XV Conferenza SIU L'urbanistica che cambia | Full Papers Atelier 5 | by Planum n.25 vol.2/2012

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Atelier 5.

Pianificazione tra governo e mercato Coordina: Luca Gaeta con Paola Savoldi Discussant: Ezio Micelli


Š Copyright 2012 by Planum. The Journal of Urbanism via Bonardi 3, 20133 Milano Registered by the Court of Rome on 04/12/2001 under the number 514-2001

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Crediti

Comitato scientifico della XV Conferenza Nazionale SIU: Alessandro Balducci (Segretario SIU), Massimo Angrilli (Responsabile), Alberto Clementi, Roberto Bobbio, Daniela De Leo, Luca Gaeta (Tesoriere), Elena Marchigiani, Daniela Poli, Michelangelo Russo, Maurizio Tira Segreteria organizzativa della XV Conferenza Nazionale SIU: Massimo Angrilli (Coordinamento), Cesare Corfone, Antonella de Candia, Claudia Di Girolamo, Federico Di Lallo, Fabio Mancini, Mario Morrica, Patriza Toscano, Ester Zazzero (Mostra Piani di ricostruzione), Luciano Di Falco (Assistenza tecnica) La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è il risultato di tutti i papers accettati alla conferenza. Solo gli autori regolarmente iscritti alla conferenza sono stati inseriti nella presente pubblicazione. La pubblicazione degli atti della XV Conferenza Nazionale SIU è stata curata dalla redazione di Planum. The Journal of Urbanism: Giulia Fini e Salvatore Caschetto con Marina Reissner Progetto grafico: Roberto Ricci Segreteria tecnica SIU: Giulia Amadasi, DiAP - Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano L’immagine della copertina della pubblicazione e delle copertine dei singoli Atelier sono tratte da opere di Francesco Millo ©. Francesco Camillo Giorgino in arte Millo nasce a Mesagne (BR) nel 1979. Consegue la Laurea in Architettura e parallelamente porta avanti una personale ricerca estetica nel campo della pittura, spaziando dalla micro alla macroscala “rivelando la labilità dell’esistenza umana, sospesa a metà tra ciò che conosciamo e ciò che si nasconde dentro di noi” (Ziguline). Riceve diversi premi e riconoscimenti in ambito nazionale, fra cui il prestigioso “Premio Celeste” nel 2011.


Abstract Lo scenario economico dopo la crisi rende precaria l’autonomia finanziaria degli enti locali. Il rischio di usare lo sviluppo immobiliare come una fonte di finanziamento per supplire al taglio dei trasferimenti è reale. Mentre l’instabilità del mercato non consente previsioni, il fallimento di progetti azzardati scarica costi permanenti sulla collettività. Per conciliare i valori di libertà economica e coesione sociale in condizioni di scarsa crescita è bene riflettere su: • la legittimità delle forme contrattuali di pianificazione; • la combinazione di forme contrattuali e regolative; • la capacità di valutare vantaggi e svantaggi delle trasformazioni.


Indice

Atelier 5.

Pianificazione tra governo e mercato Coordina: Luca Gaeta con Paola Savoldi Discussant: Ezio Micelli

Strategie, risorse e dispositivi per fare città in tempo di crisi Città e crisi economica internazionale: la pianificazione al centro dell’attenzione? Valeria Fedeli, Marco Facchinetti Abitare in un “mutuo”. Come l’investimento legato alla casa condiziona le scelte del costruire, ovvero: le regole (non scritte) della città privata Giuseppe Caldarola Un binomio imperfetto: la pianificazione territoriale tra pratiche sociali e beni comuni Fabio Landolfo Per un partenariato pubblico-privato a servizio dell’edilizia sociale. Criticità del Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari Elena Borghetti Contrattare la città giusta. L’esperienza dei Community Benefits Agreements negli Stati Uniti Alessandro Coppola Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni Antonio Cappuccitti Paesaggi, infrastrutture e soggetti della trasformazione territoriale Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio Mariavaleria Mininni, Giovanna Mangialardi, Graziarosa Scaletta Partnership pubblico-privato, infrastrutture ed ecologia Francesco Domenico Moccia, Alessandro Sgobbo Nuove infrastrutture e governo degli interessi localizzativi: quale ruolo per la pianificazione? Il caso del Passante autostradale di Mestre, in Veneto Matteo Basso Dinamiche operative e interazione tra gli attori nei grandi progetti di trasformazione urbana: il caso di King’s Cross Central Alessandro Boca Urbanistica, città, politica, economia Stefano Aragona Urbanistica e Real Estate. Nuovi soggetti e nuovi interessi collettivi Carlo Alberini



Città e crisi economica internazionale: la pianificazione al centro dell’attenzione?

Città e crisi economica internazionale: la pianificazione al centro dell’attenzione? Valeria Fedeli Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: valeria.fedeli@polimi.it Tel. 02.23995531/02.23995405 Marco Facchinetti Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: marco.facchinetti@polimi.it Tel. 02.23995509/02.23995405

Abstract Accanto alla crisi economica internazionale, esiste una crisi urbana altrettanto rilevante. Diverse città negli Usa, in Europa, ma non solo hanno già intrapreso significativi percorsi di declino urbano. Molta letteratura è già disponibile su questo tema da un lato; dall’altro diverse città sono oggi impegnate alla ricerca di soluzioni, che sollecitano un ripensamento della pianificazione e su questo tema poca letteratura appare disponibile. Il paper intende confrontarsi con tre casi, che presentano significative novità: il primo è il caso di Detroit, laddove nel corso degli ultimi due anni il sindaco ha affidato ad un nuovo piano le speranze di ripresa della città; il secondo è il caso di Dubai, impegnata nello stesso periodo, nella revisione del proprio piano, con la necessità di rivedere il proprio modello di sviluppo; il terzo è il caso di Amsterdam, laddove è stato avviato un processo di revisione del “piano strategico”, con lo scopo di individuare soluzioni adeguate ad affrontare la crisi dei grandi progetti di trasformazione privata in corso e al tempo stesso a ripensare le priorità per gli investimenti pubblici.

Città e crisi economica internazionale: quale ruolo e sfide per la pianificazione? Secondo il rapporto McKinsey 2011, più della metà del prodotto interno lordo mondiale nel 2007 è stato prodotto in 600 città, nelle quali si concentra il 22 per cento della popolazione. Le prime 100 città del mondo, sempre nel 2007 hanno prodotto circa il 38% del PIL totale. Secondo le proiezioni al 2025 dello stesso rapporto più del 25% della popolazione mondiale sarebbe stata concentrata in queste 600 città, producendo circa il 60% del PIL mondiale. Tali stime appaiono oggi inevitabilmente inficiate dalla crisi economica internazionale che proprio nel 2007 ha avuto avvio e modificato le traiettorie di crescita su cui esse erano basate. Secondo diversi osservatori internazionali, infatti, la fase di recessione iniziata nel 2007 ha visto 7 città su 8 nei paesi OECD perdere occupazione o reddito tra 2007 e 2010. Secondo il rapporto GLOBALMETRO MONITOR2011, prodotto dal Brookings Institute in collaborazione con il Cities Programme della London Schools of Economics, meno della metà delle 200 aree metropolitane prese in considerazione dalla indagine hanno superato nel 2011 i livelli di occupazione e/o reddito precedenti alla fase di recessione attivata dalla crisi. In che misura la crisi finanziaria internazionale, iniziata nel 2007, ha messo dunque in tensione tali previsioni relativamente al ruolo della città contemporanea nella produzione di ricchezza e lavoro? La letteratura internazionale dibatte sul tema ormai da alcuni anni: è evidente ad esempio che le città hanno risposto diversamente alla crisi e mentre da un lato c’è chi sostiene che le città possano costituire ancora una risposta significativa alla crisi (si pensi ad esempio a quanto sostengono economisti come Glaeser, 2011), dall’altra c’è Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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anche chi ha sostenuto che proprio le città siano state parte in causa rilevante nell’esplosione della crisi (Harvey, 2008). Nonostante il declino abbia interessato in maniera più consistente le città americane ed europee - mentre le performance delle città asiatiche ed australiane sono rimaste largamente positive 1 - in generale si può comunque affermare che diversi contesti urbani e, con essi i diversi modelli di sviluppo urbano a livello mondiale ad essi legati- abbiano sperimentato, pur in forma diversa e con diversi esiti, le fragilità di alcuni meccanismi di produzione della ricchezza in ambito urbano su cui la città contemporanea si è andata costituendo. Se gli effetti della crisi si sono prodotti in maniera assai differenziata nel quadro internazionale, altrettanto diversamente le politiche urbane e la pianificazione sono state coinvolte in un ragionamento complessivo relativo agli effetti degli sconvolgimenti finanziari internazionali sulle economie urbane e sulla città; ragionamento inserito all’interno di un più generale ripensamento relativo ai modelli di sviluppo urbano e al ruolo della pianificazione di fronte agli effetti, ma anche alle ragione di tale crisi. Ciononostante appare possibile affermare che la recente stagione di processi di rigenerazione urbana o di crescita, basata su una forte partnership pubblico privata, si ritrova oggi ad essere pesantemente messa in tensione, a causa da un lato della improvvisa ridotta rimuneratività privata di tali processi da un lato, dall’altro della ulteriormente erosa capacità di azione pubblica, laddove lo stato (centrale o locale) ha dovuto fare i conti con la necessità di rispondere alle emergenze sociali ed economiche generate dalla crisi - oltre ad essere spesso in prima persona coinvolto nella crisi, attraverso la produzione di debito pubblico. In questo senso il settore edilizio e immobiliare, divenuto leader in diverse economie urbane degli anni ‘90 e 2000, si è trovato improvvisamente a dovere affrontare un declino solo apparentemente congiunturale e che in alcuni casi va evidenziando anche elementi di natura strutturale. In questa condizione appare evidente che molte delle leve che hanno concorso a produrre la trasformazione della città contemporanea da un lato, e a rinnovare dispositivi e strumenti di azione della pianificazione urbana, si trovano oggi in discussione. Altrettanto evidente appare l’aspettativa nei confronti della pianificazione urbana, come ambito in cui sia possibile ritrovare vie d’uscita o soluzione alla crisi della città. Il paper si compone di tre brevi e distinti ritratti di contesti in cui gli effetti della crisi finanziaria internazionale, di ben diversa natura, si intrecciano con ruoli diversi tradizionalmente assegnati al planning e alle politiche urbane. I casi indagati illustrano in maniera non esaustiva ma per alcuni versi paradigmatica i diversi fronti di sollecitazione a cui è sottoposta la pianificazione urbana. Detroit, Dubai e Amsterdam, in questo senso, appaiono tre osservatori interessanti per iniziare a leggere gli effetti della crisi, le istanze che essa sta generando sulla pianificazione, le aspettative corrisposte o mancate che essa sta generando. Tale ricostruzione costituisce una prima mossa in un più ampio progetto di ricerca avviato su questo tema e riflette dunque l’avanzamento della riflessione e della ricerca in corso (a maggio 2012).

Detroit, tra l’attesa di un piano-visione e la costruzione di un processo Nonostante i dati più recenti dimostrino una forte ripresa dalle economia a livello locale 2 , la città di Detroit ha vissuto e sta vivendo uno dei momenti più drammatici della propria esistenza istituzionale. Solo infatti un accordo sancito in extremis nel mese di marzo 2012, con l’impegno ad un taglio del bilancio molto consistente, ha salvato infatti la città dalla bancarotta e dal commissariamento: l’accordo ha evitato infatti al sindaco Bing, di essere sostituito da un “emergency manager”, con poteri di dismissione e riorganizzazione di interi settori della amministrazione locale. Quest’ultimo atto è un epilogo - forse solo momentaneo - di una vicenda complessa e articolata che ha visto la città salire agli onori della cronaca internazionale per la crisi economica che l’ha coinvolta, e che ha generato una vera e propria crisi urbana, la cui dimensione appare particolarmente eclatante. Negli ultimi 50 anni Detroit ha infatti perso un milione di abitanti 3 : circa il 57% degli abitanti. Altre città americane hanno conosciuto un declino demografico altrettanto significativo, e non solo nell’ultimo decennio, ma qui i dati sono particolarmente pesanti, soprattutto se letti nell’ultimo decennio che ha visto una accelerazione tanto significativa da porre la questione all’inizio di ogni riflessione sul futuro della città. Chi vivrà qui, “who will live here?”: è questa infatti la prima domanda del progetto che il sindaco Bing ha lanciato nel 2010 per cercare di fare fronte alla “scomparsa” della città e dei suoi cittadini. Una città, per chi? E dove? 10.000 case da abbattere nell’agenda del sindaco (dati fonte detroitworksproject.com), 40 miglia quadrate di territorio 1

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L’esplosione della bolla immobiliare che ha alimentato il sistema economico americano ha colpito ad esempio profondamente diverse economie globali, anche se con risultati molto diversi, se si pensa che secondo i dati di Standard and Poor’s (2010) per ben tre anni consecutivi a partire dal giugno 2006 i costi delle abitazioni negli Stati Uniti si sarebbero ridotti di un terzo per oltre tre anni, mentre nel contesto europeo i valori più significativi della crisi del mercato immobiliare sarebbero comunque stati registrati nel 2008, e si sarebbero attesti attorno al 20%, per poi riprendersi già dal 2009. Già il rapporto GlobalMonitor in maniera inattesa nel 2010 inseriva Detroit nella famiglia delle metro-area istradate sulla strada della ripresa completa, a differenza sia di Amsterdam che Dubai figurano nella famiglia intermedia- sospesa tra recupero e declino. Secondo i dati forniti dal rapporto del Sindaco disponibile nel sito dedicato al progetto lanciato da quest’ultimo negli ultimi due anni per rilanciare la città (“The Detroit work project”, detroitworksproject.com).

Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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abbandonato, l’equivalente di una realtà come San Francisco, costituiscono uno spazio a dire poco inquietante, che mina l’idea della città, la sua forma, la sua densità. E chi ci lavorerà? Con il 24% di tasso di disoccupazione, contro il 9% a livello paese, non è una domanda da poco in una città il cui nome e il cui destino sono da tempo legati a quelli all’industria automobilistica. La crisi che ha investito la città viene da lontano e ha radici antiche. Basti ricordare, con Katz (2010), che il libro simbolo del fallimento del modello urbano americano e delle politiche urbane e cioè il testo scritto da Thomas J. Sugrue, The Origins of the Urban Crisis: Race and Inequality in Postwar Detroit, pubblicato nel 1996, è dedicato appunto a Detroit e costituisce un riferimento comune all’interno di quello che l’autore ricostruisce come la “narrative of failures” delle politiche urbane americane. Ma la crisi oggi in corso colpisce particolarmente perché investe diversamente dal passato, una intera città, anche quella dello sprawl e della diffusione urbana, non solo il CBD. La città abbandonata è quella delle case unifamiliari, delle autostrade e del trasporto individuale, dei poli produttivi o terziari delle strip extra-urbane; è al contempo la città delle politiche pubbliche di rigenerazione urbana, che si sono concentrate sulla rinascita delle aree centrali e sulla loro rivitalizzazione, e che hanno poche esperienze, di cosa significhi rigenerare e come sia possibile ricostruire il successo di una città peri-urbana. L’offerta di terra, abitazioni, spazi commerciali appare infatti oggi del tutto sovradimensionata rispetto ai reali bisogni della regione urbana di Detroit. Cosicché l’opzione davanti alla quale la città si è trovata in poco tempo (in realtà già da tempo il tema della blight elimination era emerso con forza) è stata quella di abbandonare intere parti o settori urbane, infrastrutture e servizi. O ripensarli in modi del tutti inediti, quasi riconsegnandoli ad uno stadio pre-urbano: il ruolo dell’agricoltura urbana tornato oggi con forza in alcuni resoconti internazionali è di fatto da tempo rilevante nella riflessione sul futuro post-urbano di Detroit. Con questo obiettivo, nel marzo del 2010 il sindaco Bing ha dato incarico a Toni Griffin, planner americana e docente ad Harvard, di ripensare la città, attraverso un progetto della durata di 12-18 mesi, intitolato “the Detroit Works Project” e destinato a produrre “an effort to map the city’s future”, secondo le parole con cui la stessa Toni Griffin commenta in una intervista online l’avvio dell’incarico: “This leadership saw now as the opportunity to create a shared vision for the city, across sectors and inclusive of broad civic engagement. I was asked to join the mayor’s team to assemble and manage a team to create this vision with members of his staff”. L’idea di fondo su cui il processo si muove a partire dal 2010 è infatti quella di costruire un piano di lungo termine capace di ripensare la città. In realtà il processo si rivela ben presto molto più complesso e difficile da portare a termine. Dopo un avvio che ha destato la curiosità di molti osservatori locali, e non, il processo ha subito diverse critiche e battute d’arresto. L’idea infatti che un piano di lungo termine potesse affrontare e risolvere i problemi di una città che di fatto è da tempo cresciuta in assenza di un vero ruolo del piano, assecondando i comportamenti individuali degli abitanti nella produzione di uno stock residenziale di sobborghi a bassa densità, si rivela presto non praticabile nelle forme tradizionali. Al forte investimento simbolico iniziale che riponeva nell’idea di “un piano basato sui dati” e capace di trovare una soluzione ai problemi della città, secondo le parole del Sindaco Bing, si sono affiancate varie critiche. In primo luogo quelle delle associazioni locali – polemiche contro l’idea che potesse risultare di qualche utilità un piano elaborato come strumento tecnico, senza tenere in considerazione il rilevante patrimonio di esperienze maturate dalle associazioni locali in assenza di ogni forma di pianificazione e politica pubblica urbana (si vedano le critiche espresse dagli esponenti del Bogg Center, nel dicembre del 2010). Queste critiche hanno visto di fatto sfumare la fiducia iniziale dimostrata nei primi incontri pubblici da parte dei cittadini nella possibilità di contribuire a disegnare un nuovo futuro per la città; in particolare dopo un grande successo delle riunioni iniziali del 2010 si è diffusa la percezione di una assenza di democraticità e trasparenza del processo, nonostante i diversi incontri pubblici che pure hanno contraddistinto la prima fase del processo. A questa sfiducia si è sommata con il passare del tempo la frustrazione legata al reiterato e di fatto più volte disatteso annuncio della pubblicazione del piano –tanto atteso, come simbolica via d’uscita, ultima ratio alla crisi definitiva della città–, pubblicazione che di fatto non è ancora avvenuta. La prima fase si è conclusa infatti senza risultati reali e l’assenza del piano – nessun piano? – è divenuta quasi più pesante, anche nel dibattito sui media, della preoccupazione crescente per la sua possibile pubblicazione - quali effetti del piano se la logica adottata è quella del downsizing Detroit?-, sommata a quella per gli effetti sempre più drammatici della crisi sulla città e all’annuncio fatto a più riprese che la Task Force guidata dal sindaco avrebbe individuato alcune aree di concentrazione della popolazione (tra le sette e le nove) in cui concentrare anche le poche risorse esistenti al fine di salvare il salvabile. È di fronte a questa situazione di spaesamento che, tra aprile e luglio 2011, sembra farsi strada l’idea che riuscire ad elaborare un piano e una visione al futuro sia un compito non fattibile nei modi usuali: si inizia allora a parlare di un processo, più che di un piano, che non sembra potrà vedere luce prima del luglio del 2012. Nel frattempo il sindaco avvia un piano di 10.000 demolizioni di case abbandonate e dichiara, nel giugno del 2011, in una tre giorni dedicati ai media, che non è possibile pensare che il piano possa risolvere i problemi accumulati in decenni. Si apre così una nuova fase: senza rinunciare comunque alla elaborazione di un piano, che è sempre meno “piano”, si procederà con una serie di progetti pilota e una nuova stagione di discussione pubblica. Il sindaco sembra di fatto riconoscere le critiche mosse dalla opinione pubblica alla prima fase e investe in questo senso in una nuova stagione di consultazione pubblica, basata su formule di outreach e interazione individuale diffusa Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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con i cittadini. Senza comunque rinunciare definitivamente al piano, che continua ad essere elaborato da una commissione ad esso dedicata, si individuano tre aree pilota in cui avviare in un periodo di sei mesi azioni di breve termine che evidenzino come sia possibile agire celermente per alleviare i problemi degli abitanti. In questo senso anche la rinnovata presenza del tema urbano nelle politiche federali appare influenzata dalla consapevolezza della impossibilità di agire con gli strumenti tradizionali della pianificazione: a luglio del 2011 commentando l’inserimento di Detroit in una selezione di città target per nuove politiche federali di supporto locale allo sviluppo locale e alla rivitalizzazione urbana, anche il responsabile federale del programma “strong cities” (che testimonia un rinnovato interesse da parte del governo federale sul tema, da tempo assente dall’agenda federale) dichiara che il caso di Detroit si è rivelato particolarmente significativo per ripensare le politiche urbane. Ad agosto 2011 parte quindi la seconda fase del processo; a marzo del 2012 la stampa commenta i risultati della sperimentazione sulle tre aree campione parlando di una strategia di medio termine. Anche il sito che illustra l’iniziativa si apre con due oggi con percorsi ben distinti: da un lato le pagine dedicate alle azioni a breve termine, dall’altro quelle dedicate al processo a lungo termine, in cui ancora è impegnata Tony Griffin, che descrive ormai il piano come qualcosa di diverso da quel land use plan inizialmente annunciato, nei termini di uno strategic framework e di un processo che potrebbe durare anni e che si propone di ripensare le ragioni dello sviluppo della città, a innovare il mondo di pensare al suolo e al suo valore, a rilanciare il ruolo dei quartieri come elementi fondativi per la qualità della vita, e infine alle infrastrutture. Downsizing Detroit, significa oggi di fatto provare a ripensare la città per parti, attorno ad alcuni nuclei compatti, densi, dotati di servizi sufficienti alla popolazione insediata e sostenibili, abbandonando e restituendo alla natura le parti di città inutili o inabitabili, cioè quelle in cui la concentrazione di abitazioni ed edifici abbandonati sia tale da non consentire alla amministrazione di gestire in maniera efficiente dal punto di vista economico tali parti, quelle in cui il processo di spopolamento abbia prodotto la dismissione della città. È da qui che riparte il futuro di una città, che secondo diversi osservatori potrebbe non avere più futuro, o che deve ripensare tale futuro a partire da un’altra idea di città e di piano: si attendono gli esiti di tale processo per l’autunno 2012.

Dubai, tra scoperta della pianificazione e reinvenzione del modello urbano Il secondo caso riguarda una città investita, nel corso del primo decennio del nuovo millennio, da processi particolarmente significativi di crescita e trasformazione urbana, e cioè Dubai, processi che ne hanno radicalmente cambiato l’assetto spaziale, ma anche la composizione sociale e il ruolo economico (superfast urbanism, Bagaeen, 2007). Fino a pochi anni orsono emblema della crescita urbana fulminea di un nodo economico globale basato sulla ricchezza proveniente dalla estrazione del petrolio, la città, negli ultimi anni, ha subito profondi contraccolpi in seguito alla crisi finanziaria internazionale: solo in termini di tasso di occupazione, ad esempio, secondo i dati di GlobalMetroMonitir Dubai ha perso il 7,6% rispetto al 2007. Il caso appare particolarmente significativo per due ordine di ragioni. Dubai ha costituito in larga misura lo spazio di esercizio di importanti operazioni finanziarie e immobiliari legate alla attuale crisi e che ha prodotto effetti particolarmente rilevanti sull’indebitamento dell’emirato, risanato con il supporto di Abu Dhabi nel corso del 2009, e che ha prodotto ripercussioni particolarmente rilevanti sui mercati internazionali; in questo contesto il ruolo del planning, pure da tempo presente anche se in una accezione evidentemente diversa tanto dalla tradizione della città europea quanto quella americana, torna ad apparire rilevante e al centro di nuove aspettative. La crescita tumultuosa è stata fino ad oggi direttamente controllata dalla famiglia reale, socio di maggioranza di tutte le principali società di sviluppo urbano, con un ruolo, giocato dal piano, relativamente limitato e autonomo. La crisi infatti ha colpito il sistema Dubai a pochi anni dalla revisione del piano strategico avviata nel 2003 (ultimo di una serie di piani, che contrariamente a quanto si possa pensare hanno indirizzato la crescita della città): la risposta data dall’Emirato passa in maniera significativa per un ripensamento sia del modello economico urbano, sia dalla riflessione sul ruolo assegnato al planning. Una nuova versione del piano è infatti stata recentemente approvata ed elaborata, lo scorso ottobre 2011 a partire dalla necessità di fare fronte alla battuta d’arresto subita dalla città a causa della crisi finanziaria internazionale: il nuovo documento evidenzia da un lato le conseguenze di tale crisi e dall’altro la visione che l’emirato intende comunque perseguire in una prospettiva temporale di dieci anni, considerati l’orizzonte di riferimento in termini di risposta alla crisi in corso. Al nuovo piano si associa anche l’interesse ad avviare un percorso di costituzione di un nuovo settore della amministrazione locale dedicato alla pianificazione: uno studio di fattibilità di questo percorso costituisce parte integrante del piano ( si vedano le notizie apparse sul web a settembre-ottobre 2011). In termini di conseguenze della crisi avvenuta nel corso del 2008, Dubai si trova a dovere riflettere su una città che molti osservatori già giudicavano composita e frammentate e che appare oggi ancor più incompleta, esito della giustapposizione parziale e incompiuta di progetti urbani di grandi dimensioni, molti dei quali ancora in corso e che quindi non hanno potuto costituire una nuova e continua trama urbana. Una città di progetti alla quale non si accompagna ancora oggi “un progetto” concluso, e che deve fare fronte a sfide fino a poco fa Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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inedite: le difficoltà di una economia urbana largamente basata sugli investimenti immobiliari, la cui crisi richiede un radicale investimento su altre economie, in particolare sul manifatturiero, oltre che sulle energie rinnovabili e sul turismo. Da tempo in realtà Dubai è impegnata in un ragionamento sulla necessità di fare fronte alla riduzione della sua principale fonte di reddito, il petrolio, e insieme ad altri emirati, ha promosso investimenti consistenti sulle energie verdi; ma oggi è più evidente forse la necessità di differenziare il modello economico, che si è appoggiato sul settore edilizio e immobiliare e di prendere atto della difficoltà di portare a termini molti dei grandi progetti previsti all’inizio del nuovo millennio, dall’altro di assicurare la rete delle infrastrutture e dei servizi pensate dal piano come misura per rendere la città competitiva, assicurando la trama delle nuove grandi trasformazioni, dall’altro di non generare il collasso più ampio delle aspettative prodotte dalla precedente fase di crescita. Come conseguenza della battuta d’arresto generale, il piano è stato chiamato a confrontarsi con le stime demografiche, interrogandosi sulla opportunità di ripensare il rapporto tra domanda e offerta di nuovi insediamenti residenziali, anche in relazione non solo alla produzione di alloggi per la classe alta, ma ripensando l’offerta per le classi medie. Allo stesso tempo appare evidente come alcune grandi opere infrastrutturali, quali ad esempio le linee di trasporto metropolitano, debbano essere alimentate da nuove strategie di densificazione e compattazione, per permettere una maggiore efficienza dell’investimento fatto e di quello da farsi per la gestione e messa in opera. Così una rete che sembrava quasi ‘pleonastica’ alla città dell’auto, appare oggi ulteriormente a rischio e si ritorna a ragionare su come rendere utilizzabile l’investimento fisico ed economico prodotto. A questa nuova richiesta di capacità di pianificazione potrebbe essere ricondotta la necessità di ragionare su una nuova flessibilità delle previsioni, che permetta di ridefinire usi e funzioni, dall’altro anche una differenziazione della offerta, con progetti di densificazione lungo assi e poli consolidati e un limitato numero di progetti di nuova espansione, che il mercato immobiliare in questo momento stenta a reggere. In questo senso appare rilevante rilanciare un modello di densità urbana, capace di alimentare diversi usi e di trovare nuove forme di fattibilità. Le sfide che attendono Dubai hanno dunque a che vedere quindi con la necessità di ripensare uno sviluppo frammentario, basato su progetti che faticano ad alimentare una complessiva struttura urbana; la necessità di nuovo investimento sulle infrastrutture pubbliche; la adozione di un approccio alla crescita urbana legato a modelli di efficienza economica; la regolazione degli impatti ambientali delle trasformazioni, in particolare lungo quella linea di costa che è diventata particolarmente famosa attraverso il fantasioso disegno che in questi anni la ha interessata (simbolo di una città costruita in condizioni estreme e quasi avveniristiche); la regolazione dei conflitti in termini di localizzazione delle principali funzioni urbane; la gestione dei progetti urbani che genera vuoti e scompensi nella produzione dei servizi e delle infrastrutture. La notizia dell’approvazione del piano, apparsa sulla stampa internazionale nell’ottobre del 2011, appare ancora più significativa se si leggono le dichiarazioni rilasciate al Khaleej Times in tale occasione, che annunciano anche l’istituzione di un quadro legislativo nel campo della pianificazione: “ The plan focuses on sustainable and economically viable projects and initiatives, according to Director-General Hussain Nasser Lootah. Speaking to Khaleej Times on the sidelines of the Future Cities Conference that runs parallel to Cityscape, Lootah said the plan for the next 10 years’ growth of the emirate had taken into account all aspects of residential, commercial and industrial infrastructure, public requirements for housing and recreational amenities and environmental challenges. “Dubai is not just a real estate town... real estate is just a part of the city’s development. We are not making the plan for buildings. The plan will tell where we need to concentrate on in different sectors,” he said. Assistant Director-General for Planning and Engineering Essa Al Maidour said economic growth is the driving force behind the master plan which is expected to generate more jobs in various sectors. “Our expectation is that Dubai can generate 950,000 jobs by 2020,” said Al Maidour. “We want to give importance to tourism and related sectors to boost the economy. Our focus is also on facilitating trade, re-export, industries and real estate.” He said Jebel Ali will be one area which will see major development growth, with Al Maktoum International Airport and the port boosting the economy by enhancing trade. The new plan estimates a population growth of about one million people by 2020. The plan has anticipated three population scenarios with 2.3 million as the lowest expected one. The maximum Dubai plans to create 950,000 jobs by 2020 population projected now stands at 3.4 million, while officials expect that the middle level projection of 2.9 million would be closer to reality. These new estimates were calculated after taking into account a statistical survey of all projects and the 1.9 million population in 2010. Prior to 2008, the land committed for mega projects had a capacity to accommodate nine million people by 2020. However, since the actual population in 2010 stood at 1.9 million, Dubai is now looking at the revised population estimates for its further development and land use for mega projects. “We think we will have the middle-level scenario (of estimated population) though we are planning for the high-level scenario to make things easy,” said Al Maidour. Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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“There will be legislations to facilitate the implementation of the plan and one major recommendation is to make businesses easy, which you have already started seeing,” he said, referring to the recently announced business-friendly initiatives. The new plan also attempts to balance between urban development and conservation of the natural and man-made heritage environments, and natural resources. (da Khaleejitimes, “Dubai vision: Nearly 1m new jobs by 2020”, Sajila Saseendran, 28.9.2011 http://www.khaleejtimes.com/darticlen.asp?xfile=data/theuae/2011/September/theuae_September672.xml&section=theuae)

Amsterdam, il piano come strumento per contrastare i possibili effetti della crisi Il terzo caso riguarda una città che apparentemente propone oggi limitati segnali di crisi, secondo i dati ufficiali, anche se nel rapporto GLOBALMETRO MONITOR la città appare al 164° posto (insieme a Rotterdam e vede una ridotta crescita del reddito (1%) e un calo nella occupazione (0,2). Come testimoniano da un lato ancora il fatto che la città possa vantare bilanci pubblici in positivo e forte legittimazione nel campo della pianificazione e del governo urbano, dall’alto anche le tre A che vengono ancora riconosciute a questa amministrazione locale dalle agenzie di rating internazionale. La storia di Amsterdam d’altra parte è storia che ha messo al centro della azione pubblica un ruolo primario della pianificazione spaziale e una oculata gestione dei suoli urbani. Tra le misure che hanno garantito il successo di questo modello il meccanismo di tipo concessorio che regola l’uso dei suoli, noto a livello internazionale; in base a tale meccanismo, introdotto alla fine del 1800 allo scopo di evitare la speculazione urbana, la proprietà di tutti i suoli rimane di natura pubblica; i suoli vengono concessi per cinquanta anni per usi privati e la concessione onerosa, che si rinnova quindi ogni cinquanta anni, genera alla città ogni anno circa 60 milioni di euro, che vengono reinvestiti in servizi e opere pubbliche che alimentano la qualità della vita della città. Un provento certo, che permette di operare significativi investimenti pubblici e di potere costruire strategie di lungo periodo: ancora oggi Amsterdam infatti ha un debito di 3 milioni di euro, ma i proventi assicurati da tale meccanismo ne assicurano la solvibilità. Ciononostante la città è oggi impegnata in un significativo sforzo di riflessione sugli effetti locali della crisi economica internazionale; con questo obiettivo ha infatti intrapreso un percorso critico di revisione a breve termine di alcune delle previsioni contenute nel recentemente approvato piano strategico. Un documento che si proponeva di traguardare nel lungo periodo, puntando al 2040, e che oggi si trova a fare i conti, a due anni dalla approvazione, con le conseguenze di una crisi finanziaria che sta in qualche misura generando effetti significativi anche su una città che pur rimanendo comunque potentemente competitiva a livello europeo e internazionale, è costretta ad interrogarsi sulle conseguenze locali di processi globali e sulle relazioni con il resto del sistema paese. In particolare con l’emergere di segnali di un processo di dualizzazione sociale locale, da un lato, dall’altro con un effetto deprimente sulla crescita delle altre realtà urbane olandesi, che si configura come un possibile fronte di ulteriore squilibrio economico generale. I segnali infatti evidenziano una crisi del mercato immobiliare, tanto più preoccupante se si pensa alla consistenza delle previsioni del piano approvato: 300.000 abitazioni nel corso dei prossimi 30 anni, per due milioni di cittadini e un milione di posti di lavoro da un lato; dall’altro, solo per fare un esempio, 25% di spazi uffici non utilizzati. La domanda che la città si pone dunque è la seguente: Amsterdam continuerà o meno ad essere un magnete per gli investimenti e in particolare un attrattore per gli high skilled workers, e cioè al target delle strategie contenute nel piano? E se si, con quali effetti? Al centro del percorso di revisione del piano in corso negli uffici competenti stanno infatti due domande: quali dei grandi progetti di trasformazione urbana previsti avranno effettivamente possibilità di essere condotti a termine? in che misura tali trasformazioni potranno contribuire a costruire una riposta adeguata ai bisogni dei cittadini? L’obiettivo è quindi quello di capire su quali progetti, tra quelli in atto, sia possibile e necessario concentrare l’azione pubblica, al fine di garantire la fattibilità dell’intervento e le sue ricadute pubbliche sulla città. Una operazione di valutazione tecnica considerata rilevante per consentire alla politica di operare scelte complesse ma necessarie in un momento di difficoltà, sia nella comprensione dei problemi in corso, sia nella formulazione di azioni e strategie. Con questo obiettivo la città ha costruito un accurato modello di simulazione, basato su due tipi di operazioni. Da un lato esso consiste in un calcolo accurato dei i costi delle trasformazioni previste e dei proventi che tali trasformazioni possono generare nei confronti della città. Tali costi sono stimabili in quanto da sempre il meccanismo concessorio prevede che il pagamento degli oneri non sia una cifra forfettaria, ma sia fatto calcolata in debita proporzione ai proventi generati dal progetto. I dati quindi sono da sempre disponibili alla municipalità. Questo permette di verificare in chiaro la fattibilità di ciascuna operazione urbanistica e la sua redditività. Sulla base di tali dati, la città individua i progetti che si considerano cantierabili e quelli invece da considerarsi come black projects, quelli che cioè nel breve periodo risulteranno difficilmente realizzabili e sui quali quindi Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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Città e crisi economica internazionale: la pianificazione al centro dell’attenzione?

l’investimento pubblico, ad esempio per la realizzazione delle infrastrutture non sarà garantito, a vantaggio di altri progetti, fattibili. Ma anche utili. Una seconda operazione accompagna infatti questa prima valutazione e consiste nella identificazione delle priorità per la città. Essa passa attraverso la consultazione dei 7 distretti in cui la città è divisa, attorno ad una domanda: “come cambieresti i tuoi piani, se non ci fossero più risorse?” Non si tratta, nella logica generale, di tagliare trasformazioni approvate dal piano, ma di rimandare gli investimenti a periodi più opportuni, sapendo che le risorse a disposizioni sono oggi pari a 1/3 di quelle necessarie per avviare tali processi di rigenerazione urbana. In questo senso il comune ha deciso di riunificare tutte le linee di finanziamento pubbliche a sua disposizione e di concentrare tutte le risorse solo su quei progetti che saranno avviabili nel corso dei prossimi 2 anni: su quali progetti concentrare i 65 milioni di euro oggi ancora a disposizione? Per operare una tale selezione il comune ha condotto una indagine basata su una indagine campionaria che ha coinvolto 100.000 persone, sulla base della interpretazione di una operazione routinaria di survey che avviene ogni 2 anni ad Amsterdam e che ha come obiettivo quello di mappare la qualità della vita nella città. 4 gli indicatori utilizzati per capire in che misura Amsterdam sia o meno una città vivibile nella percezione dei suoi abitanti: quale misura di apprezzamento esprimono i cittadini? Quale percezione delle relazioni sociali? Quale è la loro fiducia nel futuro? Quali sono i dati sulla sicurezza urbana? L’indagine seleziona i quartieri in cui la qualità della vita, in funzione di questi parametri risulta particolarmente problematica e incrocia questi dati con indicatori statistici quali reddito individuale e risultati scolastici, per arrivare a selezionare i contesti urbani di maggiore criticità. È dal confronto tra il primo tipo di risultato e il secondo che derivano gli elementi sulla base dei quali l’amministrazione pubblica sarà chiamata a decidere su quali progetti investire per garantire ad Amsterdam performance di rilevante competitività urbana coniugate anche con obiettivi di equità sociale, al fine di garantire quella qualità della vita che da decenni attrae in città popolazione qualificata e qualificante, quella su cui si regge anche lo stesso mercato immobiliare urbano.

