lingua sconosciuta: mi sembrava fosse la giusta punizione. Purtroppo non era lui a controllarmi continuamente. Lo scoprii il giorno dopo, quando sulla mia scrivania trovai ancora il solito mazzo di fiori. Volevo solo andarmene il più lontano possibile da lì. Che ne so, in Messico. Come fanno i protagonisti dei film americani, che quando fanno una cazzata se ne scappano sempre in Messico. Telefonai alla mia segretaria. “Aveva ragione lei, mi prenderò qualche giorno di ferie. A cominciare da domani.” Andai in campagna dai miei genitori. Sapevo di non avere un bell'aspetto. Quando mia madre mi vide ricominciò a mettermi il santino di padre Pio nel portafoglio. Passavo le giornate in giardino a fare tiro con l'arco. La notte però non riuscivo a dormire. Mi giravo e rigiravo continuamente nel letto. Una sera scoprii che mia madre aveva messo il santino di padre Pio anche dentro il mio cuscino.

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Anche mio padre soffriva d'insonnia. I calli sulle mani e l'insonnia erano i segni che gli avevano lasciato i turni di notte in fabbrica. Aveva lavorato una vita dentro la Barzotto come operaio ed ora che aveva un figlio direttore di quella fabbrica si era preso la sua grande rivincita. Ma non parlavamo mai di lavoro. Mentre tendevamo l'arco e prendevamo la mira, la regola era chiara: non parlare. “Tua madre ha l'amante.” La mia freccia si perse al di là del bersaglio, sopra la siepe. “La mamma?” Mio padre tese l'arco. “Sono quattro mattine che trovo dei fiori davanti alla porta.” Centro perfetto. “Sempre gli stessi. Poi ogni tanto squilla il telefono, ma dall'altro lato non risponde nessuno.” “Avrà sbagliato numero.” “Cinque volte al giorno?” Lasciò partire un'altra freccia e fece di nuovo centro: “Se la becco l'ammazzo.” Tesi l'arco e provai a prendere la mira. Non ci riuscivo. La mano mi tremava troppo. Durante la cena mio padre si rifiutava di rivolgere la parola a mia madre. Ingurgitava con rabbia ogni boccone, beveva e riponeva il bicchiere sul tavolo sbattendolo con violenza. Mia madre era allibita. Non riusciva a toccare cibo. Fissava il piatto, in silenzio. Ad un certo punto cominciò a singhiozzare: “Mi dispiace.” Mio padre smise di masticare. Mia madre continuava a singhiozzare: “Perdonami.” “IO TI AMMAZZO!” La stava strozzando. Gli sferrai un pugno dietro la nuca e gli schiacciai la faccia sulla moquette. Mia madre accorse in suo aiuto. “LASCIALO GLI FAI MALE.” Con un fazzolettino asciugò il rivolo di sangue che gli usciva dal naso: “Non lo faccio più. Te lo giuro. È l'ultima volta. Non la chiamo più la donna delle pulizie non la chiamo più. Farò tutto da sola. Hai ragione tu. La casa è piccola e la donna delle pulizie costa troppo.” “La donna delle pulizie?” “L'ho fatta venire solo ieri mattina te lo giuro. Solo una volta.” “TU HAI L'AMANTE!” Mia madre smise di asciugargli il naso. “Tu sei matto.” “HO LE PROVE.” “Papà, quei fiori sono per me. Anche le telefonate.” “Non provare a difenderla. Non sono stupido come pensate voi.” “Ma quali fiori? Cosa state dicendo?” Mia madre era sempre più confusa. Li lasciai litigare. Provare a spiegare era inutile. La sola cosa che potevo fare era andarmene prima possibile da lì. Fuori il cielo tendeva al viola. Le luci battevano sul cofano della macchina. Mentre guidavo fissavo quelle luci. E all'improvviso mi sembrò di capire. “Direttore, è successo qualcosa?” La mia segreteria sembrava stupita di vedermi sulla soglia della sua porta di casa a quell'ora così tarda. “Non sei felice di vedermi?” le chiesi. Non voleva farmi entrare. Questa stronza mi controllava da settimane, mi spiava, mi seguiva dappertutto, perfino al supermercato. E ora non voleva farmi entrare. Vinsi la sua resistenza ed entrai nell'appartamento. “Perché non provi a dirmelo?”

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“Dirti cosa?” fece lei. Stronza. Mi telefonava di continuo e quando rispondevo, rimaneva in silenzio. Ma cazzo, ora che ero lì poteva dirmelo. “Ma dirti cosa?” “Che ti sei innamorata di me!” Lei rimase in silenzio, gli occhi sgranati e la bocca leggermente socchiusa dalla sorpresa. In quel momento si sentì la voce di un uomo provenire dall'altra stanza: “Chi è?” La segretaria rispose balbettando: “È… il mio capo.” L'uomo entrò nella stanza. Era il suo fidanzato: “Cosa vuole a quest'ora?” Lei si buttò tra le sue braccia: “Pazzo… è pazzo, dice che io sono innamorata di lui.” Lui si diresse minaccioso verso di me. “Mi manda i fiori” gli dissi. “Vattene, fuori di qui!” “Mi fa anche le telefonate…” L'uomo si avventò su di me, mi prese per il bavero della giacca e mi cacciò fuori. Passai la notte rintanato nella mia stanza, a piangere. Non riuscivo a capire chi fosse a controllarmi continuamente. Quando il giorno dopo tornai alla Barzotto, trovai il mio posto auto occupato da una Saab rossa con la targa gialla. Alla reception la ragazza mi spiegò che c'era stata una ridistribuzione dei posteggi. “No guardi ci deve essere un errore. Io parcheggio lì da cinque anni.” “Nessun errore, ho qui il nuovo elenco.” Mi diressi nel mio ufficio. Quando entrai vidi un tizio seduto sulla mia scrivania. “E lei chi è?” “Ah, la stavo aspettando.” “FUORI DAL MIO UFFICIO.” “Sono il nuovo direttore. E questo non è più il suo ufficio. La segretaria l'accompagnerà in quello nuovo.” La segretaria entrò e con un cenno della mano mi invitò ad uscire. Non ci potevo credere. Mi stavano facendo il torello. “Io non mi muovo da qui.” “Non renda le cose più difficili. Se ne vada per favore.” “Se ne vada lei.” Lo vidi stringere i pugni: “IO NON HO TEMPO DI DISCUTERE CON TE.” Si avvicinò e sorridendo mi disse: “Mi hanno detto che sei diventato mezzo matto. L'unica ragione per cui Boccaletti non ti ha licenziato in tronco è che non voleva creare un caso sindacale.” Concluse guardandomi con disprezzo: “Via, fuori da questo ufficio.” Tirò fuori dal cassetto un mazzo di fiori e me lo lanciò addosso. “E PORTATI FUORI PURE QUESTI!” Era il mazzo di fiori che ricevevo ogni giorno. Mentre piangevo la segretaria mi condusse al piano superiore. Mi indicò una porta: “Eccoti in mezzo ai tuoi simili, stronzo.” Era la stanza degli handicappati. Lì dentro c'erano sette persone, cinque uomini e due donne. Tre mongoloidi, due paraplegici, un sordocieco. Più un altro che non avevo mai capito bene che cosa avesse, ma camminava tutto storto. Erano stati assunti per rispettare la quota di legge. Niente telefono. Nella stanza c'era solo un tavolo ovale e loro in fila, accomodati tutti da una parte. Salutai e mi sedetti di fronte a loro, nella parte vuota, fradicio di sudore e tremebondo.

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Uno cantava. Due cercavano di giocare a carte. Una lavorava a maglia. Un altro mangiava tutto il giorno. Ad un certo punto si sentì male, gli altri cominciarono ad urlare, arrivò la segretaria e chiamò i parenti a casa perché venissero a prenderselo in fretta. Non avevo nulla da fare. Appena alzavo lo sguardo dal giornale vedevo uno che sbavava. Mi veniva da vomitare. L'handicappata che lavorava a maglia fissava con insistenza il mazzo di fiori che stringevo in mano. Poi volse lo sguardo verso di me. “Te li posso leggere?” Rimasi in silenzio, confuso. “I fiori! Mio papà mi ha insegnato il linguaggio dei fiori. Te li posso leggere?” La guardai perplesso per qualche istante, poi le porsi il mazzo di fiori che ricevevo tutti i giorni. Lei lo prese, felice come una bambina, e cominciò ad osservarlo. Quando finalmente lesse il messaggio, le sue parole mi sembrarono rimbombare nella stanza sempre più forte, come se volessero trapanarmi il cervello. “Sono Dio, il messaggio dei fiori è sono Dio.” Mi portai le mani sulla testa e cominciai a premere forte. Gli altri handicappati mi guardavano ridendo e sbavando. Poi cominciarono a ripetere il messaggio dei fiori con una specie di cantilena infantile e beffarda. “Sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio…” Continuarono fino a quando non corsi fuori dalla stanza, lasciando la mia lettera di dimissioni lì, sul tavolo. La mia macchina era ancora in mezzo al parcheggio. Mentre uscivo per l'ultima volta dal cortile della Barzotto, riuscivo a pensare solamente ai pomeriggi d'agosto di quando ero bambino. Pomeriggi passati a rincorrere passeri. Quanto li ho amati. Avevo messo a punto il passo felpato rubandolo al mio gatto, e i passeri quando mi avvicinavo non mi sentivano, poi correvo in casa gridando l'ho preso l'ho preso e mio padre sorrideva. Li imbeccavo con molliche di pane imbevute nel latte, usando uno stuzzicadenti. Tenero eh? Ero un bel bambino. Mi piaceva tenerli in mano perché erano morbidi e sentivo il loro cuoricino battere fortissimo. E poi finivano in gabbia, e la gabbia era spaziosa, e io la tenevo pulita, e il miglio c'era, e l'acqua pure, e allora non mi spiegavo perché quei passeri dopo tre giorni puntualmente finissero stecchiti sul fondo. Massimo tre giorni. Poi piangevo. Da quanto tempo ero in gabbia? Non lo ricordavo più. Guidavo più veloce del solito. Nonostante il caldo tenevo il maglione sopra la camicia buona e il volume quasi al massimo. Non sapevo dove andare. Mentre percorrevo quella strada molto lunga, dove non c'era mai traffico, ricominciai a sentire la voce degli handicappati risuonarmi sempre più forte dentro la testa, mi entrava nel cervello. “Sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio…” Quella cantilena era insopportabile. Non riuscivo a resistere. Chiusi gli occhi e urlai più forte che potevo. Non ricordo di essere uscito di strada. Non ricordo il fragore dello schianto della mia auto. Ricordo solo il viso di mio padre che stava accanto al mio letto e sorrideva mentre tentava di togliermi le bende dal viso. “Il dottore ha detto che devo tenerle ancora per qualche giorno”, gli dissi. Continuò a sorridere: “Beh, non vorrai andare al lavoro tutto bendato?” “Ma di cosa parli?” “Stamattina sono stato alla Barzotto. Ho parlato io con il direttore. Ti riprendono a lavorare.”

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Ripose le bende sul comodino accanto al letto: “Coraggio, alzati e vai a sciacquarti la faccia.” Andai in bagno e cominciai a fissare il mio volto riflesso sullo specchio, mentre sentivo mio padre che mi parlava, nell'altra stanza: “… ti ricordi l'operaio che avevi assunto per sostituire Riccardo? Beh, non ci crederai, si è licenziato. Non gli piaceva il lavoro, ha detto. È da una settimana che stavano cercando un altro operaio. Certo, è un lavoro di ripiego, ma se ti dai da fare, e non perdi tempo, sono sicuro che presto ti ridaranno il tuo telefono e la tua scrivania. Non sei contento?” Continuavo a fissare lo specchio. La faccia, la mia faccia, era completamente sfigurata. “Rispondi!… Non mi senti?… Di' qualcosa!… Non sei contento?… Che c'è?… Perché non parli?… Perché continui a restare in silenzio?…”

Fulvio Bergamin è nato a Valdagno (VI) nel 1977. Ha frequentato il biennio accademico alla Libera Università del Cinema dove ha conseguito il diploma in regia cinematografica nel 1999. Ha realizzato un cortometraggio, Play, e un documentario, Stradarolo.

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GIALLO PIOMBO Storie imperfette quanto il passato che raccontano di Francesco Ribolla PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO AD EPISODI O SERIE TV GENERE: GIALLO POLITICO

Immaginate di essere tra il 1978 e il 1982. Immaginate di trovare, un giorno, un filo che leghi Stato, terrorismo e mafia. Immaginate? Giallo Piombo ci regala cinque indagini mancate, cinque storie di vita quotidiana sconvolta. Il pezzo che manca in ognuna di esse si trova sempre nel puzzle della storia successiva, come se le verità ufficiali avessero gambe veloci, più di quelle degli uomini che lasciano stesi per strada. Lo sguardo dello spettatore resta così l'unico testimone di una Storia che ci assomiglia paurosamente, di una trama complessiva che soltanto l'immaginazione può restituirci. Il racconto scelto, La coincidenza, è il terzo di una serie di cinque racconti inanellati che potrebbero costituire una serie tv o un lungo ad episodi.

Queste storie, come tutte le sceneggiature e i soggetti che ho scritto e scrivo, nascono da uno sguardo sulla realtà. Una realtà anche storica, certo. Magari soggettiva. Però, in ogni caso (e particolarmente per Giallo Piombo), tendente a rimozioni e censure. In apertura della raccolta è citata una frase di Leonardo Sciascia, grandissimo osservatore - oltre che grandissimo scrittore - della realtà italiana: “Perché vi sia solidarietà tra tutti gli assassini, bisogna che vi sia sempre un certo numero di vittime innocenti.” Francesco Ribolla

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Fino a quel momento di bocconi amari ne avevo mandati giù tanti, ma tenevo duro. M'avevano messo in redazione a correggere bozze di articoli da pubblicare e tutto doveva essere pronto entro l'orario stabilito. Ricordo che quel pomeriggio ero più incazzato del solito, quando il redattore capo mi chiamò. “C'è stato un incidente sulla statale. Pare ci sia un morto. Va' un po' a vedere di che si tratta e porta con te Rivelli per le foto. Può darsi che si possa fare un pezzo…” “Che punto della statale?” “All'inizio, vicino a un ristorante. Aspetta che ti do il nominativo.” Guidavo io e Rivelli m'indicò il percorso più breve per raggiungere la statale. Non mi sorprendevo che si limitasse alle indicazioni e basta, non era un carattere loquace, Rivelli, ma chi poteva biasimarlo per quello? Lavorava in nero al giornale, come me, e per qualche agenzia da due soldi, marciando già verso i quaranta e il traguardo del fallito. Procedendo però per la nostra destinazione avvertivo che stava diventando più cupo degli altri giorni. “Di', Sandro. Che hai?” “Perché me lo chiedi?” “Non so, hai una faccia strana. Qualche guaio?” “Quelli ci sono sempre. No, non è questo.” “Allora che c'è?” “Niente, lascia perdere.” C'immettemmo sulla statale, un lungo rettilineo fiancheggiato da un filare d'alberi. Dopo qualche chilometro vedemmo in lontananza i lampeggiatori di segnalazione e le auto dei carabinieri fermi sul ciglio della strada. Il mutismo di Rivelli s'interruppe. “Cazzo, sembra incredibile. Quasi nello stesso posto...” “Quale posto?” “Te lo dico dopo. Ora sbrighiamoci.” Scendemmo dalla macchina e ci avviammo verso il capannello di curiosi che i carabinieri tenevano a bada per non farli avvicinare troppo al luogo dell'incidente. “Voi chi siete?” “Stampa. Siamo venuti a dare un'occhiata.” Il milite si voltò indietro, verso i superiori. Fu costretto ad alzare la voce per superare la distanza che ci separava da loro. “Brigadiere, ce ne sono altri due!” “Falli passare.” Superammo il blocco raggiungendo il sottufficiale, uno giovane, sulla trentina. “Cos'è stato, un malore o un sorpasso azzardato?” “Né l'uno né l'altro. È un omicidio.”

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Un omicidio. Forse era il primo colpo di fortuna che ricevevo in due anni. “Come è successo?” “Via radio la centrale ci ha avvertito che una vettura, un'Alfa, era finita fuori strada. Quando siamo arrivati, abbiamo visto che dentro c'era il guidatore riverso sul sedile. Abbiamo aperto lo sportello ed esaminato il corpo. La faccia era sporca di sangue e sul momento pensavamo che fosse andato a sbattere contro il parabrezza nello sbandamento del veicolo. Poi ci siamo accorti del foro d'entrata del proiettile sulla testa. Riteniamo che il proiettile sia entrato dal lunotto posteriore, completamente fracassato. È probabile che sia stato colpito durante un inseguimento.” “Un inseguimento?” “Sì. C'è un testimone che avrebbe visto tutta la scena, ma non posso dirvi di più. Il morto, comunque, è Alfredo Dani. Immagino che lo abbiate sentito già, questo nome.” “Ma chi, l'attore?” “Proprio lui. Sorprendente, no? Adesso però scusateci ma abbiamo da fare.” Era inutile insistere per avere altri dettagli, dovevo trovare subito un telefono e chiamare il giornale. Lasciai Rivelli a scattare qualche foto e tornai indietro con la macchina dirigendomi verso il ristorante che avevo visto arrivando, quasi un chilometro prima. Il locale era sull'altro lato della strada, una costruzione recente, con uno spiazzo interno per il parcheggio. Prima di entrarvi notai un particolare, una stonatura senza importanza. Sull'entrata mancava una delle due piante ornamentali poste di fianco al varco con l'insegna. Non era una trascuratezza: la pianta era stata letteralmente asportata dal recinto di protezione, come un gesto vandalico. Finii di pensarci non appena ebbi messo piede nel ristorante. Era pieno di cronisti che si disputavano l'unico apparecchio a disposizione. Pazientai un po' ma non era cosa. Mi sarebbe toccato di nuovo montare in macchina e cercarne un altro, quando accadde quello che nessuno s'aspettava. Un gruppo di carabinieri entrò nel locale e si guardò intorno. Drizzai le orecchie, come i miei colleghi. Non si sentiva più volare una mosca. “Dov'è il proprietario?” Una donna si fece incontro ai militi, cercò di balbettare qualche parola, poi scoppiò a piangere. Tra i singhiozzi riuscì finalmente a dire che il marito non voleva farlo, era stata una disgrazia. Fu il caos. L'ufficiale dei carabinieri ci urlò di star calmi e di non addossarci. Poi tornò a rivolgersi alla donna. “Dov'è suo marito, signora? È meglio che venga con noi, mi dia retta.” Non ci fu bisogno di convincerla, la voce del marito ci raggiunse dal fondo del salone. “Lasciatela in pace. Quello che cercate sono io.” Era sulla porta che immetteva in cucina. Se ne stava immobile, lo sguardo basso. Tra le mani teneva la pistola come fosse un fagottello. L'ufficiale fece cenno ai suoi uomini e a noi di rimanere fermi e si avvicinò all'uomo. “È con questa che gli ho sparato. Credevo fosse un ladro.” “La dia a me, coraggio.” “Sono stato io a chiamarvi. Avrei voluto venire a costituirmi, ma non ce l'ho fatta, ero sconvolto. Non volevo ucciderlo.”

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“Va bene, ora andiamo.” Lo seguì senza la minima resistenza. Nell'assalto dei cronisti riuscii a sapere da uno dei carabinieri dove lo avrebbero condotto per il primo interrogatorio. Mi ricordai di Rivelli, m'avrebbe sbranato per non averlo portato con me e andai a riprenderlo. Quando lo misi al corrente bestemmiò come un turco. “Fermati al ristorante, almeno cerco di fare qualche foto alla moglie.” “Dico, ma non hai proprio dignità?” “Va' a farti fottere tu e la dignità. Per colpa tua mi sono perso l'arresto.” “E io che ne sapevo che l'assassino era lì?” “Sai almeno perché lo ha ucciso?” “Pare che lo avesse scambiato per un ladro.” “Chi, Dani? Ma non dire stronzate. Lo conoscevano tutti. Avrebbe dovuto chiedergli l'autografo, non sparargli. Anche se come attore era un cane.” Come prevedevo, il ristorante era stato preso d'assedio. Poiché la donna s'era barricata in casa, Rivelli dovette accontentarsi di scattare qualche posa del locale. Il ristorante era un'impresa a conduzione familiare: marito, moglie, un figlio e un inserviente. Il figlio non c'era, l'inserviente sì. E stava spiegando ai cronisti come s'era svolta la faccenda. “... Ma no, vi dico. Il signor Morganti non è mai stato un tipo violento. Solo che dopo quattro furti di seguito teneva gli occhi aperti. Anzi, sembrava quasi che se l'aspettasse un altro furto. Così oggi ha notato quella macchina fermarsi fuori, sulla strada. Lo ha incuriosito il comportamento di quello che guidava. Perché quello si affacciava dal finestrino guardando a destra e a sinistra e verso il ristorante, senza decidersi a scendere. Poi finalmente è sceso, però continuava a guardarsi intorno. Ha aperto il portabagagli e ha fatto finta di perdere tempo, come se vi cercasse qualcosa. D'un tratto s'è avvicinato all'entrata, ha afferrato una delle piante, l'ha buttata nel portabagagli ed è ripartito. A questo punto il signor Morganti ha perso la testa, ha preso dalla cassa la pistola e lo ha inseguito con la sua macchina...” “E voi perché non avete cercato di fermarlo?” “Perché non eravamo qui quando è successo. Questa storia ce l'ha raccontata lui, dopo il fatto.” “Come sarebbe a dire?” “Ma sì, erano le quattro passate. Il ristorante era chiuso. Noi stavamo in cucina a rassettare.” “Sicché, la sua versione, voi potete confermarla solo per sentito dire...” “Mah, non vedo perché doveva mentirci. Quell'uomo si è inguaiato di brutto, per lui è la rovina, capite? Anche se ha ammazzato in un momento di pazzia, in galera chissà quanto ci rimarrà.” “Già. Però una cosa è l'imputazione di omicidio volontario e un'altra è quella preterintenzionale...” “Scusi, non capisco quello che state dicendo.” “Vogliamo dire che se la faccenda dei furti viene suffragata da eventuali denunce presentate a suo tempo, un buon avvocato riesce anche a farlo uscire.” “Beh, io queste cose non le so. Ma i furti ci sono stati, e come. Pure un tentativo di rapina. E io, allora, ero presente.” “E anche quella volta il signor Morganti ha tirato fuori la pistola?” “Non ce n'è stato bisogno. Era un balordo. Appena ha visto che il titolare non s'impauriva per niente e stava per buttarglisi addosso, è scappato a gambe levate.” “Uhm. Ha avuto una bella fortuna. Di solito, sono proprio i balordi a sparare senza pensarci due volte...”

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Rivelli, che aveva ascoltato la discussione, mormorò: “Se è stata fortuna.” Gli altri non lo avevano sentito. Mi diede di gomito e uscimmo. In macchina, mentre ci dirigevamo al giornale, cercai di stuzzicarlo. “Certo, morire ammazzati per il furto di una pianta è davvero idiota. E poi ti pare che Dani non potesse permettersi tutte le piante e i fiori che voleva? Se proprio gli piaceva quella, sarebbe bastato chiedere a Morganti dove l'aveva comprata. O magari proporgli di vendergliela. Ma così no. Oltre tutto, una persona nota non corre il rischio di sputtanarsi in quel modo...” Sulla bocca di Rivelli si disegnò un mezzo sorriso, era un evento eccezionale con quel caratteraccio che si ritrovava. “Questa storia puzza esattamente come quella di cui sono stato testimone una decina d'anni fa. E sempre da queste parti.” “A proposito, poi non te l'ho più chiesto. Di che si tratta?” “Dammi una sigaretta, va'. Ora ti racconto...” Quella mattina di fine aprile 1969, una mattina piena di sole, Sandro stava tornando da un servizio fotografico realizzato la sera prima sull'apertura di un festival “alternativo”, una rassegna di polpettoni terzomondisti che non sarebbero mai arrivati sugli schermi nazionali ma che aveva attirato una forte presenza di divi mondani. Percorreva la statale 47, la stessa dove avrebbe trovato la morte in quel modo stupido Alfredo Dani, proprio nel punto dove la strada è larga e in rettilineo. Mancavano dieci minuti a mezzogiorno. D'un tratto, circa un duecento metri più avanti, vide formarsi una nuvola di polvere sulla corsia di sinistra. Non gli ci volle molto per capire quello che era avvenuto. Una vettura proveniente in senso inverso era sbandata sulla destra, aveva sfiorato due paracarri e urtato un platano per poi finire ruote all'aria sulla corsia opposta. Era un'Alfa Romeo 1600 targata Roma. Dalla portiera spalancata, mezzo fuori e mezzo dentro, giaceva riverso il corpo del conducente, un uomo sui cinquanta, con una vasta ferita alla testa. Stava morendo, su questo non c'erano dubbi, e Rivelli, che aveva fermato la sua auto ancor prima che accorresse gente da una vicina trattoria, prese la sua Nikon e cominciò a scattar foto. Lo aveva fatto d'istinto, quale che sia, per cinismo o per deformazione professionale. Ma tant'è, quelle foto, anche se lui non lo sapeva, sarebbero state al centro dell'intrigo in cui si sarebbe cacciato. Notò due particolari. Il primo riguardava la mancanza di segni di frenata sull'asfalto, come se il guidatore si fosse sentito improvvisamente male perdendo i sensi e, al contempo, il controllo della vettura. Poi vide le borse, due cartelle di pelle nera con base larga, a soffietto. Una era stata sbalzata fuori dall'urto e spuntava sotto l'auto rovesciata. L'altra era ancora all'interno. Non le toccò, né le toccarono gli altri quando arrivarono. Per quanto fosse inutile, uno di loro volle caricare in macchina quello sventurato per portarlo al vicino ospedale di Campo San Matteo. Rivelli, invece, rimase sul posto ad aspettare l'arrivo della stradale. Quando gli agenti frugarono nella macchina venne fuori il libretto di circolazione: era intestato all'Esercito Militare. Il ritrovamento di un berretto con visiera non aiutò granché a capire se la vittima poteva essere un autista o magari l'attendente di qualche ufficiale, visto che era in borghese. In mancanza di altri documenti d'identificazione, furono perciò aperte le borse. In una c'era un dattiloscritto che sembrava una relazione tecnica ed un gruppo di elaborati con la dicitura “riservato”. L'altra era piena di denaro, bancono-

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te di grosso taglio nuove di zecca e divise in tante mazzette per una cifra da capogiro, almeno per quei tempi. Ovvio che la scoperta di quel materiale rendeva ancora più urgente l'accertamento dell'identità del moribondo, da dove proveniva, dove era diretto e soprattutto perché viaggiava con quel ben di Dio. Una delle volanti partì per l'ospedale. L'uomo, intanto, vi era arrivato morto e non aveva documenti addosso. Non fu quindi possibile identificarlo finché una telefonata proveniente dal comando della Terza Armata segnalò ai carabinieri la preoccupante assenza del generale Anton Giulio Parenti, suprema autorità di quel corpo militare, atteso da ore per un'importante cerimonia. All'età di cinquantadue anni, Parenti era stato il più giovane generale a quattro stelle del Paese. Già partigiano in guerra, s'era distinto durante la sua carriera per gli indiscussi meriti e la brillante preparazione, tanto da fargli guadagnare la stima ed il rispetto anche delle sinistre, mai troppo indulgenti verso i militari. Fra il 1965 ed il '66, prima di ricoprire il comando del Terzo Corpo d'Armata, Parenti aveva retto il timone dell'Arma dei Carabinieri, succedendo al generale Ferruccio De Angelis. Non era stata una successione facile perché all'interno dei vertici d'apparato s'era scatenata una lotta senza quartiere che poi finì con l'esplodere del tutto grazie alle rivelazioni su un presunto tentativo di golpe allestito nel 1964 proprio da De Angelis, quando questi era ancora comandante dell'Arma. Lo scandalo fu enorme. Parenti, per non farsi travolgere, ordinò al suo vice un'inchiesta dettagliata su quei fatti. L'inchiesta si fece, ma non fu possibile divulgarla perché il Presidente del Consiglio, Eraldo Bruni, appose il segreto di Stato. Benché innocente, il generale fu spostato dall'alto comando della Benemerita a quello della Terza Armata. A molti sembrò una punizione, ma non era così. Prima di andarsene, però, l'alto ufficiale pensò bene di portarsi via copia originale dell'inchiesta da lui ordinata. Il rapporto con i nomi dei congiurati, i particolari del piano, le complicità degli ambienti finanziari ed industriali e la lista completa dei personaggi del mondo politico, sindacale ed intellettuale da imprigionare o sopprimere durante l'operazione erano contenuti in quel dattiloscritto che Sandro aveva fatto in tempo a scorgere quando gli agenti avevano aperto la borsa. Questo, allora, Sandro lo ignorava, come ignorava gli sviluppi che la faccenda stava prendendo. Tuttavia aveva deciso di aspettare sul posto e se n'era andato in quella vicina trattoria per telefonare al giornale. Il Bar Trattoria Curtarone era ricavato da un casolare che disponeva anche di camere per quei clienti che vi avessero voluto pernottare. Era gestito da una famigliola del posto, gente alla buona ma ospitale. A Rivelli non piacque invece il barista, c'era qualcosa in lui che non gli andava a genio. Era tornato dietro il bancone dopo essere accorso fuori con gli altri e a Sandro era sembrato di scorgere un certo disappunto nell'espressione che gli si era dipinta sulla faccia quando lo aveva visto scattare quelle foto. Avevano anche scambiato qualche parola e il barista s'era messo a commentare il fatto dicendo che doveva essere stato un malore improvviso o un guasto meccanico. Malgrado fossero queste le due uniche ipotesi plausibili, a Sandro non era piaciuta nemmeno l'ostentata sicurezza del tono. Peraltro, un ragazzo che era fuori la trattoria al momento dell'incidente disse che la macchina non correva forte: viaggiava sì e no sui settanta. Il barista gli si rivolse in malo modo, ammonendolo di starsene zitto che di certe cose, lui, non capiva niente. “Non ha tutti i torti. Guardi i segni dei pneumatici.” “Che hanno?” “È come se la sbandata fosse stata provocata da qualcosa.” “Sarà stato un gatto che gli ha attraversato la strada, ce ne sono molti qui...” “Avrebbe cercato di frenare, non crede?”

