Plot magazine 3

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anno II/numerotre/settembre 2004/euro 5,oo

ISSN 1723-5057

storie per lo schermo



storie per lo schermo Rivista quadrimestrale - anno II/numerotre/settembre 2004 Registrazione Tribunale di Torino N°5716 del 21 luglio 2003 Direttore responsabile Alberto Barbera Redazione Andrea Bisoli Stefano Boccardo Elena Bona Daniela Camisassi Biagio Cappiello Roberta Di Maggio Anna Gasco Helen Jardine Tiziana Ripani Massimiliano Sacchetti Marcella Ubezio

SOMMARIO Editoriale a cura della Redazione

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Segreteria di redazione Tiziana Ripani

RACCONTI TRATTAMENTI

L’uomo che vendeva soldati di Gianfranco Martana

Responsabile Affabula Readings Stefano Boccardo Progetto grafico Antonino Varsallona Visualizer Claudia Amerio Andrea Bisoli Laura Campagnolo Stefania Gallo Andrea Riccadonna Copertina Antonino Varsallona

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Trenta giorni di Maria Daniela Raineri

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Anche il grano cambia colore di Fernanda Moneta

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Il fungo di metallo di Andrea Griseri

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SOGGETTI

Ufficio stampa e promozione Marta Franceschetti Redazione e amministrazione Associazione F.E.R.T. programma Affabula Readings Piazza San Carlo, 161 - 10123 Torino Tel. +39 011 532 463 Fax +39 011 531 490 E-mail: info@affabula.it www.affabula.it www.fert.org

Fin de siècle di Ivan Carozzi e Andrea Valentini

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La tela del ragno di Giulio Marlia

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SCENEGGIATURE

Editore Fert Rights srl Corso Peschiera 148 - 10138 Torino Stampa Arti Grafiche Giacone sas Viale Fasano 14 - 10023 Chieri (TO) Distribuzione in libreria DIEST distribuzione Via Cavalcanti 11 - 10132 Torino Tel./Fax 011 898 1164 Un particolare ringraziamento a Mauro Sassi per l’idea iniziale della rivista.

©Associazione

F.E.R.T. 2004 Tutti i diritti di riproduzione dei materiali contenuti nella rivista sono riservati.

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Lacero di Elena Bona

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Parabola di Piergiorgio Curzi

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Cari produttori, autori, lettori...

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Rifrequentando Jung e i suoi archetipi, tanto utili al nostro lavoro di story editor, ci siamo imbattuti nelle sue riflessioni sull’alchimia, la quale oltre ad essere stata, come tutti sanno, l’antesignana della chimica, comprese anche lo studio dei processi di immaginazione relativi alla trasformazione dei metalli vili in metalli preziosi. Tre i mondi descritti: il mondo nero, dove non esiste ancora nessuna immagine, il mondo bianco, regno della luce proiettata, e il mondo rosso, il mondo a colori delle immagini. Secondo l’alchimia la nigredo è la fase iniziale di ogni processo in cui avviene una trasformazione. Oltrepassata la soglia della nigredo - oscuro mondo sotterraneo, luogo sommerso del caos e dell’ombra, del buio e dell’irrazionale - si entra nel regno ambiguo e mutevole dell’albedo, mondo di echi, di rispecchiamenti, di immagini riflesse, luogo dei linguaggi figurativi della pura immaginazione. L’albedo è un mondo di poeti, ladri, pazzi, un regno intermedio tra la notte fonda e la brillante, chiara luce diurna, un mondo medianico dove una cosa può anche essere un’altra, dove si è trascinati da un dubbio all’altro e si conduce un’esistenza incerta e ambigua. È questo il mondo ricco e provvisorio che ci sembra di abitare quando attraverso PLOT entriamo nel laboratorio degli scrittori. Insieme alle loro pagine gli autori ci offrono l’occasione di seguire passo passo l’evoluzione, spesso faticosa e contraddittoria, di storie, personaggi, trame; abbiamo l’opportunità di confrontare intenti ed esiti e qualche volta riusciamo anche a dare un’impronta forte a questo cammino. C’è chi ha in mente un’idea, la coltiva piano piano nel tempo e la costruisce pezzo dopo pezzo nella sua mente per poi scrivere direttamente la sceneggiatura, senza passare per il trattamento e la scaletta, a dispetto di quanto suggeriscono i manuali. E poi, se ha bisogno di venti pagine che raccontino la storia, si ispira alla sceneggiatura e ne trae una novella, adottando magari un punto di vista inedito; proprio nel corso di questo processo, ecco che scopre nuovi scorci che lo porteranno a tornare alla sceneggiatura per arricchirla di ulteriori luci ed ombre. Tante idee di cinema, tante storie, tante maniere di raccontare, che affrontano in modi diversi quel processo, il più delle volte tortuoso, che dall’idea conduce alla sceneggiatura, per approdare infine al film. E noi, anche se ammiriamo la limpida scrittura di Antonioni, non possiamo dimenticare i foglietti accartocciati nelle tasche di Rossellini. I percorsi sono tanti e diversi quanto lo sono le personalità di chi scrive. Rispettarne la singolarità significa riconoscerne la ricchezza. Quando lavoriamo con gli autori, il nostro obiettivo è quello di far interagire la loro visione poetica - che romanticamente pensiamo libera, o meglio, obbediente alla sola ispirazione - con le ferree regole della drammaturgia, senza dimenticare che in realtà questi due poli non esprimono una contraddizione, ma raccontano solo il lungo viaggio di una materia che cerca la sua propria forma. A volte decidiamo di pubblicare storie le cui potenzialità non sono state ancora del tutto sfruttate. Ce ne rendiamo conto, ma sappiamo anche che per svilupparle davvero sarebbe necessario l’intervento di un produttore, intenzionato ad investire insieme a noi su quello che ormai da tutti è riconosciuto come un momento centrale, imprescindibile, del fare cinema. Intanto ci piace immaginare PLOT come il recipiente ermetico in cui avviene la trasformazione, il cambiamento della forma, la fase in cui la materia si prepara ad accedere al regno della rubedo, mondo della coscienza aurea guidata dalla luce del sole, sotto il quale ogni immagine è chiara e distinta. La Redazione

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RACCONTI

TRATTAMENTI

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L’UOMO CHE VENDEVA SOLDATI di Gianfranco Martana PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMA STORICO-SOCIALE

Un tema, la mercificazione dell’uomo, forte e di grande attualità; un contesto storico abilmente tratteggiato, la Francia di metà Ottocento, solo apparentemente lontana; dei protagonisti, uomini comuni nei quali ci si può facilmente identificare; passioni e sentimenti universali, mossi e provocati da necessità contingenti. Questi sono gli ingredienti che Gianfranco Martana amalgama sapientemente con amore e pietà umana per i personaggi e che completa con un pizzico di sadismo e quel tanto che basta di morale.

Quando ebbi notizia dell’esistenza della figura (perfettamente legalizzata nella Francia dell’Ottocento) dell’agent de remplacement, rimasi fortemente colpito. Mi stupiva una tale spudorata mercificazione della vita umana nel cuore dell’Europa moderna, e mi appassionava l’idea di raccontare un mondo popolare ai margini della Storia, dove i grandi eventi e le grandi figure politiche e culturali fossero solo degli echi lontani, degli effetti senza cause apparenti. Un mondo fatto di fatica, di strade sporche, di abiti lisi, di lotta per la sopravvivenza. A poco a poco cominciò a prendere forma la figura di Philippe, un mercante ambulante che, in seguito ad avvenimenti da definire, sarebbe passato dalla compravendita di stoffe, stampe e varia chincaglieria a quella di esseri umani, o meglio, di quella particolare varietà che va sotto il nome di “soldati”. M’incuriosiva l’idea che quest’uomo - in seguito all’incarico ricevuto dal giovane Julien di trovargli un rimpiazzante - dovesse sconvolgere i suoi tradizionali itinerari commerciali, cominciando una specie di “discesa agli inferi” verso quegli ambienti sociali per i quali perfino la miserabile prospettiva di un impiego rischioso e sottopagato nell’esercito poteva essere vista con qualche favore. Un uomo che doveva desiderare a tal punto abbandonare la sua vita errabonda - in favore di una più “stanziale” e comoda - da non esitare a tradire un’amicizia per riuscirvi. Quanto a Julien, l’unica vittima ad avere salva la vita, mi avvidi presto che la sua vendetta si sarebbe potuta compiere, a distanza di anni, con una semplice dichiarazione di esistenza, con la forza dirompente e scandalosa dell’io-sono-ancora-qui, tanto che le minacce, sacrosante e terribili, che pure egli pronuncerà contro Philippe, finiranno per suonare quasi superflue, come uno stanco omaggio alle convenzioni melodrammatiche. Gianfranco Martana

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Derrière chaque grande fortune se cache un grand crime. Honoré de Balzac Prologo - Avignone, agosto 1844. Un robusto rimpiazzante di nome Bruno Chatelin sta sostenendo la visita davanti al Consiglio di reclutamento, in un antico palazzo cadente, temporaneamente adibito allo scopo. Il ventenne Georges d’Alambert, in evidente stato di tensione, osserva la scena dall’altro lato del vasto stanzone, insieme a un servo. Intorno a loro, una vasta folla di altri coscritti, rimpiazzanti, familiari e curiosi attendono il loro turno. Il tenente Beaudry, membro del Consiglio, si aggira dietro ai suoi colleghi, e di tanto in tanto lancia uno sguardo inquieto e sospettoso verso Georges, che ha verso di lui un atteggiamento del tutto simile. Chatelin è in piedi, vestito soltanto delle sue mutande, mentre un ufficiale medico esegue la visita palpandolo e girandogli intorno vezzosamente, con la cinica consapevolezza del suo potere: “Segretario, scrivete: statura media, conformazione generale robusta e simmetrica... cranio regolare, capigliatura folta e sana...” Proseguendo la visita, il medico chiede a Chatelin di alzare le braccia, ma non ottiene risposta. Alzando la voce, ripete l’ordine: “Vi ho chiesto di alzare le braccia. Siete sordo?” Chatelin gli risponde con un filo di voce, tenendo gli occhi bassi: “Sì, signore. Non sento bene. Non mandatemi a fare il soldato, non sarei molto utile alla Patria!” Quest’ultima frase scatena l’ilarità del Consiglio. Ma Chatelin rilancia: anni addietro, dice, ha ricevuto una bastonata sullo stomaco che non ha lasciato segni visibili, ma che gli causa forti dolori ricorrenti. Georges comprende che qualcosa non sta andando per il verso giusto, e teme il peggio. A un cenno d’intesa di Beaudry con il presidente del Consiglio, quest’ultimo afferma che non ha intenzione di perdere tempo con un tale idiota, lo dichiara inabile, e impone che il signor d’Alambert si sottoponga alla visita al suo posto. Georges si avventa contro il tenente con un’espressione folle e parole infuocate: “Tu vuoi la mia rovina, vuoi rubarmi Isabelle!” Due militari lo bloccano e lo portano verso il medico, mentre il tenente, con un gelido sorriso, gira sui tacchi e si allontana. Georges, nonostante le urla e i tentativi di divincolarsi, viene spogliato per la visita. In una stanzetta appartata, Beaudry consegna a Chatelin un sacchetto gonfio di monete: “Naturalmente non dovrai dire una parola, o saranno guai... Hai capito quello che ho detto?” Chatelin risponde con un ghigno: “Certo, signor tenente. Non sono mica sordo!” “Meglio così, altrimenti le bastonate le prenderai sul serio, e i segni si vedranno eccome!” Chatelin s’inchina e si allontana velocemente col suo bottino. Bagnols, luglio 1845. Alla guida del suo carretto, trascinato da un ronzino malandato, arriva in paese Philippe Oriol. Bagnols, nel cantone con capoluogo Orange, nella Francia del Sud, è il suo luogo natale, dove ancora vive sua madre. Philippe è un modesto ambulante sui quarantacinque anni, che percorre il cantone in lungo e in largo per smerciare le ultime piccole novità del mondo moderno e oggetti di varia utilità: almanacchi, stampe, semi, stoffe, ecc... Di statura media, leggermente pingue e con pochi capelli, egli ripone tutta la sua vanità in un paio di maestosi favoriti. Il suo aspetto scaltro da simpatica canaglia sembra essersi forgiato negli anni sulle esigenze del suo lavoro. La sua casa è isolata, ai margini del paese, quasi a indicare plasticamente la sua condizione di uomo sradicato, sempre pronto a partire, a lasciare gli amici e gli affetti. La mattina seguente il suo arrivo, Philippe s’informa con la madre sugli ultimi eventi del paese, e scopre così che quello è il giorno dell’estrazione a sorte dei coscritti. Tenendo bene a mente questa preziosa informazione, Philippe arriva in piazza a bordo del suo carretto, espone in bella vista le sue merci, e comincia la solita litania: “Ascoltatemi bene: Philippe Oriol, fornitore ufficiale degli sguatteri di Casa Reale, ha come sempre qualcosa per voi, e soprattutto per i vostri figli...” Scavando fra varie cianfrusaglie, tira fuori un’ampollina che sottopone gravemente all’attenzione dei presenti: “Osservate, e non temete:

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non è la solita mistura di acqua e zucchero spacciata per miracolosa da qualche ciarlatano, ma una sostanza dall’efficacia provata: una sostanza che, versata su un braccio o su una gamba del vostro pargoletto, gli provocherà una piaga spaventosa.” I volti dei presenti, all’unisono, si contraggono per il disgusto, come se una goccia di quella micidiale sostanza vi fosse appena caduta sopra. “Ma non finisce qui!” Con gesti controllati e lievi, che incantano come una danza, Philippe posa l’ampolla e ne prende un’altra. “Sulla ferita, poi, dovete versare questa soluzione di arsenico, in modo che la piaga resti sempre aperta! Questo non mette a rischio la vita dei vostri figli, ma farà sicuramente effetto sul Consiglio di reclutamento, che li spedirà di nuovo a casa a farsi coccolare dalla mamma!” L’orripilante esibizione attira sul mercante il sospetto di una guardia, che interviene accusandolo velatamente di attività antipatriottica. Senza scomporsi, Philippe si apparta con la guardia per rassicurarla: era solo una buffonata per attirare l’attenzione. “Fra un po’,” conclude, “le donne si avvicineranno al carretto per comprare bottoni e nastri alla moda, altro che acidi e altri intrugli!” Soddisfatte abilmente l’autorità e la clientela, l’astuto mercante va a fare acquisti alla bottega dello stampatore Georges Rocard, dove lavora il giovane Julien Perreau. Philippe fa irruzione con la sua solita giovialità, ma Julien, che è al lavoro su una litografia, non è affatto di buon umore. Interrogato sul motivo di quel muso lungo, Julien risponde con un mesto sorriso: “Ho compiuto vent’anni il mese scorso...” Philippe coglie immediatamente il senso di quella frase, ma fa finta di nulla: “Porca miseria, Julien! Vuoi farmi crepare d’invidia?” Stavolta il ragazzo sorride di gusto e va ad abbracciare l’amico. Dalla strada, intanto, trapela la notizia che il sindaco, che ha partecipato a Orange alle annuali estrazioni a sorte, è ormai alle porte del paese. Famiglie intere cominciano a sciamare verso la sua casa, dove si ripeterà lo stesso angoscioso appello di ogni anno. Julien ottiene dal signor Rocard il permesso di assentarsi per qualche minuto. Preceduto da due collaboratori, il sindaco esce in strada, davanti alla folla. In mano tiene un foglio di carta arrotolato che in questo momento è l’oggetto più importante in tutto il paese. Tutti, almeno per un attimo, fissano quel foglio, in un estremo delirio propiziatorio, mentre il brusio della folla va spegnendosi rapidamente. Il sindaco si schiarisce la voce e dà uno sguardo al foglio; poi, tirato un sospiro fin troppo rumoroso, dà inizio al suo discorso: “Cari amici e concittadini, come sapete, sono appena tornato da Orange. Lì ho estratto i numeri per ciascuno dei nostri ragazzi, e adesso ve li leggerò. Vi ricordo che quest’anno al nostro cantone sono richiesti centoquindici soldati. Chi ha avuto un numero da uno a centoquindici dovrà certamente presentarsi davanti al Consiglio di reclutamento, che si riunirà ad Avignone fra trenta giorni. Per gli altri, più alto è il numero, maggiore è la certezza che non saranno chiamati. Un’ultima cosa: chi ha avuto un buon numero, non deve ringraziarmi, e spero che chi ne ha avuto uno cattivo non me ne voglia. Dunque, procediamo... Abbeville, duecentodue.” A mano a mano che il sindaco legge i nomi e i rispettivi numeri, urla di gioia o di dolore si levano dalla folla: “Pelleret, trecentosedici. Perreau, ventuno. Sarnette, quattrocentosessantaquattro.” Gli scampati si muovono nella folla in cerca l’uno dell’altro per scambiarsi felicità. Julien, invece, come meditando sulle parole che ha appena ascoltato, rivolge lo sguardo verso terra e sembra annuire, le labbra contratte. Una ragazza lo osserva da poco lontano: ha sedici anni, e si chiama Thérèse. Anche Philippe lo osserva, con sollecitudine paterna, per coglierne ogni minima reazione; ma Julien ostenta una calma perfino imbarazzante, tanto essa stride con la gravità di quanto è appena accaduto. Mentre i due amici tornano verso la bottega, Philippe cerca di vedere il lato buono della faccenda: finalmente Julien potrà andarsene da quel paesucolo, girare un po’ la Francia per cinque sei anni, e magari andare anche all’estero! Se lui, Philippe, si considera un uomo di mondo per il fatto di conoscere ogni filo d’erba del cantone, nel giro di qualche anno il suo giovane amico lo farà sentire uno sciocco provincialotto... Ma Julien afferma di non avere nessuna intenzione di partire e supplica Philippe di aiutarlo a trovare un rimpiazzante. A chi potrebbe rivolgersi se non a un vecchio amico di famiglia come lui? E poi, grazie al suo lavoro, lui conosce tutte le famiglie dei dintorni, e potrebbe agilmente rendergli questo servizio.

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Il grosso problema è che non è abbastanza ricco: potrebbe investire al massimo seicento franchi, circa la metà rispetto ai correnti prezzi di mercato. È un motivo in più per affidarsi a lui, che sa convincere le persone meglio di chiunque altro, e in cambio riceverebbe un compenso di cento franchi. Il mercante, viste la difficoltà dell’impresa e la cifra risibile che gli viene offerta, è piuttosto incerto se accettare l’incarico. Ma Julien gli espone un argomento di fronte al quale è difficile restare insensibili: minaccia il suicidio se dovesse essere costretto a partire per il servizio militare. Rinunciare al suo lavoro e a Thérèse, la ragazza che ama, sarebbe per lui come rinunciare alla vita stessa. Philippe, a quel punto, non può che promettere il suo aiuto. Julien lo ringrazia, e gli regala, di nascosto dal padrone, alcune stampe di soggetto militare, piene di uniformi luccicanti e bandiere al vento: “Tieni, queste falle vedere a tutti i possibili rimpiazzanti: magari gli faranno venire la voglia di fare il soldato!” Infine, gli consegna una busta contenente alcuni documenti: “Qui ci sono quelle lettere di credito che mi avevi chiesto: due banche e quei grossisti che mi hai indicato tu... Guarda l’intestazione e i timbri: non sono uguali a quelli veri?” Philippe lo abbraccia con gratitudine, e commenta sghignazzando: “Meno male che ci sei tu! Se no quelle iene dei miei fornitori non sarebbero così generosi con il buon Philippe Oriol...” Durante un pranzo con la madre, Philippe le racconta la vicenda di Julien. Appena nomina Thérèse, la madre sbotta: “Ah, Thérèse Charenton! Te la raccomando, quella! La conosco bene: ha solo sedici anni ma è già una puttanella! Non l’ho mica vista soltanto con Julien, quella...” Philippe non sa se ridere o restarci male. Seduto su una panca che corre lungo il muro anteriore della casa, Philippe sta misurando un lungo bastone. In un punto preciso fa un piccolo intaglio col coltello, sistema il bastone su un ceppo, e con l’accetta lo trancia di netto. Sua madre, dall’uscio, gli chiede cosa stia facendo. Philippe va verso di lei e le sistema il bastone accanto, tenendolo in verticale. Il bastone sopravanza l’anziana donna di un paio di centimetri. Philippe commenta divertito: “Cara mamma, mi dispiace, ma tu non potresti mai fare il soldato: non arrivi al metro e cinquantasette!” Ma la madre è un osso duro, e gli risponde da par suo: “Figlio mio, stai sicuro che se lo volevo fare ci arrivavo eccome!” Dopo qualche giorno di riposo ricomincia il viaggio di Philippe, che si dirige col suo carretto e il suo ronzino verso i paesini più sperduti. Questa volta, però, il suo obiettivo non è solo quello di vendere, ma anche di “comprare”. Il primo tentativo lo fa con il signor Boileau. Lo rintraccia nella vigna, dov’è al lavoro con il figlio, e si presenta con un affabile sorriso, mentre si accosta al figlio col bastone eretto, per verificarne l’altezza senza averne l’aria: “Buongiorno, signor Boileau! Vi ricordate di me? Ci siamo visti l’inverno scorso... Vostra moglie ha comprato da me delle bellissime stoffe. Hanno fatto poi una buona riuscita?” Il signor Boileau lo squadra con severità, poi indica qualcosa con la mano: “Vedete quello spaventapasseri in quel campo laggiù? L’abbiamo vestito con la vostra stoffa...” Philippe comprende che la sua credibilità presso il signor Boileau è piuttosto scarsa e che non è il caso di proporgli un nuovo affare: “Bene... ero passato solo per salutarvi... A presto, allora!” e se ne va, tenendo il bastone a mo’ di pastorale. Il giovane Boileau commenta divertito col padre: “Ma dove va con quel bastone? L’hanno fatto vescovo?” Senza perdersi d’animo, Philippe ci prova ora con i Baudrillard, che hanno un figlio docile e robusto. Philippe trova il ragazzo sul tetto della piccola casa, intento a una riparazione, e gli chiede se non gli piacerebbe fare il soldato. Jean-Pierre (questo è il suo nome) scrolla le spalle: “Io me ne andrei pure, tanto che ci faccio qua, ma dovete chiedere a mio padre...” Mentre Philippe s’inoltra nei campi, dove i genitori di Jean-Pierre sono impegnati nel raccolto, da una chiesa lontana una campana annuncia l’Angelus. I due contadini, come a un segnale convenuto, abbandonano immediatamente i loro attrezzi e si raccolgono in preghiera. Philippe, che li ha quasi raggiunti, non osa disturbarli. Non sapendo che fare, si toglie il cappello e bisbiglia anche lui una preghiera. Dopo qualche istante, marito e moglie recuperano gli attrezzi e si accingono a riprendere il lavoro. Solo ora si accorgono della presenza di Philippe, che approfitta di quegli sguardi interrogativi per avvicinarsi

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frettolosamente ed esporre la sua proposta: seicento franchi in contanti perché Jean-Pierre rimpiazzi alla leva il signor Perreau. Il signor Baudrillard mostra un certo interesse almeno fino a quando non si chiarisce che la somma verrebbe liquidata solo dopo un anno. Il motivo? Beh, perché se un rimpiazzante diserta nel primo anno di servizio, il coscritto è ritenuto responsabile e gli tocca partire comunque! A quel punto il signor Baudrillard affonda bene la zappa nel terreno e comincia un lucidissimo monologo: “Caro signore, i seicento franchi che mi offrite sono già una miseria, ma certo se me li date subito potrei riscattare un po’ di questa terra che adesso coltivo a mezzadria, e quindi forse mi rimarrebbero un po’ di ortaggi e frutta da vendere al mercato, e forse col tempo riuscirei ad avere una piccola rendita stabile, e al suo ritorno mio figlio troverebbe un pezzetto di terra sua da coltivare, e io e mia moglie potremmo anche ritirarci un po’, e quindi l’affare si potrebbe anche fare... Ma se questi soldi arrivano fra un anno, intanto avrò perso l’aiuto di mio figlio, non potremmo sostituirlo con nessuno, e sicuramente moriremmo di fame. E non penso che il vostro amico verrebbe fin qui per sfamarci.” Philippe è affascinato da quel fiume di parole, e le accoglie come il saggio magistrale di un collega più abile di lui. Appena riesce a scuotersi, si ritira cerimoniosamente e dignitosamente, con un leggero inchino: “Come non detto. Scusate il disturbo.” Tornato sulla strada, Philippe incrocia un carrettiere diretto a Bagnols, al quale lascia un messaggio da recapitare a Julien, ricompensando la cortesia con un oggettino di infimo valore. Nel corso del viaggio, il carretto di Philippe finisce con una ruota in un fosso. Philippe prova a tirare il cavallo per la briglia, ma non riesce a smuovere il carretto. In preda a una furia cieca, afferra il bastone da un metro e cinquantasette e lo usa come leva. I suoi sforzi si fanno sempre più convulsi, finché il bastone non si spezza di netto. Philippe rincula, cadendo per terra: in mano stringe ancora saldamente una metà del bastone. Quella situazione deve sembrargli particolarmente comica, perché comincia a ridere nervosamente rotolandosi nella polvere. Esaurita la crisi di ilarità, capisce che non c’è altro da fare: bisogna svuotare il carretto di tutto il suo contenuto per alleggerirlo. Quando ormai ha terminato la sua fatica, Philippe vede arrivare un drappello di soldati in marcia, e li saluta rispettosamente. Il caporale che guida il gruppetto si rende conto della situazione e si offre di aiutarlo. Mentre alcuni soldati si danno da fare per liberare il carretto, il caporale ne approfitta per dare un’occhiata alle mercanzie sparse sulla strada. Con affettata cordialità e sincera preoccupazione, Philippe lo guida attraverso la solita quantità di cianfrusaglie e oggetti di più o meno scarso valore. Un soldato si avvicina al caporale per consegnargli delle stampe, con l’aria trionfante di chi abbia appena scoperto un corpo del reato. Il caporale le osserva con attenzione: “Bene, signor Oriol... Vedo che avete delle preziose stampe di Napoleone a cavallo. Voi sapete che il prefetto non vuole saperne di veder circolare immagini dell’imperatore, soprattutto se a cavallo...” Evidentemente, il caporale ha voglia di giocare un po’ al gatto col topo, o forse ha qualche altra segreta intenzione. Philippe biascica qualche giustificazione, mentre il caporale sembra aver adocchiato qualcos’altro: “È di seta questo nastro verde? A quanto lo vendete?” A Philippe non pare vero di aver trovato una comoda via d’uscita: “Caporale, siete stato così gentile ad aiutarmi, vi pare che potrei farvelo pagare? Prendetelo, è un regalo da parte mia per vostra moglie.” Mentre s’infila il nastro in una tasca della giacca, il caporale risponde in tono complice: “Magari non sarà mia moglie, ma qualcuno vi sarà certamente grato di questo dono...” Sul volto deferente di Philippe il sollievo scaccia rapidamente la preoccupazione. Poco lontano, un soldato ha pensato bene di portarsi via di nascosto un altro souvenir: un paio di stampe pornografiche che finiscono rapidamente nell’interno della sua giacca. A Bagnols, Julien legge a Thérèse il messaggio di Philippe: “Primi tentativi non molto positivi, ma abbiamo ancora tre settimane, la strada è lunga, e non mancano i pazzi e i disperati!” L’ottimismo del mercante contagia Julien: “Vedrai! Vedrai che andrà tutto bene, e finalmente potremo stare sempre insieme.” Thérèse lo guarda con aria dolcemente stupita, mentre lui riprende a farle un ritratto a carboncino. Non che non gli creda, né sa granché delle questioni della leva; no, la sua aria stupita sembra voler comunicare un’unica, semplice domanda: “Cosa c’entro io in tutto questo?” E

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quando un ragazzo la saluta da lontano, Thérèse ricambia sbracciandosi, lasciando Julien piuttosto interdetto... Nel frattempo Philippe è giunto a Orange dove ha molte cose da fare: innanzitutto, va a trovare la sua fidanzata, la trentenne Justine, che lavora in una piccola sartoria. Dopo averle regalato un bel pettine di osso lavorato, fantastica con lei di un prossimo matrimonio, al quale la donna non crede quasi più. La sera, Philippe s’incontra in una taverna con l’amico André Bréaud, vecchio compagno di scorribande commerciali sempre ai limiti della truffa. Fra una rievocazione e l’altra dei loro trascorsi, André, che lavora per un’agenzia di rimpiazzanti, gli parla di quel mestiere come dell’affare del momento: “Credimi, è un settore in piena espansione, e ci puoi trovare il lavoro che ti è più congeniale: andare in cerca di rimpiazzanti, occuparti della selezione, gestire il mutuo soccorso contro l’estrazione...” Quando Justine li raggiunge, André va via, lasciandoli soli. Philippe torna a parlarle di matrimonio, di un nuovo lavoro stabile, di una casa da prendere in città; e per dimostrarle che stavolta fa sul serio, al cospetto di improvvisati testimoni le consegna ufficialmente il suo pegno di matrimonio: una grande, lucente pera tirata fuori da un cesto lì per lì. Justine quasi si offende, ma uno dei ragazzi la rincuora maliziosamente: “Signorina, non lamentatevi del pegno che vi ha offerto il vostro fidanzato: certo non è prezioso, ma almeno è onesto! Conosco un tipo che s’infilò di notte nella stanza della sua bella e le disse: amore, ti affido con il mio corpo la promessa che ti avrò in sposa e, siccome lei esitava a concedersi, aggiunse: affinché tu non tema che io t’inganni, metto la mia lingua nella tua bocca come pegno di matrimonio.” Conquistata dall’atmosfera di buonumore, Justine accetta finalmente il dono e la promessa che contiene: il suo sguardo esprime una commovente fiducia nei sentimenti di quell’uomo dall’apparenza cialtronesca. Sull’onda dell’entusiasmo, Philippe chiede al ragazzo che ha parlato se non gli piacerebbe fare il rimpiazzante. Il giovane scoppia in una fragorosa risata: “Scusate se rido, ma... Io avrò vent’anni l’anno prossimo... Il vostro amico, quello che era con voi poco fa... mio padre lo conosce bene: gli ha già pagato una somma per assicurarmi contro l’estrazione a sorte!” La mattina seguente Philippe saluta Justine, promettendole che sarebbe tornato presto, e riprende la sua ricerca. Ma le cose non sono affatto semplici: in un caso, quando l’accordo sembra ormai concluso, il ragazzo ha un attacco di tosse. Avendo qualche cognizione di medicina, sviluppata attraverso la sua attività di ciarlatano, Philippe improvvisa una visita, e il sospetto di tubercolosi lo fa desistere dal perfezionare l’accordo. In un altro caso, un giovane resiste alle pressioni dei suoi genitori affinché parta: vuole restare nella sua terra, e poi sa che i rimpiazzanti sono chiamati “prostitute” dai loro commilitoni. In un altro ancora, l’altezza del ragazzo è inferiore a quella del bastone, che Philippe ha riparato alla meglio... Percorrendo l’ennesima stradina di campagna, Philippe incappa in un disertore esagitato: apparso improvvisamente da un boschetto ai lati della strada, questi blocca il carretto e, minacciando Philippe con un lungo coltello puntato alla gola, gli intima di dargli dei vestiti. Philippe gli offre una camicia e un paio di pantaloni. Il soldato glieli strappa di mano con un ghigno insolente e comincia a cambiarsi: “Non maledirmi troppo, mercante! Ero in credito con te, visto che sono uno di quelli che ti ha aiutato a uscire dal fosso...” In effetti, è proprio il soldato che si era infilato le stampe pornografiche nella giacca. Ora Philippe si sente un po’ più sicuro, come se avesse appena ricevuto un attestato di amicizia. “Ah, bene... grazie...” Finalmente il soldato scappa via di gran carriera per i campi, dopo aver indossato gli agognati abiti civili. Sbigottito da questa disavventura, Philippe si accerta di non essere ferito, e piano piano si riprende dallo spavento. Con calma, scende dal carretto e va a carezzare sul muso il suo ronzino: “Non preoccuparti, va tutto bene... Proprio un bel tipo, quel soldato... Ero in credito con te, ha detto! Come se non avessi visto che si era fatto pagare il disturbo con due stampe da cinque franchi l’una...” Poi va a recuperare l’uniforme abbandonata: nel corso dei suoi tentativi successivi non tralascerà di mostrarla ai candidati, contando sul fatto che essa possa esercitare un qualche fascino sui giovani campagnoli. Egli tacerà, ovviamente, sul fatto che è appartenuta a un disertore.

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A Bagnols, intanto, Julien fa una scoperta molto spiacevole. Una domenica mattina va al fiume in cerca di Thérèse: sa che è lì a fare il bucato. Si accosta alla riva, dove ha notato un gruppetto di donne al lavoro. Ma Thérèse non è lì con loro. Allora Julien va a cercarla nei dintorni, finché non riconosce la sua voce ridente, cristallina. Ma alla sua si sovrappone una giovane voce maschile: “È inutile che scappi, tanto ti prendo!” Julien assiste da lontano: per quanto innocente, quel rincorrersi, attrarsi e respingersi che vede svolgersi davanti ai suoi occhi è inequivocabilmente una scena di reciproca seduzione. Fa un passo avanti, poi un altro, poi si ferma, con gli occhi sbarrati, stralunati. Infine si volta, e si allontana lentamente senza più tentennamenti. Tornato in paese, sale in tutta fretta su una vettura di posta per andare in cerca di Philippe. Sorgues, agosto 1845. Philippe arriva in paese con un cartello affisso sul carretto, che recita: “CERCASI SI OFFRONO SEICENTO FRANCHI”. Un uomo si avvicina e gli suggerisce di provare con i Boivin, la famiglia di un ex-minatore, che da alcuni anni ha perso il lavoro e ora vive di stenti. Uno dei suoi cinque figli, Antoine, ha un’ottima fibra, anche se il suo carattere è piuttosto turbolento. Philippe ringrazia e si avvia verso la catapecchia dei Boivin, che si trova poco fuori del paese, sulla strada per la montagna. L’uomo commenta con un amico che, se Dio vuole, stanno per liberarsi di quella piaga di Antoine Boivin. A casa Boivin, al cospetto dei genitori (il padre è a letto, gravemente malato) e dei fratelli, Philippe dà libero sfogo al suo talento istrionico: consegna ad Antoine il suo bastone fingendo che sia una sciabola, poi prende dalla credenza una grossa ciotola e gliela sistema in testa; infine, gli srotola davanti agli occhi una stampa che raffigura un soldato di fanteria perfettamente bardato e armato, come se gli porgesse uno specchio: “Ecco, guardati!” gli dice euforico. I due fratelli più piccoli sono raggianti, e incitano Antoine ad arruolarsi: per loro si tratta solo di un gioco eccitante. Per una fortunata coincidenza, si sente da lontano il tamburo del bollettino dell’esercito. Philippe, che ha un innato talento nel mettere a frutto le occasioni favorevoli, commenta con i Boivin che presto quei tamburi potrebbero battere i paesi del Vaucluse per magnificare le gesta di Antoine. In breve, la decisione è presa: ora non resta che richiedere al sindaco un certificato di buona condotta per Antoine. L’incontro di Philippe col sindaco si rivela meno agevole del previsto: questi si rifiuta di rilasciare il certificato di buona condotta perché Antoine è stato spesso coinvolto in risse, e più di una volta ha molestato le ragazze del paese. Philippe non demorde: “Va bene... Voglio anche ammettere, per assurdo, che quel Boivin sia un mascalzone. Allora io dico: quale occasione migliore di questa per liberarvene? Il nostro soldatino verrà mandato a presidiare qualche lontano confine, e le fanciulle di Sorgues e dintorni potranno andarsene a messa la domenica in tutta tranquillità! E visto che un soldato è sempre esposto a parecchi rischi, vi potrebbe accadere di rivederlo soltanto per dargli l’estremo saluto. Allora, cosa ne dite?” Il sindaco, però, è irremovibile: non vuole che la Patria possa mai avere motivo di lamentarsi di un figlio di Sorgues. E così Philippe è costretto ad andarsene con le pive nel sacco, quando credeva che ormai il successo fosse a portata di mano. La notizia della presenza di Philippe in paese è arrivata all’orecchio di un giovane latifondista locale, François d’Alambert, che senza tanti complimenti lo fa “accompagnare” da alcuni scherani alla sua signorile ed estesa fattoria. Per darsi un tono in quell’ambiente sfarzoso, Philippe si presenta così: “Philippe Oriol, agente e mercante.” Ben presto si rende conto di non avere nulla da temere: il signor d’Alambert lo fa accomodare con gran cortesia, e lo mette al corrente della sua vicenda: “L’anno scorso mio fratello Georges era coscritto. Aveva trovato un buon rimpiazzante, ma il tenente del Consiglio di reclutamento, un figlio di cagna che voleva sposare una donna destinata a lui, si è messo d’accordo con i suoi colleghi e con quel bastardo del rimpiazzante, e l’hanno fatto riformare. Così mio fratello è dovuto partire soldato. Un mese fa, caro signore, mio fratello si è ucciso, dopo aver saputo del matrimonio del tenente con quella donna che mio fratello amava disperatamente.” François, evidentemente, intende vendicarsi, e quella fortunosa coincidenza gliene dà la possibilità. L’idea

GIOVANE ROBUSTO E ONESTO PER FARE IL RIMPIAZZANTE.