Conclusioni I tre casi non permettono di arrivare a delle conclusioni comparabili; né questa è l’intenzione del paper. Interessa piuttosto iniziare a ricostruire i profili di tre città e tre diverse culture della pianificazione che si trovano oggi a fare i fronti con gli effetti della crisi economica internazionale. Tali profili evidenziano da un lato una serie di rinnovate aspettative rispetto alla pianificazione urbana, con una nuova attenzione anche in contesti che le hanno assegnato scarsa rilevanza; al contempo ne evidenziano comunque i limiti ma anche i margini di azione in termini di contributo alla produzione delle scelte di rilevanza pubblica in un periodo in cui la città è al centro di forte incertezze e tensioni. L’analisi dei casi costituisce in questo senso un punto di partenza a carattere ricognitivo per un progetto di ricerca che intende esplorare, in un’ottica internazionale, le sollecitazioni che l’attuale crisi economica internazionale sta proponendo alla pianificazione urbana, laddove in particolare si ritiene fondamentale capire: (1) in che misura l’attuale crisi economica, specifica per ragioni e conseguenze rispetto ad altre, coinvolge in maniera significativa le città; (2) in che misura la città costituisce non solo un campo su cui si proiettano gli effetti generati a distanza da una crisi economico-finanziaria globale, ma può essere letta anche come fattore rilevante nell’innesco dell’attuale condizione di crisi, in quanto esito ed espressione di modelli di sviluppo che hanno avuto un ruolo significativo nel generare l’attuale crisi?; (3) in che misura la città può candidarsi a dare soluzione alle problematicità generate della crisi, in quanto spazio di sperimentazione di risposte innovative, capaci di alimentare positivamente possibilità di uscita dalla crisi?; (4) in che misura tali soluzioni e problematicità evidenziano la necessità di innovazione nel campo della pianificazione, delle politiche, del progetto e del governo? Se e in che misura sia necessario cambiare i quadri concettuali che abbiamo fino ad ora utilizzato per studiare i processi di ristrutturazione urbana generati dalla crisi non appare semplice dirlo. Le sollecitazioni nel campo del planning, appaiono altrettanto rilevanti: di particolare utilità in questo senso una sezione curata da Soureli e Youn di Critical Planning dedicato nel 2009 ad affrontare una lettura dei processi di “urban restucturing”, in corso, come esito di processi indotti dalla crisi, ma anche delle azioni di agenti individuali e collettivi per reagire alla crisi. Il numero, che ospita un dibattito a più voci tra Neil Brenner, John Friedmann, Margit Mayer, Allen J. Scott e Edward Soja, al centro del quale vi è una riflessione generale sulla crisi delle città e sulle sue implicazioni urbane e le sfide indotte nel campo del planning, delle politiche e dell’azione, all’interno di una più generale riflessione, anche teorica, sui processi di ristrutturazione urbana. La crisi infatti mette in discussione i meccanismi di sviluppo urbano legati ad una stagione di regolazione di stampo neo-liberista, secondo Brenner e spinge a traguardare alla possibilità di produrre una visione antagonistica a tali forme di regolazione. In questo senso appare un rilevante campo di ricerca quello che si interroga sul ruolo che la pianificazione potrà svolgere in tale contesto.

Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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Città e crisi economica internazionale: la pianificazione al centro dell’attenzione?

Bibiliografia Gallagher J. (2010), Reimagining Detroit Opportunities for Redefining an American City, Wayne State University. Glaeser E. L. (2011), The triumph of the city, Penguin Book. Glaeser E. L., Resseger M. G. (2010), “The Complementarity between Cities and Skills”, Journal of Regional Science, 50 (1), pp. 221-244. Glaeser E. L. (2008), Cities, Agglomeration and Spatial Equilibrium, Oxford: Oxford University Press. Harvey D. (2008), “ The Urban Roots of the Fiscal Crisis”, paper presented at the American University of Beirut, hosted by their Masters in Urban Planning and Policy and Urban Design Department, on May 29, 2009. Kantor P. (2010), “City futures: politics, economic crisis, and the American model of urban development”, Urban Research & Practice, 3(1), pp. 1–11. Katz M.B. (2010), “Narratives of Failure? Historical Interpretations of Federal Urban Policy”, City&Community 9-(1), pp. 13-22. LSE (2010), “Global Metro Monitor”, prepared by Metropolitan Policy Program, The Brookings Institution, LSE Cities, London School of Economics, and Political Science with Deutsche Bank Research, supported by the Alfred Herrhausen Society, the international Forum of Deutsche Bank. McKinsey Global Institute (2011), Urban world: Mapping the economic power of cities. OECD (2011), OECD Regional Outlook 2011: Building Resilient Regions for Stronger Economies, OECD Publishing. Soureli K. and Youn E. (2009), “Urban Restructuring and the Crisis: A Symposiumwith Neil Brenner, John Friedmann, Margit Mayer, Allen J. Scott, and Edward W. Soja”, Critical Planning Summer 2009. State of the City 2010, Dave Bing, Mayor, March 23, 2010.

Siti web http://www.mckinseyquarterly.com/Cities_the_next_frontier_for_global_growth_2758 http://detroitworksproject.com/for-detroit-to-work-we-need-action-today/

Riconoscimenti Gli autori, pure assumendosi ogni responsabilità rispetto alla restituzione del percorso in atto, ringraziano in particolare per la ricostruzione del caso di Amsterdam Hans van der Made, Dienst Ruimtelijke Ordening Amsterdam (City Planning Department).

Valeria Fedeli, Marco Facchinetti

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Abitare in un ‘mutuo’: come l’investimento legato alla casa condiziona le scelte del costruire ovvero, le regole (non scritte) della città privata

Abitare in un ‘mutuo’: come l’investimento legato alla casa condiziona le scelte del costruire ovvero, le regole (non scritte) della città privata. Giuseppe Caldarola Università IUAV di Venezia Unità di Ricerca ‘Le Condizioni dell’Abitare’ Email: giuseppe.caldarola@iuav.it Tel. 347.6520314 fax 041.2571392

Abstract Ripetute osservazioni condotte nel contesto territoriale del nord-est italiano consentono di avanzare significative ipotesi sulle condizioni di realizzazione di un progetto urbanistico legato all’abitare e di interpretarne le dinamiche quali esiti di strategie di azioni convergenti di famiglie, costruttori, finanziatori, amministratori e progettisti uniti da un’implicita condivisione di interessi, tutti di natura‘privata’. L’azione di tali attori procede per ‘lottizzazioni’ -secondo comportamenti di ‘buon senso’ e modelli ripetuti e comunque in assenza di ‘piano’ (progetto condiviso)- e non produce un progetto né urbano né di territorio. Sono queste le regole (non scritte) della ‘città privata’ alla base della maggior parte delle recenti trasformazioni territoriali e che trovano giustificazione nel cambio di percezione della casa da ‘bene durevole’ a ‘investimento’ favorito e indotto dal sistema ‘mutuo’, termine di paragone cui tutte la scelte del costruire fanno riferimento e che racchiude le ragioni del credito quale condizione e discriminante all’acquisto da parte delle famiglie. Comprendere le ragioni, i linguaggi, le modalità di interazione tra soggetti nelle pratiche edilizie consente di aprire nuovi scenari ed ambiti di azione nell’ottica della condivisione del progetto di costruzione dell’abitare.

Territorio nord-est: la città ‘privata’ tra processi, attori ed esiti edilizi Una serie ripetuta di osservazioni condotte negli ultimi anni sulle diverse condizioni di realizzazione di un progetto urbanistico legato all’abitare –sul disegno, cioè, delle lottizzazioni residenziali e industriali, dei quartieri di edilizia pubblica, delle attrezzature della grande distribuzione nonché degli spazi pubblici- ha consentito di formulare alcune significative ipotesi circa la formazione di strategie di azioni convergenti di famiglie, costruttori, finanziatori, amministratori e progettisti, tutte di natura ‘privata’ e non riconducibili nelle logiche del disegno urbanistico e di condivisione del progetto. Proprio la comparazione delle modalità e dei tempi di azione di ciascuno degli attori dei diversi processi e la codifica degli intrecci nelle pratiche edilizie mostrano, quale possibile elemento unificante, una implicita condivisione di interessi. Il ‘mutuo’, quale termine semplice in cui ascrivere e racchiudere il sistema del credito come condizione endemica del passaggio tra la percezione della ‘casa come bene durevole’ a quella della ‘casa come investimento’, è il termine di paragone cui tutte le scelte del costruire fanno riferimento nei modi in cui si traducono nelle pratiche edilizie che perseguono le ragioni più proprie dell’investimento. Nella più ampia gamma di tematismi, questa condizione risulta tanto più evidente nel disegno delle lottizzazioni residenziali additabili quali ‘meccanismi’ e ‘processi’ nei quali -per incidenza del fenomeno- risulta ascrivibile la maggior parte delle recenti trasformazioni territoriali strutturate secondo sommatorie di logiche parziali più proprie di ciascuno degli attori dei processi edilizi e che non generano un progetto né urbano né di territorio e che, anzi, spesso non considerano i costi che i medesimi interventi scaricano sulla collettività.

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Per confronto critico, si rende peraltro possibile leggere le modalità entro cui si configurano e strutturano gli interventi (siano essi di nuova realizzazione o di riqualificazione dell’esistente) tanto sulla città pubblica -di cui si deve registrare la progressiva riduzione- e sulla sua qualità quanto sulla città privata non residenziale. La ricorrenza di tali condizioni è riscontrabile –pur con variazioni più o meno rilevanti- sull’intero territorio nazionale. Esse divengono assai significative nel contesto territoriale delle regioni del nord-est italiano che si mostrano omogenee per dinamiche, processi, tipologie e modalità di trasformazione, nonché per le quantità ivi attestate. Se in questo contesto il fenomeno, marcato dalle ben note dinamiche di ‘diffusione urbana’ e di ‘consumo di suolo’ 1 , trova le sue radici nel periodo del dopoguerra e della crescita economica dei due decenni successivi, la sua evoluzione nell’ultimo trentennio mostra una sostanziale costanza nella tendenza alla crescita e il reiterarsi delle medesime condizioni. Ne sono derivati modelli ripetuti, spesso ‘impliciti’ e forse non del tutto indagati e codificati. La recente introduzione delle leggi urbanistiche regionali, l’applicazione (o anche ‘occasione’ mancata) di leggi nazionali (i.e., il ‘piano casa’ di cui il Veneto è stato regione pilota), l’attuale stato di crisi che ha generato una battuta di arresto o se non altro un rallentamento nella costruzione delle nuove edificazioni, la dismissione di consistenti quote di patrimonio edilizio a destinazione artigianale e industriale, la presenza nei centri urbani di quote significative di edificato da più parti indicato come ‘da rottamare’ 2 consentono di leggere questo contesto territoriale come ‘in bilico’ tra modalità consolidate e quasi ormai divenute ‘tradizionali’ di previsione, gestione, controllo (veri o presunti), realizzazione e nuovi scenari che stentano ancora a delinearsi. La strutturazione attuale del territorio può leggersi come legata a un sistema ‘casa-lavoro’ che, nel medesimo arco temporale, aveva mostrato una continua tendenza alla crescita e una sorta di fiducia nella permanenza delle condizioni tale da indurre le famiglie all’accettazione e alla quasi non-considerazione dei ‘costi’ che il medesimo sistema generava. L’andamento altalenante del mercato immobiliare, la riduzione dei volumi di compravendite e l’abbassamento dei valori di mercato conseguenti alle condizioni indotte dalla crisi (dei mutui prima ed economica poi), il rallentamento dei progetti in corso di realizzazione e la contrazione delle quantità delle nuove progettazioni registrati a partire dal 2008 e accompagnati da variazione al ribasso delle capacità di spesa delle famiglie (conseguente alla contrazione dell’offerta di lavoro oltre che alla sensibile riduzione delle quantità di prestiti erogati quale garanzia di accesso a beni e servizi fin qui datasi), compongono scenari di assai incerta delineazione e non consentono al momento previsioni di lungo periodo univocamente date. In questo quadro e dato il prolungarsi di queste condizioni all’oggi, si può ipotizzare peraltro l’impossibilità di un ritorno alle condizioni precedenti e conseguentemente la non sostenibilità del reiterare modalità di trasformazioni territoriali non più rispondenti alla domanda. Si è concluso un periodo? Non lo si può affermare con certezza! Certo è che si stanno registrando –e lo comprovano recenti studi condotti tanto da analisti urbani e di micro-economia quanto da sociologi- profonde modificazioni e uno stato di crisi nella struttura ‘sociale’, i cui aspetti più evidenti sono la ‘precarizzazione’ delle posizioni lavorative e la contrazione della capacità di spesa di spesa delle famiglie, che ‘reggeva’ tali modalità di strutturazione degli insediamenti e accettava, veicolandoli, gli esiti edilizi del procedere ‘per lottizzazioni’ 3 reiteratosi nel tempo. In considerazione di tali modificazioni al fine di individuare nuove modalità di azione, la comprensione delle reali condizioni di realizzazione di un progetto legato all’abitare fin qui date, dal punto di vista della verifica di esistenza e codifica di modelli ripetuti –li si dirà ‘città privata’- dei linguaggi e dei percorsi progettuali degli attori di processo e i loro intrecci nelle pratiche edilizie, si rende necessaria per delineare nuove progettualità e ricondurre ‘azioni’ singole nell’ottica della condivisione del progetto e della sua qualità. Se questi sono gli aspetti da considerare per quanto attiene alle questioni di disegno/progetto degli spazi residenziali e della loro formazione, tutto da esplorare rimane il rapporto tra la ‘forma dello spazio residenziale’ indotto e generatosi da tali meccanismi e la ‘forma dell’investimento’ specie alla luce delle mutate condizioni.

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Per le questioni di diffusione urbana e consumo di suolo si vedano i documenti e scritti proposti dal sito www.eddyburg.it. Cfr. Rapporto cisl 2010 ‘I giovani, le famiglie, gli anziani: quale casa per il futuro’. 3 Il procedere per lottizzazioni risulta essere una modalità entro cui si può ascrivere la gran parte dei recenti processi di costruzione dello spazio abitato avviati da e per iniziativa di soggetti privati (i.e., famiglie, imprese, aziende e gruppi non appartenenti al settore edile e afferenti al settore finanziario) a leggersi nella duplice dimensione spaziale e temporale: è trasformazione di una porzione di suolo già urbanizzato o da acquisirsi all’urbano, spazialmente delimitata e identificabile come unità a sé stante, spesso caratterizzata da una sorta di ‘indifferenza’ rispetto al contesto che emerge in fase di progettazione e realizzazione ma soprattutto nelle condizioni d’uso degli spazi ivi ricompresi; è trasformazione che si genera in relazione all’espressione di esigenze di singoli attori nell’intero arco temporale di ‘attività’ nel processo edilizio che sconta ogni discrasia tra azioni singole a configurarsi come comportamenti isolati di soggetti tra cui non intercorre alcun dialogo. 2

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Condizioni ricorrenti e meccanismi di costruzione dello spazio abitato residenziale In numerosi comuni del triveneto, gli esiti delle lottizzazioni appaiono nella generalità dei casi spesso condizionati da fattori di vincolo che i diversi operatori sono soliti indicare come dovuti ad altri soggetti e vincolanti la loro azione. Il ricorso alla lottizzazione residenziale per la realizzazione dei nuovi spazi dell’abitare costituisce una sorta di ‘evoluzione’ dei medesimi modi posti in essere per la costruzione di case isolate: al mantenimento dell’apparente libertà di azione del committente della ‘casa isolata’ (la ‘villetta’, ndr, che costituisce l’esito edilizio del modello tendenziale dell’abitare nel contesto territoriale), tale modalità di trasformazione del territorio affianca i vantaggi delle economie di spesa discendenti dalla quotizzazione della realizzazione delle opere di urbanizzazione e di interesse comune tra i vari soggetti aventi interesse 4 . Dal punto di vista della localizzazione di tali trasformazioni, condizione che ne caratterizza il disegno complessivo (il distributivo planimetrico, alla scala di insieme tanto quanto a quella dei singoli manufatti), la dotazione di spazi pubblici, a verde, servizi e parcheggi, le quantità e le qualità edilizie poste in essere, esse risultano essere di:  Completamento: sono generalmente già previste dalla vigente strumentazione urbanistica e mostrano un maggiore livello di integrazione col contesto urbano più prossimo e maggiore dotazione di servizi e spazi pubblici (ove carenti all’interno delle aree di trasformazione, si riscontra, a compensazione, la loro presenza nelle aree più prossime). Restituiscono il minore livello di parcellizzazione e frammentazione degli spazi a fronte dell’attestazione delle linee di fabbricazione dell’edificato a bordo strada con assenza o limitata presenza di spazi pertinenziali esterni ai singoli edifici, indici di fabbricabilità più elevati, maggiori densità edilizie e ricorrenza di soluzioni abitative plurifamiliari anche indotta dal maggiore costo delle aree. In questa condizione, il rapporto pubblico/privato propende per la città pubblica e l’edificato concorre al livello di qualità di quest’ultima;  Espansione: si collocano a un livello intermedio tra quelle di completamento e di colonizzazione per quanto attiene a tutte le già citate condizioni strutturali di livello di integrazione col contesto urbano più prossimo, dotazione di servizi e spazi pubblici spesso previsti e del tutto o solo parzialmente non realizzati, frammentazione spaziale e inserzione di spazi pertinenziali esterni ai fabbricati di dimensioni ridotte con arretramento delle linee di fabbricazione rispetto al bordo-strada a formare aree destinate a verde e parcheggi privati, densità, indici e parametri urbanistici, ricorso in egual misura a soluzioni abitative pluri-tri-biunifamiliari. In questo caso, il saldo del rapporto pubblico/privato si colloca a un livello intermedio;  Colonizzazione: registrano una sostanziale mancanza di integrazione coi tessuti urbani esistenti. Il contesto urbano risulta quasi ‘indifferente’, sia esso di dimensioni grandi, medie o piccole e con differenti livelli di complessità. La dotazione di servizi e spazi pubblici è quasi del tutto assente. La maggior parte delle aree a standard risulta adibita a viabilità (di connessione col tessuto urbano secondo le previsioni di piano come quella disposta a servizio dei lotti interni e istituita dal P.d.L.) e spazi a parcheggi. Solo in taluni casi, per viabilità e parcheggi è prevista la dotazione integrata di verde pubblico. Le linee di fabbricazione risultano ulteriormente arretrate rispetto al margine dei singoli lotti con inserzione di ampi spai pertinenziali a verde e parcheggi privati. Densità e indici urbanistici sono generalmente inferiori rispetto ai due casi precedenti. Prevalgono le abitazioni bi e unifamiliari. A fronte di una sensibile riduzione delle quantità edilizie poste in essere, la privatizzazione o almeno l’uso privato delle aree in gioco è pressoché totale e il saldo pubblico/privato prevede la totale prevalenza della città privata con corrispondente diversificazione delle pratiche d’uso degli spazi da parte della popolazione residente; A prescindere dalla loro strutturazione interna, a margine o esterna ai nuclei urbani consolidati, esse restituiscono modalità ricorrenti di strutturazione dei processi edilizi. Nel contesto di riferimento, la committenza di tali interventi è risultata essere composta parimenti da un ‘privato’ o un raggruppamento di privati (aggregati in differenti forme societarie anche costituite per la sola occasione edificatoria e cessanti la loro attività sul mercato in coincidenza con la conclusione del processo, condizione, questa, più largamente attestata), un’impresa o un raggruppamento di imprese del settore edile o soggetti appartenenti al settore finanziario. A ciascuna tipologia di committenza corrispondono condizioni ricorrenti da cui discendono altrettanti meccanismi di costruzione dello spazio abitato residenziale, riconducibili a modelli impliciti, le cui variazioni 4

Una interessante interpretazione di queste questioni è fornita dal dibattito animato negli scorsi decenni dagli autori Richardson e Ewing sulle pagine del ‘Journal of the America Planning Association’ che hanno letto i fenomeni di diffusione e dispersione urbana in area americana, inglese, olandese e italiana come la risposta ‘privata’ al fabbisogno di case in coincidenza della ‘sottocapitalizzazione’ della città pubblica e della progressiva sparizione del soggetto pubblico quale ‘reale’ decisore delle trasformazioni territoriali.

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afferiscono principalmente alla fasature interne al processo, al numero dei soggetti attivi in ciascuna e le loro interazioni. Possono indicarsi come:  Casa isolata: il proprietario di un lotto è anche committente delle opere ed esprime il proprio fabbisogno abitativo in maniera isolata. Muove cioè la propria azione in maniera diretta nella scelta del progettista e dell’impresa. Nel caso non disponga dei capitali necessari al soddisfacimento dei propri desiderata seleziona personalmente gli istituti di credito a cui rivolgersi. Qualora non costruisca soltanto per sé ma anche per investimento, seleziona anche gli eventuali promotori a garanzia del risultato prefissato. Muove la propria azione principalmente su contenuti esperienziali diretti e, nelle scelte del costruire, seleziona le tipologie più prossime al soddisfacimento a vivere in una casa unifamiliare isolata commisurate alla propria capacità di spesa;  Lottizzazione privata: la committenza si compone di più soggetti privati che realizzano gli interventi principalmente per essere anche utenti finali degli spazi restituiti dalle trasformazioni. Quote residuali di edificazione possono essere destinate ad essere messe a rendita. La strutturazione del processo edilizio, per fasi e soggetti attivi, è la medesima della costruzione della casa isolata. Differenze possono introdursi per le figure del progettista, con individuazione di un progettista del P.d.L. e più professionisti per le progettazioni dei singoli edifici, e dell’impresa, con affidamento ad una prima impresa della realizzazione delle opere di interesse comune ai lottizzanti e dell’esecuzione dei singoli manufatti ad altre. Il margine di azione da parte del/i privato/i è massimo in ogni scelta del costruire (come nel caso precedente) (Figura 1);  Lottizzazione di impresa: il soggetto committente è un’impresa edile che finanzia le opere con capitali propri o ottenuti dal sistema creditizio e i privati-famiglie sono solo utenti finali degli spazi. Identità tra i soggetti possono darsi con le figure dei progettisti, ove l’impresa dispone di un ufficio di progettazione interno. Anche in questo caso, la strutturazione del processo segue le logiche precedentemente illustrate. Nelle realizzazioni afferenti a questa categoria si registra la presenza di patrimonio edilizio non destinato alla diretta immissione sul mercato ma alla costituzione di una sorta di ‘capitale di impresa’ utile all’ottenimento di garanzie per future realizzazioni da parte dei soggetti erogatori dei prestiti. Il margine di azione del privato-utente finale è limitato alla scelta dei lotti da acquistare (vale anche per gli appartamenti), tagli degli alloggi, finiture, dotazioni tecnologiche: nulla a che fare con le qualità urbane degli interventi (Figura 1e 2);  Lottizzazione finanziaria: vi è identità tra il committente e il finanziatore degli interventi (nel contesto si sono ritrovate ulteriori sovrapposizioni di identità tra i vari soggetti afferenti al settore finanziario, cioè tra investitori, finanziatori e istituti di credito). E’ questo il caso di massima standardizzazione degli esiti edilizi condizionati dalla predominanza delle ragioni dell’investimento (Figura 2);

Figura 1. Tipologie edilizie attestate nelle aree di lottizzazione privata e di impresa.

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Figura 2. Tipologie edilizie attestate nelle aree di lottizzazione di impresa e finanziaria. La ricostruzione dei grafici di processo edilizio (Figura 3) -letti non tanto dal punto di vista del cadenzamento temporale ma piuttosto dei soggetti attivi e delle interazioni tra i medesimi- dall’espressione delle esigenze fino all’immissione dei beni sul mercato, ne restituisce il ruolo centrale e lo indica quale unico soggetto presente in ogni fase e in posizione di interlocuzione privilegiata con ogni altro attore con cui entra in contatto. Per ciascuno, contenuti esperienziali diretti, materiali documentali composti da relazioni conoscitive come da studi e analisi settoriali costituiscono la base da cui ricavare i parametri di valutazione per il controllo della propria azione: il peso specifico di ciascuno di questi varia, ancora una volta, a seconda della categoria di afferenza del committente 5 in seno al quale, in fase preliminare, appaiono nascere e strutturarsi tutte le scelte del costruire e in condizioni di scarsa interazione con gli altri attori di processo. Ancora dalla tipologia di committenza discendono il numero e la ‘fasatura’ temporale delle interazioni tra i predetti attori. A prescindere dalla categoria di appartenenza (privato, impresa o settore finanziario), il committente muove la propria azione sempre secondo logiche ‘private’ e le ragioni dell’investimento acquisiscono maggiore peso nel passaggio dall’iniziativa privata a quella dei soggetti finanziari. Da ciò consegue peraltro una sorta di ‘standardizzazione’ degli esiti edilizi 6 . La lettura del fenomeno restituisce proprio una corrispondenza inversa tra la crescente varietà di soggetti attivi nel processo (in ordine, dalla casa isolata alla lottizzazione finanziaria’) e la progressiva standardizzazione degli esiti costruiti. Registra peraltro una post-posizione nel tempo di svolgimento dell’intero processo dei dialoghi attivati nel passaggio dall’una all’altra tipologia.

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i.e, nel caso di committenza privata, i parametri di valutazione si elaborano principalmente e quasi esclusivamente sulla base di contenuti esperienziali e generano una implicita e a tratti inconsapevole reiterazione di forme insediative già attestate nel contesto di appartenenza e azione; nel caso di imprese edili, i medesimi parametri provengono parimenti da contenuti esperienziali derivati da precedenti realizzazioni quanto da dati forniti dalle associazioni di categoria cui fanno riferimento. Nel passaggio dalla committenza privata a quella finanziaria, aumenta la tendenza alla riconduzione a soluzioni standard, ricorrenti, dell’impianto e delle caratteristiche generali del progetto urbanistico, della dotazione e localizzazione dei servizi, delle quantità e qualità degli spazi e della città pubblica ricompresa nelle aree di lottizzazione per quanto osservabile alla scala complessiva dell’intervento, nonché delle forme e tipologie edilizie, del numero di manufatti edilizi e di alloggi e loro dimensioni alla scala dei singoli edifici.

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Figura 3. Grafici di processo: casa isolata, lottizzazione privata, lottizzazione di impresa, lottizzazione finanziaria. I dati disponibili indicano le province di Venezia, Padova, Treviso e Vicenza come quelle di massima concentrazione del fenomeno: tra queste, Vicenza restituisce un picco legato alla crescita dei comuni di cintura e specie di quelli della gronda nord ove, a fronte di un saldo di crescita di popolazione molto esiguo, la crescita dei sedimi urbanizzati è stata notevole anche in forza di un sostanziale divario nei valori dei suoli rispetto a quelli della città capoluogo tale da incidere significativamente sui costi dell’investimento. Le trasformazioni ivi attestate si sono composte parimenti di lottizzazioni residenziali e industriali e la maggior parte di esse si è mossa su iniziativa privata e in variante ai vigenti strumenti urbanistici. Ne è derivata una condizione di ‘diffusione’ urbana assai frammentata (più che in altri contesti) e con massima concentrazione di lottizzazioni di colonizzazione (esterne ai nuclei urbani consolidati) con aree artigianali e industriali contermini frammiste a lacerti di campagna che rendono assai difficile l’individuazione di strategie di pianificazione atte a invertire le tendenze in atto. L’osservazione delle medesime dinamiche di crescita alla scala comunale, indica, quale caso assai rappresentativo, quello del Comune di Scorzè, in provincia di Venezia, ove si è registrato un picco di concentrazione di piani di lottizzazione (residenziali e non), in massima parte costituenti variante strutturale allo strumento urbanistico generale: hanno alterato profondamente –se non sovvertito e quasi negato-le previsioni di Giuseppe Caldarola

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piano. Negli ultimi 30 anni vi si è fatto largo ricorso per veicolare la maggior parte delle trasformazioni sull’intero territorio comunale e la loro attuazione ha generato un notevole incremento del sedime edificato: ad essi è infatti ascrivibile la realizzazione di circa il 60% del patrimonio edilizio all’oggi esistente; le aree di lottizzazione, in misura dell’80%, risultano essere di prima acquisizione all’urbano (aree a destinazione agricola rese edificabili in occasione dell’approvazione del piano) con conseguente aumento di consumo di suolo. Pur non essendo stato possibile alloggi quantificare il numero complessivo di piani attuativi approvati né il totale dei sedimi urbanizzati ivi ricompresi, il quadro informativo disponibile consente altresì di riflettere sulle competenze professionali e sulla figura dei progettisti che hanno veicolato tali trasformazioni: i piani di lottizzazione stati redatti per il 70% da studi e/o società di ingegneria, il solo 8% da professionisti architetti, i rimanenti dagli uffici di progettazione interni alle imprese che hanno realizzato le opere. Tra quelli elaborati dagli ingegneri, 46 piani sono stati redatti dal medesimo studio professionale –in una sorta di ‘fidelizzazione’ territoriale- che tra l’altro si è occupato anche del progetto architettonico dei singoli edifici (se non tutti, in buona parte) realizzando un totale di 1142 alloggi.

Condizioni ricorrenti e meccanismi di costruzione dello spazio abitato residenziale Le relazioni tra gli attori appaiono sempre caratterizzate dall’incrocio semplice: i singoli operatori si relazionano esclusivamente per ‘rapporti a due’. In altri termini, tutto ciò che produce come esito una nuova lottizzazione di privata abitazione è frutto di decisioni e azioni mai discusse o tantomeno condivise tra più di due attori coinvolti di volta in volta: promotore e progettista, progettista e amministratori pubblici, promotore e finanziatore, famiglie e finanziatore, ecc. Il risultato finale spesso scontenta tutti, ma nessuno ha la percezione che si possano ottenere risultati differenti attraverso percorsi diversi e nessuno sa andare oltre l’attribuzione di responsabilità all’unico altro attore (anche più di uno, a seconda delle condizioni di processo) con cui è entrato in contatto diretto. Il procedere per azioni separate, capaci di giungere ad un esito comune, ma sostanzialmente non controllato se non sulla base di interessi individuali, finisce con il mettere le amministrazioni locali in una condizione di sostanziale subalternità all’azione degli operatori privati e i tecnici progettisti, nella condizione ‘ragionieristica’ degli esecutori. A tal proposito, uno dei progettisti particolarmente attivi nel contesto di riferimento definisce la situazione al lavoro nella realizzazione delle lottizzazioni residenziali private in questo modo: “non si progetta, si disegna!”. Ossia si traduce in disegno esecutivo le condizioni normative imposte dai vincoli urbanistici adattandole alle esigenze di massimizzazione di volumi richiesta dal promotore. In diretta conseguenza, le aree da destinare a spazi pubblici e servizi finiscono per essere brandelli sparsi nelle lottizzazioni, piegate agli scopi dei promotori e dei loro clienti, prive di specifica connotazione e fuori dal controllo dell’amministrazione. Potrebbe sembrare l’esito di una cattiva gestione. E’ più probabilmente l’esito di un’azione di volta in volta condotta come occasionale, tra operatori che nella loro comunicazione non escono dai binari di ciò che si giustifica in termini burocratici o, viceversa, di mercato, senza del resto poter scambiare un linguaggio condiviso. L’osservazione dei grafici di processo riportati nella sezione precedente, l’individuazione degli attori di processo attivi in ciascuna fase e delle interazioni e loro ‘fasatura’ con gli altri soggetti –le si è dette caratterizzate da incroci semplici- nonché la ricerca dei luoghi di massima concentrazione di attività e di scambio di informazioni mostrano due punti critici: la fase di espressione esigenze, ove le scelte dei percorsi progettuali nascono in seno alla figura del committente senza scambi (se non apparenti e non incidenti in maniera decisiva sulle scelte dello stesso), e quella di approvazione del progetto ove, per contro, per ciascuno dei quattro modelli di strutturazione risulta esserci la massima concentrazione di soggetti attivi. Se nella prima fase possono darsi solo azioni di avvicinamento della committenza alla ‘cultura’ del progetto con forme di ‘reale’ partecipazione preventiva (la difficoltà di realizzazione a monte della singole progettazioni induce alla possibilità di legarla preferibilmente all’iter di progettazione degli strumenti urbanistici generali), è soprattutto in coincidenza dell’iter approvativo del progetto che si rende possibile intervenire nel senso del restituire dignità al ruolo del progettista (nell’attuale strutturazione dei processi, unico soggetto insieme alle amministrazioni sempre in posizione subalterna) e specie del progettista urbanista. In questo senso emerge la necessità, a monte della riflessione sulle forme contrattuali e di interazione tra soggetti, della comprensione dei linguaggi parlati da ciascun attore di processo e dell’individuazione di un ruolo per il progettista urbanista –cui restituire la capacità di valutazione di vantaggi e svantaggi delle trasformazioni e di comunicazione degli stessi agli altri attori di processo- che della conoscenza di quei linguaggi possa fare uno strumento per la conduzione dei singoli progetti entro i confini della costruzione di uno spazio abitato comune, orientato alla coerenza di ambiente urbano complesso e unitario.

Giuseppe Caldarola

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Bibliografia AA.VV., Mercato delle costruzioni nel Veneto, 2° rapport congiunturale 2002, Ricerca Cresme Crane R., Crepeau R., Does neighborhood design influence travel? A behavioral analysis of travel diary, in TRasportation Research Part D: Transport and Environment, Volume 3, Issue 4, Luglio 1998 (pubblicazione dei Departments of Urban Planning and Economics, Institute of Trasportation Studies, University of California) Cusinato A., materiali del corso di economia del territorio, in sito web di ateneo IUAV, pagina docente Della Puppa F., Nella città diffusa. Indagine sulla nebulosa insediativa Veneta, in Nella città diffusa. Idee, immagini, proposte per la nebulosa insediativa Veneta, FOndazione Benetton Studi e Ricerche, materiali dal XIV corso sul governo del paesaggio, 2003 Della Puppa F., Insediamento e mobilità nel nord-est: un territorio al limite, in Nella città diffusa. Idee, immagini, proposte per la nebulosa insediativa Veneta, FOndazione Benetton Studi e Ricerche, materiali dal XIV corso sul governo del paesaggio, 2003 Ewing R., Characteristics, causes and effects of sprawl: a literature review, in Urban Ecology, 2008 Ewing R., Is Los Angeles-Style sprawl desirable?, in JAPA Journal of the American Planning Association, Volume 63, Issue 1, 1997 Freeman L., The effects of sprawl on neighborhood social ties: an explanatory analysis, in JAPA Journal of the American Planning Association, Volume 67, Issue 1, 2001 Godschalk, Land use planning challenges: coping with conflicts in visions of sustainable development and livable communities, in JAPA Journal of the American Planning Association, Volume 70, Issue 1, 2004 Gordon P., Richardson H. W., Are compact cities a desirable planning foal?, in JAPA Journal of the American Planning Association, Volume 63, Issue 1, 1997 Wu F., Gar-On Yeh A., Urban spatial structure in a transitional economy, in JAPA Journal of the American Planning Association, Volume 65, Issue 4, 1999 I quadri informative e i dati descrittivi del fenomeno insediativo e dell’andamento del mercato immobiliare e delle costruzioni sono stati desunti dai seguenti siti principali: www.eddyburg.it, www.maltauro.it, www.paccagnan.it, www.audis.it, www.anceveneto.it, www.veneto.fiaip.it, www.cresme.it, www.nomisma.it, www.bancaditalia.it, www.abi.it, www.consob.it, www.assogestioni.it, www.risorsecasa.it, www.immobiliare.it.

Riconoscimenti Il presente testo è stato elaborato sulla base dei risultati della ricerca ‘ABITARE IN UN MUTUO. Come l’investimento legato alla casa condiziona le scelte di costruire’ svolta nel corso di una annualità di assegno di ricerca (2010-11) attivata dall’Università IUAV di Venezia con la supervisione e responsabilità scientifica del prof. Leonardo Ciacci che si ringrazia per il contributo teorico apportato.

Giuseppe Caldarola

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Un binomio imperfetto: la pianificazione territoriale tra pratiche sociali e beni comuni

Un binomio imperfetto: la pianificazione territoriale tra pratiche sociali e beni comuni Fabio Landolfo Università Federico II, Napoli Dipartimento di Progettazione urbana e urbanistica Email: fabio.landolfo@unina.it Tel. 081.253829

Abstract Ridefinizione in senso plurale della sfera pubblica, produzione privata di beni pubblici e autogoverno delle risorse locali hanno portato chi scrive a considerare l'introduzione di nuove categorie nella tassonomia del governo del territorio indispensabile per una sua riproposizione contemporanea. In particolare, il carattere emergente della produzione di pensiero intorno al concetto di beni comuni da un lato e di pratiche sociali dall'altro, sembrano aprire una nuova strada alle politiche territoriali. Se da un lato il comune mette in discussione la proprietà a favore della capacità dei beni di soddisfare i bisogni sociali, dall'altro le pratiche mettono in crisi il concetto di sovranità statuale nella produzione di politiche pubbliche: restituendoci un rapporto tra Stato e Mercato estremamente più complessificato di quello che i manuali ci tramandano e che questo lavoro intende indagare.

Un binomio imperfetto Stato e mercato, e la loro contrapposizione, rappresentano un paradigma cardine della modernità. Che lo si guardi con le lenti dei sostenitori della supremazia dello Stato (Hobbes) o dell'autonomia del mercato (Locke) difficilmente si troveranno autori che riescano ad andare oltre a questa divisione radicale della maniera di pensare la società. (Mattei 2011) Eppure, se si tentasse di ricostruire una rappresentazione a posteriori della scena pubblica contemporanea, servendosi di un po' di laicismo, difficilmente si giungerebbe a conclusioni simili. Se si provasse questo esperimento, infatti, non solo verrebbe messa in forse la contrapposizione radicale che la letteratura racconta, ma entrerebbe in crisi la stessa unicità dei soggetti proposti. De-localizzazione, sussidiarietà, negoziazione e internazionalizzazione delle politiche hanno cambiato la figura dello Stato Westfaliano, onnipresente, gerarchico e fonte unica di produzione del diritto in uno Stato sempre più propenso alla delega e alla cessione di sovranità; in egual modo il mercato da presunto organo autonomo e autoregolamentato dall'attività privata non solo è in grado di incidere nella formulazione di politiche pubbliche, ma è anche capace di cambiare i contesti istituzionali nel quale opera, basti pensare allo sviluppo del mercato capitalistico cinese e della capacità di adattarsi (influenzando) l'ortodossia delle istituzioni, dimostrandosi anche in grado di produrre (al pari del pubblico) beni pubblici. Certo superare questa visione dicotomica non vuol dire eludere i problemi di sovranità statuali o le catastrofi causate dall'avidità del mercato, ma di certo ci aiuta a comprenderli meglio, non ignorando la complessità e la pluralità che contraddistingue la produzione della sfera pubblica. Una delle complicazioni più importanti nel campo della pianificazione territoriale scaturita dalla messa in discussione di questo assioma è caratterizzata dalla perdita di certezze dell'unicità della fonte della produzione di politiche pubbliche, da cui molti dei beni pubblici scaturiscono. Questo cambiamento viene trattato dalla letteratura urbanistica come produzione privata, o meglio ancora diffusa, di beni pubblici.