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L'altro scrollò le spalle e tornò sui propri passi. Ora Sandro lo aveva di nuovo di fronte mentre prendeva un caffè. Chiese dov'era un telefono e quello glielo indicò. Non appena ebbe finito di comunicare i fatti al redattore e posato la cornetta, si girò e li vide. Erano in tre, vestiti in borghese, e lo stavano aspettando. “Ci scusi, dobbiamo parlarle...” “Di che cosa? ” “Dell'incidente. Siamo dell'ufficio investigativo dei carabinieri. Ci risulta che lei ha scattato delle fotografie poco fa.” “Sì. E allora?” “Deve consegnarci il rullino. Ci serve.” “Beh, serve anche a me. È il mio lavoro. E poi perché lo volete?” “Perché lei è stato il primo ad arrivare sul luogo dell'incidente e ha fotografato la vittima prima che la portassero via.” “E con questo?” “Dobbiamo stabilire con esattezza la posizione del corpo. E quelle fotografie possono aiutarci. Inoltre le ricordo che la sottrazione di prove è un reato. Ma stia tranquillo, riavrà i negativi il più presto possibile.” Sandro guardò in faccia i tre. Non si fidava ma c'era poco da tergiversare. Gli consegnò il rullino. Uno della manifestazione della sera precedente. “Grazie. Dov'è che possiamo rintracciarla per restituirle i negativi?” Gli allungò il suo biglietto da visita. Quando avrebbero scoperto il trucco sarebbe stato troppo tardi. E poi poteva sempre dire di aver sbagliato rullino. I tre uscirono. Sandro li seguì con lo sguardo, poi si rivolse al barista. “Senta, lei. Com'è che si chiama?” “Perché vuol saperlo?” “È per il pezzo che devo scrivere.” “No, guardi, preferirei che il mio nome non apparisse sul giornale.” “Come vuole. E quei tre, è da molto che li conosce?” “Ma che dice, perché dovrei conoscerli? Quelli non li ho mai visti in vita mia.” “Davvero? Beh, qualcuno deve pur averli avvertiti delle foto...” “E non penserà mica che sono stato io?!” “Amico, lì fuori siete arrivati in tre prima che mettessi via la macchina fotografica. E soltanto voi tre m'avete visto scattare quelle foto. Lei, il gestore e il ragazzo. Però lei è rientrato per primo. E quei due sono ancora fuori a parlare con gli agenti.” “Ma che le salta in mente? Perché avrei dovuto avvertire quelli delle sue fotografie?” “Già, perché?” “Senta, qui io ci lavoro e non ho tempo da perdere. Se lei vuole attaccar briga, se ne cerchi un altro che ho da fare.” Sandro lasciò il locale convinto che quello non gliela contava giusta. S'era fatta più folla e avevano raddrizzato l'auto, ma lo colpì il fatto che gli agenti della stradale non c'erano più. Il posto pullulava adesso di carabinieri e di altre persone, uomini dai modi sbrigativi, con una faccia strana, proprio come quei tre che si erano fatti consegnare il rullino. Vide uno di loro fermo a parlare con un collega.

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Lo fissava. Strafottente e figlio di puttana com'era sempre stato, Rivelli si diresse verso di lui. “Allora, si è saputo il nome di quel poveraccio?” “Non ancora, ma è questione di poco.” “Come mai la stradale è andata via?” “Ce ne occupiamo noi.” “Eh, lo vedo. Proprio per questo mi sembra strano che non sappiate ancora chi era il conducente dell'Alfa.” “E perché le sembra strano?” “Perché di solito i carabinieri non mandano via i colleghi che sono arrivati prima di loro. A meno che non ci sia una buona ragione.” L'altro non gli rispose. Rivelli girò i tacchi per raggiungere la macchina che aveva parcheggiato poco più in là. Sentì la voce dell'uomo dietro di lui. “Dove sta andando?” “Al giornale, torno in città. Tanto sapete dov'è, se avrete bisogno di me.” “Per questo può starne certo. Ci rifaremo vivi.” Mentre andava via, Sandro credette di vedere nello specchietto retrovisore l'uomo prendere nota della targa. Tornato in città, invece di andare al giornale, filò dritto a casa sua per sviluppare il rullino. Si chiuse in camera oscura e sbrigò tutte le operazioni. Il negativo era appeso ad asciugare, Sandro lo osservava con la lente per decidere quale fosse l'inquadratura migliore. Aveva scattato diverse pose, una in particolare mostrava l'incidente nel suo insieme: l'Alfa rovesciata, il corpo del guidatore, il bagagliaio aperto e una delle due borse dal quale era caduta. Sullo sfondo c'era la trattoria. Si vedevano le finestre del piano superiore del casolare, quelle delle camere per i clienti, Rivelli aguzzò la vista. C'era qualche altra cosa che l'obiettivo aveva fermato. Asciugò il negativo con una spugna, tagliò il fotogramma e lo mise nell'ingranditore. Il particolare ingrandito di una delle finestre mostrava un uomo con il binocolo. L'uomo stava guardando verso di lui. Forse in qualche altra posa poteva aver centrato l'immagine di quell'uomo senza il binocolo che gli copriva la faccia. Cercò nel negativo tutte le inquadrature che ritraevano il casolare con la stessa fila di finestre. Ne trovò una più accettabile, tagliò ancora e infilò il nuovo fotogramma nell'ingranditore. Fu allora che bussarono alla porta. Non sarebbe dovuto andare ad aprire, ma a certe precauzioni si pensa solo quando è troppo tardi. Era un garzone, o almeno gli sembrò che lo fosse, con quel grembiule un po' sporco e la borsa di plastica con la stampigliatura di una nota marca alimentare. “Che c'è?” “Mi scusi, ma guardi che le hanno spaccato la porta. Forse volevano forzarla...” “Dove?” “Qui, guardi, per terra.” Affacciandosi dalla soglia chinò d'istinto la testa dove il garzone gli stava indicando e bastò quell'attimo. Mentre veniva colpito al capo fece in tempo a vedere le scarpe dell'altro che era di lato. Un secondo colpo lo accompagnò nel buio. Picchiavano da professionisti.

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Rinvenne a mattino inoltrato e si meravigliò di essere ancora vivo. Era così sorpreso che il dolore all'occipite lo rallegrò. Non gli doleva soltanto la testa, l'avambraccio era scoperto e vide la puntura dell'ago ipodermico. Provò ad alzarsi ma l'appartamento gli girò intorno. Poi, pian piano, la lucidità gli permise di capire che avevano messo tutto a soqquadro. Si alzò a fatica cercando di raggiungere la camera oscura, sapeva già che il negativo era scomparso ma temeva per la sorte delle apparecchiature. Lì dentro sembrava che fosse passato un bulldozer. Si accasciò di nuovo a terra in preda allo sconforto, il telefono squillò ma lui non rispose. Quanto fosse andato vicino allo scoop della sua vita, Sandro lo seppe qualche ora più tardi, quando quelli del giornale, messi in allarme dalla sua assenza e dal telefono che non rispondeva, corsero a casa sua e gli dissero chi era il morto. “... e delle borse che ne è stato?” “Quali borse?” “Quelle che erano a bordo della macchina. Una con il danaro e l'altra con i documenti.” “Non se ne sa niente. Ma sei sicuro di averle viste?” “Perdio, le ho anche fotografate!” “Buono, non agitarti. Se le hai viste, verranno fuori.” “No, non verranno fuori. Potete starne certi. E la mia parola, o quella degli altri testimoni che le hanno viste, non conta un cazzo. Hanno pensato a tutto, quegli stronzi...” Sì, avevano pensato a tutto. La magistratura competente non dispose né la perizia sull'Alfa né l'autopsia del corpo di Parenti. Per quanto sembrasse strano che un ufficiale di altissimo grado, per di più diretto ad un cerimoniale, viaggiasse in borghese, senza autista e senza documenti d'identità, l'istruttoria sulla morte del generale si chiuse con un nulla di fatto. Le borse non furono mai ritrovate e la disavventura di Alessandro Rivelli finì in archivio come furto con aggressione. “Sai, mi sono sempre chiesto perché m'hanno lasciato campare. Forse solo perché un altro cadavere nello stesso giorno sarebbe stato imbarazzante. O forse m'avevano visto in troppi sul luogo dell'incidente. E poi c'era quella telefonata che avevo fatto dalla trattoria. Il giornale ci avrebbe sguazzato con la mia morte. Quasi gli dispiaceva, ai cari colleghi, che fossi rimasto vivo.” “Per la miseria, ti sei tenuto questa storia tutto questo tempo senza mai raccontarmela, bell'amico che sei!” “Capirai, con quello che ci ho rimesso, mi rode ancora. Ma c'è un'altra cosa che mi rode ancora di più.” “Sarebbe?” “Beh, prendi l'omicidio di stasera. Tu ci credi alle coincidenze?” “Sono sempre possibili, no?” “Sarà, ma io l'episodio del barista non sono mai riuscito a digerirlo. Dopo questa storia mi sono trasferito per qualche tempo a Roma e non ho più avuto occasione di approfondirlo, quell'episodio. Poi un giorno, tornando da queste parti, mi sono fermato in quella trattoria a parlare con il gestore. Siccome non vedevo il barista, gli ho chiesto che fine avesse fatto. Ce l'aveva a morte con quello. Se n'era andato una settimana dopo l'incidente e senza preavviso, rilevando un ristorante poco più avanti. Il gestore della trattoria non si dava pace per come un morto di fame così avesse potuto trovare la cifra necessaria per rilevare un ristorante. Però era anche felice di esserselo tolto davanti ai coglioni per quelle idee che aveva.” “Che idee?” “Mah, a sentir lui, quello era un esaltato, un nazista convinto. Da queste parti ce ne sono parecchi

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così. Pare ce ne fossero diversi anche fra gli ufficiali della Terza Armata, quella comandata da Parenti. Comunque è stato allora che ho saputo il nome del barista. Si chiamava Morganti, Aldo Morganti. Cioè l'uomo che avrebbe ammazzato Dani stasera.” “Ma dai, non è possibile...” “Invece è vero, anche se è solo una coincidenza. Certo bisognerebbe vedere se Morganti ne conosceva qualcuno di quegli ufficiali fanatici. A quel comando sembra che Parenti fosse arrivato con l'incarico di fare un bel repulisti. Insomma, dopo l'inchiesta che aveva ordinato sul golpe di De Angelis, toccandogli ancora far pulizia, qualcuno avrà pensato bene di toglierselo dai piedi. E di far sparire quel rapporto.” “Accidenti, sei fantastico. È tutto così affascinante. Persino vero se non ci fosse di mezzo l'omicidio di Dani. Cosa vuoi che c'entri con questa storia?” “Ah, nulla probabilmente. Però nell'ambiente del cinema erano note le sue simpatie politiche. E mi piacerebbe dare un'occhiata al suo stato di servizio quando, in gioventù, prima di diventare quel cane di attore, era di stanza proprio da queste parti.” “Vuoi dire che era nella Terza Armata?” “Voglio dire che con le coincidenze, le voci e le chiacchiere nessun giudice ha tempo da perdere. Poi mi dirai.” Non ebbi modo di dargli ragione. Quando il processo a carico di Morganti si concluse, Sandro non c'era già più. Se n'era andato per un malore una sera, mentre stava salendo le scale che portavano al suo appartamento. Morganti fu condannato in prima istanza al minimo della pena prevista, proprio per omicidio preterintenzionale. La pena fu ridotta in appello. In tutto se la cavò con tre anni, in parte condonati. Non ho altro da aggiungere se non che mi è mancato il tempo e la voglia di scavare nel passato di Alfredo Dani. Non so dire, perciò, se vi fosse attinenza con gli intrighi che Sandro mi aveva raccontato. Però l'altra sera una televisione privata ha trasmesso un vecchio film, un poliziesco da maggioranza silenziosa come se ne giravano nei primi anni '70. E devo dirlo, anche in questo Sandro aveva ragione: come attore, quel Dani, era proprio un cane.

Francesco Ribolla nasce nel 1955 a Napoli, città in cui è sempre vissuto, tranne che per qualche breve spostamento a Roma e a Milano. È giornalista e questa sua attività lo ha portato a scrivere storie per il cinema che riesaminano e rileggono il passato prossimo italiano. Le sceneggiature che propone si rifanno a quel cinema d'inchiesta che ha per modello esemplare Il caso Mattei di Francesco Rosi.

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LATTE DOLCE di Fernanda Moneta PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMA SOCIALE

Troppo semplice dire che questa è una storia sul disagio giovanile: il disagio è generale. Di gioventù bruciata o di ribellione non si può far cenno. Nella disperazione quotidiana dei quartieri sottoproletari di Sassari, dove la sopravvivenza è il valore supremo, l'unico modo per vendicare la propria dignità è attraverso la violenza. In un mondo senza redenzione, violenza e morte sono ineluttabili, a meno che... Latte Dolce è stato selezionato come finalista nell'edizione 2000 del Premio Solinas.

La Sardegna è nota per essere luogo di villeggiatura dei vip, per le cale e per la Costa Smeralda, per avere dato all'Italia politici e un Presidente della Repubblica. Ma d'inverno, vuota di turisti ricchi, è una terra senza speranza, in cui il tasso di disoccupazione è altissimo, l'alcool e l'eroina sono le droghe più diffuse e il malessere sociale dei cittadini è più evidente che in altre zone del Paese. Alla situazione già complessa da gestire, da qualche anno si sommano i problemi sociali portati dall'immigrazione dall'Africa, dai Paesi dell'Est e dall'Albania. A nord dell'isola, Sassari, seconda città sarda, vive in pieno questa schizofrenia: il centro storico e il quartiere Latte Dolce sono le zone più a rischio della città. Emma e Geco e gli altri sono falliti eroi costantemente in assetto di combattimento per una guerra che potranno vincere solo arrendendosi, cambiando o andando via. Fernanda Moneta

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Venti gradi Celsius, vento forza tre, all'inizio della primavera. Coperto dalla patina nera di una notte lucida, squarciata solo dai fasci di luce gialla dei lampioni antichi, il centro storico di Sassari è silenzioso. Alle nove della sera è troppo presto per incontrare gli alcolizzati in cerca di guai, troppo tardi per le bande dei ragazzi di strada, che a quest'ora fanno un salto a casa per cenare. Solo i cani randagi girano per i vicoli, in cerca di cibo. Loro, i ladri d'auto e i poliziotti. In un vicolo di fronte al Duomo, tre ragazzi di circa vent'anni sono seduti in un'auto in sosta. Al posto di guida, Geco, diciott'anni, capelli neri corti, un metro e settanta di muscoli portati con dispetto, ha in mano i cavi dell'accensione. Mentre le mani agiscono, gli occhi neri sono concentrati sullo specchietto retrovisore, impenetrabili. Cosa potranno ricavare da quel furto? Cinquecento? Un milione? Diviso tre, se tutto va bene, centomila, trecento a testa. La bombola del gas, il telefono, forse ci scappano cinquantamilalire per un bomber che ha visto in una svendita in via Carlo Alberto. Accanto a lui Fozzeta, un senegalese di diciannove anni, fuma una canna e fruga nel cruscotto. “Che cazzo di macchina. Poi mi devi spiegare come facciamo a scappare in tre con questo bidone.” “Vuoi che prendiamo la tua?” Sul sedile posteriore, Ciodda, sedici anni, beve da una bottiglia di birra. Nervoso, ha le mani più sudate del solito e si controlla le pieghe dello stomaco: “Ehi, secondo voi, sto ingrassando?” “Sei un ciccione di merda!” Una pattuglia della polizia procede lentamente, le luci spente, fino a fermarsi ad una decina di metri dall'auto sospetta. Proprio in quel momento Geco riesce ad accendere il motore. Tra i complimenti degli amici mette la prima, guarda nello specchietto retrovisore e si accorge della presenza della volante. “Cazzo, la pula! Al mio tre.” Uno, due, tre: schizzano fuori dall'auto. Due poliziotti scendono dalla pantera, mentre il terzo resta al posto di guida e segnala l'inseguimento alla centrale. “Fermi, polizia!” Ma nessuno dei ragazzi accenna a rallentare la corsa. “Polizia, fermi o sparo!” Uno degli agenti estrae la Beretta dalla fondina e la punta in aria. Spara. Il colpo risuona nel silenzio. Ciodda ha un attimo d'esitazione. Il panico gli afferra le gambe e lo fa inciampare. Il poliziotto gli è addosso e lo blocca puntandogli la pistola alla nuca. L'altro agente invece continua a inseguire Geco e Fozzeta che, arrivati alla fine della via si separano. Lui non ha dubbi, insegue quello che gli sembra il capo: Geco, che corre all'impazzata. Intanto, nel Multimarket di via Cavour, Emma è davanti alla cassa. Ha quindici anni, i capelli corti tinti di biondo platino, il fisico asciutto. È vestita semplicemente: indossa un paio di pantaloni e una maglia oversize. Quando passa per strada, gli anfibi ai piedi, i jeans con le tasche sulle cosce, il seno così grande che sembra appiccicato con il bostik, segnato dalle bretelle dello zainetto comprato al mercatino, Emma sembra un guerriero. Nella testa di chi la incontra, Emma non ha paura di niente. Ma non è così. La sua piccola spesa passa veloce dal carrello ai sacchetti. Alcune clienti che aspettano il proprio turno bisbigliano fra di loro. Emma sa che stanno parlando

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di lei. Emma la puttana, Emma la rubamariti. Lo sanno tutti che basta pagare trecentomila a suo padre per averla. Emma è di tutti, tranne che di se stessa. Il direttore del supermercato si fa avanti cercando di essere gentile: “Luisa”, dice alla cassiera che avrà più o meno l'età di Emma, “fai un bello sconto alla signorina.” E le strizza l'occhio. Emma diventa rossa di rabbia. Butta i soldi sul nastro, afferra i sacchetti ed esce. La porta a vetri è spalancata. Emma la attraversa con le lacrime agli occhi quando va a sbattere contro qualcuno: “Cazzo, ma che...” Geco cade lungo disteso ai suoi piedi. Emma ha appena il tempo di metterlo a fuoco che il poliziotto è addosso al ragazzo. Mentre Geco cerca di rialzarsi, gli punta la pistola contro e gli molla un calcio nel fianco: “Fermo, non ti muovere!” Emma mantiene i nervi saldi e con un colpo secco dato con una delle borse della spesa fa cadere l'arma dalle mani dell'agente che resta a bocca aperta, sorpreso di quella alleanza imprevista. È un attimo. Geco è già in piedi e lo stordisce con un pugno. L'agente cade. Buio. Emma afferra la mano di Geco e lo trascina via. Una corsa per i vicoli del centro, tra i passanti radi che si fanno i fatti propri. A destra, a sinistra, ancora a destra, lungo un percorso che li porta dritti in via Università, alla casa dove lei vive coi genitori: il padre naturale e la matrigna, un'albanese di trent'anni che il padre s'è messo in casa un paio d'anni prima. Emma apre il portone e spinge dentro Geco appena in tempo per evitare di essere visti dalla volante che pattuglia la zona. “Cos'hai fatto?” “Niente.” “Già, niente!” Emma si accorge che Geco le sta guardando il petto. Istintivamente cerca di aggiustarsi il maglione. “Come ti chiami?” “Emma.” “Io Geco.” Lei ride e lui con lei. I rumori richiamano l'attenzione del padre della ragazza che accende la luce. Emma spinge Geco nel buio del sottoscala e gli fa cenno di tacere. “Con chi sei?” “Nessuno.” Emma è tornata alla realtà. Riprende i sacchetti della spesa e sale le scale. “Hai preso tutto?” “Eia.” “Muoviti, vai a lavarti.” Geco resta nascosto, è stanco e quello gli sembra un posto sicuro dove poter riprendere un po' di forze prima di tornare a casa. Il cliente ha più di cinquant'anni, un tipo secco da giacca e cravatta. Entra di soppiatto, si guarda attorno. Anche se nell'androne la penombra è fitta, porta gli occhiali scuri in un tentativo infantile di non farsi riconoscere. Paga a quello che Geco intuisce essere il padre di Emma, trecentomilalire e sale le scale, da solo. L'altro apre il portone ed esce. Geco non sa cosa fare: restare o andarsene. Resta. Dopo circa mezz'ora l'uomo ripassa davanti al suo nascondiglio. Non appena il portone si richiude dietro le sue spalle, dall'appartamento di sopra risuonano le urla di un litigio furibondo. “Che ti sei messa in testa? Vedrai che lo dico a tuo padre, quello ti ammazza!” “Non mi rompere, quello puzzava!”