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è presto detta: François prenderà il posto di Antoine, arriverà ad Avignone con Philippe e l’ignaro Julien, ucciderà il tenente e scapperà. Per il delitto sarà incriminato Antoine, al quale non sarà lasciata la possibilità di dimostrare la propria innocenza. Il carattere notoriamente violento del ragazzo renderà ancora più credibile la messinscena. Naturalmente, se Philippe accettasse di aiutarlo a realizzare il suo piano, François saprebbe essere molto riconoscente. Philippe tenta di sottrarsi a questa rischiosa proposta adducendo l’indisponibilità del sindaco, ma François se la ride: dà per scontato che il sindaco, che gli è debitore di molti favori, non potrà rifiutargli questo. Philippe tenta allora un’altra strada: “Signor D’Alambert, capisco il vostro sacrosanto risentimento e il vostro desiderio di vendicarvi di questo crimine, però... non vorrei finire sulla ghigliottina... E poi, io ho una responsabilità nei confronti del mio cliente. Un’azione del genere da parte del suo rimpiazzante, vero o falso che sia, potrebbe esporlo a gravi conseguenze, e nella migliore delle ipotesi lo costringerà comunque a partire soldato, proprio ciò che intende evitare...” François, dopo aver ascoltato pazientemente queste rispettose rimostranze, risponde col tono calmo e fermo di chi è certo del proprio diritto: “Signor Oriol, posso assicurarvi che la vostra partecipazione a questa azione non sarà portata a conoscenza di nessuno, e tutte le eventuali prove saranno accuratamente eliminate... Comprendo benissimo anche i vostri scrupoli, diciamo così, professionali, e non ho difficoltà ad ammettere che essi vi fanno onore, ma vi prego di considerare attentamente questi fatti: innanzitutto, se il vostro amico assolvesse ai suoi obblighi militari, non ci sarebbe nulla di abominevole, visto che così hanno voluto la legge e il caso, anzi, il destino; inoltre, l’atto di giustizia che vi propongo di compiere insieme a me è certamente di un grado superiore rispetto a quello che compireste rispettando il vostro mandato; infine, non so quale compenso vi è stato promesso dal vostro cliente...” Philippe si accorge che François si aspetta una risposta, e gliela fornisce, falsa, con grande prontezza: “Duecento franchi.” Senza scomporsi, François conclude la frase: “Bene. Io posso offrirvi una cifra diciamo dieci volte superiore...” Non sapendo più cosa replicare, Philippe chiede il permesso di congedarsi, promettendo una risposta in tempi brevi. François lo lascia andare, ricordandogli che manca solo una settimana alla riunione del Consiglio, e non c’è tempo da perdere. Philippe è seduto in una locanda che affaccia sulla strada principale. Fuori piove a dirotto, e sono in molti ad entrare in cerca di un riparo. Il suo sguardo angosciato è rivelatore della battaglia interiore che lo sta dilaniando. Per sfuggire ai suoi fantasmi, egli presta orecchio ai discorsi dei suoi vicini di tavolo, due impiegati statali in viaggio per ragioni di servizio. Essi discutono dell’impetuoso sviluppo delle ferrovie, che avrebbero reso i viaggi sempre più comodi, rapidi e soprattutto asciutti. Philippe non resiste alla curiosità e, dopo essersi presentato, chiede umilmente a quelle persone così autorevoli quali siano le prospettive che le ferrovie aprono ai commerci. Gli viene risposto che certamente, nel giro di pochi anni, sarebbero arrivati in provincia dalle grandi città articoli alla moda a prezzi stracciati, rivoluzionando il mestiere del commerciante. Nello sguardo di Philippe si può leggere la preoccupazione per questi progressi, che prima o poi lo avrebbero messo fuori gioco. I due impiegati lo invitano a sedere con loro e a prendere qualcosa da un cesto di frutta che avevano ordinato. Philippe, lusingato, ringrazia, sceglie una pera e, dopo averla lucidata ben bene con un tovagliolo, la addenta. Sembrerebbe quasi che voglia suggellare in questo modo la sua promessa a Justine... Intanto, seguendo ostinatamente le sue tracce, Julien è riuscito a raggiungere Philippe, per chiedergli di interrompere la sua ricerca: Thérèse l’ha deluso ferocemente, e non vuole più vederla; dunque, nulla di meglio che partire e lasciare quel paese che ora comincia a sentire come una prigione. Philippe si trova ora in una situazione molto imbarazzante: deve trovare il modo di far tornare il ragazzo sui suoi passi, senza poter dichiarare il motivo che lo spinge. Con tono paterno, gli fa comprendere l’errore nel quale si sta cacciando: gli comunica che ha già trovato un rimpiazzante, gli descrive la vita militare come un inferno, gli prospetta l’utilità di continuare il lavoro che svolge già con competenza, e da uomo navigato lo assicura che quel dolore che adesso gli sembra insopportabile, fra qualche mese sarà completamente

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scomparso. Dopo un lungo batti e ribatti, Julien si convince, e accoglie il consiglio di tornare al paese dove Philippe lo raggiungerà fra qualche giorno col suo rimpiazzante. Philippe torna da François per comunicare che accetta l’incarico. Vengono messi a punto i dettagli dell’operazione, e Philippe assicura la collaborazione di un suo fidatissimo amico, il signor Bréaud. Ricorda poi a François che dovrà trasformarsi da ricco e viziato possidente a morto di fame: tagliarsi i capelli e indossare abiti laceri e sporchi sono le cose più importanti da fare. Nella sua foga creatrice, Philippe vorrebbe dare anche consigli sull’andatura e sul linguaggio, ma François afferma di non aver bisogno di troppe lezioni, dal momento che lui li conosce fin troppo bene, i morti di fame! Arriva per Philippe il momento più difficile: andare a casa Boivin e portarsi via Antoine. Il ragazzo è pronto: seduto su una sedia, accanto al letto su cui giace addormentato suo padre, sta ripulendo un rametto di legno con un temperino, tanto per passare il tempo e provare a scacciare gl’infelici pensieri che lo percorrono. Ai suoi piedi, un piccolo sacco pronto per il viaggio. Non appena vede il mercante, Antoine si alza in piedi, posa legno e temperino, prende il sacco, e saluta la famiglia in un silenzio quasi assoluto, poco adatto a un momento come quello, che avrebbe richiesto pianti e raccomandazioni a non finire. Infine, prende la mano di suo padre, che dorme un sonno agitato, e gliela tiene stretta per qualche istante. Poi fa un cenno a Philippe, e insieme si avviano al carretto. Li inseguono i due fratelli piccoli: “Torna presto!” urlano ingenuamente ad Antoine, che li abbraccia e li rassicura come può. Dopo poche miglia, in aperta campagna, tre sgherri di François a cavallo si accostano al carretto e sequestrano Antoine con un’azione rapida e precisa. Philippe è preso dal panico: come se fosse all’oscuro di tutto, si mette a urlare e a disperarsi, pregando i rapitori che in nome di Dio lascino il ragazzo, e che se vogliono soldi, glieli darebbe lui, e altri lamenti e preghiere confuse. Due sgherri hanno già trascinato Antoine in un boschetto ai margini della strada, e in un tempo brevissimo l’hanno imbavagliato e gli hanno legato saldamente le mani dietro la schiena. Il terzo, rimasto inizialmente sorpreso e sconcertato dalla reazione imprevista del mercante, pensa bene, prima di andare via, di assestargli un pugno potentissimo, per punirlo di quegli urlacci che lo hanno innervosito. Philippe si scusa, giustificandosi col fatto che non vuole che Antoine lo ritenga loro complice. Lo sgherro lo deride, affermando che la sua complicità sarà immediatamente comunicata ad Antoine, ma aggiunge anche che non ha motivo di preoccuparsi, giacché il ragazzo non potrà lagnarsi con nessuno della sua condotta... Dopo alcuni minuti, durante i quali Philippe è rimasto solo con i suoi rimorsi, François lo raggiunge: ha i capelli rapati quasi a zero, e una perfetta mise da morto di fame. In tasca ha il certificato di buona condotta di Antoine Boivin e gli altri indispensabili documenti. Facendogli notare il labbro insanguinato, François domanda ironicamente a Philippe il motivo di quella ferita. Philippe sospira, senza rispondere nulla, e fa ripartire il suo ronzino. L’incontro a Bagnols fra i tre uomini è carico di sentimenti contrastanti. Julien risponde maldestramente e fiaccamente all’abbraccio dell’amico: la sua attenzione, appena dissimulata, è tutta rivolta a François. Una forza irresistibile lo attrae verso di lui: “Quindi tu sei il mio rimpiazzante?” gli chiede in un tono indefinibile, un misto di pietà, riconoscenza e sollievo. Così dicendo gli tende la mano, che François gli stringe, facendo di sì con la testa con un’espressione altrettanto indefinibile, pensosa e svagata insieme. “Come ti chiami?” chiede Julien. “Antoine Boivin,” è la secca risposta di François. “Hai visto che bel ragazzo robusto t’ho portato?” interviene Philippe, scuotendo i due ragazzi per le spalle, quasi a volerne paragonare la prestanza fisica. Julien sorride, poi, scusandosi con Antoine, si apparta con l’amico, al quale porge un piccolo sacchetto: “Qui ci sono i cento franchi che ti avevo promesso. Prendili, te li sei meritati...” Philippe, sulle prime, resta incerto sul da farsi, poi respinge con decisione il sacchetto: “Non dirlo neanche! Come posso prendermi dei soldi da te? Ti ho visto crescere! E poi, cosa vuoi che mi sia costato, farti questo favore... Davvero, tienili. Serviranno di più a te...” Julien protesta debolmente, ma di fronte alla determinazione di Philippe si ricaccia in tasca il sacchetto, e stavolta abbraccia l’amico con calore, mentre François si gode quella scena di ipocrisia

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e dabbenaggine... La mattina dopo Philippe, Julien e François partono per Avignone. Durante il viaggio, Julien fa presente che, per ben impressionare il Consiglio, sarà necessario fingere fra lui e Antoine una conoscenza di lunga data, perché è risaputo che le sostituzioni combinate non sono viste di buon occhio, e si tenta sempre di accertare che ci sia un rapporto autonomo fra rimpiazzato e rimpiazzante. Con serio imbarazzo (sa bene che sarà tutta fatica sprecata), Philippe inventa una storiella, ed esorta i due giovani a ripassare e a ripetere la parte loro assegnata. Julien ci mette grande impegno: “Allora, Antoine ... tuo padre Jacques e mia madre Mirelle sono cugini. Mia madre è morta dieci anni fa per una polmonite, mentre tuo padre fa il minatore. Solo che da qualche mese è stato licenziato e adesso non sta molto bene...” Avignone, agosto 1845. Philippe, Julien e François attraversano Avignone in cerca della sede del Consiglio. In periodi come questo, dedicati al reclutamento, le strade sono particolarmente affollate per l’afflusso di centinaia di forestieri, e qualcuno ne approfitta per un’arringa improvvisata contro la legge sui rimpiazzanti: “Francesi, reagite allo scempio che si compie sotto i nostri occhi: l’Europa intera si è sollevata contro la tratta dei neri e noi ristabiliamo in seno al cristianesimo, fra i bianchi!, un grande mercato in cui il padre che vuole salvare la vita di suo figlio mercanteggia la vita di un altro con il padre che acconsente a venderlo.” Julien fa notare sarcasticamente a Philippe che lui un padre che gli salvi la vita non ce l’ha più. Philippe esita, poi si vede costretto a rispondere con una battuta: “E io, allora, che sono?” ma il tono della voce è guastato da un accesso di vergogna. Tutt’intorno e dentro l’edificio nel quale si tengono le visite, capannelli di coscritti, parenti, intermediari, rimpiazzanti, sadici curiosi offrono uno spettacolo inquietante, un campionario di furbizie e di orrori: giovani seminudi rivelano salute e malattia, muscoli e mutilazioni di ogni genere. Quasi tutti, però, rivelano anche uno stato morale poco allegro: occhi sperduti, spauriti, disperati... Davanti al Consiglio, François viene sottoposto ad una visita accurata, che supera brillantemente. Può quindi rivestirsi, mentre già gli comunicano il reggimento al quale è stato assegnato. Appena ha indosso il suo giacchino, François si rivolge al medico che lo ha visitato con le stesse parole usate l’anno precedente da Chatelin; afferma infatti di non poter fare il servizio militare, perché è un po’ sordo; non solo: anni addietro ha ricevuto una bastonata sullo stomaco, che non ha lasciato segni visibili, ma che gli causa ricorrenti, forti dolori. François chiede dunque di parlare con il presidente. Spazientito, il medico chiama il tenente Beaudry, spiegandogli la situazione. Intanto, all’altra estremità dello stanzone, Julien quasi si aggrappa a Philippe perché ha la sensazione che qualcosa di irreparabile stia per accadere. Dopo aver ascoltato le motivazioni addotte dal sedicente Boivin, il tenente sbianca in volto, e quando afferma che se volesse dar retta a tutti quelli che vengono presi dal panico, nessuno farebbe il soldato, François gli si scaglia contro e lo uccide all’istante con una pugnalata alla gola, per poi fuggire precipitosamente saltando da una finestra. Poco lontano, in strada, André Bréaud sta strigliando un cavallo. François vi salta su, e si allontana rapido e indisturbato, inseguito da Bréaud, che gli urla dietro con grande talento drammatico... Il tenente è a terra: gli occhi sbarrati, il sangue che sgorga copioso dalla ferita, i medici che gli si affollano intorno inutilmente. L’orrore della folla ha la forma di un cupo boato, di un ondeggiare sconvolto di corpi e visi. I membri del Consiglio, superato il primo violento choc, impongono a Julien di sottoporsi immediatamente alla visita medica. Julien si oppone, assicura che troverà un altro sostituto, denuncia il fatto che ha un lavoro che non può lasciare, ma è tutto inutile: due soldati lo afferrano e lo immobilizzano per tutta la durata della visita. Intanto, alcune guardie fermano e interrogano Philippe, che si finge ignaro, incredulo e sconvolto. A visita ultimata, Julien risulta sano come un pesce, e gli viene comunicato che dovrà presentarsi entro quindici giorni al dodicesimo reggimento di fanteria di stanza ad Avignone. È notte quando François varca a cavallo l’ingresso della sua villa. All’alba, in un’altra ala della tenuta, il giovane Antoine viene messo sullo stesso cavallo dagli sgherri che lo avevano rapito, i

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quali mostrano grande rincrescimento per un non meglio precisato equivoco. Ora è libero, e quel cavallo è un piccolo risarcimento per il “fastidio” che gli è stato arrecato. Antoine è ancora spaventato e sospettoso ma, avendo visto la via libera davanti a sé, non attende oltre, e s’invola spronando furiosamente il cavallo. Di ritorno in paese, Philippe e Julien trovano sulla piazza principale un dagherrotipista ambulante, attorniato da numerosi curiosi. L’uomo viaggia su un cavallo che è perfettamente sufficiente per trasportare l’attrezzatura. Julien chiede a Philippe se sappia che cos’è quello strano aggeggio che l’uomo manovra con tanta disinvoltura. “Come, non hai mai visto una macchina per dagherrotipi? In effetti è la prima volta che ne passa una qui a Bagnols...” A quelle parole, Julien viene preso da una strana eccitazione: scende di corsa dal carretto e si allontana velocemente. Julien è ora davanti a casa di Thérèse, e la sta chiamando a gran voce. Thérèse viene fuori con un allegro sorriso in volto. “Com’è andata?” gli chiede con gran semplicità. “Parto militare fra due settimane,” risponde Julien mentre la afferra per un braccio e la trascina con sé. Arrivati in piazza, Julien si rivolge al dagherrotipista, il signor Gruault: “Signore, devo partire soldato, e vorrei portare con me un’immagine della mia innamorata. Si può fare?” Tutto soddisfatto, il signor Gruault gli risponde quasi saltellando: “Certo, certo! Sono qui apposta...” La folla intorno partecipa con entusiasmo a quell’evento, con Thérèse incerta fra la civetteria e l’imbarazzo, e Philippe che se la ride. Mentre il signor Gruault predispone tutto, Julien continua a parlargli a voce alta, perché tutti, Thérèse per prima, possano ascoltare: “Le ho fatto molti ritratti, a quella ragazza: col carboncino, con colori di ogni tipo; ma ditemi un po’, voi che fate questo mestiere: è vero che le lastre che vengono fuori dalla vostra macchina mostrano le persone come sono veramente, senza tutti quegli artifici che un pittore, voglia o non voglia, deve apportare?” Gruault, lusingato da quell’interesse, è al colmo dell’eccitazione: “Oh, è vero senz’altro! Le mie lastre non mentono, non mentono mai!” “Bene!” conclude Julien, guardando Thérèse con occhio appagato. Il signor Gruault, che ormai si sente in confidenza con Julien, gli domanda se è volontario, coscritto o rimpiazzante. Julien risponde di essere coscritto. Gruault scuote la testa, tutto pensieroso: “Io vengo ora da Sorgues, dove stamattina le guardie reali hanno ucciso un rimpiazzante che aveva assassinato un tenente di Avignone. L’hanno ridotto proprio male, quel poveraccio, a furia di schioppettate! Quasi non aveva più la faccia! Volevo prendere un’immagine del cadavere, ma non me l’hanno permesso, anzi mi hanno cacciato via in malo modo...” Julien perde in un attimo tutta la sua nervosa baldanza: “Quello era Antoine Boivin, il mio rimpiazzante!” “Boivin, bravo! Si chiamava proprio così!” commenta giulivo Gruault, prima di capire la gravità delle parole di Julien. Trascorrono alcuni giorni, finché arriva il momento della partenza di Julien. È l’alba, e Philippe e Julien sono in viaggio sul carretto. Julien stringe a sé un grosso sacco, e tace. Anche Philippe tace, ma le ragioni del suo silenzio sono tanto diverse. Giunti a un bivio, scendono entrambi, e sembrano aver atteso quel momento come una liberazione: grandi abbracci, vicendevoli raccomandazioni e promesse di scriversi. Julien si chiede ancora perché Antoine abbia agito così. Philippe lo esorta, per il suo stesso bene, a non pensarci più. Julien resta meditabondo sul ciglio della strada, mentre Philippe risale a bordo e si allontana, con un’espressione a metà fra la commozione e il sollievo. Si ferma solo un attimo per chiedere a Julien se abbia con sé l’immagine di Thérèse. Julien batte il palmo della mano sul sacco: “Certo che ce l’ho! È al sicuro qui dentro, non preoccuparti...” Philippe procede per Sorgues, incitando a più non posso il suo ronzino. Arrivato alla tenuta dei d’Alambert, gli viene chiesto di attendere, perché il padrone sta ancora riposando. Philippe ne approfitta allora per visitare quei ricchi possedimenti: stalle, maneggi, e più lontano vasti campi coltivati: un’opulenza esibita, quasi sfacciata, che sembra lasciargli addosso un desiderio di ricchezza... Ammesso finalmente a colloquio con François, Philippe lo ritrova ben vestito e con una parrucca in testa, che nasconde lo scempio dei capelli rozzamente scorciati. François, che è di ottimo umore, gli chiede di raccontargli cosa sia accaduto dopo la sua fuga precipitosa. Philippe riferisce diligentemente,

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poi, concluso il racconto, chiede che gli sia saldata la cifra pattuita. François gli lancia un sacchetto pieno di monete tintinnanti: “Ci troverete quattrocento franchi. Il resto vi sarà consegnato fra un anno, come si fa con i rimpiazzanti!” Philippe è allibito, ma François lo rincuora: “Scherzavo, Oriol! I soldi ci sono tutti. Non sentite come pesa?” Philippe, allora, si profonde in mille ringraziamenti. François, accompagnandolo all’uscita, gli offre un ironico consiglio: “Signor Oriol, perché non insistete con questo mestiere? Avete un talento naturale, sarebbe un peccato non coltivarlo...” Epilogo - Orange, aprile 1855. Seduto a una preziosa scrivania, in un ufficio ampio e luminoso, Philippe tiene sotto mano una quantità di carte. È un altro uomo, un uomo che ha fatto carriera e mostra di volersi godere i frutti del suo duro lavoro. Pettinatura accurata e un abito ben fatto sono i segni più visibili del suo benessere; ma è soprattutto lo sguardo sicuro e rilassato, dal quale sembra scomparsa l’inquietudine di dieci anni prima, a dirci quante trasformazioni siano intervenute nella sua vita. Immobile, in piedi di fronte a lui, c’è un uomo sui trent’anni vestito miseramente. Philippe gli parla con tono professionale, quasi annoiato: “Allora, ascoltami bene: ora ti leggo il contratto che dovrai firmare. Dunque: io sottoscritto Daniel Vauban, nato eccetera eccetera, accetto di rimpiazzare il signor René Labrousse eccetera eccetera, per la cifra di franchi milleottocento, che mi saranno versati interamente a far data un anno dal giorno del mio reclutamento.” Fuori la porta dell’ufficio c’è una fila di uomini, giovani e meno giovani, che attendono in piedi il loro turno. Un impiegato si fa largo nella piccola folla ed entra nell’ufficio. Ha con sé una lettera, che consegna a Philippe: “L’ha portata a mano un ragazzino per voi, signor Oriol.” Philippe ringrazia l’impiegato e lo congeda. Con il signor Vauban ancora lì in piedi, legge la lettera con crescente angoscia, finché non chiede al signor Vauban di uscire e di riferire a qualcuno che ha bisogno di parlare urgentemente col signor Bréaud. Bréaud entra nella stanza, e Philippe gli porge la lettera. Bréaud la legge a voce alta, preoccupato per l’espressione dell’amico: “Signor Oriol, chi vi scrive è la vedova del tenente Beaudry. Da parecchi mesi ho notizie certe della vostra complicità nell’omicidio di mio marito, anche se non ho prove tali da farvi condannare; questo perché le persone che sanno non intendono esporsi pubblicamente. Tuttavia, questo non mi impedisce di continuare a lottare perché la verità venga fuori, e in ogni caso ho deciso di scrivervi nella speranza che il rimorso possa guastarvi il resto della vita, e che Dio sappia punirvi come meritate dopo la vostra morte.” Bréaud posa la lettera sul tavolo, e prova a fare lo spiritoso: “Porca miseria, questa l’ha presa proprio male!” Philippe sorride nervosamente: “È peggio di quello che sembra: non è la vedova Beaudry che mi ha scritto... Quella è la calligrafia di Julien Perreau: vuole dirmi che è tornato e sa tutto.” “Julien? Ma sei sicuro?” chiede Bréaud. “Nei primi anni mi ha scritto spesso. Non potrei sbagliarmi neanche volendo!” Bréaud si lascia cadere su una sedia, e cerca di sdrammatizzare come può: “Andiamo, non fare quella faccia, che oggi pomeriggio devi essere più bello del solito!” Philippe si aggira impaziente per le stanze della sua bella casa con Justine, diventata sua moglie, Bréaud e un altro impiegato della società. Sembra essersi leggermente ripreso dallo choc subito quella mattina. Justine segue con un certo affanno le sue evoluzioni, mentre i colleghi sono molto più rilassati, e potrebbe anche sembrare che si stiano divertendo a prendersi gioco di lui, se non fosse per un naturale senso di prudenza che li trattiene. Per la verità Philippe, vestito con una ricercatezza per lui poco abituale, fa di tutto per apparire ridicolo: basta vedere come s’infila le dita nel colletto o scrolla le spalle, come per liberarsi dal giogo di una giacca dal taglio troppo esatto. Dai dialoghi con i presenti si evince che, in vista della prossima apertura di una piccola succursale ad Avignone, Philippe desidera un ritratto da esporre nell’ufficio del direttore, perché questi possa trarre esempio e incoraggiamento dall’effigie del fondatore e titolare della società. Si tratta del suo primo ritratto fotografico, e con vanità da uomo d’affari aggiunge che in futuro potrà farsi stampare, con poca spesa, altre copie per i nuovi uffici che spera di aprire. “Sempre se questi maledetti politici si

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decidono a farci lavorare in pace!” commenta Bréaud. Mentre Philippe indugia nel salone in cerca dello scorcio migliore dove farsi fotografare, entra di corsa Geneviève, sua figlia, una bambina sui sette anni, che annuncia l’arrivo del “fotofrago”. Tutti accolgono con soddisfazione la notizia, e Geneviève esprime il suo entusiasmo saltellando e battendo le mani. Ma la lietezza di Philippe si trasforma velocemente in terrore, quando si trova di fronte Julien il quale, senza tradire alcuna emozione, saluta tutti con un semplice “Buongiorno.” Julien è ora un uomo nel pieno della sua maturità: volto sereno, capelli corti, un buon abito, è accompagnato da Gilles, un giovanissimo assistente. Philippe, restando in allerta, risponde allo stesso modo al saluto, fingendo naturalezza. La tensione, tuttavia, è enorme: nessuno, tranne Bréaud, è a conoscenza dei rapporti intercorsi fra i due, e nessuno dovrà mai conoscerli. Philippe riesce a sussurrare nell’orecchio a Bréaud: “È Julien!” Bréaud cerca di prendere in mano la situazione, si avvicina a Julien e gli stringe la mano: “Dunque voi siete il signor Dubost.” Julien continua i preparativi, e gli risponde col sorriso sulle labbra: “No, io mi chiamo Perreau. Sono l’assistente di Dubost.” Bréaud finge sorpresa: “Ah, ma noi aspettavamo il titolare...” Julien continua a sorridere come compatendolo: “Non preoccupatevi: il signor Dubost ha la massima fiducia nelle mie capacità.” Poi chiede scusa e va a consultarsi con Gilles. Julien prepara le operazioni in maniera molto professionale, coadiuvato da Gilles, già sudato e tutto rosso in faccia per la fatica di trasportare la pesante attrezzatura. Tuttavia, le sue battute e le sue azioni sono cariche di sottintesi: è lui, ad esempio, a consigliare a Philippe di mettersi in posa a fianco di una stampa a soggetto militare (idea lodata dai presenti), ed è lui, con le sue mani, a posizionargli dietro al collo il poggiatesta, che dovrà tenerla ferma per tutta la durata della lunga esposizione. “Stringe troppo?” chiede Julien, mentre gli tiene il collo fra le mani. Con un filo di voce, Philippe risponde che va bene così, ma i suoi occhi terrorizzati dicono tutt’altro... Julien gli sussurra all’orecchio in un lampo: “Che c’è, maledetto bastardo? Hai paura, adesso?” Poi torna a occuparsi della sua macchina come se nulla fosse accaduto: la posa viene decisa nei dettagli, Julien si posiziona, studia l’esposizione, fa scattare l’otturatore. Dopo un paio di minuti, Julien chiude l’otturatore, ma non lo comunica ai presenti. Soltanto Gilles si accorge di quello che è successo, e fissa Julien in maniera interrogativa. Julien gli fa una smorfia come per dirgli di non preoccuparsi, che sa bene quello che sta facendo. Philippe, intanto, comincia a risentire di quella lunga immobilità: è sempre più pallido e sudato, mentre i familiari e i colleghi lo incitano scherzosamente a resistere. Quando Julien decide che è tempo di porre fine alla piccola tortura, concede a Philippe di rilassarsi, e lo libera dal giogo del poggiatesta, approfittandone per pronunciare un’altra frase dal vago sapore minaccioso: “Adesso puoi dire finalmente di essere una persona rispettabile...” Un lungo applauso saluta la prima foto di Philippe, che viene circondato e festeggiato da tutti, con il risultato di aggravare il suo stato confusionale. Geneviève si mette a saltellare intorno alla macchina fotografica e chiede a Julien di vedere “papà”. Julien la ignora ostentatamente, ma finisce per cedere alle educate insistenze della bambina che continua a tirargli i pantaloni chiamandolo “Signore!” Allora si accovaccia davanti a lei e le spiega, con tono e mimica da cantastorie: “È ancora presto, piccolina... Una grande magia, una grande trasformazione si sta compiendo in quella scatoletta; ma fra qualche giorno vedrai tuo padre come non l’hai mai visto, trasformato in un re... o forse in un orco!” “E perché, tu non lo sai come si trasforma?” “No, piccolina, mi dispiace. Io non posso farci niente: dipende tutto dalla scatoletta, che è dispettosa e capricciosa come una fata...” Geneviève resta a bocca aperta, incredula e affascinata. Philippe, che ha ascoltato con angoscia quelle parole allusive, chiama a raccolta le sue ultime forze e, tirando a sé la figlia, interrompe quel dialogo, con la scusa di chiedere informazioni circa il ritiro della foto. Dopo un breve scambio formale di battute, Philippe tenta una vana difesa: “Julien, credimi, non so cosa ti hanno detto, ma io non ho nessuna colpa...” ma riceve soltanto una risposta sarcastica: “Cos’è questa paura? Non crederai che voglio ammazzarti davanti a tua moglie e a tua figlia? Noi soldati abbiamo il senso dell’onore...” In quel momento interviene Gilles per dire che è tutto

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pronto. Julien e Gilles salutano cerimoniosamente i presenti e vanno via, lasciando Philippe in uno stato di profonda prostrazione. Nel giardino di casa Oriol, Julien e Gilles stanno risistemando l’attrezzatura su un carretto. Philippe, tenendo per mano Geneviève, li osserva da dietro una finestra, fino a quando il suo vecchio amico non sale a cassetta. A quel punto si tira indietro, ma l’emozione di quella giornata è stata così forte che si lascia cadere stremato su una poltrona. Geneviève lo guarda con preoccupazione e lo scuote vigorosamente: “Papà, papà! Non stai bene, papà?” È trascorso qualche giorno. Una giovane serva si presenta nella bottega di Dubost. La donna comunica al titolare la morte del suo padrone, il signor Oriol, dovuta a un attacco cardiaco. Dopo le inevitabili, reciproche dimostrazioni di cordoglio, si passa al motivo della visita: la vedova desidera un ingrandimento della foto scattata al signor Oriol poco prima della morte. Dubost le risponde che esaudirà senz’altro questa richiesta. Julien si presenta a casa Oriol portando una cornice avvolta in un panno bianco. Davanti agli occhi di Justine, vestita a lutto, svolge con cura il panno, rivelando la foto riccamente incorniciata. Justine dà la sua approvazione, poi chiede a Julien di sistemarla nel salone, proprio al posto della stampa a fianco della quale Philippe si era lasciato fotografare. Julien esegue con gentilezza e precisione, dichiarando tutto il suo dispiacere: “Mi è sembrato tanto una brava persona,” è il suo perfido commento. Justine, stremata dal dolore, conferma: “Sì, era un uomo veramente buono...” “Chissà che strazio per la bambina...” aggiunge Julien, con accenti di sincero dispiacere. “Sì, sta soffrendo molto. Ma è stata proprio lei ad insistere per avere la foto: ha detto che si aspetta una grande magia...” e accenna un mesto sorriso di compatimento a cui Julien risponde con un sorriso altrettanto mesto. Ora è Justine che, per ricambiare la cortesia, mostra di interessarsi a Julien: gli chiede se è molto che svolge quel mestiere. “Quasi dieci anni. Ho cominciato nell’esercito... Prima di partire soldato mi ero fatto fare un dagherrotipo di una ragazza che amavo, o almeno così credevo... Quando vidi il risultato, però, capii che non era la donna per me. Fu una rivelazione, forse una specie di magia, come dice vostra figlia, e decisi di scoprire qualcosa in più su questa strana invenzione...” Parlando, Julien si è avvicinato di nuovo alla foto incorniciata, e la commenta con sguardo ispirato: “È incredibile... Sapete, noi prendiamo molte fotografie post mortem, è una delle nostre specialità, ma questa... forse è la foto di un vivo più vicina a quella di un defunto...” Justine è raggelata da queste parole, e si affretta a congedare Julien, porgendogli una mancia. Julien la accetta, ma un lampo di macabra ironia che gli attraversa lo sguardo contrasta palesemente con la sua ostentata deferenza. Inchiodato per sempre al muro, raggiunta al massimo grado quella comoda stanzialità alla quale aveva aspirato per anni, Philippe sembra ora chiedere soltanto un po’ di pace e di umana pietà. Il decreto del 26 aprile 1855 istituì la cassa dell’esercito per l’esonero dei coscritti ponendo fine al commercio dei mercanti di uomini. Gianfranco Martana vive a Salerno. Dottorando in Italianistica presso la locale Università, collabora con le cattedre di Letteratura Italiana e Letterature Comparate. Ha realizzato documentari e cortometraggi, fra i quali Indice di frequenza, con Alessandro Haber, selezionato per numerosi festival europei. Attualmente è al lavoro su diversi soggetti e sceneggiature di lungometraggi per il cinema.

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Ma la lietezza di Philippe si trasforma velocemente in terrore, quando si trova di fronte Julien il quale, senza tradire alcuna emozione, saluta tutti con un semplice “Buongiorno.�

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TRENTA GIORNI di Maria Daniela Raineri PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: COMMEDIA

Nella commedia Trenta giorni Maria Daniela Raineri dà via libera alla sua fantasia per trasportarci nello strambo mondo di Giacomo, un uomo che si distingue nella vita solo per la sua passione per il gioco d’azzardo. Subito avvolti in un’atmosfera nebbiosa, ovattata, un po’ sorda, che rafforza il sentimento di incomunicabilità che percorre la storia, seguiamo le peripezie insensate e bizzarre del nostro eroe “farfelu”, per concludere che l’immaginario è l’arma migliore per combattere l’assurdità dei nostri destini.