Dott. Fabio Landolfo

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Produzione privata di beni pubblici Da considerare come conseguenza di molteplici trasformazioni che riguardano la sfera pubblica, questa evoluzione della maniera di intendere la produzione di beni scaturisce, tra le altre, da: la trasformazione politica, legata al ciclo neoliberista iniziato dai governi Thatcher e Reagan da cui deriva il primato dei criteri di efficienza e di efficacia nel lavoro delle amministrazioni; i processi di globalizzazione, e la loro potente asimmetria tra Stato regolatore ed interventista e forze di mercato; nuovi assetti istituzionali, introdotti dall’unificazione europea con l’adeguamento delle politiche nazionali rispetto a criteri costituzionali e operativi condivisi, da cui derivano importanti criteri guida come la sussidiarietà e la sostenibilità, l’impulso al decentramento, e la programmazione strategica; crisi dello Stato, definizione con la quale si intende una sindrome complessa che lega una certa fragilità dei regimi democratici – incapaci di mantenere le loro promesse, e quindi esposti a derive neo-autoritarie o populiste – alla perdita di credibilità dello Stato amministrativo, al crescente spostamento della domanda sociale da beni pubblici a beni privati. (Donolo, 2005) Queste trasformazioni introducono un notevole impatto sui beni pubblici per cui molti di essi non possono più essere prodotti senza l’apporto delle risorse del livello locale, livello in cui molti impatti di investimenti pubblici o privati devono essere negoziati per evitare il rischio di notevoli ed efficaci resistenze. In egual modo molti beni pubblici non possono più essere prodotti senza l’apporto di risorse private e molti beni prima a carattere pubblico oggi e in futuro siano meglio provvisti se a statuto privato. Di conseguenza l’interesse pubblico si socializza in parte – poiché deriva dall’interazione tra attori nel processo di policy – e viene a compromesso con interessi di parte, o viceversa si rafforza come interesse collettivo. Tuttavia, è una stilizzazione stereotipa pensare al vecchio Stato amministrativo come una monade contrapposta all’economia e alla società. Transazioni sono sempre avvenute. La novità sta piuttosto nel fatto che attori privati e forze sociali oggi sono chiamati a partecipare alla formulazione e all’implementazione di politiche pubbliche. Questa evoluzione non deve essere letta, in nessun caso, come morte della sfera pubblica e dei beni pubblici. Si tratta al contrario di forme più complesse di coproduzione di beni a più alto contenuto relazionale e cognitivo, rispetto ai quali isolatamente sarebbero incapaci sia lo Stato che il mercato.

Alcuni esempi L'abaco di esempi in questo campo è noto ai più, strumenti pubblici e programmi comunitari hanno notevolmente facilitato questa produzione e il suo riconoscimento pubblico. La collaborazione pubblico/privato attraverso l’uso di convenzioni risale almeno agli anni trenta del secolo scorso, quando con la programmazione negoziale molte parti del centro storico di Milano furono risanate in attuazione del PRG del 1934; mentre già nel secondo dopoguerra l’esperienza della pianificazione milanese - con la quale sono state realizzate, d’iniziativa privata, operazioni residenziali su larga scala nella prima e seconda fascia di comuni intorno al capoluogo – trasforma la pianificazione negoziale caratterizzata da scambi, rappresentati di solito sotto la formula “cubatura in cambio di aree o standard”, in una programmazione programmatica, trattando accordi sulle condizione per un’azione congiunta. In questo senso la partecipazione del privato non riguarda più solo la realizzazione di obiettivi e programmi redatti dal pubblico, ma entra a far parte in veste di co-produttore della definizione delle politiche pubbliche. Seppure questo scambio di ruoli da molti è considerato come un abdicazione dello Stato alla sua prerogativa di rappresentare l’interesse generale, non si può non tenere conto che questa esperienza ha avuto il merito di mantenere relativamente “aperto” il processo decisionale, garantendo l’accessibilità alle decisioni tramite la possibilità di condizionare il processo di costruzione delle politiche (Crosta, 1990). Favorendo meccanismi plurali e dialogici di formulazione delle politiche pubbliche, superando i limiti imposti dall'utilizzo del solo punto di vista delle istituzioni all’interno dei processi di immaginazione e costruzione di azioni volte a soddisfare gli interessi collettivi. (Crosta 2010)

Quali esiti? La capacità da parte della società di produrre in maniera diffusa beni che soddisfano interessi collettivi deve far riflettere, chi si occupa di politiche urbane, sulle categorie interpretative adottate per tali beni. La contrapposizione privato/pubblico, cosi come quella tra Stato e mercato che ho cercato di affrontare in apertura di questo lavoro, male si addice ad affrontare i problemi complessi che la contemporaneità ha da porci. La definizione di bene pubblico come bene proprio di un soggetto istituzionale al di fuori del mercato lo sottrae alla sua costruzione sociale e contrattualizzata, ponendolo come condizione a priori e indiscutibile. A questa idea, largamente maggioritaria nell'elaborazione di politiche pubbliche, si contrappone un universo di pensiero che tende a mettere in discussione questa dialettica dominante. In particolare, il carattere emergente della produzione Dott. Fabio Landolfo

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di pensiero intorno al concetto di beni comuni, sembra non solo aprire una nuova strada alle politiche territoriali, ma scardinare la razionalità prevalente, mettendo in crisi il conformismo logico su cui le teorie consolidate si fondano (Bourdieu, 1995). Il comune, infatti, mette in discussione la necessità del collegamento tra proprietà e funzione pubblica, attribuendo quest'ultima all'utilizzo del bene in un processo di produzione sociale. L'introduzione di questi nuovi elementi di valutazione all'interno del dibattito a cui prima si è fatto riferimento, non è un vano tentativo di non tenere conto dell'insuperabilità di alcune differenze. Ma rappresenta la convinzione che molte di queste si basano su valori e su assiomi che necessitano di essere ridiscussi.

Beni comuni tra propietà e sovranità Il tema dei beni comuni è dominante non solo in Italia ma in molti dei paesi occidentali: contraddistinto da una varietà di posizioni e di provenienze deve il proprio successo alla capacità di dialogare con la politica e con gli organi di rappresentanza sfidandoli su un terreno proprio, quello del diritto. Mettendo in discussione quello che per lungo tempo è stato il pensiero egemone: ovvero l'esistenza di un dualismo contrapposto tra sovranità (Stato) e proprietà (Mercato) in cui collocare tutte le esperienze della vita umana. Le contraddizioni e le mancate risposte di questa narrativa lasciano intuire la necessità di una nuova razionalità nell'affrontare l'argomento, che metta in discussione le certezze del modello razional-comprensivo da cui scaturiscono molti dei paradigmi alla base della tragedia dei commons (Hardin, 1968). I beni comuni diventano dunque l'occasione per scalfire la monumentalità di alcune monadi che abbiamo incontrato. Lo Stato, il Pubblico e il mercato, sono spesso affrontate come identità totalizzanti in grado di riprodurre comportamenti simili in contesti diversi. I beni comuni sono simbolo dell'inefficacia di questo racconto. A questo proposito fondamentali sono gli studi del premio Nobel Elinor Ostrom sulla ricerca di un’altra via nella gestione dei beni di proprietà collettiva tra Stato e mercato (Ostrom, 2006) evitando sia lo sfruttamento eccessivo, sia costi amministrativi troppo elevati. Ostrom, attraverso lo studio di casi, trae delle costanti da rispettare nell’uso delle risorse collettive come la possibilità da parte delle istituzioni di definire in modo autonomo le regole fondamentali di governo del bene comune, presupposto per un'amministrazione condivisa e partecipata. Imponendo così un ruolo di sussidiarietà legislativa del pubblico nei confronti dell'autogoverno della comunità collettiva. Le regole che la comunità si dà devono essere sorvegliate dagli stessi aventi diritto e devono essere soggette a sanzioni graduali; solo così gli aventi diritto possono prendere impegni credibili, vantaggiosi e sicuri. Individuando così le istituzioni collettive di successo come quei sistemi auto-organizzati, decentrati, non territoriali ma personali, pronte al cambiamento dinamico. Il tema dei beni comuni è dunque un tema di democrazia e di governo del territorio, questi beni non sono tanto le cose che abbiamo in proprietà comune, quanto aspetti e componenti della vita sociale che dobbiamo riconoscere come presupposti indispensabili per l'agire sociale (Donolo 1997). In questa prospettiva i beni comuni vengono in primo luogo riconosciuti per la loro funzione generale nei processi sociali, per come contribuiscono direttamente o meno alla produzione dell'ordine societario, a condizioni di benessere e di giustizia.

Altri esiti Il coinvolgimento istituzionale dei privati attraverso processi di organizzazione dell'opinione pubblica non è la sola strada, accade infatti che laddove di fronte a problemi irrisolti e domande insoddisfatte la società scende in campo ri-orientando il proprio agire può dimostrarsi più competente e proponga modi originali di combinare le capacità e le risorse disponibili nei contesti locali: concorrendo alla produzione di beni pubblici. Questi ultimi si distinguono da quelli generati dalle istituzioni perché fondati su una diversa razionalità e perché contestuali e contingenti, questo perché non scaturiscono dall’applicazione di un modello generale, bensì dalla rielaborazione di elementi di circostanza. Il problema della crisi della sfera pubblica nella città può allora essere riguardato come un problema di competenze riconducibili alla contrapposizione tra due diverse tendenze: la crescente inadeguatezza di forme di governo che si concentrano su pochi attori e su competenze date e definite in maniera settoriale; la frequente maggiore efficacia associata alle nuove competenze sviluppate dagli attori sociali, che si impegnano direttamente nell’organizzazione di risposte ai problemi collettivi senza far riferimento a ruoli e funzioni predefiniti. Anche il passaggio dalla prospettiva del goverment a quella della governance, per quanto utile a diversificare la sfera pubblica non sembra in grado di costituire una soluzione soddisfacente rispetto al problema della sua riproduzione (Cottino, 2003). Le pratiche sociali di successo tendono ad essere considerate esclusivamente per quello che generano anziché per il modo in cui lo generano valorizzando cosi gli esiti anziché i processi.

Dott. Fabio Landolfo

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Questo meccanismo, se è vero che aumenta l’intelligenza contingente della sfera pubblica, non affronta in alcun modo la criticità associata al carattere mutevole e dinamico del contesto sociale di riferimento.

Pratiche sociali: il potenziale inatteso della città Negli ultimi vent’anni si sono progressivamente affermati, anche dal punto di vista teorico, modi innovativi di produrre beni pubblici e di soddisfare funzioni pubbliche. Mettendo in crisi la connotazione di pubblico nel rapporto tra territorio, società e Stato a partire dal paradigma della domanda politica (Crosta, 2000) che prefigura la regola per cui la società deve attendere l’intervento dello Stato per la definizione, il trattamento e la soddisfazione di quelle esigenze che il sistema politico riconosce, in un qualche modo, di pubblico interesse. Questo paradigma afferma la dipendenza della società dallo Stato (Crosta, 1984). Escludendo che essa possa attivarsi, in un qualche modo, per trattare da sé i propri problemi. La posizione espressa da questo paradigma è stata messa in discussione dalla crisi di legittimazione dello Stato ad agire in nome e per conto dell’intera società (Habermas, 1979). Vane sono le sperimentazioni di forme più partecipate e meno autoritarie di costruzione dell’interesse generale. In discussione, infatti, è il ruolo dello Stato e non la problematicità della pretesa di definire in termini unitari l’interesse generale dell’intera società. Centrale in questa prospettiva, è l’ipotesi che la società provveda “da sé per sé” al trattamento dei propri problemi, nella misura in cui essa stessa li percepisca come pubblici. Queste possibile rivalutazioni dell'azione pubblica della società che coinvolge a livello internazionale teorici come Lefebvre, Habermas e Lindblom vive una propria declinazione italiana intorno al contributo teorico dato da Pier Luigi Crosta e da moltissimi studi di caso che raramente sfociano in una teoria generale. Prendendo in prestito i lavori teorici, tra gli altri, di De Certeau (De Certeau, 2010) e di Bourdieu (Bourdieu, 2008), Crosta formula una sua teoria sulle pratiche come quei modi di fare collettivi, frequenti e ripetitivi che si fanno azione comune involontaria producendo beni pubblici contestuali e contingenti in quanto non scaturiti dall'applicazione di un modello generale ma, bensì, dalla rielaborazione di elementi di circostanza. La pratica è collettiva non perché viene costruita intenzionalmente come tale, ma perché si costituisce attraverso una serie di interazioni nelle quali e a causa delle quali l'insieme di agenti si combinano tra loro acquisendo identità e significato(Pasqui & Fedeli, 2008) Questa teoria ribalta completamente il paradigma della domanda politica e restituisce alla società la possibilità di riorganizzare il proprio agire in funzione della produzione di beni pubblici.

Dove cercare Pratiche sociali e beni comuni come nuove categorie interpretative della sfera pubblica ci portano a mettere in discussione la formazione logica delle politiche territoriali trasformandola non solo per quel che riguarda le teorie del come ma, sopratutto, in quelle che vengono definite teorie del perché (Klosterman, 1996). Per questa ragione ricercare un caso studio prossimo agli argomenti tradizionali della pianificazione risulta forviante rispetto agli esiti. Diviene dunque necessario battere nuove strade alla ricerca di esperienze più dense per poi intravederne le possibili ripercussioni sulla nostra disciplina. Questa è una delle ragioni principiale per le quali, in questo testo, si propone di indagare la Pirateria Informatica come pratica sociale di produzione di un bene comune.

Pirati: come riappropriarsi di un bene comune I movimenti politici che hanno fatto proprie le battaglie sui beni comuni, come acqua e territorio, hanno raccolto molto consenso. Allo stesso tempo, però, hanno fatto emergere conflitti inespressi, lacerazioni politiche e disgregazione territoriale come raramente è accaduto nella storia recente del nostro paese. Tra queste si distingue, per lungimiranza e solidità, la battaglia a favore della riformulazione del diritto di proprietà intellettuale che ha visto il prevalere dell'azione pratica sulla rivendicazione politica mettendo in campo un carnet di strumenti collaudati che trasformano questa rivendicazione in una realtà quotidiana. A partire da una netta riconsiderazione dei rapporti di produzione e degli strumenti di accumulazione delle ricchezze (Gorz, 2003) una parte importante del pensiero contemporaneo riposiziona l'origine della disuguaglianza (Rousseau, 2001) nelle barriere poste all'accesso alla conoscenza. In questo dibattito si inseriscono le battaglie che a partire dalla sua considerazione come bene comune, in quanto prodotto diffuso dell'interazione sociale e bene indispensabile per agire nella società, ne rivendicano l'accessibilità e la fruizione diffusa (Rodotà, 2008). Queste battaglie politiche possono contare su una grande forza che non gli viene attribuita dal consenso ideologico bensì da quanti quotidianamente mettono in campo modi di fare collettivi, frequenti e ripetitivi che si fanno azione comune involontaria (Crosta, 2010) a tutela del bene comune della Dott. Fabio Landolfo

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conoscenza e del suo accesso. Guardare un film in streaming, scaricare il proprio cd preferito o ascoltare in rete musica coperta da diritti d'autore sono azioni che quotidianamente tutti compiamo, dando poca importanza alle sue conseguenze legali. Questa spensieratezza legata probabilmente all'accettazione sociale di una trasformazione dei canali di fruizioni delle opere culturali, cambia irrimediabilmente il modo di intendere l'accesso alla cultura. Senza voler qui indagare l'articolata questione giuridica, che si distingue da paese a paese e molti sono i casi di eccezioni; le conseguenze etiche, il brevetto sui farmaci è uno dei principali motivi di epidemie virali nei paesi più poveri; e la sua evoluzione temporale, basti pensare che nei suoi prima anni di vita il videoregistratore era bandito in molti dei paesi occidentali; non si può non tener conto che questi comportamenti individuali hanno ripercussioni collettive, anticipando non solo le trasformazioni legislative ma anche le azioni del mercato. Se i vari legislatori nazionali ed internazionali hanno modificato la normativa sui brevetti verso una maggiore apertura dei contenuti alla modificazione, è anche vero che intere aree di mercato hanno potuto utilizzare questa flessibilità e la tecnologia che l'ha consentita per creare nuove economiche prima inimmaginabili, basti pensare che il solo Itunes Store (della Apple) ha venduto sulla rete in 8 anni oltre 15 miliardi di brani musicali. Pratiche d'uso di beni coperti da copyright violano i diritti di autori e produttori in tutto il mondo, costituendo comunità intangibili ed inimmaginabili, caratterizzate da un'ampia varietà di provenienze e da una grande trasversalità economica e sociale. Quando queste comunità iniziano a prendere coscienza di sé, delle cose che li uniscono e delle proposte che li accomunano, irrompono sulla scena pubblica con una forza dirompente, avanzando rivendicazioni su digital divide, copyright e brevetti. Ma ancor più dirompente è l'orizzontalità tipica della rete che caratterizza la costruzione del programma e la scelta dei candidati. La costituzione di Partiti pirati ha coinvolto tutta Europa, a partire dalla scandinavia e dai paesi del ex blocco sovietico passato per la Germania, dove dopo le vittorie elettorali a Berlino e nella Saarland i sondaggi danno il PP-DE come terzo partito tedesco con un consenso di circa il 13% (Forsa per RTL). Non solo consenso elettorale ma grande innovatività di processo ha accompagnato questa crescita. Una nuova idea di democrazia fondata su gestione diretta di deleghe fiduciarie che possono essere ritirate in qualsiasi momento per costruire le attività del movimento e le sue posizioni politiche in contesti istituzionali. Chiunque può scegliere il suo livello di partecipazione, partecipando alle decisioni a cui è interessato, delegando le altre a un suo fiduciario. Il concetto di democrazia liquida fondata non su un modello unico ma sulla costruzione personale della partecipazione politica, costruendo una moltitudine di combinazioni e di possibilità di partecipare potrebbe riscrivere le regole della città. Superando la dualità tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta a favore di una visione meno ideologica della rappresentazione di questa contrapposizione, disposta ad accettare le deleghe ma garantendo la possibilità di cambiare idea in corso d'opera. Le domande che questo cambio di sguardo ci pone sono molte: chi sono i pirati urbani? Come possono cambiare la sfera pubblica? Che impatto possono avere sulla città? Le risposte a queste domande necessitano di tempo. Innanzitutto per riformularle utilizzando la stessa razionalità degli interlocutori per i quali, forse, la differenza tra la rete e la città è cosa effimera. É necessario, quindi, prendersi un po' di tempo per riflettere ed interagire con questi eretici postmoderni (Gubitosa, 2005) in grado di scatenare la World Wilde Web War per la chiusura di un server di rete e che stanno iniziando ad incidere sulle politiche pubbliche sempre con maggiore consapevolezza. Non ci resta che aspettare immaginando come potrebbe diventare l'Europa se il Pirata Pirata tedesco dovesse confermare le previsioni dei sondaggi e insidiare l'asse SPD-Merkel e la politica economica di molti dei paesi dell'Unione.

Bibliografia Libri Pierre Bourdieu, (2008) Ragioni pratiche, Bologna, Il Mulino. Paolo Cottino, (2003) La città imprevista, il dissenso nell’uso dello spazio urbano, Milano, Elèuthera. Pier Luigi Crosta (1984) La produzione sociale del Piano, Milano, Franco Angeli. Pier Luigi Crosta, (1990) Il modello d’interazione di piano nelle politiche urbanistiche. Il caso dell’area metropolitana milanese. In Le politiche pubbliche in Italia, a cura di Bruno Dente, Bologna, Il Mulino. Pier Luigi Crosta, (2010) Pratiche. Il territorio è l’uso che se ne fa, Milano, Franco Angeli. Elionor Ostrom, (2006) Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio. Michel De Certeau, (2010) L'invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro. Carlo Donolo (1997) L'intelligenza delle istituzioni, Milano, Feltrinelli. Andrè Gorz. (2003) L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringheri. Carlo Gubitosa, (2005) Elogio della pirateria. Manifesto di ribellione creativa, Terre di mezzo. Jürgen Habermas, (1979) La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Bari, Laterza. Ugo Mattei, (2011) Beni comuni. Un manifesto, Bari, Laterza. Gabriele Pasqui, Valeria Fedeli (2010), Indagare le pratiche: come e perchè. In, in Movimento. Confini, popolazioni e politiche del territorio milanese, Milano, Franco Angeli Dott. Fabio Landolfo

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Un binomio imperfetto: la pianificazione territoriale tra pratiche sociali e beni comuni

Jean Jacques Rousseau. (2001) L'origine della diseguaglianza, Milano, La Feltrinelli. S. Rodotà. (2008) Il sapere come bene comune. Accesso alla conoscenza e logica di mercato, Carpi, Festival della Filosofia. Articoli Pier Luigi Crosta, (200) Società e territorio, al plurale. Lo “spazio pubblico”- quale bene pubblico – come esito eventuale dell’interazione sociale. In Foedus n°1. Carlo Donolo, (2005) Dalle politiche pubbliche alle pratiche sociali nella produzione di beni pubblici? Osservazioni su una nuova generazione di politiche. In Stato e mercato n° 73. Garin Hardin, (1968) Tragedy of commons, Sciense 162. R. Klostermann. Argomenti pro e contro il Piano, in S. Fainstein and S. Campbell (eds), Readings in Planning Theory, Blackwell, Oxford 1996

Dott. Fabio Landolfo

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Per un partenariato pubblico-privato a servizio dell’edilizia sociale. Criticità del Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari.

Per un partenariato pubblico-privato a servizio dell’edilizia sociale. Criticità del Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari. Elena Borghetti Sapienza Università di Roma Dipartimento DATA – Design, Tecnologia dell’Architettura, Territorio e Ambiente Email: elena.borghetti@uniroma1.it Tel. 06.49919087

Abstract Con l’acuirsi del disagio abitativo, nel 2008, in Italia, viene definito l’Alloggio sociale che diviene a pieno titolo standard urbanistico (DM 22 aprile 2008) e, per la prima volta nel settore dell’edilizia sociale, viene introdotto lo strumento del Fondo immobiliare (L. n. 133/08) per coinvolgere operatori pubblici e privati nell’erogazione del servizio. La fattibilità degli interventi, essendo basata sul raggiungimento di un equilibrio economicofinanziario, implica una riflessione sulle modalità operative e sulle potenzialità di rispondere al problema abitativo, anche rispetto all’utilizzo di formule alternative di partenariato pubblico-privato.

Il disagio abitativo in Italia. Alcuni dati Il disagio abitativo in Italia è ormai noto. Pochi dati sono già utili a rilevare una situazione di emergenza sociale (determinata a monte da una forte presenza del mercato immobiliare e da una politica per la casa quasi assente dagli anni ’90), giustificando l’attuale e vivace dibattito relativo, per quanto qui interessa, alle modalità di realizzazione del Social Housing che necessariamente coinvolgono il governo del territorio. Sono circa 600mila le domande di ERP inevase (Sunia, 2010); sono circa 2,4 milioni le famiglie in cui l’incidenza dell’affitto sul reddito è pari al 40%, ben oltre la soglia di sostenibilità stabilita nel 30% dalla Banca d’Italia. Circa il 77% delle famiglie che vivono in affitto (4,6 milioni di nuclei pari al 18,9% del totale) ha un reddito inferiore ai 20mila euro annui (Nomisma, 2010). La contrazione dei salari pari al 4%, in termini reali, registrata nel solo biennio 2006-2008 (presumibilmente più elevata nell’attuale fase di crisi economica globale) non corrisposta da una parallela riduzione dei canoni di affitto che anzi, nello stesso periodo, sono aumentati del 16%, ha ridotto la capacità di spesa destinata all’abitazione anche della classe media (i cui redditi sono compresi tra i 15mila e i 25mila euro/anno), (Nomisma, 2010). Oltre, quindi, alle tradizionali categorie sociali considerate deboli, sono entrate nella fascia del disagio abitativo anche quelle classi sociali che, non potendo beneficiare di un alloggio pubblico a causa dei redditi troppo elevati, si trovano costrette a ricorrere al mercato privato della locazione. Con una ridotta offerta di alloggi pubblici in affitto (pari al 4% sul patrimonio immobiliare nazionale), in una situazione che vede circa il 70% delle famiglie proprietarie di un’abitazione, il problema italiano della casa si concretizza in modo particolare nella soddisfazione della domanda di alloggi a canoni calmierati; e non solo in relazione ai dati drammatici sopra riportati, ma anche rispetto alla considerazione del ruolo di servizio con cui dovrebbe essere pensata l’offerta di alloggi sociali nei territori di riferimento da parte dell’operatore pubblico. Tale riconoscimento è avvenuto con il DM 22 aprile 2008 (a partire dalla L. n. 9/07), in cui si definisce l’Alloggio Sociale come servizio di interesse economico generale e da considerarsi, pertanto, come standard urbanistico (sottolineando implicitamente il principale compito della pianificazione territoriale di tutela dell’interesse generale).

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Il Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari In tale contesto, solo nel 2008, con L. n. 133/08 (e successivi decreti attuativi), è stato varato il Piano Nazionale di Edilizia Abitativa (PNEA) attraverso cui sono stati stanziati da parte del MIT circa 570milioni di euro per la realizzazione di edilizia sociale attraverso modalità più tradizionali di intervento (incremento del patrimonio di ERP attraverso interventi degli ex-IACP, promozione e realizzazione di interventi con il contributo degli operatori privati) che, su parere della Corte dei Conti (2011), non hanno ancora prodotto risultati positivi in termini di efficacia ed efficienza. Nello stesso provvedimento è stato introdotto per la prima volta nel campo dell’edilizia sociale uno strumento finanziario innovativo: il Fondo di investimento immobiliare 1 . La Legge, infatti, ha previsto l’istituzione di un Sistema Integrato di Fondi immobiliari (SIF) articolato in un Fondo nazionale, concretizzatosi alla fine del 2010 nel fondo “Investimenti per l’Abitare” (il FIA) gestito dalla CDP Sgr (Cassa Depostiti e Prestiti, Società di Gestione del Risparmio) – con una dotazione finanziaria attuale di circa 1,7miliardi di euro – , e in più fondi immobiliari da costituirsi localmente. Le risorse del fondo nazionale, provenienti dall’investimento della CDP, delle Fondazioni Bancarie, delle società assicurative, delle banche e casse di previdenza private, vengono impiegate nella misura del 40% del patrimonio dei diversi fondi promossi dal basso, per finanziare progetti di Housing Sociale attraverso risorse pubbliche e private. Anche il SIF, ipotizzato per la realizzazione di circa 40mila alloggi di cui solo 12mila in locazione a canoni sociali, come le altre misure del Piano Casa, riesce limitatamente a rispondere alle esigenze della domanda sociale di riferimento. Attualmente, delle risorse a disposizione di CDP Sgr, solo 144milioni di euro sono stati impiegati per investimenti definitivi, mentre circa 470milioni sono stati stanziati per delibere preliminari non vincolanti utili alle iniziative di start-up di circa 11 fondi locali. Attraverso le prime esperienze in corso di realizzazione, che fanno capo al Fondo Immobiliare Federale Lombardia – ex Abitare Sociale 1 – al Fondo Parma Social House e al Fondo Veneto Casa, possono essere individuate:  le diverse modalità con cui vengono strutturate le operazioni di Housing Sociale;  le difficoltà di carattere generale che limitano l’utilizzo dei fondi immobiliari, con specifico riferimento alla leva economico-finanziaria ed urbanistica;  le condizioni di vantaggiosità ed efficacia dello strumento in termini di risorse impiegate e alloggi realizzati, in relazione al caso del fondo Parma Social House.

Modalità e criticità operative dei Fondi Immobiliari Le modalità di strutturazione degli interventi attraverso il fondo immobiliare possono essere ricondotte a due tipologie operative:  la prima, assimilabile all’intervento “pilota” di livello nazionale del Fondo Parma Social House, prevede che gli attori interessati (Enti locali, Fondazioni Bancarie, privati), dopo aver individuato le iniziative di Housing Sociale sul territorio, costituiscano un fondo immobiliare (selezionando una SGR) per reperire le risorse necessarie a finanziare gli interventi;  la seconda, assimilabile al Fondo Immobiliare Federale Lombardia e al Fondo Veneto Casa, prevede che diversi attori (principalmente le Fondazioni Bancarie e gli Enti locali) interessati allo sviluppo di progetti di Housing Sociale, dopo aver reperito le risorse necessarie, deleghino ad una SGR la costituzione di un fondo immobiliare al quale verrà successivamente affidato il compito di individuare le diverse opportunità di investimento nei territori di riferimento. La seconda tipologia qui richiamata permette una maggiore flessibilità operativa in quanto, grazie alla disponibilità ex-ante delle risorse, il fondo ha una più ampia possibilità di scelta degli interventi rispetto ad un fondo che, come ad esempio il Fondo Parma Social House, è stato costituito per la realizzazione di un singolo progetto (quale veicolo operativo prescelto in uno schema di partenariato pubblico-privato che assume la forma del project financing). In via generale, la scelta degli interventi è legata al raggiungimento di un equilibrio economico-finanziario che vincola la fattibilità delle iniziative di Housing Sociale alla convenienza delle operazioni immobiliari nel territorio (Urbani P., 2009); inoltre, in considerazione dei costi di gestione dello strumento (ad esempio, il pagamento della SGR), la costituzione di un fondo immobiliare è giustificata in particolare per interventi che siano al meno pari a 80-100milioni di euro (per circa 800 alloggi). Le principali criticità relative alle operazioni di Housing Sociale attraverso il fondo immobiliare sono da ricondursi alla complessità delle procedure di implementazione e strutturazione degli interventi in grado di attivare le diverse leve (finanziaria, urbanistica, economica e normativa) a disposizione delle amministrazioni locali, per far in modo che venga raggiunto 1

Il Fondo di investimento immobiliare appartiene alla categoria degli “Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio (di cui al D. Lgs. n. 58/98 – Testo Unico della Finanza)

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l’equilibrio economico finanziario dei progetti e che siano ripartiti tra pubblico e privato i rischi agli stessi associati (come ad esempio: il rischio urbanistico, i tempi di realizzazione, la gestione degli immobili). Sebbene, infatti, il fondo immobiliare sia stato considerato in prima battuta un utile volano per attrarre investimenti privati, le difficoltà operative degli interventi e il rispetto del Business Plan del fondo, associati allo scarso rendimento atteso dal settore del Social Housing (3-4%), limitano a casi particolari la fattibilità dei progetti riducendo le potenzialità di investimento di tutti gli attori privati presenti nelle realtà locali. Quasi tutti i fondi operano nel Nord denotando una spiccata territorialità delle iniziative legata alle capacità tecniche delle amministrazioni locali e alla presenza delle Fondazioni Bancarie nel territorio. Senza dubbio, infatti, la tipologia di fondo immobiliare prescelta (il fondo immobiliare chiuso riservato ad investitori istituzionali 2 ) permette di attrarre i c.d. capitali “pazienti”, in considerazione del lungo-termine delle operazioni immobiliari (circa 25-30 anni), da parte di finanziatori che, come ad esempio le Fondazioni Bancarie, accettano una ridotta redditività degli investimenti.

La leva economico-finanziaria ed urbanistica Una prima difficoltà operativa riguarda l’approvvigionamento delle risorse nel fondo. Più in generale, risulta prioritario l’intervento della CDP Sgr (che, come sopra ricordato, contribuisce all’equity – capitale di rischio – del fondo locale conferito a seguito di un’istruttoria); in particolare, inoltre, le risorse del fondo possono essere reperite attraverso due modalità: l’indebitamento finanziario (capitale di debito) attraverso la richiesta di credito agli istituti bancari (pari al 60% del patrimonio del fondo) oppure attraverso equity da parte degli investitori istituzionali. Nell’attuale fase di crisi economica globale, che in Italia sta determinando un periodo di credit crunch (restrizione del credito) da parte delle banche, il ricorso dei fondi locali alla leva finanziaria è pressoché impossibile e, pertanto, le iniziative di Housing Sociale allo studio da parte di CDP Sgr sono individuabili principalmente nei fondi che operano attraverso pura equity (ossia, in quei territori con una più elevata presenza di capitali pubblici o privati). Ad ogni modo, considerando il basso rendimento degli alloggi a canoni sociali, nelle operazioni immobiliari deve essere previsto un mix abitativo destinato anche alla vendita e le amministrazioni locali devono intervenire attraverso la leva economico-finanziaria (contributi a fondo perduto e sottoscrizione di quote del fondo con rendimenti contenuti) a garanzia di redditività dell’iniziativa. Un’altra importante leva attivabile dagli operatori pubblici locali, quale ulteriore elemento di criticità nella strutturazione degli interventi di Housing Sociale, è rappresentata dalla leva urbanistica, corrispondente all’esonero degli oneri di urbanizzazione e alla presenza di aree greenfield a costi ridotti. Considerando che la CDP Sgr non assume il rischio urbanistico connesso ai progetti di Housing Sociale, la sottoscrizione definitiva delle quote da parte del FIA nei fondi locali avverrà solo per progetti conformi al PRG e pertanto che non richiedano una variante urbanistica. La presenza, quindi, di aree libere da destinare alla realizzazione di edilizia sociale costituisce il principale canale di agevolazione di tali progetti, tenendo conto anche delle difficoltà di mettere a punto interventi di recupero del patrimonio esistente attraverso il fondo immobiliare (in particolare a causa dei costi del recupero difficilmente compatibili con l’offerta di alloggi in affitto calmierato 3 ). Sebbene la costruzione ex-novo comporta un elevato consumo di suolo, permette la pianificazione di tutti gli aspetti (urbanistico, sociale, economico) che concorrono all’offerta sociale costituita nel progetto di Housing. Questa importante opportunità dovrebbe trovare degli amministratori e tecnici capaci di strutturare e gestire un’operazione orientata alla giusta allocazione della rendita che il suolo produce, in termini di costruzione della città pubblica e di risposta ad un disagio sociale. In via generale, le aree greenfield rese disponibili da parte degli enti locali vengono assegnate al fondo in diritto di superficie (per novantanove anni), attraverso un bando pubblico “modellato” sulle caratteristiche del fondo. A causa dei costi dello strumento, infatti, in una gara d’appalto per la realizzazione di edilizia sociale l’operatore pubblico troverebbe maggiore convenienza affidando l’incarico ad una cooperativa. 2

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Il fondo di investimento immobiliare è definito chiuso quando i rendimenti delle quote sottoscritte dagli investitori (nel caso, investitori istituzionali: quali soggetti con alto grado di professionalità nel campo degli investimenti finanziari) vengono rimborsati a scadenze predefinite (CITTALIA, 2008). Nel caso del Fondo HS Italia Centrale, il cui obiettivo è realizzare alloggi sociali anche attraverso il recupero degli immobili, la principale difficoltà nel raggiungimento dello scopo per cui il fondo è costituito riguarda l’individuazione di un costo di recupero relativamente basso da permettere, in seguito, l’affitto sociale. L’intervento pilota realizzato (Abitiamo Insieme Ascoli) riguarda, infatti, il mero apporto al fondo di un immobile di valore storico-artistico, pertanto suscettibile di una elevata valorizzazione da parte del fondo, acquistato già ristrutturato da parte di una Fondazione Bancaria. La possibilità, quindi, di recuperare una elevata quantità di immobili degradati da affittare in seguito a canoni sociali, oltre alle difficoltà gestionali, è legata alle potenzialità di valorizzazione degli immobili stessi e al costo di cui necessita tale successiva valorizzazione (il costo, quindi, del recupero).

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L’intervento del Fondo Parma Social House. Vantaggiosità ed efficacia Nel caso del Fondo Parma Social House, i cui interventi in corso di realizzazione sono localizzati in sette aree del Comune (pari a circa 63mila mq di SUL) individuate attraverso il Piano Operativo Comunale nelle Aree di Trasformazione Urbana (c.d. “schede norma” in cui il privato è obbligato a cedere al Comune il 30% della SUL come standard di ERP), la realizzazione degli alloggi a canoni sociali è resa possibile grazie alle seguenti agevolazioni pubbliche:  cessione all’ATI (Associazione Temporanea di Imprese vincitrice della gara) delle aree in diritto di superficie (per un valore pari a circa 1milione di euro – 22 euro/mq);  esenzione dal pagamento dei contributi di costruzione;  esenzione dal pagamento dell’ICI (IMU) per gli alloggi in locazione;  contributi a fondo perduto per circa 3milioni di euro (da parte della Regione);  sottoscrizione di circa 15milioni di euro in quote C del fondo che costituiscono un finanziamento agevolato. Per un finanziamento complessivo di circa 137milioni di euro, la quantità degli alloggi sociali (il 30%), pari a 265 alloggi in affitto per al meno 25 anni (a 350 euro/mese circa), viene compensata dalla vendita convenzionata di 405 alloggi (50%) e dall’affitto e riscatto all’8° anno di 182 alloggi (20%). Il contributo pubblico è pari al 16% dell’intervento, e pari al 32% se commisurato alla quota dei soli alloggi a canoni sociali. Inoltre, la redditività dell’investimento è valutata anche sulla presenza di superfici commerciali e a servizio per complessivi 2000mq di superficie. La gestione e l’assegnazione degli alloggi, inoltre, viene affidata ad alcune cooperative (il c.d. Gestore Sociale) che fanno parte dell’ATI vincitrice del bando pubblico, riuscendo in questo modo ad abbattere i costi di gestione che ricadono interamente sul fondo. Una criticità che mette in rilievo la scarsa incisività dell’intervento rispetto all’offerta del servizio dell’edilizia sociale è rappresentata dai criteri di assegnazione degli immobili e dalla scarsa quota di alloggi destinati ad ospitare gli inquilini secondo criteri stabiliti dal Comune (con redditi inferiori a 25mila euro/anno), pari a sole 66 abitazioni. Gli altri alloggi in affitto sociale ospiteranno nuclei con redditi non superiori ai 35-25mila euro/anno. Gli alloggi in vendita convenzionata e a riscatto saranno assegnati a redditi che non superano i 35mila euro/anno (a Parma, reddito di riferimento per l’accesso all’edilizia convenzionata). Considerando che la soglia di reddito delle persone in disagio abitativo è compresa tra i 25mila e i 15mila euro/anno il risultato ottenuto attraverso l’intervento è scarsamente rivolto a queste categorie sociali, ed inoltre, determina una ridotta possibilità di manovra per il Comune. Il gestore sociale ha, infatti, facoltà di non assegnare gli alloggi ai nuclei familiari con un reddito pari a 3,75 volte il canone di locazione e il Comune, qualora volesse discostarsi dalle soglie di reddito, dovrebbe garantire al fondo i termini di rendimento dell’investimento. Ulteriore garanzia di redditività del fondo, inoltre, applicata, ad esempio, anche per l’operazione nel Comune di Crema (del Fondo Immobiliare Federale Lombardia), è l’obbligo di acquistare (a prezzi convenzionati) la parte eventualmente invenduta degli alloggi nel periodo di dismissione del fondo. Infatti, la redditività delle iniziative di Housing Sociale attraverso lo strumento finanziario è rappresentata soprattutto dalla dismissione del patrimonio che, nel futuro, potrebbe rappresentare un elemento di criticità, ad esempio, in relazione a vetustà degli immobili e mercato di riferimento.