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“Dove vai adesso?” Emma scende le scale di corsa. Apre il portone e lo richiude per far credere alla matrigna di essere andata via. “Sei ancora lì?” “Sì.” Geco cerca nelle tasche del bomber e tira fuori un pacchetto di gomme da masticare alla clorofilla. Allunga la mano e le mette sotto il naso di Emma che ne prende una e, mettendola in bocca, scoppia a piangere. Geco cerca di abbracciarla. È un gesto goffo di chi non è abituato ad abbracciare nessuno. Ci resta un po' male quando Emma, istintivamente, si ritrae. “Tranquilla, sono tuo amico, ricordi?” Si addormentano al buio, uno appiccicato all'altra, le mani intrecciate in una stretta disperata. Quando la mattina seguente Geco rientra a casa, il padre non sembra neanche accorgersi che ha passato fuori tutta la notte. Alle otto è già alla seconda Moretti: il genere di pubblico che guarda Starsky e Hutch a qualsiasi ora. Non è domenica: è a casa perché è lì che sta sempre, in depressione fissa da almeno otto anni, da quando cioè la Fiat di Torino lo ha licenziato in tronco perché si è messo in tasca un rotolo di nastro biadesivo preso dall'officina. Cose che capitano - quella d'essere scoperti - ma solo ai più sfigati o a quelli che con la gente non ci sanno fare e si fanno un sacco di nemici. Il caso è questo. Da quel colpo non si era più ripreso, sempre più chiuso in se stesso, sempre più schiavo dell'alcool. Ognuno a suo modo, la famiglia lo aveva seguito in questa metamorfosi e nel ritorno forzato a casa, in Sardegna. Da quel fatto sua moglie è diventata bisbetica. In casa è l'unica, oltre Geco, a portare un po' di centomilalire lavando le scale in alcuni palazzi. E in tempi di vacche magre, persino le sue sorelle si sono tirate indietro: “Sai, anche i nostri conti non vanno bene”, “Mio figlio è disoccupato pure lui”, eccetera. È sola, abbandonata da tutti di fronte ai conti della spesa, all'affitto e alle bollette. Così, quando vede Geco dalla porta della cucina, lo aggredisce con una furia che copre la disperazione come un vestito di tutti i giorni. “Hai portato i soldi che ti ho chiesto?” “C'è stato un problema...” Tale padre, tale figlio. Per loro c'è sempre un problema. Ed è a lei che tocca risolverlo. Non le importa come il figlio si guadagni da vivere. In verità non le importa di niente. “Un problema? E cosa gli dico io al padrone di casa? Maledetto, sei come tuo padre!” Indifferente alle urla della madre, Geco va dritto in bagno, si chiude la porta alle spalle. Il rumore della doccia copre le urla isteriche. Prende una lametta e si procura un profondo taglio all'avambraccio. Urlo silenzioso liberatorio. Il dolore fisico sa affrontarlo alla grande. Si guarda allo specchio. Il sangue scorre. Ecco, così... va molto meglio, molto meglio. Giardini all'Emiciclo, tardo pomeriggio. Geco e Fozzeta sono seduti sulla solita panchina. Fozzeta ha steso il tappetino nero su cui ha disposto in bella mostra i videogiochi e le videocassette pirata. Bevono una birra, commentando la cattura di Ciodda che resterà in carcere ancora tre giorni. Un bel ragazzo dal fisico atletico, i capelli corti biondo cenere, li avvicina: “Che avete da accendere?” chiede con l'accento del nord. Geco gli lancia appena uno sguardo. Cerca l'accendino in tasca e intanto gli occhi gli cadono sulle scarpe di quello che sta di fronte a lui, la sigaretta pronta a ricevere la fiamma. Punta mezza quadra,

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suola in doppio cuoio spessa, troppo precise, troppo lucide: troppo simili a quelle usate dai pivelli della polizia. Lo guarda meglio, stenta a riconoscerlo... Un rivolo di sudore freddo gli scende lungo la schiena. “Cazzo!” pensa ad alta voce, mentre ordina al corpo di stare immobile, ma è tardi: è già in piedi. Il ragazzo gli offre un sorriso di ghiaccio che di amichevole non ha nulla e che lo blocca lì com'è, pietrificato. “Sì, ci conosciamo. Ti tengo d'occhio te e la tua amica. So aspettare, io. Fate una mossa sbagliata, una cazzata qualsiasi, e ve la faccio pagare. E tu, ce l'hai l'ultimo di Lara Croft?” Geco, che si è ripreso, fa il finto tonto e Fozzeta fa finta di non parlare bene l'italiano, un giochetto che gli funziona sempre: “Ehi, ecco amigo, fa ventimila per te, amigo!” Dopo un silenzio interminabile, in cui non li perde di vista un attimo, il poliziotto se ne va, portandosi il videogioco con un semplice “Grazie di tutto e buon lavoro!” Appena lo perdono di vista, Fozzeta chiede a Geco chi è la ragazza di cui parlava il poliziotto. “È un tipo tranquillo, senza lei sarei ingabbiato.” Ma qualcosa nel tono della voce e nel restare vago fa intuire che dietro le parole c'è qualcosa di più della gratitudine. Ingelosito, Fozzeta ci va giù pesante: “Te la sei fatta? Scommettiamo che le piace di più il cazzo nero?” Geco gli ordina di stare zitto: la ragazza gli ha salvato il culo. “E poi, minchia, mica stiamo assieme io e te. Nero di mmerda!” E dopo questa se ne va, lasciandosi dietro le spalle Fozzeta che urla e gesticola, un po' geloso, un po' offeso. Piazza Tola, tardo pomeriggio. Le bancarelle sono tutte andate via, lasciando a terra i resti di una giornata di mercato. La zona che da qui arriva fino a via Rosello è ritornata territorio di bande, spacciatori, eroinomani, alcolizzati. Geco siede su una delle panchine. Guarda Emma che dà da mangiare ai piccioni con l'entusiasmo di una bambina. Lei si siede accanto a lui, toccandosi la schiena, che le fa male. Per aggiustarsi meglio la sciarpa attorno al collo deve toglierla. Il gesto è minimo, ma a Geco basta per rendersi conto che è stata picchiata recentemente. “Chi ti ha conciata così?” “Non importa.” Lo dice come se fosse vero: evidentemente non è la prima volta. “A volte penso che non ne posso più di questa vita.” “E allora smettila. Chi te lo fa fare. Puoi andare dove vuoi.” “Dove vado? Sono minorenne e senza una lira.” Geco le propone di vivere con lui, dai suoi genitori e lei accetta, con l'incoscienza della disperazione. Emma esce di casa con un borsone, trafelata. Geco l'aspetta in strada e capisce subito che qualcosa non va. D'altronde, se lo aspettava. Il padre, sceso in strada in canottiera, urlando parolacce e bestemmiando, riesce ad afferrare Emma per una manica e le mette le mani addosso. Di corsa, a testa bassa, Geco lo colpisce con una testata. Poi continua a picchiare, incurante del dolore: destro, sinistro, una ginocchiata, una gomitata e ancora, selvaggiamente, senza una parola. L'uomo, sorpreso, stordito dalla forza di Geco, dopo un primo tentativo di reazione, cerca solo di proteggersi, urlando: “Lasciami, lasciami, è mia figlia!” Come se questa fosse una giustificazione. Poi, all'ennesimo colpo in testa, l'uomo cade riverso per terra. Come un automa, Geco lo prende a calci, urlando: “Prova a denunciarci che ci facciamo quattro risate, pappone.” Solo l'intervento di Emma lo ferma. È coperto da una patina di sudore gelato.

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Trema tutto, stenta a tornare ad uno stato di normalità. Gli sanguina il naso e solo adesso si accorge che le mani gli fanno male. Le massaggia contro il corpo, come ha imparato a fare in palestra, quando poteva permettersi di tirare di boxe per divertirsi. Emma gli sta accanto, affascinata e stupefatta. Guarda il corpo di suo padre, riverso per terra. Così, con la canottiera sporca di sangue e fango, i tratti del volto abbandonati, come quando è pieno di vino, non sembra lo stesso che la violenta da quando ha sette anni, che la picchia con la cinghia, che la vende al miglior offerente. Così, è solo il suo papà, un povero corpo senza colpe. Una lacrima le scende giù dalla guancia. La voce di Geco la riporta alla realtà: “Andiamo via di qui, presto, prima che arriva la pula!” L'uomo lo lasciano dov'è, svenuto. La matrigna di Emma, che ha seguito la scena da dietro le tende, si guarda bene dal farsi vedere in strada. I passanti della sera fanno finta di niente. La voce stridula della madre di Geco si sente fin dal pianerottolo. Ce l'ha con il marito, che come al solito è ubriaco e dorme davanti alla televisione accesa. Geco apre la porta e spinge dentro Emma. Vanno dritti verso la sua stanza, con la madre che li insegue lungo il corridoio che sembra non finire mai: “Chi è questa? Chi mi porti a casa? E guardami quando ti parlo!” “Ma', fatti i fatti tuoi!” La stanza di Geco è sempre un casino. Coperte e cuscini abbandonati sul letto sfatto: una rete con sopra un tavolaccio zen. Tutto cerca di urlare slogan di libertà. Il poster di Patty Smith alla parete svela il suo lato segreto: l'amore per la musica degli anni settanta. Un buon spunto per fare un po' di filosofia da salotto sulla gioventù bruciata degli anni novanta, ma Geco non si intende di filosofia, non sa niente dei salotti, sa solo di fatti semplici ed essenziali. Le piccole cose che fanno della sua vita, la sua vita. Ad esempio, sa che con un coltello dalla lama che supera le cinque dita, molto comodo sia in cucina che per tagliare il brown, se ci vai in giro e ti fermano, sei fregato. Porto d'arma abusivo o suppergiù. Lo sa perché un suo amico ci ha fatto un po' di tempo in carcere per una storia di centimetri. Tre mandate e sono in un altro universo. Fuori dalla porta chiusa a chiave, la madre continua ad inveire, ma Geco ed Emma ormai sono in salvo. Dal borsone Emma tira fuori un orsacchiotto e lo mette su una mensola. Si toglie gli anfibi e li lascia in un angolo, per terra. Li seguono presto il maglione di lei, quello di lui. Poi i loro corpi avvinghiati cadono sul letto, in una specie di goffa lotta libera. Stanno stretti stretti, quasi a farsi male. Niente baci, niente scambio di saliva. Le bocche serrate, contorte in una smorfia che sembra di dolore, senza neppure un piccolo sorriso, emettono mugolii quasi impercettibili. Consumato in questo modo, il coito doloroso, estenuante, disperato, li lascia ricoperti di perle di sudore. Solo adesso lei gli lecca il collo. Ma lui è già altrove, distratto. Si alza dal letto e, dopo essersi tolto il preservativo con pochi gesti sicuri, si accende una sigaretta. “Non è che adesso ti credi la mia donna solo perché abbiamo fatto l'amore. Nel senso che siamo amici e vabbé, che stiamo solo iniziando a conoscerci.” Un colpo al cuore, ma Emma fa reagire il guerriero al posto della ragazza: “Ehi, non c'è problema, l'ho capito che ti stai cacando sotto.” Lui sbatte un pugno sul muro, la rabbia gli monta dentro, lo ha preso: “Tu, tu mi spezzerai il cuore. Io lo so. È il mio destino quello di mettere la mia vita ai piedi di gente che poi la calpesta. Me lo aspetto.” “E aspetta pure tutta la vita.”

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Quella notte Geco ed Emma dormono male, fanno sogni agitati. I loro corpi si dibattono tra le lenzuola, ma anche se addormentati nessuno dei due fa una mossa per toccare l'altro. Emma si risveglia con una gran sete ed esce dalla stanza per prendere un bicchiere d'acqua. In casa tutto tace tranne il russare della madre di Geco. Il padre, invece, dorme ubriaco sul divano del soggiorno. Emma prende l'acqua cercando di non fare rumore e torna indietro. Ma l'uomo si è svegliato e la sta aspettando. La blocca. “Io ti conosco, fai la puttana. Che fai in casa mia? Credi di poterci stare gratis? Anche tu devi pagare l'affitto!” E la violenta sul divano. Lei non dice una parola. Muta, lo sguardo fisso, perso nei pensieri di qualcun altro, nei pensieri di Emma, che non è lei. Quando quello ha finito, la ragazza corre a richiudersi in camera. Qui vorrebbe abbracciare Geco ma lui si è rintanato nelle coperte. E così Emma piange in silenzio. Geco sogna di salire di corsa le scale di un palazzo. Apre una porta: dietro c'è Emma che sta urlando. Geco si sveglia: si gira nel letto, la vede piangere e l'abbraccia, leccandole gli occhi. Di quanto è successo sul divano del soggiorno dalla bocca di Emma non esce una parola. “Dai, non piangere, non volevo farti star male così. Ho detto quelle cose così, dai...” La mattina dopo Emma si risveglia in un lago di sangue: ha le mestruazioni. Geco la guarda in silenzio mentre lei cerca di lavarsi con le salviette. Non ha alcun pudore, è abituata a farsi guardare. Alla fine è lui che si volta e guarda fuori dalla finestra. Quando lei ha finito, Geco la stringe a sé. “Scusa per ieri sera. Avevi ragione, mi sto cacando sotto.” “Io qui non ci posso più stare.” “Perché?” “Perché tuo padre è come tutti gli altri!” E aggiunge che se non se ne vanno subito, lei lo lascerà. È un'intuizione velenosa. Geco esce di corsa e affronta il padre, aggredendolo con una violenta scarica di pugni. La madre, che urla senza sapere perché e contro tutti e due, interviene a dividerli solo quando si accorge che Geco le sta ammazzando il marito. Intanto, in camera, senza l'ombra di un'emozione, Emma sta facendo i bagagli. Ci mette poco, si siede e aspetta Geco con l'orsacchiotto stretto tra le braccia. I due se ne vanno senza una parola. L'unica che continua ad urlare improperi, bestemmie e maledizioni è la madre di lui. La sua voce li insegue fin sulla strada. Alle sette, i giardini all'Emiciclo sono già abitati dalla gente della sera: pancabestia, drogati e sbandati di varia natura. Su una panchina Fozzeta aspetta bevendo una birra. Quando si accorge che Geco sta arrivando con Emma, fa la faccia contrariata. Non saluta nessuno. Prende l'amico da parte e gli parla a quattr'occhi. “Che c'entrano le donne adesso?” “Ho ammazzato di botte mio padre. Abbiamo bisogno di un posto dove stare.” “Per te va bene, ma lei dove la mettiamo?” “Lei è con me.” Fozzeta vive in un basso della Sassari vecchia. Una specie di grotta artificiale che anni prima era stata un deposito di bombole del gas ed oggi è riattata alla bell'e meglio ad abitazione. Dentro l'umidità è altissima: fa un freddo cane. Il riscaldamento non esiste e la porta-finestra lascia passare spifferi d'aria.

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Emma è senza parole. Nonostante tutto non ha mai visto una casa così povera. “Per me potete stare quanto volete. Vi dovete arrangiare però. Il bagno non c'è. L'acqua la prendo coi secchi, dalla fontanella dietro l'angolo. Non c'è neanche la luce, tanto non potrei pagarla. E poi fuori c'è il lampione. Per dentro uso le candele.” “Grazie.” È l'unica cosa che Geco riesce a dire. I tre si sistemano su un letto matrimoniale: dato lo spazio esiguo è l'unica soluzione possibile. Geco dorme tra Emma e Fozzeta. Sono già due ore che Emma è seduta sui gradini dell'ufficio postale di via Brigata Sassari e ancora non è arrivata a diecimilalire. Ha lo sguardo basso, incollato per terra, si vergogna da morire a chiedere l'elemosina, ma non sa rubare e un lavoro non l'ha trovato. Un cane al guinzaglio di una signora benvestita le si avvicina e l'annusa. Fa in tempo a carezzarlo, un attimo prima che l'altra lo prenda in braccio per entrare alla Posta. Emma ha alzato lo sguardo e una vampata di calore le arriva alle guance. Tra i passanti ha intravisto suo padre che ha ancora addosso i segni del pestaggio. Spaventata, Emma cerca di nascondersi, tirando su il cappuccio del giubbotto. Comunque lui fa finta di non vederla. Nove del mattino, un freddo cane. A quest'ora la statale 131 nella direzione di Olbia non è molto trafficata. Geco spinge un'R4 a tavoletta. La musica di Patty Smith che esce dagli altoparlanti deve lottare duramente con il rumore dell'aria che vibra contro la lamiera sottile. Emma e Fozzeta tengono il tempo. “Sono due mesi che non si ascolta altro, non hai un'altra cassetta?” Emma fruga nel cruscotto: “Battisti, Lucio Dalla, Mina, jazz vario... Oh, oh...” Tra le cassette è sbucato un preservativo. Ed Emma lo esibisce come un tesserino. “Fermi tutti! Culizia!” E scoppia a ridere. Geco, imbarazzato, lo prende: “Dai qua!” “Oh, ragazzi, quanto ci vuole ancora per il mare?” Tutt'intorno il paesaggio ha i colori dell'Irlanda: giallo, ocra, verde acceso e il bianco della sabbia dei Presepi. Solo dei pazzi come loro possono pensare di fare il bagno, per sfida. Emma è in fila alla solita cassa del Multimarket di via Cavour. Dietro di lei non ci sono altri clienti. Luisa, la giovane cassiera, si lascia scappare un sorriso mentre con la coda dell'occhio controlla che non arrivi nessuno. “Ho saputo che hai cambiato casa...” “Già.” “Come vanno le cose? Hai trovato un lavoro?” “No.” Emma mette un deca sul tappeto. Luisa, ad occhi bassi e facendo finta di controllare un prezzo, una commedia per le telecamere a circuito chiuso, le dice che a Latte Dolce la pizzeria Il Girasole sta cercando una ragazza e le molla il resto di centomila. “Grazie.” Visto dall'autobus in movimento, Latte Dolce sembra un quartiere come tanti altri: via Bottego, via Cedrini… sono tutte uguali. Caseggiati in mattoni rossi anni settanta, giardinetti condominiali e donne con i cani al guinzaglio. Poi però il 5 si ferma e le porte dell'autobus si aprono come un sipario d'acciaio sul teatro della

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realtà. Emma scende e il paesaggio cambia in modo impercettibile ma definitivo: i caseggiati cadono a pezzi, i giardinetti sono incolti, i grandi vasi delle piante comunali pieni di bottiglie di birra vuote e i cani, a guardarli bene, sono randagi o cani da difesa personale. Sono le quattro del pomeriggio. Seduto sul marciapiede, un ragazzo di poco più di vent'anni si sta iniettando una dose tra le dita dei piedi. Più avanti una tossicodipendente si è tagliata una mano e cerca di fermare il sangue con uno straccio raccolto per terra. Tutto accade nell'indifferenza dei passanti, mentre le famiglie stanno al balcone chiacchierando del più e del meno. La pizzeria Emma la trova subito. Entra e si lascia guardare dal padrone del locale - un sessantenne, un ex-bello dai capelli grigi - che le fa due domande in croce su chi è e chi non è, poi l'assume in prova a partire dalla sera stessa. Una ragazza, che avrà un pugno d'anni più di lei, sta lavando in terra con secchio e moccio. Indossa un abitino da casa e scarpe da ginnastica. Lo sguardo basso, non un cenno di saluto. “Quella è mia figlia. Lei non serve ai tavoli, lavora dietro.” La prima serata è fiacca, tre pizze in tutto. Nel locale, uomini vanno e vengono: chiedono di andare al bagno e, prese le chiavi, tornano dopo venti minuti. Bevono qualcosa, pagano ed escono. Ma niente pizza. Emma va in bagno e sul retro vede un uomo aprire una porta. Circondata dalla luce al neon, la figlia del proprietario è come un'apparizione. Reggiseno nero e gonna corta: vestita così non sembra neanche lei. E tutto quel trucco sulla faccia! L'uomo entra e la porta si richiude alle sue spalle. Emma ha visto abbastanza. Solo un cieco non capirebbe che l'altra si prostituisce. Emma si chiude in bagno e non vorrebbe uscire più. Pensa, pensa, pensa. Intanto di là una coppia di ragazzi per bene in cerca di avventura è entrata e deve ordinare. Tre pugni ben assestati alla porta del bagno risvegliano Emma dai suoi pensieri in fuga. “Oh, sei morta? C'è gente!” Tira lo sciacquone ed esce. Quello che accade sul retro non sono fatti suoi. A fine turno, il proprietario le anticipa un centomila perché si compri una gonna: “I clienti vengono se trovano qualcosa da guardare, oltre che la pizza.” È già al settimo bicchierino di grappa e si sente buono. Un po' per fare colpo su di lei, un po' perché è ubriaco e parlerebbe comunque, le racconta dei suoi altri locali. Ha un discreto giro, oltre il Girasole, due bar e la stazione di servizio con bar e ristorante di Mesu e Rios, sulla statale 131, che in Sardegna è come l'autostrada in Italia. “Lì sì che faccio i soldi! C'è un gran viavai di camionisti a tutte le ore, sai? Ci vado tutte le mattine del venerdì, una volta ti ci porto a fare una gita... Se non controlli i conti di persona, lo sai com'è la gente, se ne approfitta.” Il giorno dopo, lunedì, Emma e Geco festeggiano la prima giornata di lavoro con un bicchiere al Mokador di Largo Cavallotti, un bar per fichetti. Tornando a casa, con quel che resta dei soldi comprano un paio di dosi di eroina. La strada fino a casa la fanno tenendosi per mano, col batticuore. A casa, Fozzeta è buttato sul letto con un vecchio numero di Wiz tra le mani, che cerca di imparare a leggere l'italiano. “Sveglia ragazzo, ti abbiamo portato una cosa!” dice Geco e gli mostra le bustine. “Chi è ricco?” “Io”, dice Emma. Fozzeta si alza e sale sul letto per cercare sopra l'armadio. “Ho anch'io una cosa!”

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“Cannonau! Per cosa lo conservavi?” “Io non bevo alcool.” Una delle poche cose che gli sono rimaste dell'essere musulmano. Il vino è un regalo di Alex, un suo compatriota che, nonostante la sua fede, in Italia ha conosciuto il piacere del vino. Intanto Geco, seduto sul letto, con un pezzo di compensato sulle ginocchia, divide la polvere in tre strisce sottili, aiutandosi con una lametta. Emma lo sta a guardare, affascinata. “Non ho mai...” “Eh, ti insegniamo noi!” Fozzeta è già nell'idea della festa. “Se non ti va, nessuno ti obbliga.” Emma abbassa la testa. Il primo a farsi è Geco, poi Fozzeta. Emma tracanna il Cannonau, senza neanche sentirne il sapore, e si butta sul letto aspettando che l'onda dell'alcool la ricopra. Buio. Emma si sveglia alle urla di qualcuno che non conosce. Alex è entrato in casa e sembra un ossesso: “Oh, sveglia... Cosa cazzo è successo qui. Cosa cazzo avete fatto?” Emma: “Io, scusa... Non t'arrabbiare...” “Non vedi che quelli sono strafatti?” Alex si alza e va da Fozzeta. Gli dà un calcio in una coscia. Fozzeta rotea gli occhi: “Oh, Alex...” “Testa di cazzo, ti sei fatto di nuovo.” “Dai, era un regalo. I regali non si rifiutano.” Alex è fuori di sé: “Non voglio più avere niente a che fare con te. Non ci sto con i tossici. Non ci sto. Non aspetto che ti vendi il mio culo per farti. Avevamo un patto noi due: niente droga.” “Dai, Alex non rompere il cazzo, mi sembri mia madre...” “Tua madre è morta.” “E allora lasciala dov'è...” E si rimette a dormire. Alex guarda Emma che sta ad occhi spalancati: “Tu, se hai testa, te ne vai di qua. Torna a casa tua!” A Sassari il carcere è a due passi dal centro. L'uscita laterale, da cui vengono fatti passare quelli che escono e le guardie a fine turno, dà su via Roma, all'altezza del Caffè Italiano, un locale che alla sera fa musica dal vivo. In piedi davanti alla porta del locale, intirizziti per il freddo, Geco e Fozzeta aspettano fumando una sigaretta. “Era stasera, no? Ma quanto ci mettono?” “Zitto, eccolo che arriva.” La porta si apre e una guardia fa passare Ciodda. Geco e Fozzeta attirano la sua attenzione con fischi sempre più forti. Poi, visto che l'amico non si volta, si decidono a urlare: “Oh, deficiente!” L'atmosfera è quella della festa. Ciodda ha l'aria di un reduce di guerra con la voglia di dimenticare. “Si fa un salto al Sergent Pepper?” Il buttafuori li fa entrare con un mezzo sorriso in un locale pieno di bella gente seduta ai tavolini, che balla al ritmo della disco, che beve eleganti cocktails in bicchieri di vetro colorato. Ragazzi che hanno più o meno la loro età, ma che della vita hanno visto solo il lato morbido. La serata passa veloce, con Ciodda che fa il cascamorto con mezzo locale senza riuscire a caricare nessuna, Geco e Fozzeta che ballano per conto loro. “Oh, vado a prendere la bionda!” “Vengo con te.” “E Ciodda?”

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Lo lasciano che parla fitto fitto con una bruna seduta a un tavolino. “Che cazzo avranno da dirsi non lo so.” Tornano verso il carcere per andare a riprendere la macchina. Intorno è il deserto. Nel buio, improvvisamente, una piccola luce rossa, come il mirino laser di un fucile automatico, li copre seguendoli passo passo. “Cazzo... Ma che...?” Davanti a loro il poliziotto della rapina compare come un fantasma. Tiene in mano un portachiavi: la luce arriva da lì. Dietro di lui altri due ragazzi, due poliziotti in borghese. “Che vuoi, non abbiamo fatto niente!” L'altro lo afferra alla gola e lo sbatte contro il muro. Geco non reagisce: due contro tre, probabilmente armati. Non c'è storia. “Non fai niente adesso eh? Cos'è, non hai voglia di farti una bella scazzottata?” “Già, così loro mi fottono a sabbia!” Fozzeta si guarda intorno, cercando disperatamente qualcuno, un'anima qualsiasi che li possa far uscire puliti da quella situazione. “Non ti preoccupare. È una cosa tra me e te.” E lo lascia andare, mettendosi in posizione di difesa, i pugni alzati davanti al viso. All'inizio il combattimento sembra una danza. I corpi quasi non si toccano. Poi un diretto ben assestato prende Geco alla sprovvista. Il poliziotto ci sa fare. Gli altri scambi di colpi li vedono in parità. Destro, sinistro, destro. È un potente gancio che mette a terra Geco, sopraffatto, umiliato. L'altro resiste a stento alla tentazione di inveire con altri pugni. Sta in piedi, saltellando sul posto: “Forza, alzati, coglione! Alzati che ti ammazzo!” “Vaffanculo!” E l'altro comincia a prenderlo a calci nello stomaco, sulla schiena, dove capita. Fozzeta sa che deve fare qualcosa, ma cosa? Fa passi avanti, indietro, come impazzito. “Lascialo stare! Hai vinto, okkei capo? Hai vinto! Lascialo stare!” Gli altri due, che fino a questo momento sono rimasti pressoché neutrali, afferrano il loro amico per le braccia e lo trascinano via: “Basta adesso, vuoi rovinarti la vita per questo pezzo di merda?” Al Girasole il padrone non è tipo da perdere tempo. “Sai, ho un paio d'amici che hanno chiesto di te. Dicono che sarebbero disposti a darti tre, quattrocentomilalire per stare con te.” Dopo una sola settimana di lavoro già propone a Emma di lavorare sul retro. E lei, che in fondo se lo aspettava, non si sbilancia: “Ci devo pensare. Dipende da un paio di cose.” “Brava, finisci di lavare i bicchieri, poi puoi andare a casa.” La lascia con le mani sotto l'acqua e si va a servire un bicchierino con la faccia soddisfatta di chi sta per fare un grosso affare. A casa Emma racconta il fatto a Geco e Fozzeta: “Che devo fare?” Lei pende dalle labbra di Geco. Veramente non sa se lui le dirà di accettare o no. “Quel bastardo, merita una lezione!” sbotta Geco. “Rapiniamogli il negozio e riempiamolo di botte!” suggerisce Fozzeta. “Sì, bastardo!” Geco guarda Emma e si accorge che la ragazza ha gli occhi pieni di lacrime. La stringe a sé, forte forte: “Cretina, ma che credevi?” “Sono la tua ragazza?” Geco non risponde e sorride ad occhi chiusi. Gezzo Morfina li aspetta alla piazzetta di Latte Dolce. Fuma semisdraiato sul cofano dell'auto, una

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Tipo grigia targata Cagliari. È basso, i capelli seri, tagliati da carabiniere e il pizzetto. L'R4 di Geco si ferma a distanza di sicurezza. Geco e Fozzeta scendono e gli vanno incontro. Emma resta seduta sul sedile posteriore. Lo scambio è rapido: due calibro sedici per cinquecentomila. Geco e Fozzeta risalgono in macchina. Gezzo Morfina torna a fumare sdraiato sul cofano. Statale 131, distributore di Mesu e Rios, mezzogiorno di venerdì. Il padrone, che ha già finito di contare l'incasso e aspetta solo che arrivino il barista e la cameriera a dargli il cambio, giocherella coi salatini e le olive dell'aperitivo. Sua figlia lava a terra, annoiata. Poi lui la caccia via in malo modo: “Mi, che se entra un cliente prima che hai finito, ti spacco la testa.” L'uomo minaccia la figlia con un pugno. Lei prende il secchio e va sul retro. “Ti piacerebbe fare la padrona, ma finché la testa mi funziona, qui tu puoi fare solo la serva.” Emma entra all'improvviso portando con sé l'aria della strada. È quasi irriconoscibile sotto una cascata di capelli biondo platino con una frangia che le copre gli occhi pesantemente truccati in verde mela. Il vestito le cade con grazia e quando cammina ondeggia mostrando le cosce. Ha un paio di scarpe coi tacchi alti su cui fatica ancora a camminare e questo la fa apparire fragile. “E tu che ci fai qui?” “Sono venuta a farle vedere il vestito nuovo che ho comprato con i suoi soldi. Come mi sta?” È inteso che lavorerà sul retro. “Ne hai fatta di strada solo per questo.” L'uomo è conquistato. Emma chiede un po' d'acqua, neanche fosse una bambina, poi fa finta di svenire. Lui si allontana dalla cassa, si precipita a soccorrerla. Si inginocchia vicino a Emma e le sbircia le gambe che sono rimaste scoperte, poi la schiaffeggia delicatamente. Visto che lei non si riprende comincia ad aprirle i primi bottoni del vestito. Arrivano in due, uno bianco e uno nero, a faccia scoperta, le pistole in pugno: “Mani in alto, questa è una rapina!” Il tempo si ferma. L'uomo, in ginocchio accanto ad Emma che fa ancora finta di star male, li guarda come se fossero un'apparizione. Vedendo Geco muoversi come in una rapina da telefilm, Emma fatica a non scoppiare a ridere. L'uomo alza le mani in segno di resa. Geco resta più vicino alla porta per tenere tutti sotto tiro, mentre Fozzeta, il nero, il pazzo, va dritto ai bagni per controllare che non ci sia nessuno chiuso dentro. Poi si avvicina al proprietario e, puntandogli contro la pistola, gli intima di andare alla cassa e consegnargli i soldi. Lui non ubbidisce. Sembra prendere la rincorsa, poi sbotta: “Io non do niente a nessuno.” Geco punta la pistola verso di lui. Ma è Fozzeta che spara: l'orecchio dell'uomo sputa sangue e lui trema, perduto. “Il vecchio s'è cacato sotto, eh?” Fozzeta si diverte un mondo. Emma istintivamente si alza, agile come un gatto. “Fai come t'ho detto o sparo alla ragazza!” Emma, le mani in alto, fa ancora finta di non conoscerli. Geco alza il tiro e punta la pistola contro di lei che chiude gli occhi. L'uomo sta ancora con le mani alzate, in preda a una crisi di panico. “Questo è andato di testa, tocca a te darci i soldi!” dice ad Emma e le porge una sacca da riempire. La ragazza spinge il proprietario alla cassa e gli fa aprire il cassetto dei soldi. Emma, così docile: una vittima perfetta. Ma appena nota il revolver nascosto tra i rotoli degli scontrini si tradisce: “Oh, questo ha la pistola!” Il proprietario la vede come per la prima volta. È una complice e lui è stato un ingenuo. Le dà uno spintone e afferra la pistola. Fozzeta reagisce, fa per sparare, ma l'uomo è veloce. Il ragazzo cade, ferito al cuore, mentre contemporaneamente colpisce il proprietario che piomba riverso sulla cassa, ferito. Emma sta a terra, le mani sulle orecchie.