Il protagonista di questa storia esiste davvero: si chiama Giacomo, è un quarantenne simpatico e distratto. Quando gli ho raccontato che scrivevo sceneggiature si è messo a ridere dicendo che dovevano essere cose noiosissime, proprio come i film che piacciono a me. Così ho provato per gioco a scrivere il mio primo film “d’azione” su misura per lui: gli ho dato in prestito un figlio, una moglie e un’amante e l’ho scaraventato nel bel mezzo di una storia dove tutto è un po’ esagerato, piena di sparizioni, inseguimenti e spari. Penso sia possibile fare un cinema d’intrattenimento senza rinunciare ad intelligenza e ironia; mi piacerebbe che ne uscisse un film veloce, divertente e non sempre prevedibile. Modello (inarrivabile): i fratelli Coen di Fargo e de Il Grande Lebowski. Maria Daniela Raineri

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La domenica la passo al bar. Nella saletta sul retro, a giocare a carte. Quando la partita è un po’ avanti e noi siamo tutti concentrati, c’è una tale nuvola di fumo che quasi non si vede più niente, e finisce che non c’è differenza tra star qui dentro o uscire fuori, visto che il paese dove abito è avvolto sempre dalla nebbia, anche d’estate. Stasera chemin de fer. Il mio amico Marinaio sta in piedi accanto al tavolino, ci osserva giocare ma non dice una parola. Come sempre. Stasera vinco. E mica poco, eh, un milione e mezzo. Andiamo al bancone e offro da bere al Marinaio. Il barista Antonio mi prende in giro e mi dice di stare un po’ di più con mia moglie, che se no fa come quella della barzelletta che dice io alle otto faccio l’amore, chi c’è, c’è. Il Marinaio non ride, ma a me un sorriso scappa, perché ho vinto e son contento. A casa Manuela sta già lavando i piatti. Grida con il piccolo Cristian, niente dolci, gli dice, che se no gli vengono i dentini tutti neri e diventa brutto come il suo compagno di scuola marocchino. Mi siedo davanti al piatto coperto e comincio a mangiare, mentre Manuela lascia stare il piccolo e comincia a sgridare me, perché noi mangiamo alle sette e mezza e io mi presento alle nove, e lei diventerà matta un giorno, Cristian non l’ascolta perché ha preso tutto da suo padre, cioè da me, e nessuno le dà retta e lei deve fare tutto da sola, ancora i compiti da correggere e il vestito della comunione del bambino ha l’orlo della lunghezza sbagliata, così spazzerà il pavimento della chiesa e tutti rideranno e meno male che la scuola finisce tra poco e lei va in vacanza, sì, perché se aspetta che la porti io... Va a fare quel corso di aggiornamento di francese, è così stanca, e anche la colf ha detto che non viene più perché le è arrivato l’esaurimento nervoso. Poi si mette a urlare: Giacomo, mi vuoi ascoltare quando parlo? Giacomo, mi vuoi ascoltare quando parlo? Sono in un’altra cucina, ho appena finito di mangiare pranzo. Monica grida e vuole che parliamo, io vorrei poter leggere le pagine economiche, per vedere la borsa. Alzo gli occhi, guardo la mia amante che sta sparecchiando e le chiedo: ti sei fatta i capelli rossi? Lei mi dice sì, due settimane fa, e mette un po’ di broncio. Eh, non stai mica male, le dico. No, non posso fermarmi dopo pranzo, ho il giro delle farmacie fuori provincia. Sì, domani passo anche da lei per la consegna delle pastiglie per la gola. No, sabato non ci sono, c’è la prima comunione di Cristian. Ce n’è sempre una, dice Monica. Io le ricordo che la comunione si fa una volta sola nella vita. Veramente Cristian dovrebbe farla l’anno prossimo, ma mia moglie ha tanto insistito per fargliela anticipare, perché è un bimbo così maturo. Monica torna a chiedermi perché non mi fermo mai a dormire, e perché non la porto mai al mare, che a lei piace tanto e io a Nizza ci ho pure la casa. Le spiego di nuovo che non è casa mia, ma di mio suocero, la usa ogni tanto per i bagni di sole che giovano alla gotta, oppure quando fa tardi alle riunioni con la filiale francese della sua banca. Io non ci vado volentieri, mi ci sono sempre sentito un ospite e non uno di famiglia, inoltre mio suocero mi disprezza apertamente, ma questo a Monica non lo voglio dire. Prima di andare via racconto che ho vinto alle carte e magari le compro quel braccialetto che le piaceva tanto. Non era un braccialetto, ma una collana, dice lei, mentre inizia a lavare i piatti e io esco di casa. Eccomi al pranzo della comunione. Non conosco quasi nessuno. Devono essere parenti di Manuela e amici di famiglia. Io a casa, in Toscana, ho ancora la mia mamma, ma non è potuta venire perché in questi giorni nasce un altro nipotino (Manuela ha colto ancora una volta l’occasione per dire che mia mamma di noi se ne frega e guarda solo le mie sorelle). Siamo già al dolce, ma la parte finale è sempre la più difficile. Manuela sta parlando con una cugina di chissà che grado e le sta raccontando di quanto sia sveglio Cristian e intelligente e maturo. Nel frattempo il nostro figliolo sta infilzando con la forchetta il sederino di una piccola ospite che comincia a piangere, il fratellino maggiore le corre in aiuto e si scatena una piccola rissa. Manuela richiama Cristian,

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gli dice di stare buono che se no lo dice a papà, poi sorride e dice alla cugina che suo figlio non è certo uno che si fa mettere i piedi in testa. Si alza il papà di Manuela. Fa sempre il discorso, in questi casi. Ma oggi è davvero un’occasione speciale. Mentre tutti fanno finalmente silenzio, mio suocero comincia a parlare. Ringrazia e premette che non vuole annoiare nessuno (questo lo dice ogni volta, poi parla sempre delle mezz’ore). Dopo un paio di sciocchezze sulla comunione di Cristian, inizia a parlare di sé: è appena andato in pensione, dopo una vita dedicata al lavoro e alla sua banca, ma chi lo conosce sa che non è certo l’uomo che si mette in pantofole a guardare la tv con la mogliettina accanto (intanto mia suocera, che a me è simpatica, abbassa la testa con un sorriso un po’ triste, ma lui non se ne accorge e continua). Poi racconta la vecchia storia di lui giovane impiegato che ha lavorato a testa bassa per arrivare a dirigerla, quella banca, e trasformarla in una delle più forti aziende d’Italia. Vuole fare ancora qualcosa, dice, per la sua famiglia e per il suo paese ed annuncia la sua candidatura alle prossime elezioni regionali. Io mi sono un po’ distratto sul finale e mi sono messo a giocare con una bimba piccola e paffuta, che mi guarda con gli occhi sgranati mentre faccio sparire, con l’aiuto del tovagliolo, una saliera e un cucchiaino da dolce. Così non mi accorgo che il discorso è finito e che il papà di Manuela è arrivato al nostro tavolo. Piccola mia, se ti stupisci ancora, vuol proprio dire che non lo conosci, il tuo papà, dice mio suocero mentre bacia mia moglie sulle guance. Eppure ha cercato di passare tutto il tempo possibile con le sue figlie. Lui. E mi guarda. Capisco che è arrivato il mio turno. Provo con lo sguardo a cercare un po’ di solidarietà almeno da parte di mia suocera, ma lei sta bevendo silenziosa un amaro e non sembra badare a quanto le capita intorno. Mio suocero comincia con la solfa che conosco a memoria, con lui che cantava la ninna nanna alle sue figlie poi tornava di corsa al lavoro, mentre io non so nemmeno che classe fa mio figlio. E poi che sa tutto delle mie spese, degli amici del bar, della mia macchina sportiva, del mio lavoro che mi fa guadagnare così così. Il lavoro va meglio, dico. Lui risponde che, da queste parti, “meglio” vuol dire tante cose. Ecco, quando dice “da queste parti”, per ricordarmi che io sono una specie di rifugiato qui al nord, vuol dire che è davvero in forma. Infatti non ha finito e tira in ballo la storia con Monica, così anche Manuela comincia a piagnucolare. Proprio oggi che doveva essere un giorno bellissimo. Per fortuna un invitato arriva a congratularsi per la candidatura e il resto della predica viene rimandato. La piccola ospite bionda, che è rimasta lì, poveretta, a sentire tutto il discorso, mi chiede se non posso far sparire anche loro. Io sorrido un po’ e le dico piano: magari... Sono di cattivo umore quando arrivo al bar. La serata si preannuncia tosta: c’è anche la baronessa. La signora deve essere sui cinquanta, ma farei fatica ad immaginarla più vecchia o più giovane. La si vede poco da queste parti, ma ogni volta che è qui sembra lei la padrona di casa. La sua camicetta leopardata e i gioielli vistosi non stonano con l’ambiente della saletta. Strano. Le chiedo scusa per il ritardo, lei mi sorride, cortese, ma poi sbuffa e dice: cominciamo? Chemin de fer. Partita accesa e tesa. Un’ora e un quarto e ventidue sigarette dopo, mi alzo con la testa che gira. Ho perso. Devo trentotto milioni alla baronessa. Non ho il coraggio di tornare a casa. Guido nella nebbia. Ci sono le puttane che mi fanno dei gesti con gli stivaloni bianchi, ma sono l’uomo sbagliato, dolcezze, non c’ho una lira. Sono le cinque della mattina quando rientro. La porta della camera da letto è chiusa a chiave, e io mi corico sul divano. Il mattino dopo Manuela non mi parla. Meno male, penso io, e mi chiudo in bagno. Ho perso trentotto milioni, provo a dirlo allo specchio per capire meglio l’effetto. Cosa sono trentotto milioni? Niente, non ci compri una casa, nemmeno una barca, non ci compri le macchine che ti piacciono, anzi, non

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bastano neanche per un camper. Ma il guaio è che non ce li hai, trentotto milioni. Mi faccio un caffè e Manuela annuncia che va a teatro con sua sorella. Io dovrò badare a Cristian. C’è la partita in tv, penso. Ma è meglio se sto zitto. Cristian vuole giocare allo sceriffo a cavallo. Poi a nascondino. Si nasconde nel ripostiglio, faccio finta di non trovarlo e accendo la play station. Quando Manuela rientra sono le sei, io sto ancora giocando, un po’ incantato davanti a Lara Croft, e Cristian dorme sul pavimento dello stanzino. Manuela urla e a me torna il mal di testa. Monica mi sbatte davanti il piatto. Se lei non vuole tornare da sua madre, cosa ci stai ancora a fare lì, ora che tuo figlio è grande? Già, pronto per il militare, le rispondo, poi le spiego che quella è un’età così difficile, e il mio bambino ha bisogno di una figura maschile adulta di riferimento... Le chiedo di non cambiare canale, che ci sono i cartoni animati. Monica alza gli occhi al cielo e posa il telecomando. Poi mi chiede perché io e lei non facciamo più l’amore. Io le accarezzo una mano ma non riesco a guardarla negli occhi, così, senza perder di vista Gatto Silvestro in tv, le spiego che per me è un momento delicato, tanti pensieri, il lavoro e anche un debito alle carte. Lei si preoccupa e mi chiede se è tanto. No, le dico, solo un paio di milioni. Ecco il mio guaio: non sono mai stato capace di dire una vera bugia, ma non riesco mai nemmeno a raccontare la verità tutta intera. Intanto sto già pensando all’appuntamento con la baronessa. E quel giorno arriva in fretta. Ci ritroviamo in un ristorante un tempo rinomato. La conversazione è breve. La baronessa gentile, ma ferma. Ho tempo trenta giorni per portarle i soldi. Niente sconti, né dilazioni. Mi sento male, ma non voglio darlo a vedere, così mi alzo e, con le mani sullo stomaco, declino l’invito a pranzo del suo accompagnatore dai baffi tinti di nero.

“Hai già scelto gli addetti alla riscossione?” chiede l’uomo tinto. La baronessa fa cenno di sì. “I migliori.” Il Samurai, detto così perché esperto di arti marziali, è contrario ad ogni tipo di arma e per uccidere usa solo le sue mani. Il Sentimentale, magro e delicato, è un po’ meno affidabile, ma è un esperto di armi impareggiabile, serve là dove il Samurai da solo non ce la farebbe. È un po’ distratto ed ha l’innamoramento facile, ma è davvero un gran lavoratore. Se Paperino si fa le Paperine ed è contento, Topolino si fa le Topoline ed è contento, perché Pippo è sempre incazzato? Antonio ride da solo per quella barzelletta che conoscono già tutti. Io mi prendo la testa tra le mani. Il Marinaio, che è un amico, si accorge subito che qualcosa non va e mi propone di andare di là, nella saletta, a parlare con calma. Antonio vorrebbe ancora raccontare quella dell’animale che gode di più, ma il Marinaio gli dice di non rompere i coglioni. Nella saletta ci sediamo e, mentre gli altri intorno a noi giocano e fumano, prima faccio quello che non vuol dire niente, perché io sono uno chiuso e non mi va di raccontare i fatti miei, poi gli chiedo se mi presta trentotto milioni. Non ce li ha, come immaginavo. Sei proprio infognato, mi dice, ne ho visti tanti rovinarsi così, quando navigavo. Il Marinaio non parla quasi mai e, quando gli va di raccontare qualcosa, sono sempre imprese di ladri e filibustieri, che tra l’altro finiscono tutte male. Sto per alzarmi, allora lui mi ferma e mi chiede perché non mi faccio aiutare da mio suocero. Scherzi, dico, quello non mi sopporta. Con la storia della candidatura, poi. Se la cosa venisse a galla sarei rovinato. Tuo suocero non ti sopporta, tua moglie nemmeno... Giacomo, perché non ti rifai una vita? Insieme alla farmacista! Lo guardo.

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Tua moglie ha una polizza vita? Lo guardo ancora, questa volta allarmato. Sì, ce l’ha, però non mi starai dicendo... Io non ho detto niente. Ma se hai bisogno... Non sarà certo la prima volta che mi occupo di un caso del genere. Sei pazzo. Ora sono spaventato. Sono proprio nella merda, eh? Chissà perché ho bisogno di chiedergli ancora conferma. Lui mi fissa ma non dice niente. Torno a casa di corsa, mi sento anche un po’ in colpa perché, per un secondo, ci ho pensato sul serio, a questa storia della polizza. Apro la porta e Manuela mi chiama: Tesoro! Tesoro? Infatti, in salotto c’è una riunione di signore che si contendono i campioncini di una miracolosa crema anticellulite. Vieni a salutare le ragazze, mi chiede mia moglie. Io entro controvoglia nella stanza, intanto penso che lì di ragazze non ne vedo nemmeno una, e mi viene da ridere, così alla fine mi esce anche un bel sorriso stampato in viso e faccio la mia bella figura. È l’ora del tè. Non posso rifiutare e mi siedo con la tazzina tra le mani. Che strani, eh, gli inglesi, mormoro, vanno matti per il tè che non sa d’una sega. Il fatto è che lo dico in un raro momento di silenzio e tutte sentono. Alcune tossiscono, altre ridono piano. Manuela mi scaraventa in cucina. Accendo il televideo e comincio a fantasticare sulla mia vita da vedovo. E non mi pare così male. Poi una mattina esco come sempre per andare al lavoro, già preoccupato perché alla radio un bischero si rallegrava dei giorni che passano in fretta e dell’estate che finalmente è alle porte e mi accorgo che mio suocero, con un sorriso un po’ storto in viso e una rosa tra le mani, mi sta guardando da un manifesto elettorale, con la scritta “Centralità della Famiglia e Difesa della Vita: un Politico Galantuomo per salvare la Regione”. Corro alla macchina, ma al suo posto trovo un rottame fumante. C’è un foglietto incenerito sotto quel che resta del tergicristallo. Mentre provo a prenderlo e mi si sgretola tra le mani, dietro di me emergono dal nulla due uomini, uno magro con gli occhi azzurri, l’altro alto e pancione. Li conosco, quelli, sono gli scagnozzi della baronessa. È solo un avvertimento, mi spiega quello magro, che chiamano il Killer Sentimentale. Per il tuo bene, per aiutarti a decidere in fretta, gli fa eco l’altro, che chiamano Samurai, con un vocione. Tuo figlio è in Germania con la nonna, vero? Non vorrai rovinargli la vacanza! Già, quel bimbo con gli occhi azzurri, chissà da chi ha preso, fa il Sentimentale, tua moglie è mora e tu anche sei scuro. Strano, eh, anche io, ho gli occhi azzurri e mia madre ha gli occhi neri, mio padre ce li aveva verdi, però c’era una bisnonna, che io non ho conosciuto, ovviamente, perché era già morta quando io sono nato... Il Samurai gli chiede se ha intenzione di parlare del mio debito o del suo albero genealogico. Mi domando come facciano a lavorare insieme, questi due. Mi restano solo otto giorni. Non è più un gioco. I due scompaiono nella nebbia. Io mi ricordo che nella macchina c’avevo pure lasciato il cellulare. Resto un po’ lì davanti con le mani sulla testa. Ho paura. Quella sera, rientrando a casa con la macchina di Manuela, provo a preparare un discorso: Ciao cara, ci sono novità? Io ne ho una, sai, oggi sono andato al lavoro con la tua auto, sai com’è, la mia è andata a fuoco, cose che succedono ogni tanto. Ora me ne dovrei comprare un’altra, mi dai tu i soldi, per piacere? Vediamo, forse prenderò una Panda usata. Quanto mi serve? Quaranta milioni. Non funzionerà mai. Non c’è altra soluzione. Devo raccontarle tutto quello che è successo e, per una volta, dirle la verità. Entro in casa e non trovo nessuno. Nemmeno un piatto pronto da scaldare.

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Accendo la televisione e riecco il vecchio, stavolta in tribuna elettorale, che con piglio severo parla di danno sociale, riduzione delle capacità procreative, diminuita volontà lavorativa. Per un attimo ho l’impressione che stia parlando giusto di me. Poi prosegue dicendo che per questo l’uso delle droghe va perseguito, senza distinzione tra pesanti e leggere. Cambio subito canale e aspetto. Alle tre di notte, il posacenere trabocca e mia moglie non c’è ancora. Provo a dormire. Al mattino, il lato del letto accanto a me è ancora intatto. Ho dormito poco e male. Vado in cucina e accendo la radio. Il solito DJ farabutto saluta tutti quelli che si sono alzati con un sorriso, in questa splendida giornata di sole. Spalanco le imposte per verificare e vengo avvolto dalla nebbia, come tutte le mattine. Mia moglie è sparita. Frugo nei cassetti, per trovare qualche indizio. Niente, mi sembra tutto a posto. Tranne una cosa: mancano le chiavi della casa di Nizza. Parto subito, magari la trovo là.

Al bar, uno dopo l’altro, gli ultimi clienti della serata se ne vanno. Antonio saluta tutti con sorrisi cordiali e rimane ad asciugare bicchieri. Solo dopo un po’ si accorge che in un angolo sono seduti il Samurai ed il Sentimentale. Salve ragazzi, ancora un bicchiere? Al terzo Montenegro e alla quarta storiella, il Samurai ordina al compare di pagare il conto. Tutti in paese sanno che Antonio quando beve diventa un pettegolo. E dimentica le promesse fatte. Il tempo di dare il resto e ha già spifferato che Giacomo è partito di soppiatto per Nizza, subito dopo colazione. Sicuramente è con la sua amante e non bisogna dirlo a nessuno. Poi insiste per offrire un whiskino e torna a sedersi. È l’ora della quinta barzelletta. I due ridacchiano nervosamente. Il Samurai mormora al Sentimentale: “Ti prego andiamocene, fai qualcosa per farlo smettere!” Il Sentimentale spara al piede del barista. I due scappano. È notte fonda. La macchina dei killer è ferma di fronte ad un autogrill. Troppo pericoloso scendere in due, il Sentimentale deve correre a prendere qualcosa da mangiare, mentre il Samurai sta di guardia. “Che cosa ti va?” “Un succo d’arancia e due panini vegetariani.” “Sei vegetariano?” Il Samurai fa cenno di sì. “Non mangi carne?” “No.” “Nemmenoilpesce?” “Non li tocco da vent’anni.” “Ma così non diventi anemico?” “Sono in ottima forma.” Il Sentimentale riflette. “E le uova le mangi?” “Solo quelle non fecondate.” “Come si fa a capire se un uovo è fecondato oppure no?” “Vuoi andare a prendere quei panini oppure vuoi stare qui ad ascoltarmi mentre racconto che cosa ho fatto con l’aiuto di queste sole mani ad un ex-collega che faceva troppe domande?” Il Sentimentale corre a comprare il cibo e una carta stradale. È tempo che la vecchia Fiat con autoradio potente riprenda il suo viaggio verso la Francia. Il Samurai guida, il suo compagno è molto intento a leggere la mappa. Forse un po’ troppo intento. “Devo andare dritto?” “Oh, sì.” “Allora, dritto o a destra?”

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“Sì, sì...” Il Samurai, spazientito, inchioda nella nebbia e strappa dalle mani del collega il dépliant nascosto dietro la cartina, con due donne quasi nude che invitano a non lasciare la Francia senza aver prima visitato lo Jolie Club, il miglior night club di Nizza. Alla villa le imposte sono chiuse, e di Manuela non c’è traccia. A Nizza splende il sole. Nel centro della città le strade sono piene di gente e il lungomare pullula di turisti. Mi metto gli occhiali, abbagliato, e mi guardo un po’ intorno. Arrivo nei pressi dell’autostrada che mi riporta a casa. Però mi piace questo sole di inizio estate e decido che non c’è niente di male se mi fermo qui per un paio di giorni, così mi nascondo e intanto penso con calma al da farsi. Trovo una pensione economica, con il padrone che non fa domande. La serata è tiepida e decido di fare due passi. Sono preoccupato, ma mi piace questa città, così piena di vita anche la sera. Vago senza una meta tra le tante luci, e mi ritrovo davanti al casinò. È stato più forte di me. Ma è anche vero che la sfortuna non può durare per sempre. È notte fonda quando esco dal casinò. Mi guardo intorno, un po’ furtivo, controllando di tanto in tanto la tasca dei jeans. Ho vinto un milione, mi farà comodo, per ora. Ho fatto tanti brutti sogni, ma per fortuna non li ricordo. C’è sempre il sole, qui! Corro ad una cabina telefonica e chiamo il Marinaio. Così non ne sai niente, gli chiedo. Sei pazzo, mi dice, crederai mica che sono andato avanti col lavoro senza il tuo permesso. Mi chiede cosa diavolo faccio in Francia, gli spiego che la sto cercando e intanto mi sto nascondendo, la baronessa non scherza. Per l’amor del cielo, torna subito qui e non fare casini! Non posso, non senza i soldi. Insomma, discutiamo un po’ e alla fine lui mi promette dieci milioni in prestito. A patto che torni in Italia. Non capisco perché insista, e gli ripeto che quelli mi minacciano ed è meglio se sto qui, poi cade la linea. Fa davvero caldo. Non so che fare, sono spaventato, cammino e mi accendo una sigaretta dietro l’altra. Con quello che costano. Il sole picchia, sto sudando e inizio a barcollare. Le immagini si confondono, mi porto una mano alla testa. Io vivo in mezzo alla nebbia, mica sono abituato a questo clima. Cerco un angolo in ombra, mi appoggio al muro e chiudo gli occhi. Quando sento tornarmi le forze, muovo qualche passo e lentamente la vista ritorna nitida. Ma la prima cosa che vedo mi fa prendere un colpo. Quello laggiù è mio suocero. Mi nascondo dietro una macchina parcheggiata e guardo cosa succede. Parla con una giovane donna, anzi, stanno litigando, mi pare, ma parlano in francese e non ci capisco niente. Alla fine lui se ne va, pare proprio di pessimo umore. Io aspetto qualche minuto, poi mi muovo verso il punto in cui è andata la ragazza. Arrivo ad un piccolo bar e la scorgo attraverso i vetri impolverati. È bellissima, ha la pelle scura e gli occhi chiari. Può avere sì e no 20 anni e ha iniziato una partita di carte con le amiche. Ehi, sembra una giocatrice esperta. Sarà perché mi affascina vedere quelle quattro che ridono come bambine, in un’atmosfera così diversa da quella delle nostre partite in saletta, o perché la ragazza è davvero incantevole, o perché in fondo devo avere scritta in qualcuno dei miei geni la predisposizione a mettermi nei pasticci, fatto sta che entro nel bar e mi avvicino al tavolo. Osservo un po’ la partita in silenzio (come fa sempre il Marinaio con noi, e pensare che gli somiglio anche un po’), poi provo ad iniziare un discorso. Saranno vent’anni buoni che non abbordo una ragazza. Infatti va male. Mi presento come Hans Decker, dirigente di un’importante banca tedesca.

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La ragazza mi regala un sorriso che mi scioglie. Poi mi risponde in un italiano quasi perfetto. Si chiama Amandine, ed è molto sorpresa di incontrare un uomo tedesco che tenta di parlare francese con accento italiano. J’ai vu da lontano vous parler con mon socio d’affaires, presitent cros panque italian, provo ancora io. Così lei si arrabbia e mi dice che non stava parlando con nessuno e che stava giocando a carte da più di un’ora. Non sorride più. Io scordo di essere tedesco: vi ho visti discutere là fuori, un attimo fa! Amandine butta le carte sul tavolo ed esce dal bar. Le amiche parlottano tra loro e mi guardano un po’ minacciose. Sconfitto, e anche un po’ imbarazzato per la figuraccia, vado al bancone e pago a peso d’oro una bottiglietta d’acqua naturale. Vengo avvicinato da un avventore alcolista. Bella ragazza, vero? Mi dice. Lo guardo infastidito. Ma lui ha voglia di parlare: dovrebbe vederla la notte. Notte? Sì, allo Jolie Club, poco lontano da qui, tutte le sere tranne la domenica. Quella notte, nel locale il fumo forma un nebbione tale che mi par d’essere a casa. C’è tanta gente, tutti uomini, tranne la cicciona che si agita sul palco con un boa di piume addosso. Nessuno le fa caso, molti parlano, alcuni litigano, in un angolo della sala due vengono alle mani. Ad un tratto qualcosa cambia. La musica si fa più coinvolgente e il pubblico più attento. Gli applausi partono ancora prima che Amandine faccia il suo travolgente ingresso. Senza accorgermene, quasi stregato, mi dirigo lentamente verso il palco. Amandine balla bene, poi comincia a spogliarsi, con un ritmo veloce ma sensuale. Un sorriso da scemo mi riempie la faccia, poi faccio un passo indietro, stordito da tanta bellezza. Urto qualcuno che mi apostrofa in malo modo, ma tanto non capisco il francese. Mi giro per chiedergli scusa e trattengo un urlo. In fondo alla sala, appoggiato al muro vicino all’uscita, il killer Samurai sta guardando verso di me. Mi precipito sotto il palco, torno a guardare Amandine, quasi per chiederle aiuto. Poi cerco di nascondermi tra la folla incurvandomi un po’, ma ecco che scorgo una porticina nell’angolo e mi ci infilo di corsa. Ci sono alcune piccole stanze lungo i corridoi dalle quali arrivano voci femminili. Finalmente trovo una stanza vuota, entro e mi appiattisco contro il muro. Dopo un bel po’ Amandine entra avvolta in una vestaglia di seta rossa. Urla, e io le poso, delicato, una mano sulla bocca. Ti prego non gridare, non sono qui per te, sono nei guai, guai grossi. Mi inseguono. I tuoi amici tedeschi? Macché, quella era una bugia. Provo a spiegarle in pochi secondi dei miei debiti alle carte, di mia moglie scomparsa, della baronessa e dei suoi killer che ora mi hanno trovato. Lei aggrotta le sopracciglia e mi esamina per un po’. Per fortuna è una donna intelligente e capisce che non voglio farle del male. Chiude la porta, risoluta, e mi chiede cinque minuti di tempo per cambiarsi e portarmi fuori di lì. Mi dice: voltati, che mi devo vestire, non fare quella faccia, lo so, centinaia di uomini mi vedono nuda ogni sera, ma quello è lavoro. Obbedisco in fretta. Mentre lei si veste cerca di capire qualcosa della mia situazione così ingarbugliata. Come se io ci avessi capito... Allora, sei qui perché cerchi tua moglie o perché stai scappando dai killer? Non lo so nemmeno io, insomma, loro mi hanno trovato mentre io la stavo cercando... Ti manca? Beh, poco prima che sparisse avevo anche pensato di ucciderla... Sento che dietro le mie spalle Amandine si è bloccata. Allora continuo. ... Ma è stato solo un pensiero. Io non ho mai ucciso nessuno. Sorrido e scuoto la testa, sentendomi triste all’improvviso. Poi vedo il grande mazzo di orchidee nell’angolo della stanza.

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Che belle, un ammiratore? Amandine intanto ha finito e si spazzola i capelli. Già, un ammiratore, uno che le manda orchidee e gioielli per fare colpo, un poveretto che non ha capito che con lei queste cose non funzionano. E poi i fiori non le piacciono. Impazzisce solo per le rose bianche. Mio suocero, qui al mare, ha tre serre di rose, le dico. E una solo di rose bianche! Peccato che sia così geloso dei suoi fiori e lasci entrare solo i due giardinieri di fiducia. Le chiedo se è pronta. Io sì, risponde, e mi guarda con un sorriso strano. Vietato ridere. Non mi ero mai vestito da donna, neanche a Carnevale, e non ho mai capito quegli amici che paiono divertirsi un mondo a farlo. Insomma, io e Amandine la spogliarellista usciamo dalla porta sul retro e saliamo sulla sua macchina, una vecchia Renault scassata. Mi tolgo la parrucca bionda e accendo una sigaretta. Amandine mi chiede se gliene offro una, e tutti e due ci rilassiamo un po’, finalmente. Nizza scorre sotto i nostri occhi. Amandine ha fame, le chiedo se troveremo qualcosa aperto, dato che sono le tre di notte. Lei si fa una risata e mi chiede: ma dove vivi tu, scusa? Poi sfreccia in mezzo al traffico. Le dico che va troppo veloce per una macchina così vecchia, allora si fa seria e mi spiega che quella macchina è tutto ciò che ha, le serve per il lavoro, no, non quello al locale, il lavoro vero, quello che fa di giorno. Come diciamo noi italiani? Representante? Mi illumino: anch’io faccio il rappresentante! Di medicine, anzi, di prodotti da banco. Tipo le palline Zigulì, per intenderci. A me l’han bruciata, la macchina. Lei invece vende biancheria. È un lavoro importante, senza di quello non le basterebbero i soldi dello strip e dovrebbe anche... Anche? Anche accettare le offerte dei clienti. Tante ragazze lo fanno, pagano bene. Le chiedo cosa dicono i suoi genitori del lavoro al Club. Non ce li ho i genitori. Vivi sola? No, col mio fidanzato. Cerco di mascherare un po’ di delusione. È ora di scendere. Entriamo in un minuscolo ristorante tra i vicoli. A Nizza il caffè è pessimo ma le insalate sono buone. Avevo un buco nello stomaco, non mangiavo da ieri e me l’ero scordato. Poi, tra il cibo e un po’ di vino bianco, ecco la pessima idea di tornare sull’argomento. Così sono venuto al mare per cercare mia moglie, dico, ma non l’ho trovata. Invece, a quanto pare, gli scagnozzi della baronessa hanno trovato me. E, come se non bastasse, anche se tu mi dici di no e questo devi spiegarmelo, sono sicuro di avere visto mio suocero che parlava con te, l’altro giorno. Se sa cosa mi è successo, mi ammazza. Pure lui. Amandine spalanca gli occhi, poi ride amara. Tuo suocero? Sì, il padre di mia moglie! Voglio dire, se scopre i miei debiti di gioco, è la fine... Già mi odia, pensa che io sia un buono a nulla e non perde occasione per ricordarmelo, specialmente se lo può fare davanti a qualcun altro. Ora ho paura che sappia già tutto. Amandine si tocca le tempie. Sembra sconvolta. Amandine, ti scongiuro, dimmi la verità: voi due vi conoscete? Mi guarda seria: è mio padre. Non ho nemmeno il tempo di impallidire, perché un uomo grosso coi denti cariati e una cicatrice sulla faccia, arriva al nostro tavolo e prende per un braccio Amandine. Faccio così conoscenza con Claude, il suo fidanzato-padrone. Le mormora qualcosa in un tono che fa rabbrividire. Con lei faccio i conti

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a casa, mi dice. Poi, in meno di due minuti, mi scaraventa fuori dal ristorante. La serata è finita, mi metto in cammino verso l’albergo.