Per un partenariato pubblico-privato a servizio dell’edilizia sociale In considerazione della debole risposta al “problema della casa” di un sistema che, come quello dei fondi immobiliari, presenta una complessa strutturazione ed una logica orientata all’investimento di capitali (non locali) che richiedono una redditività adeguata, seppur non speculativa, è necessario individuare forme alternative di intervento, più praticabili a livello locale, e maggiormente orientate ad incidere sull’offerta di alloggi a canoni sociali a servizio della domanda di riferimento. Uno degli esempi in questo senso orientati, che evidenzia le potenzialità degli strumenti urbanistici di incidere in modo rilevante sull’offerta di edilizia sociale (considerando il ruolo che la rendita dei suoli urbani deve assumere nella negoziazione con i privati) è il PRU di S. Biagio nel Comune di Casalecchio di Reno. Il programma, con l’obiettivo di recuperare un insediamento degradato di circa 165 alloggi ERP – le case Andreatta – utilizza lo strumento della perequazione urbanistica minimizzando il contributo pubblico per ottenere ulteriori alloggi a canoni sociali. Infatti, l’edificabilità aggiuntiva (di competenza esclusiva del Comune) di 20mila mq riservata – tramite Prg – all’edilizia di pubblica utilità, riconosciuta ad una superficie di 5700mq (oltre alle aree cedute al comune per servizi – circa 47mila mq), è stata messa al bando per selezionare l’operatore disposto a ristrutturare le case Andreatta e a realizzare con quota parte gli alloggi a canoni sociali e in edilizia convenzionata (sulle aree acquisite dal Comune a valori agricoli per effetto della perequazione). Il finanziamento, per un totale di 40milioni di euro circa, è costituito dal 70% di risorse private, da un finanziamento regionale per contribuire al recupero delle case Andreatta (7%) e da un restante 23% di competenza comunale costituito dal valore dei titoli Elena Borghetti

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Per un partenariato pubblico-privato a servizio dell’edilizia sociale. Criticità del Sistema Integrato dei Fondi Immobiliari.

edificatori. I risultati, in termini di alloggi realizzati, corrispondono alla ristrutturazione di 165 alloggi ERP e alla realizzazione di 368 nuovi alloggi così suddivisi: 33 di ERP (8%); 115 in locazione a canoni calmierati per 30 anni (31%); 125 di edilizia convenzionata (34%) e 100 alloggi in libero mercato (27%). Sebbene anche in questo caso, così come nell’esempio del fondo immobiliare Parma Social House, la quota parte degli alloggi in locazione viene compensata attraverso la vendita convenzionata e libera, vi sono due riflessioni da fare: nel caso del PRU S. Biagio, gli alloggi in locazione, oltre ad essere costituiti da una parte di ERP (a differenza del fondo immobiliare), hanno un vincolo locatario di 30 anni seguendo criteri di assegnazione stabiliti dal Comune; inoltre, il contributo pubblico, costituito dai titoli edificatori, viene utilizzato per la realizzazione degli alloggi su aree divenute di proprietà comunale (a differenza del fondo in cui le aree sono cedute al privato in diritto di superficie e che difficilmente saranno retrocesse all’amministrazione comunale che, inoltre, dovrebbe acquisire gli immobili alla scadenza del fondo). Considerando la carenza di risorse pubbliche da destinare all’edilizia sociale, in vista di un necessario coinvolgimento dell’attore privato nel settore, il caso dei fondi immobiliari (la cui innovazione è limitata allo strumento ma non anche alla sostanza degli interventi, traducibile nella tradizionale edilizia convenzionata) pone una riflessione sul potere dell’operatore pubblico di vincolare il privato, a seguito dell’erogazione di contributi ed agevolazioni, alla realizzazione di un vero e proprio servizio di edilizia privata sociale, quale dovrebbe essere l’alloggio in locazione permanente (o per al meno 25 anni). Il riconoscimento del ruolo di servizio, infatti, avvenuto ai sensi del DM 22 aprile 2008, rischia di essere compromesso dalle diverse tipologie di uso (in locazione permanente, temporanea per almeno otto anni, anche in proprietà) previste nei diversi commi dello stesso e, come Rabaiotti (2010; p. 19) sottolinea, più facilmente soggetto ad una distorta interpretazione “a servizio di un più generale interesse economico” 4 . Del resto, oltre alla difficoltà di reperire aree libere su cui realizzare l’edilizia sociale, anche l’assenza di un canale di finanziamento riservato al settore, rappresentato un tempo dai fondi GESCAL, contribuisce ad accrescere le difficoltà nel coinvolgimento dei privati. Con uno sguardo oltreoceano, lontano dal poter essere strettamente paragonato al sistema italiano dell’edilizia sociale, quello americano, già nei primi anni ’80, ha trovato nel partenariato pubblico-privato il principale meccanismo per la realizzazione di affordable housing (case a costi bassi o molto bassi). In generale, il partenariato pubblico-privato si basa su una serie di dispositivi che permettono di ridurre il costo del debito per gli operatori privati intenzionati a realizzare case a costi accessibili. Un particolare istituto, individuato nel complesso sistema costituito da organizzazioni no-profit, fondazioni, attori pubblici, agenzie, privati ed intermediari, è il c.d Housing Trust Fund. Il fondo fiduciario (Trust Fund) è essenzialmente un dispositivo istituito dai diversi livelli di governo che, attraverso una legge (o un particolare provvedimento), decidono di dedicare alcune risorse specifiche al solo ed unico scopo di realizzare e preservare il patrimonio di edilizia sociale, offrendo mutui a tasso agevolato. Negli USA esistono attualmente circa 600 Housing Trust Fund che generano circa 1,6miliardi di dollari all’anno 5 . Le principali fonti di finanziamento dei fondi sono quasi sempre legate a particolari tassazioni del mercato immobiliare, come ad esempio: tasse sulle transazioni finanziarie, imposte di registro, operazioni di sviluppo immobiliare. Anche in Italia, prendendo spunto dall’esperienza americana, potrebbero essere individuate quelle risorse dedicate a ripristinare un canale di finanziamento agevolato, vincolato alla erogazione di un servizio di interesse economico generale, stimolando iniziative dal “basso”, come ad esempio:  dirigere l’oneroso pagamento dell’ IMU da parte delle ATER alla realizzazione di case sociali che potrebbero, con l’Housing Sociale, contribuire ad autofinanziarle;  introdurre il pagamento dell’IMU da parte delle Fondazioni Bancarie che, ad oggi esentate, acquistano sempre maggiori possibilità di manovra nel mercato immobiliare (come l’investimento diretto nel settore introdotto a seguito della L. n. 212/03).

Bibliografia Brooks M. E. (2007), Housing Trust Fund Progress Report 2007, Washington D. C., Center for Community Change. Cittalia (2008), “Introduzione ai Fondi Immobiliari per il Social Housing”. Corte dei Conti (2011), Programma straordinario di edilizia residenziale pubblica e Piano nazionale di edilizia abitativa, Deliberazione n. 20/2011/G Nomisma (2010), II Rapporto – La condizione abitativa in Italia Rabaiotti G. (2010), “L’edilizia Sociale: un servizio come e per chi”, Il Progetto Sostenibile, 25, pp. 18-23 Sunia (2010), La casa: diritti, costi, servizi, tutele Urbani P. (2009), “L’edilizia abitativa tra piano e mercato” [Online]. Disponibile su: www.pausania.it 4 5

Il corsivo è di chi scrive Brooks M. E., (2007). Housing Trust Fund Progress Report 2007, Washington D. C., Center for Community Change.

Elena Borghetti

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Contrattare la città giusta. L’esperienza dei Community Benefits Agreements negli Stati Uniti

Contrattare la città giusta. L’esperienza dei Community Benefits Agreements negli Stati Uniti Alessandro Coppola Politecnico di Milano Dipartimento di Architettura e Pianificazione Email: coppola_alessandro@libero.it

Abstract Negli Stati Uniti è crescente l’attenzione nei confronti dei cosiddetti Community Benefits Agreements (CBA). I CBA sono accordi di natura privata fra developer e coalizioni di attori territoriali volti a regolare aspetti di rilevante interesse pubblico di progetti di trasformazione urbanistica di grandi dimensioni. L’idea di fondo è quella di uno scambio fra developer ed interessi locali: i primi concedono ai secondi cambiamenti nei progetti di trasformazione - anche per mezzo di previsioni aggiuntive in direzione di bisogni emersi a livello locale – mentre questi si impegnano a non opporsi ma anzi a sostenere la realizzazione dello stesso di fronte ai poteri locali. In anni recenti, i CBA stipulati contenevano previsioni significative in materia di housing sociale, servizi pubblici, politiche dell’occupazione, sostenibilità ambientale. Il ruolo dell’amministrazione pubblica nella stipula dei CBA varia da una funzione di facilitazione e sostegno ad una di piena partecipazione, configurante in tal caso un diverso status giuridico dell’accordo. Il paper intende presentare e discutere 1) i caratteri essenziali dei CBA anche per mezzo di alcune esemplificazioni locali, 2) il nesso fra i CBA, la tradizione del community organizing e le correnti strategie di rivitalizzazione delle organizzazioni sindacali e comunitarie; 3) i motivi di interesse dei CBA nell’ambito del dibattito italiano sull’urbanistica contrattata.

L’emergere del Community Unionism

La letteratura internazionale ha estesamente analizzato e discusso le strategie di rivitalizzazione dei sindacati americani emerse nell’ultimo ventennio (Tattersal, 2011; Turner e Cornfield, 2007). Diversi autori hanno interpretato l’avvento di queste strategie come un vero e proprio cambio di paradigma all’interno del movimento sindacale o quantomeno all’interno di una sua parte consistente (Buroway, 2008). Abbandonato il modello del cosiddetto business unionism - un sindacalismo di orientamento minimalista e corporativo, concentrato sulla contrattazione aziendale e prevalentemente al servizio agli iscritti in essere – si sarebbe passati a quello del community o social movements unionism (Wills, 2000). Le community union avrebbero alcune caratteristiche fondamentali: 1) l’essere place-based; 2) l’avere un’innovativa dimensione identitaria capace di operare al di là del luogo di lavoro; 3) il proporre una forte dimensione politica, grazie all’esplicitazione di temi quali l’eguaglianza e la giustizia economica e sociale; 4) l’assegnare un ruolo fondamentale alle strategie di organizing e di leadership development, 5) infine l’essere disponibili a modalità informali di adesione, per mezzo del coinvolgimento di inedite forme di attivismo, ed il ruolo dei servizi, in particolare per lavoratori immigrati e working-poor (Fine, 2001). Queste nuove strategie si sono misurate in particolare sul terreno della sindacalizzazione dei segmenti più deboli del mercato del lavoro: nei settori dei servizi poveri ad alta intensità di lavoro nei quali si concentra una manodopera immigrata, non raramente illegale, sottoposta a condizioni di lavoro molto dure e prive di tutele legali e contrattuali (Savage, 2006). Non casualmente, a partire dal caso nordamericano, sono state organizzazioni sindacali del settore dei servizi quali SEIU (Service Employeers International Union) a imporsi come protagoniste della nuova stagione, a fronte del persistente declino delle strutture di rappresentanza dei settori manifatturieri (Burawoy, 2008; Savage, 2006).

Alessandro Coppola

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Contrattare la città giusta. L’esperienza dei Community Benefits Agreements negli Stati Uniti

La valorizzazione della dimensione territoriale è fondamentale per capire realtà e potenzialità del Community Unionism: a partire dagli anni novanta si è assistito allo sviluppo di campagne e di strutture sindacali che hanno fatto della “community” – vale a dire quello che noi definiremmo il “territorio”, per come presentato dalla letteratura sociologica – un’arena fondamentale per l’azione sindacale. Questa svolta sarebbe l’esito del nesso sempre più stringente fra l’intensificarsi dello sfruttamento sul luogo di lavoro e la crescente incapacità di assicurarsi la riproduzione sociale fuori dal luogo di lavoro: campagne su temi quali il living wage, la salute, le condizioni ambientali e abitative, l’impresa socialmente irresponsabile intenderebbero aggredire proprio questo nesso (Buroway, 2008). Il rafforzarsi del ruolo delle istituzioni locali, urbane e metropolitane, e dei relativi sistemi di governance nella gestione della politica economica e nella fornitura dei servizi locali avvrebbe costituito un altro incentivo in questa direzione (Wells, 2002). In particolare, politiche urbane sempre più dominate da programmi complessi di rigenerazione, partnership fra attori pubblici e privati e nuovi strumenti integrati di sviluppo economico e sociale avrebbero costituito un’occasione particolarmente propizia allo strutturarsi di queste strategie di ri-territorializzazione delle organizzazioni sindacali e dei movimenti sociali (Simon e Grawshaw, 2009). Questa svolta sarebbe tuttavia funzionale anche alla rilegittimazione sociale delle organizzazioni sindacali. Coinvolgendo la dimensione territoriale nella propria azione, queste si farebbero promotrici di battaglie generali relative alla giustizia economica e sociale (Simon e Grawshaw, 2009) allargando la propria presenza in diverse arene di policy, estendendo la propria influenza su segmenti della composizione sociale – in particolar modo minoranze e working poor – che erano marginali nella base sindacale nell’era del business unionism, e perseguendo con maggiore efficacia l’obiettivo di sindacalizzare i lavoratori che si concentrano nei servizi e in altri settori del mercato del lavoro fortemente frammentati (Wills, 2000). Inoltre, il coinvolgimento del territorio e dei suoi attori risulterebbe funzionale allo stesso successo di battaglie sindacali più tradizionali che – grazie al community unionism – possono godere di sostegni più ampi sul territorio anche facendo leva su pratiche innovative quali il coinvolgimento dei consumatori e dei residenti (Wills, 2000) come nel caso delle cosiddette corporate campaign (Voss e Sherman, 2000). La riscoperta del territorio da parte del movimento sindacale americano è maturata in passaggi successivi. Il primo, la rivitalizzazione di alcune – tradizionalmente deboli – strutture territoriali dell’Afl-Cio, la principale confederazione sindacale del paese (Ness e Eimer, 2001). La seconda, più ambiziosa, l’investimento nella strutturazione di un nuovo campo di attori urbani e metropolitani impegnati nella costruzione di campagne territoriali sui temi del modello di sviluppo urbano, delle trasformazioni urbanistiche, delle politiche ambientali e delle condizioni del mercato del lavoro (Turner e Cornfield, 2007). A rappresentare questa seconda direzione ci sarebbero le strategie di cosiddetto Regional Power Building, vale a dire la costruzione di coalizioni sociali di orientamento progressista “capaci di modellare in modo pro-attivo decisioni politiche ed economiche in una regione metropolitana” (Dobbie, 2009). Le campagne del regional power building hanno l’obiettivo di condizionare le scelte di policy nel breve termine, costruendo al tempo stesso la capacità a lungo termine del movimento, combinando attività da insider (l’attività di lobby) con attività da outsider (vale a dire la mobilitazione sociale). La nascita di nuove strutture, definite think-and-do-thanks, promosse dalle organizzazioni sindacali locali anche per mezzo del ricorso a capitali di origine filantropica, e volte ad associare funzioni di ricerca, di elaborazione di policy e di coalition building è forse l’esito organizzativo più rilevante di questa stagione, senza il quale la diffusione dei Community Benefits Agreement non sarebbe stato possibile (Coppola, 2012).

I Community Benefits Agreements Le città americane hanno conosciuto già in passato esperienze di attivismo urbano orientate alla tutela degli interessi di gruppi sociali subalterni negli ambiti delle politiche di trasformazione urbana e di quelle sociali a base urbana. La stessa stagione dell’Urban Renewal, negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, vide il conoslidarsi di nuovi attori volti in particolare alla tutela delle popolazioni – spesso appartenenti alle minoranze - colpite dai progetti di rigenerazione urbana nelle Inner-city in declino del paese. Successivamente, fra gli anni sessanta e settanta, sull’onda dello sviluppo delle politiche federali contro la povertà urbana si è assistito all’emergere di nuovi attori territoriali, ancora una volta concentrati nella comunità afro-americana, attivi sulle questioni del welfare urbano e dell’housing anche in stretto collegamento con il movimento per i diritti civili da una parte e quello per il potere nero dall’altra (Coppola, 2011). A partire dagli anni settanta, infine, emergerà e si consoliderà la cosiddetta Community Development Industry, un sistema ampio e professionalizzato di organizzazioni no-profit impegnate nella costruzione di housing, nello sviluppo economico e nell’erogazione di servizi nelle aree deprivate delle Inner City. L’avvento della Community Development Industry segnerà la depoliticizzazione di un vasto campo di attori urbani sviluppatosi nei decenni precedenti e la loro inserzione nella nuova governance urbana propria all’era neoliberale. Ruolo, politiche, professionalizzazione e sofisticatezza tecnica di questi attori spingerà gli osservatori più critici a qualificarne la funzione nei termini di “shadow government” delle Inner city (Coppola, 2009; 2010; 2011). Il generale movimento di riterritorializzazione del movimento sinAlessandro Coppola

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dacale americano rappresenterà una nuova pagina nella storia dell’attivismo urbano di cui i Community Benefits Agreement rappresenteranno fra gli esiti più rilevanti. In questo caso, l’enfasi tradizionale sulla costruzione di nuovi soggetti e attori nell’arena urbana – per mezzo delle tecniche spesso divergenti del community organizing e del community building – si affianca all’obiettivo innovativo di addivenire a una formalizzazione degli esiti di una determinata occasione di contrattazione attorno a un oggetto specifico fra diversi attori urbani. Il dispositivo frutto di questa formalizzazione è il Community Benefits Agreement, un contratto negoziato fra un operatore immobiliare e una coalizione di attori territoriali operanti nell’area oggetto di una proposta di trasformazione urbanistica da parte del primo. Essenzialmente, un CBA contiene la previsione di beni e servizi pubblici che il developer fornirà all’area in cambio del sostegno al progetto da parte della coalizione di attori territoriali. In questo modo, particolarmente nel caso in cui siano coinvolti agevolazioni e trasferimenti pubblici, il progetto supererà con maggiore speditezza e facilità le diverse fasi di discussione e approvazione del progetto. Le trattative per i CBA possono essere avviate su richiesta di una coalizione di attori, del developer stesso o anche su invito dell’amministrazione pubblica. Una volta completato, il CBA può trasformarsi in un development agreement fra il developer e l’amministrazione pubblica (Annie Casey Foundation, 2007; Gross, 2005). Vediamo in sintesi alcuni casi di CBA: Los Angeles, Staple Center Le strategie di riterritorializzazione del movimento sindacale americano si sono espresse pienamente in California a partire dagli anni novanta. La campagna Justice for Janitors – diffusamente considerata quale il primo e più evidente esempio di community unionism nel paese – prese a riferimento l’area metropolitana di Los Angeles (Savage, 2006), dove successivamente i sindacati investiranno nella rivitalizzazione delle loro strutture territoriali e nella fondazione di un influente think-and-do-thank, vale a dire la Los Angeles Alliance for a New Economy (LAANE). Negli anni novanta, Laane sarà protagonista delle prime campagne territoriali finalizzate alla formalizzazione di un Community Benefits Agreement (Frank e Wong, 2004; Gabrewlsky, 2007). All’inizio degli anni 2000, un grande progetto urbano – denominato Staples Center – organizzato attorno alla costruzione di un grande stadio e altre strutture per l’intrattenimento sarà l’occasione per portare l’applicazione del nuovo strumento, e il processo che lo sostiene, a una nuova scala. Il Figueroa Corridor Coalition for Economic Justice, una coalizione fra oltre trenta attori territoriali, avvierà trattative con il developer sull’impatto del progetto sull’area e su molti dei suoi contenuti (Gross, 2005). Laane e un altro think-and-do-thank accompagneranno la coalizione nel corso delle trattative, facendo leva sull’ammontare di incentivi e trasferimenti pubblici richiesti dal developer, tale da implicare il più vasto consenso possibile per la riuscita del progetto. Le trattative condurranno alla firma di un CBA con previsioni precise su molte materie: housing sociale; parchi, spazi pubblici e nuovi servizi per l’area; gestione del traffico; inclusione della manodopera locale nelle nuove attività economiche; applicazione di un living-wage nelle nuove attività; misure a favore dello sviluppo economico locale (Gross, 2005; Wolf Powers, 2010). Il CBA era incluso in un Development Agreement con la Redevelopment Agency della città, rendendolo quindi legalmente esigibile sia dall’amministrazone pubblica sia dalla coalizione di attori. Il monitoraggio degli interventi era affidato a un comitato che doveva accompagnare la realizzazione e la gestione successiva degli interventi (Wolf Powers, 2010). Denver, Gates Rubber Factory Anche l’area metropolitana di Denver assiste all’emergere e al consolidarsi di nuove strategie sindacali nel corso degli anni novanta e duemila. Le locali organizzazioni sindacali investiranno nella fondazione di un think-and-do-thank sul modello della californiana Laane, il Front Range Economic Strategy Center (Fresc) (Luce e Nelson, 2004). La riconversione di un’estesa area dismessa nella città sarà l’occasione per la costruzione di una coalizione territoriale - denominata Campaign for responsible development – volta al miglioramento delle dimensioni sociali e ambientali di un grande progetto di rigenerazione urbana di un’area industriale dismessa, l’area della ex Gates Rubber di Denver (Luce e Nelson, 2004; Wolf Powers, 2010). La coalizione richiederà in particolare una componente più consistente di housing sociale, la costruzione di un asilo nido, una maggiore presenza dei residenti nel monitoraggio delle attività di bonifica ed infine l’applicazioni di norme sindacali vantaggiose ai lavoratori del cantiere e a quelli delle future attività commerciali generate dal progetto. La coalizione eserciterà forti pressioni non solo sul developer ma anche sulla Dura, la Denver Urban Redevelopment Authority, ottenendo l’avvio di negoziazioni che si risolveranno in un CBA contenente previsioni molto vicine alle richieste della coalizione: una forte componente di housing sociale nella nuova produzione, misure a favore dell’occupazione dei residenti nelle nuove attività economiche, riconoscimento di un ruolo importante per i residenti nel monitoraggio delle attività di bonifica. Diversamente dal caso dello Staple Center, il progetto in oggetto - e quindi anche il relativo CBA - incontrerà difficolta d’implementazione a causa dell’intervenire della crisi immobiliare. Molte delle previsioni del CBA saranno egualmente realizzate (Wolf Powers, 2010).

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Potenziale e aspetti critici di uno strumento L’avvento dei CBA è da annoverare fra gli esiti di una gestione più flessibile e contrattuale dei meccanismi di zoning (Been, 2010), ovvero dell’avvento – per dirla in termini italiani – dell’urbanistica contrattata (Palermo, 2004). Essi rispondono alla scarsa trasparenza della contrattazione e all’inadeguatezza delle procedure tradizionali di coinvolgimento dei residenti e degli interessi locali nelle trasformazioni urbanistiche (Been, 2010), configurandosi come un tentativo di riequilibrio delle posizioni dei developer e degli interessi territoriali nell’ambito delle arene dell’urbanistica negoziata. In un quadro di risorse pubbliche decrescenti nel campo delle politiche urbane, i CBA sono stati visti come strumenti essenziali nella fornitura di beni pubblici per mezzo di una più efficace cattura di parte del valore delle trasformazioni urbanistiche (Salkin e Levine, 2008). Un primo aspetto problematico della loro implementazione risiede nella effettiva legittimità delle domande formulate dalla coalizione di attori territoriali che propone la stipula di un determinato CBA. I critici hanno sottolineato il rischio di contratti che siano il frutto della negoziazione fra developer e coalizioni poco rappresentative o inquinate da interessi di tipo clientelare (Been, 2010). Anche gli esiti in termini di giustizia distributiva possono risultare controversi: il carattere locale dello scambio potrebbe condurre a una distribuzione distorta di alcuni servizi e beni pubblici che, in assenza di un CBA, potrebbero essere allocati seguendo logiche meno localistiche. In particolare in alcuni ambiti, potrebbe apparire più desiderabile l’implementazione di una strategia alla scala urbana e non alla scala locale di un singolo progetto di trasformazione (Been, 2010). Infine, fra gli aspetti problematici dei CBA sta la loro vulnerabilità dal punto di vista giuridico: in molti stati Usa, la legislazione ne impedisce o ostacola l’esigibilità soprattutto se ad essere coinvolta è la stessa amministrazione pubblica (Marcello, 2007). Allo stesso tempo, l’esperienza dei CBA nel loro farsi ha permesso un miglioramento della trasparenza delle procedure urbanistiche e soprattutto l’emergere d’importanti percorsi di partecipazione locale alle scelte urbanistiche, ancor più rilevanti se si considera il forte coinvolgimento di gruppi sociali ed etnici svantaggiati (Salkin e Levine, 2008). I CBA hanno permesso alle coalizioni che li propongono di affrontare questioni normalmente lasciate al di fuori della negoziazione urbanistica (Been, 2010) favorendo una risalita in generalità delle domande locali che risulta probabilmente utile al miglioramento nel trattamento dei problemi urbani non solo a livello locale. I CBA hanno anche rappresentato uno strumento della più complessiva riformulazione del rapporto fra sindacati, attori territoriali e attori politici: essi hanno incrementato l’accountability degli eletti permettendo agli altri attori di concentrarsi nel monitoraggio di decisioni e comportamenti specifici (Simmons e Luce, 2009). Come già rilevato, motivo di particolare interesse appare l’opportunità in termini di partecipazione rappresentata dai CBA: i sindacati e i partner delle coalizioni locali, anche per mezzo di appositi think-and-do-thanks, possono aprire processi di partecipazione e di mobilitazione locale di dimensioni consistenti che prevedano percorsi di leadership building con l’identificazione e formazione di leader territoriali il cui potenziale ha bisogno di opportunità concrete per esprimersi (Simmons e Luce, 2009). L’alleanza fra sindacati e altri attori territoriali in occasione delle discussioni sui CBA configura la creazione di un’inedita aggregazione di interessi, che permette l’allargamento delle rivendicazioni sindacali a questioni più generali di redistribuzione e qualità delle trasformazioni urbane, sociali ed economiche (Wolf Powers, 2010). In conclusione, qualche notazione relativa all’uso che dell’esperienza dei CBA si può fare nel contesto italiano. Sebbene sia evidente la profonda differenza dei rispettivi contesti regolativi, l’esperienza dei CBA rimane comunque di grande interesse per l’osservatore italiano. Scarsa è stata l’attenzione nel nostro paese nei confronti del tema dell’emergere e del consolidarsi di attori urbani diversi dal mercato in grado di partecipare efficacemente alle dinamiche negoziali proprie dell’urbanistica contrattata. La crescente consapevolezza della scarsa qualità sociale di una parte consistente delle trasformazioni urbane che si sono prodotte nel corso dell’ormai concluso ciclo immobiliare degli anni novanta e duemila (Tocci, 2009) non fa che confermare questa mancanza. Se, come vari segnali parrebbero indicare, anche in Italia va affermandosi una nuova attenzione alla prospettiva della città giusta (Fainstein, 2010), è del tutto auspicabile una diffusione e discussione critica di esperienze internazionali che hanno esplicitamente tematizzato il rapporto fra urbanistica contrattata e strutturazione di attori urbani capaci di rappresentare e mobilitare interessi che oggi appaiono deboli se non del tutto inespressi.

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Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni

Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni Antonio Cappuccitti Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Centro studi e ricerche “I Futuri della Città”, Email: antonio.cappuccitti@uniroma1.it Tel. 06.44585160/fax 06.44585186

Abstract Il crescente impiego delle procedure della cosiddetta ”Urbanistica concertata” nel governo delle trasformazioni urbane, a fronte della crisi della pianificazione di tipo tradizionale e del modello di welfare urbano che ha ispirato in misura sostanziale la trasformazione della città in gran parte del Novecento, richiede norme e regole in grado di garantire un efficace controllo pubblico della qualità delle trasformazioni, ma anche una necessaria “flessibilità” normativa e gestionale, congruente con diversi caratteri specifici della concertazione pubblico privato. Questo difficile “equilibrio” tra “flessibilità” ed “efficacia” delle regole costituisce un nodo centrale della ricerca nel campo del controllo della qualità progettuale delle trasformazioni nell’Urbanistica concertata. Nel contributo si sviluppano una serie di considerazioni di carattere tecnico riguardanti le possibili forme di controllo della qualità progettuale applicabili alle diverse fasi procedurali caratteristiche di talune tipologie di Programmi complessi, della Finanza di Progetto applicata alle trasformazioni urbane, delle Società miste pubblico – privato; si indicano quindi ulteriori prospettive di lavoro in questo particolare ambito di ricerca.

L’"Urbanistica concertata" in Italia: alcuni significativi e fondamentali passaggi "storici". L’introduzione ufficiale delle procedure dell’ “Urbanistica concertata” nel corpus legislativo nazionale per il governo del territorio si è compiuta ormai più di venti anni fa, dando luogo ad un dibattito e ad una esperienza sul campo che per diversi aspetti sembrano ormai decisamente maturi per un consuntivo e per una lettura critica degli esiti, mentre per molti altri mostrano ancora caratteri di incompiutezza, di potenzialità di ulteriore sviluppo, di necessità di soluzioni per problemi emergenti e per rilevanti inefficienze di fondo. Momento in certo senso iniziale della stagione dell’”Urbanistica concertata”, stagione per taluni versi identificabile forse come una vera e propria “generazione” urbanistica, per citare la celebre espressione di Giuseppe Campos Venuti, è stato l’introduzione dei “Programmi integrati di intervento”, con la Legge n. 179 del 1992, e di altri tipi di procedure di fatto affini a detti Programmi ed introdotte da provvedimenti legislativi diversi, che si differenziavano per tipi di operatori, canali di finanziamento, percorsi procedurali e valutativi. Tra le diverse modalità operative del Partenariato Pubblico Privato applicato alle trasformazioni urbane 1 , la fattispecie di questi Programmi è stata quella che in modi più estesi e diffusi ha caratterizzato fino ad oggi la stagione dell’Urbanistica concertata in Italia, trovando applicazione in molteplici iniziative esperite in più fasi in gran parte dei Comuni del paese, connotandosi in particolar modo per le sostanziali potenzialità di attivazione di risorse finanziarie private connaturate alla praticabilità della variazione contestuale della strumentazione urbanistica generale vigente tramite modalità concertative quali gli “Accordi di Programma”.

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Tra i diversi testi che delineano un quadro complessivo di dette modalità, e che approfondiscono nello specifico i caratteri tecnico - procedurali di ognuna di esse, il libro dell’autore del presente contributo: A. Cappuccitti (2006): Strumenti, procedure valutative, itinerari gestionali per l’Urbanistica concertata, Aracne editrice, Roma.

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Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni

Peculiarità maggiormente caratterizzante, tra le altre, dei Programmi integrati di intervento e di procedure affini, è quella di basarsi su una contrattazione di diritti urbanistici tra operatori privati e decisori pubblici resa praticabile essenzialmente dalla possibilità di apportare variazioni alla strumentazione urbanistica generale; è nell’ambito di detta contrattazione che vengono individuati gli opportuni margini di incentivo per l’attivazione di risorse finanziarie private, e che l’Amministrazione pubblica è chiamata a perseguire i due obiettivi di una ottimizzazione dell’impiego di risorse pubbliche e del controllo della qualità degli esiti. La rilevante fattispecie partenariale della “Finanza di Progetto” (Project Financing) vede invece una prima compiuta formalizzazione legislativa con il dettato della Legge quadro in materia di lavori pubblici (la cosiddetta “Legge Merloni”) del 1994, della quale verranno operate nel corso degli anni sostanziali modifiche e integrazioni fino alla nuova forma predisposta dal “Codice dei Contratti pubblici” D. Lgs. 163/2006 e quindi dal D. Lgs. 152/2008 (noto come “Terzo Decreto correttivo al Codice dei Contratti”). Al di là delle specificità delle procedure previste dalla legge per le due fattispecie fondamentali (Modelli di FP rispettivamente di iniziativa pubblica e di iniziativa privata), carattere peculiare e distintivo delle tipologie di Finanza di Progetto maggiormente rilevanti e praticate è di individuare la parte sostanziale della potenziale remunerazione per l’intrapresa privata negli utili ricavati nel tempo delle opere realizzate e concesse in gestione. Oltre che nell’ambito delle opere pubbliche la Finanza di Progetto viene applicata in sistemi di interventi che prefigurano trasformazione urbane complesse, costituendo quindi una modalità procedurale rilevante anche nel campo propriamente urbanistico. La terza delle modalità operative principali dell’Urbanistica concertata, costituita dall’istituto della Società di Trasformazione Urbana, si differenzia dalle altre per l’assunzione di un particolare vincolo societario tra Amministrazione comunale e operatore privato, in analogia a diversi simili istituti di altri Paesi. Detto vincolo, in sintesi, comporta la compresenza e la sinergia delle capacità di gestione e management caratteristiche dell’intrapresa privata e delle prerogative decisionali e di controllo della Amministrazione pubblica. Origini normative fondamentali della STU sono stati l’art. 120 del D. Lgs. N. 267/2000 e la relativa “Circolare esplicativa” ministeriale dello stesso anno. Va evidenziato che il Project Financing applicato alle trasformazioni urbane e, ancor di più, lo strumento delle STU, presentano in Italia una pratica ed una sperimentazione ben più ridotte rispetto ai Programmi complessi, e questo per una articolata serie di motivi che non è possibile trattare in questa sede 2 . Allo stesso modo, anche gli strumenti e le procedure per il controllo della qualità applicati nelle specifiche procedure della FP e delle STU presentano un repertorio di casi ed una sperimentazione “sul campo” decisamente più ridotta rispetto alle corrispondenti procedure adottate nei Programmi complessi. Oltre alle tipologie sopra richiamate, diverse procedure di concertazione pubblico – privato tipiche dei Programmi integrati vengono introdotte negli strumenti urbanistici generali come procedure attuative “ordinarie”, in luogo del carattere di “deroga” che originariamente detti Programmi avevano assunto a partire dalla loro prima introduzione. Detto utilizzo in diverse Regioni è previsto e normato da specifiche leggi, in alcuni casi complementarmente o nell’ambito di procedure di carattere perequativo.

Le problematiche emergenti della concertazione pubblico - privato nell’Urbanistica italiana. L’utilizzo delle procedure dell’ “Urbanistica concertata” permette, in particolare rispetto ai tradizionali strumenti attuativi di tipo “convenzionale”, l’individuazione di condizioni di incentivo e di attivazione per l’intervento privato che possono consentire una sostanziale ottimizzazione dell’utilizzo di risorse finanziarie pubbliche per la realizzazione di interventi di uso collettivo; questo aspetto, già sopra richiamato, è senza dubbio il principale fattore di positivo apprezzamento di dette procedure da parte delle pubbliche Amministrazioni. A questo si aggiunge anche il fatto, di rilevanza tutt’altro che marginale, che l’adozione di itinerari procedurali “semplificati”, e le possibilità di deroga rispetto alla strumentazione generale praticabili con talune tipologie di procedure, consentono di affrancarsi da lungaggini procedurali e di uscire dall’impasse di quadri di riferimento di pianificazione obsoleti o ormai inattuali. A fronte di queste positive qualità, l’esperienza maturata negli ultimi due decenni pone in rilievo rilevanti e urgenti problematiche, che potremmo riassumere in termini essenziali, in estrema sintesi, nei punti seguenti. Primo. Se è vero che l’Urbanistica concertata dovrebbe individuare soluzioni di ottimale equilibrio tra profitti privati e interessi della collettività, e che dell’equità di questo equilibrio dovrebbe farsi garante l’Amministrazione pubblica, va rilevato che in troppi casi proprio questo equilibrio appare sbilanciato verso l’interesse privato, per molteplici motivazioni che vanno dall’incapacità delle Amministrazioni di adempiere a proprie funzioni istituzionali e tecniche all’obiettiva difficoltà di gestione di processi complessi in mancanza di strutture operative pubbliche adeguate. Questo aspetto, posto all’attenzione del grande pubblico anche dalle ce2

Un quadro completo e aggiornato della pratica di dette procedure in Italia è offerto nella più recente edizione del “Rapporto dal territorio” dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, volume di Autori vari a cura di Pierluigi Properzi.

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Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni

lebri puntate di “Report” trasmesse su Rai3 nel 2007 e 2008, indica la necessità che si formi una competente ed efficiente capacità di gestione di processi complessi di trasformazione urbana da parte delle pubbliche Amministrazioni. Secondo. Se è vero che la concertazione pubblico – privato richiede di necessità una certa flessibilità normativa, finalizzata a favorire la contrattazione e a conseguire opportuni livelli di incentivo per l’iniziativa privata, è anche vero che in molti casi in presenza di regole troppo “deboli” si osserva una insoddisfacente qualità finale delle trasformazioni, sotto punti di vista differenti. Questo indica la necessità che le regole alle quali assoggettare le trasformazioni riescano a conseguire l’arduo equilibrio tra “leggerezza” e flessibilità da una parte, e garanzia della qualità degli esiti dall’altra. Terzo. In taluni contesti l’Urbanistica concertata sembra risolversi in una “Programmazione per progetti” che tende a sottrarsi ad un quadro generale organico e unitario, e che di fatto può generare quindi ulteriore frammentazione urbana. Questo è un problema di fondo in certo senso “strutturale”, per il quale alcune Leggi regionali per il governo del territorio e talune paradigmatiche esperienze – guida di pianificazione propongono ormai diverse soluzioni, sia pur nell’ambito di modi decisamente diversificati di intendere il rapporto tra pianificazione generale e programmazione dei grandi interventi urbani. Quarto. Ad eccezione di determinate tipologie di procedure, come taluni Programmi europei o strumenti del tipo dei “Contratti di Quartiere”, la concertazione pubblico – privato appare spesso “chiusa” rispetto ad istanze di informazione e partecipazione nei confronti delle quali le comunità locali appaiono sempre più sensibili. Le suddette problematiche emergenti principali aprono tutte il campo, con urgenza e con evidenza, a corrispondenti ambiti di sperimentazione e ricerca. Nel seguito del presente contributo vengono trattati gli aspetti legati, in particolare, allo specifico campo di ricerca concernente le norme e regole per la qualità delle trasformazioni, e l’opportuna articolazione dell’azione normativa nell’ambito di un adeguata gestione del controllo della qualità.