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Geco, disperato per la morte dell'amico, si accanisce con calci e urla sul vecchio, accasciato a terra: “Che cazzo hai fatto, che cazzo hai fatto? Ti ammazzo, ti ammazzo!” Bang! Un colpo in aria: la figlia del proprietario ha afferrato il revolver caduto a Fozzeta e ha il gioco in mano. Tutti si aspettano che presto arrivi la polizia, ma non è così. “Andate via, portatevi via i soldi!” urla la ragazza. Geco afferra Emma per un braccio e la trascina via. Fuori, via da lì, via da lì. Non gli importa di quello che accadrà al vecchio e a sua figlia. Sente solo il primo colpo di pistola. Bang, bang, bang: un intero caricatore è appena sufficiente per liberarsi dal peso di una vita intera passata a subire. Quando finisce i colpi la figlia spara ancora a vuoto, una, due, tre volte. Poi cade a terra, in ginocchio, piangendo. Al posto di guida Ciodda li aspetta col motore acceso. “Che cazzo è successo? Dov'è Fozzeta?” “È morto! Vai, vai, vai!” Il catrame luccica come un fiume d'olio nero. Ciodda, Geco ed Emma fuggono in macchina verso Olbia, senza dire una parola. Emma sta seduta in macchina, stordita, le mani sulle orecchie. Ciodda guida come un automa. Fuori da quell'inferno. “Fermati che devo vomitare!” ordina Geco. Ciodda fa di sì con la testa. Ha la vista annebbiata per le lacrime. Nella sua mente non riesce a smettere di pensare che Fozzeta è morto. Al bivio per Monti prendono una strada secondaria. Vicino a un capannone in costruzione la macchina si ferma. Geco schizza fuori dall'abitacolo e si butta in ginocchio, teso in un urlo muto. I conati di vomito arrivano all'improvviso, uno dopo l'altro, senza interruzione. Emma scende dalla macchina e gli va accanto. Non sa cosa fare. Gli tiene la fronte, gli carezza la testa, poi cerca di abbracciarlo, ma riesce solo a mettergli una mano sulla schiena: “Ti voglio bene, calmati, calmati.” Lui trema come una foglia e ancora il vomito nervoso non gli passa. Poi la voce gli torna, di botto, come un'esplosione: “Basta, basta, basta!” urla tra le lacrime riempiendo l'aria della campagna indifferente. Poi si volta di scatto e cade tra le braccia di Emma che lo stringe a sé, materna. Geco scoppia in un pianto che è come un fiume, liberatorio, mentre Emma gli sussurra nell'orecchio: “Io ti amo, ti voglio bene…” Geco la stringe più forte, come se da quell'abbraccio dipendesse la sua vita. “Voglio andarmene da questa merda…” gli dice Emma e lui, tra le lacrime, annuisce.

Fernanda Moneta, video-maker premiata, realizzatrice di documentari e opere interattive, giornalista professionista, autrice di più articoli e libri sul cinema (tra cui Spike Lee, edizioni Castoro), è titolare della Cattedra di Regia all'Accademia di Belle Arti di Carrara. Tra i vari progetti in cantiere, Soul Hackers, scritto per il regista newyorkese David Di Ianni, e una mostra di hacker design, con il marchio I Peggiori Sentimenti, Italy (ideato nel 1992), dal 18 Luglio, alla Bottega del Commercio Equo e Solidale di via Frattina, Roma.

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TIC Una storia surreale ma non troppo sullo sfogo quotidiano di Davide Puzzo PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO GENERE: COMICO GROTTESCO

Davide Puzzo è una fonte inesauribile di situazioni e personaggi fuori del comune. Le sue storie, fra il grottesco e il surreale, evidenziano un punto di vista originale sugli uomini e sulla società contemporanea. L'attenzione alle esasperazioni del mondo in cui viviamo e il gusto di non prendersi troppo sul serio rendono le sue commedie degne di attenzione. Tic ne è un esempio.

La storia è ambientata in un mondo dove la superficialità ingigantisce i complessi a dismisura. Dante Pimenti ha un problema che ha condizionato tutta la sua vita. Un tic che lo rende ridicolo. Stanco di sentirsi preso in giro, si licenzia e si reca dal Maestro Takai che lo cura guarendolo solo in parte: l'energia delle migliaia di tic viene convogliata in un unico spaventoso urlo che può esplodere in qualsiasi momento. Dante non si perde d'animo, impara a controllarsi e fra mille difficoltà riesce a realizzarsi, ma scopriremo che non ha mai smesso di avere il suo tic e continuerà a vivere senza sapere di non averlo sconfitto. Spesso per piacere a noi stessi e agli altri cerchiamo di essere diversi, ma il più delle volte non cambiamo affatto e ci complichiamo semplicemente la vita. Davide Puzzo

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Dante Pimenti, 35 anni. Lavora come impiegato presso una grande società, la SAC, Società dell'Acqua Corrente. La sua scrivania è una delle tante in un ufficio che condivide con un'altra trentina di colleghi. Regna il disordine, molti ciondolano senza fare niente di preciso, vestono sportivo, sono informati su tutte le novità e disprezzano tutto ciò che ha più di sei mesi. Al posto della ventiquattrore hanno la borsa da tennis e chiedono il trasferimento quando ormai ci hanno provato con tutte quelle dell'ufficio. Poi ci sono i millenari. Lavorano febbrilmente, rumorosamente. Hanno cartacce ingiallite e polverose sulla scrivania, l'ultima innovazione per loro è stata il cutter. Sono magri, hanno gli occhi cerchiati, solo i nervi li tengono in piedi, portano vestiti che erano fuori moda vent'anni prima e sgobbano come pazzi; hanno accumulato tanti di quei giorni di ferie non goduti che avrebbero bisogno di un'altra vita per prenderli tutti. Infine troviamo Dante e le impiegate, ma non vanno molto d'accordo. Fra le impiegate ci sono quelle con cui non è mai uscito e quelle che non uscirebbero mai con uno che non se lo fila nessuno. Eppure Dante è un uomo sveglio, è uno dei migliori dell'azienda. Alla SAC dirige il settore delle Acque Schife, sobbarcandosi il lavoro dei colleghi perditempo e incompetenti, e lo fa con un'efficienza tale che nessuno se ne rende conto. Viene continuamente disturbato dai colleghi con domande di ogni tipo. “È una bozza del mio progetto, dimmi cosa ne pensi.” “Mi compili il settequaranta?” “Troppe virgole, gli daresti un'occhiata?” “Ti va di assaggiarlo? Il prosciutto mi sembra scaduto…” “Lo era il padre di Giuseppe. Erre… cinque lettere.” Dante potrebbe aspirare ad una posizione migliore, ma pensa di essere ridicolo, anzi ne è sicuro. “Pimenti… hai niente per il mal di testa?” Dante ha un problema: il suo tic. Che sia nervoso, calmo, stanco, eccitato, concentrato, distratto o annoiato, immancabilmente e senza che possa farci nulla trascina con sé un piccolo suono gutturale, come una specie di singhiozzo rauco che ha di continuo: la colonna sonora che lo accompagna da sempre. In ufficio Dante incontra un collega dalla folta capigliatura che lo saluta. Dante ci mette un po' a riconoscerlo. Legge il nome del collega sul tesserino di riconoscimento applicato sul taschino della camicia. DANTE: “Simoncini?!” Dante non crede ai suoi occhi. Un aspirante millenario d'un tratto trasformato in uno sportivo. La foto sul tesserino mostra un uomo completamente calvo. Ora il collega sfoggia una capigliatura ed un ciuffo folto e mesciato. SIMONCINI: “Buongiorno Pimenti…” “Simoncini”, pensa Dante, “quello sì che era uno sfigato.” Simoncini passeggia nell'ufficio portando a spasso la nuova capigliatura fra le scrivanie delle colleghe che non restano indifferenti. Pausa pranzo. Quando tutti sono usciti dall'ufficio, Dante va alla scrivania di Simoncini. Si siede davanti al suo computer e cerca, nella cronologia dei siti consultati dal collega, qualche indizio

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che possa aiutarlo a scoprire come abbia fatto lo sfigato a cambiare. Disseminato fra siti pornografici di ogni tipo, di informazione finanziaria e di quant'altro, scorge finalmente il sito di un guaritore: il sito del Maestro Takai. Omeopata, chiropratico e agopunturista, assistito dalla dottoressa Inkderstunberger, nota callista del Bavarese. Davanti a Dante si apre un mondo sano e sorridente, un mondo di cui nemmeno sospettava l'esistenza. Lavaggio del colon, agopuntura, riflessologia, macrobiotica, arteterapia, autodeterminazione delle proiezioni del sé! Fatica a comprendere la maggior parte delle cose che legge sul sito, ma si convince della possibilità di poter sconfiggere il suo tic, di dare una svolta alla sua vita. Una collega gli domanda se per quella sera ha degli impegni. Dante risponde speranzoso di essere libero. La collega gli dà una videocassetta. COLLEGA: “Oh ti prego, questa sera devo uscire con Simoncini… potresti registrarmi Donna Armanda? Non ho perso nemmeno una puntata…” Dante non ce la fa più. Esasperato da una vita passata all'ombra del suo tic, stanco delle burle dei colleghi e desideroso di una vita sentimentale normale, decide di curarsi per eliminare il tic: si licenzia senza dare alcuna spiegazione. Il giorno seguente si reca presso il centro di salute e benessere del maestro Takai assistito dalla devotissima dottoressa Inkderstunberger. La dottoressa prepara una cartella e comincia a fargli delle domande con il suo forte accento bavarese. Data di nascita, malattie, allergie, abitudini alimentari, vizi, ed infine la natura del suo problema. Dante le dice che vorrebbe poter scacciare il suo tic, che la qualità della sua vita dipende dall'eliminazione del tic. La dottoressa lo fa accomodare in un camerino e gli dice di spogliarsi tutto: “… tranne mutante e rilassate voi vostri mempra signor Tante.” Dopo qualche minuto riapre la porta dello spogliatoio, lo prende in braccio ed entra nell'ambulatorio del maestro Takai. L'ambulatorio è una stanza bianca con un lettino da massaggiatore e un armadietto grigio. Takai è seduto sul davanzale di una finestra. Fuma annoiato una sigaretta senza filtro. Takai guarda Dante, si alza, getta la sigaretta dalla finestra, la richiude e apre l'armadietto grigio. Takai sembra lottare con qualcosa che sta dentro l'armadietto, vi si butta completamente dentro, infine esce con un coniglio bianco che posa a terra. Il coniglio si guarda un poco attorno, e poi si accovaccia in un angolo dell'ambulatorio. Takai sposta il lettino proprio nel punto dove il coniglio si era accucciato e ripone il piccolo roditore nell'armadio. La dottoressa Inkderstunberger adagia Dante sul lettino ed esce dalla sala. Takai si avvicina a Dante e comincia a studiarlo. Si accende una sigaretta e gli fuma due boccate sul viso. Dante si addormenta. Dante si sveglia rilassato senza il suo tic, ma la dottoressa Inkderstunberger lo mette in guardia. INKDERSTUNBERGER: “Il suo tic era causate da crante enercia che maestro Takai non zone riuscite a sconfiggere tuttamende, ma zemplicementa a gonvogliare in unico atto.” DANTE: “Ah… però… e… quanto le devo?” INKDERSTUNBERGER: “Signor Tante… suo tic ora è bomba in stomaco potente e in acquato… un bomba che torme nelle fauci di un ticre…” Mentre la dottoressa Inkderstunberger continua a fargli degli esempi e a parlargli della natura di quell'energia, Dante sente salire dai piedi una forza sovraumana, è un treno che non può fermare, cresce sino a salirgli in gola e si sfoga in un urlo potentissimo seguito da colpi di karatè branditi nel vuoto. DANTE: “ASTARACARBARITONESCSCAPARAPASTAA!” La dottoressa sorride soddisfatta.

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INKDERSTUNBERGER: “Precizamente signor Tante.” Dante dà di matto. DANTE: “Ma voi siete pazzi! La mia vita è definitivamente rovinata!” La dottoressa Inkderstunberger cerca di calmarlo, in realtà Dante non deve far altro che imparare a conoscere il suo spasmo. Secondo i suoi calcoli, non dovrebbe capitargli più di una volta al giorno, e lui non deve far altro che indirizzare gli sfoghi nel momento più opportuno. Il Maestro Takai è riuscito a ridurre la frequenza degli spasmi, ora sta a lui lavorare sul momento più adatto. Gli consiglia di concentrarsi sul mattino e di non guidare per qualche giorno. Dante esce affranto e affaticato. Cammina per strada e si guarda riflesso nelle vetrine. Sta minuti ad osservarsi e non vede nessun accenno del suo vecchio tic. Prova a farlo di proposito, ma gli viene persino male. Comincia a tornargli il sorriso. Si piace, si osserva come se avesse un diverso taglio di capelli, un abito nuovo. Forse potrebbe anche farcela. Si piace sempre più, cammina anche in modo diverso, è a suo agio, posato, si trova in gran forma. Prende un taxi e per tutto il viaggio si guarda nello specchietto retrovisore, si sorride, strizza l'occhio e dopo un po' il tassista, infastidito dagli ammiccamenti, lo fa scendere. Dante prosegue a piedi. Arriva al portone di casa sua. Prende l'ascensore. L'ascensore sale, Dante si volta e si guarda allo specchio, si sorride, allunga la mano all'immagine riflessa e si presenta. “Piacere Dante, Dante Pimenti… Permette… Signorina… posso presentarmi… Dante Pimenti. Pimenti Dante. Bonsuar madam, je m'appel… anchanté, mersì, muà ossì je vus am bien. Dante Pimenti… hallo, ai em Pimenti… end iu?” È tarda sera. In strada c'è silenzio. Due cani si annusano, qualche macchina che passa, un televisore acceso, e ad un tratto l'urlo di Dante seguito dal frastuono di una credenza che cade mandando piatti e bicchieri in frantumi. Parte per qualche giorno. Va in montagna, in un piccolo rifugio. Fa lunghe e solitarie passeggiate. I primi giorni gli sfoghi sono repentini e terrorizzano gli animali del bosco, ma con il trascorrere dei giorni Dante comincia a prevedere gli spasmi, poi a trattenerli per qualche minuto, poi per ore, anche se diventa paonazzo e qualche volta per lo sforzo se la fa veramente addosso. Anche gli animali non ci fanno più molto caso. Solo il gallo del pollaio lo guarda sospettoso. Comincia ad imparare a gestire gli sfoghi, è sempre più bello, rilassato, disponibile col mondo. Al rifugio dà una mano: aiuta in cucina, spacca la legna, ripara una vecchia stufa che non voleva accendersi, rivernicia lo steccato del pollaio. È un uomo dalle mille risorse, anche le donne se ne accorgono. Nasce un appassionato flirt con una donna in vacanza con il proprio bambino, si amano ma devono separarsi, lei piange, lui la abbandona senza rimpianti, ha vinto il suo tic ed ora deve tornare a casa, forte più che mai. Il giorno della partenza si sveglia di buon'ora ed esce dal rifugio. Il gallo è appollaiato sulla trave più alta dello steccato, albeggia, il gallo canta e Dante risponde esplodendo in un urlo tanto energico da far cadere il “pollo”. Il gallo starnazza per l'aia mentre Dante, soddisfatto, prende la valigia e va via. Torna a casa. È tarda sera; dal terrazzo di casa sua Dante guarda la città che si estende enorme. Abbraccia con uno sguardo tutte le sue luci con una voglia matta di rituffarvisi dentro e fare del suo meglio. Al mattino si prepara la colazione, prende il caffè, va in bagno e sveglia tutto il vicinato col suo sfogo, come da manuale. Tutto va per il meglio. Può cercarsi un nuovo lavoro.

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ASCARI (capo ufficio): “Ascari.” DANTE: “Dante Pimenti… molto lieto.” ASCARI: “Prego… si accomodi.” Un impiegato interrompe Ascari per chiedergli un consiglio. IMPIEGATO: “Ascari, mi scusi…” ASCARI: “Qual è il problema?” IMPIEGATO: “Il settore dieci…” ASCARI: “Sottozona arancione?” IMPIEGATO: “Esattamente… non riesco a trovare il modo di far percepire gli utili della manutenzione straordinaria…” ASCARI: “Hai verificato le quote sottoimpiegate?” IMPIEGATO: “Certo… ma sono tutte impegnate sul canone ripartito…” ASCARI: “Che disdetta!” DANTE: “Scusate… ma la manutenzione straordinaria, non ha una percentuale di ricavo sui prestiti cumulativi?” IMPIEGATO: “Sì… almeno credo…” DANTE: “Alzi il tasso dell'8 percento sulle agevolazioni future, così facciamo respirare un po' i prestiti cumulativi e la manutenzione straordinaria riassorbe le quote anticipate dai gestori… se non dovesse bastare… anticipi i prestiti sulla fiducia e riduca del 3 punto 2 il ricavo sulle gratifiche natalizie! Le sottoimpiegate faranno ricircolare i debiti del consorzio e… si prenda tre giorni di ferie, al suo ritorno tutto sarà sistemato.” ASCARI: “Ottima idea, ma niente ferie… su al lavoro!” ASCARI: “Carmen…” SEGRETARIA: “Dica…” ASCARI: “Ti mando Dante Pimenti, trovagli una scrivania, dagli un numero e gli ultimi tabulati sulle ricerche dei moderati, sistemalo vicino al mio ufficio con una linea dedicata! Grazie.” ASCARI: “Pimenti, benvenuto nella CDRR, dia un'occhiata ai tabulati, nel pomeriggio ci sarà la riunione col Presidente del Consorzio, voglio che partecipi anche lei.” Il nuovo ufficio è meno affollato. Lo divide solo con altri cinque impiegati. Qui regnano l'efficienza, la concentrazione, la cordialità. Nel pomeriggio, durante la riunione col Presidente del Consorzio, Dante ha modo di esporre il proprio pensiero su un punto molto spinoso: la questione del gettone di presenza al Presidente del Consorzio. Il Presidente sonnecchia seduto a capotavola. IMPIEGATO 1: “Non ci sono alternative… bisogna diminuire l'onorario del Presidente e aumentare lo stipendio degli impiegati.” Il Presidente ha un sussulto, ma non si sveglia. IMPIEGATO 2: “È immorale!” ASCARI: “Cosa ci guadagna il Presidente?” IMPIEGATA: “Una maggiore efficienza degli impiegati, ovvero nuove entrate per il Consorzio, quindi per il Presidente che detiene il 50 più 1 percento delle quote.” ASCARI: “Bene, ma… in concreto?” IMPIEGATA: “… in concreto… è solo una previsione ottimistica.” ASCARI: “E nel frattempo che facciamo? Incrociamo le dita? Ho bisogno di numeri! Dati! Certezze! Un pizzico di fantasia… qualcosa, insomma, qualcosa!”

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Nella sala riunioni nessuno prende la parola. Il Presidente apre gli occhi, si guarda un poco attorno, ma si riaddormenta subito. DANTE: “Il valore carismatico del denaro non può tutto… la mia proposta è che venga data una pacca sulla spalla al Presidente ad ogni mozione approvata, questo dovrebbe garantirgli la piena consapevolezza del suo ruolo e l'affetto degli impiegati.” Ascari è perplesso, ma il Presidente si sveglia e biascica un “Sì.” ASCARI: “Geniale! Semplicemente geniale, ho quasi voglia di abbracciarla… domattina la voglio nel mio ufficio e direi che... se sei d'accordo potremmo cominciare a darci del tu! Carmen…” CARMEN: “Sì…” ASCARI: “Un posto macchina per Pimenti, vicino al mio.” DANTE: “Ma io vengo coi mezzi pubblici.” ASCARI, sempre più eccitato: “E allora voglio un pullman dedicato a Pimenti, devo fare qualcosa per te, capisci! Voglio una linea rossa che passi sotto casa mia, lo voglio controllare quest'uomo, che non mi sfugga! Signori… per chi non l'avesse ancora conosciuto… Dante Pimenti!” Per Dante è un tripudio di applausi e complimenti. Ascari lo convoca nel suo ufficio per il giorno dopo. Il consiglio direttivo approva e il Presidente, ridestandosi dal torpore, riceve le meritate pacche. Il mattino seguente Dante si sveglia e prepara la colazione. È seduto sul water, fuma una sigaretta aspettando lo sfogo quotidiano, ma non arriva. Seconda sigaretta, qualche scoreggia ma nient'altro. Altro caffè, doppio e senza zucchero. Niente da fare. Sono le 08:25! È già quasi in ritardo. Non può darsi malato, Ascari lo aspetta nel suo ufficio. Decide di andare a lavoro e di inventarsi una scusa qualsiasi per uscire prima. DANTE: “Devo resistere solo un paio d'ore. Ce la farò!” Dante arriva pericolosamente al pelo. Ascari rinnova i complimenti, la fiducia che dimostra di meritare, e gli propone di seguire una pratica molto importante: la trattativa con la Bottoni Corporeit. Sono degli ossi duri. Dante accetta e, se tutto dovesse risolversi per il meglio, c'è in palio il posto di Vicedirettore del Sottosuolo. DANTE: “Ah, la zona blu...” ASCARI: “Sì, abbiamo bisogno di gente come te fra quei colori.” In via del tutto eccezionale e confidenziale, Ascari domanda a Dante una piccola pacca sulla spalla. DANTE: “Certo, destra o sinistra.” ASCARI: “Fai tu… e mi raccomando, che resti fra noi.” Ascari porge la spalla e attende che Dante gli dia la pacca. Dante si porta alle spalle di Ascari e domanda: DANTE: “Quando ci sarà la riunione con la Bottoni?” ASCARI: “Fra dieci minuti.” Dante sgrana gli occhi, non riesce a trattenersi. Parte con un movimento spastico tanto energico da poter uccidere Ascari. Frena, si morde le labbra, riesce a controllarsi e a dargli una pacca leggiadra. Ascari ha un fremito di godimento. Dante corre in bagno con tre caffè in mano. Uno lo beve nel corridoio. Niente da fare. Si dispera, cresce l'ansia e il nervosismo. Sala riunioni. Ad attendere Dante ci sono i fratelli Bottoni, il Responsabile in Delega, tre avvocati, e una donna, Lia. I rappresentanti della Bottoni Corporeit aggrediscono Dante. BOTTONI 1: “Non abbiamo alcuna intenzione di cedere!” BOTTONI 2: “NO!”