La macchina di Monica parcheggia di fronte alla pensione, vicino all’utilitaria della moglie di Giacomo. “Io non ti lascio solo, amore mio.” Dopo una breve conversazione col padrone, che si esaurisce presto perché nemmeno lei sa il francese, Monica sale le scale e trova la porta della stanza di Giacomo socchiusa. In punta di piedi, accende la luce di colpo e sventola una bottiglia di champagne: “Sorpresa!” Il padrone mi sorride e dice “Fidanzata,” indicando il piano di sopra. Oh no! Mi precipito nella stanza. Monica è stata colpita alla testa da una pesante edizione della Bibbia, si lamenta, ma non presenta lesioni gravi. Piagnucola quando la prendo tra le braccia. Allora non sei tu che mi hai colpito. E beh, certo che non sono io! Che ci fai qui? Avevo voglia di vederti. Tua moglie è sempre scomparsa? Lo sapevo che non dovevo dirti niente! Qualcun altro sa dove sono? Fa cenno di no. Con un po’ di fatica, si alza. Riesce a stare in piedi. Mi guarda mesta. Le faccio un gesto con la mano: quante sono queste? Tre. OK, stai bene. Torna subito indietro. La accompagno alla porta e lei cerca di non farmi vedere che le viene da piangere. Ma io non riesco a dormire. Esco e guido nella notte, con i pensieri e pezzetti di frasi e voci che mi si affollano in testa. Rose bianche. Amandine e Manuela sono sorelle. Com’è stato possibile? Pensavo di averne solo una, di cognata, che poi è lo stesso che non averla, visto che non mi parla da ancor prima che nascesse il mio figliolo. Da dove sbuca fuori quest’altra, simpatica a fiera, che tra l’altro stanotte mi ha salvato la pelle? Sono arrivato alla villa di mio suocero. Scendo dalla macchina e do un’occhiata alle imposte chiuse. Poi arrivo alla serra, quella con le rose bianche. Spacco un vetro, disattivo l’allarme ed entro, con una torcia in mano. Ripenso alle storie del Marinaio, piene di assassini e zingari. La serra di notte è davvero suggestiva. Tento di cogliere una rosa, ma ho scordato le cesoie. Accident’a me, non mi riesce proprio di fare il romantico. Provo a tirare il gambo un po’ più forte, ed ecco che il vaso mi si rovescia addosso. Mi chino per raccogliere la terra che si è sparsa dappertutto, ma devo prendere la torcia per capire bene quello che ho davanti. Queste non sono certo medicine per la gotta, caro il mio nonnetto. Ho fatto tre anni di Farmacia mica per niente, capisco al volo di che cosa si tratta: provette, polveri da taglio, anfetamine... Qui c’è ogni tipo di droga! Inizio a cercare, rovescio altri vasi e alla fine, dietro la centralina dell’irrigatore, trovo un po’ di libri. Sembrano registri contabili. Ne apro uno e riconosco la grafia da anziano, precisa ed inclinata a destra, la stessa di quegli odiosi e formali biglietti di auguri a Natale e degli assegni firmati con disprezzo, perché io ero un buono a nulla e da solo non riuscivo a mantenere la famiglia. C’è una sfilza di nomi, quasi tutti francesi e qualcuno tedesco, con vicino cifre, tassi di interesse e piani di rientro. Una lista di debitori, persone a cui la banca non avrebbe mai concesso prestiti. Nell’ultima pagina ci sono delle annotazioni in francese su un certo Signor Matelot, che a quanto pare deve una somma che a restituirla non basta una vita. E, accanto, ben sottolineato, c’è il mio nome. Mi spavento a morte. Lascio tutto lì e scappo. Senza scordarmi però il regalo per Amandine. Si è fatto giorno e non ho chiuso occhio. Con la rosa bianca in mano, vago sul lungomare che si va via via animando. Guardo tutte le ragazze brune, ma di Amandine non c’è traccia. Ogni tanto mi scappa l’occhio su qualche bionda davvero bellina e poi, sarà che non ho dormito, sarà l’agitazione e anche il caldo, fatto sta che mi accorgo solo all’ultimo del Samurai che sta incedendo, in perfetta tenuta da bagnante, con gli shorts e l’asciugamano in spalla, proprio nella mia direzione. Inizio a correre, ma in

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cinque-sei passi mi raggiunge e mi prende di peso come se sollevasse un topolino. Mi butta dentro una cabina sulla spiaggia. Nessuno in strada fa caso a noi: non mi vengano più a parlare del senso civico dei francesi. Mi prende qualcosa dal portafogli, poi mi rassicura: non è qui per uccidermi. Non ancora, mancano cinque giorni. L’appuntamento è per domenica a mezzogiorno, nel punto dove ci siamo appena incontrati, vicino all’orologio. Se non porto i soldi mi ammazzano. E poi vanno da mia moglie. Manuela? Dov’è? Il Samurai non risponde, ma in compenso mi spezza due dita e mi lascia lì sul pavimento. Per telefono imploro il Marinaio. Lui promette: ci sarà, con i dieci milioni, domenica a mezzogiorno. Passo i cinque giorni successivi senza quasi metter naso fuori dalla pensione. Al mattino della domenica, bussano alla porta. Mi sveglio di colpo e il dolore alla mano si fa subito risentire. Guardo la porta con terrore, non riesco nemmeno ad urlare. Poi Amandine mi chiama piano e io mi butto giù dal letto, infilandomi i jeans in tutta fretta. Lei entra, carina come sempre, senza badare alle bottiglie vuote di birra e ai resti unti di pranzi fast food sparsi ovunque. Io resto ancora un po’ rimbecillito sulla porta, mentre lei si siede sul letto. Le dico dell’ultimatum e dell’appuntamento a mezzogiorno. Ci pensa un po’ su e poi mi dice: volevo fare due passi con te, ma forse è meglio se ti porti dietro questa. Tira fuori una pistola dalla borsa. Io faccio un salto indietro. È carica, ma non spara da sola, spiega con un sorriso. Prendo in mano l’arma, un po’ riluttante. Non facciamoli aspettare, mi dice. L’orologio sulla passeggiata segna mezzogiorno meno quattro minuti. Il Samurai e il Sentimentale se ne stanno appoggiati ai due lati del palo che sostiene l’orologio. Noi, che camminiamo lenti e nervosi, li vediamo in lontananza. Poi scorgo il Marinaio sull’altro lato della strada e tiro un sospiro di sollievo tra me e me. Il Marinaio porta la mano alla tasca dei pantaloni e Amandine, che capisce, urla: attento! E mi dà uno spintone. Al primo sparo mi passa davvero la vita davanti agli occhi. Ma non è un granché, rivedo i pomeriggi alla saletta del bar e le solite facce, poi Monica e Manuela che sembrano quasi sorelle, dopo tanti anni. L’unico giorno speciale che mi viene in mente è quello in cui è nato Cristian, con Manuela che piangeva in ospedale, Monica che piangeva al telefono, e poi Cristian, naturalmente, che piangeva nella sua cullina. Alla fine quella volta mi ero sentito quasi in colpa, ad esser l’unico contento e d’umor frizzantino. Il Marinaio ci sta sparando addosso e i due killer, a dir dalle facce, sembrano più stupiti di me. Comunque noi cominciamo a scappare e tutti quelli ci vengono dietro. Amandine mi dice di tirare fuori la pistola e rispondere al fuoco, e poi mi chiede che razza di amici ho, ma io non ce la faccio a scappare, sparare e parlare nello stesso tempo e rimando la risposta. Come succede solo nei film, riusciamo ad evitare tutti i colpi, quelli del Marinaio e quelli del Sentimentale, e continuiamo la nostra fuga nei vicoli. Arriviamo sopra una scalinata e sembra che tutti si siano dileguati. Ma dall’alto ci piomba addosso il Samurai. E dov’era, sul tetto? Mi afferra la gola, Amandine gli si scaglia contro afferrandogli un punto sensibile, allora lui mi lascia e acchiappa la ragazza come se volesse buttarla giù dalle scale. Io riesco finalmente a prendere la pistola in mano e gliela punto addosso, tremando. Ma non riesco a premere il grilletto. Poi una voce ci fa saltare tutti: lasciala stare! È Claude, riesce ad essere ovunque nei momenti sbagliati. Amandine è più spaventata di prima, ma il Samurai la lascia cadere a terra, mentre a mani nude affronta Claude, che invece è armato di un grosso coltello. Così riusciamo a scappare e scendiamo di corsa la scalinata, ma dopo un po’ ci sfiora un altro colpo di pistola e ci troviamo di fronte il Marinaio che sparando avanza verso di noi. Devo sparare anch’io, urla Amandine. Io alzo lento la pistola e premo il grilletto con la mano sana. Il proiettile colpisce un portavaso su un balcone del primo piano e il Marinaio viene messo momentaneamente fuori gioco da un pesante vaso di gerani che gli cade in

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testa. Amandine corre a recuperare la sua pistola e ci mettiamo a correre ancora. Bel colpo, mi dice, solo la prossima volta prova a non chiudere gli occhi. Poi mi indica la cima di un campanile poco lontano: se riusciamo ad arrivare fino là, siamo salvi. E ci riusciamo. Entriamo nel portone di una vecchia casa senza ascensore. Amandine apre la porta di uno degli appartamenti e mi spiega che è la casa di una sua amica, che viaggia spesso per affari e le lascia le chiavi per dare da mangiare ai pesci. In effetti c’è un acquario polveroso nell’angolo della stanza. Mi butto sul divano, mentre Amandine si lava la faccia nel lavandino dell’angolo cottura. Appena riprendo fiato mi guardo un po’ in giro. La tua amica non ce l’ha un televisore? No, niente tv, né elettrodomestici, è fissata con i campi elettromagnetici. Ci credo che è sempre fuori casa, allora. Bevo la birra calda che Amandine mi porge, e mi sembra buonissima. È strano, tutti quegli spari là fuori e sentirsi così... Così vivi? Mi chiede lei. Lo so, è strano. Quando mia madre è morta sono corsa da Claude e abbiamo fatto l’amore per tre giorni di seguito. Mi va di traverso la birra e tossisco. Allora lei, seduta sul tappeto di fronte a me, mi racconta tutto. È stato mio suocero ad uccidere la sua mamma. Lavorava per lui. Era la sua preferita, qui a Nizza. Amandine pensa che lo amasse persino, quel bastardo. Forse era solo riconoscenza per i regali che le faceva, o perché lui era un uomo così potente, che faceva paura a tutti. Non lo vedeva quasi mai, ma sapeva che era lui il suo papà, la madre le aveva insegnato l’italiano perché diceva che un giorno sarebbero andate a vivere insieme a lui. Poi la mamma ha iniziato ad invecchiare, si sentiva vecchia ma aveva solo 35 anni, però i clienti importanti cercavano le diciottenni, e i regali non bastavano più. E lei voleva che la bambina studiasse, così ha iniziato a chiedergli più soldi. Diceva di voler andare in Italia a cercarlo. Durante la sua ultima telefonata era arrabbiata, urlava. Poi è uscita e le hanno sparato. Un cliente, ha detto la polizia. Non lo hanno mai trovato. Perché nessuno lo ha mai cercato, una prostituta in meno, dove stava il problema? Viene qui ancora ogni tanto a cercare Amandine. Perché ci tiene, dice. Ma in realtà è solo per essere sicuro che tenga la bocca chiusa. Mi gira la testa. Mi dispiace così tanto per la storia triste di Amandine, e nello stesso tempo mi piace lei, che racconta a testa alta, sforzandosi di non versare una lacrima. E poi quasi mi vergogno del piccolo senso di trionfo che provo: una ragione c’era se quello mi stava così antipatico! Intanto Amandine si è alzata e mi dice: mettiamo un po’ di musica. Non vedevo un mangiadischi dal settantanove, e m’ero scordato di quanto fosse calda la voce di Lou Reed. C’è un mazzo di carte sul tavolino. A cosa sai giocare? chiede Amandine. A tutto. Allora per quasi due ore le faccio vedere i migliori giochi di prestigio che conosco, lei ride e mi chiede come è possibile che uno tanto bravo con le carte sia riuscito a perdere tutti quei soldi. Ad un certo punto mi bacia. Forse perché è stufa dei giochi di prestigio, o per quella storia del sentirsi vivi, oppure perché non era mai stata tanto tempo lontana dal suo compagno carceriere. O forse io le piaccio davvero. Mi vengono in mente gli amici del bar, che ogni giorno raccontavano per filo e per segno le loro storie di donne, secondo me mezze inventate, e parlavano di cameriere, commesse o signore incontrate in autobus, e se io me ne stavo un po’ distratto ad ascoltare senza dir niente credevo fosse soprattutto perché non avevo un granché da spifferare. Ora, invece, Amandine è così bella e intelligente e dolce che, a conferma che sono davvero un gentiluomo, di quello che succede in questa lunga notte non racconto proprio niente.

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Il sole entra prepotente dalle imposte lasciate aperte. Sorrido, ancora un po’ stupito di trovare Amandine accanto a me. Lei mi dà un bacino e mi dice: dobbiamo andare via. Io vorrei rimanere qui per sempre, ma lei mi ricorda che se Claude ci scopre insieme, stavolta mi ammazza davvero. Motivato, mi alzo in fretta. Torno a casa e, appena sistemate le cose con Claude, ti vengo a cercare. Stai attenta, dico. Anche tu.

Il Samurai controlla l’indirizzo sul biglietto sottratto al portafogli di Giacomo. Ecco la pensione. Ferma la macchina e aspetta. Accanto a lui, il Sentimentale tiene la pistola in pugno. Ogniultimatuméscaduto. “Peccato doverlo ammazzare già oggi, mi piaceva stare qui. Belle spiagge, locali divertenti, un mucchio di turisti, ragazze gentili. Mi piacerebbe una fidanzata francese, così la vengo a trovare. Ehi, mi sono abbronzato più di te, guarda!” Il Samurai non risponde e rimane con sguardo fisso sulla porta d’ingresso. “Sai, l’altro giorno, quando gli ho spezzato le dita, gli ho detto che saremmo andati da sua moglie.” “Perché? Tu sai dov’è?” L’altro scuote la testa: “Macché, l’ho detto solo per spaventarlo un po’ di più. Ma quello niente, non ha pagato. Poveraccio.” L’intera faccenda è per le forze dell’ordine, ora. Ma non avevo fatto i conti col mio francese. Infatti da mezz’ora sto cercando di spiegare quello che sta succedendo e questo poliziotto mi guarda fermo, impassibile, con gli occhi di ghiaccio. Alla fine me ne vado, esasperato. E io che all’università ho scelto russo come lingua straniera.

Al commissariato, in un angolo della stanza, due giovani italiani, con vestiti polverosi e manette ai polsi, aggrottano la fronte e guardano Giacomo uscire. “Era una specie di ritardato, quello?” “Sì. Oppure circola un nuovo tipo di droga.” “Averlo saputo prima.” Il poliziotto li apostrofa duramente. Loro provano a spiegare. In francese. Appena fuori dal commissariato c’è un ristorante dall’aspetto costoso. Sull’insegna, vicino alla scritta “Restaurant Le Matelot” vedo il disegno di un uomo pacioccone e sorridente, con giubba e berretto blu. Mi salta il cuore in gola. Ho capito cosa vuol dire il nome “Matelot” nel registro di mio suocero. Marinaio. Comincio a correre.

Nessuno si accorge che, dalla finestra, un’ombra scura sta entrando nella stanza vuota di Giacomo. L’auto dello sfregiato si ferma. Stridore di freni. “Je vais le tuer, ce salaud!” Claude scende, schiaffeggia Amandine e si precipita nella pensione. È armato. Amandine urla con le mani sulla faccia. Si sente uno sparo. Amandine corre dentro. Dalla loro postazione, i due killer rimangono a bocca aperta. “Chissà quanti debiti aveva, questo. Per forza non pagava.” Amandine entra nella stanza di Giacomo e corre verso l’uomo riverso bocconi sul pavimento. Lo solleva prendendolo tra le braccia, poi fa un salto indietro. L’uomo morente che la sta fissando non è Giacomo, è il Marinaio. Claude esce dalla pensione trafelato, salta sulla macchina e parte sgommando. Il killer Sentimentale estrae la pistola e spara alle gomme della macchina prima che questa sparisca dietro una curva. La macchina finisce contro un muro. Il killer Sentimentale si avvicina e mentre lo sfregiato si trascina fuori sanguinante, lo finisce col secondo colpo. In lonta-

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nanza si sentono le sirene della polizia. I due killer vengono ammanettati all’istante, con efficienza francese. “Prima di salutarti e di augurarti di non finire mai e dico mai nella mia cella, posso farti una domanda?” Il Killer Sentimentale annuisce sorridendo. “Perché lo hai ucciso? Quello non c’entrava con la nostra missione!” “Lo sai che non sopporto chi maltratta una donna.” I due escono di scena. Per sempre. C’è tanto di quel casino di fronte alla pensione che nessuno fa caso a me. Corro in camera. Amandine sta bene, grazie a Dio. Però piange e guarda l’uomo disteso, appoggiato sulle sue ginocchia. Il pavimento è pieno di sangue. E pensare che mi incazzavo se mi dicevano che ti somigliavo, mormora il Marinaio. Gli dico di non parlare, gli stringo la mano e gli dico di resistere, che chiamo l’ambulanza. Lui fa cenno di no, fa sempre più fatica a parlare, ma cerca lo stesso di chiedermi scusa. Ha fatto il possibile per tenermi al di fuori di tutto questo, dice. D’altra parte, era sotto contratto. Mio suocero lo aveva aiutato, a modo suo, tanti anni fa. E lavorare per lui era diventato l’unico modo per ripagarlo. Insomma, non ero certo l’unico ad avere debiti. Si affanna e con la voce ormai ridotta a un rantolo mi dice di scappare: nessuno che conosca la verità resta vivo. Mi sforzo di non piangere e non tremare e con la mano chiudo gli occhi del mio amico, adagio il corpo sul pavimento e con Amandine esco dalla stanza. In strada c’è il finimondo. Claude è a terra, la macchina di Amandine distrutta contro un muro. Lei si inginocchia e inizia a urlare. Io provo a metterle una mano sulla spalla e balbetto un po’, non so cosa si deve dire in queste occasioni, poi lei mi guarda, disperata, e dice che non sta piangendo per lui, perché per quattro lunghi anni ha pregato che lui morisse, ogni giorno. Piange per la macchina. Non potrà più lavorare! Io le do ancora una carezza, poi penso che devo fare una cosa e mi allontano in fretta. Questa volta il portone della villa è socchiuso. Quando entro nel salone, mio suocero è lì, seduto con una tazzina di porcellana fine tra le mani. Mi sta aspettando. Caffè? Faccio cenno di no, e mi siedo, teso e sudato. Dico: so tutto. Lui non si scompone affatto: toh, un genero giustiziere. E cosa intendi fare, con quella? Vuoi finire i tuoi giorni in prigione, per cosa, per avere ucciso un pensionato con l’hobby del giardinaggio? Non rispondo e metto il dito sul grilletto. Allora si fa serio. Ci sono i miei uomini tutto intorno alla villa, dice. Se mi uccidi, muori subito anche tu. Io non gli rispondo. Ma ecco una voce dall’altoparlante: Signor Rossotti, esca con le mani in alto, la villa è circondata! Mio suocero si alza e, sempre sotto la mira della pistola, va alla finestra dove scorge i suoi uomini in manette che salgono sulle macchine della polizia. Poi la porta si spalanca ed entrano due poliziotti con i mitra spianati. Lo portano via. Io rimango ancora nella stanza, poso la pistola sul tavolo e tutto inizia a girarmi intorno. Devo uscire. Fuori si è radunata in fretta una vera folla. Esco e vengo abbagliato dai flash. Mio suocero cerca di raggiungere i microfoni dei giornalisti, parla di errore clamoroso, poi di complotto. Ma i giornalisti vogliono me. L’eroe. A me gira ancora un po’ la testa e rispondo un po’ confuso alle prime domande. Ma ci si abitua presto ad esser personaggi pubblici. Vedo la telecamera di una tv italiana e mi avvicino all’intervistatore che mi chiede: quando dice che era qui per caso, intende dire che era in vacanza? Sì, voglio dire, no, veramente ero qui perché mia moglie è sparita. Cerco la telecamera con lo

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sguardo. Ne approfitto per fare un appello, magari lei mi sta vedendo, oppure quelli che la tengono prigioniera...

Nella stanza di un residence, una donna stupita sta guardando Giacomo in televisione. “Manuela! C’è tuo marito in tv!” Manuela arriva di corsa, con gli occhi un po’ rossi e in mano un abitino estivo appeso ad una stampella. “Scusa, non gliel’avevi detto che venivi a Mentone per il corso di aggiornamento?” “Ma perché, perché non mi ascolta mai quando parlo!?” Manuela sbuffa. “Eppure non solo gliel’ho detto, ma gli ho anche lasciato un biglietto sul tergicristallo della macchina, la mattina che sono partita... Sai, ero così arrabbiata con lui e gli ho scritto di non telefonarmi, che volevo approfittare di queste tre settimane per pensare un po’ al nostro matrimonio, fare un bilancio...” “Le cose che si dicono, insomma.” “Già, le cose che si dicono.” Ma dove si era cacciata questa? Tutto ’sto casino... I giornalisti la accerchiano, il cronista ha i capelli arruffati e parla di colpo di scena sensazionale. Manuela non sembra così contenta di vedermi mentre io, l’eroe che ha scoperto il vertice della più grossa associazione a delinquere operante tra Francia e Italia, sono troppo frastornato per capire. La abbraccio, stranito. Ci sarà tempo per le spiegazioni. Ora ci fanno segno di salire sulla macchina della polizia, ma un’altra giornalista mi ferma e mi chiede di poter fissare un’intervista per “Novella Oggi”. No, grazie, non mi interessa. Ci possiamo accordare sul prezzo dell’esclusiva. Prezzo? Scendo in un lampo. Dopo pochi minuti risalgo in macchina con un appuntamento per l’intervista il giorno dopo ed un assegno da cinquanta milioni in tasca.

Monica, seduta al bancone del bar in compagnia di un uomo con capelli neri e baffetti da seduttore, guarda il telegiornale con gli altri clienti. Quando appare sullo schermo anche Manuela, viva e vegeta, Monica non riesce a nascondere il suo disappunto. “Oh no, che sfiga!” Ci hanno dato una stanza nel più lussuoso albergo di Nizza. Manuela ha passato un’ora e mezza nell’idromassaggio, io guardo le corse dei cavalli su una tv satellitare. Quando Manuela esce dal bagno cambia canale e vediamo un vecchio film d’amore. Non capisco niente, dice mia moglie. Ma tu lo insegni, il francese, le faccio notare, cortese. Sì, ma qui vanno troppo veloci. Ci credo che non fa progressi, penso io, se va a studiare francese a Mentone, dove anche i cani parlano italiano. Però non dico niente e propongo di far due passi, magari per un gelato. No, è troppo stanca. Con tutto quello che ci è successo le è venuto un gran mal di testa. Puoi uscire tu, mi dice. Figurati, sto qui con te. No, davvero, tanto io dormo. Va bene, faccio solo un giro per prendere un po’ d’aria. Fuori, guardo Nizza di notte per l’ultima volta e respiro ancora una volta la libertà che sta per finire. Passeggio sul lungomare e penso ai fatti miei. Non mi accorgo nemmeno di essere arrivato ancora una volta di fronte al casinò. Mi tocco il portafoglio e penso: trentotto per la baronessa, ne restano dodici. Entro senza fretta, cambio un po’ di soldi, senza esagerare, e vado al tavolo verde. Sto per fare la prima puntata quando vedo Amandine. È seduta al tavolino con un signore grasso che le parla e le sorride, mentre lei si guarda intorno con occhi tristi.

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Nessuna puntata, mi riprendo le fiches e torno di corsa alla cassa per riavere indietro tutti i soldi. Amandine sorride quando le faccio un gesto da lontano, dice qualcosa nell’orecchio del signore, prende la borsa e corre ad abbracciarmi. Usciamo di qui, le dico. Sul lungomare, finalmente possiamo passeggiare con tranquillità. Si è alzato un po’ di vento fresco e ce lo godiamo senza troppe parole. Poi le chiedo cosa farà. Lei mi spiega che il contratto d’affitto per fortuna era a nome suo. E al locale sono stati comprensivi. Cerca di non apparire preoccupata. Le do i dodici milioni, le racconto dell’intervista. Posso saldare il debito, e questi avanzano. Può comprarsi una macchina. Usata, ammaccata, certo. Lei non vuole accettare, io insisto, e poi le spiego che se non l’avessi ritrovata, forse li avrei persi tutti nel giro di una serata. Allora poi te li restituisco. Vengo a cercarti in Italia e... Si interrompe e mi chiede seria quando parto. Domani. Lei non dice niente e camminiamo per un po’ in silenzio. Poi mi abbraccia e mi chiede perché non resto lì con lei. Io la guardo, triste, e le rispondo che devo andare a casa. Ma torno a trovarla un giorno o l’altro, le prometto. Le do ancora un bacio sulle labbra prima di avviarmi all’hotel. Manuela parla durante tutto il viaggio di ritorno. C’è Cristian che in vacanza si è preso l’allergia a chissacché, ci sono gli interrogatori, le riunioni a scuola già a fine agosto e questo e quello. Io ho male alla testa. Sull’autostrada il sole picchia ma quando ci avviciniamo a casa il cielo torna al colore grigio così familiare e dell’estate rimane solo questo caldo appiccicoso. Mi sento davvero a casa solo quando entro al bar. Tutti applaudono, c’è persino uno striscione attaccato al muro. Non dico a nessuno che hanno sbagliato il mio cognome e offro da bere a tutti. Il barista Antonio ha un piede fasciato, cammina appoggiato ad un bastone, ma non ha perso il buonumore. Ti dicevo io di stare più attento, perché la fortuna è cieca ma la sfiga è slovacca! E poi giù a ridere come un matto. Questa volta rido anch’io per festeggiare. Poi mi accorgo che si sente la mancanza del Marinaio. Guardo verso la saletta, mentre Antonio smette di ridere. Lentamente, vado di là. La baronessa sta giocando con un paio di tipi mai visti prima. Non sembra stupita di vedermi. Io le do la busta con i soldi e lei ringrazia, educata. Guardi che me li voglio riprendere, dico. Anche subito. Chemin de fer? Mi siedo al tavolino. Qualche curioso si è già assiepato intorno. Io accendo una sigaretta e sfoglio un otto. Comincia la partita.

Maria Daniela Raineri, laureata in Scienze Politiche all’Università di Torino, scrive racconti e sceneggiature ed ha collaborato ad alcuni cortometraggi come assistente di scena e segretaria di edizione. Con il soggetto per commedia Spirito Evaporato è stata finalista al Premio Solinas 2003. I suoi riferimenti cinematografici oscillano pericolosamente tra Buñuel e Verdone.

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Amandine corre a recuperare la sua pistola e ci mettiamo a correre ancora. Bel colpo, mi dice, solo la prossima volta prova a non chiudere gli occhi.

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ANCHE IL GRANO CAMBIA COLORE di Fernanda Moneta PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMATICO/GUERRA

Il dolore più acuto che le guerre recenti hanno lasciato, dalla Russia al Messico, dallo Sri Lanka alla Serbia, è la tragica sorte dei bambini che sopravvivono. O perché sono stati reclutati o per la necessità di difendersi, questi bambini senza casa e senza famiglia, non hanno altra scelta che quella di combattere e assicurare così che l’odio cieco, di cui non sono veramente coscienti, si insinui anche nella loro vita adulta. Anche il grano cambia colore è un progetto su cui scommettiamo, per la sua originalità e per la forte volontà dell’autrice di raccontare una storia che finora non si è vista sugli schermi.

La sofferenza per la perdita dell’identità familiare, le dinamiche di gruppo sfalsate dall’emergenza, il contatto sempre più ravvicinato con le armi e la morte contribuiscono a formare un percorso iniziatico, vissuto a metà tra favola e reale, che trasforma in guerrieri un gruppo di bambini dai 5 agli 11 anni. In tutto il mondo, i bambini coinvolti nella guerra sono una moltitudine. Soggetti attivi, combattenti o spettatori forzati, carne da macello degli attentati altrui. Mio padre aveva 5 anni quando attraversò l’Italia a piedi con mio nonno, dormendo sotto i bombardamenti, attraversando i posti di blocco. Quella era la Seconda Guerra Mondiale, ma la guerra è la guerra. Al di là delle strategie e degli atti d’eroismo, della politica e dell’economia, è un teatro dove la gente muore, dove regnano l’odore del sangue e ferite indelebili. Può resistere un bambino a tutto questo? Violati, traviati da una realtà troppo dura per essere vissuta anche dagli adulti, oggi i bambini di guerra si rifugiano in un mondo letto in chiave televisiva, di frasi fatte prese dai telefilm, di azioni viste migliaia di volte sul piccolo schermo, ma di cui non hanno esperienza concreta. L’effetto che ha la televisione sul mondo reale violenta le loro coscienze. Perché non è lo shock il problema più grave, ma l’abitudine alla violenza. Fernanda Moneta

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A Luigi, il testimone del cambiamento. Bang! Bang! Bang! Nella tv, un apparecchio modernissimo collegato a un’antenna satellitare, Hutch corre, pistola in mano, all’inseguimento di un malvivente. Seduto per terra, Zesi, 5 anni appena compiuti, guarda a bocca aperta, telecomando in mano, l’agile corsa dell’attore americano. Hutch gli piace perché vince sempre. “Zesi! Abbassa il volume!” Uffa! La nonna borbotta sempre quando lui guarda Starsky e Hutch in televisione. “Che c’entriamo noi, con gli Stati Uniti?” dice, come un disco rotto. “Ai miei tempi, i bambini giocavano, non stavano tutto il giorno a guardare quel coso. Hai capito, Zesi? Vai fuori a giocare!” Ma lui non la ascolta. E allora la nonna arriva e lo solleva di peso, sculacciandolo. Fine delle trasmissioni. Zesi frigna un po’, ma solo per scena. La nonna non gli fa mai male, quando lo sculaccia. Però così ci scappa sempre qualche biscotto dopo. Buoni i biscotti della nonna: fatti in forno a legna nel cortiletto dietro casa, una cascina vecchia di cent’anni con ancora le scritte comuniste sulle pareti esterne. Nessuno ha pensato di cancellarle. E poi perché? Tanto, da quel paesetto tra le montagne non passa mai nessuno. Fuori, suo malgrado, Zesi guarda il cielo. Il clima è sereno e i bambini che come lui non vanno a scuola o non lavorano giocano nell’aia. Insomma, la vita di tutti i giorni procede. È il tempo della mietitura e la guerra sembra lontana. Nei campi c’è troppo lavoro per poter mandare sempre i figli a scuola; per questo, i presenti sono solo sei: Garbos e Zaric di 7 anni, Milan di 8, Ivan, Dragan e Neda, l’unica femmina, di 11. La maestra, Anna, sa bene dove sono gli assenti. È arrivata da meno di un anno al villaggio, fresca di diploma, cittadina fino al midollo, ma rispettosa dei ritmi contadini. Ha scelto lei di insegnare in una scuola rurale: per passione, per fede, per avventura. Sempre più forte, un rombo in cielo fa alzare le teste di tutti. Anna e i bambini si precipitano alla finestra. Punti neri ordinati come uno stormo migratorio fuori stagione si avvicinano. I bimbi non hanno mai visto un aereo se non in tv, così applaudono allegri e fanno “ciao, ciao” con la mano. Anche Anna è a naso insù, affascinata. Ha sempre amato gli aerei, le ricordano la libertà. Anna si sta perdendo in quei pensieri quando, come un lampo, arriva un’intuizione e si accorge che quelli sono B-52: “Presto! Tutti di sotto! Andiamo! Dragan, Neda, Ivan! Forza, Zaric, Milan, Garbos, forza!” Di corsa li porta nel seminterrato: un rifugio ricavato in una grotta su cui è stata costruita la scuola. Dragan, Milan e Zaric vanno alla finestra che dà sull’aia, i volti premuti contro l’inferriata. Fuori, le nonne cercano di mettersi in salvo, ma è tardi. Si sente già il sibilo delle bombe. Coni di terra si alzano in cielo. Echeggia un urlo collettivo. I bambini sono terrorizzati. Tutti sono terrorizzati. “No, no, non fate così. State buoni, sedetevi a terra, lì contro il muro, da bravi.” Generalmente la sua voce ha il potere di calmarli, ma questa volta no. Uno ad uno, si siedono. Al solito, Dragan non ci sta a fare il buono. Appeso all’inferriata, si dondola come una scimmia. “Pezzi di merda! Bastardi!” urla. “Dragan! Va’ a sederti con gli altri! Non dire parolacce!” Accucciato in un angolo, Garbos se la sta facendo addosso, tremante. “Oh, guardate quel piscia a letto di Garbos!” dice Zaric. “Piscia a letto! Piscia a letto!” gli fa eco Milan. “Basta! Smettetela!” urla Ivan, facendoli zittire. Neda prende la mano di Anna e si accorge che trema, mentre prega: “La Sua Protezione è sufficiente per voi. Chi desidera i favori di questa vita, sappia che Lui solo ha il potere di rendere gradite agli uomini la vita mortale e quella ultraterrena. Egli osserva ogni azione umana.” Cullati da queste parole, chiudono gli occhi e nella fantasia il seminterrato si trasforma nel ventre di un animale dalla digestione difficile. Boati eterni; poi, finalmente, il silenzio. Il rifugio ha resistito. Della scuola, invece, non è rimasta traccia. Il fumo è così spesso che offusca la vista. Quello che era un villaggio ora è il teatro della morte. Istupiditi, i bambini stanno fermi, il cuore sospeso: tump, tump, tump... Poi tutti via di corsa

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verso i campi disseminati di enormi nidi di terra: “Mamma! Papà! Nonna!” Le urla riempiono l’aria, intrecciandosi e confondendosi. A tutte risponde il silenzio. Anna cerca tra i detriti. Dai resti della cattedra estrae il suo diario, impolverato, consunto, ma c’è. Tutti i suoi ricordi, i suoi pensieri, le sue poesie, i suoi racconti, il suo unico amico. Nel suo cuore spera che altri adulti abbiano trovato rifugio da qualche parte. Sì, ma dove? “C’è qualcuno?!” urla. Sta già convincendosi che siano tutti morti quando, da sotto le macerie, arriva il pianto di un bambino. “È qui, è vivo!” urla, mentre scava a mani nude, in ginocchio. Il piccolo Zesi è stato salvato dal corpo della nonna, steso su di lui. Ma ora, il peso della donna e dei calcinacci che la ricoprono rischiano di soffocarlo. Anna cerca di fare in fretta. Eccolo! Ce l’ha fatta. Ora, fuori dalla terra. Quant’è leggero! Anna lo prende in braccio e lo porta via. Gli altri intanto saltano da un cumulo a un altro, entrano ed escono dalle case diroccate. Improvviso, l’urlo di Neda. È Dragan che accorre per primo. La bambina è pietrificata davanti al cadavere di una donna. La gamba destra non c’è più e tutto il corpo è coperto da una patina di polvere e sangue: “Mamma… Mamma…” Neda continua a ripetere, piangendo. Dragan vorrebbe dirle che gli dispiace, ma stringe i pugni e resta a guardare. Intanto, arrivano Anna, Zesi e tutti gli altri. Ivan ha in mano una bambola, trovata chissà dove. La maestra stringe a sé Neda, mettendole una mano sugli occhi, ma la bambina, che è un tipo orgoglioso, si divincola dall’abbraccio. Ivan ne approfitta per darle la bambola. “Che bastardo, lecchino e merdoso!” pensa Dragan, tirando calci ai sassi. Uno, due, tre... all’improvviso sente che il piede gli fa male e il dolore fisico è una chiave che apre la porta di un giardino segreto che non credeva esistesse. Le lacrime che colano sulle guance lo sorprendono. Si vergogna della sua debolezza. Corre a nascondersi in una buca scavata da una bomba. Perde l’equilibrio, ruzzola giù. Finalmente piange. Che è successo? Perché è successo? Cosa sarà di me, di noi, del mondo intero? Piange, fino a che non è sfinito e quasi si addormenterebbe lì, se non fosse che sente Anna urlare il suo nome. L’orgoglio lo fa alzare, reindossare la maschera. Dragan la bestia è tornato. Quando torna sui suoi passi si accorge che Neda sta in piedi, davanti al corpo della madre morta. È evidente che non la vuole lasciare. “Neda, dobbiamo andare, ora.” Anna lo dice dolcemente, ma senza troppa convinzione. La bambina non risponde, scuote solo la testa in un no infinito. Stringe al petto la sua nuova bambola, così forte che se fosse viva le toglierebbe il respiro. “Neda, per favore.” Ci vuole quasi un’ora prima che Neda si convinca a muoversi. Anna ha coperto il corpo straziato di sua madre con un lenzuolo trovato tra le macerie e ha recitato una preghiera. Ma anche se sta camminando, Neda sembra un automa. Le linee elettriche e telefoniche sono saltate, il pozzo è crollato, le case distrutte. Persino il grano ha cambiato aspetto. Rosso del sangue dei contadini. Imbastardito da carni dilaniate, in una macabra offerta al dio della guerra. Scavare tra le macerie, ammesso d’averne la forza, vorrebbe dire portare alla luce cadaveri da riseppellire. Sopportarne la vista, l’odore… Lungo la salita che porta lontano da quel luogo di dolore, Anna li guarda passare, uno ad uno, con le facce serie e lo sguardo confuso: i suoi bambini. “Ancora non se ne rendono conto, ma sono soli al mondo,” scrive Anna. “Meglio allontanarsi il più presto possibile, oltre le montagne, verso la città più vicina. Meglio dimenticare. Una volta in cima, nel punto da cui si può vedere il villaggio per l’ultima volta, si fermano un attimo a riprendere fiato e a pregare per i propri cari. È il loro inconsapevole addio al tempo dei giochi e alla vita di fanciulli. Il sentiero profuma come se nulla fosse accaduto.” Anna smette di scrivere, chiude il diario e lo ripone con la bic nel suo fagotto. Dietro di lei, Neda la sta osservando: “Cosa scrivi, maestra?” Anna ha un sobbalzo: non si era accorta di essere osservata. “Questo è il mio amico più grande, ci scrivo le cose che voglio ricordare... come le voglio ricordare,” dice Anna. “Per me scrivere è come parlare col mio papà, che ora è in cielo. Lo capisci questo, vero?” “Sì. Anche la mia mamma è in cielo, ora. Per favore puoi scrivere a tuo padre di cercarla e vedere come sta?” Anna sorride. Neda è la sua preferita. “Sì, cara.” Il sorriso di Neda la consola per un attimo di tanta tristezza. La bambina si alza e si allontana. In disparte, silenziosa, Neda si mette a raccogliere fiori;