Il controllo pubblico della qualità urbana nella concertazione pubblico privato: quali tipi di regole e quali procedure 3 L’estesissima e prolungata esperienza disciplinare nell’ambito dei sistemi normativi per la qualità urbana, con particolare riferimento allo specifico campo della qualità della forma urbana, consente di evidenziare alcune rilevanti “famiglie” di norme e regole e di procedure di controllo, che si distinguono sulla base di diversi rilevanti aspetti specifici. Di seguito si riportano alcuni elementi di classificazione e tassonomia in questo senso, facendo riferimento ad una terminologia ormai ampiamente sedimentata e condivisa nel linguaggio disciplinare, e limitando l’attenzione allo specifico ambito di regole e procedure di controllo mirate alla qualità della forma urbana. Possono essere distinti almeno quattro diversi gruppi di tipologie: le regole “prestazionali”, le regole “comportamentali”, le regole “applicate agli oggetti”, il “coordinamento progettuale diretto”. 4 Le regole prestazionali individuano tipicamente “esigenze” e “requisiti”, ritenuti decisivi per il conseguimento degli obiettivi di qualità del progetto, e corrispondenti “misure prestazionali”, sulle quali si basa la domanda di qualità espressa e normata dalle regole. 5 Forma tipicamente assunta da questo tipo di regole è quella degli elenchi requisiti - prestazioni, ma fanno parte propriamente dei sistemi normativi di carattere prestazionale anche altri tipi di sistemi complessi di regole, come ad esempio le cosiddette schede progetto o altrimenti denominate, le quali in base all’obiettivo del conseguimento di determinati requisiti spaziali nelle trasformazioni urbane alla scala locale prescrivono determinate prestazioni di assetto fisico, per mezzo di regole caratterizzate da forma comunicativa e valore normativo differenziati. Si indicano correntemente come regole comportamentali gli strumenti normativi contraddistinti tipicamente da un carattere di guida e da una connotazione delle norme/regole di tipo “didattico”, espressa in forme comunicative strutturate talvolta in forma di veri e propri manuali o guide. Con l’espressione regole applicate agli oggetti si indicano quei tipi di regole che esplicitano il livello della qualità richiesto per mezzo di riferimenti grafici e descrittivi, che prefigurano direttamente la conformazione fisica degli spazi, e che possono assumere diversi possibili significati normativi. Sono regole di questo tipo, ad esempio, le soluzioni (o suggerimenti) progettuali conformi o consigliate. 3

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Nel presente paragrafo, e in quello successivo, sono riprese in parte, e sviluppate ulteriormente, alcune note, valutazioni e riflessioni già elaborate dall’autore nel corso di precedenti occasioni di ricerca (esposte in particolare in A. Cappuccitti: “Norme e regole per il disegno delle trasformazioni urbane: dalla tradizione disciplinare alla ricerca di strumenti innovativi”, Atti delle giornate di studio “Il Disegno delle trasformazioni”, Napoli, 1-2 dicembre 2011, Università degli Studi di Napoli Federico II – Polo delle Scienze e delle Tecnologie, ISBN 88-8497-215-6). La classificazione richiama in parte alcune distinzioni sulle differenti tipologie di regole per il Piano urbanistico che Carlo Gasparrini proponeva nel 1994, nel suo libro “L’attualità dell’Urbanistica. Dal Piano al Progetto, dal Progetto al Piano”, Etaslibri. Il più celebre dei “testi fondativi” dell’”approccio prestazionale” è stato senz’altro l’opera di Kevin Lynch Progettare la città. - La qualità della forma urbana (A Theory of Good City Form, 1981), Etaslibri, Milano 1990.

Antonio Cappuccitti

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Con l’espressione “coordinamento diretto” si intendono le diverse tipologie di confronto e di interlocuzione tra i diversi “attori” del progetto, in genere sotto la supervisione di soggetti delegati alla “regia” del controllo e responsabili della qualità degli esiti, nelle quali i diversi argomenti del progetto sono affrontati e risolti nell’ambito di un dialogo “diretto”, articolato in diverse fasi di progressivo approfondimento. Questo tipo di procedure assume tipicamente una particolare rilevanza nell’ambito di fasi decisionali concernenti la dimensione architettonica in progetti urbani complessi, dimensione non compatibile con la semplice e “statica” applicazione di regolamenti. La sintetica classificazione sopra esposta viene utilizzata strumentalmente, nel seguito del presente contributo, per distinguere le diverse tipologie di regole e di forme di controllo qualitativo applicabili in modo appropriato alle differenti fasi operative caratteristiche delle procedure dell’Urbanistica concertata.

I momenti “topici” delle procedure, le forme di controllo applicabili, la gestione dei processi: un esteso campo di ricerca Carattere peculiare degli strumenti e procedure dell’Urbanistica concertata è la presenza di percorsi di concertazione tra decisore pubblico e operatore privato finalizzati alla attivazione di risorse private per la realizzazione di interventi di interesse pubblico, con conseguente risparmio di risorse collettive. Nell’ambito di detti percorsi la propensione all’intervento da parte dell’operatore privato, in modo corrispondente all’elaborazione dell’incentivo all’intervento stesso, assume consistenza gradualmente nell’ambito di una serie di fasi concertative. Questo evidenzia la particolare rilevanza che, in strumenti intrinsecamente basati sulla contrattazione, viene assunta dalla appropriata gestione nel tempo dei processi. Nel presente paragrafo si delineano, in termini il più possibile generali e generici, le fasi caratteristiche di una procedura di concertazione pubblico – privato, distinguendo i casi dei Programmi complessi (con particolare riferimento ai “Programmi integrati di intervento”), della Finanza di Progetto applicata alle trasformazioni urbane, delle Società pubblico – privato (con particolare riferimento alle Società di Trasformazione Urbana). Vengono quindi proposte, in appositi quadri sinottici, le forme e tipologie di regole di controllo della qualità progettuale appropriatamente applicabili alle diverse fasi operative, sulla base del particolare contenuto specifico delle fasi stesse, del tipo di interazione tra “attori” pubblici e privati, e del livello di maturazione dei progetti che tipicamente caratterizza detti diversi momenti. I “Programmi integrati di intervento” possono essere di iniziativa privata o pubblica, come veniva già stabilito nell’introduzione originaria operata dalla L. 179/1992. Nel secondo caso, generalmente, essi vengono attivati da appositi bandi pubblici emanati dalle Amministrazioni comunali e riguardanti determinate aree di intervento, con i quali gli operatori privati (in particolare: proprietari delle aree o soggetti da questi delegati) vengono invitati alla presentazione di proposte di trasformazione, sulla base di un insieme di regole stabilito dal bando stesso. A questa particolare situazione, particolarmente rilevante e significativa, si riferiscono le note seguenti. In estrema sintesi, i “passi” procedurali che caratterizzano un Programma integrato di intervento del tipo sopra indicato sono i seguenti: - Emanazione di un bando di confronto concorrenziale da parte dell’Amministrazione comunale; - Presentazione di proposte intervento da parte dei proprietari delle aree o di altri soggetti abilitati; - Valutazione delle proposte pervenute da parte dell’Amministrazione comunale, con concertazione con gli operatori privati delle eventuali modifiche da apportare alle proposte; - Elaborazione di Programmi definitivi, tesi a porre a sistema i diversi interventi all’interno di una trasformazione urbana organica e strutturata. Nella fase di emanazione del Bando di confronto concorrenziale è appropriato, in particolare, l’utilizzo di regole di carattere comportamentale e prestazionale (dagli schemi strutturali di assetto, alle “schede progetto” per aree particolari, alle liste di requisiti progettuali concernenti temi diversi). Successivamente alla presentazione delle proposte private e alla conseguente valutazione da parte del Comune, risultano definite le aree di intervento, e il tipo di trasformazioni proposte. In questa fase, quindi, apposite strutture comunali potrebbero avanzare una ulteriore domanda di qualità basata su regole prestazionali (ad esempio “schede progetto” più dettagliate riguardanti le aree prescelte) o, in particolare, un coordinamento progettuale diretto (dato che in questa fase entrano in gioco questioni legate alla qualità delle architetture, che necessitano di un confronto diretto tra i soggetti coinvolti nelle trasformazioni). Una sintesi in termini essenziali dell’iter caratteristico di una particolare tipologia di Project Financing applicato alle trasformazioni urbane, il “modello di iniziativa privata”, che riflette in modo peculiare le tipicità della Finanza di Progetto, può essere delineata con i seguenti punti principali: - L’Amministrazione pubblica predispone gli ordinari strumenti di programmazione per le Opere pubbliche; - Gli operatori privati ed altri enti avanzano proposte per progetti non compresi nelle programmazione pubblica, con opportuni Studi di fattibilità;

Antonio Cappuccitti

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Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni

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L’Amministrazione pubblica adotta le proposte private ritenute di interesse, e pubblica i relativi Bandi di gara, con a base gli Studi di fattibilità;

Figura 1. Programmi integrati di intervento di iniziativa pubblica. Schema sinottico delle fasi procedurali maggiormente caratterizzanti e dei principali tipi di norme/regole morfologiche e di forme di controllo della qualità progettuale utilizzabili [Elaborazione dell’autore del contributo, novembre 2011] -

I “Promotori” privati presentano proposte per la realizzazione degli interventi di cui agli Studi di fattibilità compresi nei Bandi di gara; - Ha luogo la procedura di valutazione con conseguente selezione del Promotore aggiudicatario da parte dell’Amministrazione pubblica; - L’Amministrazione analizza e approva i Progetti preliminari, e nelle fasi successive validerà e approverà i Progetti definitivi e quindi i Progetti esecutivi; - Il Promotore aggiudicatario e l’Amministrazione stipulano la Concessione. Eventuale costituzione della “Società di Progetto”; - Gli aggiudicatari realizzano e gestiscono le opere, che riconsegneranno all’Amministrazione pubblica al termine del periodo di gestione. L’Amministrazione valida e approva i progetti, effettua i collaudi e le azioni di monitoraggio, prenderà in consegna le opere. In una procedura di PF come quella sopra sintetizzata in termini essenziali, i momenti caratteristici nei quali potrebbe essere avanzata una domanda specifica di qualità progettuale e urbanistica delle trasformazioni possono essere in particolare: il Bando di gara per l’individuazione dei Promotori aggiudicatari, le fasi di valutazione e “validazione” dei progetti, la stipula della Concessione. Per il Bando di gara sono opportune regole di carattere prestazionale, riguardanti diversi temi specifici del progetto, ma anche schemi di assetto urbanistico, a seconda del tipo di intervento. Lo stesso tipo di regole prestazionali, naturalmente, può essere opportunamente impiegato come sistema di pre-condizioni da porre alla base della Concessione. Regole “guida” di tipo comportamentale, invece, possono essere congruenti con le fasi di valutazione e validazione dei progetti, costituendo quindi un riferimento sia per l’azione valutativa del decisore pubblico che per l’azione progettuale e realizzativa del Concessionario privato.

Antonio Cappuccitti

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Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni

Figura 2. Finanza di Progetto applicata a trasformazioni urbane. Modello di iniziativa privata. Schema sinottico delle fasi procedurali maggiormente caratterizzanti e dei principali tipi di norme/regole morfologiche e di forme di controllo della qualità progettuale utilizzabili [Elaborazione dell’autore del contributo, novembre 2011] Nel corso del generico itinerario formativo ed operative di una Società di Trasformazione Urbana i momenti maggiormente appropriati per esercitare una azione di controllo pubblico della qualità progettuale sono in particolare lo Studio di fattibilità di avvio, la Delibera di CC che individua aree e programmi, il perfezionamento della Convenzione Comune – STU. Nello Studio di fattibilità di avvio possono già essere prefigurati e definiti i caratteri qualitativi degli interventi previsti, per quanto la Società pubblico – privato sia in questa fase ancora da formarsi, predisponendo diversi tipi di sistemi normativi (in particolare prestazionali, comportamentali). La successiva Delibera comunale potrà quindi indicare più dettagliati requisiti prestazionali per le trasformazioni, da porre a base come regole di riferimento della successiva procedura di evidenza pubblica per la selezione dei soci privati. La Convenzione Comune – STU, quindi, definirà con opportuno dettaglio i livelli prestazionali da adottarsi per le trasformazioni. Inoltre, le diverse fasi della realizzazione del programma prestabilito possono essere sottoposte al vincolo della congruenza con i contenuti di opportune “guide” comportamentali.

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Figura 3. Società di Trasformazione Urbana. Schema sinottico delle fasi procedurali maggiormente caratterizzanti e dei principali tipi di norme/regole morfologiche e di forme di controllo della qualità progettuale utilizzabili [Elaborazione dell’autore del contributo, novembre 2011] Le schematizzazioni e le considerazioni esposte sopra intendono porre in rilievo la complessità del rapporto tra natura delle fasi procedurali previste e norme/regole/forme di controllo utilizzabili nelle diverse procedure di base dell’Urbanistica concertata, e come il tema del controllo della qualità progettuale in detti tipi di processi sia – anche alla luce dell’attuale stato dell’arte e delle sperimentazioni disponibili – un campo aperto e in buona parte da esplorare ulteriormente, nel quale gli aspetti problematici fondamentali sono dati dalla formazione di una adeguata capacità di gestione e controllo di processi complessi da parte delle Amministrazioni pubbliche e dalla necessità di adottare una adeguata e diversificata tipologia di norme e regole. Modalità di gestione e controllo e tipologie/forma delle norme/regole utilizzabili, in altri termini, sono due argomenti cruciali rispetto all’efficacia e all’equità nell’applicazione delle procedure dell’Urbanistica concertata alle trasformazioni della città. Questi due argomenti, strettamente correlati tra loro, sottendono nel contempo le problematiche emergenti maggiormente significative, e, quindi, gli ambiti di ricerca maggiormente fecondi e ricchi di potenzialità in questo ambito. Quale che sia la strutturazione di specifici programmi di ricerca sviluppabili in questo campo, va rimarcato che il repertorio di esperienze che può potenzialmente essere assunto a positivo riferimento di base comprende, al di là degli elementi di interesse e dei limiti presenti nella più recente esperienza italiana di pianificazione 6 , da un lato l’estesa esperienza europea nell’ambito della concertazione pubblico – privato, con particolare riferimento alla cospicua e sedimentata tradizione francese nel campo della contrattazione urbanistica e della gestione delle società miste per le trasformazioni urbane, dall’altro una estesa serie di recenti esperienze di progettazione urbana sostenibile realizzate in diversi paesi 7 , nelle quali l’obiettivo della qualità urbanistica e architettonica è stato perseguito anche con metodi particolarmente avanzati di gestione procedurale e di controllo qualitativo. 6

Un esteso e documentato quadro dello stato dell’arte della Pianificazione in Italia, anche nello specifico ambito della pratica delle procedure dell’Urbanistica concertata, è dato in: Autori vari (a cura di E. Piroddi e A. Cappuccitti) (2009): Il Nuovo Manuale di Urbanistica, Vol. III, Lo stato della Pianificazione in Italia, Venti città a confronto, Torino, Milano, Trento, Bolzano, Trieste, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Ancona, Terni, L'Aquila, Roma, Napoli, Campobasso, Matera, Bari, Reggio Calabria, Palermo, Cagliari, Mancosu editore, Roma. 7 Una interessante selezione e analisi di casi significativi è stata operata nell’ambito dello studio dal titolo “Qualità e sostenibilità urbana: esperienze e linee guida”, svolto dal Dipartimento di Architettura e Urbanistica per l’Ingegneria dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” su incarico della PARC, Direzione generale per la qualità e la tutela del Paesaggio, l'Architettura e l'Arte Contemporanee del Mibac, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Responsabile Prof. Arch. Domenico Cecchini. L’autore del presente contributo ha partecipato allo studio in qualità del componente del gruppo Antonio Cappuccitti

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Contrattazione di diritti urbanistici e regole per la qualità delle trasformazioni

Ma è opportuno evidenziare che anche la vasta esperienza maturatasi in Italia negli ultimi trenta anni riguardo al controllo della qualità della forma urbana nel Piano urbanistico e nel Progetto urbano può essere di particolare e prezioso ausilio, come riferimento di base per questi percorsi di ricerca, per quanto detta esperienza si sia riferita prevalentemente a pratiche di pianificazione di carattere “convenzionale”, spesso in assenza di una contrattazione di diritti urbanistici nell’accezione propria degli strumenti di cui trattiamo in questa sede. In questo vastissimo repertorio di esperienze e di esempi, per certi aspetti relegato forse troppo frettolosamente nel dimenticatoio dal dibattito urbanistico assieme ai “Piani disegnati” degli Anni Ottanta, si individuano casi notevolissimi di sistemi normativi diversi ed articolati, nei quali tutti i nodi cruciali del progetto normativo sono stati ampiamente trattati in modi differenziati e significativi, e che quindi possono offrire una appropriata base di riferimento anche per l’elaborazione di norme e regole di carattere innovativo e congruente con le specifiche peculiarità dell’Urbanistica concertata.

Bibliografia Cappuccitti A. (2006): Strumenti, procedure valutative, itinerari gestionali per l’Urbanistica concertata, Aracne editrice, Roma. Colarossi P., Latini A.P. (a cura di, 2008): La Progettazione urbana, Il Sole 24 Ore, Milano. Cecchini D., Castelli G. (a cura di, 2010): Esperienze di quartieri sostenibili in Europa, in “Urbanistica”, n. 141, gennaio – marzo 2010, Anno LXII, INU Edizioni, Roma. Mattogno C. (a cura di, 2008): Ventuno parole per l’urbanistica, Carocci editore, Roma. Piroddi E., Cappuccitti A., Daviddi M., Rubeo F. (2006): La pianificazione territoriale e urbanistica, nella voce “Urbanistica” del Manuale di Ingegneria civile e ambientale, Zanichelli ESAC, Bologna. Piroddi E., Cappuccitti A. (a cura di, 2009): Il Nuovo Manuale di Urbanistica, Vol. III, Lo stato della Pianificazione in Italia, Venti città a confronto, Torino, Milano, Trento, Bolzano, Trieste, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Ancona, Terni, L'Aquila, Roma, Napoli, Campobasso, Matera, Bari, Reggio Calabria, Palermo, Cagliari, Mancosu editore, Roma.

di lavoro. Parte dei risultati della ricerca è pubblicata in: Autori vari (a cura di Domenico Cecchini e Giordana Castelli): Esperienze di quartieri sostenibili in Europa, in “Urbanistica”, n. 141, gennaio – marzo 2010, Anno LXII, INU Edizioni, Roma. Antonio Cappuccitti

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Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio Mariavaleria Mininni Dipartimento DICEM UNIBAS Email: mariavaleria.mininni@unibas.it Giovanna Mangialardi Politecnico di Bari Email: mangialardi.giovanna@libero.it Tel. 333.4927319 Graziarosa Scaletta Politecnico di Bari Dipartimento ICAR, Facoltà di Architettura Email: arch.g.s.scaletta@gmail.com Tel. 080.5963827

Abstract Il ruolo sempre maggiore che negli ultimi anni hanno assunto le energie rinnovabili in Puglia ha portato all’occupazione diffusa e impropria di suoli a discapito delle economie locali, soprattutto quelle agricole. Alla luce di un quadro normativo che ha fortemente incentivato le fonti rinnovabili fino al paradosso della insostenibilità, ci si propone di definire un quadro dei diversi fattori in gioco cercando di costruire un contesto esplicito tra consumo di suolo,politiche dello sviluppo e sostenibilità energetica. Il presente contributo intende indagare l’apporto che misure di accompagnamento nella costruzione di nuovi ”paesaggi energetici” potrebbero contribuire a dare alla pianificazione come attività di regolamentazione delle questioni in campo, per promuovere azioni coerenti di trasformazione e salvaguardia attiva costruendo indirettamente azioni paesaggistiche. Il caso studio considera la città di Apricena (FG) che guarda al PUG in fase di adozione , come possibilità di veicolare azioni di inserimento delle nuove fonti rinnovabili nel proprio paesaggio inevitabilmente associato ai contesi produttivi e in particolare alle sue cave, essendo Apricena il bacino estrattivo tra i più grandi d’Italia.

Nuovo ciclo di vita di un paesaggio urbano Gli impianti a tecnologia fotovoltaica consentono di trasformare direttamente in elettricità l'energia solare. Il loro impatto sul paesaggio varia moltissimo a seconda della tipologia, dell’estensione e della collocazione degli impianti. Gli impianti di produzione industriale (parchi fotovoltaici) sono costituiti da un numero elevato di pannelli, formano delle strutture di notevole estensione territoriale, disposte generalmente a terra su ampi spazi aperti che vengono, pertanto, sottratti ad altri usi e comportano una serie di opere accessorie quali recinzioni, sistemi di illuminazione e forme di guardiania che ne amplificano la visibilità e provocano impatti paesaggistici. Si tratta di veri e propri impianti industriali che nella maggior parte dei casi vengono ad occupare territori agricoli provocando modificazioni, generalmente negative, dei paesaggi in cui si inseriscono (ARPA). Il presente studio, partendo da tali considerazioni, e contestualizzando la ricerca sul territorio di Apricena (FG), mira ad individuare tutte le possibili alternative di integrazione paesaggistica nel rispetto dei caratteri identitari del territorio. In ogni caso gli impianti fotovoltaici producono una modificazione dei luoghi che è bene valutare preventivamente attraverso un’attenta analisi dei caratteri connotativi del paesaggio in cui si opera. Ciò significa, Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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ad esempio, riconoscere la presenza di punti e percorsi panoramici, di relazioni visive significative tra il luogo di intervento ed il contesto e, al contempo, le modificazioni apportate alle stesse in seguito alla realizzazione dell’intervento. I principali impatti sul paesaggio di impianti fotovoltaici si possono ricondurre a intrusione visiva dovuta ai caratteri cromatici dei collettori, alla loro forma, alla superficie riflettente, che in genere si pongono in contrasto con i caratteri morfologici, materici e cromatici dell’esistente; modificazione della struttura del suolo quando nelle collocazioni a terra non si tiene conto delle tessiture territoriali minute, della presenza di vegetazione, di corsi d’acqua, ecc.; sostituzione dei materiali esistenti e perdita dei caratteri propri delle architetture su cui si interviene; alterazione della percezione e orientamento delle popolazioni del luogo di installazione. Si tratta di spostare l’attenzione dalla casualità della collocazione dell’impianto o dalla non idoneità di alcuni siti, alla convenienza e opportunità della collocazione e modalità di disposizione nei luoghi consentiti. Per ridurre l’occupazione di ulteriore suolo e evitare gli impatti sul paesaggio su citati, sarebbe opportuno individuare i contesti e delineare degli scenari che per loro conformazione e natura meglio di altri si prestano ad ospitare pannelli solari: vasti edifici a copertura piana che caratterizzano i paesaggi industriali, poli commerciali, grandi impianti sportivi, elementi di arredo urbano, gli elementi di illuminazione, i cartelli segnaletici, recinzioni, pannelli lungo le infrastrutture lineari quali barriere fonoassorbenti. 1 Qualsiasi intervento che modifichi la configurazione di un luogo anche se di dimensioni ridotte deve configurarsi come progetto di paesaggio ovvero partire da un’attenta considerazione del rapporto che l’impianto viene ad instaurare con il contesto di riferimento. Tenuto conto che il ”Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (art.1, Convenzione Europea per il Paesaggio), coerente e necessario risulta pensare che un intervento antropico, come quello legato all’installazione di impianti fotovoltaici, riconosciuti necessari per efficienti politiche energetiche locali, debbano senza alcun dubbio essere sostenuti e finanche tollerati a patto che politiche energetiche e politiche di assetto del territorio vengano adeguatamente integrate. L’intento è quello di costruire azioni paesaggiste che si possono rintracciare nella pianificazione ordinaria alla scala locale attraverso strumenti di accompagnamento alla ecologically sound che interpretano le reciproche convenienze del fare e del far meglio.

Il caso studio: il Comune di Apricena (FG) Gli interventi di mitigazione sono i presupposti necessari per inserire un impianto fotovoltaico nel territorio in modo armonioso, in continuità con l’ambiente circostante. Il presente studio pone come obiettivo l’individuazione di criteri progettuali finalizzati al miglior inserimento paesaggistico ambientale di impianti fotovoltaici in un contesto come quello di Apricena, in cui si promuove e regolamenta l’applicazione delle energie rinnovabili. In riferimento alle Norme Tecniche di Attuazione del Piano Urbanistico Generale in fase di presentazione, il legislatore propone i seguenti obiettivi in linea con le recenti politiche regionali:  favorire la riduzione dei consumi energetici;  favorire lo sviluppo e la diffusione sul territorio delle energie rinnovabili;  favorire l’uso integrato delle fonti di energia rinnovabile sul territorio;  favorire la concentrazione delle nuove centrali di produzione di energia da fonti rinnovabili nelle aree produttive pianificate o in prossimità di esse;  disincentivare la localizzazione di centrali fotovoltaiche su suolo agricolo;  promuovere la produzione di energia per autoconsumo. Nel redigendo PUG si è seguito il criterio di installare gli apparati tecnologici e di energie rinnovabili su insediamenti esistenti, come già anticipato, con impianti dimensionati e dedicati, integrandoli come più possibile nelle relative strutture edilizie, a condizione che non siano visibili dalle strade di interesse paesaggisticoambientale. I contesti principalmente idonei all’insediamento dei nuovi impianti fotovoltaici sono censiti tra quelle aree destinate all’utilità pubblica, ovvero alle attività collettive (così come riportate nelle Zone F del PUG), agli insediamenti produttivi (così come riportate nelle Zone D del PUG), alle residenze economiche popolari (PEEP) e tra quelle aree destinate alle attività estrattive, in particolar modo gli spazi dismessi (Figura 1 e 2).

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Di recente emanazione è una delibera regionale secondo cui sono stati stanziati 32 milioni di euro per l’efficientamento energetico e il miglioramento della sostenibilità ambientale degli edifici pubblici (scuole, municipi, ospedali, parcheggi), mentre 38 milioni saranno destinati ad investimenti privati.

Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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Generazione Distribuita. Dal consumo alla produzione di risorse La riduzione dei consumi da un lato e la produzione di energia rinnovabile dall’altro sono i principali obiettivi della Pianificazione energetica regionale (PEAR). Pertanto sarebbe necessario ripensare una città e un territorio a basso consumo di risorse, ma anche ad alto potenziale di poterle riprodurre in maniera tale che favorisca l’ipotesi di un decentramento del sistema di approvvigionamento energetico in linea con le politiche internazionali. 2 Ad oggi la Puglia produce più energia di quanto ne consumi ; è quindi necessario orientare la produzione di energia e l’eventuale formazione di nuovi distretti energetici verso uno sviluppo compatibile con il territorio e con il paesaggio. Questo contributo si propone di favorire un diverso orientamento delle scelte localizzative adottate dalla politica energetica passando dall’ individuazione delle zone non idonee alla indicazione delle zone convenienti per la collocazione di nuovi impianti fotovoltaici, attribuendo alla pianificazione, sia quella comunale ordinaria che quella regionale paesaggistica un ruolo di accompagnamento attraverso le raccomandazioni di come è meglio e più conveniente fare. Le strategie progettuali si muovono su due orientamenti: concentrazione nelle aree che presentano disponibilità di ampie superfici disponibili anche per la possibilità di concentrare le reti di distribuzione; (coperture di servizi e attrezzature collettive e dei tetti dell’edilizia residenziale pubblica, soprattutto nelle aree produttive pianificate e nelle cave dismesse, ex aree produttive); riuso e riciclaggio come opportunità di dare un secondo ciclo di vita a superfici già sfruttate in un’ottica di reimpiego. Nello specifico si opererà all’interno dei processi trasformativi dei paesaggi delle cave 3 dove l’attività antropica e in particolare quella estrattiva ha contribuito ad alimentare cambiamenti e processi evolutivi, condizionando l’esistenza dell’uomo e le forme stesse del suo insediarsi sul e nel territorio. Infatti, la concentrazione di cave in queste aree ha progressivamente consolidato uno sviluppo crescente di attività legate alla trasformazione e lavorazione dei prodotti con l’estensione di un forte indotto che coinvolge gran parte delle economie locali. Tuttavia proprio questo sviluppo crescente delle attività estrattive ed il continuo trasferimento di nuove tecnologie di trasformazione mostrano, nel consumo delle risorse ambientali, l’aspetto più vulnerabile dell’intero processo. Questo ha generato, attraverso una nuova regolamentazione del settore, una rinnovata sensibilità per un sistema ambientale di difficile rigenerazione (Potenza et al 2011). La prima condizione necessaria per riscattare il paesaggio estrattivo convertendolo dalla sua condizione in luogo delle opportunità è il riconoscimento dell’attività di cava come uso transitorio e non come fattore di degrado definitivo. Tali macro aree sono due contesti rilevanti: Apricena è caratterizzato dall’attività estrattiva di uno dei più grandi bacini d’Italia e per quel che concerne la zona industriale, essa si estende per una superficie destinata ad insediamenti di circa 315 ettari di cui circa 300 ha sono occupati dalla zona industriale. 4 Occorre in questa direzione ripensare alle aree produttive come a delle vere e proprie centrali di produzione energetica di nuova generazione dove sia possibile progettare l’integrazione delle diverse tecnologie in cicli di simbiosi produttiva a vantaggio delle stesse aziende che usufruiscono dell’ energia prodotta. La concentrazione di impianti nelle piattaforme industriali da un lato riduce gli impatti sul paesaggio e previene il dilagare ulteriore di impianti sul territorio, dall’altro evita problemi di saturazione delle reti, utilizzando le centrali di trasformazione già presenti nelle aree produttive.

Il Sistema locale delle attività estrattive Le cave sono dei “detrattori ambientali” che operano notevoli trasformazioni al suolo e al paesaggio. L’incidenza dell’attività estrattiva sul paesaggio è tale da comportare alterazioni degli equilibri dell’ambiente fisico, nelle sue componenti animali e vegetali, ma soprattutto la rottura degli equilibri visuali e delle componenti formali e cromatiche del paesaggio stesso. Il recupero ambientale delle cave e la relativa riconversione in un diverso 2

Secondo lo studio del 2011 dell’Ihs iSuppli Market Brief, l’Italia rispetto al 2010 è passata a produrre da 3,9 a 6,9 gigawatt. Nello specifico il record italiano è dovuto in particolar modo alla produzione della Puglia, che si pone come capofila per la maggiore capacità produttiva con 1.486 MW di potenza proveniente da 16.803 impianti. Secondo lo studio di Terna, nel 2010 la Puglia ha contribuito per un quinto nella produzione italiana di fonti alternative. Questo primato, non dipende solo dalle potenzialità naturali che caratterizzano il territorio, ma dipende anche da una normativa regionale, che nel rispetto delle qualità paesaggistiche e ambientali, ha cercato di facilitare gli investimenti in questo settore, riducendo le prassi burocratiche. 3 La Puglia è la terza regione italiana per metri cubi di materiale lapideo estratto annualmente, e l’ingente numero di cave dismesse disseminate sul territorio regionale nei tre principali bacini (Puglia settentrionale – Apricena, Puglia Centrale – Murge e Nord barese, Puglia Meridionale – Salento) anche come risultato di un perdurante vuoto legislativo che prevedesse azioni di recupero e di tutela ambientale, rafforzano la necessità di creare nuovi processi di Riconversione del Patrimonio Estrattivo regionale. Sul territorio si rileva la presenza di oltre 500 cave attive (Regione Puglia, 2010). L’attività di estrazione dei minerali di seconda categoria, dunque, rappresenta un importante settore dell'economia regionale pugliese che discende da una tradizione mineraria che si è radicata fin da epoca romana (per es. “le cave della breccia corallina” del Gargano; Reina, 2003). 4 Dati rilevati dalle redigende Norme Tecniche di Attuazione del Piano Urbanistico Generale del Comune di Apricena. Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

“organismo” produttivo, da una parte consente di mettere in sicurezza lo stato dei luoghi, dall’altra di conservare la potenzialità di risorsa economica trasformandole da produttrici di materiali per costruzione a produttrici di energia rinnovabile. L’obiettivo è proporre un’alternativa di recupero e un nuovo concetto di ricomposizione ambientale, attraverso l’interazione delle tre tematiche arte natura e scienza in un contesto come Apricena che “(…)dalla metà del secolo scorso viene fatto coincidere con il paesaggio delle cave”. Oppure imprimere al paesaggio dell’estrazione un nuovo codice genetico che passa per la riqualificazione e il riuso dalla sottrazione di risorsa al valore aggiunto della produzione di energia pulita e dalla capitalizzazione dei proventi per poterlo riconvertire in fase definitiva a paesaggio da rinaturalizzare. Un processo auto poietico e di self-recovering che si auto alimenta a partire da un uso riparatore dell’innovazione tecnologica e dalla capacità delle strategie della pianificazione di accompagnare e guidare l’intero processo cross scaling space-time dependent. Lo studio di soluzioni di integrazione paesaggistica e territoriale di impianti fotovoltaici contestualmente alla rinaturalizzazione delle cave, può essere un’opportunità per il territorio di Apricena, un “investimento incrementalista” che preveda uno sfruttamento della risorsa rinnovabile in un periodo determinato (vita utile dell’impianto pari a 25-30 anni) e che precluda in tempi medio-lunghi, mediante introiti derivanti dall’incentivazione della fonte rinnovabile solare, una riqualificazione definitiva del paesaggio delle cave.

Individuazione delle strategie di inserimento di impianti fotovoltaici nel territorio. E’ necessario quindi trovare la giusta sinergia tra “opere”, “territori” e “tecnologie” mediante l’individuazione di “linee guida” intendendole come azioni di accompagnamento al processo, in contatto con le politiche in vigore perché abbiano conseguenzialità nelle strategie della pianificazione tale che precipitino nello spazio con ricadute anche in termini occupazionali. Veicolare un corretto inserimento della fonti rinnovabili nel paesaggio significa costruire una identità a partire dai nuovi paesaggi dell’energia. Studiare come energia e territorio possono dialogare in modo da non minare né allo sviluppo della prima ne al consumo e allo sfruttamento del secondo. Presi in esame quattro principali contesti si è ritenuto opportuno supporre per ciascuno una pertinente tecnologia da adottare e le rispettive azioni prescrittive di mitigazione e compensazione della specifica tecnica e dello specifico contesto. La tabella I riporta i corrispondenti suggerimenti per:  Contesto urbano produttivo  Contesto rurale produttivo  Aree per attrezzature e attività collettive  Aree per edilizia residenziale pubblica Puntando principalmente all’azione integrativa sulle coperture, nel caso di adattamento su architetture esistenti; alla localizzazione a terra per le aree residuali e circostanti ad impianti produttivi e di cave dismesse. Inoltre per ogni intervento sarebbe opportuno prevedere l’inserimento di vegetazione come schermatura nel caso di impianti a terra. Tabella I. Linee Guida per il fotovoltaico ad Apricena: aree idonee e tecnologie da adottare

tecnologie da adottare

misure di mitigazione/compensazione

Utilizzo di laminati fotovoltaici flessibili in Integrazione su coperture esistenti aderenza totale alle superfici esistenti mediante moduli fotovoltaici flessibili. Contesto Urbano Produttivo  Inserimento impianto sul pensilina e parcheggi di pertinenza aree produttive. Localizzazione di impianti a terra in aree  Preservare le superfici verdi delle residuali e circostanti impianti produttivi, o aree in cui sorgeranno gli impianti. CU 5.1  Inserimento di vegetazione come contesto urbano su terreni incolti e abbandonati. schermatura produttivo da riqualificare Inserimento della tecnologia fotovoltaica in Integrazione architettonica ad impatto nullo con nuovi insediamenti di carattere multifunzionalità multifunzionale. CU 5.2 contesto urbano produttivo da riqualificare con mitigazione/

Inserimento della tecnologia fotovoltaica Utilizzo di laminati fotovoltaici flessibili in integrata su coperture esistenti mediante aderenza totale alle superfici esistenti moduli fotovoltaici flessibili.

Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

compensazione

Localizzazione di impianti a terra in aree residuali e circostanti impianti produttivi, o su terreni incolti e abbandonati di pertinenza dell'area produttiva. 

CU 5.3 contesto urbano produttivo di nuovo impianto

 

 

Preservare le superfici verdi delle aree in cui sorgeranno gli impianti. Inserimento di vegetazione come schermatura

Integrazione architettonica ad impatto nullo. Studio in fase di progettazione dell'inserimento della tecnologia fotovoltaica nelle nuove struttura produttive. Inserimento su pensiline e parcheggi di competenza degli insediamenti produttivi. Posizionamento su copertura e su facciate.

Localizzazione in progetti più ampi di rinaturalizzazione della cava. Localizzazione su coperture di servizi presenti o da Contesto Rurale realizzare , utilizzo di aree residuali, o su Produttivo strutture verticali annesse.

  

Integrazione territoriale e paesaggistica. Presenza di vegetazione alternata a rampe di fotovoltaico non permanenti. Progetto del verde.