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AVVOCATO: “Le nostre quote sono inferiori al netto anticipato.” Dante cerca di trattenere il nervosismo. DANTE: “Signori… signora… scusate… Sono qui in veste di mediatore fra la Bottoni e la CDRR. Quindi un accordo lo troveremo e qualcuno dovrà cedere. Negli ultimi tre anni le spese cambiali hanno perso valore a causa della negligenza di un impiegato. La sola! Unica! Copia del verbale turchese… è stata lavata dalla moglie con i bluginz… perduta… un'inutile pallina secca di cartapesta… turchese!” BOTTONI 1: “Come ha fatto ad avere queste informazioni?” AVVOCATO: “Non sono mai state rese pubbliche, se insiste, il mio cliente si appellerà alla 14/12.” BOTTONI 2: “Non sono disposto a tirare in ballo i segreti della nostra società.” DANTE: “I segreti, signor Bottoni, dicono sempre la verità, ma hanno bisogno di qualche bugia per restare tali. Noi possiamo permetterci di credere che la Bottoni goda di ottima salute, ma solo perché conviene anche al nostro Consorzio.” LIA: “Ma queste sono varianti dipendenti.” DANTE: “Certo, ma qui non siamo in accademia, qui l'unica teoria valida è quella pratica.” LIA: “Ma è contraddittorio.” DANTE: “Forse, ma non dimentichiamo che tutte le società hanno dei punti deboli, l'unico errore sta nel non verificarli.” RESPONSABILE IN DELEGA: “I trasporti non garantiscono un bel niente! Siamo noi che dobbiamo gestire le quote!” BOTTONI: “Le quote della Bottoni resteranno alla Bottoni.” DANTE: “Come desiderate, ma la concorrenza… ha scelto diversamente, come… Futura, +23 percento… Cambio, +16 percento… Alea, +23… Biondi… 25! Signor Bottoni, quando è nata la Bottoni Corporeit si augurava un esiguo 3 percento?” Lia, gli avvocati, il responsabile in delega e i Bottoni restano in silenzio. DANTE: “Vi ho preparato una seconda proposta che dovrebbe garantirvi il 6punto2 allo scadere del contratto bimestrale…” Dante distribuisce delle cartelle che illustrano la proposta e, mentre sono tutti concentrati sulle pagine della 6punto2, Dante diventa paonazzo, sente salire la collera di Attila e gli elefanti di Annibale lanciati in discesa su dei tricicli senza freni, arriva un vortice, su dall'orlo dei pantaloni, è un fulmine stipato in un taschino, un calabrone che ronza dentro la mutanda, pericolosissimo sale, impossibile da trattenere, arriva alle budella tanto violento da fargli digerire lo stomaco intero ed infine esplode in un: “EEEEECCCCIIIUUUÙ!” Un semplice innocuo starnuto. LIA: “Salute!” DANTE: “Grazie.” LIA: “Questa proposta è molto interessante…” BOTTONI: “Pimenti… lei mi piace… c'è solo un problema… il mio stomaco comincia a brontolare.” Al ristorante Dante ordina per aperitivo un caffè triplo. Tutti lo guardano esterrefatti e Dante, per adeguarsi, ci fa mettere un'oliva verde dentro. Si fionda in bagno ma niente da fare. Si siedono a cena, arriva il cameriere per le ordinazioni, fanno scegliere a Dante. La cena è ottima. Qualcuno alza il gomito, soprattutto Lia. Dante la segue a ruota. Altri preferiscono i dolci, mentre i Fratelli Bottoni riprendono dall'antipasto. Fra i tavoli, Dante scorge Simoncini con una pettinatura ancora più audace della prima, un caschetto nero corvino. Al tavolo i commensali cominciano a sorridersi amichevolmente, l'accordo è quasi raggiunto. Via via si smette di parlare d'affari e Dante comincia a rilassarsi. L'accordo è raggiunto. Dante

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porge il contratto e la penna ai Bottoni, il contratto viene firmato, fanno per stringersi la mano quando Dante esplode nel suo sfogo. Un attimo di silenzio, Dante vorrebbe sprofondare, abbassa lo sguardo, raccoglie la penna caduta a terra, prende il contratto tra le mani e cerca gli occhi di Lia. Lia ride, Dante si sente perduto, fa per lasciare il tavolo, quando uno dei Bottoni gli prende la mano e comincia strapazzargliela cercando di imitare il suo spasmo, tutti lo prendono per un urlo di gioia, così, un po' alticci, tutti i colleghi, i Bottoni, gli avvocati e la stessa Lia esplodono con un urlo e movimenti scomposti tali e quali a quelli di Dante. Lia gli prende una mano e nella confusione gli confida di essere perdutamente rapita e affascinata dal suo modo di fare. Lia gli domanda se conosca l'albergo in cui è alloggiata: Dante, mentre prende nota del numero della camera, viene distratto da qualcosa. La caciara del ristorante si attenua. Dante si concentra su un suono, sente distintamente lo squittio di un animale, piccolo, un batuffolo di lana, vede fra i tavoli passare silenzioso un coniglio che si dirige verso il bagno seguito da Simoncini. Dante gli va dietro, il coniglio si infila nella fessura della porta della toeletta seguito da Simoncini che chiude la porta alle sue spalle. Dante apre la porta, entra, è al buio. DANTE: “Simoncini… Pietro… dove sei?” Dante trova la luce e la accende. La dottoressa Inkderstunberger lo prende in braccio. Takai è in smoking e ha il coniglio in mano. DANTE: “Maestro Takai! Penso di essere definitivamente guarito.” Takai prende il coniglio per le orecchie, gli dà una carezza, apre il coperchio del water, lo infila dentro, lo richiude e tira l'acqua. DANTE: “È tutto merito suo se sono guarito.” Dante domanda cosa possa fare per sdebitarsi, ma Takai fa un cenno con la mano, non ha bisogno di niente. Poi da una tasca interna dello smoking prende una foto, la firma e la porge a Dante. È la foto autografa di Takai. A Dante, con affetto e simpatia, Takai. Dante esce dal bagno. Nell'anticamera incontra Simoncini. Sta davanti allo specchio. Simoncini è piuttosto ubriaco e sta pettinando i capelli, nel vero senso della parola, infatti è una parrucca quella che tiene in mano con la sinistra e che pettina amorevolmente con la destra. Il cranio è completamente pelato. Dante raggiunge gli altri nella sala. Dante e Lia si guardano, gli altri continuano a fare baldoria. Dante e Lia escono dal ristorante. Il mattino seguente Dante si sveglia nella camera d'albergo di Lia. Lia sta ancora dormendo. Dante ha nuovamente il suo vecchio tic. Si alza dal letto, ha un'espressione preoccupata, va in bagno. Dante si siede sul water. Con una mano si massaggia la gola. Dante sfoga, soffocandolo il più possibile con un asciugamano sulla bocca e scaricando lo sciacquone, il suo urlo quotidiano. Lia si sveglia. Ancora nel pieno del sonno cerca con la mano la sveglia per spegnerla. Ma la sveglia non sta suonando. Lia raggiunge Dante in bagno e rimane sulla soglia. LIA: “Dante… cos'hai?” DANTE: “Non lo so, mi fa male a deglutire, penso sia mal di gola, forse a causa dell'aria condizionata del ristorante o quella dell'albergo…” Dante ha il suo tic ma Lia sembra non farci caso. Dante si fa la barba. LIA: “Devi uscire?”

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DANTE: “Sì, in ufficio mi aspetta il Sottosuolo.” LIA: “Non è una scusa per svignartela?” DANTE: “No… è che… da oggi sono il Vicedirettore del Sottosuolo.” LIA: “Ah… una promozione… in effetti chiudere con i Bottoni è stato un bel colpaccio… eri un po' nervoso, sei andato in bagno tre volte, e hai bevuto una decina di caffè…” Flashback, sala riunioni CDRR il giorno precedente. DANTE: “… l'unica teoria valida è quella verificabile.” Dante ha il tic. Nella camera d'albergo, Dante interrompe Lia. DANTE: “No… non ho detto: l'unica teoria valida è quella verificabile, ma…” Flashback, sala riunioni CDRR. DANTE: “L'unica teoria valida è quella pratica.” Dante non ha il tic. Dante si alza dal letto. LIA: “Pranziamo insieme?” DANTE: “Solo se mi inviti anche a cena e a colazione.” Ordinano la colazione e Dante sceglie un the al limone. Dante cammina lungo i corridoi degli uffici del CDRR con il tic che ha sempre avuto. Ascari, il Presidente del Consorzio, Carmen e altri colleghi attendono Dante sulla soglia del suo nuovo ufficio. Dante è accolto da ovazioni e congratulazioni varie, nessuno è colpito dal fatto che abbia il tic. Il Presidente del Consorzio lo invita a prendere possesso del suo nuovo ufficio, quello di Vicedirettore del Sottosuolo. PRESIDENTE: “Allora Dante, le piace?” DANTE: “Fantastico, bello, grazie, farò del mio meglio.” Il Presidente del Consorzio porge la spalla e i suoi collaboratori gli dispensano una pacca ciascuno. Ascari cerca lo sguardo di Dante. Con un cenno degli occhi verso le proprie spalle gli fa capire che ne vorrebbe una anche lui. I colleghi, il Presidente e Carmen escono sorridenti dall'ufficio di Dante. PRESIDENTE: “Bene, e buon lavoro a tutti!” Ascari è l'ultimo ad uscire, temporeggia sulla soglia. Dante gli si avvicina e bisbiglia: DANTE: “Appena ho un minuto passo dal suo ufficio.” Anche Ascari esce. Dante è solo, chiude la porta. Si siede sulla poltrona. È raggiante. Resta assorto a pensare. Poi comincia a lavorare.

Davide Puzzo, 33 anni, abita a Torino e si occupa di montaggio video. Sta scrivendo un lungometraggio di genere cattofantasy, dal titolo Il prete coi baffi, una storia ambientata in un mondo dove poco per volta spariscono i giorni della settimana ed è sempre mercoledì.

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FRAMMENTI di Anna Gasco PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMA FAMIGLIARE

Un'adolescente anoressica, apparentemente fragile, in cerca d'aiuto. Un'insegnante attenta, capace di comprendere il dolore, disposta ad aiutarla. Poi il cerchio si allarga e così i sentimenti, tutto diventa dannatamente complicato, assurdo. Eppure c'è chi s'illude di aver trovato la chiave della felicità nella lezione freudiana, crede di saper analizzare, spiegare e quindi risolvere… s'illude di non perdere la propria anima… Fra le righe riecheggiano film di Sautet, come Nelly e Monsieur Arnaud e Un cuore in inverno.

Non pochi adolescenti oggi danno segni di un profondo disagio psicologico. Disturbati e disturbanti, stanno male, si fanno del male e fanno del male agli altri; a volte arrivano addirittura ad uccidere. Intorno a loro, educatori, genitori, insegnanti e perfino gli psicologi - tutte quelle figure che dovrebbero fare da riferimento e da sostegno - spesso si dimostrano incapaci di ricoprire adeguatamente il proprio ruolo di adulti, sembrano anzi essere all'origine del loro malessere. Pur essendo l'adolescente della mia storia un'anoressica, di anoressia in questo racconto si parla volutamente poco, perché essa non è che il sintomo più evidente di una realtà malata. Infatti tutti i personaggi, nessuno escluso, sono intrappolati in una rete di relazioni nevrotiche, dentro cui si dibattono senza riuscire a trovare una via d'uscita, dove anche la cultura psicanalitica, invece di “salvare”, rischia di diventare una maschera in più. Anna Gasco

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Questa è una specie di confessione. Un racconto è sempre una confessione, un mettersi a nudo. Siamo due sorelle, facciamo entrambe le insegnanti, ma in realtà siamo due psicanaliste mancate. Un giorno ce lo siamo dette: sia l'una che l'altra, in momenti diversi, abbiamo pensato di abbracciare questa professione, poi abbiamo rinunciato. Io, perché non volevo fare medicina. Sono troppo impressionabile e oltretutto ho poca memoria: non avrei superato l'esame di anatomia. Roberta, mia sorella, perché era troppo tardi quando se n'è resa conto. Da qualche anno, oltre all'insegnamento, Roberta si dedica al counseling nella scuola, un modo per realizzare, almeno in parte, la vocazione tradita. Del resto io, a tempo perso, mi do all'astrologia. Sono un'astroterapeuta, come direbbero gli junghiani. Roberta ha Plutone in dodicesima casa: è la posizione degli analisti. Io ce l'ho in prima, congiunto all'ascendente. Una posizione importante. Plutone… il pianeta della discesa agli inferi, negli oscuri abissi dell'anima, dove regnano gli istinti, le pulsioni più nascoste. Il Signore dell'analisi spietata, che distrugge e rigenera. Siamo due persone che hanno sofferto, come tutti quelli che fanno o vorrebbero fare gli analisti. Sappiamo cos'è una ferita profonda, che non si rimargina, che continua a buttare sangue. È nostro padre quella ferita. È morto da molti anni, ma continua a vivere dentro di noi. Come un'ombra. E i nostri rapporti con gli uomini, con il sesso, sono quello che sono. Una misera cosa. Anche nostra madre è morta da tempo. Siamo molto legate Roberta ed io. Lo siamo sempre state. Ci diciamo tutto. Perciò di questa storia io conosco ogni dettaglio, ogni parola detta, ogni moto dell'animo… Io sono sola e mia sorella ha un matrimonio di facciata, dove da tempo non c'è più passione; solo affetto, sicurezza, abitudini e gusti affini. È in questo vuoto che è arrivata Elisa… Intendiamoci, nessuno “in famiglia” ha fatto una tragedia per quel calo di desiderio. Nessuno sembra soffrirne, almeno in apparenza. Roberta sdrammatizza, me ne parla scherzando. “Capita alla maggior parte delle coppie, siamo nella norma” mi assicura “andiamo più d'accordo adesso di prima.” E intanto mi mostra sull'atlante la meta del prossimo viaggio che farà con Claudio, suo marito. Viaggi culturali, cene fuori con gli amici, cinema, concerti… una vita piacevole, serena direi. Non altrettanto si può dire della mia. Io colleziono fallimenti, uomini che senza volerlo mi fanno del male, per poi ritrovarmi puntualmente sola. Un giorno Elisa si è sentita male in classe. È svenuta. Elisa è un'alunna di Roberta. Mia sorella insegna francese in un liceo a due passi da casa, in un quartiere elegante, abitato dalla buona borghesia cittadina. Elisa ha quindici anni ed è anoressica. La mattina che si è sentita male, Roberta l'ha soccorsa amorevolmente. È riuscita perfino a farle bere del tè ben zuccherato. Con la tipica sensibilità di chi sta male, Elisa ha subito sentito che Roberta poteva capirla, aiutarla. Da quel giorno ha incominciato a scriverle delle e-mail, in francese. Con il pretesto della lingua ha instaurato una corrispondenza che via via è diventata più fitta. E più intima. Roberta naturalmente ha sempre risposto, ogni volta che Elisa le inviava dei messaggi. Come si fa ad ignorare una richiesta d'aiuto di una ragazzina che soffre? Abbiamo scherzato tante volte, Roberta ed io, su questa storia. Noi insegnanti, con tutto il nostro lavoro non pagato che ci portiamo letteralmente a casa… Anch'io ho avuto un'alunna anoressica. So cosa vuol dire. Era riuscita a convincermi che non era vero che non mangiava. Così, visto lo stato in cui era ridotta, avevo pensato avesse un cancro. Gli anoressici mentono, come gli alcolisti, come i tossicodipendenti.

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L'anoressia è una malattia mortale: uccide dal 5 al 25% dei casi. È carina Elisa, gentile, intelligente. È di quelle che vanno bene a scuola, senza fatica. Solo, è così magra, fragile. Si dimentica di bere - spiega a mia sorella - e poi non ha mai molto appetito: tutto qui. La ragazza ha incominciato a fermare spesso Roberta in corridoio, con una scusa o con l'altra. Qualche volta l'aspetta all'uscita dalla scuola e le chiede se ha voglia di chiacchierare un po' con lei. Mia sorella ne approfitta per invitarla al bar, per offrirle qualcosa. Ma sono più le volte che il dolce resta intatto nel piattino, davanti ad Elisa, e perfino il tè viene sorseggiato a fatica. Raramente capita che mangi qualche boccone di un tramezzino. In quel caso Roberta si rallegra del piccolo ma significativo successo. Roberta non ha figli. Non ne ha voluti. Quando era fidanzata con Claudio è rimasta incinta, ma non se l'è sentita di avere il bambino. A quel tempo nostra madre era già molto ammalata. Claudio allora non aveva insistito. Anzi, attraverso un amico medico, le aveva fatto percorrere i corridoi preferenziali, cosicché in meno di una settimana era tutto finito, senza che lei si fosse trovata costretta a giustificarsi con nessuno. Nessuno le aveva chiesto se era proprio sicura di voler interrompere la gravidanza. Roberta non ha mai perdonato a Claudio di non aver fatto nulla per fermarla, di averle facilitato le cose. È da allora che il desiderio tra loro ha incominciato a spegnersi. In seguito tutti e due hanno continuato a rimandare la decisione di avere un figlio. Prima era troppo presto: volevano godersela ancora un po'. Poi la casa, la laurea di Claudio… Ogni volta che hanno detto “magari quest'anno…” hanno finito per fare un lungo viaggio. Da un po' di tempo continuano a ripetere che sono troppo vecchi. Quando Elisa guarda mia sorella con i suoi occhioni malinconici, che sembrano più grandi in quel visetto pallido, mia sorella si intenerisce. Lo sappiamo bene noi insegnanti: gli adolescenti di oggi hanno tutto, perché quasi sempre i genitori lavorano entrambi, ma proprio per lo stesso motivo sono molto soli. Negl'interminabili pomeriggi passati a casa a fare i compiti, in attesa che la porta si apra ed entri qualcuno, il cellulare trilla spesso. Sono mamma e papà che controllano dove sono, cosa stanno facendo. Non sono abbandonati a se stessi. Sono seguiti, ma da lontano. Ad alcuni di loro non basta. Per sfuggire alla solitudine, Elisa trascorre i suoi pomeriggi a studiare da qualche compagna di classe. Non passa neanche da casa. In attesa che venga l'ora in cui può raggiungere l'amica di turno, fa una passeggiata. Gironzola per le vie del centro guardando le vetrine. E finisce per saltare il pranzo. Stanno per arrivare le vacanze di Pasqua. Le scuole chiuderanno per un paio di settimane. Elisa è triste di non poter vedere, anche se solo per poco, la sua professoressa di francese. Roberta la rassicura: non abbandonerà la corrispondenza via e-mail, la interromperà solo per qualche giorno, il tempo di un piccolo viaggio: ha in programma un tour nel mezzogiorno della Francia con il marito. Che fortuna! Che coincidenza! Anche Elisa va da quelle parti con la famiglia. Perché non incontrarsi una volta? Ai genitori farebbe tanto piacere… Roberta non vuole deludere la ragazzina, perciò acconsente. Sarà un'occasione per conoscere il padre e la madre. Non sono mai venuti a parlarle. Del resto Elisa va bene in francese, anzi benissimo, con tutte quelle lettere alla professoressa… La questione dell'anoressia, i genitori hanno preferito affrontarla direttamente con la Preside, che a sua volta ha convocato i docenti, per informarli e prepararli alle eventuali assenze o malesseri della ragazza. I genitori di Elisa hanno affittato una villa sulla costa. È una famiglia agiata, a cui non manca nulla. Roberta e Claudio fanno loro visita una domenica pomeriggio. Il tempo è magnifico. Dal giardino è possibile contemplare il mare in lontananza. Tutti quanti trascorrono una piacevole gior-

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nata all'aria aperta, a conversare, sorseggiando bibite fresche e assaggiando dolci provenzali. Elisa è raggiante. Gianni, il padre di Elisa, è un uomo colto, raffinato. Non smette di ringraziare Roberta per quello che sta facendo per la figlia e di scusarsi per non averlo fatto prima. La madre sembra la più inquieta. Anche l'abbigliamento, piuttosto vistoso, provocante, contrasta con quello sobrio ed elegante del marito e della ragazza. Quando Elisa si allontana, ne approfitta per congratularsi con Roberta e Claudio per non aver messo al mondo dei figli. È difficile avere a che fare con una ragazza come Elisa, molto penoso… Gianni appare imbarazzato dalle dichiarazioni della moglie e neanche Claudio e Roberta sembrano apprezzare la disinvoltura con cui la donna ha toccato l'argomento figli. Mia sorella coglie l'occasione per informarsi sulla salute di Elisa. Purtroppo non ci sono miglioramenti. Elisa vomita spesso. La madre sostiene che si procura i conati da sola, apposta, cacciandosi due dita in gola. Il padre invece non vuole credere che sia così. “Non penso faccia una gran differenza”, spiega mia sorella e cita un saggio sull'anoressia, che ha letto dopo che Elisa l'ha scelta quale sua interlocutrice privilegiata. Gianni è visibilmente ammirato dalla competenza e dalla generosità con cui Roberta si occupa del problema della figlia. Quando la scuola ricomincia, non passa giorno che Elisa non trovi il modo di appartarsi un po' con Roberta. Ormai, al termine delle lezioni, l'aspetta sempre davanti a scuola e insiste per accompagnarla. Qualche volta Roberta, uscendo nel pomeriggio, se l'è trovata sotto casa. “Passeggiavo da queste parti…” si è giustificata Elisa. Perfino Claudio, una sera che era già buio, rientrando dal lavoro, l'ha incontrata davanti al portone. È chiaro che la ragazza si è attaccata in modo morboso a Roberta e che bisogna intervenire, operare un distacco, perché si sta creando un rapporto poco sano, che può nuocere all'equilibrio già precario di Elisa. Oltretutto Roberta fa fatica a nascondere un certo disagio. Incomincia a sentire come soffocante e ossessivo questo legame. Insomma ha una gran voglia di scrollarselo di dosso, di scappare. Ma non si può certo abbandonare Elisa dall'oggi al domani, tanto più che la ragazza è sempre sottopeso e continua a stare piuttosto male. Roberta cerca di parlarle e ne parla anche con la psicologa della scuola, ma ogni tentativo sembra vano. Elisa non si trova bene con nessuno degli psicologi che la seguono. Si sente capita solo da lei, la sua professoressa di francese. Del resto ormai Roberta è diventata un'esperta in materia. Pur manifestando qualche insofferenza, non fa che leggere libri in proposito. È andata perfino ad una conferenza sull'argomento. E la ragazza sta male, sì, ma ha incominciato ad ammetterlo, e questo è già un passo avanti. Riconosce che ha dei problemi, che non è vero che tutto va bene, come voleva far credere a se stessa e agli altri. È con Roberta che ha fatto questi piccoli progressi. Adesso le parla apertamente di sé, del fatto che dorme poco, che ha una mania eccessiva per l'ordine, che con la madre non è mai andata d'accordo… la madre, che quando si parla di anoressia, sembra sempre essere, secondo tutti gli specialisti, la principale fonte del problema. Questa madre pare avere una vita sua, al di fuori della famiglia, da cui sia Elisa che il padre sono esclusi. Una volta la donna va a parlare con mia sorella e le dice senza mezzi termini che sua figlia l'ha sostituita con lei: a casa non fa che lodarla, citare le sue parole, fare paragoni. Ma aggiunge anche che a lei non importa, purché stia meglio. Fuma nervosamente, è più inquieta che mai, veste sempre in modo provocante, un po' volgare. A poco più di un mese dalla fine della scuola, un fulmine a ciel sereno. Sereno per modo di dire. Un pomeriggio Elisa, invece di spedire la solita e-mail, suona al citofono di Roberta. È sconvolta: la madre se n'è andata di casa. Li ha mollati tutti e due, tanto di loro non le è mai importato niente, né del padre né di lei. Roberta cerca di calmarla. Che stia tranquilla. Innanzitutto lei non la abbandonerà. E comunque la mamma di sicuro le vuole bene. Non deve confondere i problemi che possono esserci tra gli adulti, tra un uomo e una donna, con l'amore dei genitori per i figli. Tutto

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si aggiusterà. Magari la mamma ha solo bisogno di stare un po' per conto suo. Tornerà. “Preferirei di no”, commenta inaspettatamente Elisa con tono duro, “perché a lei di me non è mai importato. E l'ha dimostrato adesso, andandosene quando io avevo più bisogno di lei. Si è sempre fatta gli affari suoi. Ha un altro uomo. Ecco perché se n'è andata.” “Certo non era proprio questo il momento di piantare baracca e burattini”, commento io, sprofondata nel divano del salotto di Roberta, davanti a una tazza di tè fumante. “Evidentemente non ce la faceva più, poveretta. Una figlia anoressica: sai che angoscia! Non ha retto. I genitori non sono più capaci a fare i genitori, non riescono a sopportare il peso di una responsabilità, ad affrontare un problema… meglio non averne avuti di figli”, concludo come al solito. “Non è solo questo”, considera Roberta. “Le cose non andavano bene tra lui e lei. Perciò Elisa stava male. Trasformando il loro malessere in un sintomo, lo ha portato a galla e ha fatto esplodere la situazione. È sui componenti più deboli della famiglia che si scaricano le tensioni. Capita spesso: i bambini diventano il capro espiatorio delle colpe degli adulti, dei loro problemi, e si ammalano. Adesso è tutto chiaro.” “Non siamo delle psicanaliste mancate, siamo una coppia di psicanaliste in incognito”, conveniamo infine compiaciute, e ci scambiamo un sorriso complice, di reciproco riconoscimento, che ci fa sentire un po' superiori: noi due, così brave a vivisezionare l'anima altrui, così capaci di giocare ad osservare i cuori al microscopio. Difatti, ora che la famiglia si è sfasciata, paradossalmente Elisa sta meno male. E incomincia anche ad essere più ragionevole e ad accettare di porre qualche limite alle proprie richieste nei confronti di Roberta, che peraltro continua ad assicurarle il suo appoggio. Un giorno, nell'ora del colloquio con i genitori, Roberta si trova davanti Gianni. Non si erano più visti da Pasqua. L'uomo la informa che d'ora in poi sarà lui a tenere i rapporti con la scuola. È venuto a parlarle di Elisa, ma in realtà è di sé che si mette a parlare. È spaventato, confuso. Improvvisamente si è trovato a gestire tutta la questione di Elisa da solo. La moglie lo ha abbandonato per un ragazzo più giovane. “Si frequentavano già da un po'… Ha scelto la passione… Lei è sempre stata un'immatura…” E lui… lui è a pezzi naturalmente. Gianni si è fermato ben oltre lo scadere dell'ora destinata al colloquio coi genitori. Quando si accorge del tempo trascorso, non la finisce di scusarsi. Ma tornerà ancora. Gli ha fatto bene parlare con lei. Ha ragione la figlia: Roberta è una persona straordinaria. Comunica una tale calma, infonde coraggio… grazie, grazie ancora. Scherziamo Roberta ed io: “Adesso non hai più in cura solo Elisa, ma anche il padre. Stai facendo una terapia di famiglia. Vedrai che tornerà anche la madre.” Gianni infatti ha preso l'abitudine di venire a parlare con Roberta. Le colleghe lo notano e ammiccano. “C'è di nuovo ton amoureux” la canzonano maliziose. Mia sorella si schermisce. “Attenta”, avverte una di loro, “è un bell'uomo. Un uomo affascinante.” “Forse mi sto perdendo qualcosa”, scherza Roberta con me. E lo dice con brio, un tono… appena un po' sopra le righe. Effettivamente Gianni è un uomo seducente, come tutti i Gemelli. Le donne lo hanno sempre corteggiato. Ma lui è stato un marito fedele. Solo una volta si è concesso una scappatella, con la donna che veniva in casa a stirargli le camicie. È stato dopo l'ennesimo tradimento della moglie. Era tanto tempo ormai che non facevano più l'amore. Lui comunque si è sentito in colpa lo stesso. Gliel'ha addirittura confessato ad Elisa. Perché tanto lei lo sapeva: l'aveva sentito durante un litigio e poi di sicuro gliel'aveva già detto la madre. Tra l'altro quella donna, la colf, si era subito attaccata a lui in modo esagerato. Quando era stato chiaro che non era una storia importante, aveva perfino minacciato di suicidarsi.