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vuole fare un regalo alla sua maestra, qualcosa che ricordi la vita ma anche la morte: una coroncina di fiori, come le ha insegnato la sua nonnina cara, che ora la osserva dal cielo. Neda li sceglie con cura uno ad uno: quello giallo profumato, quello bianco a campanella, quello celeste che sua madre chiama “l’occhio di Dio”. Chiama... chiamava... Neda si ferma. La mamma è già con la nonna? Ha già incontrato il papà di Anna? Quanto tempo ci vuole per far arrivare un messaggio ai morti? Perché il cielo è grande, più grande del mondo intero... Neda alza gli occhi e guarda le nuvole. Ecco, quella bella, a forma di piuma: quella sicuramente è la nuvola dove la mamma si sta riposando. Dragan non perde di vista Neda neanche per un attimo: com’è carina, nonostante la sofferenza! Ivan raccoglie un fiore rosa e lo porge alla bambina con un sorriso. “Ivan bastardo, lecchino merdoso”: con un balzo, Dragan lo spinge a terra. Poi afferra il fiore dalle mani di Neda e lo butta via. Ivan si protegge il volto. Non è la prima volta che le prende da Dragan, e sa che è più forte. A Dragan brillano gli occhi: la violenza è la sua essenza più sincera. In effetti, a picchiare ci si diverte, per questo è imbattibile. Così, Ivan non oppone resistenza, aspettando che un adulto intervenga. Questa volta, accorre Anna, urlando: “Dovreste comportarvi meglio! Per rispetto alla memoria dei vostri genitori!” Ivan non ci aveva pensato: non ci sarà nessuno a casa che lo abbraccerà per consolarlo, ed anche Dragan non sarà punito. Non è più tempo di punizioni. Già. Stringe i pugni. È sera. Anna ha deciso di fare campo ai piedi di un masso che li ripara dal vento. I bambini hanno costruito giacigli di foglie su cui stendono vecchie coperte che a scuola servivano a giocare. Al centro del cerchio accendono un falò. Anna sa che il fuoco può segnalare la loro presenza a chi li ha bombardati. Loro, però, hanno bisogno del fuoco. Troppo stanchi e depressi perché possano permettersi d’essere prudenti. Anna passa le dita tra i riccioli di Zesi che ha il capo abbandonato sul suo grembo e, rasserenato dalle carezze, dorme. Cerca di ricordarsi come ha fatto a ritrovarsi in una situazione del genere. Non ci riesce. Tutto fila liscio nella sua memoria fino al momento in cui ha fatto domanda per un posto di maestra in un villaggio rurale. Poi il tempo è passato, le cose sono accadute. La guerra le è come passata sopra, come una slavina che ti prende all’improvviso e trascina con sé, trasformandoti in un pezzo di ghiaccio. “Resisterò a tutto questo freddo: il mio cuore non morirà. Ho visto tante cose nella vita, cose orrende, ma anche magnifiche. Non permetterò che il peggio mi inquini l’anima. E loro, li porterò in salvo con me.” Anna chiude il diario, poi comincia a raccontare una storia: “C’era una volta un villaggio confinante con una foresta e circondato da alte colline. Un paese dove ognuno divideva il cibo con i vicini e tutti vivevano in pace.” A quelle parole, Ivan prende del cioccolato dallo zaino e ne porge un po’ a Dragan. Anna lo guarda: Ivan è un politico nato. Sfrutta ogni occasione per esaltare la sua immagine di buono. Ma Anna lo sa che il suo cuore è malato di paura. Ivan è un vigliacco e tutte quelle moine le fa solo per il terrore di essere odiato: non sopravviverebbe un attimo se si rendesse conto che un suo superiore, una maestra, un genitore non lo amano. E così, li blandisce, comportandosi come crede che gli altri si aspettano da lui. Anna in effetti odia la gente così. Sono quelli che ti ritrovi contro nei momenti di pericolo, quelli disposti a venderti al diavolo pur di respirare un attimo in più. Animali da sopravvivenza che è pericoloso portarsi dietro. Ma lei ha scelto per se stessa la missione di insegnare. Ed è proprio su gente così che il suo lavoro è prezioso. Dragan vorrebbe dire a Ivan di no, che se lo tenesse il suo pezzo di cioccolato, tanto a lui non piace. Ma non è vero: lo afferra e fa per addentarlo, ma... che profumo! Si ferma in tempo e lo porge a Neda. La bambina gli sorride, ne stacca un pezzettino e lo mette in bocca con grazia. Dragan guarda Ivan, beffardo: “T’ho fregato, ipocrita,” pensa. “Oh sì! Stavolta ho vinto io!” Prima che i raggi del sole arrivino all’orizzonte, si svegliano di soprassalto alle urla di Dragan. Una pecora gli sta leccando la faccia. Con un balzo è in piedi a tirare sassi, urlando come un pazzo. Non si accorge che sta calpestando la coperta di Neda. Senza una parola, la bambina la scuote e la ripiega con cura. Dragan non cambierà mai. È superficiale e grossolano. Eppure, eppure… Un fischio lungo seguito da tre brevi e il belare di un gregge annunciano che ci sono visite. Il pastore è poco più

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grande di loro, la pelle bruciata dal sole, i capelli neri: “Che fate qui? Chi siete? Da dove venite?” Parla a mitraglietta. “Stiamo andando in città,” risponde Anna. Il pastore si illumina in volto: “Oh! Si fa la stessa via, ma in sensi opposti!” E scoppia a ridere come se avesse detto chissà che di divertente. “Io sono Vuk e loro, le mie pecore. Le sto portando al di là delle colline da cui venite voi.” Anna lo guarda: “Da dove veniamo noi c’è stato un bombardamento. Forse è meglio se cambi direzione.” Vuk fa spallucce: “Oh, la morte sa già dove aspettarmi. Io non posso farci niente. Conosci quella canzone che fa...” Vuk tira fuori da una tasca del giubbotto un’armonica e improvvisa la musichetta allegra di una canzone italiana, Samarcanda. Garbos inizia a fischiettare. Neda, a cantare: “Ridere ridere ridere ancora ora la guerra paura non fa...” Anna convince Vuk a fare un baratto: una pecora in cambio di un paio di scarponi comprati in città, ancora come nuovi. I bambini lo osservano mentre affila il coltello e poi sgozza la pecora che la maestra ha scelto. Un taglio netto, per non farla soffrire più del necessario. L’animale rantola, cerca di liberarsi, ma la stretta del pastore è implacabile. Alla fine le membra si abbandonano, morte, mentre il sangue sgorga copioso dalla gola incisa e cade in una ciotola. “Se l’animale si spaventa, la carne diventa dura,” spiega Vuk. Alza il coltello al cielo e con fare rituale incide la testa, staccandola dal corpo dell’animale. “Ringraziate questa bestia che ha sacrificato la vita per noi,” dice Anna, che è cattolica ortodossa e che non può sopportare tanta liturgia nel togliere la vita a un essere vivente. La morte è morte. Quando deve venire, prima viene e meglio è. Il rito della sgozzatura è crudele, anche su una pecora. Anna il Corano l’ha letto, ma in parte non l’ha capito e in parte non l’ha condiviso. Fortunatamente ha abbastanza fame da controllare i conati di vomito. Dopo la fase della scuoiatura, Vuk prende una piccola accetta e fa a pezzi la carcassa. La disossa. Ora la carne è pronta per essere cotta. Le interiora le pulisce alla bell’è meglio e le ripone, la pelle la arrotola: alla prima occasione laverà tutto per bene. Vuk ha finito. Ha fatto un bel lavoro ed è stato veloce. Sì, è proprio soddisfatto di se stesso! “Non va buttato niente della pecora.” Vuk solleva la ciotola piena di sangue e la porge ad Anna: “Vuoi bere prima tu?” La cittadina che è in lei dice di no, che grazie, ma non ha fame, cioè sete. Vuk ride e beve. Poi passa la ciotola ai bambini, che bevono tutti. Per togliersi d’impaccio, Anna infilza i pezzi di carne sugli spiedi. Poi ognuno prende il suo e lo mette sul fuoco. Ora tocca aspettare che la cena sia cotta. “So leggere il futuro nelle ossa! Qualcuno vuole provare?” chiede Vuk. “Davvero? Oh maestra, dai!” “Non credo a queste cose. E poi sapere cosa ci accadrà, non ci aiuta,” dice Anna, poi scuote la testa, ma l’entusiasmo dei bambini è così grande che non resiste per molto tempo a dire di no. “E sia! Però lo facciamo una volta sola e leggiamo il mio, di futuro. Siete d’accordo?” È sì, ovviamente. “Silenzio, ora. Tutti seduti. Devo concentrarmi per preparare ciò che serve.” Alla richiesta di Vuk, Anna e i bambini tacciono. Con un bastone, il pastore fa rotolare le ossa dentro e fuori la brace. Quando sono perfettamente abbrustolite, le fa raffreddare, le afferra e le lancia. Resta ad osservare per un po’, poi: “Camminerai verso una città fantasma portando con te la vita e la morte. Incontrerai degli sconosciuti che cercando di uccidere ti salveranno la vita. Ma questo obbligherà alcuni dei tuoi figli al sacrificio. E sarai tu a dover decidere se trasformare l’odio d’amore in amore puro.” “Io non ho figli!” Anna parla come se un coltello le affondasse nelle carni. “Avrei voluto averne ma non ne ho. Avrei voluto sposarmi con un uomo che mi amasse. Avere una vita semplice.” Non lo sa perché sta dicendo quelle cose a uno sconosciuto che è poco più di un ragazzino. Le escono come acqua sporca da una fonte non utilizzata. Abbassa la testa per non far vedere che piange. “La carne è cotta!” annuncia Dragan che è andato a controllare. La notizia è accolta da un coro di “evviva” e il futuro di Anna passa in secondo piano. La ragazza tira un sospiro di sollievo. “Mmh! Che profumino! Ci pensiamo noi, vero Vuk? Voi state pronti a prendere il vostro pezzo. Attenti che

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scotta!” Il profumo della carne cotta fa venire l’acquolina in bocca. Tutti mangiano con entusiasmo, scherzano e ridono. Tutti tranne Anna, persa nei suoi pensieri. Vuk prende l’armonica e inizia a suonare una musichetta elettrizzante. La musica è un ponte ideale tra ciò che si ha dentro e non vuole uscire e ciò che resta fuori e non riesce ad entrare. Troppe emozioni a cui non si può dare un nome. L’aria è carica come quella che precede un temporale estivo. Garbos e Zaric sono i primi ad alzarsi per ballare. Frenetici, indiavolati, ingenui. Dio, come sono buffi! Fanno ridere tutti. Dragan tiene d’occhio Neda: vorrebbe che le sue gambe gli ubbidissero e lo portassero da lei. Ma Ivan è più veloce. Lei ha detto di sì, ora sta ballando con lui e gli sorride. Anna si accorge di tutto e prende Dragan per mano, coinvolgendolo in una serie di giravolte. “Sta diventando carina, Neda, vero?” butta lì Anna. Dragan resta muto. Con indifferenza, Anna chiede a Ivan di ballare e in cambio cede Dragan a Neda. La bambina si illumina di gioia. “Che hai da ridere? Sono buffo, eh?” le fa Dragan, burbero. “Sono contenta!” dice Neda, sorridendogli. “Embé, eri contenta anche prima, no?” Neda è radiosa: “No, ora è diverso. Ora ballo con te.” Gli occhi negli occhi, il mondo cambia e diventa meraviglioso. Dragan e Neda ballano fino a cadere esausti. Anna prende il suo diario dallo zaino e lo sfoglia. Deve scrivere una poesia. L’ispirazione è così, la prende di sorpresa. Si è imposta di assecondarla, perché ogni parola che passa dalla sua mente alla carta esce da lei e la lascia in pace per sempre: “Gente felice alle stelle gente felice ad anni luce gente felice sopra pianeti accesi. Comunicazione interrotta, oh vita! Ancora presagi: una vera calma di morte in cui non posso trovare riposo.” Uno scintillante tappeto si è disteso fino all’orizzonte ricoprendo il paesaggio di un viola profondo e gli alberi stanno muti, in contemplazione del cielo squarciato dallo splendore dei satelliti. È notte e i bambini si sono addormentati. Vuk estrae dal suo zaino una bottiglia di plastica, piena di quella che sembra acqua e la scuote, creando mille bollicine. “Sai cos’è questa?” Vuk ha uno sguardo furbo. “Acqua frizzante?” lo provoca lei. “No, no…” Vuk ride. “È acquavite, la fa mio padre. Bevi. Un goccio a quest’ora fa bene alle ossa.” Anna afferra la bottiglia e butta giù tutto d’un fiato. Il liquore è forte ma una volta esploso nello stomaco le dà la sensazione di essere più calma, al sicuro. “Non andare in città. Ho visto qualcosa nelle ossa che non mi è piaciuto,” continua Vuk. “La guerra ti segue. Ricomparirà durante il tuo cammino e sarà lì ad aspettarti.” Anna lo ascolta in silenzio, con rispetto, ma è evidente che non gli crede e che continuerà il suo viaggio: “In città ci sono più possibilità di sopravvivere. E poi non so dove altro potremmo andare.” Vuk le sorride. “Sì, sei testarda... Le ossa mi hanno detto anche questo... Tieni allora...Ti voglio regalare questa.” Prende una pistola a tamburo dal suo zaino e gliela porge. Anna si ritrae istintivamente. “Non avere paura. Avere un’arma non è un male se quando decidi di usarla non sbagli mira. Ma fa’ attenzione, perché le armi cambiano la gente. Guarda, ti spiego come si fa.” Né Vuk, né Anna si accorgono che Ivan è sveglio e sta osservando la lezione molto attentamente. “Com’è triste il momento degli addii! Arrivederci, piccolina! Ti voglio tanto bene!” dice Neda alla sua pecora preferita. Il pastore regala ad Anna una forma di pecorino. Lei, in cambio, gli annoda al collo una sciarpa rossa e gli stampa un grosso bacio sulla guancia tra gli applausi e le urla scherzose di tutti. Poi, restano a guardare mentre Vuk e il suo gregge si allontanano. “Le montagne sono abitate da alberi magici e animali parlanti. Se si ascolta bene, si sente cantare l’anima del bosco,” dice Anna. “Ora che abbiamo una pistola, potremo andare a caccia!” dice piano Ivan a Dragan. “Una pistola?” “Ssth, è un segreto. Vuk l’ha regalata alla maestra questa notte: li ho visti io, di nascosto.”

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“Uffa! Ci andavo a caccia col mio papà, io. E mi faceva usare anche il fucile,” dice Dragan, con fare da gradasso. “Beh, anche io so sparare!” fa eco Ivan, mentendo. Questo scambio di battute non sfugge alla maestra: “Non ho nessuna intenzione di usare questo ferro vecchio! È troppo pericoloso!” “Ma che male c’è ad andare a caccia?” “Un pezzo di carne vale il rischio di essere feriti? Mangeremo i frutti del bosco, le radici, se serve. Tanto troveremo presto un villaggio. Avanti, in marcia!” È categorica. “A me la verdura non va,” borbotta Dragan. “Già!” gli fa eco Milan. Garbos si ferma ad allacciare uno scarpone, poi si accorge di avere un sasso incastrato nella suola, comincia a dar colpi di tacco contro un tronco sradicato. “Non fare così. Potrebbe...” Anna non fa in tempo a finire che una vipera salta alla caviglia di Garbos. Niente di grave, grazie alle pedule, ma il bimbo urla come un pazzo. La vipera fa per scappare, ma Dragan la colpisce con un bastone, una, due, tre volte, finché non reagisce più. Anna si china a esaminare il polpaccio di Garbos per vedere se il morso è arrivato al muscolo. Niente di irreparabile, ma il bambino è sotto shock. “Stai tranquillo, dai, non è successo niente, vedi? Non è riuscita neanche a sfiorarti.” Ma le parole di Anna non ce la fanno a calmarlo. Quando Dragan è sicuro che la vipera è morta, prende un coltello a serramanico dalla tasca, lo apre di scatto, le stacca la testa di netto e la butta via. Poi raccoglie quel che resta dell’animale e lo mette in un sacchetto. “Che fai? Lo tieni?” gli chiede Milan, schifato. “Poi voglio buttarlo nel fuoco. Voglio vedere che si divincola.” “Fai schifo!” gli fa Ivan. Per tutta risposta, Dragan lo butta per terra e lo immobilizza. Poi prende la testa della bestia morta e cerca di ficcargliela in bocca. Ivan, terrorizzato, si dibatte, occhi e labbra ben stretti. La voce di Dragan gli arriva addosso come bava calda. “Codardo! Apri la bocca, se sei un uomo!” “Codardo coniglio! Codardo coniglio!” gli fanno eco Milan e Zaric. “Smettetela! Smettetela! Dragan!” Anna afferra Dragan per una spalla e lo stacca dal rivale. “Ora gli chiedi scusa, chiedi scusa a Ivan. Qui non ci sono codardi. E tu, di che hai paura? C’è anche una leggenda che dice che chi mangia il serpente diventa un guerriero invincibile.” Quella leggenda Anna se l’è inventata, ma è un ottimo diversivo. Ora il gruppo ha un rito da compiere: “Tutti in cerchio. Milan, Zaric, aiutatemi ad accendere un fuoco,” ordina Dragan, dandosi arie da capo. Fa gesti da demiurgo sulla carogna, poi la incastra tra due bastoni e la mette sul fuoco. La vipera si agita come se fosse viva mentre frigge nel suo stesso grasso. Fa veramente impressione. Quando è cotta, Dragan la divide in pezzi: uno a testa, come in un rito magico. Anche Zesi vuole il suo per essere un guerriero invincibile come Dragan e Ivan! I bambini stanno fermi, con il pezzo di carne in mano, guardandosi l’un l’altro. Uno, due, tre... Mangiato. “Non è male!” fa Dragan, ma dice una bugia. Zesi non ce la fa e sputa fuori. Gli altri inghiottono, ma in effetti, sì, la carne di vipera non è buona da mangiare. È quasi l’alba, quando qualcuno ruba la pistola dallo zaino di Anna e in tre si allontanano dal campo, come ombre silenziose. Garbos dà l’allarme: Dragan, Zaric e Milan hanno lasciato il campo di nascosto. “Oddio! La pistola!” Anna cerca nello zaino. Niente. L’arma è sparita. “Dragan, sempre lui, quell’incosciente! State qui e aspettateli. Vado a cercarli.” Anna lascia Ivan con Neda e Zesi. “Mi raccomando! Torno presto,” urla, mentre si allontana a gran passi. Non passa molto che Dragan, Zaric e Milan fanno ritorno al campo, orgogliosi della lepre che hanno catturato. Neda li accoglie muta, limitandosi a guardarli, con uno sguardo che è peggio di una sculacciata. In risposta, Dragan si atteggia a duro, confabulando e ridendo con i suoi complici di bricconata. “Non dovevi! La maestra aveva detto di no! Ora vedrai!” gli urla Ivan, ma Dragan lo ignora. “E tanto? Quando viene, c’è da mangiare anche per lei,” ribatte.

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Anna però non torna. “Colpa tua! Se non scappavi lei non doveva venire a cercarti e così non si perdeva!” lo accusa Ivan. “Beh, e tu allora potevi andare con lei per proteggerla e non lo hai fatto!” urla Dragan. Sembrerebbe l’inizio di un’ennesima scazzottata, ma Neda si mette in mezzo e con fare da donnina: “Smettete di litigare e andate a cercarla tutti assieme!” Dragan, Ivan, Milan e Zaric si guardano: ha ragione. “Sì, ma la porto io, la pistola!” dice Ivan, con la solita aria da capoclasse. Dragan sta per opporsi, per ricominciare il litigio, ma lo sguardo severo di Neda gli fa cambiare idea. Porge l’arma al rivale. La bambina gli sorride: ci ha guadagnato, nel baratto. Ivan è a bocca aperta, proprio non le capisce le donne. Com’è possibile? Come fa a preferire Dragan? È lui, Ivan, quello buono! Mentre si allontanano dal campo, Dragan sa che lei guarda e così cammina come immagina che camminino gli eroi prima di una grande battaglia. Anna è stata catturata senza che facesse resistenza. Semplicemente non ha capito in tempo la situazione. Non ha neanche provato a nascondersi, anzi li ha salutati, incontrandoli. I soldati sono tre. Le facce sporche di nerofumo e le divise senza segni di riconoscimento. Parlano la sua lingua: lo sa perché la stanno insultando da ore. Sì, ma chi sono? Disertori? Miliziani? Non è riuscita a capirlo e in effetti, poco le importa. È stanca, soffre, ha i vestiti stracciati e insanguinati. Qualsiasi stemma, grado o numero di matricola, in realtà sono bestie: l’hanno quasi ammazzata di botte e ora la violentano a turno, sotto la minaccia delle armi. Dio solo sa perché. Lei stava cercando i suoi bambini, non avrebbe fatto del male a nessuno. Mio Dio, mio Dio... Da dietro un cespuglio, Dragan e gli altri vedono tutto. E hanno paura. “Andiamo!” sussurra Dragan. Ma Ivan non si muove. “Allora?!” insiste Dragan verso Ivan che, paralizzato dal terrore, scoppia in lacrime. Dragan allora, gli sfila la pistola di mano e ordina: “Milan, fai il giro e vai dall’altra parte. Tieni.” Gli dà un bastone corto e tozzo. “Puntaglielo alla schiena, crederanno che è una pistola. Zaric, tu stagli dietro e aiutalo. Io conto fino a dieci e poi sparo.” Il cuore batte forte, la testa gira. Uno, due, tre... dieci. Eccoci. Dragan esce allo scoperto e urla come ha visto fare in tv: “Fermi! Gettate le armi o vi ammazziamo!” I soldati si bloccano. Ma subito vedono Dragan, un ragazzino con in mano una vecchia pistola a tamburo, e scoppiano a ridere. Uno si fa avanti, arrogante, per disarmarlo. “Dammi qui, piccoletto, che ti fai male con quel ferro da stiro.” Dragan: il sangue gli affluisce alle guance. Spara. Dritto al cuore. Per il rinculo quasi cade, ma fa in tempo a vedere il soldato cadere in ginocchio con un’espressione di sorpresa stampata in faccia e poi giù, come un sacco pieno: morto. E uno. A questo punto, gli altri due lasciano Anna e cercano di scappare. “A terra! In ginocchio! Mani sulla testa!” urla Dragan, gli occhi da pazzo. Ubbidiscono. Milan arriva da dietro e spinge il bastone contro la nuca del più vicino sperando che se la beva: “Fermo!” La voce gli trema dalla paura e questo particolare fa spaventare ancora di più il soldato che inizia a implorare: “Dai ragazzi, lasciateci andare!” Zaric va da Anna, che giace a terra, tenendosi il ventre dolorante tra le mani. L’hanno fatta a pezzi, i bastardi, la sua bella maestra. Dragan fa un passo avanti e spara al soldato in ginocchio. Un colpo secco, e quello cade a terra. Sangue e pezzi di cervello schizzano dappertutto. E due. Ivan urla terrorizzato. Dragan si volta d’istinto e Milan fa un mezzo passo indietro, cercando di trattenere un conato di vomito che vuole uscire a tutti i costi. Il terzo soldato ne approfitta e si alza di scatto, cominciando a correre. Dragan gli spara dietro, una, due, tante volte, ma non lo prende. Passa un lungo momento in cui nessuno sa più cosa sta facendo. Ci vuole un po’ prima che torni la calma. Passata la paura, Ivan sente ribollire in sé la rabbia: ha commesso un errore lasciando usare la pistola a Dragan. “Hai fatto un casino! Ora quello tornerà a cercarci e ci ucciderà tutti!” urla, rosso in faccia

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dalla collera. Dragan lo ignora. “Prendete tutte le armi che trovate, forza!” ordina con sangue freddo. Ormai è chiaro che è lui il capo. Ha raccolto una pistola Uzi e la imbraccia. Prende di mira un tronco e fa fuoco: le schegge di legno volano dappertutto. Anna e i bambini si tappano le orecchie. Quando la Uzi tace, i bambini si accorgono che Anna è in lacrime. “Maestra, non piangere. Abbiamo vinto,” dice Zaric, porgendole un fazzoletto. Anna si asciuga le lacrime, cercando di ricomporsi. Come farà a spiegargli che non ha vinto nessuno? “Andiamo, via di qui, presto... Fate come ha detto Dragan: prendete le armi.” Dragan sorride soddisfatto. Il piccolo arsenale è composto da tre pistole Uzi e due coltelli a serramanico. Al campo, attorno al fuoco, dopo aver mangiato la lepre cotta con le radici raccolte da Neda, Dragan mostra a tutti come si spara con la mitraglietta: un colpo alla volta, come una pistola, o a raffica. L’Uzi è facile da usare e leggera, basta fare attenzione al rinculo. Poi, Dragan mostra come si smonta e si rimonta. Bastano cinque mosse. E per rimontarla, basta fare lo stesso al contrario. Trac, trac, trac... Mostra come si fa, come se lo avesse fatto un milione di volte. Ma è solo un misto tra memoria visiva e fortuna sfacciata. Neda è in ammirazione: “Cavoli, ma come lo sai?” Lui la guarda con aria da duro e dice “Internet.” Neda si apre in un sorriso ammirato. Dunque non è vero che è un somaro il suo Dragan! “Posso provare anch’io?” chiede Neda. Dragan le passa la mitraglietta e con la scusa di farle vedere cosa fare, le sfiora le mani. Ivan guarda il rivale in silenzio, geloso ma sottomesso per la vergogna. Soprattutto ora che anche Neda sa che si è comportato da vigliacco. È stato Milan a raccontarle tutto, lo stronzo! Neda ha una buona mira. Orgogliosa dei suoi successi con quel giocattolo nuovo, si avvicina a Anna che, traumatizzata, resta in disparte, senza riuscire a mangiare. “Hai visto? Non ti piace, come ho cucinato la lepre, maestra?” Anna la guarda, cerca di sorridere, ma ecco che le lacrime la tradiscono. Singhiozza come una bambina mentre Neda la accarezza come se si trattasse della sua bambola Kika. “Ora tutti a dormire! La maestra è stanca.” Dragan è categorico. In effetti, sono tutti stanchi morti. Tic, tac... Tic, tac... Neda non s’è mai accorta di quanto è rumoroso l’orologio che ha al polso. Un regalo dei suoi genitori. Gli altri dormono. Il piccolo Zesi sta aggrappato con le manine alla giacca a vento di Anna. Il fuoco ha smesso di ardere. Dragan si lamenta nel sonno popolato di brutti sogni portati dal freddo. Neda si alza, cerca nello zaino un maglione che è stato di sua madre e lo copre, premurosa. Poi, sta a guardarlo finché lui non sorride, rasserenato da quell’inaspettato tepore. “Buona notte,” gli sussurra. Sta tornando al suo giaciglio quando Ivan le afferra una mano. “Neda,” sussurra, “hai sentito qualche rumore?” Neda non può trattenere un sorriso. “Non ridere. Quel soldato ci sta cercando. Ci ucciderà tutti.” “Dormi. Tanto non puoi fare niente. Te la ricordi la canzone di Vuk?” Neda gli accarezza la fronte, finché Ivan non si riaddormenta. Da lontano sembra un villaggio come tanti ma, man mano che si avvicinano, assume un’aria strana. Ci sono cadaveri ovunque e il sangue non è ancora del tutto secco. Si guardano attorno, camminando come al rallentatore. Ivan si ferma: “Lo sapevo. È lui. Ha ucciso loro e ora ci sta aspettando. Io torno indietro e tu non me lo puoi impedire.” Dragan lo prende per il bavero: “Tu fai quello che dico io. Se hai tanta paura resta con la maestra, Garbos e Zesi. Prendila tu, Garbos, la pistola della maestra, OK?” Gli altri si dividono: Dragan e Milan da una parte, Zaric e Neda dall’altra. Armi in pugno, Dragan e Milan camminano a lunghi passi, atteggiandosi a commando in perlustrazione. Un “cric, crac” attira la loro attenzione. Ssth! Potrebbe essere il nemico! Si ritrovano ad armi spianate contro un cucciolo randagio, più spaventato di loro, che pensa bene di far loro le feste. “Lo chiameremo Sasha!” decide Neda e sta pensando di regalarlo ad Anna, per tirarla su. Il soldato che sta prendendo il cibo dalla piccola vetrina che dà sulla strada di montagna ha già tirato giù un paio di prosciutti e ora è passato alla carne affumicata. È solo, stranamente. È un disertore?

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L’avanzo di un plotone in ricognizione? La porta del negozio si apre improvvisamente. Quello sta per farfugliare qualche parola di scusa, ma le labbra si fermano in una smorfia: sono entrati due bambini e un piccolo randagio. “Forza, mocciosi, sparite!” urla il soldato con tono minaccioso. Poi dà un calcio al cane, che si è avvicinato troppo a uno dei prosciutti. È tardi quando si accorge che i bambini sono armati. Fa un passo in avanti per bloccarli, ma cade, colpito alle spalle da una raffica di colpi. Ivan, che è entrato dal retro, è la prima volta che spara a un uomo. Ora resta a bocca aperta a sentirlo agonizzare. Nei film e nei videogiochi mica ti mettono quei suoni! E soprattutto quegli odori: il sangue, misto al sudore, all’adrenalina e al piscio... Dragan e Milan stanno immobili, in attesa che si rialzi. Ma quello resta giù, in una pozza di sangue, con gli occhi sgranati dalla meraviglia. “Ma perché lo hai colpito? Non ci aveva fatto niente!” sbotta Neda, abbassando la canna della sua Uzi. “Lui ci avrebbe uccisi tutti...” farfuglia Ivan, con la pistola a tamburo ancora puntata. “Che ci fai qui? Come mai hai tu la pistola? E gli altri, li hai lasciati soli?” Dragan lo sta per aggredire quando il soldato a terra si muove. Neda gli si avvicina e chinandosi sente fortissimo la puzza della morte: “Signore, come sta? Signore?” domanda, come se stesse chiedendo un’informazione qualsiasi. In uno spasmo, lui la afferra. La bambina si mette a urlare. Ta-ta-ta-ta-ta... Ivan spara e poi ancora e ancora e ancora... “Fermati! Adesso basta!” L’urlo di Dragan Ivan lo sente appena. È come ipnotizzato dalla sua stessa violenza. Anche quando il caricatore è vuoto, non abbassa la mira. Indifferente, Milan comincia a infilare cibo nello zaino: “Forza, sbrigatevi! Non ce la faccio a prendere tutto da solo!” Ivan e Dragan si guardano l’un l’altro, poi iniziano a raccogliere tutto quello che possono. Devono andare via da lì al più presto possibile. Neda li segue, stordita. La sera, al campo base, c’è il consiglio dei bambini. Prende la parola Dragan: “Ivan ha messo in pericolo la maestra e tutti noi! Sono io il capo e non mi ha ubbidito!” “Bugiardo!” Ivan gli salta addosso, colpendolo con pugni e calci. La sua reazione stupisce tutti, soprattutto Dragan. Anna non interviene: non ne ha la forza. La scazzottata finisce presto, con un knock-out tecnico, diciamo così. Ivan si atteggia a vincitore, facendosi celebrare da Milan, Zaric e Garbos. Dragan resta a terra, esagerando la sofferenza. Neda gli si siede accanto, in silenzio. In quel preciso istante, Dragan sa di aver avuto la sua più grande vittoria. Ora tocca a Ivan invidiarlo. Di nuovo in marcia, verso la città, trasformati in un gruppo di guerriglieri. Avanguardia, retroguardia: ormai sanno come si fa a non farsi prendere di sorpresa. Sasha, il cagnolino, si è perfettamente calato nel ruolo di mascotte e scodinzola al fianco di Neda che segue di pochi passi Anna. La donna è debole. Sanguina. Troppo. E sviene. Nella sua mente, una voce racconta: “Un giorno, uno straniero arrivò dalla foresta. Siccome nessuno aveva mai conosciuto un uomo malvagio, il paese aprì le sue porte e lo lasciò entrare. Ma presto l’uomo cominciò a usare la maldicenza per dividere i cittadini. Ira e separazione fecero il loro ingresso nel cuore della gente.” Quando riprende i sensi, accanto a lei c’è Neda che le preme un fazzoletto bagnato sulla fronte. Zesi le corre incontro urlando come un pazzo. “Sai, credeva che eri morta, Zesi,” sussurra Neda. Anna è sicura di una cosa sola: devono arrivare presto in città. “Devo dirti un segreto, Neda, ma prometti di non dire niente a nessuno.” Neda fa sì con la testa. “Il sangue non si fermerà. Devi aiutarmi. Devi convincere gli altri ad andare verso la strada e a chiedere aiuto.” È il tramonto più rosso della stagione. Un fatto straordinario. La strada che porta in città passa attraverso campi coltivati a grano. Da una curva arriva un convoglio della Croce Rossa: due camion per il trasporto di medicinali e una camionetta. La città è sotto assedio da venti giorni e all’ospedale c’è urgente bisogno di tutto. Dragan esce allo scoperto, la Uzi bene in vista e una mano alzata, per farlo fermare. L’autista del camion non crede a quello che vede. Dragan avrà più o meno l’età del

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suo primo figlio che a quest’ora starà sicuramente a guardare Mucca e Pollo, i suoi cartoni preferiti. “Dottore, dottore che devo fare, che faccio?” chiede. Ma prima che possa fare o dire qualcosa, una raffica di mitra sparata in aria lo convince che è meglio fermarsi e tenere le mani bene in vista. “C’è un medico, qui?” urla Dragan. “Eccomi!” Il sorriso di Daniele vuole essere il più rassicurante possibile. “Ho bisogno d’aiuto,” dice Dragan. “Fallo salire,” dice il dottore all’autista, che non stacca gli occhi dalla Uzi imbracciata da Dragan. “Hai sentito?” insiste Daniele. “Puoi salire. Forza.” Dragan fischia: due lunghi e uno breve. È il segnale convenuto. Solo ora, Anna e gli altri escono allo scoperto. Dal primo camion scende un giovane che sta per chiedere qualcosa, ma vede Anna che a stento si tiene in piedi e corre a sorreggerla. “Infermiera! Emorragia!” Dal camion fa capolino una cuffia da infermiera. La crocerossina avrà 50 anni. “Preparo un giaciglio. Ha bisogno d’aiuto, dottore?” Ad uno ad uno, salgono sulla pedana del camion che riprende il suo cammino. Man mano che si avvicina alla città, la strada diventa sempre più impraticabile. Barriere di automobili bruciate, detriti, persino una vasca da bagno abbandonata. Il convoglio è costretto a passare sotto la traiettoria dei mortai. Ogni due, tre minuti un colpo sibila e passa oltre, andandosi a schiantare nel buio. Barcamenandosi tra casse e scatoloni, Daniele assiste Anna: “Calmati. Respira... Come ti chiami?” Poi cerca lo sguardo dell’infermiera per comunicarle tutta la sua impotenza. Seduto su una cassa, Zesi lo guarda con gli occhi pieni di lacrime. Gli altri si sono sistemati dove hanno trovato spazio. Non gli staccano gli occhi di dosso. Bambini deportati o costretti a scappare, Daniele ne ha visti, ma armati e così determinati, mai. Anna si guarda intorno: “Dov’è Neda? Mi chiamo Anna... Neda, vieni qui, dammi la mano!” “Eccola! Tranquilla!” Neda fa un passo avanti, stringendo tra le braccia la sua Uzi come se fosse una bambola. Anna sfila il suo diario da sotto il golfino e cerca di passarlo alla bambina, ma un sobbalzo della vettura fa perdere l’equilibrio a entrambe e quello cade ai piedi di Daniele che involontariamente lo calpesta. “Oh, no!” Anna scoppia in un pianto disperato. “Scusa...” Daniele raccoglie il quaderno, lo spolvera, fa per aprirlo per vedere di che si tratta. Il rumore metallico di sblocco della sicura della Uzi lo ghiaccia. “Dammelo.” Mentre lo tiene sotto mira, la voce di Neda è definitiva. “Prendi...” In cambio del quaderno, Daniele prova a farsi consegnare l’arma, ma Neda lo ignora e gli strappa il quaderno di mano. Un’insolita durezza nello sguardo della bambina convince Daniele che è meglio non insistere. “È tua figlia?” chiede l’infermiera ad Anna. Tra le lacrime, la ragazza scuote la testa, in un no che è quasi un sì. “Sono figli tuoi?” insiste l’infermiera. “No, no, ma è come se fosse mia... sono i miei bambini.” “Ci mettiamo troppo tempo da qui!” urla Daniele all’autista. “Dottore... non passo... casino!” Le parole sono in parte coperte dal fragore di un’esplosione più vicina delle altre. Neda punta di nuovo la pistola contro Daniele che trattiene un’imprecazione. “Maledetto chi fabbrica armi così piccole, leggere e facili da usare che ci riesce anche un bambino!” sbotta, poi, con una voce che vuole essere rassicurante: “Mettila giù... Non vedi? Sto cercando di aiutare tua madre...” Daniele vorrebbe non avere più quell’arma puntata addosso, ma il dito di Neda è sempre sul grilletto. Anna le afferra il vestito e la costringe a guardarla. “Mi fido di lui. Daglielo, per favore... Dottore, lo prenda lei il mio diario. Voglio che la gente conosca la nostra storia, perché certe cose non dovrebbero accadere. Ti voglio bene, Neda. Voglio bene a tutti voi.” Finalmente, la bambina abbassa l’Uzi e restituisce il quaderno a Daniele. In quella, una brusca frenata li fa quasi cadere. “Che succede, adesso?” urla Daniele. “Dottore, state tutti calmi. Una pattuglia...” Poi tira fuori la testa dal finestrino e urla: “Croce Rossa! Croce Rossa!” Sono le sue ultime parole prima di essere zittito da una raffica di mitra. Daniele butta a terra l’infermiera. Dragan si alza cercando di non far rumore, preparandosi a

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combattere. “Chi viene con me?” chiede. “Vengo io!” dice Ivan. Dragan gli batte una mano sulla spalla, orgoglioso di Ivan che ha vinto la battaglia con se stesso. Daniele non vorrebbe che le cose andassero così: lui è l’adulto e quelli sono bambini. Il mondo è alla rovescia. Dragan è come se gli leggesse nel pensiero: “Dottore, tu devi fare quello che ha detto la maestra. È la cosa più importante. Tu sei grande, a te daranno retta. Ci pensiamo noi a quelli fuori. Neda, tu vieni?” Neda prende Kika dallo zaino e la passa ad Anna: “Per favore, me la tieni tu? Lei ha paura.” Poi si volta verso gli altri che restano, abbracciandoli con lo sguardo. Un salto giù dal camion e il gioco della guerra ricomincia. “Assaporate il potere di essere nulla, lasciate che le membra si disciolgano, incancrenite blu di china e rosso sangue, esplose d’azzurro paludoso e verde bile, bianche d’assoluta morte, come fronde di albero cecchino, come facce accese di terrore, come coperte di vomito caldo e urina che riscaldano nelle notti d’intemperia passate ad abbracciare il ferro in trincee fatte di sabbia e fango, in luoghi dissacrati da uomini fatti a pezzi lasciati come morti nelle mani della sera, smembrati da animali silenziosi. Oh, il cervello aperto a leccare il cuore che è stanco di sconfitte ridondanti, perché la gentilezza è morta perché l’amore è morto perché il tempo ha atteso l’alba per morire anch’esso, singhiozzando.” Dopo aver letto una delle poesie di Anna, Neda lascia cadere un fiore sulle buste nere che racchiudono i corpi dei suoi amici, Dragan e Ivan, morti. La terra comincia a piovere e a ricoprire tutto: le buste, la memoria, la guerra. La terra ricopre sempre tutto. È dalla terra che il grano nasce.