Attività estrattive Aree per impianti a servizio delle cave Attrezzature e Spazi Collettivi

Edilizia Residenziale Pubblica

Utilizzo delle coperture con soluzioni Integrazione architettonica ad impatto nullo complanari alla superficie di appoggio

Utilizzo dei tetti a falda degli edifici Integrazione architettonica ad impatto nullo residenziali (previsto l'utilizzo del 50% della falde esposte a S - S/E - S/O)con soluzioni complanari alla superficie di appoggio

Le giuste sinergie nell’inserimento paesaggistico di nuove forme di antropizzazione del territorio possono divenire punto di partenza per la costruzione di basi di intesa tra comuni ed enti interessati. Si è quindi cercato di porsi degli obiettivi estendibili:  rafforzare tali forze per generare nuovi processi di riqualificazione del territorio e per creare incentivi non solo perché la costruzione di un impianto muove delle risorse, ma anche perché produce delle trasformazioni che possono essere guidate da forme di concertazione più chiaramente espresse in altri strumenti di pianificazione.  ripensare alle aree produttive come a delle vere e proprie centrali di produzione energetica dove sia possibile progettare l’integrazione delle diverse tecnologie in cicli di simbiosi produttiva a vantaggio delle stesse aziende che usufruiscono della energia prodotta. La concentrazione di impianti nelle piattaforme industriali da un lato riduce gli impatti sul paesaggio e previene il dilagare ulteriore di impianti sul territorio, dall’altro evita problemi di saturazione delle reti, utilizzando le centrali di trasformazione già presenti nelle aree produttive orientando le azioni ed i progetti verso politiche dell’autoconsumo, rivolte ai Comuni e ai singoli utenti.  progettare un energy planning e affrontare in modo sempre più ampio il tema dei nuovi modelli energetici in relazione al sistema insediativo definendo in modo chiaro regole e materiali del paesaggio urbano contemporaneo orientati ad uno sviluppo sostenibile.  creare un reale vantaggio per il territorio e per il cittadino utilizzando fonti rinnovabili mediante un’iniziativa che coinvolga i tetti e le superfici occupabili in terra di Apricena.

Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

Nello specifico i quartieri di edilizia economica popolare, il sistema delle cave e delle aree di risulta delle stesse, le pensiline e i parcheggi, le coperture delle attrezzature collettive e infine i capannoni industriale e le aree di pertinenza sono una opportunità per il comune di Apricena per prefigurare i vantaggi di un utilizzo corretto e di un inserimento intelligente delle fonti rinnovabili nel territorio urbano ed extraurbano (Fgura 3).

Calcolo del potenziale energetico Mediante il supporto del sistema informativo territoriale ArcGIS (Geographic Information System) è stato possibile ricavare per ogni settore, descritto nel capitolo precedente, la superficie delle coperture espresse in mq. Tale operazione è stata effettuata per avere una stima di quante superfici sono utilizzabili per l’installazione di pannelli fotovoltaici, scelta alternativa all’utilizzo del suolo agricolo, e infine per quantificare l’energia prodotta da tali sistemi. Tali valori, sono stati ridotti mediante dei coefficienti che tengono conto della presenza di impianti in copertura, di ombreggiamenti, ostacoli in genere, o difficoltà di installazione. Tali coefficienti sono pari al 70 % per le coperture di attrezzature e spazi collettivi, 80% per gli insediamenti produttivi, e infine il 50 % per le coperture dei tetti a falda dell’edilizia residenziale pubblica, in cui si suppone utilizzabile la falda esposta in maniera ottimale (S - S/E – S/O). Tale valutazione ha permesso di avere una prima approssimazione sulla quantità di coperture disponibili per le alternative all’installazione sul suolo dei pannelli fotovoltaici (cave escluse). Si hanno dunque, in totale, disponibili per il posizionamento di pannelli fotovoltaici circa 26,5 Ha. Tali superfici producono in un anno energia elettrica pari a 4.329.156 kWh/ annuo, che corrisponde, circa al fabbisogno elettrico annuo di 1450 famiglie (consumi annui totali per abitazioni su una famiglia media di 3,62 persone pari a 3000 kWh/annuo fonte: www.enea.it). Di seguito in tabella II si riporta un riassunto di quanto detto. Tabella II. Superfici di copertura utilizzabili per l’installazione di impianti fotovoltaici coefficiente riduttivo delle coperture %

coperture

superfici coperture mq

superfici pannellabili mq

energia prodotta in un anno kwh

70

attrezzature e spazi collettivi

27.207,40

19045,2

310.795

80

insediamenti produttivi

239.396,40

191517,1

3.125.329

109.448,10

54724,1

893.032

265286,4

4.329.156

50

edilizia residenziale pubblica totale coperture pannellabili

Conclusioni Il contributo illustra una metodologia di concentrazione e riuso di parti di territorio, mediante misure di accompagnamento per l’inserimento di nuove tecnologie di produzione di energia elettrica quali gli impianti fotovoltaici, adottata in una esperienza di pianificazione ordinaria con l’obiettivo di arricchire la capacità di conoscenza del paesaggio e dei luoghi dimostrando di sostenere le scelte di piano. L’analisi delle reciproche convenienze, mettendo a sistema il processo di pianificazione territoriale e il continuo sviluppo delle tecnologie fotovoltaiche, permette, all’interno delle linee guida sopra illustrate, di combinare forme contrattuali e regolative. I vantaggi derivanti da un corretto inserimento di impianti fotovoltaici nel territorio non sono solo di tipo economico (incentivi non più garantiti dal conto energia per gli impianti installati su suolo agricolo), ma anche e soprattutto di tipo ambientale e sociale: suolo libero perché recuperato (suoli pubblici inutilizzati, fasce di rispetto, cave sfruttate, superfici di copertura sopraelevate da riconvertire soprattutto se erano di amianto, aree recuperabili da dismissione ), energia prodotta senza danno alcuno e autosufficienza elettrica delle strutture su cui sono installati impianti di energia rinnovabile. Se è positivo che la tecnologia fotovoltaica utilizzi la fonte rinnovabile per eccellenza, ossia il sole, favorendo la riduzione delle emissioni di CO 2 , ciò non deve avvenire a scapito del territorio che ospita tali tecnologie. Di questo problema la pianificazione può prendersene conto Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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CompetitivitĂ degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

cercando nello strumento del piano di un territorio comunale, afflitto da anni di sfruttamento del suolo da attivitĂ estrattiva e aree di lavorazione della pietra, di farsi promotore di strumenti di accompagnamento alle trasformazioni future, operando in una logica di risarcimento e recupero low cost individuando reciproche convenienze e politiche della riconversione da dismissione, uso improprio, e uso combinato.

Figura 1. Individuazione delle attrezzature e spazi collettivi e delle aree per gli insediamenti produttivi

Figura 2. Individuazione del P.E.E.P e delle aree destinate ad attivitĂ estrattive Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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CompetitivitĂ degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

Figura 3. Linee guida per inserimento impianti fotovoltaici Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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Competitività degli usi del suolo agricolo nella costruzione del paesaggio

Bibliografia Libri Cagnoli P. (2001), VAS. Valutazione ambientale strategica. Fondamenti teorici e tecniche applicative, Dario Flaccovio Editore, Palermo. Regione Puglia (2000), Norme Tecniche di Attuazione del Piano Urbanistico Tematico Territoriale del Paesaggio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione generale per i Beni Architettonici e Paesaggistici (2008). Linee Guida per l’inserimento paesaggistico degli interventi di trasformazione territoriale Regione Puglia (2010), Norme tecniche di Attuazione del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale. Regione Puglia (2011), Linee Guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. ARPA Puglia (2010), Linee guida per la valutazione della compatibilità ambientale di impianti di produzione a energia fotovoltaica. GSE (2010), Rapporto statistico 2010 - Solare fotovoltaico. E. De Crescenzo, A. Mariniello (2009), Integrazione fotovoltaica nel territorio. Progetti integrati in due contesti paesistici: cava a mezza costa e a fossa. Gruppo Editoriale Aracne Editrice. Siti web www.ecoage.it www.edilportale.it www.agenda21.it www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it www.beniculturali.it www.sviluppoeconomico.gov.it www.regione.puglia.it pugliattiva.regione.puglia.it

Riconoscimenti Il contributo è frutto di una riflessione collettiva del gruppo di autori, comunque si devono a M.V. Mininni il paragrafo 1-Nuovo ciclo di vita di un paesaggio urbano, il paragrafo 2.3-Individuazione delle strategie di inserimento di impianti fotovoltaici nel territorio e il paragrafo 4-Conclusioni; a G. Scaletta il paragrafo 2-Il caso studio: il Comune di Apricena (FG), il paragrafo 2.2-Il sistema locale delle attività estrattive e il paragrafo 4Conclusioni; a G. Mangialardi il paragrafo 2.1-Generazione Distribuita. Dal consumo alla produzione di risorse, il paragrafo 2.3-Individuazione delle strategie di inserimento di impianti fotovoltaici nel territorio, il paragrafo 3-Calcolo del potenziale energetico e il paragrafo 4-Conclusioni.

Maria Valeria Mininni, Graziarosa Scaletta, Giovanna Mangialardi

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Partnership pubblico-privato, infrastrutture ed ecologia

Partnership pubblico-privato, infrastrutture ed ecologia Francesco Domenico Moccia* Università degli Studi di Napoli Federico II Email: fdmoccia@unina.it Tel. 081.2356808 Alessandro Sgobbo* Università degli Studi di Napoli Federico II Email: alessandro.sgobbo@unina.it Tel. 081.2356838

Abstract Un recente studio SDA-Bocconi, condotto su oltre 2000 progetti, ha evidenziato che circa l’88% degli interventi per i quali si è fatto ricorso alle procedure del Project financing risulta non giunto alla fase dell’effettiva realizzazione. L’esame approfondito delle motivazioni ha dimostrato che, nella maggior parte dei casi, ciò era dovuto ad una mancanza di effettiva convenienza dell’investimento. La questione ecologica in questo periodo generale di crisi si inserisce come generatrice di nuova domanda e, nel contempo, come capace di offrire un incremento del margine di contribuzione degli investimenti tale da favorire il ricorso al capitale privato. L’approccio ecologico ad una pianificazione della città che sia anche sostenibile ed effettivamente attuabile contrappone al conservatorismo ideologico la convenienza economica del cambiamento in chiave ambientale.

La contrazione degli investimenti infrastrutturali La crisi che ha interessato le economie mondiali negli anni 2008 e 2009 ha drasticamente accelerato il processo di esaurimento delle risorse a disposizione degli Enti locali territoriali per lo sviluppo infrastrutturale e socio economico. Infatti il regime di vincoli introdotto nel sistema bancario, la cui conseguenza diretta si è manifestata in modo eclatante sul credito all’impresa, la maturazione del processo di globalizzazione commerciale, che ha determinato il radicale spostamento della domanda di prodotti in favore dei paesi in cui il costo del lavoro risulta sensibilmente inferiore, la conseguente restrizione del PIL nazionale, hanno posto in crisi la credibilità del sistema-paese, principalmente con riferimento alla capacità di questo di far fronte nel tempo ai debiti contratti. I maggiori timori di insolvenza, accompagnati da una buona dose di speculazione finanziaria, si sono concentrati verso quei paesi che, a fronte di un livello di indebitamento molto alto, si caratterizzano per un peso prevalente della componente lavoro della spesa pubblica e, quindi, meno in grado di far fronte efficacemente all'esigenza di riduzione fabbisogno finanziario corrente. Conseguentemente l’azione di risanamento dei conti pubblici si è concentrata sulla contrazione della componente residua di spesa in ragione della sua minore rigidezza intrinseca. In tal senso un peso sostanziale è stato attribuito alla riduzione degli investimenti infrastrutturali di competenza degli Enti statali e territoriali. Questi ultimi, infatti, anch’essi finanziariamente strutturati su una notevole preponderanza della componente lavoro 1 rispetto al complessivo della spesa corrente, sono stati costretti a rispondere alla contrazione dei trasferimenti statali 2 , con il sostanziale blocco degli investimenti in infrastrutture e qualità urbana. * Le elaborazioni per il Progetto di ERS come questo saggio sono prodotti di un lavoro comune, frutto di continui scambi tra gli autori, tuttavia la redazione dei § 2 e 5.1 è di F. D. Moccia e quella dei § 1, 3, 4, 5 e 5.2 di A. Sgobbo 1 Di cui, oltretutto, subiscono il sistema delle regole e tutele imposto, secondo il principio costituzionale, al livello di legislazione nazionale. 2 Addirittura si assiste ad una sostanziale inversione dei trasferimenti avendo lo Stato demandato all’imposizione locale gran parte dell’incremento della pressione fiscale. Francesco Domenico Moccia – Alessandro Sgobbo

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Partnership pubblico-privato, infrastrutture ed ecologia

D’altra parte la minor disponibilità economica delle famiglie ha corrisposto alla crescita della domanda di pubblici servizi, già, di per sé insufficienti a causa di una politica che, negli anni di maggior opulenza, è stata principalmente rivolta, per vari motivi, all’incremento del numero dei pubblici dipendenti.

Aspetti economici della questione ecologica In questo processo economico la questione ecologica si inserisce come generatrice di nuova domanda (Moccia 2009 e 2010). Per quanto riguarda il settore dell’urbanistica, questa domanda si esprime nelle dotazioni infrastrutturali quali componenti del capitale fisso locale. Infatti, questo approccio se da un lato punta alla riduzione dei consumi, configurando in tal modo un andamento recessivo, dall’altro richiede un incremento degli investimenti per le dotazioni territoriali che può essere stimato in misura molto elevata, nel caso si volessero intraprendere politiche di vasto respiro come, ad esempio, quelle della Gran Bretagna promossa dal Sustainable Communities Act del 2007 (Local Works 2010), un programma integrato di rivitalizzazione della 'Ghost Town Britain'. L’andamento di riduzione dei consumi è la diretta conseguenza del risparmio delle risorse naturali anche se queste ultime incidono solamente sulla parte di consumi che riguardano i prodotti. Nel settore, abbiamo già notato l’alterazione della composizione interna con la notevole crescita dei servizi ed in particolar modo dei servizi immateriali. È chiaro come questa tendenza sia in parte effetto dell’esaurimento delle risorse ma, in parte, anche una indicazione degli orientamenti degli utenti i quali evolvono la loro domanda verso impegni di carattere culturale, intellettuale, ricreativo, creativo lasciando crescere molto il settore smart nonché accompagnando lo sviluppo dell’ICT. La convergenza di questa tendenza con l’assunto ecologico consiste nel ridotto contenuto materiale di quest’industria. Essa potrebbe spingere un rinnovato orientamento del mercato con l’ambizione di superare il consumismo, perlomeno nelle forma distruttiva per l’ambiente come si è andato configurando fino ad oggi e al cui superamento si rivolge l’appello del Worldwatch Institute (Assadourian 2010). Con il medesimo obiettivo del risparmio delle risorse naturali, un intervento non più procrastinabile va indirizzato in maniera generalizzata al rinnovamento di tutte quelle infrastrutture ed impianti a bassa resa rispetto all’evoluzione tecnologica in atto, negli ultimi tempi sempre più decisamente indirizzata al risparmio di energia e materia. Questo principio di coinvolgimento del progresso tecnologico nella gestione dell’equilibrio tra impatto antropico e risorse disponibili (ovvero di strategia di contenimento dell’impronta ecologica), caratterizza una prospettiva economica particolarmente affermata in ambito ONU (Sachs 2010). Il problema fondamentale, a questo punto, consiste nell’individuazione dei mezzi per spostare risorse economiche dal settore dei consumi a quello degli investimenti affinché si renda possibile un impegnativo programma di “rinascita urbana” attraverso la riforma del sistema infrastrutturale e impiantistico con tecnologie sostenibili. Tra le strade percorribili si distinguono due fondamentali direzioni: una richiede un ruolo da protagonista dello stato; l’altra cerca, con un approccio liberista di mettere a punto dei meccanismi di mercato. La prima posizione risulta abbastanza in linea con la competenza statale per l’investimento e la gestione dei beni pubblici a cui risultano ascritti infrastrutture ed impianti urbani. Il loro finanziamento proviene e dovrebbe provenire anche in futuro dalla tassazione, onde la ricerca dei suaccennati mezzi consisterebbe nel trovare i modi per spostare quote significative del bilancio pubblico (ed in special modo degli enti locali) verso l’investimento in infrastrutture urbane, con la difficoltà del livello della spesa totale già poco sostenibile e la difficoltà ad elevare i livelli di prelievo fiscale. La seconda ipotesi si basa sul principio di stabilire dei trade-off tra le imprese in modo da favorire i comportamenti ecologici (Stern 2009). Queste sarebbero costrette ad acquistare i diritti per inquinare, il che le spingerebbe ad investire nell’innovazione tecnologica e renderebbe disponibili finanziamenti per i beni comuni. Questo principio, abbracciato dall’UE, dovrebbe incominciare a mostrare i suoi frutti nel prossimo futuro e potrebbe essere una fonte di finanziamento per le opere pubbliche alternativo alla tassazione generalizzata. Al momento ci sono indicazioni della volontà del presente governo ad indirizzare queste risorse al finanziamento del programma “smart citis and communities”. Purtroppo queste condizioni rappresentano solo una prospettiva non ancora concretamente praticabile, per cui la presente sperimentazione è costretta a muoversi sul terreno più difficile di un momento di transizione dove non sono disponibili ancora forti politiche ambientali.

Nuove opportunità di investimento per il capitale privato La tematica degli investimenti infrastrutturali, in termini di reperimento delle risorse economico-finanziarie a ciò necessarie, inerisce non solo gli aspetti strettamente legati al finanziamento dell’esecuzione, ma anche i costi che l’Amministrazione dovrà affrontare per la manutenzione e gestione dell’opera. Per molte delle tipologie infrastrutturali maggiormente deficitarie rispetto al fabbisogno reale ed agli obblighi normativi 3 , una semplice 3

Aree attrezzate a verde, parchi urbani ed edilizia residenziale sociale.

Francesco Domenico Moccia – Alessandro Sgobbo

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operazione di capitalizzazione di tali flussi di spesa distribuiti nel tempo pone, infatti, in evidenza il carattere spesso preponderante dell’impegno finanziario che l’Ente assume per il periodo di esercizio del bene rispetto all’investimento iniziale. Del resto, analizzando sommariamente il bilancio dello Stato, si perviene immediatamente alla constatazione che la gran parte della spesa pubblica non deriva da nuovi investimenti quanto, quasi esclusivamente, da costi correnti che, in ultima analisi, sono riconducibili all’onere per il mantenimento dello status quo. In tale ottica il ricorso a forme di Partnership Pubblico Privato e, comunque, all’intervento di capitali, prevalenti o esclusivi, del mondo imprenditoriale, è in grado di fornire i migliori risultati per la collettività in termini di efficacia ed efficienza (Moccia 1990). A prescindere, infatti, da ogni valutazione di carattere ideologico risulta evidente che la gestione privata, in relazione alla necessità di mantenere conveniente e produttivo di utili il periodo di funzionamento dell’opera corrispondente all’intervallo temporale di durata della concessione, è fortemente indirizzata alla continua manutenzione ed ammodernamento del bene. Ciò, in definitiva, si traduce in efficacia dell’investimento dal punto di vista del livello di servizio costantemente offerto all’utenza ed efficienza economico-finanziaria del processo gestionale. In questo ambito la questione ecologica può certamente costituire l’ulteriore volano necessario all’intensificazione degli investimenti infrastrutturali del capitale privato. Ciò sotto due punti di vista principali:  sugli aspetti di contenimento dei cambiamenti climatici e del risparmio di risorse si concentrano e, probabilmente si continueranno a concentrare con crescente intensità, gli investimenti della Comunità europea sia in termini di flusso di fondi strutturati che di agevolazioni all’impresa;  la ricerca scientifica, fortemente orientata all’innovazione in ambito ecologico-ambientale, sta mettendo continuamente a disposizione degli investitori nuove tecnologie in grado di ridurre consistentemente il fabbisogno di risorse energetiche per il mantenimento del livello di servizio attualmente offerto ai cittadini in termini di qualità della vita. A sua volta l’efficienza di gestione, traducendosi in uso delle risorse accorto, contiene il consumo di energie e di materiali con benefici effetti sull’impatto ambientale nel corso dell’esercizio.

La crisi della finanza di progetto Un recente studio SDA-Bocconi, condotto su oltre 2000 progetti, ha evidenziato che circa l’88% degli interventi per i quali si è fatto ricorso alle procedure del Project financing risulta non giunto alla fase dell’effettiva realizzazione. Se a questo si aggiunge che, secondo i dati dell’OICE 4 , il trend di crescita delle procedure di finanza di progetto è fortemente negativo, si evince uno stato di profonda crisi dell’istituto in esame. Il motivo principale che sottende la maggior parte delle summenzionate cause di blocco della procedura è da individuarsi nella mancanza di convenienza economica intrinseca del progetto. In altri termini, l’opera che l’Ente intendeva far realizzare mediante il ricorso al capitale privato non è in grado di garantire un flusso di cassa ed una remuneratività sufficienti a bilanciare l’intensità dell’investimento. Ne deriva la mancanza di disponibilità degli operatori privati a proporsi in qualità di promotori ovvero, la presentazione di proposte che modificano sostanzialmente lo schema predisposto dall’Ente e che, in definitiva, o vengono giudicate prive del necessario interesse pubblico o, peggio, danno luogo a procedure annullate dalla giustizia amministrativa per insussistenza di un’adeguata alea economico finanziaria. Approfondendo ulteriormente l’indagine si è rilevato che la mancanza di convenienza economica per il progetto sul quale l’Ente chiede l’impegno dei privati investitori è, per lo più, riconducibile ad un’errata valutazione effettuata dal soggetto appaltante nonché alla difficoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di individuare opere suscettibili di realizzazione con capitali privati. In definitiva si è osservato che il trasferimento in capo agli Enti appaltanti del concept dello operazioni di progetto di finanza 5 ha determinato la crisi dello strumento, nonostante, oggi più che mai, il ricorso al capitale privato costituisca una delle principali possibilità, se non l’unica alternativa, per la realizzazione di un adeguato livello di infrastrutturazione del territorio.

Un caso studio: il Programma di Edilizia Residenziale Sociale del Comune di Villaricca (Na) La partecipazione al recente avviso pubblico per la definizione del Programma regionale campano di edilizia residenziale sociale di cui all’art.8 del DPCM del 16/07/2009 – Piano Nazionale di Edilizia Abitativa – è stata l’occasione per il Comune di Villaricca, nell’area nord occidentale della provincia di Napoli, per affrontare il 4

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Associazione di categoria, costituita nel 1965, che rappresenta le organizzazioni italiane di ingegneria, architettura e consulenza tecnico-economica. Determinatosi con le innovazioni introdotte dalla Legge 1 agosto 2002 n.166, a seguito della quali spettava al soggetto concedente immaginare la sussistenza di forme di gestione delle opere a realizzarsi idonee a garantire quel flusso finanziario necessario ai fini della realizzazione dell’intervento in regime di finanza di progetto.

Francesco Domenico Moccia – Alessandro Sgobbo

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Partnership pubblico-privato, infrastrutture ed ecologia

tema della pianificazione urbanistica di dettaglio di un ambito del proprio territorio che, il vigente Piano Regolatore Generale aveva destinato ad interventi di edilizia economica e popolare (figura n.1). A tal fine l’Ente ha deciso di affidare la redazione degli elaborati di piano direttamente all’U.T.C. avvalendosi del supporto tecnico e scientifico del DPUU dell’Università Federico II, responsabile scientifico prof. F. D. Moccia, già impegnato con l’Ente per il nuovo Piano Urbanistico Comunale. L’apporto dell’Università ha determinato la sensibilizzazione verso le tematiche che, in epoca recente, sono state poste al centro del dibattito scientifico: in particolare gli aspetti di sostenibilità, economica, ecologica, sociale ed ambientale delle soluzioni proposte e la scelta di modelli abitativi che, seppur inquadrati nell'ambito di un insediamento destinato essenzialmente al social housing, siano conformi alla tradizione locale e garantiscano il raggiungimento di un adeguato effetto città. Tuttavia l’elemento in cui maggiormente rilevante è stato l’aiuto offerto all’Ente dall’Università è consistito proprio nell’inteso utilizzo delle possibilità offerte dall’innovazione tecnologica in ambito ecologico onde pervenire ad un modello attuativo che, pur basandosi, come imposto dal bando regionale, sulla rilevante preponderanza dell’investimento di capitale privato, fosse caratterizzato da un alto livello di convenienza. Infatti gli studi condotti su iniziative analoghe naufragate negli anni precedenti a causa della mancanza di investitori interessati all’opera hanno dimostrato che un ruolo preponderante nella scarsa capacità dell’iniziativa di attrarre capitale è giocato dalla condizione territoriale contingente. Gli investitori considerano, a parità di condizioni, comunque poco attrattive le opportunità relative ad operazioni da effettuare nelle regioni a sud del Garigliano e ciò principalmente per questioni di giustizia 6 e di incostanza del flusso finanziario dei ricavi 7 .

Figura 1. Ortofoto dell’area oggetto del programma di edilizia residenziale sociale

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Non tanto legata, come sarebbe altresì ipotizzabile, a motivi di ordine pubblico, quanto al funzionamento particolarmente inefficiente che in tali regioni si riscontra nell’amministrazione della giustizia, con tempi processuali molto lunghi ed elevatissimo livello di contenzioso. Ciò può determinare il blocco dell’iniziativa per periodi molto lunghi e, pertanto, incompatibili con l’utilizzo dell’approvvigionamento di capitale da istituti bancari. 7 Salvo il caso di investimenti in settori caratterizzati da rigidità intrinseca (riferiti, cioè, al soddisfacimento dei bisogni essenziali in mercati poco concorrenziali), nelle regioni meridionali, a causa della minore disponibilità degli utenti, si riconosce una notevole elasticità contingente della domanda, pronta a spostare radicalmente e repentinamente le già scarse risorse anche in presenza di marginali incrementi dell’utilità. Francesco Domenico Moccia – Alessandro Sgobbo

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Partnership pubblico-privato, infrastrutture ed ecologia

L’approccio del PUA Social Housing Il PUA di Villaricca è lo sforzo di tradurre quell’insieme di approcci e soluzioni esaminate nel precedente paragrafo 2 ad uno strumento urbanistico misurandosi con i suoi limiti e le sue potenzialità, muovendosi in conformità con un PRG del 1987, al quale le logiche che si intende introdurre erano del tutto estranee. La prima questione che si presenta è che, nella progettazione urbanistica di dettaglio le questioni ambientali non possono essere trattate in maniera settoriale, ma inevitabilmente incrociano i temi dello spazio pubblico come quelli del tipo edilizio o della distribuzione delle funzioni. In altri termini, debbono collaborare alla formazione di una “idea di città” a tutto tondo. In questa complessità è probabile che le radici della città italiana (o europea) consolidata nei pochi schemi di assetti spaziali declinati nella straordinaria molteplicità di espressioni rappresenti un ancoraggio a cui ci rivolgiamo per avere delle basi conoscitive su cui immaginare le proposte, nonostante le spinte dissipatrici dell’episodicità comunicativa a cui si rivolge la postmetropoli dei segni architettonici eclatanti. In aggiunta, non va nascosto come la forma proposta aspira ad offrire un’alternativa a quella dispersione della masse edificate che hanno eluso e bandito lo scopo della creazione di luoghi della comunità allo stesso modo della informe aggregazione intorno alle infrastrutture minime di comunicazione delle lottizzazioni, affidate all’iniziativa individuale delle famiglie. Disegnare strade e piazze, operazione per molti versi banale, assume un valore del tutto diverso in quelle periferie dormitorio generate dal rapido benessere congiunto all’aspirazione di desideri elementari dell’abitare. Il secondo punto riguarda l’incidenza dell’infrastruttura verde sul paesaggio urbano, probabilmente il fattore di maggiore innovazione. Infatti la gestione naturalistica delle acque meteoriche esalta la presenza della natura in città e spinge a disegnare lo spazio pubblico affidando un ruolo di primo piano all’acqua, alla flora (il che finisce per costituire attrazione anche per animali quali gli uccelli, gli insetti o perfino piccoli mammiferi). Nello stabilire un luogo/edificio centrale del quartiere la soluzione a tetto giardino pubblicamente accessibile è il maggior segno di questo connubio non solamente in termini di risparmio di suolo e concentrazione dei servizi (figura n.2).

Figura 2. Assonometria del progetto di PUA

La rete infrastrutturale ecologica Il progetto della rete infrastrutturale del nuovo quartiere di Villaricca è stato ispirato dal convincimento che le possibilità offerte dall’innovazione tecnologica a fini ecologici potessero offrire il quid necessario per consentire di pervenire ad un soddisfacente livello di servizio per la cittadinanza sfruttando gli investimenti del capitale privato. In tal senso gli espedienti e le soluzioni poste in campo sono molteplici. Tuttavia l’esempio più emblematico è offerto dalla proposta riguardante l’infrastruttura energetica finalizzata all’approvvigionamento di energia termica per il riscaldamento invernale ed il raffrescamento estivo. L’ infrastruttura si basa su una rete di tele-riscaldamento/raffrescamento in cui il fluido termovettore è fornito da una minicentrale termica posta nelle immediate vicinanze dell’alveo dei Camaldoli. La convenienza economica e l’ecocompatibilità dei sistemi di teleriscaldamento discende direttamente dalla notevole maggiore efficienza Francesco Domenico Moccia – Alessandro Sgobbo

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intrinseca di cui beneficiano rispetto agli impianti di tipo autonomo. Tale maggiore efficienza deriva, oltre che dall’impiego di centrali di produzione tecnicamente più evolute e costantemente manutenute, anche e soprattutto dalla possibilità di operare in modo praticamente costante a causa della mutua compensazione delle oscillazioni della domanda. Le piccole caldaie, condominiali o per singola utenza, infatti, sono continuamente soggette a cicli di accensione e spegnimento a causa dell’oscillazione del fabbisogno di calore dell’immobile, sia in relazione all’uso che allo scambio termico con l’ambiente esterno (Sgobbo 2009). Preso, quindi, atto che teleclimatizzare ha un costo di per sé inferiore rispetto ad ogni possibile soluzione autonoma, la proposta acquista risvolti economici di notevole convenienza se accoppiata all’uso di un generatore di energia termica a pompa di calore che utilizzi quale ambiente di scambio un ricettore con temperature medie prossime a quelle di esercizio del fluido primario. Tale ricettore, nel caso dell’impianto in parola, è stato individuato nel corso d’acqua che scorre in adiacenza al nuovo insediamento. L’alveo dei Camaldoli, infatti, è caratterizzato da temperature medie prossime a 15 gradi in inverno ed a 24 gradi in estate. Ma, soprattutto, la resistenza termica del fluido è particolarmente elevata con uno spostamento della temperatura, rispetto ai valori medi stagionali, di pochissimi gradi nei giorni di maggiore freddo o caldo. Proprio tali giorni, tuttavia, costituiscono quelli in cui più rilevante è la domanda di termoregolazione degli ambienti interni delle residenze. L’uso di una pompa di calore (un sistema di pompe, in effetti) che utilizza l’acqua dell’alveo dei Camaldoli quale ambiente esterno per lo scambio termico raggiunge valori di efficienza che, ad esempio in estate, sono descrivibili con un C.O.P. 8 pari a circa 5,4. Se si pensa che un impianto autonomo di condizionamento estivo di buona qualità raggiunge performance dell’ordine del C.O.P. 2,5 si evince immediatamente che, pur con le perdite di carico dovute alla trasmissione, il costo di esercizio dell’impianto villaricchese, a parità di livello di servizio, è circa la metà di un impianto tradizionale (di ultima generazione). L’esame del piano economico finanziario dell’investimento ha dimostrato che, rispetto ad un costo iniziale di impianto pari a circa 2.800.000,00 euro, il flusso dei ricavi e tale da garantire un margine di contribuzione attualizzato di circa il 34% ed un payback period di circa 5 anni (su un periodo di concessione di 10 anni). Anche il TIR 9 dell’operazione (circa il 19,4%), rapportato ad un Weighted Average Cost of Capital, posto convenzionalmente pari al 7,80% (in considerazione delle caratteristiche di rigidità della domanda e del costo medio del capitale di debito per simili investimenti), dimostra la sostanziale sostenibilità ed appetibilità dell’investimento. Dal punto di vista dell’utenza finale, sebbene l’offerta preveda un costo medio molto prossimo a quello conseguibile con un impianto tradizionale, la convenienza è legata all’assenza dell’esborso iniziale per l’acquisto dei macchinari e, soprattutto, all’assenza di costi di riparazione ed interruzioni di servizio. L’esempio qui riportato che, si ribadisce, costituisce solo una delle molteplici soluzioni previste nel progetto di PUA per l’attrazione del capitale privato nell’investimento in infrastrutture, dimostra l’efficienza di uno stretto connubio tra ecologicità e convenienza economico-finanziaria. Ciò, inoltre, fornisce l’occasione per una riflessione: mutuando in ambito urbanistico quanto espresso da Kolhaas con riferimento alla dicotomia tra architettura e conservatorismo, l’approccio ecologico alla pianificazione della città dovrebbe tradursi nel contrapporre alla conservazione ideologica le possibilità offerte dall’innovazione tecnologica per un cambiamento economicamente ed ambientalmente conveniente.

Bibliografia Libri Assadourian E. (2010), State of the World: Transforming Cultures. From Consumerism to Sustainability. A Worldwatch Institute Report on Progress Toward a Sustainable Society, W. W. Norton & Company New York, London. Carpino R. (2011), Testo Unico degli enti locali commentato, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna. De Paoli L., Lorenzoni A. (1999). Economia e politica delle fonti rinnovabili e della cogenerazione, Franco Angeli, Milano. Koolhaas R. (2006), Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata. Moccia F.D. (1990), Collaborazione tra pubblico e privato nel recupero urbano: Pittsburgh 1945-1988, Clean Edizioni, Napoli. Polelli M. (2008), Nuovo Trattato di Estimo, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna. Propersi A. (2006), Contabilità e bilanci negli enti locali, Franco Angeli, Milano. Sachs J.D. (2010), Il bene comune. Economia per un pianeta affollato, Arnoldo Mondadori editore, Milano. Stern N. (2009), Un piano per salvare il pianeta, Feltrinelli, Milano. Sgobbo A. (2011), “Analisi economica e finanza di progetto per la gestione dei parchi urbani” in Claudi de Saint Mihiel A. (a cura di), La valorizzazione dei Parchi Urbani, Clean Edizioni, Napoli. 8 9

C.O.P. - coefficient of performance TIR – tasso interno di rendimento

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Articoli Dell’Olio L. (2009), “Lavori e appalti. Lo Studio SDA Bocconi su 2200 progetti”, in Il Sole 24 ore, 31 agosto, p. 54. Moccia F.D. (2010), “Infrastruttura verde”, in Urbanistica Informazioni, n. 232, pp. 28 – 29. Moccia F.D. (2009), “L’urbanistica nella fase dei cambiamenti climatici”, in Urbanistica, n. 140, pp. 95 – 102. Sgobbo A. (2009), “Densità ed energia”, in Urbanistica Informazioni, n. 226, pp. 40 – 42.

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Nuove infrastrutture e governo degli interessi localizzativi: quale ruolo per la pianificazione? Il caso del Passante autostradale di Mestre, in Veneto

Nuove infrastrutture e governo degli interessi localizzativi: quale ruolo per la pianificazione? Il caso del Passante autostradale di Mestre, in Veneto Matteo Basso Università IUAV di Venezia Dottorando di ricerca in pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio Email: mattbass@stud.iuav.it Tel. 349 6925669

Abstract Nuove infrastrutture di trasporto possono rappresentare un potente fattore attrattivo per le attività economiche, capace di ridisegnare il tradizionale sistema di convenienze localizzative e di generare aspettative di sviluppo e investimento negli attori pubblici e privati. Per comprendere alcune dinamiche territoriali contemporanee, è allora importante studiare come la realizzazione di nuove opere si ripercuota sugli usi del suolo e sulle decisioni urbanistiche, con la previsione di nuove aree di espansione e la variazioni degli strumenti di pianificazione. Il paper presenta alcuni risultati di uno studio condotto per mappare le trasformazioni urbanistiche in atto e potenziali lungo il Passante autostradale di Mestre (aperto al traffico nel 2009) e propone alcune riflessioni sul ruolo e sul senso della pianificazione nella gestione di tale tipo di effetti. In particolare, è ribadita l’assoluta necessità di un governo efficace a scala sovralocale, nonché di un attento monitoraggio delle trasformazioni territoriali.

Il nesso infrastrutture/localizzazioni come possibile domanda di ricerca L’obiettivo di questo paper è di fornire alcuni spunti di riflessione sul ruolo e sull’efficacia della pianificazione nel governo degli interessi localizzativi generati da nuove infrastrutture di trasporto, partendo da un caso studio sul Passante autostradale di Mestre. La ricerca 1 , che si è prefissata di “mappare” le nuove trasformazioni urbanistiche e le operazioni immobiliari riconoscibili oggi lungo il tracciato, e desumibili dalla lettura degli strumenti di pianificazione, mette in evidenza le aspettative di sviluppo generate dall’opera negli attori pubblici e privati e la necessità di un coordinamento e di un disegno, a scala sovralocale, dell’assetto dei territori. Fattori geografici e distribuzioni disomogenee di risorse naturali e fattori produttivi hanno storicamente determinato i modelli localizzativi della popolazione e delle imprese, influendo sull’organizzazione spaziale di attività economiche e insediamenti. In tali processi, la realizzazione di nuove infrastrutture, in particolare nel campo dei trasporti, ha giocato un ruolo di assoluto rilievo, con effetti facilmente riconoscibili nei territori che ognuno di noi abita e/o attraversa. Capannoni, centri commerciali e direzionali, alberghi, discoteche e ristoranti si susseguono proprio lungo gli assi viari principali e, specie nelle aree caratterizzate da sviluppo diffuso, si frappongono a villette e a frammenti di paesaggio rurale. Le infrastrutture possono rappresentare infatti un potente fattore attrattivo per le attività economiche, capace di ridisegnare il tradizionale sistema di opportunità localizzative e di centralità e di creare aspettative di sviluppo e investimento negli attori pubblici e privati. Che cosa è un’infrastruttura? Le risposte sarebbero ovviamente molteplici e disomogenee, se si elencassero semplicemente le definizioni introdotte da discipline differenti, come ad esempio l’ingegneria, l’economia, l’urbanistica, le scienze ambientali. Tuttavia, per l’intento specifico di questo contributo, mi pare più interessante 1

Realizzata, tra marzo 2010 e luglio 2011, per la tesi di laurea specialistica in pianificazione della città e del territorio: “Tracce di Passante? Nuove geografie localizzative delle attività economiche e delle aree produttive”, Università IUAV di Venezia, facoltà di pianificazione del territorio, relatori Domenico Patassini, Margherita Turvani, Stefania Tonin, anno accademico 2010/11.