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A quanto pare Gianni è un uomo che scatena forti passioni, un uomo che piace. E adesso che è libero, ancora di più. È arrivata l'estate. Roberta e Claudio hanno organizzato un viaggio in Portogallo, con tappa a Lisbona. Un giorno arriva una mail di Gianni. Ha copiato l'indirizzo dalla rubrica della figlia. Si scusa per l'invadenza, ma vuole chiederle qualcosa che forse non oserebbe domandare a voce. Non sa dove portare Elisa in vacanza. Non la vuole portare dai parenti, che pretenderebbero troppe spiegazioni. E poi, senza alcun tatto, non farebbero che insistere perché la ragazza mangi. Lui non si è mai trovato a doversi gestire la figlia da solo in vacanza. Non sa proprio che pesci pigliare. Ha pensato di invitare anche una cugina di Elisa, che ha la sua stessa età. Nessuno di loro è mai stato in Portogallo e… Elisa vorrebbe tanto che fosse quella la meta. Se si vedessero qualche giorno tutti quanti a Lisbona? Sa di chiedere molto. Troppo, di sicuro. Se la risposta è no, non è neanche il caso di dare una spiegazione. Lui capirà e non ne parleranno mai più. L'idea comunque sarebbe questa: ci si potrebbe incontrare qualche volta, condividere qualche museo, qualche bagno di mare. Lui potrebbe affittare una macchina, organizzare magari una piccola escursione: in quattro si starebbe comodi… “In quattro?” Si chiede Claudio, con un tono che non riesce a dissimulare l'irritazione. “Cos'è? Un lapsus? Intende sistemare la cuginetta nel portabagagli o si è dimenticato che hai un marito? E poi ad agosto le scuole sono chiuse e anche tu hai diritto ad una vacanza!” Roberta minimizza, lo invita a considerare che quell'uomo non sa davvero dove sbattere la testa. “Prova a metterti nei suoi panni… potremmo vederci un paio di volte”, propone, “e se la cosa si facesse pesante, troveremo il modo di defilarci.” Alla fine decidono di non dire di no. Si incontreranno a Lisbona e poi si vedrà. Gianni e Elisa sono entusiasti e corrono a prenotare il volo e l'albergo, un albergo non troppo distante da quello in cui alloggeranno Roberta e Claudio. Complici il sole, il mare e i colori del Portogallo, la vacanza si rivela un successo. La cuginetta è una ragazza spensierata, piena di vita. Si respira un clima di allegria e di complicità. Si divertono tutti. Perfino Claudio, che all'inizio aveva nutrito non poche perplessità. Elisa sembra addirittura aver ritrovato l'appetito. Roberta e Gianni sono i più sportivi, e un pomeriggio, a Madeira, mentre gli altri sonnecchiano sotto l'ombrellone, raggiungono a nuoto una piattaforma al largo. Mentre il sole cala lentamente all'orizzonte e si prepara a tuffarsi nelle acque dell'oceano, i due, dando la schiena alla terraferma, contemplano lo spettacolo, senza riuscire a decidersi a tornare. Soli e lontani da tutto, come fossero saliti a bordo di un qualche vascello misterioso, che ha puntato la prua verso il mare aperto, alla volta di una destinazione sconosciuta, vivono un momento magico e indimenticabile. Quando me lo racconta, Roberta ammette di esserne stata turbata, ma ancora una volta minimizza e tende a sdrammatizzare. Il tramonto, l'intimità dei corpi seminudi, abbronzati, esausti dopo la lunga nuotata… A tutto c'è una spiegazione. Io non so che dire. Vorrei ricorrere alla nostra solita ironia distruttiva, ma improvvisamente non ne sono più capace. Contemplo in silenzio, con un misto di invidia e di rispetto, il nascere di un sentimento, delicato come un fiore che miracolosamente sbocci su una terra inaridita. Al ritorno Roberta è venuta a sapere da Elisa che Gianni e la moglie si sono rivisti parecchie volte, per parlare. E puntualmente Elisa ha ripreso a stare peggio. Ha avuto una crisi e sta di nuovo perdendo peso. Un giorno Gianni telefona a Roberta per chiederle se si possono vedere tutti quanti una sera, per guardare insieme il filmino e le diapositive scattate a Madeira. Inaspettatamente Claudio si dimostra seccato. Acconsente alla serata, ma dichiara che, per quanto lo riguarda, questo incontro sarà l'ultimo, perché quel padre e quella sua figlia stanno diventando davvero troppo invadenti.

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Ma poi la serata trascorre piacevolmente. È venuta anche la cuginetta simpatica. Si è ricreato quel clima disteso e divertente che ha caratterizzato la vacanza. Quando se ne vanno, Claudio trova tra i cuscini del divano il cellulare di Elisa. “Deve averlo dimenticato…” commenta. “Non credo”, considera Roberta con un sorriso. “Penso l'abbia lasciato qui apposta: una scusa per rivedermi. La scuola riapre solo tra un mese.” Infatti è così. Interrogata da Roberta, Elisa lo ammette subito. È un po' imbarazzata, ma anche divertita. Non riesce a trattenere il riso, come una bambina sorpresa a rubare la marmellata. Gianni intanto inonda Roberta di e-mail, ne invia più di quante gliene spedisca la figlia. E allude spesso ad una piattaforma in mezzo al mare, metafora di un'isola felice, ma irraggiungibile. Allusioni che Roberta lascia puntualmente cadere, fingendo di ignorarne il significato. Un giorno Gianni invita Roberta e Claudio ad una gita. Andranno a visitare un castello. Claudio rifiuta, ma Roberta decide di andarci. È un luogo che vorrebbe vedere da tempo. Nel cortile del castello c'è un albero dei desideri. Elisa appende il suo foglietto ad uno dei rami. Con il pretesto della malattia della ragazza, Roberta e Gianni si sentono autorizzati a curiosare, come quei genitori che vanno a sfogliare di nascosto il diario dei figli, e senza farsi vedere, staccano il biglietto e lo leggono. Il desiderio espresso da Elisa è il seguente: che Claudio si trovi un'altra ragazza e che papà si fidanzi con Roberta. Imbarazzati i due decidono di andare insieme a parlare con lo psicologo che segue Elisa. È da un po' che Roberta vorrebbe un confronto, per sapere se ha fatto bene a fare tutto quello che ha fatto fino a quel momento e per avere qualche consiglio su come muoversi in futuro. Lo psicologo è un tipo brillante, gran parlatore. Una serie di espressioni tipiche ed alcuni vezzi, come la barba, la pipa e il lettino stile primo novecento, lo fanno sembrare la caricatura dello psicanalista freudiano. Ma è anche un uomo intuitivo, intelligente. Quando gli viene raccontata la storia dell'albero della cuccagna, invita i due a non preoccuparsi. “Ebbene? Lasciamo agli adolescenti i loro sogni. Lasciamo che Elisa sogni la famiglia del Mulino Bianco. E quando sarà grande proverà, anche lei come tutti, a farsene una… ma per adesso, lasciamola pure sognare…” Lo psicologo infine rassicura Roberta e si complimenta per come ha agito fino ad allora, ma le fa presente che anche lei è entrata in un gioco delle parti. Ha notato subito che Roberta parla con un accento che gli ricorda quello della madre di Elisa, come se si fosse sostituita alla donna. Infine chiede di poter parlare con ciascuno dei due separatamente. È in quel colloquio privato che Roberta confessa, prima di tutto a se stessa, ciò che agli occhi dello psicologo è apparso subito chiaro. Roberta è molto presa da Gianni, anche se fino a quel momento non ha voluto ammetterlo. Lo psicologo la invita a considerare anche il suo bisogno di maternità a lungo negato, destinato prima o poi a saltare fuori. Quando Roberta gli spiega che con Claudio sta bene, che il suo è un matrimonio sereno, anche se non proprio felice, e che non ha intenzione di mettere in discussione la sua vita, lui la invita a smettere di razionalizzare, a lasciarsi un po' andare, ad agire “ascoltando la pancia”, seguendo l'istinto. Che non vuol dire necessariamente rivoluzionare la propria vita. Non c'è nessun aut aut dietro l'angolo. “Insomma ti ha autorizzata a farti un amante”, commento io. “Anche gli psicologi si sono adeguati ai tempi. Oggi avere un amante è considerato nella norma.” Roberta ridacchia. Io non dico più niente, ma lo sento che ormai è dentro fino al collo. Ogni pretesto è buono per parlarmi di Gianni. Mi racconta che un giorno, al colloquio coi genitori, è venuta la madre di Elisa. Voleva sapere da lei come stava la figlia, visto che Elisa si rifiuta di incontrarla. “Dovevi vederla. È magrissima. Sembra anoressica anche lei. Altro che la madre incosciente che fugge con l'amante giovane…”

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L'incontro, carico di imbarazzo da parte di entrambe, ha turbato Roberta. “È una storia malata, orchestrata da un'adolescente manipolatrice”, sbotto finalmente io, “siete tutti caduti in una trappola tesa da una ragazzina diabolica, che manovra i grandi per mezzo della sua malattia. Dammi retta. Chiamati fuori finché sei in tempo. Anzi, sai cosa ti dico?”, tento di scherzare. “Che dovresti esigere da Gianni che ti paghi un po' di sedute da un analista, per liberarti da tutte queste proiezioni. Secondo me te lo deve.” Ma Roberta non mi ascolta. Il cellulare sta suonando. È Gianni. Ormai si incontrano spesso, con una scusa o con l'altra. Per una colazione, un aperitivo, una passeggiata. Naturalmente hanno sempre qualcosa da dirsi su Elisa, ma parlano anche d'altro, parlano di tutto. Stanno bene insieme e ogni occasione è buona per vedersi. Un giorno entrano in un negozio insieme ad Elisa. Gianni ha visto un maglione in vetrina che gli piace e vorrebbe sentire il parere di Roberta. La commessa la scambia per la moglie. Ridono tutti e tre, felici dell'equivoco. Mentre Gianni si guarda allo specchio, Elisa gli sussurra in un orecchio: “Sei bellissimo. Dai, datti da fare. Tanto si vede che la storia con Claudio è fasulla.” È dal giorno del colloquio con lo psicologo che Gianni ha smesso di censurarsi. Ormai le sue dichiarazioni sono esplicite. È innamorato. È Roberta che vuole. E non per un'avventura. Ma Roberta non osa. Ha troppa paura. È confusa, non sa cosa pensare. Però non dorme. E tuttavia ha un aspetto splendido, le assicurano le amiche. Sembra ringiovanita. In una parola, è innamorata anche lei. Claudio preferisce non accorgersi di niente. Una sera scherzando mi dice che loro due vivono nella casa del Grande Fratello. Prima o poi usciranno e torneranno alle loro vite vere: Roberta con suo marito Gianni e sua figlia Elisa, e lui alla sua vita da scapolo. Ma un giorno, all'ennesima telefonata di Gianni, si infuria, fa una scenata: “Cosa vuole da noi? Se sta cercando di insinuarsi nella mia famiglia, si sbaglia…” Però quando a letto ancora una volta non si fa l'amore, è costretto ad ammettere che il loro non è un vero matrimonio. Non è la prima volta che fanno questi discorsi. Lui non crede che un sessuologo potrebbe risolvere il problema, forse un'analisi lunga… È da un po' che Roberta non gli dice dei suoi incontri con Gianni. Loro due chattano per ore ogni sera e si vedono quasi tutti i giorni, con e senza Elisa. E durante uno di quegli incontri, com'era logico che accadesse, fanno l'amore. Per Roberta non è stata una scelta. È successo. Si è lasciata travolgere dal desiderio. Non è riuscita a dire di no. “È solo un modo diverso di parlarci”, la rassicura Gianni. Elisa non sa nulla, ma intuisce che il legame tra il padre e la sua professoressa si è fatto più forte e si mostra contenta. Sembra che tutto si stia muovendo verso un epilogo felice, a parte Claudio, che certo soffrirà. Ma se si arriverà ad una separazione, sarà meglio anche per lui, che sarà costretto a fare i conti con se stesso e a cercarsi una storia vera. Tuttavia per il momento Roberta non se la sente di decidere niente e, sebbene la cosa non le piaccia affatto, deve ammettere che anche lei ha una storia clandestina, un amante, come capita a tante altre coppie di amici. Piccole bugie, mezze verità, sotterfugi. Anch'io, mio malgrado, divento complice dei loro incontri. Da quando Gianni ha smesso di rivedere la moglie, Elisa ha ripreso a migliorare. Il peso è stabile. Dorme e mangia; non molto, ma con regolarità. E continua ad insistere nel rifiutarsi di incontrare la madre. Sembra non averle perdonato la sua fuga. Un pomeriggio la donna entra in casa mentre Elisa è seduta al tavolo della cucina, alle prese con i compiti. Sul fornello, una pentola sta bollendo. La donna è venuta a prendersi dei documenti che le servono. Le due si scambiano parole ostili. “Finalmente ci sei riuscita a prendere il mio posto!” le dice la madre. Elisa non ribatte.

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“Una considerazione che si può fare al massimo all'interno di una lunga terapia”, commenta scandalizzato lo psicologo, mettendosi le mani nei capelli. “Quella donna è una selvaggia.” Poi si calma e, rivolto a mia sorella che è venuta, da sola, a consultarlo, prosegue. “Oggi, con questi genitori giovani, non abbiamo più a che fare con ragazzini con un Edipo irrisolto, ma con coppie edipiche.” Lo psicologo ama discutere con Roberta il caso di Elisa, la tratta come fosse una collega, con la quale ci si può divertire a commentare le ultime teorie psicanalitiche. E Roberta ne è lusingata. “È una frase che mi ha fatto riflettere”, mi dice Roberta qualche giorno dopo. “Devi sapere che Elisa, da quando la mamma se n'è andata, chiede spesso a Gianni di poter dormire con lui nel letto grande. E lui glielo concede. Io gliel'ho detto che secondo me non è una buona idea. Ma Gianni insiste che la ragazzina è stata traumatizzata dalla fuga della madre e che ha solo bisogno di affetto, di calore. Tutto qui.” “Può darsi”, convengo io. “Ne sappiamo così poco noi dei rapporti tra genitori e figli…” “L'unica cosa certa è che Elisa sta meglio, tanto che parecchi ragazzi hanno incominciato a chiederle degli appuntamenti. Lei dice di sì a tutti e poi non ci va. Quando loro ritelefonano, manda Gianni a rispondere.” “Insomma fa l'oca.” “Evidentemente ha bisogno di sentirsi al centro dell'attenzione.” “Non va agli appuntamenti perché lei il suo lui ce l'ha già.” Butto lì io, sicura dell'effetto che otterrò. “Touché”, sussurra mia sorella, le labbra tese in una smorfia che vorrebbe assomigliare a un sorriso. “Scusami, mi diverto a torturarti. Sono solo invidiosa. Tu hai due uomini che ti amano e io nessuno.” Ci abbracciamo, senza dire altro. Più tardi, quando Roberta timidamente espone la stessa teoria a Gianni, ne ricava solo una risata divertita. “Parli così perché sei gelosa. Guarda che ormai anch'io sono diventato bravo ad ascoltare l'inconscio, il tuo soprattutto…” E suggella la frase con un bacio appassionato. Un giorno Roberta regala a Gianni un abbonamento per dieci spettacoli al Teatro Stabile, così avranno un'occasione in più per vedersi. Nella busta infila un biglietto con su scritto: “Per un ritorno alla grande nel mondo della cultura.” Gianni, che si lamenta da tempo di essersi allontanato da qualsiasi attività culturale a causa dei suoi problemi familiari, ne è felicissimo. Ad Elisa spiegano che la maggior parte degli spettacoli è troppo impegnativa per una ragazzina della sua età. Quando andrà in scena qualcosa di adatto a lei, compreranno un biglietto a parte e andranno tutti e tre insieme. Elisa sembra d'accordo. Ma la sera del primo spettacolo i biglietti non si trovano più. L'intero abbonamento, la dedica e la busta che li conteneva sono spariti, volatilizzati nel nulla. Roberta è costretta ad andare a teatro da sola. Quando all'uscita Gianni viene a prenderla, si dichiara mortificato: li ha cercati dappertutto, per ore, ma niente, i biglietti non saltano fuori da nessuna parte. Quando Roberta gli suggerisce che potrebbe averli presi Elisa, Gianni sembra cadere dalle nuvole. Non ha pensato neanche per un attimo a questa eventualità. Elisa ha detto di non saperne nulla e l'ha perfino aiutato a cercarli. Gianni non vuole credere che sia stata lei ad averli nascosti o addirittura distrutti, ma è costretto ad ammettere questa possibilità. “Dunque, mia figlia è pazza”, commenta amareggiato. “Non è pazza. Anche la ragazzina che poco tempo fa ha trucidato la madre e il fratellino è stata dichiarata in grado di intendere e di volere”, considera Roberta. Una considerazione che non

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tranquillizza affatto Gianni, che si ripromette di cercarli ancora, anche se si ricorda perfettamente di averli riposti nel cassetto dove tiene i documenti. E comunque interrogherà nuovamente Elisa. Il giorno dopo, durante l'intervallo, Elisa chiede di poter parlare con Roberta. “È per i biglietti, vero?” domanda mia sorella. Infatti è così. Elisa giura di non averli presi. Roberta allora decide, seguendo un'ispirazione del momento, di mettere in atto una strategia, di tentare un piccolo ricatto psicologico. “Se anche fossi stata tu”, le dice, “non sarebbe niente di grave. Avresti agito secondo un impulso. Capita, soprattutto alla tua età. Magari ti sei sentita esclusa, anche se non era nelle nostre intenzioni. E hai reagito con un gesto dettato dalla gelosia. Se così fosse, non faremmo certo fatica a capirti, e ti perdoneremmo subito…” Ma Elisa continua a negare con decisione. “… se però è stato Gianni”, prosegue Roberta, “a perdere i biglietti, questo cambia tutto. Tra due adulti, specie se c'è un'amicizia sul nascere, come la nostra, la cosa acquista un significato simbolico diverso. Se è stato tuo padre ad averli persi o distrutti, questo diventa qualcosa che ci divide.” “E se saltassero fuori? Se venissero ritrovati?” chiede Elisa senza riuscire a nascondere l'ansia, e con queste parole sembra tradirsi, quasi fosse tentata di restituirli, accomodando così ogni cosa. “Sì, questo cambierebbe la situazione”, concede Roberta, con l'intento di lasciare ad Elisa l'opportunità di tornare sui suoi passi. In quel momento la campanella suona. L'intervallo è finito. Elisa ha un compito in classe di matematica e Roberta è attesa nel laboratorio linguistico. Terminate le lezioni, mentre ripone i registri, Roberta viene informata dalla collega di matematica che Elisa ha avuto una crisi di pianto e che si è fatta venire a prendere dal padre. All'uscita ad attendere Roberta c'è lui. “Cos'hai detto ad Elisa?” la investe Gianni. “L'hai fatta star male…” Roberta gli spiega come sono andate le cose. È stato un modo per metterla di fronte alle conseguenze del suo gesto, nella speranza di provocare una reazione e di indurla a fare marcia indietro. E comunque Elisa era assolutamente calma mentre aspettava che il padre venisse a prenderla, tanto che la Preside si è appena dichiarata colpita, anzi profondamente ammirata dall'equilibrio e dall'assennatezza di quella povera ragazza, la cui madre, ha aggiunto in tono severo, se n'è andata proprio mentre lei sta cercando di affrontare quella malattia tremenda, tanto diffusa tra le giovanissime del giorno d'oggi. Dunque Elisa non era affatto così sconvolta come gli ha voluto far credere. Lo psicologo sembra quasi eccitato nell'ascoltare tutta la storia e quando Roberta gli racconta del piccolo espediente escogitato per cercare di strappare ad Elisa la verità, si alza in piedi e prende a gesticolare in modo teatrale: “Oh mio Dio, mio Dio, che trucco, quale ricatto affettivo! Lei che col suo gesto ferirebbe indirettamente il padre… geniale! Ma… non sarà un carico emotivo troppo pesante per una ragazzina?” Poi cambia idea. “No. Lei ha fatto bene. Quel pianto è stato catartico. Liberatorio. Vedrete: non passerà molto tempo che Elisa vuoterà il sacco. O, quanto meno, i biglietti salteranno miracolosamente fuori.” Poco dopo, in macchina, Roberta si rivolge a Gianni. Non è del tutto convinta dell'interpretazione dello psicologo. “Oltretutto è la prima volta che te la prendi con me”, gli fa notare, “con la sua crisi Elisa mi ha fatta passare per quella cattiva. E tu ci sei cascato. Non siamo in due in questa storia. Siamo in tre. Lo siamo sempre stati. Ti sei mai chiesto perché ti sei innamorato proprio di me, che oltretutto sono sposata? Sei un uomo che piace alle donne, non dire di no. Sei circondato da donne che ti corteggiano. Ma tu ti sei innamorato di me. E lo sai perché? Io sono l'unica donna che Elisa ti ha concesso di prendere in considerazione.” “E adesso avrebbe cambiato idea?” chiede smarrito Gianni. “Forse voleva solo assicurarsi che tra te e tua moglie le cose non ricominciassero. Adesso non le servo più.”

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“Stai dipingendo mia figlia come un mostro, un essere diabolico.” “E tu ti ostini a non voler prendere in considerazione il fatto che possa esserlo. Preferisci continuare a vederla come un angioletto innocente.” “Se è come dici, ha giocato con i nostri sentimenti, con le nostre vite, come se fossimo dei burattini nelle sue mani…” “Questo non esclude che stia male davvero.” Gianni sembra confuso. “Non so se desiderare che il tempo si fermi o che si metta a correre per arrivare più in fretta a domani.” “Io invece vorrei solo che tornasse indietro”, mormora Roberta con voce incolore. “Hai voglia di scappare vero?” Roberta non risponde. “Tu vorresti fuggire da me e inconsciamente cerchi di cogliere quest'occasione per farlo. Vorresti tornare al tuo matrimonio senza problemi, ma anche senza amore, a quel tuo marito-fratello che ti rassicura. Sono le tue paure che ti fanno parlare così. Se i biglietti non ricomparissero”, continua Gianni, “ti prego, consideriamo che possa essere stata la donna delle pulizie, oppure una semplice ragazzata di Elisa. Ma non perdiamoci. E quando ti accorgerai che la nostra storia ti è diventata indispensabile, troverai il coraggio di parlare a Claudio, e anche per lui sarà meglio così.” “Ho paura, sì, è vero, ma non di quello che pensi tu. Ho paura di Elisa… e per Elisa.” Qualche giorno dopo, in un colloquio con Elisa, quest'ultima riesce quasi a convincere Roberta di non essere stata lei a far sparire l'abbonamento, a meno che non si sia trattato di una sbadataggine, un lapsus, un atto mancato, come dicono gli psicologi. Con la sua mania di mettere tutto in ordine, non può escluderlo… ma potrebbe anche essere stata la madre, che ha le chiavi di casa e che è gelosa, non solo del padre, ma anche di lei, di Elisa, e del suo rapporto privilegiato con la professoressa di francese. Può aver visto la firma di Roberta e aver agito d'impulso: è sempre stata un'istintiva. “Dillo che saresti contenta se fosse stata lei…”, insinua Roberta in un tono che vorrebbe essere scherzoso. Elisa non risponde, ma ci tiene a precisare che lei non è gelosa di Roberta, anzi è felice che si veda con Gianni. Sa che se in certi casi può essere esclusa, ci sono però tanti altri momenti in cui lei può stare con tutti e due insieme, e questo la fa felice… Sembra così ragionevole Elisa. Una piccola adulta, compassata, esperta della vita. “… Claudio piuttosto… non è geloso del vostro rapporto?” Per un attimo Roberta ha l'impressione di essere seduta di fronte ad un'amica, che la capisce, che la invita a confidarsi, ma si riprende subito e bada a nascondere l'imbarazzo. “Naturalmente no, perché sa che il nostro è soltanto un rapporto di amicizia.” Mente con apparente disinvoltura. Ma è qualcosa che non le appartiene, che la fa soffrire. Elisa abbassa gli occhi. “C'è solo una cosa che… in questo momento mi spaventa. Ho paura di dover tornare a vivere con mia madre. Ha chiesto l'affidamento congiunto.” Sembra ridiventata bambina. La voce le trema. Ha davvero paura. Rialza gli occhi e guarda fisso Roberta: “Lo dirai, vero, all'assistente sociale, che è meglio che io stia con papà?” “Certo, certo. Stai tranquilla.” “Quando è arrivata la lettera dell'avvocato”, racconta più tardi Gianni a Roberta “Elisa sembrava terrorizzata. Cambiamo città, mi ha proposto.” Poi le chiede scherzando “Tu che ne diresti?” “Proprio adesso che mi sono trovata la scuola sotto casa…”, commenta Roberta ridendo, “non se ne parla.”

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Contrariamente alle previsioni dello psicologo, i biglietti non sono saltati fuori. Gianni ha rifatto l'abbonamento e lui e Roberta hanno incominciato ad andare a teatro con una certa frequenza, a volte insieme ad Elisa, più spesso loro due soli, a seconda dello spettacolo. Poche file più avanti, una poltrona sempre vuota: segnale inquietante che non proprio tutto è tornato al suo posto. Ormai non passa giorno che Roberta e Gianni non si vedano, anche solo per stare insieme un'oretta, in un caffè. Qualche volta vanno in albergo e fanno l'amore, anche se non è mai un incontro sereno, perché Roberta è combattuta, non vorrebbe mentire, tradire. Non vorrebbe, però lo fa. Lascia credere a Claudio che a teatro ci sta andando con me e lui sembra tranquillo, come uno che non vuole sapere. Un giorno Roberta mi sorprende con una fotografia tra le mani. Da una cornice d'argento nostro padre e nostra madre ci sorridono debolmente. Noi due non abbiamo avuto un'infanzia serena, tuttavia dalla nostra famiglia abbiamo ricevuto insegnamenti preziosi. Siamo state educate all'onestà, alla rettitudine. “A cosa pensi?” mi chiede Roberta. Io taccio, ma lei mi conosce troppo bene per non capire. Mi guarda con due occhi limpidi, che non le vedevo da tempo: gli occhi di quando era ragazza. Ha l'espressione quieta di chi ha capito qualcosa di importante. “Paola, non credere che io sia cambiata”, mi dice, “Claudio dentro di sé sa cosa c'è tra me e Gianni. Ha solo bisogno di tempo. E io glielo voglio dare. Tutti abbiamo bisogno di tempo: Elisa, Gianni, io stessa.” Non c'è traccia di ipocrisia nella sua voce, nessuna scelta di comodo. Solo una saggia pazienza, in attesa che la nebbia che avvolge tutti si faccia meno fitta e spunti finalmente di nuovo il sole. “Ora capisco perché non trovo un uomo che mi ami…”, affermo all'improvviso in tono drammatico. Roberta mi guarda senza capire. “È perché ci sono troppe donne che ne hanno due.” “Scema…” Cominciamo a sorridere e finiamo per lasciarci andare ad una crisi di fou rire. Nulla può corrodere l'inossidabile complicità di un'infanzia condivisa. Una sera che Claudio è rimasto a casa a leggere e Roberta è andata a teatro, squilla il telefono. Claudio posa il libro e va a rispondere. È Elisa. Tra le lacrime gli dice che sta male. Suo padre non c'è e non risponde al cellulare. Forse è andato a teatro. Sa che anche Roberta doveva andarci, ma lei non sapeva chi chiamare. È terrorizzata, sconvolta. Piange a dirotto. Aggiunge tra i singhiozzi che non riesce a smettere di vomitare. “Stai tranquilla. Arrivo subito.” Claudio si infila il giaccone e si affretta a raggiungerla. Roberta e Gianni intanto sono usciti dallo spettacolo e si sono fermati a bere qualcosa. L'alcool li ha resi euforici. Si scambiano commenti divertiti. Scherzano perfino su quella misteriosa poltrona sempre vuota, poche file più avanti. Ridono. Gianni insiste perché Roberta salga da lui, anche solo una mezz'oretta. È tanto che non fanno l'amore. Lei esita, lui la prega. A quest'ora Elisa dorme, non si accorgerà di niente. Ma quando entrano nell'appartamento di Gianni, si trovano davanti una sorpresa: Claudio sta reggendo la fronte di Elisa, in preda ad una violenta crisi. Il silenzio è rotto solo dai conati di vomito della ragazza. Gianni corre da Elisa, cerca di calmarla. Claudio e Roberta si scambiano un'occhiata carica di dolore e di imbarazzo, piena di rimprovero da parte di lui e di vergogna da parte di lei. Dopo l'arrivo della guardia medica, se ne vanno senza parlare. In breve le cose precipitano. Elisa è in piena crisi. Non è in grado di tornare a scuola. È disidratata.