Fernanda Moneta ha alle spalle una lunga gavetta, con varie esperienze in posti caldi. Finalista al Premio Solinas 2000 con Latte Dolce (Plot n. 1), oggi è nel comitato editoriale del Premio. Finalista al Premio Storie del Nuovo Millennio III con Happy Hour. In cantiere, The Dora (a true story). Oltre alle sue attività di docente all’Accademia di Belle Arti di Carrara e all’Università di Firenze, ha anche pubblicato vari libri tra cui Spike Lee, Ed. Il Castoro.

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Quello che era un villaggio ora è il teatro della morte. Istupiditi i bambini stanno fermi, il cuore sospeso: tump, tump, tump... Poi, tutti via di corsa verso i campi disseminati di enormi nidi di terra: “Mamma! Papà! Nonna!” Le urla riempiono l’aria, intrecciandosi e confondendosi. A tutte, risponde il silenzio.

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IL FUNGO DI METALLO di Andrea Griseri PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMATICO

È un racconto “sfaccettato”, non lineare, quello de Il Fungo di metallo, tratto dalla sceneggiatura omonima e affidato al dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali conosce soltanto una parte della storia del protagonista Tobia. Il filo della sua vita si è ingarbugliato quando, forse per pusillanimità, ha accettato l’installazione di un enorme ripetitore sul condominio (sorta di hortus clausus metaforico all’interno del quale si svolge gran parte della vicenda), le conseguenze di questa scelta si sono rivelate devastanti. Ilquotidianoèdiventatolospecchioprecisoealtempostessodeformediunacolpaediunpiùgeneraledegradomorale,politico eculturale. Da quel momento, se all’ordine violato della vita non segue un’azione riparatrice in grado di ripristinare la giustizia, soltanto al “racconto dei fatti” va ridato un ordine. Il “difensore” pretenderà nell’arringa un verdetto “giusto”, non genericamente assolutorio, suscettibile di rivelare il senso dell’agire incompiuto di Tobia.

Una discontinuità intervenuta all’interno dell’ordinato fluire degli avvenimenti è il preludio del dramma; e le scelte, anche quelle più estreme, scaturiscono da una necessità impalpabile e indifferente. Tobia, il protagonista, matura lentamente la decisione di compiere la strage ma non sviluppa una personalità criminale. Attraverso la tragedia comprende qualcosa del senso riposto della realtà. L’occasione narrativa non si riduce a mero contesto ma riveste una portata metaforica più profonda: è la sconfitta della tekne, della pretesa prometeica di creare artificiosamente una situazione immune per quanto possibile dall’imperfezione. Il realismo del tessuto narrativo presenta alcune smagliature “magiche”, deviazioni rispetto a quanto sarebbe naturalmente prevedibile: la connotazione surreale della malattia della bambina, per esempio, la misteriosa scomparsa di Sara e la presenza di personaggi grotteschi; il ridicolo e il deforme che simboleggiano la degradazione del reale. I temi relativi alle nuove fonti di inquinamento e alla riduzione della sicurezza del posto di lavoro rappresentano d’altra parte uno sfondo leggibilissimo e non sono semplici corollari. Forse non è il modo migliore per rendere un buon servizio a questo lavoro ma si sospetta che Il Fungo di metallo verrà compreso a fondo da un pubblico metropolitano appartenente a quella onnivora e generica categoria sociologica che è la middle class globale. Andrea Griseri

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In mezzo allo scalpiccio frettoloso delle segretarie e al sorriso sardonico di avvocati sfaccendati, fra il veleggiare delle toghe e il transitare perplesso di torme umane dominate dall’incertezza, l’odore mascolino di cesso otturato dilagava giù per lo scalone, insinuandosi cauto nelle fessure delle pesanti porte di mogano che sigillavano le aule dei tribunali. Una tuttavia era socchiusa proprio di fronte agli sgabelli di plastica rossa su cui sedevano Francesco e l’ingegner Danesi, i quali, attraverso quello spiraglio, potevano sbirciare un muro mezzo scrostato di colore indefinibile: sull’intonaco rovinato campeggiava la scritta “LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI”. Francesco sedeva intimorito e nervoso in punta allo sgabello, il lungo corpo di Danesi riposava scomposto, stravaccato di sbieco. “Allora?” Francesco consultò con attenzione il proprio orologio e Danesi diede una rapida occhiata al suo. “Ancora quaranta minuti,” sospirò roteando le pupille. Si stiracchiò e apparve per un istante assai più lungo di quanto già non fosse. Francesco disse, guardando fisso di fronte a sé: “A che cosa starà pensando.” Quando era emozionato gli capitava di dimenticare i punti interrogativi. Portava i capelli a caschetto e un maglioncino scollato a V. Sembrava un seminarista timido e apprensivo. “A che cosa starà pensando,” ripeté insipido. “Forse guarda all’indietro. Ha lavorato, ha respirato, si è nutrito. Ha pensato. Tutto inutile. Forse gli piacerebbe rivivere.” Danesi esplose ondeggiando il capo: “Questa! Sì! È vampirica! Un morto non morto o un non vivo! O un morto interinale? Il perdente ripete le partite di scacchi fino alla nausea. Si ripercorrono a ritroso le mosse che hanno condotto all’esito fatale. Per scoprire che cosa?” Levò alte le mani e gonfiò le guance scolorite dall’età. L’effetto era piuttosto grottesco, così pensò fugacemente Francesco: “Uno starnuto che avrebbe ritardato la mossa del pedone, una telefonata. Si sarebbe ponderata meglio l’azione dell’alfiere. Un’improvvisa ventata di consapevolezza.” Si era alzato in piedi e turbinava, preda della frenesia. “Un attacco epilettico smorzato sul nascere,” urlava. “Il caos, la teoria dei giochi, il destino, il destino. L’impercettibile soffio del destino!” Francesco, silenzioso, giungeva le mani per pregarlo di tornare a sedere, finalmente chetato. Gli era salita in gola una specie di nausea. Timore reverenziale, sconcerto, un filo di disprezzo. O dispiacere e, forse, ammirazione. “Quando ero un ingegnerino neoassunto,” cantilenava monotono dentro di sé, “e Danesi ci tenne il corso di accoglimento...” Dopo averli guardati a lungo in silenzio, sferzò l’aria con il suo proclama: “Signori, qui si fanno le telecomunicazioni o si muore!” E si erano sentiti pieni di orgoglio, i pionieri del nuovo millennio, ma Danesi aveva inarcato il collo come un tacchino, esplodendo in una risata gutturale. “Non credete a tutto quello che dico! Ragazzi! Non credete!” S’era seduto in cattedra e a bassa voce aveva implorato di prenderlo in ogni caso “terribilmente” sul serio. E aveva iniziato a parlare, mentre gli ingegnerini, di fronte a una lezione che li lasciò senza fiato per l’ammirazione, dimenticarono ben presto lo spaesamento che li aveva assaliti. “È stato lei,” accusò Francesco con voce mite, “a ficcargli in testa quell’idea perniciosa. Lei. Ipnotizzatore, maliardo. Lei riesce ad agitarsi e a danzare come i dervisci.” “Perché non come una pernice? O una dervisciosa pernice,” e l’ingegnere si abbandonò a una risata scoppiettante, secca, emottisica. “Le piace?” L’ombra di Tobia che li univa. Francesco pensava a Tobia con una specie di tenerezza. “Chi gli ha consegnato la pistola?” chiese Francesco svirgolando faticosamente nell’aria un punto interrogativo che andò a piantarsi sull’attenti davanti all’ingegnere. Ma Danesi sembrava addormentato: “Per me ha sempre contato solo il momento presente.” Aprì e chiuse la mano più volte, osservandola compiaciuto. “Perché,” disse Francesco.

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“Sono qui? Vuole sapere perché sono venuto? Innanzitutto! Sono un cittadino rispettoso della legge e delle istituzioni,” accennò alla scritta che campeggiava sul muro scrostato. “E poi... E poi... Diciamo che io sono l’Interpretazione! Toussaint l’ouverture, Danesì l’Interprétation!” “Diciamo piuttosto che lei è un furioso megalomane! Lo ha rovinato! Le sembrerò un piccolo borghese benpensante. Me ne frego io, del suo disprezzo. Allora! Tra poco saremo chiamati a deporre. Voglio sapere che cosa avrà il coraggio di raccontare a quei signori. Avanti! La prova generale! Cominci!” Passò una donna che teneva una bimba per mano. La seguì con lo sguardo finché non scomparve a una svolta del corridoio. Anche Danesi aveva fatto altrettanto. I loro sguardi si congiunsero. La loro contesa, ragionò Francesco, assomigliava a una lite fratricida. Francesco sussurrò: “Sono stato io a metterlo in guardia.” “Lui non ne capiva nulla di quei maledetti funghi.” “Infame! L’amministratore! Tobia si lusingava di riscuotere la sua fiducia.” “Ma allora quella signora, la condomina?” “Marienne. Ha dichiarato di essere stata lei la causa dello screzio fra i due. Una stupida faccenda di premi assicurativi... Tobia ha capito che il furfante se li era intascati.” “Il revisore dei conti! Lo ha ripetuto più volte con orgoglio durante gli interrogatori: io ero il revisore dei conti del condominio!” “Non ha detto molto di più.” “Un rompicapo per quei coglioni di giudici.” “Non lo dica.” “Non mi preferisce fedele al mio personaggio?” “La smetta! Le ricordo che ci troviamo di fronte a una tragedia!” “Per voi tutto è una tragedia. Stabilite una serie di assurde gerarchie fra gli eventi.” “E la bambina allora? Tobia era illuminato dall’amore per quella bambina.” “E la moglie? Forse se ne fregava della moglie. Un utero in affitto!!!” “Lei non capisce un cazzo. Perché si muovono nonostante tutto gli ingranaggi della vita? La sua dannata mente fervida e sgangherata! Un potenziale terrorista!” “Credo che la moglie fosse una persona molto pragmatica...” “E lui un velleitario. Okkey. Un sognatore di buona famiglia. Sara invece proviene da un ambiente modesto; si è lanciata nella professione con una grinta straordinaria.” “Oh strano! Ma io esisto! Oh strano! Lei usa il tempo presente!” “Ritornerà. È nascosta da qualche parte.” “Anche la bambina?” “Elisa è un angelo. Gli angeli sono ovunque. Noi non vediamo al di là della nebbiosa barriera del tempo. Ha trasmutato la sua consistenza.” “Alchemico! My God! God! God! God! Ma la pragmatica moglie avrebbe potuto interrompere la tragedia sul nascere. E noi ce ne potremmo andare tranquillamente a passeggio invece di romperci le palle in questa interminabile anticamera!” “Lei sembra davvero persona informata dei fatti. L’amministratore non mise Tobia al corrente della sua intenzione di montare il fungo di metallo, quel mostruoso ripetitore, sul tetto della casa. Lui ci rimase male, in fondo era il revisore! Dopo pochi giorni si accorse dei giovani neri. Li incontrava nell’androne, nei negozi. A Elisa facevano impressione. Parlavano fra di loro e intanto corrompevano a suon di quattrini l’amministratore e alcuni condomini. Erano i rappresentanti della Wireless 3000. Portavano abiti scuri, scarpe rigorosamente nere, cravatte opache in tinta unita che risaltavano sul nitore gangsteristico della camicia.” “La signora Marienne era contraria...” Danesi emetteva una vocetta sottile, melliflua. “Anche Sara. Per prima annusò puzza di bruciato. Intuì il pericolo che il fungo poteva rappresentare per Elisa.”

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“Qui lei entra in scena, se le mie informazioni non sono errate.” Danesi si alzò e ustionò con lo sguardo Francesco. E Francesco voleva alzarsi, ma restava seduto, pensieroso e pieno di vergogna. “Le ho insegnato anch’io qualcosa, prima che mi licenziassero!” gridò Danesi serio, quasi feroce. “Mi sono limitato a metterlo in guardia. Quando ci incontrammo casualmente, era agitato da una strana frenesia. Due potenti calamite lo attiravano in direzioni opposte. Tobia non è mai stato un campione di risolutezza. Si documentava in segreto sui possibili effetti nocivi dei funghi di metallo. Sua moglie fece altrettanto e cominciò a temere non tanto per la propria, ma per la salute di Elisa. Cercò allora di convincerlo a opporsi all’installazione del fungo nell’assemblea condominiale, ma lui che cosa fece? Una piroetta mentale. Troppi indizi e nessuna certezza. Oplà. I funghi non sono nocivi. La copiosa documentazione raccolta, da motivo di allarme, si trasformò in elemento rassicurante. La moglie determinata nella sua disperata opposizione al progetto e lui colluso con quell’amministratore che lo aveva sempre raggirato. Stupido! È fatto di una stoffa preziosa a confronto di quell’avido animale. E cercava la sua benevolenza!” “Così è arrivato inesorabile il momento dell’assemblea. Le assemblee condominiali domineranno la terra.” “Ha votato convinto. Fra il tripudio generale.” “Soldi, oro! Gracchiavano le vecchie damazze.” “È così! I giovani agenti della Wireless 3000 deglutivano per la gioia.” “Hanno la pelle spessa e seborroica.” “Come quella dei polli! Uno di loro pare che abbia gridato: Inizia l’era della libertà!” Danesi accennò un passo di danza nel mezzo del corridoio. Dribblò una giovane donna slavata che passava in quell’istante e mimò il gesto di agguantarla per le natiche. Francesco cercò di fermarlo terrorizzato mentre dentro sentiva una grande voglia di rumoreggiare contro il mondo e di piangere. “Non danneggiamo il nostro amico,” supplicò. “Al contrario. Gli rendiamo omaggio. Lo interpretiamo. Io, io sono l’Interprete!” e gli si raggrinzì la faccia in un rictus grottesco e arcigno. Si accostò a Francesco con l’indice ammonitore di fronte alla bocca come un sigillo e sciogliendosi in un sorriso da demente, abbozzando una riverenza, sussurrò: “Tutto rende liberi! Il lavoro rende liberi. La verità rende liberi. E il delitto, l’ingiustizia, la crudeltà, gli organi della riproduzione. Tutto rende liberi! Ad eccezione della giustizia. Anche i funghi di metallo rendono liberi, ma non la ricerca della giustizia. Noiose procedure, deliranti perdite di tempo intorno all’eterno ago della bilancia che non vuole saperne di mettersi in equilibrio.” “Tobia ha perso l’equilibrio.” “Lo ha ritrovato su un piano più alto. Ha saputo essere conseguente! Inutile affannarsi dietro a quella stupida lancetta! Io sono l’Interpretazione!!!” Francesco aveva il formicolio alle gambe. In quel momento il corridoio era vuoto. Si levò prestamente e si piegò più volte sulle ginocchia, appoggiò una mano al muro umido e sporco ed eseguì lo slancio laterale della gamba. “Dobbiamo sfruttare il tempo che rimane prima che si aprano quelle porte,” osservò ansimando. “Conosciamo ciascuno un pezzo della storia. Allora. Lei racconta a me la sua versione e io a lei la mia. Che gliene pare? Così potremo rendere la nostra testimonianza con piena cognizione di causa. È il modo migliore per aiutare Tobia.” Le ultime parole si persero in un’eco smorzata. Francesco temeva una nuova raffica di insolenze e di sarcasmi, ma Danesi sembrava incuriosito. Crollò il capo, si fregò le mani, saggiò con un polpastrello le guance malrasate. Cercò una posizione sullo scomodo sgabello di plastica rossa. “Cerco un sitio!” citò. “Povero Don Juan!” E alzò lo sguardo verso Francesco: “Sì? Sì! Sì. Cominci lei,” disse distrattamente.

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Francesco ascoltò se stesso parlare. Simile a un interminabile pomeriggio di cattivo tempo. Le sonnolenti piogge di aprile. Tobia si affacciava alla cameretta di Elisa e la guardava. Gli sembrava che la luce splendesse intorno al viso della bambina. Bello e perfetto. Un angelo. La sintesi compiuta della bontà e della bellezza. Tobia tornava dalla sovrintendenza ai beni architettonici dove lavorava, preoccupato perché il governo tagliava i finanziamenti e le bellezze del paese rischiavano di andarsene in malora. O in mani private. Tobia subiva le profferte di amicizia dell’amministratore, ma Elisa voleva giocare con lui e si lasciava guardare. E Sara non era soltanto la professionista superefficiente da cui si sentiva, talora, implicitamente canzonato. Era la mamma di Elisa. Poi venne montato il fungo di metallo sulla loro testa e una smorfia impercettibile comparve sul viso di Elisa. Un fastidioso sospetto che ci si sforza di dimenticare. Un tarlo silenzioso che si scava la galleria dove annidarsi. La smorfia si fece via via più evidente. Comparvero i sintomi di una grave forma di scialorrea e ben presto la bambina accusò difficoltà nella deambulazione. Sara lo accusava esplicitamente per la sua arrendevolezza di fronte al volere dell’amministratore e Tobia, animato da grande baldanza, si diede un gran da fare per ottenere la rimozione del fungo di metallo che riluceva bello e luciferino nelle notti chiare della metropoli. I suoi tentativi risultarono inutili. I condomini lo emarginarono, con l’amministratore vennero quasi alle mani; il colpo di grazia alle sue speranze lo assestò un assessore corrotto che aveva incassato tangenti. Francesco da bravo ingegnere gli aveva spiegato quanto i funghi realizzati con la tecnologia adottata dalla Wireless 3000 potessero essere pericolosi per la salute: con grande dispiacere vedeva l’amico animato da sacro furore, quando ormai era troppo tardi. Sara intanto affrontava il problema con il piglio della giovane professionista di successo: il Comitato madri contro l’elettrosmog di cui era l’animatrice raccolse una ricca documentazione che permise di denunciare la colossale truffa operata dalla Wireless 3000 nei confronti dei pubblici amministratori. Ma tardi, troppo tardi. Le condizioni di Elisa peggiorarono. Negli ultimi giorni di malattia non voleva mostrare il suo visino deturpato. Nessuno vide mai Tobia versare una lacrima per la morte dell’angelo. Un magistrato avanzava solenne come un transatlantico nel corridoio. È il suo giudice, pensarono Francesco e Danesi. E Tobia dov’è? Lo chiuderanno in una gabbia? Si rifiuterà di partecipare? “Abbiamo poco tempo!” soffiò Francesco. “Mi parli dei suoi incontri con Tobia giù al parco! Vi vedevate sovente. Tobia era diventato introverso, scostante, per la prima volta sembrava consapevole della strada da seguire! E la pistola, la pistola...” Danesi sorrideva brillante, salottiero: “Eh! Che pasticciaccio! Io che incontro Tobia, io e le mie sceneggiate... Ma d’altra parte... Sono pazzo! Tutti voi siete persuasi che io sia pazzo! Un insieme di coincidenze, di circolarità. La questione del mio licenziamento dalla Wireless 3000 era nelle mani dello studio di cui era socia la moglie di Tobia. Il nostro incontro, le assicuro, è stato del tutto casuale. Un bel giorno mi ritrovo seduto al fianco un bel giovanotto che consulta nervosamente articoli sui funghi di metallo. Non ho resistito, lei può bene capirlo.” “Lei era il migliore di tutti. Le tecnologie che lei proponeva non sarebbero risultate nocive,” mormorò Francesco, “soltanto più costose... Ma quale costo ha la nostra vita?” Tacquero entrambi. Un serpente di folla avanzava nel corridoio. Una viscida cucciolata umana dentro quel maleodorante budello. Francesco si piegò verso Danesi: “Ma la pistola!” L’ingegnere sorrise birichino: “Sospetto la signora Marienne. Vedova di un ufficiale. Anche lei

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amava Elisa. Tutti sono stati danneggiati dalla sua morte. La pistola era di quelle in dotazione all’esercito fino a una decina di anni fa.” “E Sara?” “Dietro il muro dell’ombra. Si è dissolta poco dopo la morte di Elisa. Un giorno è apparsa a Tobia seduta su una panchina del parco. Era lei, ne sono sicuro, ma è scomparsa di nuovo. Non è mai più ritornata.” Il serpente di folla ingombrava l’ingresso dell’aula dibattimentale. Francesco afferrò Danesi per un braccio: “L’avvocato difensore invocherà le attenuanti generiche. È un mago delle attenuanti! La sua deposizione è fondamentale! Lei raccoglieva le confessioni di Tobia nel parco. Lei può spiegare ai giudici che si è trattato di un gesto puramente dimostrativo!” “Quell’azzeccagarbugli! E anche il suo livello di comprensione è limitato, mi perdoni! Perché offendere Tobia? Volete uccidere Elisa una seconda volta?” Altri corpi si frapponevano fra loro. Le sabbie mobili scivolavano pigre e li separavano. Francesco ansimò disperato: “Che cosa? Che cosa vuole dire?!” “Io sono l’Interpretazione! La morte degli Angeli è tremendamente seria!” Francesco sgomitava impotente: “Che cosa? Che cosa?” E la folla trascinò Tobia lontano da Danesi, il cui naso aquilino dominava il brulichio delle teste. Sembrava che dicesse: “Tremendo! Tremendo!” Danesi si avvicinò lentamente alla sedia dei testimoni. Agitava le falde della palandrana. Un rapace accigliato con le piume in disordine. Rispose compìto alle domande dei giudici. Fino a quel momento il dibattito si era trascinato fra proclami, dubbi, opposte prese di posizione, suppliche, lacrime, cinismi. Per davvero! Danesi dimostrò un alto grado di coscienza civile. La sua deposizione illuminò gli angoli più oscuri della vicenda. Grazie a quel degno cittadino, i giudici avrebbero potuto trovare la conclusione che più di ogni altra si avvicinava alla verità. “Un giorno Tobia fu visto entrare in compagnia della signora Marienne in un elegante locale del centro. Si atteggiava a perfetto cavaliere e discorreva amabilmente con la sua accompagnatrice. La signora Marienne consegnò a Tobia un pacchetto che conteneva una rivoltella perfettamente funzionante. Poco prima Tobia aveva incontrato l’ingegnere licenziato, il sottoscritto Signori della Corte!” e si batté con vigore il dito indice sul petto, “nel parco cittadino. E mentre costui, dopo essersi esibito in una delle sue deliranti allocuzioni, si allontanava gesticolando, Tobia aveva raccolto da terra una pistola giocattolo sporca di fango. Conoscete del resto questa informazione: è contenuta nella confessione resa spontaneamente dall’imputato. Credo che Tobia abbia vagabondato a lungo in giro per la città. È stato visto sostare brevemente in una chiesa dove era in corso una celebrazione. Poco dopo fece la sua comparsa nella sala condominiale dove si stava svolgendo un’assemblea. Non è necessaria un’immaginazione visiva particolarmente sviluppata per rappresentarsi la scena. L’amministratore troneggiava alla presidenza. Tobia avanzò nel centro della sala con fare teatrale e gli puntò contro la pistola, ma venne preceduto, se così posso dire, dal Comitato madri contro l’elettrosmog. La denuncia aveva seguito il suo corso e la giustizia si era finalmente mossa. In quelle ore l’assessore che Tobia aveva incontrato qualche tempo prima aveva già dato l’addio alla condizione di uomo libero e le manette tintinnanti si avvicinavano inesorabili all’amministratore. Il bravo maresciallo che aveva fatto irruzione nella sala condominiale per arrestarlo nel pieno svolgimento delle sue funzioni rimase di stucco: che cosa ci faceva quel giovanotto in piedi con la pistola puntata contro il destinatario del mandato d’arresto? Ordinò con un cenno ai suoi uomini di disarmare immediatamente l’aspirante pistolero e procedette tranquillamente ad ammanettare l’amministratore in mezzo allo sconcerto dei condomini. E i due

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nemici si ritrovarono fianco a fianco nel furgone cellulare dei carabinieri.” Un grande silenzio nell’aula dibattimentale. Dai corpi stipati fino all’inverosimile saliva un respiro rassegnato e c’era un grande lezzo di sudore e un caldo che soffocava. Danesi si voltò verso il pubblico abbozzando una specie di benedizione. E dispensò l’interpretazione finale. “Non saprei dire quale di questi tre sentimenti fosse il più intenso: il sollievo dell’amministratore per avere avuta salva la vita grazie al tempestivo intervento dei carabinieri o il suo dispetto per la fine ignominiosa della sua carriera di truffatore? Oppure la rabbia infinita di Tobia che non era riuscito a consumare la sua vendetta? Non penso affatto che Tobia si sia per un attimo compiaciuto della vittoria di chi lottava contro l’elettrosmog. Ma non credo appropriato il termine vendetta. Tobia cercava giustizia. Il destino aveva deviato l’ordinato fluire degli eventi ed era giocoforza reagire con decisione per ristabilire l’equilibrio violato. Del resto la morte di un angelo è una cosa seria. Lo smottamento dell’essere è irrimediabile. E chi vive seriamente sa che soltanto il rito del sangue può restituire un livello accettabile di dignità. Come nelle tragedie antiche. Questo soltanto mi permetto di dirvi, Signori della Corte. Dovete giudicare un caso di tentato omicidio plurimo. Tobia aveva minacciato con la pistola anche altri condomini prima di mirare dritto al cuore dell’amministratore, forse proprio quelli che più di altri avevano sostenuto il fungo di metallo in nome dell’interesse economico. La difesa ha chiesto l’assoluzione dell’imputato sostenendo che il gesto di minaccia, ancorché l’arma fosse carica, mirava soltanto a impaurire. Io sono convinto che Tobia avesse intenzione di uccidere e non volesse colpire soltanto l’amministratore: lui non è uomo da lasciarsi incapsulare nella semplicistica dialettica dell’amico e del nemico. Il suo gesto aspirava all’universalità. Tutti saremmo stati vendicati. Chi non ha mai assistito alla giustizia violata? Le teste vuote, chi è abituato a lasciar correre sarà richiamato all’imprescindibile serietà della vita. L’avvocato difensore con la sua arringa ha fatto il suo dovere di onesto leguleio, ma ha reso un pessimo servizio a Tobia e alla sua verità. Tobia ha temporeggiato, gli è piaciuto pavoneggiarsi con la pistola come un torero nell’arena e se non fosse intervenuta la forza pubblica avrebbe certamente sparato. Signori della Corte, non avete di fronte un banale criminale mancato del ventunesimo secolo: ecco davanti a voi Ulisse che punisce i Proci, o la maga Medea, straziata dall’amore e dalla vergogna, che uccide i suoi figli. Giudicate nel rigoroso rispetto della legge, ma siate consapevoli di chi giudicate. Grazie.”

Andrea Griseri è un torinese anche se, forse, preferirebbe essere nato in una famiglia di contadini umbri. L’uomo appagato, diceva Barthes, non ha bisogno di scrivere; Griseri ha scritto tre romanzi, svariati racconti e una sceneggiatura: evidentemente non è un uomo appagato. Le sue scelte hanno evitato con cura bizzarra il contatto con il mondo letterario (una laurea in Scienze Politiche, il lavoro in una società finanziaria) finché due anni fa non si è iscritto al Master sulla scrittura di prodotti audiovisivi.

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“Questa! Sì! È vampirica! Un morto non morto o un non vivo! O un morto interinale? Il perdente ripete le partite di scacchi fino alla nausea. Si ripercorrono a ritroso le mosse che hanno condotto all’esito fatale. Per scoprire che cosa?”

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FIN DE SIECLE di Ivan Carozzi e Andrea Valentini PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: STORICO-SOCIALE

Fin de siècle è una commedia storica. È una storia d’amore. È un dramma sociale. È il racconto della prima squadra di football in Italia. È un percorso di formazione. Fin de siècle è tutto questo, e la bravura degli autori sta proprio nell’intrecciare macro e microstoria, azione e psicologia, suspense ed emozione. Un progetto articolato che, nella sua complessità, ha il dono della chiarezza e della leggibilità.

Nel cuore della vicenda raccontata, la storia di un uomo. Un viaggio che parte da un dolore difficile e dal tentativo di riscattarsi da un torbido episodio. Poi, come un piccolo affluente versa le sue acque in corsi d’acqua più grandi, noti e impetuosi, allo stesso modo la vita del nostro eroe si troverà all’improvviso gettata nell’alveo della grande storia. Il suo destino si legherà ad avvenimenti che, soltanto con il senno del poi, potranno dirsi davvero epocali. Tuttavia la vicenda che state per leggere aderirà solo parzialmente alla verità storica dei fatti. Le cronache del tempo erano lì proprio perché potessimo fantasticarne. Come si dice in queste circostanze, “fatti e personaggi sono puramente immaginari”. Abbiamo messo cronaca e fantasia sedute ad un telaio, perché ricamassero al centro di un vasto arazzo la favola di un uomo. Se invece allargheremo lo sguardo dal centro al resto dell’ordito, scopriremo il racconto mitopoietico dell’origine di una delle più grandi passioni popolari del Novecento: il calcio, o football, come un tempo era internazionalmente chiamato. Che senso avrebbe raccontare un universo mitologico, se non in una chiave mitica e di fantasia? A che serve narrare come andarono i fatti per filo e per segno? Forse uno storico potrebbe farlo, ma al prezzo di ricerche estenuanti e sulla base di una documentazione estremamente scarsa e frammentaria. L’unico archivio disponibile, a questo proposito, è quello dell’immaginazione; la sola via è pescare a piene mani in questa abbondanza. Inoltre, questa storia non può prescindere dal contesto storico che l’ha ospitata e riflette le profonde lacerazioni di una società gerarchicamente organizzata in classi. Un mondo in cui l’aristocrazia conservava privilegi considerati naturali e, piuttosto che vederli svanire, cercava alleanze nella borghesia liberale. Sotto questa sorta di cartello sociale pulsava il mondo oscuro del proletariato industriale e metropolitano che, proprio in quegli anni, cominciava ad affiorare alla superficie, attribuendosi faticosamente un’identità politica, culturale, civile. Quel quadro così instabile che già incubava gli esiti tragici dei disordini sociali, prima, e della mattanza della Prima Guerra Mondiale, in seguito. Dal primo calcio al pallone in poi, il football si è evoluto, è cambiato, fino a diventare quel complesso fenomeno che oggi conosciamo, sistemato in un crocevia post-moderno dove si incontrano sport, media, politica, costume e chi più ne ha più ne metta. Ma chi fu a scoperchiare il vaso di Pandora, a romperne il sigillo? Ecco, è proprio qui che comincia la nostra storia... Ivan Carozzi e Andrea Valentini

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Città di Torino, autunno 1897. Essere inseguiti dal senso di colpa, dalla consapevolezza dell’irreparabilità della morte, ovunque si vada, qualsiasi cosa si faccia. Questa è la sostanza della condanna che giorno per giorno, ora su ora, incombe su di lui, Brusaschetto Clemente, operaio impiegato presso il reparto manutenzione dell’azienda tramviaria di Torino e padre di un bambino di dieci anni. La scomparsa dell’amata moglie, occorsa in una calda notte dell’estate 1895, è il lutto all’origine di un dolore che non ammette tregua. Eppure là fuori c’è un mondo che pulsa e sta cambiando. I compagni di lavoro tentano inutilmente di invitarlo a partecipare alle lotte, al nascente movimento dei lavoratori, ma ogni volta si vedono costretti ad incassare il rifiuto di Clemente. Lui che un tempo era un pugile molto conosciuto in città, lui giovane, lui fiero e dignitoso. La morte della moglie lo ha di colpo cancellato dalla scena dei viventi. Lo ha reso sordo alle passioni che agitano le acque del suo tempo, per relegarlo invece in un angolo scuro e abbandonato, in cui la vita si trascina innanzi per pura forza d’inerzia. Il morbo della tubercolosi che ha colpito l’amatissimo figlio Luigi è l’altro macigno che gli si è posato sul cuore e le cure sono troppo costose, ben al di là delle possibilità economiche di un operaio dell’epoca. Il male si trova a uno stadio ancora immaturo, non completamente sviluppato, ma potrebbe esplodere quanto prima. Morte e malattia sono quindi il nome dei due freddi astri che illuminano la sua esistenza. È uno di quei momenti in cui diventa necessario il soccorso della provvidenza, l’arrivo di qualcuno o qualcosa che risollevi Clemente dal pozzo in cui è precipitato e che fornisca la soluzione giusta ai suoi problemi. Ecco dall’altra parte della città, in eleganti appartamenti e salotti di cui Clemente neppure sospetta l’esistenza, l’apparizione di un uomo che incrocerà fatalmente la sua strada. Il suo nome è Edoardo Bosio. L’ottico Edoardo Bosio è il tipico esponente della borghesia liberale torinese di fine Ottocento. Ottimista, entusiasta, viaggiatore cosmopolita, animato da una curiosità insaziabile, egli desidera incoraggiare l’evoluzione del proprio ambiente sociale, colmare la distanza che divide la borghesia italiana dagli standard di vita d’oltralpe. Di ritorno dai suoi frequenti viaggi d’affari, si adopera instancabilmente nel tentativo di importare vizi, mode e manie dei salotti inglesi e francesi. La sua è una sorta di “missione civilizzatrice”, per gratificare il suo piccolo grande ego. Nel mese di settembre del 1898 Bosio rientra a Torino dopo un soggiorno in Inghilterra, cagionato da motivi di lavoro. La sua mente è ossessionata da un piano che lui stesso definisce grandioso: un progetto contemporaneamente sportivo e imprenditoriale. Ha intenzione, infatti, di preparare l’atterraggio nel regno sabaudo di uno strano oggetto, nel quale egli ripone immense speranze: si tratta di una sfera di cuoio arancione del peso di tre chilogrammi circa, attraversata da un reticolo di cuciture doppie e costituita da un involucro esterno di materiale più resistente e da uno interno atto a contenere una camera d’aria: un pallone da football. Non si tratta di un progetto di commercializzazione, ma di qualcosa di molto più ambizioso. Edoardo è intenzionato a fondare una squadra di calcio che faccia da traino e promuova la nascita di altre formazioni, in modo da costituire una lega nazionale e organizzare il primo campionato di football in Italia. Il suo entusiasmo è contagioso e in poco tempo assembla un primo nucleo di squadra: il vanitosissimo cugino Gustavo, un patetico esteta, tre colleghi di lavoro e quattro gentlemen inglesi. Questi ultimi, a Torino per ragioni di lavoro in qualità di dirigenti della filiale della ditta Adams di Nottingham, incarnano il perfetto stereotipo del dandy e non rinunciano a un vizietto che impazza nelle sfere più “in” e trasgressive della madrepatria: si tratta di una polvere da fiutare, candida, dal fascino esotico per via della sua provenienza dalle colonie d’oriente di Sua Maestà. Un elisir che ha il potere di donare euforia e far brillare in società, di destreggiarsi con lucidità e rapidità di pensiero nelle chiacchiere e negli intrighi dei salotti. Cocaina.