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richiamare il senso comune del termine, il quale percepisce le infrastrutture come dei manufatti, costruiti artificialmente, che “sconvolgono”, una volta realizzate, equilibri insediativi pre-esistenti e paesaggi tradizionali, offrendo una diversa configurazione strutturale e relazionale al territorio. Una buona descrizione, che consente di cogliere da subito gli elementi di rilievo del concetto, è fornita da Hirschman (1968). Per l’autore, un’infrastruttura, o capitale fisso sociale, rappresenta un elemento che “supporta” in primis le attività produttive (primarie, secondarie, terziarie) e, in un’accezione più generale, le persone: una risorsa dunque fortemente localizzata sul territorio, in grado di generare vantaggi localizzativi, differenziali di produttività regionale e riduzione dei costi di produzione per le imprese. Esse rappresentano dunque una parte del complessivo stock di capitale fisso sociale di un paese, sono caratterizzate da una rilevante natura pubblica e il loro utilizzo è necessario per sostenere la crescita e lo sviluppo di un territorio. Pertanto, possono essere considerate un importante strumento (anche se naturalmente non sufficiente) delle politiche di sviluppo e di promozione territoriale ai diversi livelli amministrativi (Biehl, 1991) e la dotazione infrastrutturale è divenuta, negli anni, uno dei fattori chiave su cui si gioca la competitività territoriale stessa (Airoldi, 1994). La natura “pubblica” delle infrastrutture rimanda ovviamente ad una serie di caratteristiche connesse con i “fallimenti del mercato”, non tanto per le modalità di finanziamento e gestione, oggi quasi sempre affidate a soggetti privati (project financing). Lo specifico rapporto tra infrastrutture e localizzazioni produttive è stato solo indirettamente trattato nei modelli di localizzazione d’impresa e di sviluppo regionale e non a caso alcuni autori lamentano uno scarso interesse da parte della letteratura economica (Eberts & McMillen, 1999). Ad ogni modo, le infrastrutture possono essere considerate parte di quell’insieme di fattori, sia interni che esterni all’impresa, definiti come “economie di agglomerazione” (Capello, 2004) e la loro rilevanza, quale fattore localizzativo per le attività economiche, è per certi versi ancora attuale. Infatti, alcune ricerche condotte di recente su campioni specifici di attività economiche (industriali, commerciali, terziarie), con mercati di diverse dimensioni (sia locali che sovralocali), hanno sostanzialmente riconfermato la rilevanza del fattore accessibilità nella determinazione delle strategie localizzative e di sviluppo delle imprese (Redecon, 2008). In uno scenario caratterizzato da una sovrapposizione di flussi di merci, persone e informazioni in attraversamento, una rapida e facile connessione alle infrastrutture è in definitiva garanzia di possibili riduzioni dei costi di trasporto, da non intendersi in senso letterale, ma come metafora di tutti gli elementi di frizione spaziale: costo di distribuzione delle merci, costo opportunità e psicologico del viaggio, costo della comunicazione, del marketing e dell’interazione a distanza (Camagni, 1993). Veniamo ora più nello specifico agli interessi localizzativi, che a mio avviso rappresentano degli effetti “indiretti” attribuibili ai progetti infrastrutturali. Essi si generano cioè pienamente, come esito eventuale, solo nella “intersezione” di queste politiche pubbliche settoriali con altre politiche, come quelle urbanistiche, finalizzate a definire usi, destinazioni e trasformazioni del suolo. Sono esiti eventuali perché la loro manifestazione dipende dalla congiuntura macroeconomica generale e dalla reattività dei diversi contesti locali, vale a dire degli attori, sia pubblici che privati, le cui decisioni si ripercuotono sull’uso del territorio. La previsione e il controllo ex-ante di tali effetti sono in definitiva particolarmente difficili, anche a causa della intrinseca difficoltà a condurre analisi efficienti ed efficaci in tale direzione. Con riferimento alla realizzazione di nuove infrastrutture, il compito e gli interessi della pianificazione mi sembrano limitarsi prevalentemente all’individuazione delle alternative di tracciato, alla valutazione degli impatti ambientali, dei flussi di traffico e della fattibilità finanziaria delle opere, temi su cui esiste già un corpus di teorie e tecniche valutative (si pensi ad esempio all’analisi costi-benefici). Sono ancora pochi, forse, gli sforzi fatti per considerare realmente, in fase sia previsionale che di monitoraggio, gli effetti urbanistici generati dalle nuove infrastrutture di trasporto e credo che una futura domanda di ricerca debba andare nella direzione di tenere assieme, data la reciproca influenza, le politiche dei trasporti con quelle finalizzate a definire gli usi del suolo. Naturalmente, come sottolineato dalla metodologia di valutazione degli effetti territoriali delle infrastrutture di trasporto TRIPOD 2 , non esiste un vero e proprio automatismo nell’effetto tra infrastrutture di trasporto e territorio, dal momento che “i trasporti e la mobilità sono […] due fattori importanti – ma non sufficienti – per spiegare una determinata evoluzione territoriale” (Ufficio federale dello sviluppo territoriale, 2007, p. 1) e dunque “l’infrastruttura di trasporto non è un fattore di sviluppo indipendente e da sola non permette di spiegare quando e con quale intensità si manifesterà un effetto” (Ufficio federale dello sviluppo territoriale, 2007, p. 5). Nei paesi industrializzati, dove il territorio è già fortemente strutturato e il suolo relativamente scarso, è dunque interessante studiare come nuove infrastrutture di trasporto si ripercuotano sugli usi del suolo e sulle strutture paesaggistico-ambientali, generando interessi immobiliari (anche conflittuali) nei pressi di svincoli e caselli. Gli effetti sulle dinamiche del mercato dei suoli possono essere infatti rilevanti e si traducono sia nella previsione (pubblica) di nuove espansioni produttivo-commerciali, sia nella domanda di variazione degli strumenti di pianificazione da parte di soggetti privati.

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Il modello analitico TRIPOD, elaborato dall’Ufficio federale dello sviluppo territoriale – Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni della Confederazione Svizzera, si prefigge di individuare le effettive relazioni tra investimenti nelle infrastrutture di trasporto e sviluppo territoriale.

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Trasformazioni urbanistiche in atto e potenziali lungo il Passante di Mestre In Veneto, nonostante la crescente attenzione ai temi della sostenibilità ambientale e del contenimento del consumo di suolo, si possono riconoscere alcune importanti trasformazioni urbanistiche 3 connesse a nuove infrastrutture autostradali in costruzione, che stanno generando un forte dibattito sugli specifici modelli di sviluppo territoriale da perseguire. Come si può ben intuire, queste operazioni immobiliari (tutte al di fuori dei centri abitati propriamente detti e che insistono su aree ad uso agricolo) hanno iniziato a manifestarsi ancor prima dell’effettiva realizzazione delle opere, vale a dire come “effetto annuncio” delle nuove infrastrutture. Ad esempio, lungo la nuova autostrada A31 Valdastico Sud (in costruzione tra Vicenza e Rovigo), è in corso di realizzazione il Park Valdastico Sud 4 , un parco logistico, produttivo e commerciale nei pressi del casello di Santa Margherita d’Adige, in provincia di Padova, gestito dalla Società di Trasformazione Urbana “Parco Produttivo del Fiumicello spa”. La trasformazione è notevole: interessa un’area di circa 250 mila mq, a ridosso del casello, e un’area di circa 130 mila mq nel comune limitrofo di Montagnana, con la previsione di un futuro ampliamento del parco fino a 2,5 milioni di mq. In provincia di Treviso, nei pressi di un possibile futuro casello della nuova Superstrada Pedemontana Veneta (asse che congiunge Vicenza con Treviso), un progetto presentato da due imprese (Colomberotto e Roto-Cart) prevede la realizzazione di un insediamento agro-industriale (un macello, una cartiera, un’area commerciale) da 865 mila mq nel comune di Vedelago 5 . Il Passante di Mestre è forse il test più significativo per discutere oggi del nesso infrastrutture/localizzazioni in Veneto, ovvero per comprendere gli effetti che un’opera di rango sovralocale (porzione di rete multimodale prevista a livello comunitario, assimilabile al corridoio V) sta generando nei contesti locali specifici, in corrispondenza della attivazione di soggetti interessati ad operazioni immobiliari connesse alle nuove dotazioni infrastrutturali. L’infrastruttura, aperta al traffico nel 2009, rappresenta un by-pass autostradale finalizzato a ridurre la congestione della tangenziale di Mestre, in comune di Venezia, per separare cioè i flussi di traffico di attraversamento, accresciuti con particolare intensità dopo l’apertura dell’Europa verso l’Est, da quelli locali afferenti il sistema urbano della terraferma veneziana. Il tracciato si sviluppa per una lunghezza complessiva di 32,3 km, dal comune di Dolo (A4 Milano-Venezia) a quello di Quarto d’Altino (A4 Venezia-Trieste), interessando dodici comuni appartenenti alle province di Venezia e Treviso, con tre caselli e tre svincoli (figura 1). Oltre al tracciato principale, il territorio è poi innervato da una serie di opere complementari che, nel loro insieme, formano il sistema di adduzione al Passante: per tal motivo, lo studio qui brevemente presentato ha preso in considerazione anche gli otto comuni non direttamente attraversati dall’infrastruttura, ma serviti dalle opere secondarie.

Figura 1. Il tracciato del Passante autostradale di Mestre 6 3

“Così si saccheggia il territorio”, Tribuna di Treviso, 22 marzo 2012. Per ulteriori informazioni, si veda il sito www.parcofiumicello.it. 5 “Barcon, i residenti si appellano a Muraro”, Tribuna di Treviso, 20 novembre 2011. 6 Elaborazione su “Carta della Copertura del Suolo edizione 2009” (Regione Veneto) e “Quadro Conoscitivo PTRC 2009” (Regione Veneto). 4

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Ricostruendo la dinamica demografica e delle attività economiche dal 1993, anno in cui trovano concretizzazione le prime idee di un Passante nel tracciato simile a quello effettivamente realizzato, al 2011, si può facilmente intuire come i territori interessati dall’infrastruttura siano molto vivaci. Le attività oggi prevalenti, e che si sono rafforzate in tutto il periodo di indagine, sono quelle legate al terziario, in particolar modo le attività commerciali, i servizi di alloggio e ristorazione, i servizi alle imprese, le attività legate ai trasporti e alla logistica. Sorprendentemente, proprio i comuni in cui sono localizzati (o sono in previsione) i caselli d’accesso e gli svincoli mostrano una più marcata vivacità e una maggiore specializzazione nelle attività dei trasporti e della logistica, verosimilmente le più influenzate dalla presenza della nuova infrastruttura sul territorio. Dunque, in linea con quanto sostenuto dall’Ocse (2010), l’opera è stata inserita in un contesto dalle caratteristiche fortemente metropolitane e non potrà che favorire un suo consolidamento futuro, generando nuove opportunità localizzative per le imprese. I territori della terraferma veneziana, trasformati dalla nuova infrastruttura, possono cioè “[…] ambire a ricoprire un nuovo ruolo e non solamente essere la cassa di espansione residenziale e anonima dei capoluoghi stessi in un decentramento senza fine apparente” (Fondazione Gianni Pellicani, 2011 – conferenza stampa). I riflessi sugli usi del suolo e sulle destinazioni di piano comunali sono altrettanto evidenti (figura 2). Tra il 1993 e il 2011, infatti, sono state previste, nei pressi dei caselli d’accesso (realizzati o in previsione), ma anche lungo le opere complementari di adduzione, una serie di polarità produttivo-commerciali, su cui insistono importanti operazioni immobiliari che stanno generando diverse conflittualità. Mi sento dunque di poter sostenere che l’effetto Passante si stia già traducendo in un’attrazione di investimenti immobiliari e in un incremento dell’appeal delle aree più prossime all’infrastruttura, nonostante la congiuntura economica non sia al momento di certo favorevole e il tempo trascorso dall’entrata in funzione dell’opera sia ancora poco significativo. Questi investimenti, molto diversi tra loro rispetto al loro stato di attuazione, dipendono sia dal “pubblico”, come nuova offerta di aree a destinazione produttiva, che dal privato, vale a dire come trasformazioni in deroga alla strumentazione urbanistica generale, in base all’accordo di programma previsto dall’art. 32 della LR 35/2001.

Figura 2. Confronto tra destinazioni produttive 1993-2011 - 1991 per i comuni della provincia di Treviso - e alcune trasformazioni urbanistiche in atto e potenziali lungo il tracciato 7

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Elaborazione su “Carta della Copertura del Suolo edizione 2009” (Regione Veneto), “Quadro Conoscitivo PTRC 2009” (Regione Veneto), “Mosaico dei PRG 1991 e 2011 - Provincia di Treviso, 1993 e 2011 – Provincia di Venezia”.

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Tra i territori di Dolo, Mirano e Pianiga, è previsto lo sviluppo dell’area di Veneto City (572 mila mq) e di Pianiga Commerciale (243 mila mq), nuove polarità legate ai servizi, al tempo libero e al commercio 8 , mentre più a Nord, nei pressi dell’interconnessione tra il Passante e la A4 Venezia-Trieste, il PAT 9 del comune di Casale sul Sile prevede un’area di espansione (confermata anche nel PI), di circa 50 ettari, da destinare a parco tematico produttivo e commerciale (figura 3). L’art. 27 delle Norme Tecniche Operative del PI sostiene infatti che sia necessario “[…] valorizzare la posizione strategica di questa parte del territorio rispetto alle grandi arterie di comunicazione, anche con la realizzazione di strutture ricettive e di servizio per le suddette attività”. Sempre nello stesso comune, ma nei pressi di un altro casello del Passante (Preganziol), il gruppo svedese dell’arredamento Ikea ha chiesto di recente di poter sviluppare un polo produttivo che prevede la variazione del piano regolatore e la trasformazione di circa 40 ettari di area ancora oggi ad uso e destinazione agricola 10 . A Martellago, nei pressi di un casello ancora in previsione (località Cappella), è prevista un’espansione produttiva, di circa 15 ettari (figura 3), con destinazione di tipo logistico, e si affida al PAT il compito “[…] di governare le aree intorno al casello di progetto, verso il quale si chiede di orientare nuove attività produttive o direzionali/terziarie” (Relazione di Progetto al PAT di Martellago, 2010).

Figura 3. Previsioni di espansione produttiva a Casale sul Sile e Martellago 11 Ci sono poi nuove attività ricettive, già realizzate, la cui localizzazione è fortemente dipendente dall’infrastruttura, come ad esempio il Motel di Vetrego di Mirano (38.000 mq, 215 camere, ristorante e parcheggio da 600 posti auto) o il Move Hotel di Mogliano Veneto (27 mila mc a destinazione direzionale e 30 mila a destinazione commerciale), proprio nel nuovo svincolo tra A27 e Passante (figura 4).

Figura 4. Autohotel di Vetrego di Mirano e Move Hotel di Mogliano Veneto – foto personali primavera 2011

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“Da Dolo a Quarto d’Altino è scoppiata la speculazione”, Corriere del Veneto, 31 marzo 2006; “Una colata di cemento attorno al Passante”, Il Gazzettino Venezia, 31 marzo 2006. 9 Secondo la LR 11/2004, il Piano Regolatore Comunale si compone del Piano d’Assetto del Territorio (PAT), a valenza strutturale, e del Piano degli Interventi (PI), a valenza operativa e di durata quinquennale. 10 “Nuovo polo Ikea. Il progetto guida è quello di Villesse”, Tribuna di Treviso, 23 ottobre 2011. 11 Elaborazione su “TAV. 4.3 – PI 2009” (Casale sul Sile) e “TAV. 4a – PAT (2010)” (Martellago); foto personali primavera 2011. Matteo Basso

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Nuove infrastrutture e governo degli interessi localizzativi: quale ruolo per la pianificazione? Il caso del Passante autostradale di Mestre, in Veneto

E la pianificazione? Come si può facilmente comprendere, le dinamiche territoriali in corso nei territori serviti dal Passante di Mestre, seppur per certi versi in una fase ancora “iniziale” (ma forse proprio per questo), necessitano di una gestione e di un indirizzo, al fine di ridurre, quanto più possibile, la frammentazione del sistema delle aree produttive e gli inevitabili impatti incrementali sul consumo di suolo. In conclusione, vorrei allora proporre alcune considerazioni che, a partire dal caso del Passante, credo potranno essere utili per una più generale riflessione sul ruolo e sul senso della pianificazione nella gestione degli interessi localizzativi generati dalle nuove infrastrutture di trasporto. Mancando un coordinamento efficace di area vasta (gli stessi piani provinciali sembrano essere ancora “deboli”), il governo di tale tipo di effetti è in sostanza relegato ai soli piani di scala comunale, anche se una gestione intercomunale del sistema produttivo-commerciale viene retoricamente invocata nella maggior parte dei documenti di pianificazione consultati. La pianificazione non può limitarsi a selezionare e/o recepire il tracciato di un’infrastruttura, ma deve altresì attrezzarsi di una serie di strumenti finalizzati a monitorare e a indirizzare le trasformazioni urbanistiche che essa andrà inevitabilmente a generare e questo sulla base di un qualche disegno territoriale che risponda ad una scala di governo di area vasta. Nel dibattito disciplinare, la centralità di un livello intermedio di pianificazione (tra Regione e Comune) non è una novità e questa non è la sede più opportuna per una sua riproposizione. È sufficiente però ricordare la rilevanza e l’attualità del tema, anche alla luce delle recenti disposizioni legislative che prevedono la riorganizzazione delle Province e delle loro funzioni. Per quest’area - che il Passante andrà ulteriormente a strutturare, come sostenuto dall’Ocse (2010) - è imprescindibile una diversa e matura modalità di governo territoriale, senza comunque intricare, con l’introduzione di nuovi soggetti come ad esempio le Città Metropolitane, il già articolato e complesso panorama amministrativo italiano. Dunque, una governance dei territori definiti dall’infrastruttura, che riesca a coordinare tutti i soggetti (pubblici e privati) che “producono” le trasformazioni territoriali, dando un nuovo senso e significato al rapporto tra piano e progetto, tra scelte strutturali di lungo periodo e interessi puntuali. Gli strumenti per governare le dinamiche territoriali sono a questo fine molteplici, sia di tipo regolativo, che strategico. Tra i primi, si possono ricordare il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale e i Piani d’Assetto del Territorio Intercomunale; tra i secondi, i piani d’area o l’insieme dei programmi e delle politiche di sviluppo locale (patti territoriali, intese programmatiche d’area), che potrebbero tra l’altro accompagnare e indirizzare le variazioni strutturali della complessiva base economica territoriale. Oltre agli strumenti, è però di fondamentale importanza un complessivo refraiming della cultura pianificatoria, un cambiamento delle metafore generative e dei quadri cognitivi che, implicitamente, stanno guidando gli attori locali nella costruzione delle politiche territoriali (Schön & Rein, 1994). In definitiva, solamente una piena percezione dell’opera quale “dispositivo ordinatore” del territorio (Belli, De Luca, Fabbro, Mesolella, Ombuen, Properzi, 2008) piuttosto che come “calamita” verso cui semplicemente piazzare nuovi investimenti immobiliari, potrà favorire la costruzione di un’area metropolitana realmente integrata, efficiente e sostenibile.

Bibliografia Libri Belli A., De Luca G., Fabbro S., Mesolella A., Ombuen S., Properzi P. (a cura di, 2008), Territori regionali e infrastrutture. La possibile alleanza, FrancoAngeli, Milano. Biehl D. (1991), “Il ruolo delle infrastrutture nello sviluppo regionale”, in Boscacci F. & Gorla G. (a cura di). Economie locali in ambiente competitivo, FrancoAngeli, Milano, pp. 219-253 Camagni R. (1993), Principi di economia urbana e territoriale, La Nuova Italia Scientifica, Roma. Capello R. (2004), Economia regionale. Localizzazione, crescita regionale e sviluppo locale, il Mulino, Bologna. Eberts R. W. & McMillen D. P. (1999), “Agglomeration economies and urban public infrastructure”, in Handbook of Regional and Urban Economics, 4, Chapter 38, pp. 1455-1496 Hirschman A. O. (1968), La strategia dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze. Ocse, (2010). OECD Territorial Reviews. Venice, Italy, Paris Schön D. A. & Rein M. (1994), Frame reflection. Toward the resolution of intractable policy controversies, Basic Books, New York. Articoli: Airoldi A. (1994), “Le infrastrutture come fattore di competitività”, Impresa & Stato, n.27

Matteo Basso

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Nuove infrastrutture e governo degli interessi localizzativi: quale ruolo per la pianificazione? Il caso del Passante autostradale di Mestre, in Veneto

Siti web Fondazione Gianni Pellicani, (2011). La Metropoli del Passante due anni dopo – materiale conferenza stampa febbraio 2011 [Online]. Disponibile su: http://www.fondazionegiannipellicani.it/?q=node/2238 Redecon, (2008). A spatial planning tool for economic development. Uno strumento di pianificazione territoriale per lo sviluppo economico [Online]. Disponibile su: http://www.eurosportelloveneto.it/eichome.asp?ref=pubblicazioni Ufficio federale dello sviluppo territoriale, (2007). Effetti territoriali delle infrastrutture di trasporto. Imparare dal passato…per il futuro. Sintesi [Online]. Disponibile su: http://www.are.admin.ch/themen/raumplanung/00238/00424/index.html?lang=it

Materiali Barcon, I residenti si appellano a Muraro. Tribuna di Treviso, 20 novembre 2011 Carta della Copertura del Suolo edizione 2009 (Regione Veneto) Così si saccheggia il territorio. Tribuna di Treviso, 22 marzo 2012 Da Dolo a Quarto d’Altino è scoppiata la speculazione. Corriere del Veneto, 31 marzo 2006 Legge regionale Veneto 29 novembre 2001 n. 35, Nuove norme sulla programmazione Legge regionale Veneto 23 aprile 2004 n. 11, Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio Mosaico dei PRG 1991 e 2011 (Provincia di Treviso), 1993 e 2011 (Provincia di Venezia) Nuovo polo Ikea. Il progetto guida è quello di Villesse. Tribuna di Treviso, 23 ottobre 2011 Piano d’Assetto del Territorio 2005 e Piano degli Interventi 2009 (Casale Sul Sile) Piano d’Assetto del Territorio 2010 (Martellago) Quadro Conoscitivo PTRC 2009 (Regione Veneto) Una colata di cemento attorno al Passante. Il Gazzettino Venezia, 31 marzo 2006

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Dinamiche operative e interazione tra gli attori nei grandi progetti di trasformazione urbana: il caso di King’s Cross Central

Dinamiche operative e interazione tra gli attori nei grandi progetti di trasformazione urbana: il caso di King’s Cross Central Alessandro Boca Sapienza, Università di Roma Dipartimento di Design, Tecnologia dell’Architettura, Territorio e Ambiente (DATA) Email: alessandro.boca@uniroma.it Tel. 06.49919061

Abstract La crisi del piano urbanistico tradizionale e la successiva affermazione del grande progetto di trasformazione urbana possono essere considerate come la manifestazione tangibile di un radicale cambiamento nelle modalità attraverso cui si esplica l’azione sulla città contemporanea, e attraverso cui prende forma il governo della sua complessità. In questo quadro, tuttavia, emerge anche l’evidenza di un ulteriore processo evolutivo, questa volta non altrettanto tangibile né immediato, che riguarda i cambiamenti che interessano ormai sempre più diffusamente le dinamiche operative e le forme di interazione tra gli attori che compongono la moderna governance urbana. Con l’intento di approfondire una simile tematica, attraverso la dettagliata ricostruzione del progetto di riqualificazione urbana di King’s Cross Central, a Londra, il lavoro intende indagare proprio questo particolare aspetto, con la convinzione che un suo approfondimento possa contribuire in maniera determinante a meglio comprendere ed affrontare la pratica urbanistica contemporanea.

Tra piano e (grande) progetto di trasformazione L’ampia tematica del passaggio dalla centralità del piano a quella del grande progetto di trasformazione urbana è una di quelle che, nel nostro come in altri paesi, più ha interessato il dibattito disciplinare degli ultimi venti anni, a partire cioè dalle prime manifestazioni evidenti della crisi dell’urbanistica moderna (Gabellini e De Carlo, 2002). Riprendendo quanto affermato da Harvey (1990; p. 89), la crisi del modernismo si manifesta, nel campo della città, con l’affermazione del principio secondo cui «la metropoli è impossibile da controllare se non a piccoli pezzi», e quindi con il principio secondo cui a diventare anacronistico e non più efficace è, in primo luogo, lo strumento storicamente deputato al suo disegno complessivo, vale a dire il piano urbanistico tradizionale. A conclusioni simili, tra l’altro, giungono anche diversi autori, tra i quali Ascher (2001) che, introducendo il concetto di “decostruzione funzionale” dell’urbanistica, riferisce in proposito della nostra come di un’epoca in cui si tenta di rispondere alla generalizzata perdita di efficacia da parte del piano urbanistico tradizionale attraverso il ripensamento generale delle modalità di azione sulla città, la quale si trova oggi ad essere fondata, per l’appunto, non più sulla centralità del piano ma su quella del singolo e grande progetto di trasformazione. È dunque probabilmente per via delle ragioni appena ricostruite - seppur in maniera estremamente sintetica ed essenziale - che dagli anni ’90 del novecento in poi, vale a dire negli anni immediatamente successivi alla non felice stagione della deregolamentazione del decennio precedente (Mazza, 1994), si assiste quasi senza distinzioni in molti contesti urbani occidentali ad una sempre maggiore diffusione ed affermazione di una particolare categoria progettuale, vale a dire quella del grande progetto di trasformazione urbana. Una prima lettura asettica dei grandi progetti di trasformazione urbana ci restituisce l’idea di interventi rivolti alla riqualificazione di ampie porzioni di città interessate da fenomeni di riconversione funzionale, abbandono o degrado e, solo in misura marginale, ad interventi di espansione o di nuova costruzione. Sono cioè questi i progetti attraverso cui si tenta, a partire da questi anni, di rispondere ad un nuovo bisogno emergente, che se non è più quello di assicurare una crescita urbana ordinata, diventa quello di permettere la rigenerazione di porzioni Alessandro Boca

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di città che vedono mutare le loro storiche funzioni. Accanto a questo aspetto, inoltre, non si può non citarne un secondo, e cioè che per mezzo di simili interventi si manifesta anche quel fenomeno ben descritto da Le Galès (2006) e che proprio nell’ultima decade del secolo scorso fa la propria comparsa in scena, cioè il fenomeno del confronto e della competizione tra le principali realtà urbane globali, avente come fine ultimo l’attrazione di investimenti privati e di funzioni globali (Sassen, 1997). Una lettura maggiormente critica del fenomeno di diffusione dei grandi progetti di trasformazione urbana, però, ci permette parallelamente di notare come il loro punto di forza, oltre a quanto già visto, sembri risiedere anche nella loro perfetta coerenza con quelle che sono nel tempo diventate le dinamiche sociali ma soprattutto economiche maggiormente caratterizzanti i contesti metropolitani occidentali, ed ovvero proprio quell’insieme di dinamiche che rientrano a vario titolo nella dizione di neo-liberismo (Fainstein, 1994; 2008; Swyngedouw et al., 2002). Se, infatti, sotto il profilo fisico i grandi progetti di trasformazione urbana altro non sono che delle semplici operazioni infrastrutturali, edilizie ed immobiliari, sotto un profilo concettuale diventano sovente il frutto di logiche non più legate all’effettiva domanda sociale o ai modelli consolidati di sviluppo urbano, ma appaiono piuttosto finalizzate alla realizzazione di prodotti urbani da immettere sul mercato al pari di altri beni (Swyngedouw, Moulaert, Rodriguez, 2002; Curti, 2006). Scopo del presente lavoro, tuttavia, non vuole essere quello di contribuire ad approfondire questa di per sé ampia e complessa tematica, ma bensì quello di riflettere, per mezzo dell’analisi di un caso di studio quale il progetto King’s Cross Central a Londra, su di un aspetto estremamente puntuale di questo stesso fenomeno, e cioè l’ulteriore evoluzione che, nello stesso tempo delle altre appena viste finora e forse proprio conseguentemente a queste, sta interessando le dinamiche operative sulle quali si fonda la pratica urbanistica contemporanea. Introducendo dunque quel concetto che meglio verrà affrontato al termine di questo lavoro, si può affermare come i grandi progetti di trasformazione siano, tra le altre cose, la tangibile manifestazione di quella inversione nei processi decisionali e nei modelli operativi ottimamente descritta da Bobbio (1996), nel senso che prima ancora che la testimonianza dell’asservimento al moderno neo-liberismo (Fainstein, 2008) questi grandi progetti rappresentano un tentativo di risposta alla ridotta capacità degli strumenti urbanistici tradizionali di approcciare la complessità della governance urbana contemporanea, in cui tanto interessi di tipo pubblico quanti di tipo privato trovano, finalmente, una nuova forma di composizione.

King’s Cross Central King’s Cross Central è il nome proprio di una tra le più importanti trasformazioni urbane attualmente in atto a Londra 1 , che diviene anzi la più rilevante se si escludono gli interventi legati alla prossima edizione dei Giochi Olimpici del 2012. Dal punto di vista fisico e funzionale questa trasformazione, di iniziativa privata, consiste nella riqualificazione, infrastrutturazione e lottizzazione dell’area di circa 28 ettari che gravita attorno alla stazione ferroviaria di King’s Cross, nel nord di Londra, dove fino alle prima metà del ‘900 sorgeva il maggiore scalo merci ferroviario della città, oggi totalmente inutilizzato. Nell’area dove sono attualmente localizzate due tra le più importanti stazioni ferroviarie della città, cioè St. Pancras International, terminale della linea Eurostar che collega Londra con Parigi e Bruxelles, e l’omonima King’s Cross, dedicata prevalentemente alle tratte domestiche, il progetto punta alla realizzazione di un nuovo quartiere misto, all’interno del quale circa 800.000 metri quadrati di nuova edificazione ospiteranno una serie diversificata di funzioni che vanno dal terziario alle residenze - di cui una quota parte di tipo sociale - passando per gli spazi dedicati alle attività ricreative, alla cultura, all’istruzione e al tempo libero. A ciò bisogna infine aggiungere che l’area, oltre ai due terminali ferroviari già citati, risulta servita da sei diverse linee di metropolitana, le quali contribuiscono a rendere King’s Cross uno dei più importanti nodi del trasporto pubblico britannico. Per quanto riguarda la forma progettuale scelta, invece, occorre notare come questa sia di tipo dinamico ed incrementale, nel senso che ad uno schema generale di riferimento, vale a dire un masterplan contenente i soli aspetti strutturali e d’insieme della trasformazione, si aggiunge in un momento progettuale separato quello della definizione delle singole parti che compongono la trasformazione, tanto in riferimento ai singoli edifici che ai vari spazi pubblici. Con l’intento di assicurare il più alto grado possibile di flessibilità, infatti, la logica che sottende una simile impostazione è che una trasformazione destinata ad interessare un orizzonte temporale stimato tra i 12 e i 20 anni (Argent, 2004) non possa essere rigidamente definita in partenza, ma debba altresì realizzarsi in maniera incrementale anche al fine di garantire una effettiva fattibilità.

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I primi tentativi di riqualificazione dell’area, motivati in primo luogo dalla sua appetibilità economica, vennero intrapresi già tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. Nonostante, però, la creazione di una apposita società di capitali nel 1996, la King's Cross Partnership, e l’intervento diretto del governo centrale per mezzo di importanti finanziamenti, questo primo tentativo non diede mai vita ad alcuna azione significativa, anche a causa della crisi che colpì il settore immobiliare nella prima metà di quella decade.

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Ciò che tuttavia più rende interessante questo progetto è la sua componente intangibile, e cioè quell’insieme di dinamiche e di modalità di interazione tra gli attori che ne hanno permesso l’avvio e che ne permettono, soprattutto, una continua gestione. King’s Cross Central è il risultato di una serie di complesse e continue interazioni che si stabiliscono, in maniera sia orizzontale che verticale, tra differenti soggetti pubblici e privati, interazioni che dunque vanno a costruire un processo altamente dinamico che corrisponde al vero oggetto di questa analisi.

Figura 1. La trasformazione di King's Cross Central (Fonte: www.kingscrosscentral.com). Tra i soggetti che danno vita a questo processo rientrano in primo luogo quelli proprietari della pressoché totalità delle aree sui cui la trasformazione insiste 2 , i quali però, seguendo una prassi diffusa nelle realtà anglosassoni, affidano la responsabilità della effettiva realizzazione dell’opera ad un soggetto terzo, in questo caso la joint venture Argent St. George 3 (per comodità, Argent) che riveste cioè il ruolo tecnico di developer. È questo soggetto, dunque, e non l’effettivo proprietario del sito, che rappresenta il materiale artefice della trasformazione, dal momento che a questo spetta il compito di messa in opera dell’intervento e di gestione diretta di tutte le fasi della sua realizzazione. Accanto a questi due soggetti, concorrono a comporre l’attore privato i vari progettisti chiamati ad elaborare, ognuno a vario titolo, il disegno complessivo dell’intervento. Tra questi, nello specifico, rientrano innanzitutto i diversi studi impegnati nella redazione del masterplan 4 , quindi quelli il cui compito verte sulla progettazione delle sue singole parti, coerentemente con il meccanismo descritto in precedenza. Similmente a quanto avviene per l’attore privato, un diverso numero di soggetti contribuisce a comporre anche l’attore pubblico. Tentando, per ragioni di sintesi, di citare solamente i più importanti tra questi, occorre innanzitutto individuare il ruolo del governo dell’area metropolitana londinese (la c.d. Greater London) 5 , al quale spetta l’elaborazione della strategia di sviluppo complessiva dell’intero complesso metropolitano esplicata 2 3 4

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Nello specifico, la London and Continental Railways e la società Exel plc. Formata dalla Argent Group plc e dalla St. George plc., due tra le maggiori società britanniche di sviluppo immobiliare. Tra questi in particolare gli studi Allies and Morrison e Porphyrios Associates, a cui si aggiunge lo studio Townshend Landscape responsabile prevalentemente degli aspetti paesaggistici. Composto da una assemblea, la Greater London Authority, e da un sindaco, il Mayor of London.

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mediante il London Plan. Nel dettaglio, questo documento inserisce l’area su cui ricade King’s Cross Central tra le c.d. Opportunity Areas, ovvero quelle aree da sottoporre a riqualificazione in maniera prioritaria per via del loro potenziale impatto sull’intero contesto urbano 6 (Mayor of London, 2011; p. 59).

Figura 2. Le dinamiche di interazione tra gli attori nella trasformazione di King’s Cross Central. La natura essenzialmente strategica e programmatica del London Plan, e dunque non direttamente attuativa, richiede che l’iniziativa edilizia e le trasformazioni urbane vengano proposte da soggetti privati, e richiede inoltre che un livello gerarchicamente sottostante dell’amministrazione svolga una funzione di controllo della compatibilità degli interventi proposti con le indicazioni del London Plan, passo necessario per la concessione delle planning permissions e cioè dei titoli abilitativi. Quest’ultima funzione è dunque quella assegnata ai due Borough di Camden e Islington, che rappresentano le municipalità all’interno delle quali ricade la trasformazione di King’s Cross Central. Come detto in precedenza, quello che si sta qui descrivendo è un processo di natura incrementale e trasversale, dove una serie di attori di diversa natura, con l’ausilio di specifiche competenze tecniche e artistiche, apportano ognuna un contributo vitale alla realizzazione di un progetto estremamente complesso. Nel tentativo di ricostruzione di un processo similmente complesso, dunque, è utile distinguere queste interazioni in due gruppi separati e cioè in primo luogo quelle di natura orizzontale, ovvero quelle che si instaurano tra l’attore pubblico e quello privato, ed in secondo luogo quelle verticali, ovvero quelle riguardanti i soggetti che, rispettivamente, vanno a comporre questi due diversi attori.

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Per quanto riguarda la Opportunity Area n. 16, e cioè quella di King’s Cross, il London Plan afferma che «King’s Cross now functions as a European passenger gateway and has the highest public transport accessibility in London. This accessibility will improve further with the completion of Thameslink. Planning permissions have been granted in both Camden and Islington for high-density commercial development, office, retail, leisure and housing. There may be scope to consider linkages between the academic sector and businesses clustered in this location. The implementation of development must capture heritage value, secure environmental quality and minimize car use. It is vital to integrate the major rail termini, underground station and brownfield sites with the regeneration of neighborhoods in the wider area.» (Mayor of London, 2011; p. 267).

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Prendendo avvio dalla forma di interazione che determina la genesi stessa dell’operazione, occorre notare come King’s Cross Central debba la sua effettiva realizzazione alla capacità di soddisfare contemporaneamente due distinti interessi, che sono la legittima volontà dei proprietari del sito di sfruttare a pieno le capacità economiche insite nel bene a loro disposizione e quella, propria dell’autorità pubblica, di perseguire una precisa strategia di sviluppo urbano 7 . Questa prima dinamica di interazione, dunque, è proprio quella tacitamente collaborativa che si viene ad instaurare tra il governo della Greater London e i soggetti privati proprietari del sito, la quale fa sì che due interessi differenti possano trovare una forma di composizione che si manifesta con l’avvio del progetto. Da questo primo livello di interazione ne deriva direttamente un secondo, protagonista del quale è questa volta il soggetto a cui compete l’effettiva realizzazione dell’intervento e cioè il developer Argent, il quale è chiamato a confrontarsi in maniera diretta con i Borough di Camden e Islington a cui compete invece l’attuazione dei contenuti programmatici del London Plan. Nel dettaglio, questa interazione consiste nella presentazione, da parte del developer, delle singole proposte progettuali relative al masterplan prima e ai singoli elementi progettuali dell’intervento poi, a proposito delle quali i due boroughs dovranno esprimersi concedendo o negando la relativa planning permission. Questo meccanismo, tuttavia è di natura estremamente dinamica, dal momento che la concessione del titolo abilitativo non è il frutto della sola attività di controllo di compatibilità con la strumentazione urbanistica vigente ma, anche, di un apposito processo di negoziazione previsto e regolato dalla Section 106 del Town and Country Planning Act del 1990. Questo processo, che va sotto il nome di planning obligation, prevede che l’autorità incaricata del rilascio dell’autorizzazione valuti nel dettaglio il contenuto della proposta di sviluppo, rispetto alla quale potrà avanzare una serie di osservazioni che vanno dalla richiesta di modifiche, più o meno sostanziali, alla richiesta di contributi economici connessi alla realizzazione di precisamente determinate opere di compensazione (Barclay, 2010). Se quindi il primo livello di interazione orizzontale analizzata è di natura episodica, nel senso che si esaurisce nel momento stesso in cui la strategia di sviluppo viene definita per mezzo del London Plan, questa seconda sarà di tipo periodico, visto che il medesimo meccanismo di confronto si verrà a riproporre ad ogni avanzamento del progetto, e cioè ogniqualvolta che la realizzazione di un nuovo edificio o di un nuovo spazio pubblico richiede il medesimo processo di negoziazione e di autorizzazione. Per quanto concerne invece le interazioni di tipo verticale, e cioè quelle interne ai due attori principali, la prima e più lineare è quella che intercorre tra i due livelli di governo pubblico, ovvero tra la Greater London Authority e i Borough di Camden e Islington. In questo caso, infatti, si tratta di ordinarie ripartizioni di poteri e competenze tra diverse autorità pubbliche, dove a quella gerarchicamente superiore spetta la definizione di una strategia di sviluppo valida per l’intero conteso urbano mentre alla seconda compete quel processo di controllo e autorizzazione che si è appena avuto modo di descrivere. Ben più complesso, invece, è il sistema di interazioni di ordine tecnico e commerciale che intercorre all’interno dell’attore privato, il quale ruota attorno al ruolo di assoluta centralità rivestito dal developer e dove rientrano i committenti dell’operazione, i clienti finali dell’attività di lottizzazione ed i vari progettisti artefici del suo disegno. In questo caso, dunque, il developer risulta innanzitutto impegnato nella ricerca di potenziali destinatari delle nuove edificazioni, che a loro volta daranno incarico ad un progettista di elaborare gli aspetti formali del singolo progetto 8 . In modo da assicurare la coerenza del singolo lotto con la trasformazione complessiva, però, al developer sarà affidato l’ulteriore compito di valutare la proposta sulla base dei contenuti del masterplan, determinando così una nuova interazione tanto con il destinatario che con il progettista da lui incaricato. Questo circolo troverà quindi una conclusione solamente tramite il ricorso all’interazione di tipo orizzontale, ovvero con la negoziazione con l’autorità pubblica che si esprimerà sull’eventuale concessione della planning permission.