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Viene ricoverata d'urgenza in ospedale, dove le fanno subito delle fleboclisi e incominciano a praticarle la nutrizione artificiale attraverso una sonda. Gianni non si stacca un attimo dal suo capezzale. Anche Roberta un giorno va a trovarla. Elisa con voce flebile le chiede di perdonarla. Roberta scuote la testa e le sorride amorevolmente. Che stia tranquilla. Va tutto bene. Non c'è niente da perdonare. Deve solo pensare a guarire. Gianni aspetta Roberta all'uscita. Vuole parlarle. Le chiede di non lasciarlo. Di sospendere ogni decisione, finché la crisi non sia passata. Ha intenzione di partire con Elisa per la Svizzera. Ha saputo di una clinica dove pare stiano sperimentando delle terapie nuove. Vuole provare. Ha chiesto un'aspettativa, per poterle stare vicino. Ma tornerà. Roberta scuote la testa. Non riesce a guardare Gianni negli occhi: “Claudio è stato molto comprensivo. Ha detto che è disposto a dimenticare, naturalmente a condizione che la nostra storia finisca. E io gli ho risposto di sì.” Quello stesso pomeriggio Roberta è seduta nel salottino dello psicologo, le spalle scosse dai singhiozzi. Proprio adesso che avrebbe bisogno di aiuto, lui non riesce a trovare nulla da dire, rimane muto a guardarla piangere. Lei non è più l'intellettuale che sa mantenere così bene tutto sotto controllo, con la quale ci si può divertire ad esplorare i lati oscuri dell'anima. È soltanto una donna che soffre. È passato quasi un anno. Un lungo inverno in cui è arrivata qualche breve lettera dalla Svizzera, indirizzata alla “cara professoressa Roberta”, agli altri insegnanti e ai compagni di classe. Poche righe attraverso le quali Elisa assicura che sta meglio, saluta tutti e promette che tornerà presto. Poi i bigliettini diradano. Negli ultimi mesi più nulla. Ora è di nuovo estate. Le scuole sono chiuse. Da quando Claudio se n'è andato, Roberta si è come ingrigita. La separazione è stata decisa di comune accordo, senza drammi. Ma io sono preoccupata: mia sorella non è mai stata così apatica, spenta. Non è abituata, lei, alla solitudine. Io invece sono un'esperta nel settore: conosco tutti i trucchi per evitare di soffrire. Ho sempre una soluzione a portata di mano. All'aeroporto internazionale, quasi ci scontriamo, Roberta, Gianni, Elisa ed io. Tutti e quattro carichi di valige. Stupore, saluti, abbracci. Elisa sembra in gran forma. È cresciuta, si è fatta una donna, ed è ancora più bella. Stanno partendo per Francoforte. Non è che per caso anche noi… no, noi stiamo aspettando il volo per Tunisi. Destinazioni opposte. Però manca una mezz'oretta al nostro volo, tre quarti d'ora al loro. Si può prendere qualcosa al bar, scambiare due chiacchiere. Io mi defilo, con la scusa di comperare i giornali. Mentre Elisa è al bancone e sta scegliendo quali brioches ordinare, Gianni si informa: “E Claudio?” “Ci siamo separati”, spiega Roberta con un sorriso un po' forzato. “Ma allora… sei libera…”, cerca di sapere Gianni. “Dimmi, è così?” E la guarda pieno di speranza. In quel momento è sopraggiunta Elisa, col piattino dei dolci. Sedendosi urta inavvertitamente la teiera, che nel cadere a terra va in mille pezzi, non prima di averle spruzzato il braccio di acqua bollente. La ragazza getta un urlo. Accorre la cameriera con del ghiaccio. È tutto un trambusto per cercare di medicare la piccola ustione, prima che la pelle si copra di vesciche. Il nostro volo è già stato annunciato. Dobbiamo muoverci. Gianni è tutto preso ad assistere Elisa e si è dimenticato della domanda sospesa tra lui e Roberta. Spingo mia sorella verso il cancello d'imbarco. “Si è bruciata…”, mormora mentre passiamo il check-in. Capisco che è sconvolta, anche se non vuole darlo a vedere. “Diciamo che ha bruciato la possibilità che voi due vi diceste qualche cosa di importante.” Non riesco a fare a meno di dirlo, anche se forse farei meglio a tacere. Ma mi è difficile rinunciare a questi giochi di parole, che piacciono tanto ai lacaniani e offrono un'illusione di chiarezza, come se il mondo una volta detto fosse per sempre compreso, e quindi attraversabile, senza ulteriori incidenti.

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Siamo tornate da Tunisi, Roberta ed io. È stata una bella vacanza. Ci siamo divertite. Che io sappia, non è successo nient'altro. Se Gianni l'ha cercata, Roberta deve aver declinato ogni invito. E comunque ha preferito non parlarmene. Segno che è finita davvero. Da un po' di tempo mia sorella sta meglio. La vedo a poco a poco rinascere. Ha ripreso a truccarsi. Canticchia mentre mette fiori freschi nei vasi. Sorride. Un giorno qualunque qualcuno suona alla porta. Roberta va ad aprire e… sono una nelle braccia dell'altra. Elisa è dimagrita. Ha di nuovo quell'aria smunta che mette paura a chi la conosce, a chi sa. Roberta la fa sedere sul divano. Le stringe entrambe le mani. “Va tutto bene”, assicura Elisa, “è vero, sono dimagrita un po', ma è stato per colpa dell'influenza. Nient'altro.” Però non tocca i biscotti e lascia il tè a metà. È venuta perché voleva informarla che papà ha vinto il processo, e lei non sarà costretta a stare con la mamma. Ma non è solo questo. È qui per dimostrarle che lei non le ha mai raccontato bugie. Quali bugie? Si riferisce ai biglietti del teatro. Li aveva presi la mamma per esibirli come prova che il padre aveva una relazione con Roberta. In questo modo ha anche tentato di inficiare il valore delle dichiarazioni che lei aveva rilasciato all'assistente sociale. Il giudice però ha dato ragione a Gianni. È stata Elisa a convincerlo, non sa neanche dire come. E poi è qui perché… aveva tanta voglia di rivedere Roberta. Anche Gianni avrebbe piacere di rivederla. Deve prometterle che verrà presto a trovarli. La prega solo di non dire niente a papà dei biglietti. Perché lui si vergogna del gesto della moglie e non sa perdonarsi il fatto che la reputazione di Roberta sia finita sui banchi di un tribunale. Ma soprattutto si vergogna di essere stato tanto ingenuo da lasciare che questo accadesse. Però lei, Elisa, a Roberta, alla sua prof-maman, doveva dirlo! Resterà un piccolo segreto tra loro due. Sorride, i grandi occhi grigi malinconici… ha ancora bisogno di lei. Roberta mi racconta tutto in tono concitato. Nella voce avverto una nota calda che non sentivo da tempo. “Capisci? Abbiamo fatto una proiezione. Elisa ha sempre avuto problemi con la madre. È di nuovo dimagrita per la paura di dover tornare a vivere con lei. Siamo io e te ad avere avuto un problema con nostro padre, non lei.” Ora vede tutto sotto un'altra luce. Tutto è ancora possibile. Si è comportata come una pazza, dominata dalle proprie paure, dai propri fantasmi. Ma questa volta non sarà più così. La malattia certo è una cosa seria, ma lei può fare qualcosa, vuole fare qualcosa… “Elisa è solo una bambina fragile. E io non ho saputo aiutarla. L'ho abbandonata. Li ho lasciati soli tutti e due.” Quando provo ad obiettare che non è andata così e la invito a ricordare, Roberta quasi mi aggredisce. “Basta. Non ti voglio ascoltare, tu con la tua storia dell'adolescente manipolatrice. Tutte… cazzate!” Una risata isterica, plateale suggella la parolaccia pronunciata in tono compiaciuto. “Va bene”, sbotto, “vai a cacciarti di nuovo nei guai!” Vorrei cercare di farla ragionare, proteggerla da se stessa. “Lo sai benissimo”, insisto, “che hai a che fare con una ragazzina malata, innamorata di un padre altrettanto cieco d'amore per lei. E tu ti vai a ficcare in mezzo.” Ma Roberta non vuole sentire. È fuori di sé. “Non parlare d'amore tu, che non sai cos'è, tu che non sai dare niente a nessuno. Sei capace soltanto a giudicare. E questo ti rende arida, perciò sei sola, e vorresti che fossi sola anch'io, a farti compagnia… nei tuoi viaggi.” Riconosco quella sua cattiveria. So da dove viene. Vorrei fermarla, prima che dica altro, ma non faccio in tempo. “Tu, tu sei sempre stata innamorata di papà, e gelosa di me.” Rabbrividisco, come se l'ombra di nostro padre mi sfiorasse. Afferro la borsa e la giacca. Le

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lacrime agli occhi, il groppo in gola, posso solo scappare. Sento alle mie spalle Roberta singhiozzare, mentre scendo le scale di corsa, confusa, smarrita. Sì, forse ha ragione. È proprio così, come dice. Io sono così. Plutone: la truffa, l'inganno. Svolto l'angolo e, come per caso, mi trovo davanti Gianni. Pochi minuti dopo siamo seduti al tavolino di un caffè. La testa china, lo sguardo abbassato, Gianni rigira il cucchiaino nella tazza, sospira. “… infatti non sta bene. Anche la faccenda dei biglietti, è vero che si è sempre vergognata di quella ragazzata… ma il fatto che abbia di nuovo tirato fuori questa storia, architettato una nuova bugia, invece di dire semplicemente a Roberta: sto male, aiutami… mente, mente di nuovo. Anche questo è un brutto segno. Credevo ce l'avesse fatta. Stava meglio. E incominciavo a stare meglio anch'io. Ho sofferto quando ho perso Roberta. Ma poi piano piano… non posso dire di averla dimenticata, ma mi sono rassegnato, e l'ho capita. Abbiamo attraversato una burrasca insieme… e siamo naufragati. Le onde ci hanno spinti lontano uno dall'altra.” Scuote la testa. Sento che il suo pensiero corre al mare calmo e splendente di quell'estate. Poi si riprende. “Pochi mesi fa ho conosciuto Adriana.” Lo sguardo gli si illumina un poco. Ha bisogno di confidarsi. “Mi piace. Piace anche ad Elisa. È una donna in gamba. Non si è lasciata spaventare dalla malattia di mia figlia. Con questo non voglio dire che Roberta… non fraintendermi. Roberta con Elisa è stata straordinaria. Resta la persona più meravigliosa che abbia incontrato. Non puoi immaginare quante volte avrei voluto cercarla, ma poi… non volevo rischiare di turbarla, di sconvolgere di nuovo la sua vita. Al telefono mi aveva detto di essere felice, che tutto era successo in fretta, neanche lei sapeva come. È ancora così, vero? Va tutto bene con… non so neanche come si chiami… lui…” “Sì, va tutto bene. È felice.” Plutone: il segreto, la menzogna. Del resto cosa potrei spiegare a Gianni? A cosa mira la piccola Elisa con la sua nuova ragazzata? Dove vuole arrivare col suo solito giochino? Mi guarderebbe incredulo, come cadesse dalle nuvole. Non solo Elisa, tutti siamo ciechi quando si tratta di noi stessi. E anche quando vediamo chiaramente e riusciamo a capire, ben difficilmente siamo capaci a cambiare le cose. Ma forse non è nemmeno vero che capiamo, forse non sappiamo niente. Possiamo solo vedere, vedere e raccontare ciò che vediamo, mai sicuri se questa sia o no la verità. Mentre varco il portone della casa di Roberta, mi chiedo cosa le dirò. Con quali parole le spiegherò tutto. Ci siamo sentite al telefono e ci siamo ripetute che ci vogliamo bene. La bufera tra noi è passata, come un vento impetuoso e feroce, che scuote con violenza ciò che trova, dalle fondamenta, ma poi se ne va, lasciandosi dietro solo qualche ramo spezzato, qualche tegola rotta. Entro in salotto. Elisa è lì, sprofondata nel divano, davanti al solito tè che si raffredda nella tazza. Mi saluta timidamente. Lei e Roberta si scambiano sguardi affettuosi, parole gentili. Mi assale all'improvviso una gran voglia di prendere a schiaffi quella ragazzina bugiarda, di gettarle in faccia le sue menzogne, costringendola a mettersi di fronte a se stessa, a fare i conti con Roberta, qui e adesso. Ma poi lo sguardo mi cade sui suoi polsi sottili, sulla linea affilata degli zigomi che spiccano sulle guance scavate, regalandole un fascino un po' orientale… e ho paura. Taccio, mentre un senso di impotenza mi invade, mi opprime. Quando se ne sarà andata, allora parlerò a Roberta. Farò ciò che ho sempre fatto, ciò che nostra madre non sapeva fare. Perché io sono quella che attutisce i colpi. Quella che tiene testa a papà. E lei è la mia sorellina, la sorella minore, la piccola, quella che ha bisogno di protezione, che ha bisogno di me, la grande. Le spiegherò, lei si ribellerà, io l'abbraccerò e spiegherò ancora, finché capirà. E poi la console-

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rò. E mentre cercherò di ricomporre con cura i mille frammenti del suo cuore spezzato, tra le lacrime mi chiederà cosa fare. Ma io non le risponderò. Forse questa volta deciderà di lottare, troverà la forza e il coraggio di restare. Forse non se ne andrà, come ho sempre fatto io. Non c'è molto da aggiungere. La storia è tutta qui. Una storia appassionante. Intrigante, lo so. Perché è vera. Non sembra di vederli quegli interni borghesi, quelle serate a teatro e quelle persone così a modo, educate, civili, colte, eleganti? La corrispondenza in francese con la professoressa e quel fascino un po' salottiero esercitato dalla psicanalisi, che fa sembrare tutti più intelligenti e ci illude che ogni cosa possa essere compresa e quindi risolta, l'infelicità senza desideri di tante povere coppie che non trovano il coraggio di separarsi, tutto quel parlare, parlare, parlare, analizzare, spiegare, capire… E sotto il dolore vero, la fame d'amore, il bisogno di vivere, che si fa strada al di là delle convenzioni, delle etichette, dei principi, che fa male quando si fa sentire, perché è forte e non sai dove ti può portare… Da un po' di tempo ho ripreso a scrivere. Qual è il professore di lettere che non nasconde un romanzo nel cassetto? Tuttavia non è per fare della letteratura che ho raccontato questa storia. Vedere e descrivere, svelare… Ciò che si annida al di sotto della soglia della coscienza imputridisce nei più profondi recessi del nostro mondo sotterraneo, per poi insinuarsi dietro le spalle e colpirci all'improvviso. Dove la psicanalisi non può, l'arte forse… non era questa la funzione della tragedia greca? E non è questo il compito del cinema oggi? Ma forse sto delirando… sto solo sognando di diventare famosa. Un'altra scorciatoia per calmare una sete che non si spegne. Gli applausi del pubblico, l'ammirazione degli altri potrebbero riempire per un poco il vuoto che col tempo cresce dentro di me. Di giorno in giorno si fa sempre più grande. Ho paura che si trasformi in una voragine e che mi inghiotta. È contro questa paura di cadere - che in fondo è anche una tentazione - che ho scritto, che scrivo. È chiaro, no? “L'uomo appagato non ha bisogno di scrivere.” Scriveva appunto Roland Barthes. Mi pare in… Frammenti di un discorso amoroso?

Anna Gasco, autrice torinese, ha scritto e diretto film e video tra cui Le Rose Blu con T. Pellerano e E. Piovano, con la partecipazione di Laura Betti e Ninetto Davoli, Camera Oscura e Epistolario immaginario: videolettere dal carcere con Camera Woman, La Guerra alla Guerra con Daniele Gaglianone. Segnalata nel 1999 al Premio Solinas con la sceneggiatura Il Canto dell'Usignolo, ha collaborato con l'A.N.C.R. e pubblicato sul Nuovo Spettatore. Recentemente ha firmato la sceneggiatura e la regia del musical per il teatro Night and Day e sta scrivendo un musical per il cinema.

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AMANTI DEL CRIMINE di Danzio Bonavia OPM PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO O DOCUMENTARIO GENERE: AVVENTURA

Avete mai visto un treno, o un muro, dipinti con le bombolette spray? Come avete reagito? Si può essere infastiditi da quello che comunque è un atto di vandalismo, oppure si può essere piacevolmente colpiti dalla violenza visiva di un gesto che rende finalmente viva una periferia usualmente grigia e dimessa. Avete mai pensato ai ragazzi che compiono questi interventi? Se vi dicessero che sono perfettamente consapevoli non solo dei rischi che corrono, ma spesso della natura del tutto effimera del loro progetto? Gli ultimi treni sono rivestiti di una pellicola su cui la vernice non aderisce. Loro lo sanno eppure continuano a dipingere quei treni, a volte rischiando molto più che qualche giorno di galera. I loro gesti diventano allora quasi eroici, si vestono di una poesia davvero inattesa.

Amanti contrasta lo stereotipo dominante “dei vandali che si divertono a sporcare.” Pone un dubbio: “Ho mai provato a capire perché lo facciano?... No, li giudico. Senza conoscere.” Scrivo racconti per rendere percepibile a chi legge un qualcosa che solitamente è “estraneo”. Svelare un codice. Vivendolo e osservandolo. Danzio Bonavia OPM

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Ore 00:45 – Sono in macchina con A., D., C. Non si sente più la musica. La coprono sbattendo le bombolette, per rendere fluida la vernice, prima di entrare in yard1 . Dentro non potrebbero farlo. Troppo rumore. Ma siamo quasi arrivati. Il rumore delle biglie di ferro che rimbalzano negli spray continua. Sclero. Qualcuno piglia lo zainetto coi suoi colori e li scuote tutti assieme lasciandoli dentro. Ancora qualche minuto di casino e poi tutti in silenzio. Ore 1:10 – Parcheggiamo dietro un caseggiato. Scendiamo dalla macchina in fretta e torniamo lungo la strada. Loro coi colori, uno nello zaino, uno in una scatola, l’altro in un sacchetto. Cercano di non agitarli. A casa li guardavo, tutti e tre in ginocchio, con gli spray sparsi sul pavimento, discutere sulla colorazione che avrebbero fatto. Poi avevano segnato con un pennarello il tipo di colore sulle bombolette. “Perché lo scrivete? C’è pure il cerchio colorato intorno al tappino…” “Sì, ma se no dentro non li distinguiamo. C’è troppo buio.” “Ah…” Ora non c’è più quella tranquillità. Loro camminano veloci, decisi. Avverto tutto come agitazione. Continuo a voltarmi in ansia. Rimango leggermente indietro. Li chiamo. “Shhh! Non fare casino. Siamo davanti all’entrata e devi fare cisti. Se ci fermassero qua davanti, con colori bozze, non sarebbe proprio bello. Parla piano e segui A.” Mi sussurra D., tenendosi al mio gomito. Dietro una curva arrivano le luci di una macchina. “Stai giù!” Ci chiniamo tutti fra le auto parcheggiate e una siepe. Passa. Ci alziamo, mi volto e vedo A. che la segue ancora. Si gira tranquillo e mi dice: “Ora entriamo. Seguimi e stai giù se vedi arrivare delle macchine. Okay?!” “Bin!” Scavalchiamo la staccionata di cemento dell’Effesse e siamo sulla linea2 . Sussurrano e sono tutti seri e attenti a guardarsi intorno. Io non so dove fissare la mia attenzione, e cerco di vedere dove metto i piedi nel buio più totale. Seguiamo i binari più vicini alla recinzione per una cinquantina di metri. Camminiamo in fila col ronzio dei lampioni che mi riempie le orecchie. Sono tutti davanti a me, A., D. e C. A. precede tutti e fa segno di venire. C. si gira, mi guarda, mi sorride e mi dice: “Stai calmo. È tranquillissimo. Non fare cazzate e per ogni cosa dilla a noi. Basta che stai sempre al buio. È come giocare a guardia e ladri.” Ci spostiamo al centro della linea. Andiamo avanti fra i binari, seguendo dei piastrelloni di cemento. Quelli dove di solito, passando in treno, vedo camminare i ferrovieri che lavorano alla linea. A parte le luci tutto è in silenzio. Ore 1:20 – A quest’ora nessuno sta lavorando. Gli altri devono dipingere prima che il deposito cominci a svegliarsi. Hanno circa due o tre ore. Davanti a noi vedo i treni, spenti, che dormono avvolti nel buio. Ci avviciniamo e mi investe un odore che prima non riuscivo a distinguere. Un misto di ferro, olio, freni bruciati e caldi, gomma fusa e tanto piscio: l’odore della yard. Entrano in un corridoio3 . “Aspettaci qua. Stai coperto e guarda verso quel casotto.” “Cos’è?” “Il casotto dei ferrovieri.” “Ah! Bbello!” Guardo il casotto con le luci accese. Pesante. E mi accorgo della cosa peggiore della yard. Un deposito dei treni è un posto solitamente strabuio, tranne alcune luci tenui qua e là, lontane. In più sai che non potresti stare lì perché è illegale, e sai di dover stare attento. Così deposito dei treni i binari del treno 3 lo spazio fra due treni 1 2

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se ti dicono: “Guarda quel punto laggiù!” inizi a fissarlo. Le ombre dopo cinque minuti cominciano a muoversi e pensi ci sia qualcuno. Mentre io cominciavo a impazzire per le mie paranoie, tornano e mi dicono: “Qua non c’è posto, dobbiamo dipingere più scoperti. Là.” E io: “Ma A. non ti sembra che laggiù ci sia qualcuno che ci venga incontro?” E gli indico il posto. Stringe gli occhi, guarda e mi fa: “Ma va’!” “Ma come no?! C’è una folla di gente!” “Ma sei fuori? Sei paranoico. Stai calmo. Non fissare troppo lo stesso punto, se no gli occhi ti vanno a puttane. Vieni! Stai tranquillo! Stammi vicino.” Si spostano e posano i colori affianco ad un treno sui binari adiacenti alla banchina4 . Mi sento scoperto. “Qua se la gente si affaccia dalle case ci vede di fisso.” Penso. Mi viene incontro A. “Mi raccomando, guardati intorno ogni tanto. Quelle sono le entrate.” E me le indica. “Se c’è qualcosa, non ti agitare e dillo a me.” Una sera avevo visto un filmato, fatto da un amico, sugli altri che dipingevano. Non si vedeva nulla. Era girato di notte senza faretto. Si sentiva solo il rumore dello spray e le biglie che scivolavano nelle bombolette. Ora mi sembra che producano un suono fortissimo, tanto che sono convinto che lo possano sentire anche le persone dalle case. Loro, abituati, sembrano non farci più caso, ma dopo mezz’ora che siamo in yard l’unica cosa che si sente in maniera costante è il rumore degli spray che segna il movimento, il pezzo che prende forma. Ore 1:30 – Gli altri iniziano a dipingere. Per me è come il video. Sento gli stessi suoni e non vedo i loro pezzi5 . Continuo a guardarmi intorno. È una serata di giugno e si sta veramente bene. L’aria è solo fresca e ci sono ancora un casino di persone sveglie nei palazzi. Spio le ombre che passano davanti alle finestre, coperto dal treno. Controllo le entrate. Gli altri dipingono con gesti veloci. Tutti coi guantini in lattice per non sporcarsi di vernice. Mi fermo davanti a C. che con una pila in bocca si illumina la bozza e stende la traccia sul pannello6 . Mi giro di nuovo a controllare la linea, il casotto. Mi alzo e cammino affianco agli altri e guardo come stanno venendo i pezzi. Torno indietro, supero A. in testa al treno, mi accendo una sigaretta e mi siedo su un binario. È stretto. Ma almeno non è gelato. Non come d’inverno, quando devono smuovere la neve per non lasciare tracce sotto al vagone dove è colata la vernice perché il treno era ghiacciato e non si attaccava. Mi chiedo come facciano a resistere qua col freddo, in piedi, fermi. Cosa gli dia la forza e la voglia di sbattersi così: col guantino di lattice infilato sopra al guanto di lana per non gelare, a tenersi gli spray sotto la giacca o a mettere la borsa dell’acqua calda nello zaino per scaldarli, a cercare di asciugare il vagone dalla brina, di stare sotto la pioggia a dipingere, di interrompere e nascondersi sotto il treno perché c’è qualcuno; di entrare nel vagone e aspettare che passino i ferrovieri, che non si capisce come facciano a non sentire l’odore fresco della vernice, o a dipingere nei corridoi sotto il sole, col il puzzo di piscio che sale, o il vento che gli fa volare via lo spray e respirare quello degli altri, con la gente di giorno che li vede dalle case e li sfotte, li insulta, li minaccia “Chiamiamo la polizia!” Arriva la Polfer e scappano. Ma non se ne vanno, perché è come giocare a nascondino. Se non hanno finito il pezzo tornano. Perché se scappano e lo lasciano a metà hanno comunque speso e buttato i soldi dei colori. È la stessa voglia di sbattersi che gli fa passare una notte intera in piedi al freddo, per riuscire a capire i movimenti di un deposito e poter entrare, magari all’estero, in un posto che non conoscono, per fare un pezzo in dieci minuti, coi ferrovieri dall’altro lato del treno che fumano e giocano il marciapiede per i passeggeri in stazione, spesso una stazione è anche un deposito il prodotto finale del writer 6 il fianco del treno, sotto i finestrini, usato come tela 4 5