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In questo originale quadretto viene ora ad innestarsi la figura di Clemente Brusaschetto. Bosio conosce il suo brillante passato da pugile dilettante e proprio per le sue doti atletiche decide di mettersi sulle sue tracce. Clemente ha smesso da un paio d’anni ogni attività sportiva. Il dolore lancinante per la perdita della moglie lo ha infatti spinto ad abbandonare anche il ring. Una volta rintracciato dall’infaticabile Bosio, Clemente da principio oppone un secco rifiuto, poi Edoardo, avendo avuto notizia della malattia che ha colpito il bimbo, gli propone un piccolo vitalizio economico. A questo punto Clemente, solo e soltanto per il bene del figlio Luigi, decide di accettare l’offerta. Sarà per lui come tornare alla luce del sole. Ad una nuova vita. Clemente non viene accettato di buon grado dagli altri componenti della squadra. La loro estrazione alto borghese e il loro sistema di pensiero nutrito di snobismo e pregiudizio di classe non possono tollerare l’idea di mischiarsi con un operaio. Come potrebbe questi, un rozzo, ignorante bifolco di città, misurarsi con uno sport esclusivo come il football?! Eppure Brusaschetto possiede una naturale aristocrazia nei gesti, una dignità e una saggezza dovute all’esperienza del dolore, tali da sorprendere i compagni e indurli, pur controvoglia, a modificare i propri preconcetti. Così, dopo un impatto non felice, l’uomo, naturalmente e senza sforzo, conquista il rispetto dei propri compagni. L’avventura è così ai nastri di partenza. Hanno luogo i primi allenamenti ed è come assistere alle prime corse dei buffi prototipi automobilistici dell’epoca, con la vettura che s’infiamma e sbanda a destra e a manca. Difatti, mentre gli inglesi possono vantare una certa confidenza con la sfera e un dinamismo che deriva dall’uso spensierato della cocaina, gli italiani arrivano sul pallone con una totale imperizia tecnica, abitudini mentali e fisiche preimpostate, mutuate dallo stile ridondante del tempo, affinato nella famosa palestra Obermann di Torino. Se possibile, una versione primitiva e post-risorgimentale al tempo stesso del gioco del calcio: atteggiamenti legnosi, posture innaturali, slanci vitalistici, pose plateali e plastici siparietti in cui la marcatura viene dedicata ora al re, ora al conte di Cavour. Lentamente, però, affiorano le singole personalità, l’inclinazione per un ruolo piuttosto che un altro e, infine, i primi barlumi di gioco intelligente: schemi virtuosi, triangolazioni e persino qualche azione acrobatica. I progressi della squadra e la macchina pubblicitaria messa in moto da Bosio non mancano di catturare l’attenzione di Luigi Amedeo d’Aosta, duca degli Abruzzi. Questa stranezza del football inizia a solleticarlo e potrebbe fornirgli l’occasione di arricchire il proprio palmarès di un nuovo, sfizioso successo, attribuendosi il titolo di patron del primo campionato italiano di calcio. La vicinanza con esponenti della borghesia e dell’aristocrazia apre a Brusaschetto una serie di esperienze assolutamente inusuali per un operaio del tempo: frequentare un ambiente sociale e partecipare ad avvenimenti mondani normalmente inaccessibili per i suoi pari. La partecipazione a vernissages, l’organizzazione di rinfreschi e appuntamenti ufficiali sono alcune delle occasioni che Bosio costruisce per stendere una rete di relazioni pubbliche intorno al proprio progetto. Poi un giorno, chiamato dai compagni di squadra, Clemente viene invitato a bordo di una meravigliosa mongolfiera per un rapido sorvolo della città di Torino. È qui che ha l’opportunità di avvicinare e conoscere la dama animatrice dei salotti torinesi. Si tratta della bellissima Isabella, consorte del duca Ferrero di Ventimiglia, uno degli ultimi acquisti della formazione, insieme al barone Casati. Questi ultimi, infatti, vengono in pratica imposti dalla volontà del duca degli Abruzzi che, in virtù del proprio peso e lignaggio, si impadronisce gradualmente del “giocattolino” costruito da Edoardo Bosio. Questi non può far altro che piegarsi alla volontà del nobiluomo, seppur a costo di un’ulcera. Costretto ad accettare un ruolo subalterno, viene incaricato di curare gli allenamenti della squadra. Isabella, donna non priva di una certa sensibilità, avverte l’umanità e il fascino discreto di Brusaschetto.

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Nel giro di poco tempo fra i due nasce una reciproca curiosità, che evolve ben presto in una pericolosa spirale d’attrazione, un bizzarro scherzo della chimica che si prende gioco delle rigide convenzioni sociali. Quando nessuno dei due può più negare quello che sente per l’altro, Isabella si ritrae: il pensiero dello scandalo e delle conseguenze che una scelta sconsiderata potrebbe comportare la induce a battere in ritirata. Puntualmente, le ragioni di classe e i tabù sociali, come autentiche forze trascendenti, tornano ad incassare i sospesi e a decidere del destino degli uomini. Isabella cercherà di giustificare se stessa con Clemente servendosi di un argomento che non esiterà ad impugnare in maniera insincera e strumentale. Si tratta di una clamorosa notizia, forse soltanto un pettegolezzo sul passato di Clemente che, tuttavia, finirà per macchiarne la reputazione e avvolgere la sua persona di un’aura alquanto sinistra. Intanto il dottore che ha in cura il piccolo Luigi registra una pericolosa involuzione della malattia ed è costretto a raccomandare al papà, come unica possibilità di terapia, una cura talassemica nei pressi di una città balneare. In questi nuovi giorni d’angoscia, all’improvviso, a causa di un volgare pettegolezzo, uno spettro riemerge dal passato di Clemente. È una donna che presta servizio nella casa d’Isabella a rivelare la cosa. Primo: Clemente nasconderebbe un passato d’alcolista. Secondo: avrebbe abbandonato la bottiglia dopo avere indirettamente causato la morte della sposa. Quella notte di due anni prima, in cui la moglie Violantina perse la vita, Clemente era tornato a casa ubriaco e, nel corso dell’ennesimo litigio, forse le sue grandi mani da pugile inavvertitamente avevano incontrato l’esile corpo della moglie. La donna precipitò giù dalle scale, spezzandosi l’osso del collo. Clemente era troppo ubriaco e confuso per ricordare esattamente come andarono le cose. In seguito non furono accertate responsabilità penali da parte di Clemente, ma i maligni ancora sussurrano che il lutto straziante che si porta appresso e il suo ritorno alla sobrietà non siano altro che la prova più evidente delle sue responsabilità sul terribile accaduto. Una cosa sola è certa ed è che lui amava quella donna e il figlio che gli aveva dato. Isabella, tuttavia, si appropria della notizia per usarla contro Clemente e al tempo stesso per concedere a se stessa un alibi psicologico, un valido motivo per non cedere alle lusinghe di un amore scandaloso. Clemente, testardo e innamorato, prova ad insistere, a sfondare il muro che Isabella ha eretto intorno a sé per inibire il cuore e i sensi. Il suo tentativo di riconquistarla diventa pressante, tanto disperato e al tempo stesso ingenuo da divenire fonte d’imbarazzo. Così, per effetto di una crudele alchimia, l’attrazione proibita fra Clemente ed Isabella si trasforma nella guerra che lei decide di muovergli per allontanare da sé la minaccia di una passione che potrebbe travolgere la sua onorabilità. Isabella inizia così a prendersi gioco di Clemente, dapprima stuzzicandolo e provocandolo, per poi assaporare, infine, il gusto della menzogna, mentendo deliberatamente al marito e denunciando di avere subito da Brusaschetto un tentativo di seduzione. Questo, ovviamente, innesca una reazione nel duca Ferrero di Ventimiglia che torna a guardare il compagno di squadra con rinnovato disprezzo e sete di vendetta. L’animo di Clemente adesso è profondamente turbato: non solo le condizioni di salute del figlio si stanno aggravando, ma la malevola notizia delle sue presunte avances nei confronti di Isabella si è già diffusa, circondandolo di un odioso clima di sospetto. Inoltre Clemente ha ormai compreso quale e quanto grande sia l’abisso che lo separa dai compagni di squadra. Lo ha capito pochi giorni prima, vedendoli brindare e festeggiare un increscioso avvenimento di cronaca: la strage di piazza compiuta dal generale Bava Beccaris durante i tumulti milanesi. Le differenze di classe gli appaiono ora come il segno insultante che marca le differenze fra uomo e uomo, ma anche come l’occasione per trovare in se stesso un’identità e un orgoglio che non conosceva. Adesso riesce a vedere, nelle parole dei suoi compagni di lavoro, nelle loro discussioni, una chiave per comprendere quello che gli è accaduto. Si reca

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a un’adunata operaia e qui riesce a collocare la propria esperienza individuale in un quadro di analisi più vasto. L’esito del suo tormentato legame con Isabella gli appare ora in una luce completamente diversa, come una relazione maledetta dalle spietate dinamiche dei conflitti di classe. Intanto nei giorni che seguono, tutti i colleghi di squadra serrano i ranghi, facendo di colpo quadrato intorno al duca Ferrero di Ventimiglia: Clemente è un nemico, alla fine ha rivelato la sua natura e ha osato importunare la donna di uno di loro. Non gliela faranno passare liscia. Nel frattempo i preparativi per l’organizzazione del primo campionato di calcio italiano sono giunti al culmine. Il torneo si svolgerà nell’arco di una sola giornata, l’otto maggio del 1898. Partecipano altri tre club di appassionati di football nati nella penisola, mentre la squadra di Bosio ha finalmente assunto una denominazione ufficiale: Federazione Ginnastica Torinese. Come riportato dalle cronache, il calendario della giornata prevede due semifinali e la successiva finale. Fra un match e l’altro è previsto un rinfresco a base di tè e pasticcini, mentre un’orchestra ai bordi del rettangolo di gioco ha il compito di intrattenere i convenuti e il folto gruppo delle autorità presenti. La momentanea assenza del duca degli Abruzzi, partito per una spedizione al circolo polare artico, mette Bosio in condizione di agire con maggiore libertà. L’uomo, forse spinto dal suo ego, forse da un desiderio di riscatto dalla posizione di misero vassallaggio in cui è stato relegato, ben presto si lascia contagiare dalla crescente competizione e spirito di rivalità tra i football club italiani. Il candore e l’ingenuità degli esordi cedono spazio alla tensione e ad un insano desiderio di vittoria. Gli inglesi in forza nella Federazione Ginnastica Torinese danno immediatamente la loro personale risposta al problema iniziando ad utilizzare la cocaina, oltre che come tonico nelle occasioni mondane, anche come stimolante per migliorare le proprie prestazioni atletiche. Gustavo, il cugino di Bosio, affascinato dalla potenza di questo elisir, ne sposa entusiasticamente l’utilizzo, divenendone ben presto schiavo. Inesorabilmente giunge l’otto maggio. Al mattino, sotto gli occhi del duca degli Abruzzi e di un pubblico che raccoglie esponenti della nobiltà e curiosi di ogni estrazione, convengono quattro squadre di football, tra cui quella dei “cugini” nati all’ombra della Mole, denominati Società Torinese. Le condizioni generali della Federazione Ginnastica Torinese sono poco soddisfacenti: i dissapori interni tra giocatori, la precaria forma fisica di Gustavo e il peso della tensione della gara si fanno sentire. Nei minuti che precedono l’inizio della partita, Bosio si avvicina a Clemente informandolo che ha deciso di lasciarlo in panchina a causa dell’offesa arrecata a Ferrero di Ventimiglia e con lui al resto dei compagni di squadra. La partita ha inizio. La squadra di Bosio si comporta discretamente anche se l’accesissima semifinale si conclude in modo inatteso, con le due squadre che danno luogo a una rissa in cui i pali e il montante di una porta vengono usati come clave contro gli avversari. Tuttavia, il match viene vinto dalla squadra di Bosio che deve ora vedersela in finale con il Genoa Football and Cricket Club. Si arriva alla finale. Il tempo di un ultimo valzer suonato dall’orchestra e il cielo all’improvviso si oscura: pesanti nuvole minacciano pioggia e ben presto inizia a cadere qualche goccia. Il fischio d’inizio apre la partita decisiva tra la Federazione Ginnastica Torinese e il Genoa Football and Cricket Club. Sotto un acquazzone scrosciante la squadra di Bosio è in affanno e presto finisce in svantaggio di un goal. Manca un quarto d’ora alla conclusione del match e la situazione per la Federazione Ginnastica Torinese è critica. Bosio si vede costretto a chiamare in campo Brusaschetto. Questi dapprima non vuole saperne, poi qualcosa scatta dentro di lui, un pensiero che sembra caricarlo di una nuova forza e di un nuovo coraggio. Clemente entra in campo. Sono gli ultimi minuti della partita e la Federazione sembra ormai battuta quando, con un notevole gesto atletico, Clemente insacca di testa su calcio d’angolo, svettando al di sopra di una selvaggia mischia

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d’area. Ma immediatamente dopo, l’entusiasmo del pubblico e dei compagni di squadra si smorza di colpo. Clemente si reca sotto alla tribunetta in cui sono sistemati dame e signori, tra cui Isabella. A pieni polmoni, in direzione della donna e poi della folla elegante che la circonda, grida che il suo goal è dedicato alle vittime del popolo di Milano, massacrate dal sanguinario Bava Beccaris. Nella generale sorpresa per quella inattesa provocazione, Brusaschetto viene prima raggiunto dal pugno di Ferrero di Ventimiglia e poi a forza immobilizzato e allontanato dal campo. Brusaschetto, sotto gli occhi increduli del figlio, viene preso in custodia dalle guardie, che lo conducono verso un posto di polizia. Intanto, la Federazione viene battuta ai supplementari. Sotto lo sguardo attonito del duca degli Abruzzi e del suo ridicolo protetto, il povero Edoardo Bosio, i giocatori della Federazione Ginnastica Torinese escono mesti dal campo di gioco. Gli inglesi, con Gustavo, chiudono la fila, lo sguardo chino a nascondere il volto irrigidito dalla sconfitta e dalla troppa cocaina. Il Genoa Football and Cricket Club è la prima squadra a conquistare il campionato di calcio italiano. In seguito ai fatti della mattina dell’otto maggio, con l’accusa di vilipendio alla nazione, Brusaschetto viene costretto a cinque giorni di carcere e al pagamento di una pesante ammenda. Ecco che un momento felice si è appena chiuso, mentre una lunga e tetra sequenza di nubi nere si affaccia ora all’orizzonte. E invece, appena varcate le soglie del carcere, qualcuno lo attende. È un signore ligure ed è lì per proporgli un accordo: il Genoa lo vuole con sé, a Genova. Gli offriranno un posto da titolare nel Genoa Cricket and Football Club e un lavoro con i suoi colleghi di squadra al porto. C’è grande animazione fra gli scogli di fronte al porto antico. Ci sono i gitanti della domenica, gli emigranti che fanno la fila per imbarcarsi sulle navi che li condurranno verso il nuovo continente e, confusi fra questi, Clemente e Luigi che guardano di fronte a loro, respirando a pieni polmoni il benefico influsso della brezza marina... Nel volgere fugace di una stagione, la Federazione Ginnastica Torinese era apparsa il felice esperimento sociale in cui convivevano tre classi differenti: aristocrazia, borghesia e proletariato. Poi, le leve della storia e l’ipocrisia viscerale sottesa agli equilibri politico-sociali hanno fatto sì che quella breve parabola si ricoprisse di fango e menzogna. L’epilogo della nostra storia richiama il destino di quella società che solo due decenni più tardi, non più solamente divisa ma gravemente lacerata, incontrerà la mattanza della Prima Guerra Mondiale.

Ivan Carozzi vive e lavora a Massa. Da circa un anno si occupa di sceneggiatura per fiction e documentari. Sta lavorando alla stesura definitiva del suo primo romanzo, una storia ambientata nel 2011 in una periferia fiabesca e degradata. Andrea Valentini nasce nel 1970 ad Alessandria, dove risiede tuttora per la maggior parte del tempo. Dal 1999 lavora come sceneggiatore (fiction tv e cinema), lettore di sceneggiature, consulente per produzioni e docente di sceneggiatura.

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La sua mente è ossessionata da un piano che lui stesso definisce grandioso: un progetto contemporaneamente sportivo e imprenditoriale. Ha intenzione, infatti, di preparare l’atterraggio nel regno sabaudo di uno strano oggetto, nel quale egli ripone immense speranze...

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LA TELA DEL RAGNO di Giulio Marlia PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: DRAMMA POLITICO

Il progetto di Giulio Marlia ha il merito di riportare al centro dell’attenzione il caso Lavorini; una storia brutta, sporca, una delle tante “tele del ragno” del nostro Paese, dimenticate nel circolo vizioso delle bugie che le tessono, finché rimarranno nascosti quei fili portanti che legano il fatto di cronaca alle più solide ed oscure trame della storia d’Italia. Per questo il soggetto, più che basarsi su una rappresentazione mimetica, chiede allo spettatore uno “straniamento”, una distanza da quanto è successo. Da qui deriva il tono espositivo quasi didascalico, volto a ricostruire la dinamica dei fatti e attento a restituire, come in un’indagine o in un interrogatorio, il farsi e disfarsi continuo della storia che si racconta.

Ho scritto la sceneggiatura La tela del ragno alcuni anni fa, avendo in mente i migliori esempi del cosiddetto cinema di impegno civile italiano degli anni Settanta. Nel 1969 il caso Lavorini suscitò grande emozione in tutta Italia e, in particolare, a Viareggio, dove avvennero i fatti e dove anch’io vivevo. La sceneggiatura è stata sottoposta all’attenzione di alcuni registi (Paolo Benvenuti e Maurizio Ponzi, in particolare), ricevendone giudizi positivi e suggerimenti. Grazie a tali suggerimenti, il testo ha subito una serie di modifiche, volte a renderlo sempre più efficace e narrativamente più coinvolgente, pur senza tradire la realtà dei fatti. Tutti gli avvenimenti citati nella sceneggiatura sono basati sui fatti accertati e nascono da un lungo lavoro di documentazione. Ho utilizzato, in primo luogo, due volumi riguardanti la vicenda, ovvero, L’infanzia delle stragi - Il caso Lavorini (Reverdito Editore, Trento, 1989), scritto dai giornalisti del quotidiano Il Tirreno, Roberto Bernabò e Corrado Benzio, e Il caso Lavorini (Casa Editrice Etruria, Viareggio), scritto dall’avvocato Federigo Guardone, il cui padre fu legale di uno degli adulti ingiustamente accusati dell’omicidio. Inoltre ho raccolto tutti gli articoli sul caso pubblicati, negli anni che vanno dal 1969 al 1977, dai quotidiani La Nazione, Il Telegrafo, Il Giorno e L’Unità. Ho consultato infine gli atti processuali conservati presso il tribunale di Pisa. Purtroppo dei dieci faldoni originari, ne sono attualmente reperibili solo tre. In questi tre sono conservati, tra l’altro, i verbali degli interrogatori dei tre ragazzi imputati e, soprattutto, la memoria dell’avvocato Filastò al processo di appello di Firenze del 1976. Ho continuato a lavorare a questo testo perché anch’io ritengo - come scrivono i giornalisti Bernabò e Benzio ed anche Marco Nozza, nella prefazione al loro libro - che il caso Lavorini “fu una specie di giardino d’infanzia della strategia della tensione.” Marco Nozza ricorda che la sentenza di appello e quella di cassazione confermarono che il movente estorsivo era maturato nel quadro di un programma pseudo-politico del Fronte Monarchico Giovanile di Viareggio. “Eppure,” come dice Marco Nozza nella prefazione citata, “la maggior parte dell’opinione pubblica è tuttora convinta del contrario. Basta leggere un recente numero del Corriere della Sera dove, in una cronaca sui guardoni della Versilia, si riparla di Lavorini ucciso ‘in seguito ad abusi sessuali su di lui praticati’. E questo è completamente falso. La memoria, purtroppo, è una virtù che non è stata molto coltivata e praticata in questi anni.” Per questa virtù (e dovere) della memoria ho scritto questa sceneggiatura e mi piacerebbe che potesse trasformarsi in un film in grado di rischiarare un angolo oscuro della nostra storia recente, per i molti che non sanno o che sono stati male informati. Giulio Marlia

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Il 31 gennaio 1969, alla vigilia del Carnevale, la città di Viareggio si trova immersa, d’improvviso, in una atmosfera da incubo: un bambino di 13 anni, Ermanno Lavorini, scompare nel nulla. La famiglia riceve una richiesta di riscatto di 15 milioni. È la prima volta che, in Italia, un minore viene rapito. L’impressione è enorme in tutto il Paese. Il telegiornale ne dà l’annuncio con grande risalto. La notizia entra in moltissime abitazioni, all’ora di cena. A Viareggio l’annuncio del rapimento viene seguito anche nell’abitazione di un uomo sui quarant’anni, che ascolta, assieme alla giovane moglie, rimanendo assai scosso. In un’altra casa di Viareggio una donna sente la notizia, mentre i figli piccoli cenano, scherzando tra loro. A tavola c’è un posto vuoto. Più tardi, nella notte, il marito della donna rientra a casa: è il maresciallo dei carabinieri, Andrea Lorenzi. Le forze dell’ordine sono mobilitate con un dispiegamento di mezzi impressionante. Fra gli uomini impegnati nelle indagini c’è anche il maresciallo Lorenzi. Assieme al suo superiore, il capitano Francesco Alessi, comincia ad investigare sulle numerose segnalazioni che arrivano sui loro tavoli, fin dal giorno successivo al rapimento. Fra le tante segnalazioni, una sembra attendibile. La cameriera di un chiosco di bibite, nella pineta, dichiara di aver visto Ermanno passare di lì, il giorno del rapimento, assieme ad un ragazzo più grande. Quella zona è frequentata da personaggi poco raccomandabili: omosessuali, travestiti e giovani, anche giovanissimi, che si vendono per un po’ di biglietti da mille. Lorenzi comincia ad indagare su questa pista. Va a parlare con la madre di Ermanno e si fa consegnare il diario del ragazzo, sperando di riuscire ad identificare il misterioso accompagnatore. Nei giorni precedenti il rapimento il ragazzo scrive, nel diario, di un suo amico feritosi in un incidente col motorino. Di quell’amico Ermanno riporta solo le iniziali: M. B. Quelle iniziali ricordano a Lorenzi qualcuno. Nell’archivio va a ripescare il fascicolo di un certo Marco Baldisseri, sedici anni, finito nei guai l’anno prima per aver sequestrato una ragazzina di dodici anni insieme ad una banda di minorenni dediti a furti e prostituzione. Lorenzi va a casa del Baldisseri ma il ragazzo nega di essere amico di Lavorini. Ammette però di averlo incontrato il giorno del sequestro, mentre si trovava in pizzeria con un amico ventenne, di nome Rodolfo Della Latta, amico anche del Lavorini. Lorenzi invita Baldisseri a passare in caserma, assieme a Della Latta, per firmare una dichiarazione scritta. Mentre il maresciallo se ne sta andando, nota sul maglione del ragazzo uno strano distintivo, con l’immagine di una corona reale e la sigla F. M. G. Gli chiede di che si tratta ma l’altro reagisce con fastidio, dicendo che quel distintivo è una cosa personale. Il giorno dopo Baldisseri si reca nell’ufficio di Lorenzi, assieme all’amico. La versione del sedicenne è cambiata: afferma che l’incontro casuale con Ermanno è avvenuto il 30 gennaio anziché il 31. L’uomo sulla quarantina, visto nella prima scena, è molto scosso dalle notizie che ogni giorno la televisione trasmette sulla vicenda Lavorini. La moglie è sempre più stupita dello strano comportamento del marito. L’uomo si reca dalla sorella, per parlare di affari, ma la donna nota la sua agitazione e lo invita a confidarsi. L’uomo confessa di essere ricattato, ma non vuole dire perché. La sorella gli consiglia di rivolgersi ad un avvocato. Gli suggerisce un nome: l’avvocato Nino Filastò. L’uomo si reca dall’avvocato Filastò. Si presenta come Adolfo Meciani, proprietario di uno stabilimen-

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to balneare, benestante, fama di viveur e play-boy. In realtà Meciani conduce una doppia vita, ignota a tutti, anche alla giovane moglie: frequenta infatti l’ambiente degli omosessuali della pineta ed ha avuto anche alcuni incontri a pagamento con dei minorenni. Fra questi anche il sedicenne M. B., di cui un giornale locale ha parlato in un articolo. È lui che lo ricatta e Meciani è terrorizzato dall’idea di essere coinvolto nel rapimento di Ermanno Lavorini. Filastò accetta di occuparsi del suo caso. Per il momento, però, non possono far altro che aspettare l’evolvere degli eventi. Il 9 marzo 1969 Ermanno Lavorini viene trovato morto sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. In quei giorni convulsi Lorenzi incontra, nell’ufficio di un collega, un giovane, Piero Vangioni, che sostiene di voler aiutare Baldisseri a scuotersi di dosso ogni sospetto, sostenendo di conoscere un tredicenne, Andrea Benedetti, che il giorno 31 gennaio era con Baldisseri. Questo Vangioni si offre anche di aiutare i carabinieri a raccogliere informazioni nell’ambiente dei “ragazzi di vita” viareggini. All’ospedale di Viareggio Lorenzi verifica che Marco Baldisseri era ricoverato per un incidente di motorino alla fine di dicembre 1968. Il maresciallo è convinto che l’amico di cui parla Ermanno nel suo diario sia proprio lui e che non abbia detto la verità sui suoi rapporti con il Lavorini. Baldisseri viene portato in caserma e interrogato. Gli vengono contestate le bugie su Ermanno. Finisce per confessare che il ragazzo è stato ucciso a Marina di Vecchiano. Ce l’aveva portato lui - afferma - su richiesta di un adulto, Adolfo Meciani. Ermanno resistette e Meciani lo colpì alla testa. Ermanno cadde, battendo la testa su un sasso, e non si mosse più. Meciani viene prelevato e interrogato. Ammette di aver incontrato in pineta Baldisseri, il pomeriggio del 31 gennaio alle 19, per concordare un appuntamento per il giorno dopo. Nega di aver mai visto Ermanno. Per l’ora del delitto, fra le 16 e le 17, presenta un alibi: dice di essere stato al ristorante con la moglie e un amico e poi dal barbiere. Dai primi accertamenti l’alibi viene confermato per gran parte dell’orario ipotizzato per l’omicidio. Meciani viene rilasciato. Lorenzi va a cercare Andrea Benedetti, nel quartiere dove il ragazzo abita, ma quello, vedendo l’auto dei carabinieri, scappa col motorino. A Baldisseri viene contestato che Meciani ha un alibi. Il ragazzo cambia versione dicendo di aver ucciso lui, involontariamente, Ermanno, durante una lite per futili motivi. Andrea Benedetti si presenta da Lorenzi, il giorno dopo la fuga. Dichiara che il 31 gennaio era al luna park con Baldisseri, ma Lorenzi lo informa che Baldisseri, nel frattempo, ha confessato di essere l’autore dell’omicidio. Benedetti, allora, ammette di essere stato presente e che si è trattato di un incidente. Afferma però che il seppellimento del cadavere e la telefonata ricattatoria furono opera di Meciani, a seguito delle loro minacce di coinvolgerlo nel delitto. Arriva a Viareggio il colonnello De Julio, nuovo coordinatore delle indagini.

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Viene interrogato Rodolfo Della Latta, che ammette di aver mentito sull’incontro con Ermanno. Confessa di essere stato presente anche lui al delitto, ma fornisce una nuova versione. Dice che il ragazzo fu ucciso in pineta da Meciani e che lui fu chiamato a seppellirlo, essendo dipendente di un’impresa di pompe funebri e perciò esperto nel maneggiare cadaveri, e aveva accettato di farlo per le minacce di morte ricevute da Meciani. Meciani viene arrestato e messo a confronto con i tre ragazzi che continuano ad accusarlo. Per la disperazione tenta di colpirsi alla gola con un tagliacarte nell’ufficio del capitano Alessi. I quattro imputati vengono trasferiti nel carcere di Pisa. Dopo pochi giorni Meciani si impicca. Non muore, ma è in coma profondo all’ospedale di Pisa. Morirà dopo 40 giorni senza aver ripreso conoscenza. In quei giorni in caserma arrivano numerosi ragazzi che affermano di conoscere la verità sul caso Lavorini. Tutti quanti conoscono Baldisseri e gli altri due. Le loro versioni differiscono per un aspetto o per l’altro, ma tutte ruotano attorno alla versione del delitto a sfondo sessuale. Nel frattempo le indagini vengono trasferite dalla procura di Lucca a quella di Pisa, per competenza territoriale. L’incarico tocca a un giovane giudice, Pier Luigi Mazzocchi. Lorenzi scopre che Vangioni è coinvolto in uno strano episodio. Il giorno 10 febbraio, mentre polizia, carabinieri, vigili, militari e agenti della stradale effettuano una gigantesca perquisizione a tappeto nelle abitazioni di Viareggio, Vangioni aiuta Baldisseri a portar via da casa un sacco a pelo. Baldisseri, nuovamente interrogato, afferma che quel sacco a pelo era servito a trasportare il cadavere di Ermanno. Il giudice Mazzocchi informa Lorenzi e Alessi che non è soddisfatto dell’andamento delle indagini: troppe bugie, troppe versioni, la pista sessuale non ha sufficienti riscontri. Chiede ai due carabinieri di aiutarlo a riaprire le indagini. Lorenzi interroga Vangioni sulle sue manovre per aiutare Baldisseri. L’altro afferma di aver agito in buona fede perché è convinto che Baldisseri sia innocente. Lo conosce bene in quanto appartengono entrambi ad una associazione politica, il Fronte Monarchico Giovanile (F. M. G.) di cui Baldisseri è tesoriere e Vangioni segretario. Lorenzi chiede a Vangioni di portargli l’elenco degli iscritti al Fronte. L’altro protesta, ma il maresciallo insiste. Ottenuto l’elenco degli iscritti al Fronte Monarchico, Lorenzi nota che i ragazzi che sono venuti a testimoniare sulla pista sessuale e contro Meciani risultano tutti iscritti al Fronte Monarchico di Viareggio. Lorenzi va a visitare la sede del Fronte, un vecchio magazzino in periferia. Scopre che la sede è stata inaugurata il 19 gennaio di quell’anno, subito prima del rapimento di Ermanno, e chiusa dopo appena un mese, il 19 febbraio. L’affitto era a nome di Lorenzo Vangioni, il padre di Pietro. Mazzocchi incontra Alessi e Lorenzi. Le coincidenze sono troppe: tutti i ragazzi implicati nel caso sono iscritti alla stessa associazione. Vangioni ha aiutato Baldisseri a far sparire il sacco a pelo usato durante il rapimento ma, dalle analisi effettuate, il sacco a pelo risulta incompatibile con i vestiti che Ermanno indossava quel giorno e quindi, se la causa della sua sparizione fosse stata il rapimento a scopo di estorsione, potrebbe essere stato predisposto solo per farcelo dormire.

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Infine, l’alibi di Vangioni per il 31 gennaio non risulta confermato, mentre quello di Meciani sì. Mazzocchi decide di arrestare Vangioni e di contestare ai tre principali imputati, Baldisseri, Mangioni, Della Latta, il rapimento a scopo di estorsione e l’omicidio volontario di Ermanno. La lunga indagine di Mazzocchi e Lorenzi è arrivata al termine. L’ordinanza di rinvio a giudizio scritta da Mazzocchi traccia, in oltre 300 pagine, il quadro inquietante di un piano pseudo-politico predisposto da Vangioni e dai suoi seguaci. L’enorme ragnatela di bugie, ammannite dagli oltre venti giovani implicati, serviva solo a fuorviare le indagini e a nascondere il vero scenario del delitto. Il giudice ne è convinto, ma il procuratore no. Lo ha ostacolato in tutti i modi durante le indagini ed ha ottenuto il suo trasferimento alla sezione civile. Il caso Lavorini è stata la sua ultima indagine nella sezione penale. Anche Lorenzi si trova in difficoltà. Il colonnello De Julio non condivide l’ipotesi della pista politica: per lui i colpevoli vanno cercati tra gli omosessuali della pineta. L’indagine di Lorenzi non è piaciuta al colonnello e adesso, in caserma, circolano voci di un trasferimento del maresciallo in qualche altra città, molto lontana da Viareggio. La cosa curiosa è che De Julio è stato il braccio destro del comandante supremo dell’Arma, generale De Lorenzo, ai tempi del piano Solo, il tentativo di colpo di stato ideato per contrastare il governo di centro-sinistra, nel 1964. Adesso De Lorenzo è deputato al Parlamento nelle file dell’Unione Monarchica Italiana. De Julio condivideva le idee di De Lorenzo. Curioso che si sia trovato a dirigere un’indagine in cui erano coinvolti militanti monarchici e che si sia dimostrato riluttante a seguire quella pista, commenta Lorenzi. Mazzocchi gli ricorda una frase di Solone: “La giustizia è come una tela di ragno; i piccoli insetti vi restano impigliati, quelli grandi spezzano i fili e volano via.” L’ipotesi sostenuta dal giudice Mazzocchi non viene accolta dal tribunale di Pisa che condanna solamente Baldisseri e Della Latta per omicidio involontario, mentre assolve Vangioni. L’anno successivo, il 1976, la corte di appello di Firenze, grazie anche al lavoro svolto dall’avvocato Filastò, rovescia la sentenza di primo grado e condanna i tre principali imputati per rapimento a scopo di estorsione, omicidio preterintenzionale e calunnia ai danni di Adolfo Meciani. Ma ormai, per la pubblica opinione, il caso Lavorini è solo una storia di “turpi vizi” e Meciani un depravato colpevole. Dopo pochi anni i tre ragazzi verranno scarcerati.

Giulio Marlia. Laureato in Storia e Critica del Cinema all’Università di Pisa; dirigente del settore Cultura del Comune di Viareggio. È responsabile amministrativo e collaboratore del Festival Europacinema. Autore di monografie e saggi di argomento cinematografico, ha collaborato con i regista Paolo Benvenuti per il Progetto Intolerance, scuola per operatori della comunicazione audiovisiva.

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“La giustizia è come una tela di ragno; i piccoli insetti vi restano impigliati, quelli grandi spezzano i fili e volano via.â€?

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SCENEGGIATURE

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LACERO di Elena Bona PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

Fortemente evocativo, denso di simboli che si rincorrono e si intrecciano, questo cortometraggio richiede da parte dello spettatore lo sforzo di ricostruire la fitta trama di allusioni e rimandi che lo condurrà infine a riflettere sul significato di essere donna e, più in generale, sul senso della vita, che è quello che gli imprimiamo noi, con le nostre scelte. Dal contrappunto delle immagini e dei suoni scaturiscono i concetti, richiamando alla memoria il “montaggio intellettuale” o “montaggio delle attrazioni”, che Ejzenstejn aveva promosso ad essenza dell’arte cinematografica. Dietro l’apparenza del videoclip, Lacero riecheggia la purezza di quel cinema, arte muta che affidava il suo messaggio all’armonia delle metafore, prima che l’avvento del sonoro ne decretasse la fine. Che le donne per dire se stesse debbano coraggiosamente ripartire dal grado zero dell’espressione, compresa quella del linguaggiocinematografico?

Le parole che non so dire e la musica che non so suonare in un cortometraggio che non cerca risposte, ma insegue domande. Tre donne, un albero e la musica. Uomini gentili, determinando attese e reazioni, ne tessono la trama. Una chiocciola lascia dietro di sé una striscia di bava e si riappropria di un tempo lento e circolare dove ciò che vive muore e ciò che muore vivrà. Rumori. Un’anfora, un contrabbasso: forme sinuose come corpi di donna. La natura e l’acqua. Echi di un inconscio collettivo femminile. Tutto il resto, forse, non conta. A Elena, Francesca, Silvia e Valentina. A Bianca e Lucia, un pensiero. A Gian Luca e Diego, un altro, diverso ma uguale. Elena Bona

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1. PRATO. ESTERNO GIORNO. L’erba è bassa tra i filari di betulle, i tronchi sono bianchi, la corteccia è a tratti sgretolata: un pezzo si stacca e vola tra i rami. Le foglie degli aceri, verdi e rosse, svolazzano nella brezza. I tronchi delle viti sono torti, la terra è mossa e umida. Gli acini violacei brillano alla luce del sole. Da lontano una BAMBINA di circa cinque anni con capelli corti e neri e indosso un vestitino di cotone bianco è tenuta per mano dal PADRE, un uomo alto, di carnagione scura, con indosso un abito elegante. L’uomo cammina con portamento eretto, la bambina saltella, sorridente. La mano libera della bambina regge un piccolo annaffiatoio di ferro rosso un po’ arrugginito. Nella mano libera dell’uomo un piccolo sacchetto di stoffa. Si fermano vicino a un bastoncino piantato nel prato a cui è legato un nastro rosso. La bambina si accovaccia per terra, mentre l’uomo, dietro di lei, la cinge con le braccia; si regge il piccolo viso con le mani, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, e scruta la terra. Accanto al nastrino rosso una chiocciola muove le antenne. L’uomo si rimbocca le maniche dell’abito grigio e comincia a scavare nella terra con le mani nude. Prende le mani della bambina tra le sue e scava insieme a lei. Terra rossa tra le mani piccole della bambina e quelle grandi dell’uomo. La bambina è piccola, chiusa nelle braccia del padre accovacciato dietro di lei. La mano dell’uomo è aperta e la bambina ne prende un piccolo seme, lo porta vicino al viso, lo guarda, lo annusa e lo fa cadere nella terra smossa, vicino al nastrino rosso. Lo stormire delle fronde si confonde con il canto delle cicale e il cinguettio degli uccelli. TITOLI DI TESTA (scritti a matita sopra uno spartito musicale) 2. STRADA. ESTERNO GIORNO. Man mano le cicale tacciono e così gli uccellini. Un tram sfreccia seguendo rotaie dritte. 3. STRADA/TRAM. ESTERNO/INTERNO GIORNO. [MONTAGE] Un portone elegante si chiude pesantemente. Scarpe con i tacchi laccate nere si allontanano rapide dal portone, per entrare nel rumore del traffico cittadino. Scarpe con i tacchi e collant velati camminano velocemente sull’asfalto della strada. Rumore ritmato dei tacchi, che procedono dritti. Le porte del tram si aprono prima che il mezzo si fermi e produca uno stridio acuto. Rotaie del tram, dritte, percorse dal tram, che procede in linea retta. Al di là del finestrino una GIOVANE DONNA, con scarpe laccate nere e una ventiquattrore tra le mani. Dà un rapido sguardo dal finestrino e vede... 4. CELLA PRIGIONE. INTERNO GIORNO. Dietro le sbarre della porta, in una cella in cui regna la penombra, c’è una DONNA di circa cinquant’anni che indossa una palandrana nera. È seduta su una sedia di legno, immobile, con le gambe unite e la testa china. Nella stanza regna il silenzio più assoluto. Lentamente si alza e va verso la piccola finestra con le sbarre di ferro arrugginito e vede...

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5. PRATO. ESTERNO GIORNO. L’acqua del ruscello scorre rapida, una foglia si incastra contro un sasso per qualche istante e poi riprende la sua corsa fino a scomparire. La bambina immerge l’annaffiatoio: qualche spruzzo le bagna il viso divertendola; lo immerge più volte per essere sicura che sia pieno. Quindi si rialza e trotterella verso il bastoncino legato con il nastro rosso, versando parte dell’acqua durante il tragitto. Il beccuccio dell’annaffiatoio ha piccoli buchi da cui comincia a uscire l’acqua: la bambina si alza in punta di piedi per farla cadere sempre più dall’alto. Acqua che cade, terra che si bagna, gocce sullo sfondo di un cielo luminoso. BAMBINA (voce fuori campo) (canticchiando, senza muovere le labbra) Piove piove piove in ogni dove... 6. TRAM. INTERNO GIORNO. BAMBINA (voce fuori campo) ... e se no che piove a fare senza terra da bagnare? Sul tram la gente è pigiata e alla fermata salgono ancora altre persone. La giovane donna è seduta accanto al finestrino, sul quale sono appesi due fogli: un grafico che visualizza la viabilità modificata e un volantino il cui titolo è “Eutanasia: sì o no?”. Estrae dalla valigetta dei lucidi: li ordina velocemente, soffermandosi alcuni istanti su grafici e statistiche, poi mette davanti a tutti quello su cui è disegnato il ciclo di vita del marketing strategico. 7. UFFICIO. INTERNO GIORNO. Da un polsino bianco inamidato sbuca una mano con la fede al dito che compone un numero telefonico. L’UOMO avvicina la cornetta all’orecchio e attende. L’apparecchio dà il segnale che la linea è libera. 8. TRAM. INTERNO GIORNO. La giovane donna sta guardando fuori dal finestrino: fili elettrici sospesi nel grigio. Il cellulare comincia a suonare e lei rovista nella borsa cercandolo. Schiaccia il tasto della risposta e lo avvicina all’orecchio. Lo sguardo corre oltre il vetro. 9. CELLA. INTERNO GIORNO. La porta della piccola cella si apre, sbattendo. Il rumore dei cardini e il colpo secco infrangono il silenzio. La donna rimane immobile, sollevando appena lo sguardo. Un uomo in divisa, impettito, è fermo sulla soglia. Sul viso ha un’espressione dolce. I due si guardano in silenzio. 10. STRADA. ESTERNO GIORNO. Le porte del tram si aprono, la giovane donna in tailleur grigio scende. Tacchi sull’asfalto, secchi e veloci, percorrono dritti la strada: macchine e passanti distratti. Qualcuno la urta, qualcun altro le dà un volantino che lei getta nel primo cassonetto, una donna la segue parlandole e sporge la mano come per chiedere. Il rumore del traffico della città a quest’ora è assordante e si confonde con il borbottio dei venditori ambulanti e di coloro che vogliono vendere abbonamenti di una qualche rivista. Le strade dall’alto sembrano la tela di un ragno. La giovane donna va dritta, fino a quando è di fronte a un portone la cui targhetta accanto all’androne segnala “Marketing Gamble”: si sistema i capelli raccolti, sta per attraversare la strada quando un

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BAMBINO tira una palla rossa. La palla colpisce i lucidi, che svolazzano un po’ e poi cadono a terra, in disordine. La donna serra i pugni e guarda il bambino stringendo gli occhi, poi si volta, si china di scatto e comincia a raccattare i fogli. Traballa sui tacchi alti. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, si volta per prendere il settimo, sotto il bidone dell’immondizia. Accanto, una chiocciola percorre lenta la strada, sale sul foglio rilasciando una bava umida e biancastra; prosegue lenta sul disegno del ciclo di vita e va avanti pian piano, tracciando dietro di sé una scia lucente. La donna la vede. Si ferma. La guarda. Immobile. Guarda la bava della chiocciola, che avanza piano. La città intorno corre, la chiocciola, al centro, striscia lenta. Il viso della giovane donna sembra rilassarsi. Si alza, questa volta lentamente, continuando ad osservare la chiocciola. Lascia cadere i fogli a terra, che svolazzano lenti. Si volta verso il bambino, stretto in una smorfia spaventata. Fa un sorriso strano. Gira i tacchi e, senza più alcuna fretta, ritorna sui suoi passi. 11. STRADA. ESTERNO GIORNO. La chiocciola continua a strisciare sul ciclo di vita, incurante dell’andirivieni veloce dei passanti. 12. LABORATORIO DI FALEGNAMERIA. INTERNO GIORNO. I piedi sono scalzi, in mezzo ai trucioli di legno, di cui è ricoperto tutto il pavimento non piastrellato. Le mani sottili e ossute stanno lisciando una tavola con uno scalpello. Il rumore invade la stanza. La foga con cui le mani si muovono è tanta, il rumore assordante, un truciolo cade e svolazza fino a toccarle i piedi. La giovane donna lascia che i lunghi capelli lisci le cadano davanti al viso. Indossa un maglione viola troppo grosso che le arriva alle ginocchia e degli scaldamuscoli di lana colorata. Il suono del cellulare supera appena il rumore dello scalpello. Le mani ossute continuano a lavorare, ancora più rapidamente. Il telefono continua a squillare e sembra aumentare di volume. Le mani si muovono quasi feroci sul legno. Ancora uno squillo, il rumore dello scalpello si interrompe. Il telefono suona. Il rumore dello scalpello ricomincia: la donna lavora veloce, avvolta dalla musica. Fuori dalla finestra il cielo è grigio. 13. CELLA. INTERNO GIORNO. Rumore di cardini. L’uomo è di nuovo sulla porta. Senza fare un passo in avanti, porge alla donna una brocca a forma di anfora, piena d’acqua. 14. LABORATORIO FALEGNAMERIA. INTERNO SERA. La giovane donna, immersa nella musica jazz per contrabbasso, sega un pezzo di legno. Accanto a lei c’è un pezzo che pare finito, a forma di otto, alto circa un metro e mezzo. Suona il cellulare. Lei lo guarda di sbieco e continua a lavorare. Il cellulare insiste. Lei respira profondamente, si liscia il maglione pieno di trucioli, si passa le mani sul viso e abbassa il volume della musica che proviene da un mangianastri; quindi afferra il cellulare, chiude la comunicazione senza rispondere, fa rimbalzare il telefono tra le mani e torna ad alzare il volume. 15. CELLA. INTERNO GIORNO. L’uomo è immobile. L’aria è immobile. La donna prende con le mani l’acqua dalla brocca, la

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avvicina alle labbra e beve lentamente, guardandolo. Silenzio. In silenzio gli rende la brocca. 16. LABORATORIO FALEGNAMERIA. INTERNO SERA. La giovane donna tiene tra le mani un contrabbasso e lo guarda innamorata. Lo fa volteggiare tre volte su se stesso. Lo osserva in tutti i dettagli: il cavigliere, il manico, il ponticello e il riccio, a forma di donna. Il piano armonico, le fibre, la cordiera. Il cellulare ricomincia a suonare. Lei si prende il viso tra le mani e se lo frega forte, digrignando i denti e serrando la bocca a smorfia dura. Abbassa lentamente le mani e apre un piccolo mobile di legno, da cui estrae una latta di alcool. 17. CELLA. INTERNO GIORNO. La donna è sola nella cella. Di nuovo il rumore di cardini che cigolano. La porta della piccola cella si apre, sbattendo: l’uomo si ferma sulla soglia e lei, dolcemente, annuisce e si alza. Dall’alto sembra schiacciata al suolo. L’uomo la prende delicatamente per le spalle e l’accompagna fuori dalla cella. La donna volge lo sguardo un’ultima volta alla finestra: un lampo squarcia il cielo. Nella cella vuota risuona un’eco di passi lungo il corridoio. 18. LABORATORIO FALEGNAMERIA. INTERNO SERA. Un tuono improvviso copre l’eco cupa dei passi. Il fragore fa sobbalzare la giovane donna che mischia in un recipiente di rame alcool, mordente e propoli. Poi con un pennello prova la consistenza: è ancora troppo pastosa. Aggiunge un po’ di alcool, mescola di nuovo, quindi comincia a verniciare il contrabbasso, con delicatezza e attenzione. Il cellulare, per terra, è spento. 19. STRADA. ESTERNO SERA. La chiocciola sta completando il giro su se stessa: la bava adesso è un circolo. 20. LABORATORIO FALEGNAMERIA. INTERNO SERA. Dalla finestra un tuono, la luce salta e con questa la musica. Nel buio più totale in sottofondo, in maniera confusa, in un vortice sonoro... BAMBINA (voce fuori campo) Piove piove piove in ogni dove e se no che piove a fare senza terra da... Il cigolio dei cardini, una porta che sbatte, il rumore di uno scalpello che sfrega ostinato sul legno, delle note calde che vengono accordate, un’eco di passi che si avvicinano... 21. LABORATORIO. INTERNO NOTTE. Un fiammifero di legno accende una candela che illumina fiocamente la giovane donna seduta su una sedia di legno, quasi nascosta dietro un contrabbasso di due metri. Un profondo respiro e le sue mani cominciano a pizzicare le corde pian piano, poi sempre più forte: musica jazz impetuosa e funebre di contrabbasso.

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22. PRATO. ESTERNO NOTTE. La musica di contrabbasso viene squarciata da tuoni: il temporale infuria, i lampi permettono di intravedere a scatti e da molto lontano un grosso albero, un acero, a cui è impiccata una donna, figura nera che oscilla nel vento. Il suo corpo sembra dondolare a tempo. 23. PRATO. ESTERNO NOTTE. La donna giovane è completamente nascosta dal contrabbasso: escono solo le mani nervose e i piedi scalzi sull’erba. La musica si fa più incalzante e tetra. Sull’ultima nota la mano della donna si rilassa e, aprendosi, lascia cadere un seme nella terra bagnata.

Elena Bona nasce a Torino nel 1975. Dopo un Master in Editing e scrittura dei prodotti audiovisivi, comincia il suo percorso nel mondo delle storie: collabora per diverse realtà italiane in qualità di script editor (tra le quali la Cooperativa Intermedia, TheFamilyFilm e Matica srl) non esimendosi da altre incursioni nel campo della comunicazione audiovisiva (tra le quali quella di assistente alla regia di Armando Ceste, nel videoclip Habibi degli Agricantus).

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Il cigolio dei cardini, una porta che sbatte, il rumore di uno scalpello che sfrega ostinato sul legno, delle note calde che vengono accordate, un’eco di passi che si avvicinano...

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PARABOLA (versione abruzzese) di Piergiorgio Curzi PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

Piergiorgio Curzi compone un piccolo ed ironico affresco della Palestina di duemila anni fa, trasferendola con grande suggestione, anche dal punto di vista linguistico, nel centro-sud Italia. Inventa piccoli personaggi di grande forza espressiva, le due megere, tratteggia brevi caricature di immediata efficacia, il centurione e l’oste, reinterpreta con calibrato cinismo le figure del Vangelo, il Figlio dell’Uomo e l’Omino... E compie tutto ciò avvalendosi di un tipo di comicità basata sul paradosso, grazie al quale gioca a far esplodere la Storia in quadretti di gusto iperreale e tragicomico.

Parabola racconta la storia di un povero uomo di duemila anni fa che, dopo aver trovato la pace nella sua vita con la morte, viene resuscitato e costretto a vivere nuovamente perché un altro uomo doveva portare avanti la sua “missione”! In altre parole, la parabola di Lazzaro, un piccolo episodio del Vangelo tante volte raccontato, ma del quale ignoriamo l’epilogo: che fine ha fatto Lazzaro dopo la resurrezione? Ho provato a dare una risposta a questa domanda, ma la mia è solo un’interpretazione apocrifa e grottesca, che pone subito un altro quesito, questa volta di natura escatologica: che senso ha ridare la vita ai morti quando si predica il Regno dei Cieli? Piergiorgio Curzi

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1. COLLINETTA/TOMBA. INTERNO/ESTERNO GIORNO. Buio. Lentamente si apre la grande pietra tombale di forma circolare, che lascia così penetrare i raggi accecanti del sole. Con gli occhi di chi non è più abituato alla luce, usciamo dall’oscurità e scendiamo lungo il crinale della collinetta, delimitato da due file di uomini vestiti con tuniche di colori diversi. Le immagini sono completamente sfocate e sovraesposte alla luce; le figure umane risultano come un insieme variegato di colori. Le due file si avvicinano e si congiungono, come in un imbuto, alla fine del percorso, dove un uomo spicca tra tutti per la sua presenza “mistica”... sembrerebbe CRISTO! Un OMINO fasciato di bende e con un sudario in testa si ferma proprio di fronte a lui; l’uomo dalla presenza “mistica” gli pone una mano sulla spalla. 2. COMPLESSO VILLAGGIO/CASA OMINO. ESTERNO GIORNO. Una mano sta eseguendo un disegno su un terreno sabbioso: il disegno rappresenta una collina con un foro al centro. L’omino - piccolo, minuto, indifeso, con una tunica tutta rattoppata addosso - che sta eseguendo questo “paesaggio” è un povero disgraziato di duemila anni fa; sta seduto sopra una pietra, con la zappa e la bisaccia a fianco, mentre è tutto preso dai suoi pensieri e dalla sua “opera”. Dietro di lui, un piccolo villaggio di duemila anni fa, formato da diversi tuguri. Da uno di questi esce una DONNA alta, gigantesca, brutta, strabica e malvestita che chiama a voce alta, in una lingua antica e incomprensibile, il povero omino. STRABICA (in dialetto abruzzese) Fannullo’, coio’, jame entr dandre... muvete! L’omino si alza lentamente, prende la bisaccia, la zappa, e mollemente raggiunge la sua dimora. Mentre la donna lo aspetta con sguardo “severo” sulla soglia di casa, da questa esce un’ALTRA DONNA, simile alla precedente, mastodontica, brutta e senza denti. L’omino entra in casa passando in mezzo a questi due massicci e minacciosi “Dioscuri”. Una leggera ventata muove i granelli di sabbia del disegno. 3. CASA OMINO. INTERNO GIORNO. La casa consiste di una sola stanza, piccola, stretta, bassa (fatta a dimensione dell’omino ma non delle due donne!) e dà subito un’impressione di estrema povertà: un braciere acceso, ceste impagliate appese alle pareti, qualche vaso di terracotta per terra, ciotole allineate lungo un ripiano, un fascio di saggina buttato da una parte, qualche utensile, un ramo di palma in un angolo. L’omino sta seduto a terra in mezzo alle due donne; la sdentata sta rovistando dentro la bisaccia e tira fuori un pezzo di pane... SDENTATA (come se inventariasse) Nu piz de pane... ... e lo dà, facendolo passare sotto lo sguardo intimorito dell’omino, alla strabica che lo prende, lo porta vicinissimo agli occhi e alla fine annusa per riconoscerlo... STRABICA (confermando) Pane! ... e lo mette da parte. La sdentata rovista ancora e questa volta tira fuori un pezzo di formaggio. SDENTATA Nu piz de cace... ... e lo passa all’altra donna che ripete la stessa azione precedente.

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STRABICA Cace! ... e mette da parte. SDENTATA Nu pugne de fave... STRABICA Fave! SDENTATA Nu piz de lane... [un pezzo di legno] STRABICA (sorpresa) Nu piz de lane? La sdentata riprende il pezzo di legno. SDENTATA (come se fosse ovvio) Nu piz de lane!... ... e lo spacca in testa all’omino, che rimane impassibile. SDENTATA (rimproverandolo) ... cheste è tutte! cheste è chelle che si riuscite a truva’, a te e su camele [coglione] ch’ n’ zi atre?!?... La sdentata prende un fascio di saggina e lo dà bruscamente all’omino. SDENTATA ... mo allava la casa! L’omino, senza dire nulla, inizia a spazzare il pavimento, tutto ingobbito in maniera ridicola; le due donne invece preparano il desinare. Mentre l’omino dà i suoi primi colpi di ramazza, il suo sguardo cerca qualcosa... il pezzo di pane, ma al tempo stesso deve stare attento ai movimenti delle due donne affaccendate intorno al fuoco. L’omino si avvicina furtivamente al pane facendo finta di niente, la sua mano si allunga per tentare di prenderlo... la sua fronte è tutta imperlata di sudore... le dita stanno per sfiorare il pane, quando improvvisamente un coltello lo infilza e lo pianta sulla tavola a pochi centimetri dalla mano... L’omino cade a terra, sbiancato dalla paura. La mano della strabica impugna ancora il coltello, mentre il suo sguardo “severo” fissa duramente il piccolo uomo. 4. CASA OMINO. INTERNO GIORNO. L’omino, mentre sta seduto con le gambe incrociate, alimenta il fuoco nel braciere con un improbabile ventaglietto; ogni tanto butta l’occhio dentro il recipiente di coccio che cuoce. Quest’ultimo viene preso dalla sdentata e portato al centro della stanza; l’omino, con sguardo smarrito, lo vede “allontanarsi”. La sdentata, rivolta alla strabica... SDENTATA Pie lu vine! La strabica prende un otre e lo agita come a verificarne il contenuto. STRABICA A finite!

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5. DESERTO. ESTERNO GIORNO. Una sola forma di vita attraversa il deserto, sotto l’impietosa canicola del solleone: l’omino! Tutto sudato, corre tenendo stretto a sé l’otre vuoto. Improvvisamente il laccio di un sandalo si rompe, l’omino incespica, ma resta in piedi. Torna sui suoi passi, raccoglie il sandalo rotto e prova ad infilarselo. VOCE FUORI CAMPO Quo vadis? Un CENTURIONE, piccolo, cicciotello, sudaticcio, seduto a ridosso di una duna, si ripara dal sole, mentre si sventola fiaccamente usando il copricapo; ha l’aria di chi si è perso nel deserto, abbandonato dalla sua stessa centuria. CENTURIONE Quo vadis? L’omino guarda interdetto il suo interlocutore. 6. DESERTO. ESTERNO GIORNO. I piedi dell’omino sgambettano, privi di un sandalo, sulla bollente sabbia del deserto. L’omino porta il centurione sulle spalle, tenendo il sandalo rotto in mano e l’otre sotto braccio. 7. BETTOLA. ESTERNO GIORNO. L’omino, fiaccato dal peso dell’antico romano, cade a terra poco prima di raggiungere l’ingresso di una bettola. Il centurione, ottenuto il passaggio, schizza dentro il locale, senza nemmeno ringraziare. 8. BETTOLA. INTERNO GIORNO. All’interno, seduti su un tappeto a giocare a dadi, ci sono QUATTRO AVVENTORI. Il centurione arriva, ne sposta bruscamente uno e si mette a giocare smanioso al posto suo. 9. BETTOLA. ESTERNO GIORNO. Nel frattempo l’OSTE, un omone dal volto rubizzo, un po’ alticcio, mentre esce dal locale portando con sé una piccola anfora, commenta il comportamento arrogante del centurione... OSTE (disgustato) Rumene!... ... e sputa a terra. Poi guarda il mendicante che staziona all’ingresso della sua bettola... OSTE ... cenciose!... ... e sputa a terra; poi nota l’omino che, rialzatosi, sta spolverando la sua tunica. Il volto dell’oste s’illumina di gioia e furbizia al tempo stesso; posa l’anfora, va verso l’omino e lo abbraccia stringendolo forte a sé. OSTE (ostentando una grande amicizia) Cuio’, cocce de mamme [bello di casa], addo si ite pe tutte su tempe?... L’omino lo guarda incredulo senza rispondere nulla. Dopo averlo avvinghiato, l’oste lo trascina all’interno della bettola. OSTE ... iame... muvete, ci stanne i guajune che te vonne saluta’.

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10. BETTOLA. INTERNO GIORNO. Una volta dentro, l’omino si mette timidamente in un angolo, mentre l’oste si porta dietro una sorta di bancone e, rivolto ai quattro giocatori di dadi... OSTE (a voce alta) Frate’ ’n putete crede chi va venute a truva’... essele, lu cuio’ ca ’n ze more!... Gli avventori e il centurione continuano a giocare indisturbati e indifferenti. OSTE ... cumpa’, armenute lu camele! [è tornato il coglione!] Nessuna reazione. Allora l’oste guarda divertito l’omino e gli strizza l’occhio. OSTE ... dice che offre da bave! I quattro avventori smettono immediatamente di giocare, lasciando così il centurione da solo con i dadi. L’omino guarda affranto l’oste, poi si volta preoccupato verso l’orda dei giocatori che si avventa su di lui. AVVENTORI Iame, che c’arcunte de bille?... Com i state... si state bone, te si divertite, ah? L’omino, messo in mezzo, viene strapazzato da pizzichi, buffetti, ruvide carezze, mentre l’oste dietro il bancone prepara sei coppe. OSTE (enfatico) Faciame nu brindese a la salute di stu voccape’, c’armenute tra nu, uva fa tutte schife! [Facciamo un brindisi alla salute di questo coglione, che è tornato tra noi, dove fa tutto schifo!] I quattro avventori non se lo lasciano ripetere: prendono le coppe e le alzano in onore dell’omino. AVVENTORI E OSTE A chi ce vo’ male pecche’ nu scuppieme de salute! Gli avventori e l’oste tracannano tutto d’un fiato le loro coppe, mentre l’omino rimane un attimo interdetto a guardarli. OSTE (ostentando premura) Beve cuio’, beve... è la festa ti! L’omino respira profondamente mentre guarda i volti deformi e indifferenti dei suoi “amici”. Poi osserva la sua coppa, la porta alla bocca e a fatica la tracanna; finito di bere, gli si stampa subito sul viso un’espressione divertita e leggera. Gli avventori e l’oste scoppiano in una fragorosa risata. OSTE (ridendo soddisfatto) Brave cuio’... brave! L’oste, come un amico fraterno, cinge il suo braccio intorno al collo del povero omino, lo bacia sulla testa e si volta per sputare a terra disgustato; poi, come se niente fosse, riavvicina la sua testa a quella dell’omino che continua a sorridere inebetito. Le risate fragorose degli avventori riempiono tutto il locale. 11. DESERTO. ESTERNO GIORNO. Il sole è allo zenit; il centurione, nuovamente sulle spalle dell’omino, tracanna sorsate di vino

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dall’otre che passa poi giù all’omino; anche lui, assetato e alticcio, beve adesso senza problemi, tutto d’un fiato. L’omino continua a portare il sandalo rotto in mano. 12. CASA OMINO. INTERNO GIORNO. L’otre rotola a terra, vuoto. L’omino in piedi, ciondoloni, davanti alle due donne di casa, come in una sfida all’OK Corral. La sdentata lo fissa con due occhi spietati. L’omino reagisce a quella minaccia con uno sguardo vacuo e brillo. Anche la strabica lo fissa con i suoi occhi incerti. L’omino nota da una parte qualcosa... il pezzo di pane che non era riuscito a mangiare; lo afferra e con aria di sfida lo addenta. La strabica guarda l’altra donna. La sdentata continua a fissare severa l’omino. Noncurante, l’omino mangia sguaiatamente ostentando sicurezza. Improvvisamente le due megere saltano entrambe addosso all’omino che cade a terra travolto da quei pesi massimi. Senza avere la forza di reagire, il povero uomo viene strattonato e graffiato. Poi le voci di una folla festante arrivano in suo soccorso. Le due donne si fermano di colpo e tendono l’orecchio. L’omino, preoccupato, rimane in attesa. La strabica e la sdentata si alzano e vanno a vedere di che si tratta; poi improvvisamente iniziano a correre come due ossesse per la stanza: si sistemano le vesti cenciose, si ravvivano i capelli, si strofinano via l’unto e la polvere dal viso, e mettono dentro ad una bisaccia il poco cibo racimolato in casa... tra cui il pezzo di pane dell’omino. Una volta pronte, prendono il ramo di palma che sta in un angolo ed escono di casa. L’omino rimane a terra allibito. 13. COMPLESSO VILLAGGIO/CASA OMINO. ESTERNO GIORNO. Le due megere si uniscono agli altri abitanti del villaggio che, usciti dai loro tuguri, corrono festanti, sventolando le loro palme, verso quell’uomo bello, profondo, ieratico che è venuto a trovarli: GESÙ, in groppa ad un asino, è circondato dai suoi DODICI APOSTOLI e da una piccola folla che già si è radunata intorno a lui e, per stare più vicino ai suoi fedeli, scende dall’animale aiutato da un discepolo. Sopraggiungono anche le due donne che si mettono a sgomitare per avvicinarsi a lui. Cristo porge le sue mani invitando la folla, tenuta a stento dagli apostoli, a calmarsi. Le due donne si inginocchiano, baciano le sue mani e gli offrono il poco cibo che hanno rimediato. Gesù guarda distrattamente il contenuto della bisaccia, poi invita uno dei suoi discepoli a prenderla; ringrazia allora le due donne accarezzando dolcemente le loro teste, ma il suo volto sereno viene turbato da una strana sensazione: lentamente si volta a guardare verso... L’omino, con il volto tutto rigato di graffi, lo fissa con sguardo severo mentre sta fermo sulla soglia di casa. Cristo, come se capisse la gravità della situazione, levita leggermente al di sopra della folla. Circondato da una luce e da un chiarore irreale, il Figlio dell’Uomo guarda verso l’omino con un’espressione confidenziale e compassionevole; si direbbe che dica: “Caro, come vanno le cose?” L’omino, amareggiato e inquieto, mostra i graffi sul viso e il sandalo rotto, come se dicesse: “Eh... e come va?... Peggio di così! Cristo allarga le braccia, sconsolato e impotente, come se dicesse: “Mi dispiace... ci vuole pazienza!”, poi gli manda la sua benedizione e “scende” nuovamente tra la folla. L’omino rimane imbambolato e impotente sulla porta di casa. 14. CIELO. ESTERNO NOTTE. Una grande luna bianca riempie la volta celeste.

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15. CASA OMINO. INTERNO NOTTE. L’interno della casa ora è adibito a camera da letto. Due occhi sbarrati e pensierosi nel cuore della notte. L’omino, sdraiato a fianco dei piedi nudi delle due donne, non riesce a prendere sonno. 16. COMPLESSO VILLAGGIO/CASA OMINO. ESTERNO GIORNO (ALBA). All’alba, mentre tutti stanno dormendo, l’omino esce alla chetichella da casa con una bisaccia a tracolla; chiude piano l’uscio per non farsi sentire e si allontana furtivamente. 17. BETTOLA. ESTERNO GIORNO (ALBA). Alle prime luci del giorno l’omino, agitato e preoccupato, bussa alla porta della bettola, poi si volta intorno guardingo... aspetta che arrivi qualcuno ad aprire; lascia passare qualche istante, poi bussa nuovamente... L’oste apre l’uscio, assonnato e infastidito. OSTE (con la bocca impastata) Ma che cazze vu? L’omino si guarda intorno circospetto e sussurra all’orecchio dell’oste, proteggendosi con la mano, qualche parola. L’oste dapprima aggrotta la fronte, quasi infastidito, poi la sua espressione si fa sorpresa, quasi incredula. 18. DESERTO. ESTERNO GIORNO. L’omino percorre il deserto a passo sostenuto, indossando un solo sandalo; l’oste, ancora assonnato, fatica a stargli dietro. 19. ZONA COLLINARE. ESTERNO GIORNO. L’omino e l’oste continuano il loro viaggio; ora attraversano una zona collinare che li sovrasta con i suoi rilievi movimentati. 20. COLLINETTA/TOMBA. ESTERNO GIORNO. L’omino improvvisamente si ferma; dietro di lui l’oste fa altrettanto. La fronte del piccolo uomo si aggrotta come se cercasse di ricordare qualcosa... Di fronte a lui, una collinetta con un foro al centro. Gli occhi dell’omino si aprono in una rinnovata espressione di gioia. L’omino improvvisamente si mette a correre verso la collina; arriva ai piedi di questa e inizia, eccitato e frenetico, a scalarla; raggiunge il foro che si apre all’interno, caratterizzato da una pietra circolare a fianco. L’omino accarezza estasiato la superficie del masso come se fosse la cosa più dolce e rassicurante della sua vita; poi si affaccia e guarda all’interno di quel buco nero... 21. TOMBA/GROTTA INTERNA. INTERNO GIORNO. L’oscurità domina le viscere della collina. L’apertura della porta, come un lontano “occhio di bue” dal quale si staglia la sagoma dell’omino, lascia filtrare la poca luce esterna. Il vento che penetra da quella fessura crea nelle profondità della grotta dei versi disumani, come i lamenti di un gigante. OSTE (voce fuori campo) (scocciato) Daje cuio’, muvete... fame aleste! [facciamo presto!]

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22. COLLINETTA/TOMBA. ESTERNO GIORNO. L’omino scende lentamente dalla collinetta e si porta al centro dello spazio sottostante, dove l’oste lo sta aspettando. 23. COLLINETTA/TOMBA. ESTERNO GIORNO. Sparpagliati sull’arido terreno, la tunica dell’omino... il suo copricapo... il suo unico sandalo... e vicino a questo il suo corpo disteso e rigido, tutto fasciato di bende come una mummia; al suo fianco, inginocchiato, l’oste lo guarda lievemente turbato, quasi a disagio. OSTE (dispiaciuto) Si cunvinte?... L’omino, bendato fino al collo, annuisce chiudendo gli occhi. L’oste tenta un’ultima volta. OSTE ... si proprie cunvinte? L’omino annuisce convinto. Allora le mani dell’oste gli pongono in testa il sudario. OSTE (voce fuori campo) Amen! L’oste si carica sulle spalle l’omino e lo porta su per la piccola collina. Raggiunto l’ingresso della tomba, vi entra dentro e sparisce... Dopo qualche secondo ne riesce da solo; affaticato, si strofina via la polvere dalla tunica. Bisogna solo chiudere l’ingresso facendo rotolare la pietra tombale: l’oste inizia a spingere il masso e non manca di maledire chi l’ha messo in questa situazione; mentre è tutto preso dallo sforzo... OSTE (voce fuori campo) (imprecando) Che tu puzza casca’ ’nghe li mane ’n saccocce! [Che tu possa cadere con le mani in tasca!] ... scorgiamo, sopra l’ingresso della tomba, un’intestazione che riporta la scritta: Prontamente un sottotitolo arriva in aiuto dello spettatore: TOMBA DI LAZZARO

Piergiorgio Curzi è nato a Roma nel 1975 ed è laureato in Lettere, indirizzo Spettacolo e Comunicazione Letteraria. È autore di due cortometraggi, Lo stridore che eccita e La mia ultima sigaretta, e del documentario Il cappuccino - lezioni di riciclaggio. Attualmente collabora con uno sceneggiatore professionista e si dedica a tempo pieno alla scrittura per il cinema. Ma la sua passione e il suo punto d’arrivo rimane sempre la regia.

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Improvvisamente le due megere saltano entrambe addosso all’omino che cade a terra travolto da quei pesi massimi. Senza avere la forza di reagire, il povero uomo viene strattonato e graffiato.

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