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a fare canestro coi sacchetti di spazzatura. La stessa voglia che ti fa calare con una corda da un dirupo per dipingere il TGV. Non posso credere che tutto questo sia solo vandalismo. Anche, certo, ma non solo. Mi guardo intorno e tutto è tranquillo. Mi alzo per vedere a che punto sono gli altri. Ore 2:00 – La prima cosa che noto andando verso di loro sono due tipi all’inizio della banchina, nella sala d’aspetto. Tocco D. e glieli indico. Lui fa cenno agli altri di coprirsi. I due si baciano. Aspettiamo che se ne vadano, coperti dalla linea dei pilastri. Nel silenzio guardo gli altri per sapere che fare. Ore 2:10 – I tipi vanno via, ma lasciano la porta della stazione aperta. La luce delle macchine che passano illumina dentro. Non sono più rilassato come prima. Ma A. posa lo spray e tranquillo, con la mano col guantino in tasca va a chiudere la porta. C. esce da sotto un treno. Se stessi là sotto di fisso vomiterei, fra la carta, la merda e la puzza di piscio. Riprendono a dipingere. Mi avvicino e guardo i pezzi, ma non distinguo i colori se non di riflesso. “Non si vede un cazzo!” Mi guardano un secondo sorpresi e si voltano. Torno a sedermi vicino ad A. dal testone7 . Ore 2:25 - Se guardo una luce per più di venti secondi di fisso vedo ombre che si muovono e creano forme. Sorrido pensando alla mia folla di gente e mi giro: il solito rumore di macchina nel parcheggio. La seguo. Ma non se ne sta andando. Mi alzo e mi appoggio al frontalino8 del treno per coprirmi. Chiamo A. che si sporge e guarda. La luce sul cancello automatico si accende. “Non muoverti e non ti sporgere. Non c’hanno visti. Resta qua.” Se ne va. Mi piglio malissimo a restare lì solo. Mi giro e faccio per andare a vedere dove sono gli altri. Ma ecco che A. torna con D. e C e tutti i colori. Siamo tutti sui binari, davanti ai fari spenti del locomotore, pieno di insetti morti. Il posto dove stavano dipingendo è completamente sgombro. Restano solo i pezzi a lato del treno e l’odore di spray. Aspettiamo che parcheggino ed entrino dentro. A., D. e C. vanno da un lato all’altro per vedere cosa fanno i tipi sulla macchina. “Chi sono?” sussurro. “Ferrovieri.” “Ma come mai vengono a quest’ora? Iniziano a lavorare?” “No, ci abitano.” Un’ombra passa dietro a un vetro del secondo piano della stazione. “Quindi se aprono una di quelle finestre ci vedono?” “Eggià”, mi risponde D. tornando a dipingere. Resto lì bloccato. Ore 2:40 – “Quanto ti manca?” chiedo ad A. “Ho finito. Faccio le tag9 e le dediche e andiamo.” “Ah…” Mi metto a guardare il suo pezzo. Me ne vorrei andare. È un sacco che siamo dentro. Vado davanti ai pezzi di D. e C. “Com’è?” gli chiedo. “Bene”, taglia D. e si volta. “Quanto avete ancora?” “Guarda, devo fare ancora il bordino e i riflessi… con calma, è presto!” Si gira e continua. Intanto A. ha messo via i colori e si siede tranquillo a guardare il suo pezzo e gli altri. Mi fa cenno di venire. “Fra un po’ hanno finito. Tieni, fuma e se non finiscono in fretta mi sa che non fumano.” Gli sorrido e tiro. Voglio andare via. Ore 3:05 – Finalmente tutti hanno finito e ce ne possiamo andare. Ma D. comincia a teggare10 i frontalini degli altri treni. “Che palle, andiamocene”, penso, “come fanno a stare così rilassati?” Lo aspettiamo andando verso l’uscita. “Fai di nuovo attenzione!” mi raccomandano, scavalcando la staccionata di cemento e passandola testa del treno il muso del treno 9 lo pseudonimo che il writer usa per firmare il proprio lavoro 10 firmare 7 8

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mi i colori. Poi i fari di una macchina cominciano a tagliare i cespugli che ci coprono. Gli altri a metà del muretto si buttano giù. C. mi trascina per i pantaloni. Tiro un sospiro quando vedo che la macchina non è una volante. Loro tranquilli stanno già parlando di come sono venuti i pezzi. Mi rialzo e li raggiungo. Tutti con i colori vuoti, che devono buttare fuori dalla yard. Ore 3:15 – Siamo di nuovo in macchina. Con la fronte sul vetro, assonnato, penso a come l’odore di spray ci stia appiccicato ai vestiti. È come se i pezzi fossero là attaccati al fianco del vagone che dorme, ma ancora incompleti. Mancano le foto. Se non le fanno subito domani mattina o dopo, quei pezzi verranno buffati11 . Quasi tutti i treni hanno una cazzo di pellicola che non permette alla vernice di penetrare e con l’acqua calda i pezzi scivolano via. Mentre andiamo a cercare un panettiere aperto mi raccontano che una notte, entrando in yard, hanno trovato attaccato a un palo una pellicola con una parte di pezzo di uno degli altri12 . “Sembrava un segnale. L’hanno lasciato lì apposta, perché lo vedessimo e capissimo che sanno che andiamo a dipingere lì. O no?” Aspettiamo che il sole sorga, mangiando e fumando. Poi qualcuno, non io di certo, dovrà entrare e cercare di fare le foto, coi ferrovieri che già gireranno incazzati attorno al treno dipinto. Tutte queste ore, tutto questo sbattimento, il rischio, tutti i soldi spesi, dalla benzina ai colori, non può essere solo vandalismo, se no avrebbero rotto tutti i vetri, che non si riparano con l’acqua calda. E zitto continuo a pensare, appoggiato al finestrino, ma mi manca qualcosa, qualcosa per capire e cucire tutte le loro emozioni e le loro motivazioni. Ore 6:45 – A. e C. entrano in stazione, questa volta dall’ingresso principale. Credo che poi abbiano percorso tutta la banchina, fino ai loro pezzi in testa al treno e abbiano fatto le foto. Dormivo. I ferrovieri li indicano, si raggruppano e gli vanno incontro. Per uscire sono costretti a incrociarli. Li chiamano e A. finisce di fare le foto. Poi si gira chiama C. Vanno nella direzione opposta all’uscita. I ferrovieri dietro. Il marciapiede finisce. Loro continuano tranquilli camminando fra i binari coi treni in movimento verso l’entrata o l’uscita, non della stazione, ma del deposito dei treni. Della loro yard. A tutti quelli che si accorgeranno del limite che il vandalismo impone alla propria arte. A Matteo. Per sempre in questo racconto A.

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Danzio Bonavia OPM (Imperia, 1978) è studente alla facoltà di Letterature e Culture Comparate di Torino. Ha vinto alcuni concorsi letterari e pubblicato racconti e poesie su siti e riviste italiane quali Sagarana.net, Prospektiva.it e altre. Nel 1998, insieme a D. Danio e V. Patti, crea il gruppo di scrittura Opiemme Poesie (www.opiemme.com), con l’obiettivo di avvicinare un pubblico giovane alla lettura della poesia, attraverso la sua innovazione, mediante il ricorso a diversi codici di comunicazione: pittura, web design, aerosol art, musica, grafica, fotografia, animazione video. A giugno di quest’anno, edita da Prospettiva editrice, è uscita la raccolta di poesie Opiemme Sfioraci, con testi di Bonavia e Danio.

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Anime migranti

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ANIME MIGRANTI di Carlo Ghioni PROGETTO PER SERIE TELEVISIVA GENERE: FICTION DRAMMATICA

Due, sostanzialmente, gli atout di questo progetto: un protagonista decisamente anticonvenzionale e la possibilità di far “passare” informazioni importanti su un tema discusso e sul quale si è visto e letto molto, ma che raramente è stato affrontato dal punto di vista di chi lo vive sulla propria pelle. Un venditore ambulante arabo, Abdul, un adolescente simpatico ed estroverso, è arrestato dalla polizia durante un’azione di controllo del territorio. Trovato sprovvisto di legale permesso di soggiorno, gli viene proposto un patto di collaborazione: informazioni ed indagini conoscitive all’interno della comunità araba della città, in cambio della regolarizzazione. Non gli viene dato tempo per pensare, deve rispondere immediatamente. Il ragazzo accetta. Il suo essere corpo estraneo alle fazioni in lotta, mai realmente accettato dagli italiani, che se ne servono a proprio vantaggio, né pienamente inserito nel sottobosco dell’immigrazione torinese, mai rispettato dalla polizia, né amato dai propri connazionali, fa da sfondo alle storie dei singoli episodi, organizzati secondo due principali colpi di scena: un primo evento che mette in pericolo il permesso di soggiorno del protagonista e lo obbliga ad indagare/muoversi; un secondo evento che risolve il problema immediato, facendo arrestare o allontanare l’antagonista, ma che lascia aperta la questione generale. Le singole puntate vertono su situazioni e personaggi chiave, quali: -

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Scontro fra bande di tunisini e marocchini per il controllo del piccolo spaccio in città. Difesa di una parrocchia e del prete che accoglie prostitute in fuga. Gestione del conflitto fra affittuari arabi in un caseggiato popolare e il locatore. Lotta con la burocrazia italiana nel tentativo di apertura di un piccolo spaccio di prodotti africani. Lotta con guardie private, il cui compito è allontanare gli ambulanti dalle vie commerciali della città. Scontro con connazionali che importano persone, vendendo loro il sogno di una impossibile ricchezza. Scontro con la comunità cinese che offre il proprio lavoro a costi bassissimi, escludendo dal mercato gli altri immigrati. Lotta con i grandi spacciatori di droghe pesanti che non vengono pervicacemente indagati e perseguiti dalle autorità quanto i piccoli spacciatori di fumo. Lotta-vertenza in un luogo di lavoro, in cui si esplicita il contrasto insanabile fra vecchi lavoratori sindacalizzati in attesa della pensione, e giovani italiani ed immigrati con aspettative e problemi differenti. Tentativo di far produrre musicisti africani dalle strutture editoriali italiane.

Il tono del racconto mira ad esplorare le nuove realtà di confine, fra italiani e nuovi immigrati. La struttura identifica un chiaro antagonista, a cui Abdul si contrappone. Ma la fine resta aperta, perché se il problema tangenziale è risolto, con l’arresto o l’allontanamento dell’elemento perturbatore,

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il protagonista rimane intrappolato nell’ingrato ruolo di spia delle autorità, impossibilitato d’altro canto a portare un ordine duraturo nelle situazioni con cui viene a contatto. Personaggio - Abdul è arrivato in Italia circa otto anni fa, ancora bambino. Negli occhi il ricordo delle città viste in televisione durante i Campionati Mondiali di calcio. È passato molto tempo da allora: i denti sono diventati marroni, il corpo è cresciuto vigoroso, ed ha imparato la lingua italiana. Addirittura mastica alcune espressioni in dialetto. Nonostante le delusioni dell’immigrazione non ha perso il sorriso ed un approccio positivo alla vita. È allegro e gioioso, e riconosce in molti italiani individui che lo hanno molto aiutato. La sua comunità originaria lo guarda con amore, ma anche con diffidenza per la sua capacità di sorridere alla malasorte. Non ama la polizia e le autorità, ma è anche infastidito dai connazionali che sfruttano le vie oscure del traffico di persone, armi e stupefacenti. Consapevole che il mondo non si può cambiare, cerca un angolo di pace dove potersi esprimere, senza dover lottare con la violenza. Elementi Creativi - Torino è drammaticamente chiusa su se stessa. Già le comunità di immigrati nazionali degli anni ‘60 non trovarono integrazione, e la città finì per strutturarsi in micro-quartieri in cui le caratteristiche dei luoghi di origine erano ricreate artificialmente. Torino non presenta un tessuto uniforme, ma infinite varianti di paesi distinti, incapaci di trovare una sintesi superiore. La città è ancora profondamente aristocratica e popolare: il fiume Po taglia geograficamente lo spazio urbano in opposte realtà urbanistiche, inconciliabili. Questa scenografia urbana è disegnata per portare in risalto lo scontro/incontro con i nuovi immigrati, una lotta fra culture e valori. La camera a mano, dura e sporca, segue il protagonista nella sua quotidiana odissea urbana, pedinando i suoi tentativi di conciliare istanze che si escludono a vicenda. La luce fredda e tagliente dei nuovi corpi illuminanti urbani si scontra con i morbidi profili della città barocca. I mercati cittadini mostrano l’attualizzazione della metafora di micro-culture chiuse su se stesse, che rappresenta il tema della serie. Il panorama offre numerosi ganci per un pubblico giovane: la città riproduce ingranditi i conflitti fra settentrionali e immigrati, fra seconde generazioni di immigrati e nuovi immigrati africani, fra lavoratori sindacalizzati e giovani disoccupati, ma offre anche musica alternativa, una presenza significativa ed attrattiva della campagna, un forte orgoglio a non lasciarsi colonizzare dalla vicina Milano. L’essere anacronistica rende la città primario elemento di racconto. Carlo Ghioni, dopo aver lavorato per oltre dieci anni in Italia con la macchina da presa, a trent’anni è partito per il Canada, dove si è rimesso in discussione cercando la sua strada di scrittore/regista. Lo steadicam continua a pagare le bollette, fra Torino e Vancouver, ma nel frattempo ha diretto due corti e sei documentari. Ha due documentari sull’Argentina in fase di montaggio ed altri quattro alla ricerca di sostegno, sei script per corti nel cassetto e, soprattutto, due lunghi e una serie TV ambientata a Vancouver in esame presso produttori locali.

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EUROKONSULT di Grazia Licari PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: SATIRA SOCIALE

Una sceneggiatura “alternativa”, dove un’inafferrabile atmosfera prende il posto di conflitti chiari e determinati, e dove il protagonista cova l’antagonista in se stesso. Eurokonsult propone una lettura psicologica del mondo degli affari attraverso una progressiva immersione nella patologia delle relazioni personali tra un imprenditore, il suo io e i suoi partner. La lettera del laboratorio farmaceutico che conferma la perfetta funzionalità del kit casalingo per l’inseminazione umana artificiale sorprende il procuratore d’affari Sven Dahlman nel bel mezzo di una riunione con un costruttore di automi: l’ennesimo inventore cui dare ascolto. Il neonato studio milanese d’intermediazione d’affari, Eurokonsult, può tuttavia ben sospendere la propria attività per qualche minuto, per consentire al cinquantenne svedese di festeggiare con l’assistente Marco quello che sembra essere il colpaccio di una vita. Fra le tante estenuanti ricerche di prodotti da rappresentare, che lo costringono a girare per grandi città e paesini fetenti, con ogni mezzo di locomozione, fra commercianti aridamente occupati dai propri affari, ai quali sospetta d’assomigliare, e tanti tristi inventori, Sven non sperava di trovare tanto: il kit per l’inseminazione non é necessario produrlo né tanto meno metterlo in vendita, basta minacciare di farlo e le case farmaceutiche pagheranno per decidere quando, e se metterlo sul mercato. Certo Duncan, l’inventore inglese, non è persona facile, ma per fortuna era arrivato a Sven tramite un collega: il balcanico Sali, mediatore d’affari in società col napoletano Esposito, che avrebbe contribuito a domare il genio britannico. Si viene così a formare un gruppo di lavoro a tre, inventore escluso, i cui connotati più evidenti possono considerarsi la diffidenza e l’opportunismo ma Sven considera che, proprio perché uomo di mondo, non deve dare ascolto all’istintiva apprensione che sente verso culture così diverse quali quella italiana e quella slava. Del resto non gli piace nemmeno viaggiare, questo è un equivoco del tenero Marco, lui farebbe volentieri a meno di visitare piccoli e grandi centri che gli appaiono inevitabilmente brutti e ostili. Il mondo che è costretto a visitare gli si presenta solo come un incomprensibile scenario, assurdo e violento, dove l’unica cosa che sembra avere senso è concludere buoni affari, vendere e scambiare fruttuosamente. Persino la collega e sporadica amante, Martina, sembra essere d’accordo con questa teoria, anche se non ne hanno mai parlato apertamente: “Ma si sa, certe cose non si devono dire per forza!” Sven si sente in qualche modo urtato dalla disinvoltura che invece i due nuovi soci mostrano sempre verso la realtà esterna agli affari, una sorta di spensieratezza adeguata a culture che lui giudica poco pragmatiche. Esposito e Sali del resto non fanno mistero della propria apertura alle possibilità di godimento che la vita offre loro, Sali inoltre può approfittare della giovane età e della prestanza fisica per ricavare esperienze che agli altri due sono negate. Sicuramente, pensa Sven,

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Esposito per ottusità e Sali per inesperienza attribuiscono troppa importanza a cose totalmente inutili. Grazie alla maestria con la quale, da solo, porta a pieno successo l’affare del kit per l’inseminazione, Sven riesce a dare soddisfazione al proprio senso di superiorità. Egli non solo lesina le notizie sull’andamento delle trattative ma, una volta concluso effettivamente l’accordo con la casa farmaceutica, trattiene più del tempo dovuto la somma guadagnata. Almeno così pare a Esposito e a Sali. Ma i veri uomini d’affari non si fanno frenare da piccole incomprensioni, anzi, la vita continua e le opportunità di guadagno pure. Una fiera commerciale da tenersi nella Germania ex-comunista è un modo per Sali ed Esposito di mettere in mostra anche la propria abilità. Almeno così pensa Sven, tanto da sentirsi obbligato ad accettare la collaborazione. Mai gesto di lealtà sarà più inopportuno di questo: il mondo brutto e disarmonico con cui Sven pensa di fare a gara di cinismo (e di vincere!) gli si rivolta proprio in questa occasione, lasciandolo nudo e umiliato.

Grazia Licari ha cominciato a lavorare nel 1984 come montatrice. Dal 1990 ad oggi ha curato regia e montaggio di film promozionali e documentari. Nel 1990 ha realizzato il cartoon Totem-s, nel 2002 il cortometraggio Gelosia e il documentario Dirk. Attualmente sta producendo una serie di brevi filmati su autori d’arte contemporanea. È autrice di tre sceneggiature per lungometraggi.

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BOYCOTT Abbassa la visiera guerriero di Davide Celli PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMA POLITICO-ECOLOGICO

Più di tutto di questa storia rimangono impresse due immagini davvero forti: il bosco dei guerrieri bambini, utopia di una società diversa aldilà e al di fuori delle ideologie, visione del mondo libertaria e pura, come solo i bambini possono immaginarla e viverla, e il laboratorio dove questi sogni si infrangono e la vita diventa un composto da analizzare e modificare a piacimento. Queste immagini ti si incollano addosso perché si alimentano continuamente della cronaca quotidiana. I giovani ribelli esistono, li abbiamo visti tutti a Seattle e poi a Genova e ovunque ci sia stata una riunione dei grandi della terra. Anche i laboratori esistono: su Repubblica del 7 febbraio 2003 è apparsa la notizia che un’università americana sta cercando 386 maialini geneticamente modificati che potrebbero essere stati venduti e macellati. Questo è il nostro mondo. E questi sono i suoi guerrieri.

È una storia di sempre, ma vista nella prospettiva dei problemi e delle dinamiche del nostro tempo, è un racconto di ideali perduti e ritrovati, di multinazionali e di ecologia, di scenari che preludono l’avvento del prossimo millennio, con la comparsa di quei nuovi guerrieri che combattono la violenza con la non violenza e che alimentano l’utopia di un futuro migliore, di una riconciliazione tra l’uomo e la natura. Il tema che percorre tutta la storia è quello degli usi e degli abusi dell’informazione, questo tiranno che indossa la maschera dell’imparzialità e che governa occultamente i movimenti delle masse e l’altalena delle borse. Una informazione veritiera, oppure menzognera, che è lo stesso, detta al momento giusto, può far sorgere o tramontare un impero finanziario. Ma veniamo ai fatti. Tommaso Moro è un giovane che ha l’ambizione di cambiare il mondo, partendo magari da un quartiere di periferia, o da un centro sociale in rovina da rimettere in funzione. Con l’ingenuità degli idealisti si aspetta che tutti i giovani emarginati, e rivoluzionari, si mettano al suo seguito e che la fidanzata sia pronta a subire con lui la povertà, se non proprio il martirio. Purtroppo i sogni muoiono in fretta se non sono sostenuti dai dividendi e dagli interessi politici e ben presto Tommaso Moro conosce la persuasione della polizia, che fa uso dei manganelli e dei gas lacrimogeni, e la paura dell’emarginazione, che impedisce alla sua ragazza di seguirlo al di là del chiuso perimetro del quieto vivere. Mentre lui si dà al bere, i suoi amici diventano assessori e mentre lui va alla deriva loro navigano sulle rotte dei privilegi e dei buoni affari. Tommaso, distrutto dall’alcool, viene portato, in fin di vita, all’ospedale dove l’aspetta la sua grande tentazione: nessuno condivide i suoi ideali? Si può sempre gettarli alle ortiche. Un vicino di letto, proprietario di un’agenzia di informazione, un uomo corrotto ed esperto nell’arte di dare un’aureola di credibilità, se non addirittura di santità, alle più spudorate menzogne e alle più torbide connessioni, vede in questo sognatore sconfitto un suo allievo possibile da convertire. Il loro dialogo ha come sottofondo remoto, ma intuibile, quello tra Faust e Mefistofele, sottratto al medioevo, inserito in una storia moderna, dove non è l’anima che viene messa in palio, ma la morale, e non quella teologica, ma quella tutta terrestre e secolarizzata che vuole che si lavori per il bene di tutti e che condanna un uomo che persegue, passando sopra ogni regola, i propri interessi. Tommaso Moro, angelo caduto e ferito quasi a morte, ascolta e firma il patto con il diavolo.

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B O Y C O T T

Da quel momento in poi diventerà un sicario prestigioso dei potenti della terra, pronto ad usare l’arma del ricatto e della malversazione. Far trovare una blatta nell’hamburger di un fast-food, o falsificare il logo di una compagnia sull’ala di un aeroplano caduto, perché sia fotografato prima dell’arrivo dei soccorsi, sono atti inseriti nel contesto di quella guerra silenziosa, ma non meno criminosa, che le multinazionali stanno combattendo tra loro in tutto il mondo. A colpi di notizie scandalistiche sui giornali, di annunci perentori in TV, le battaglie si svolgono sullo scacchiere dell’economia globale e dei mercati planetari, mentre i diagrammi in ascesa o in discesa della borsa sono i nuovi bollettini di guerra che segnalano le vittorie e le sconfitte. Mai come nel nostro tempo si è capito che la comunicazione è un’arma più potente della bomba che ha distrutto Hiroshima. Tommaso Moro ne ha fatta di strada dopo aver abbandonato il suo centro sociale! I potenti della terra lo stimano, e un po’ lo temono, perché ammirano in lui il grande specialista della truffa e della menzogna e lo apprezzano per la sua assenza totale di scrupoli. Ma un amico di Tommaso, Giulio, che militava con lui ai tempi del centro sociale e che Tommaso ha persuaso a seguirlo sul lastrico dell’inferno, è rimasto sempre a metà strada: convinto, ma non del tutto convertito. Con il passare del tempo i dubbi gli crescono dentro e comincia a remare contro, dapprima nascostamente, poi in maniera sempre più palese, trasformandosi nella cattiva coscienza del suo amico. A un certo punto Tommaso viene reclutato per compiere l’ultima nefandezza: distruggere un gruppo di giovani che si sono dati alla macchia e che vivono nei boschi rifiutando la società dei consumi, comportandosi un po’ come Robin Hood e gli allegri compagni della foresta di Sherwood. Questi giovani, avanguardia di una società futura, formano già delle comunità in diverse parti dell’Europa e nel nostro caso hanno deciso di contrastare la messa in opera di un’autostrada che sventra i monti e uccide gli alberi. Compito di Tommaso è quello di “criminalizzarli” e di giustificare così un durissimo intervento della polizia. Tommaso, Giulio e una ragazza, che nel frattempo si è legata sentimentalmente al “capo”, si infiltrano nel gruppo di questi ecologisti militanti, fingendo di essere dei loro, per provocare qualche incidente funesto che li metta in cattiva luce e chiami sul posto le forze dell’ordine. Però il contatto con questi idealisti, che sono per Tommaso l’immagine di quello che lui era stato, e la visita di un vecchio amico di suo padre morto, che gli comunica come la truffa del logo sull’ala di quell’aeroplano caduto si sia risolta al meglio, favorendo una miglior manutenzione dei velivoli di linea, producono in Tommaso una lenta, ma irreversibile rinascita morale. Esperto di inganni, decide di ingannare gli ingannatori: ma il patto con il diavolo non ammette ripensamenti. Preso, legato, consegnato ai carnefici, finirà per saltare in aria con loro, dopo aver salutato, in uno specchio del cesso della sua prigione, l’immagine del padre, risalita dalle profondità dei suoi mondi. Però una cruciale registrazione è finita nei rifiuti, sotto la finestra di quella cella della morte, e qualcuno la troverà. Perché il diavolo, come si dice, fa le pentole ma non i coperchi. Una storia dunque che finisce bene nel momento in cui sembra finire male.

Davide Celli si è diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Bologna nel 1986. Dal 1981 al 1985 ha lavorato come vignettista per il settimanale di Cesena Il Corriere di Romagna. Come attore ha partecipato a numerosi film di Pupi Avati e come regista ha realizzato numerosi documentari per enti e aziende private. Ha lavorato anche come disegnatore di cartoni animati per varie trasmissioni televisive e attualmente vive e lavora a Bologna come grafico e illustratore.

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COME INVIARE I VOSTRI PROGETTI Potete inviare progetti per film di corto e lungometraggio, per il cinema e la televisione, documentari, programmi interattivi, in forma di racconti o trattamenti (minimo 6, massimo 30 pagg.), accompagnati necessariamente, previa esclusione, da sinossi, nota di intenti e curriculum dell’autore. Se disponibile, può essere inviata anche la sceneggiatura. Il dossier di progetto deve essere accompagnato dalla scheda di partecipazione e dalla liberatoria firmata, pubblicate sul sito www.affabula.it, alla pagina www.affabula.it/ scheda.htm Il progetto va inviato preferibilmente via e-mail a info@affabula.it o per posta raccomandata a: Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza Carignano 8 - 10123 Torino Se il progetto viene inviato per e-mail, la liberatoria firmata può essere spedita via fax al numero 011 531 490 Per ulteriori informazioni: info@affabula.it tel. 011 532 463

storie per lo schermo

un progetto editoriale di Affabula Readings programma dell’Associazione F.E.R.T. realizzato con il contributo di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali Compagnia di San Paolo Torino Regione Piemonte - Assessorato Cultura Città di Torino - Divisione Servizi Culturali

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