Conclusioni Le ben note dinamiche che, a partire dagli anni ’90, hanno progressivamente indebolito la capacità del settore pubblico di investire risorse proprie nel settore edilizio ed in quello delle trasformazioni urbanistiche in genere hanno determinato la necessità di innescare meccanismi di compartecipazione con il settore privato che, però, non in tutti i casi hanno portato a risultati soddisfacenti (Salzano, 2003). Nel momento, però, in cui si mantiene dato un simile contesto di riferimento, e dunque nel momento in cui non si ipotizzano massicci stravolgimenti di quelle dinamiche sociali, economiche, politiche ed istituzionali oggi dominanti, sono la capacità di innescare, e 7

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A riguardo occorre ricordare come tra gli obiettivi su cui l’intero London Plan si fonda vi siano proprio l’intensificazione del territorio urbano costruito come misura per perseguire la tutela del greenfield (Mayor of London, 2011). In quest’ottica, dunque, la riqualificazione di aree poste all’interno del sistema urbano, e soprattutto all’interno del sistema dei trasporti, assume una valenza di tipo strategico. Nel caso dell’elaborazione del masterplan, come per la progettazione dei singoli spazi pubblici, è invece direttamente il developer a dare l’incarico di progettazione, solitamente per mezzo di appositi concorsi di idee. Per la riqualificazione del piazzale antistante la stazione di King’s Cross, ad esempio, la scelta è ricaduta sul progetto proposto dallo studio Stanton Williams, che è stato preferito alle proposte avanzate da altri 101 studi differenti.

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forse soprattutto di gestire questi meccanismi di interazione tra il soggetto pubblico e quello privato che diventano la sfida più attuale di questa specifica epoca. È con queste premesse, quindi, che può diventare utile analizzare esperienze simili a quelle di King’s Cross Central, alle quali sarebbe forse più opportuno guardare non come ad un modello da importare nella sua interezza, ma come piuttosto all’espressione di un fenomeno da approfondire e comprendere. Come si è avuto modo di vedere in questa analisi, l’effettiva fattibilità di questa trasformazione urbana è dipesa e dipende tuttora - da un intricato sistema di interazioni che si sono venute ad organizzare tanto tra il soggetto privato promotore dell’intervento e quello pubblico, quanto tra soggetti rientranti all’interno di queste due stesse categorie. Proprio questo aspetto quindi, in misura maggiore rispetto alla predisposizione di appositi strumenti operativi o istituti normativi, sembra rappresentare la chiave di volta che permette di rendere maturo il rapporto che intercorre tra soggetti pubblici e privati. Rimanendo ancora sul nostro caso di studio, ciò che emerge con forza è anche come da entrambe le parti impiegate in questo dialogo si manifesti in primo luogo una volontà di innescare processi di tipo collaborativo, come dimostrato dalla natura non direttamente attuativa del London Plan che anzi trova la propria legittimazione nell’iniziativa privata, ed inoltre come a questa volontà di collaborazione corrisponda una capacità di negoziazione, che si pone alla base dell’effettivo avanzamento della trasformazione. È però da notare anche come un simile quadro non nasconda, se non delle criticità, quantomeno delle minacce potenziali. Come affermato in proposito da Mazza (2004), il settore immobiliare è quello attorno al quale risulta più semplice la composizione di interessi diversificati, in quanto è l’unico in grado di offrire al privato quel ritorno in grado di giustificare il suo impegno nel raggiungimento di un interesse considerato anche pubblico. Allo stesso tempo, però, se non sapientemente gestito da entrambe le parti ed in particolar modo dell’attore pubblico, il settore immobiliare è anche quello che più facilmente può dar vita a forme di composizione degli interessi solo apparenti, che celano mere attività speculative quando non ai limiti della legalità (Sagalyn, 2007). Se si parte quindi dall’assunto che nel prossimo futuro le interazioni tra il governo pubblico portatore di determinati interessi, e l’attività economica privata portatrice a sua volta di altrettanti e differenti interessi, siano destinate ad aumentare e rafforzarsi, è dalla capacità di gestione di queste dinamiche che è ragionevole prevedere che passi il raggiungimento di un risultato considerato auspicabile.

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Urbanistica, Città, Politica, Economia

Urbanistica, Città, Politica, Economia Stefano Aragona Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico Email: saragona@unirc.it Tel. 0965.809521

Abstract Ormai è sempre più evidente la necessità di ripensare non solo la funzione ma anche il ruolo del mercato sia dei beni fisici, immobiliari, che di quelli immateriali quali ad es. i servizi. Questo implica ripensare il rapporto tra economia, l’economia urbana, e la politica. Politica che nasce dalla gestione del polis. Quindi occorre ripensare la, le, relazioni tra politica e l’arte di trattare la città ed il territorio, ovvero l’Urbanistica. Essa, come la politica in genere, sembra essersi fatta disciplina ancillare all’economia: risultato del dominio del liberismo più sfrenato. Tale necessità deriva dalla crescente diseguaglianza che si sta avendo nelle trasformazioni spaziali, in primo luogo quelle urbane. Diseguaglianza che significa innanzitutto impari fruizione dello spazio ma anche grande arricchimento di pochi soggetti a scapito della collettività e delle collettività locali. Al di là delle sempre esistite spinte speculative sulla città ed il territorio, dopo quasi 30 anni della liberalizzazione in vari settori dell’economia - tra cui quelle finanziarie - si richiede di verificare l’utilità reale di molte delle scelte di piano, o per lo più di progetti, che si sono fatte. Esiti che, come evidenziavano Dornbusch e Fischer nel 1990, si sarebbero manifestati nel lungo periodo nascendo da politiche di scala macroeconomica. In gran parte avvenute fuori dal processo di piano ordinario ed invece pensate e realizzate in un quadro di eccezionalità di eventi più o meno grandi: la vicenda delle splendide, coreograficamente, Olimpiadi greche del 2004 ma assolutamente “inutili” per le città e dannose per l’economia di quella nazione (www.panorama.it/mondo/2008/08/14/) dovrebbero fare riflettere. Riprendendo un più forte rapporto tra studi, dati, evidenze economiche e sociali e l’urbanistica, ponendo in primo piano il sentimento di città - pur se geograficamente diverso ed impari - non solo quale spazio pubblico ma come bene comune (Bienn. Spazio Pubb., 2011), sottolineando il rinato desiderio di cooperazione dopo l’esaltazione - mostratasi effimera ed inefficiente socialmente - dell’individualismo, il paper focalizza l’attenzione sulle recenti, spesso inique, scelte del Governo relative a molti aspetti che riguardano in modo significativo anche il territorio e, soprattutto, la città.

La questione urbana: un fatto di scelte politiche A causa delle significative indicazioni politiche del subentrato Governo Monti 1 , definito “tecnico”, lo scritto diventa una sorta di sentinella e di “manuale di precauzioni” rispetto le nuove, impegnative, opzioni di questi. Il tema si confronta con le questioni dell’equità spaziale, argomento che fino all’inizio degli anni ’90 aveva ancora spazio nel dibattito urbanistico al fine di proporre strategie di azione. Con l’affermarsi della supremazia del progetto sul piano, emblematizzata dai cosiddetti programmi complessi, sono state scordate, cancellate, nei fatti le riflessioni sulle modalità di costruzione la città (Tafuri, 1973) ed accantonato il dibattito legato alla rendita urbana che ha caratterizzato l’Urbanistica italiana, la cultura italiana e l’impegno civile dagli anni ’60 in poi 2 . La “finanziarizzazione” della città, trasformata in oggetto da vendere e comprare, è stata contemporanea e

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Dopo le dimissioni del precedente Esecutivo espressione di forze di centro-destra presieduto da Silvio Berlusconi. Si pensi al rivoluzionario film di Rosi “Le mani sulla città” sulla speculazione edilizia a Napoli che trasformò il Vomero in un alveare residenziale - si noti che negli stessi anni un giovane assessore di nome Cervellati riusciva a tutelare le colline ed il centro storico di Bologna - mentre giornalisti come Antonio Cederna denunciavano le scandalose distruzione di

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collegata ai processi della globalizzazione incontrollata. Nel riaffermare i principi dell’urbanistica moderna si ricorda lo scopo della disciplina: riaffermazione indispensabile soprattutto quando si tratta di negoziare gli oggetti, i benefici ed i costi di tale negoziazione. Consapevoli comunque che principi e loro attuazione sono come due rette parallele che s’incontrano solo all’infinito. Ma affinché tale punto esista occorre che esista sia la retta, il binario, dei principi e sia il binario delle trasformazioni “reali”. Compito degli urbanisti è che i primi vengano sempre tenuti presenti e crescano in contenuto - ovvero che il senso di marcia sul binario dei principi rappresenti un avanzamento e non arretramento degli interessi delle Comunità - come è il caso della ri-scoperta dello “spazio pubblico collettivo”, della città come “bene comune”, così come segnalato nella recente (2011) Biennale dello Spazio Pubblico. Accanto a tale compito vi è quello di operare affinché anche sull’altro binario, quello dei processi di cambiamento effettivi, la direzione di marcia sia la medesima. L’urbanistica, come l’economia, è una scienza sociale quindi deve valutare le proprie scelte sulla base degli esiti che esse producono. Esiti che, più le scelte sono rilevanti in quantità di soggetti ed implicazioni economiche e/o finanziarie coinvolte, più devono essere lette nel medio/lungo periodo. Proseguendo un lavoro di ricerca critica (Aragona, 1993a, 1993b, 2000, 2005, 2007, 2009, 2011) il paper intende rendere espliciti i vari soggetti coinvolti, gli interessi in gioco, lo scambio dichiarato e non - tra vantaggio privato ed utilità pubblica. Occorre un percorso di ricostruzione di concetti quali, come esempi rilevanti, “collettività” (da confrontare con l’ “individualismo” che è stata la parola d’ordine da quasi 30 anni a questa parte), “cooperazione” (vs “competizione”), “pubblico” (vs “privato”), “politiche urbane” (vs “libero mercato”). Particolarmente importante è porre in risalto la funzione che spetta alla pianificazione/progettazione urbanistica. Funzione che la strabordante presenza del mercato rischia di negare nei fatti. Soprattutto perché “questo” mercato sempre più è mercato gestito dalla finanza e da attori internazionali o nazionali che possono confrontarsi da posizioni di forza sia economica che legale con gli interlocutori locali per lo più economicamente ed amministrativamente meno “dotati” (come già previsto da Form nel 1984). Funzione che va ricostruita anche concettualmente in ambito disciplinare dopo un ventennio, almeno, di cessioni di legittimità e dominio alle capacità di “azione” del mercato. Questo lungo periodo di “social experimentation” di politiche ispirate alla smithiana “mano nascosta” dell’economia, in ragione dei pessimi risultati raggiunti in termini di equità sociale, di eticità e bellezza diffusa - richiamandosi agli ideali della Carta di Atene del 1931 con cui si formalizzano i presupposti del l’Urbanistica moderna - va dichiarato finito. Nostro compito, quali urbanisti, è spiegare i motivi ed il perché di questa fine e tracciare, probabilmente riprendere, proposte operative di piano e progetto. Considerando, infine ma certamente non meno importante, che spazi e funzioni, servizi, sono sempre più connessi in ragione delle innovazioni tecnologiche. Questo richiede porre sempre più attenzione alla gestione della città (Aragona, 1993a, 2000). Senza trascurare che il nostro Paese è un’eccezione tra quelli europei poiché, rispetto a questi, vi è una restituzione alla città molto minore della rendita urbana creata (Camagni, 2010). Senza negare che in esso vi sono forti diversità tra aree geografiche a seguito di una profonda differenza nel valore della comunità, dello spazio pubblico, della città, per lo più decrescente assieme allo scendere verso il Sud dello stivale. La città è sempre stata una battaglia di interessi di differenti capacità di spesa. Certamente non è solo economia ma questa ne caratterizza in modo significativo la struttura e la distribuzione della popolazione. I decenni trascorsi hanno visto una crescente divaricazione tra ceti sociali. I recenti dati dell’EURISPES 2012 confermano questo trend. Ma come leggere queste differenze 3 ? Si precisa che le considerazioni qui svolte sono in gran parte riferite al caso italiano, nel quale soprattutto le grandi città quali Roma, Milano, Napoli, Torino, soffrono in modo particolare le conseguenze spaziali delle diseguaglianze sopra dette. Questo in ragione della loro dimensione, cioè della distanza tra parti centrali ed aree periferiche. Ovvero tra quelle ove in gran parte è concentrata la presenza di elementi di pregio dovuto alla stratificazione che la storia di esse ha generato e le zone residenziali della maggioranza della popolazione meno abbiente come già riportato nell’Indagine elaborata dall’Demos&pi nel 2006 (Fig. 1). A livello qualitativo le osservazioni valgono anche per le realtà di più ridotte estensioni ma l’intensità, e quindi l’effetto, del gap è di minore intensità: sia per le più contenute dimensioni geografiche già dette e sia anche per la minore presenza in termini assoluti di beni che di aree di valore storico, artistico o funzionale . Riferimenti e citazioni internazionali servono per avere la possibilità di un confronto, quindi di una valutazione, del posizionamento della situazione italiana nel quadro delle democrazie occidentali.

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testimonianze antiche come la Via Appia a Roma, senza scordare più eroici impegni come quello di Danilo Dolci in Sicilia. Occorre riportare all’attenzione di chi si occupa di spazio - urbanisti, architetti, ingegneri in primo luogo - il rapporto tra economia, sociologia e territorio/città. In tal senso si sottolinea che la scomparsa dei Corsi di Geografia Urbana e/o Regionale e di quelli di Economia Urbana e/o Regionale nei percorsi curriculari di molti CdL in Architettura è un segnale negativo

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Figura 1. Localizzazione residenza e ceto sociale

Figura 2. Residenza, proprietà ed affitti

La città italiana è attualmente schiacciata tra tagli statali ed imposte locali. Le scelte economiche nazionali non sono ispirate ad equità sociale poiché così come sbagliato è stato il taglio indifferenziato dell’Imposta Comunale Immobili (ICI) sulla prima casa del Governo Berlusconi, altrettanto errato è la tassazione pesante che adesso si intende imporre. Durante il Governo Prodi vi fu una distinzione tra chi doveva e non doveva versare l’ICI sulla prima casa: cosicché risultò dovuta solo dal 40% dei proprietari. Berlusconi, facendone un cavallo di battaglia elettorale, la tolse completamente mettendo in grave difficoltà le amministrazioni comunali costringendole a taglio o diminuzione dei servizi. Viene reintrodotta con la Imposta Municipale Unica (IMU) - anticipando una scelta che sarebbe dovuta avvenire nel 2014 - dal governo dei “tecnici”, che diversamente dal giudizio di molti, è comunque un governo politico poiché appoggiato da forze politiche e che, necessariamente, prende decisioni che non possono che essere politiche. Si prevede una fortissima spesa (Sole 24 Ore, 2012) sia relativamente alla prima casa che ad eventuali altre proprietà immobiliari: dal raddoppio alla triplicazione della precedente ICI, in attesa di un ulteriore aumento dovuto sia al preannunciato aggiornamento dei valori catastali (che risalgono al 1987) che a quello legato alle scelte dei singoli Comuni. Va ancora segnalato che le incertezze sugli importi e delle scadenze genera un ulteriore elemento che spinge ad essere cauti in ogni altra spesa 4 . Il timore che si sta diffondendo è di non riuscire “a farcela”, cioè di non avere un reddito disponibile sufficiente al pagamento di queste imposte. E’ un timore giustificato poiché come risulta da recenti dati, i salari italiani non solo sono molto bassi - tra i più bassi d’Europa - ma stanno diminuendo in termini di reale capacità d’acquisto. Come si evidenzia nel rapporto Eurostat, ‘Labour market statistics’ (2012) in Italia, nel 2009, lo stipendio medio annuo è stato di 23.406 euro risultando tra gli ultimi dei redditi europei (Fig.3). La media aggiornata annua al 2009 - riferite a un lavoratore di un’azienda di almeno dieci dipendenti che opera nel ramo dell’industria, delle costruzioni, dei servizi e del commercio - in Norvegia è di 51.343 euro, nei Paesi Bassi ed in Lussemburgo rispettivamente 44.412 e 48.914 euro; in Danimarca (pure non avendo la risorsa petrolifera norvegese) risulta ancor più alta pari a 56.044 euro ed in Germania, seppur più bassa di queste nazioni, è molto superiore al dato italiano con 41.000 euro: si noti che entrambe queste due ultime nazioni prese come riferimento per le riforme avviate dal Governo “tecnico” sia per il mercato del lavoro che per il sistema di welfare 5 . Dati sostanzialmente 4

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Con il passare dei mesi il Governo cerca di togliere tali incertezze, come nella prima decade di luglio 2012 quando ha deciso che l’aliquota dell’IMU non sarà aumentata grazie all’avvenuto incasso degli attesi 9,9 mld di euro (rimanendo comunque tutte le incognite legate alle scelte dei Comuni), però contemporaneamente avvia una manovra economica molto significativa di tagli che riguarda soprattutto sanità, i dipendenti pubblici, l’assetto territoriale con accorpamento di provincie etc operato solo in base a criteri quantitativi (almeno 350.000 ab.). Quindi, come è il senso dell’intero paper, siamo in assenza di scelte politiche strategiche essendo quelle fatte solo finanziarie. Per correttezza d’informazione occorre evidenziare che l’Italia era superata di poco anche da Spagna (26.316 euro), Cipro (24.775 euro) e Grecia ( 29.160 euro): i recenti eventi legati al cosiddetto “default” di questi paesi (peraltro con dimensioni, struttura economica etc. molto diverse dal nostro) richiederebbe altro approfondimento. Certo è strano che la Grecia (entrata nella Ue con i conti truccati dall’allora Governo di centro-destra) mentre è soggetta alle imposizioni finanziarie della Ue sollecitate dalla Cancelliera tedesca Merkel (fortemente supportata dal Presidente francese Sarkozy) sia contemporaneamente obbligata al rispetto dell’acquisto di armi di venditori della Germania e Francia per un importo pari al 3% del suo PIL e che molti dei fondi teutonici siano tra i principali investitori in Titoli Pubblici greci… Tutto ciò

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confermati nel Rapporto EURISPES 2010 dove un lavoratore italiano riceve circa il 17% in meno della media Oces (25.739 euro l’anno), il 18% in meno di un francese, il 28% in meno di un tedesco, il 32% in meno di un irlandese, addirittura il 44% in meno di un inglese nella classifica degli stipendi netti annuali tra i 30 paesi più industrializzati l’Italia è 23esima con 21.734 euro l’anno (Fig.4). Gap che inizia a formarsi dopo il referendum che abrogò la scala mobile (http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3%3Ao6685), sostenuto dall’allora Governo Craxi, Forlani Andreotti, amico del rampante immobiliarista Berlusconi 6 .

Figura 3. Stipendio medio annuo nella Ue (Fonte Eurostat, 2012)

Figura 4. Stipendio medio annuo OCES (Fonte EURISPES,2010)

All’assenza di politiche urbane nazionali già denunciata in altri scritti (Aragona, 2009, 2011) sia associa anche quella - ed anche in questo (pur se con rilevanti eccezioni come la città di Salerno o Bari), in modo crescente scendendo verso il Sud del Paese - la mancanza di politiche urbane comunali. Le politiche sociali, quella della casa, appartengono alle une ed alle altre. Dopo l’abrogazione della legge sull’Equo Canone non vi è stato più nessun intervento nazionale fino al Piano Casa: terribile minaccia per il territorio sia in termini di sicurezza sismica ed idrogeologica che di carico urbanistico aggiuntivo - ovviamente non prevedibile negli strumenti di pianificazione (nuovi insediati non pianificati, portate infrastrutturali, assetti e morfologie, etc.) - e quindi foriero di aggravamento in termini di funzionamento degli spazi antropizzati urbani e non. Con la ironica contraddizione di sollecitare il ricorso al Piano Casa come elemento di stimolo economico 7 per poi tassare in modo pesante le superfici aggiuntive: una delle modificazioni introdotte da questo Governo Tecnico nel ricalcolo degli Estimi Catastali che non solo prevede un aggiornamento delle Rendite Catastali ma anche passa dal conteggio dei vani a quello delle superfici. Discutibile per molti aspetti “l’investimento nel mattone” ha costituito un elemento di sicurezza per una parte significativa della popolazione, come riportato nella fig 2. Dal dopoguerra in poi l’edilizia per fini residenziali è stato uno dei motori dell’economia italiana. E’ iniquo adesso imporre un costo aggiuntivo, non previsto, su beni che sono stati proposti continuamente come “sicuri”… così come si criticano le banche, i consulenti bancari, che hanno indotto i loro clienti ad investimenti azzardati ancor più grave è una scelta dello Stato che

mentre una ristretta fascia di popolazione ellenica continua ad avere un elevatissimo tenore di vita ed esserci un’elevatissima evasione fiscale. 6 Scala mobile difesa dal PCI e dalla CGIL e contrastata dal governo Craxi che aveva fatto cadere le giunte di sinistra in tutte le grandi città italiane per formare il cosiddetto “CAF”, appoggiato Berlusconi nella sua espansione a Milano con i Sindaci Tognoli e Pillittieri e nel '85 salvato Canale 5 - oscurato perché fuorilegge - con il decreto Mammì. La perdita del valore salariale continua con il crescente cedimento dei sindacati con il Governo Amato (precedentemente ministro di Craxi), poi divisi con quelli presieduti da Berlusconi: tutto questo in un quadro che vedeva nella filosofia liberista la soluzione politica che inizia con la Thatcher poi Regan, quindi Blair (con la terza via di Giddins). 7 Le parole iniziali del Piano Casa sono infatti per il rilancio economico attraverso l’edilizia. Stefano Aragona

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improvvisamente cambia le regole ed alza la posta del gioco. Posta più alta che se non si accetta c’è solo l’uscita, cioè la vendita del bene che non si è più in grado di mantenere. Si aggiunga a tutto ciò che da decenni, ispirate all’efficienza economica del mercato 8 , scelte politiche nazionali che però hanno forti ricadute sul territorio - il taglio dei rami secchi delle ferrovie avviato nel 1992, la privatizzazione del sistema postale e di altri servizi che sempre più stanno abbandonando paesi e piccole realtà urbane - spingono sempre più verso i principali centri. In tal modo, mentre in questi sono origine per ulteriore crescita di congestione, inquinamento e del mercato immobiliare e contribuiscono alla diminuzione della qualità della vita dei residenti rimasti nelle aree abbandonate - anziani ed i (pochi) bambini - e le condizioni di sicurezza (Aragona, 1993b, 2005).

I tecnici stanno scatenando una valanga sociale?...e loro saranno lontani Se le scelte del Governo Monti non cambieranno l'esito sarà che gran parte delle persone non potranno mantenere le case, prime o seconde che siano, e quindi vendere! E chi saranno gli acquirenti? Ma i grandi gruppi (indebitati comunque 9 ) nei quali vi sono anche le banche! Ed a che prezzo?... a prezzi stracciati poiché sia lo stato di necessità che la gran massa di unità immobiliari messa sul mercato faranno crollare i prezzi di vendita!... E tutto ciò dopo che molti ex IACP (Istituti Autonomi per le Case Popolari), molti degli Enti Previdenziali hanno messo sul mercato le unità residenziali sollecitando i propri affittuari all'acquisto, dopo che il Piano Casa (dannoso per la sicurezza e la congestione che aggiuntiva che crea) spinge ad aumentare le superfici... quelle che poi saranno maggiormente tassate dalla citata rivisitazione degli Estimi Catastali, insomma una vera propria truffa per la gente! L’ICI era "giusta" ed indispensabile per i Comuni. L'IMU di questo Governo Tecnico è un imbroglio: ma i terribili danni sociali si sentiranno dopo (come è in tutte le scelte di macroeconomia che hanno impatti nel medio/lungo periodo), quando loro non ci saranno più! Sono politiche di filtering down, componenti essenziali di processi di gentrification, che hanno caratterizzato le scelte neoliberiste a partire dalla fine degli anni ’70. La Gran Bretagna della Thatcher e poi Blair hanno pensato che affidandosi al mercato la società potesse funzionare meglio. Dopo oltre 30 anni di sperimentazione di tali politiche si può dire, senza ombra di smentita, che i paesi che hanno seguito tale scelta hanno visto allargarsi il gap tra ricchi e poveri ed un crescente restringimento di chi possiede la ricchezza. Dati recenti Eurispes (2011) in Italia ci dicono che il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza totale nazionale. Valeria Erba anni fa (1988) ricordava che gli esiti di scelte di pianificazione si riscontrano nel tempo. Così sta avvenendo. Le opzioni fatte da circa tre lustri stanno manifestando i loro effetti. Esse infatti rientrano nelle politiche di macroeconomia i cui esiti sono riscontrabili nel medio - lungo periodo 10 . Si è tentato, si tenta, di arginare la sproporzione tra guadagno del privato - guadagno che è legato alla finanziarizzazione delle attività associato alle classiche rendite urbane sia di posizione che di attesa - con strumenti di negoziazione di perequazione urbanistica. Ma se i risultati sono quelli che si stanno avendo forse sarebbe stata preferibile la stasi che ha caratterizzato l’Italia negli anni ’70. Tale affermazione dipende, è spiegata, dalle constatazioni che brevemente si illustrano di seguito e che possono essere viste delle “proxis” ovvero degli indicatori utili a valutare gli esiti (realizzati o previsti) di scelte. Facendo riferimento alla situazione romana, emblematica - come inizialmente si è detto - di ciò che sta accadendo nelle principali città italiane, in termini di qualità della vita degli abitanti la situazione non è migliorata sia per i nuovi insediati che per quelli già residenti. I prezzi di acquisto per mq. degli immobili sono lievitati, quelli in locazione cresciuti ed ancor di più lieviteranno con l’IMU 11 . Il livello di congestione veicolare anche nelle zone meno centrali si è accresciuto, altrettanto l’inquinamento da polveri sottili, etc., così pure la spesa per spostamento privato.

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Che però è più che altro considerata in senso microeconomico che macroeconomico e sembra ignorare la necessità di analisi integrate multicriteria riproponendo banali valutazioni costi-benefici (Aragona, 1993b): la miopia di queste politiche è evidente alla luce delle tragiche conseguenze di eventi metereologici che si sono susseguiti nei recenti decenni. 9 L’esposizione finanziaria dei grandi gruppi di costruzione con gli istituti di credito è notevole, da un aumento degli estimi catastali essi ne trarranno grande vantaggio nei bilanci consolidati: le unità immobiliari invendute rientrano comunque nel loro stato patrimoniale, garanzia di prestiti, fidejussioni, etc.; inoltre va considerato che spesso vi è una presenza dei primi nel Capitale Sociale e nei Consigli di Amministrazione dei secondi, ovvero delle banche che li sostengono. 10 Come già evidenziato da Rudiger Dornbusch (Premio Nobel dell’Economia nel 1999) e Stephan Fischer negli anni ’90 nel loro testo Macroeconomics. 11 Sia il Sunia che la Confedilizia evidenzino questo, anche relativamente gli affitti concordati, nel recente articolo Casa, non c’è solo l’IMU. In arrivo un salasso per i contratti d’affitto sull’Unità del 10 aprile 2012. Quindi si crea una contraddizione nel mercato poiché mentre la diminuita capacità di spesa e di mantenimento degli immobili è motivo che spinge i proprietari a basso, medio reddito, a vendere - come prima si accennava - facendo diminuire i prezzi al tempo stesso le fasce più facoltose aumentano prezzi ed affitti per rifarsi dell’aumentata imposizione. Stefano Aragona

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L’assenza di politiche urbane - in cui fossero fortemente presenti politiche sociali e per l’abitazione - associata ad una spettacolarizzazione delle parti più di pregio delle città, combinata alle vendite di Enti od Istituti (spesso privatizzati) di varia natura pubblica e non, prima accennata, il più elevato costo della vita (prezzi e beni calibrati per acquirenti capienti) ne hanno fatto luoghi di svago più che di residenza se non per facoltosi abitanti o seconde case di lusso (Aragona, 2009). Mentre si è confermato, accentuandolo, un modello di sviluppo basato sulla espansione invece che sulla riqualificazione dell’esistente aumentando il consumo di suolo e di impermeabilizzazione sia di questo che delle superfici costruite. Riporta il rapporto annuale Ambiente Italia 2012 di Legambiente “In Italia vengono consumati mediamente oltre 500 chilometri quadrati di territorio all’anno. E’ come se ogni quattro mesi spuntasse una città uguale all’area urbanizzata del comune di Milano…” ma l’autore evidenzia il paradosso che “Nonostante ciò, tante persone rimangono senza casa perché non se la possono permettere 12 ”. Fatti questi che contraddicono in modo evidente le dichiarazioni di sostenibilità fisica e sociale (Patto dei Sindaci, 2007 e 2010). Se non mediate da politiche a scala comunale e di circoscrizione 13 , i poli urbani, le nuove centralità, proponendo grandi strutture commerciali, centri commerciali o similari - associati alle liberalizzazioni operate dalla politica nazionale - divengono tra i principali motivi della crescente scomparsa dei negozi di vicinato, delle piccole locali attività economiche. Sia perché esse non possono utilizzare le economie di scala e non hanno la forza contrattuale dei grandi gruppi e sia anche perché questi non hanno difficoltà a praticare politiche di “dumping” dei prezzi ovvero vendere sottocosto certi prodotti fino a che non siano occupate aree di mercato di altri concorrenti coprendo le perdite momentanee con i ricavi ottenuti da altri beni. L’acquirente risparmia sul prezzo dello specifico prodotto ma paga in termini di spostamento e di qualità delle relazioni sociali. Poiché ogni viaggio è un costo aggiuntivo l’acquisto deve essere il più possibile “ampio” quindi si privilegia l’auto privata capace di carico elevato e così altra inevitabile crescita di congestione ed origine di inquinamenti oltre che aumento di terreni impermeabilizzati per posteggi, strade, etc. Ma ancor più negative sono le considerazioni relativamente al rapporto tra qualità della vita e fasce di popolazione. Riprendendo i dati CENSIS prima citati, come già si è scritto nel 2005 nel saggio Città, abitanti, innovazioni riguardo gli anziani questa città non è per loro - è una città per l’utile del grande operatore immobiliare 14 - però per loro invivibile e per la Comunità locale poco efficiente. Occorre riavere un sistema di negozi di vicinato, sinergico moltiplicatore di attività, così come si tenta di proporre con i “Centri Commerciali Naturali” (Aragona, 2011). Tale indicazione è anche un’occasione per riqualificare le urbanizzazioni già presenti attraverso la proposizione di un sistema economico territorialmente utile 15 .

Città dei ricchi o politiche per la città? Alcuni spunti conclusivi Invece di porre queste pesanti gabelle si deve pensare una più misurata imposta sulla prima casa ed una più consistente, ma non così spropositata sulle seconde case e tassare in modo progressivamente crescente con il numero delle proprietà 16 . Ancora più fini declinazioni potrebbero aversi poi incrociando la situazione reddituale con quella delle proprietà. E’ invece indispensabile evitare che al danno si associno anche beffe come quella che gli anziani in Case di Riposo avrebbero dovuto pagare l’imposta sulla loro prima casa come se fosse seconda… poiché stanno in Case di Riposo e/o Cura. Si sottolinea che già dall’inizio degli anni ‘90 molto spesso nelle aree metropolitane, grazie alla maggiore aspettativa di vita, la popolazione sopra i 65 anni è più numerosa di quella sotto i 18 (CENSIS, 1991). Popolazione adesso colpita in modo significativo anche dalla riforma delle pensioni. Popolazione che doveva essere tutelata sia nei servizi che nel rapporto con il territorio dai Piani Regolatori

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Nel 2009, in testa alle città con il maggior numero di case vuote c’era Roma con 245.142 abitazioni, seguita da Cosenza (165.398), Palermo (149.894), Torino (144.398) e Catania (109.573). Nello stesso periodo, il maggior numero di sfratti è stato eseguito a Roma (8.729), a Firenze (2.895), a Napoli (2.722), a Milano (2.574) e a Torino (2.296). 13 O Municipi come definite ad es. a Roma. 14 Che poi è molto spesso rendita finanziaria (Aragona, 2011), Tocci (2009) 15 Ispirandosi ad esperienze quali quella dell’Olivetti, avviando una riconversione dell’economia italiana dal dopoguerra fortemente dipendente dall’espansione edilizia territori e città possono/devono trovare elementi di forza nell’innovazione (energia, utilizzo dei rifiuti, etc.) e nel puntare ad una crescita della qualità attraverso la manutenzione urbana basata sulle medie e piccole imprese locali e creazione di infrastrutture a grande scala come moltiplicatore keynesiano. Questo richiede un quadro, politiche, create dal sistema paese (tema che qui non è possibile trattare). 16 Proposta recentemente (2011) espressa tra gli altri da Rosy Bindi (Presidente del Partito Democratico) sul Corriere della Sera, riaffermata dai Segretari Nazionali Camusso e Bonanni rispettivamente della CGIL e CISL http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/ContentItem-ed04e712-d858-46f9-bfd5-095fad9547ed.html, e dall’economista Nicola Cacace che riprende anche posizioni del Sole 24 Ore, ovvero del giornale molto vicino alla Confindustria http://virtualblognews.altervista.org/tassare-i-grandi-patrimoni-e-la-cura-piu-giusta-per-l%E2%80%99italia/543/ (posizioni molto simili di numerosi “super ricchi” negli United States ed in vari paesi europei). Stefano Aragona

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Sociali 17 , strumento rimasto sostanzialmente solo atto burocratico formale (Aragona, 2003). Molto lontani dalle politiche sociali, parte delle politiche urbane presenti in Nazioni quali ad es. i Paesi Bassi o la Germania 18 . A scala nazionale l’imposta sulla prima casa deve essere molto bassa, possibilmente crescente con il livello reddituale dell’intestatario. Imporre una patrimoniale, oltre la seconda casa, significativa sulle grandi ricchezze affinché queste partecipino, in grande parte, al pagamento di servizi urbani ed infrastrutture, poiché è dalla presenza della città, dalle indicazioni di trasformazione di questa che esse trovano guadagno… così come anni addietro si era evidenziato e come, teoricamente, dovrebbe essere 19 . E’ assolutamente necessario arrestare l’espansione edilizia e puntare sulla riqualificazione dell’esistente dotando il territorio di infrastrutture e servizi di collegamento pubblico collettivo. Questo per diminuire congestione, inquinamenti, consumo di energia ed anche agevolare un riequilibrio della rendita urbana. Ma non facendolo mediante iniziative che si richiamano a Project Financing ed invece sono speculazioni immobiliari come nel caso del prolungamento della Linea B della Metropolitana a Roma dove a fronte di un finanziamento privato di una parte di essa si concede un sostanziale aumento di cubatura di nuova edilizia residenziale. Scelta sbagliata non solo per quanto fin qui detto ma anche perché questo aumenta il carico urbanistico, quindi le persone da trasportare. Tra le altre cose i Comuni mostrano un’incapacità strutturale a far rispettare gli accordi stipulati e così vengono realizzati gli edifici per abitazioni e commerciale e non le indispensabile infrastrutture per i collegamenti di trasporto pubblico collettivo… ovviamente non così per le strade ed i parcheggi per il trasporto privato. Urbanisti ed abitanti, cittadini, devono riprendere voce. I primi come compito disciplinare che altrimenti rischia di essere assolutamente inutile. I secondi per trovare modo di esprimere le proprie domande, necessità per la polis contemporanea. Per entrambi espressione, formazione, di politica, ovvero dell’arte di gestire l’urbe, luogo d’incontro dei polites (Cacciari, 1990)… e d’altronde anche un insospettabile interlocutore come il Sole 24 Ore già da alcuni mesi (2011) sembra chiedere un risveglio della politica nei confronti dei mercati, suggerimento che l’economista Rodrik articola in modo approfondito nel suo recente (2011) La globalizzazione intelligente e conferma quello che già si scriveva quasi 20 anni addietro nella citata La Città virtuale sulla base dello studio delle esperienze sia europee che negli United States 20 : evitare che l’economia, che sempre più si stava globalizzando assieme alle informazioni ed ai mercati di cose, persone e servizi, prendesse il sopravvento sulla politica (Fig.1). Lasciando inoltre spazio crescente alla finanza e perdendo la propria funzione di fattore produttivo. “…Difatti se il bene per il singolo individuo e per la città sono la stessa cosa, conseguire e mantenere quello della città è chiaramente cosa più grande e più vicina al fine, poiché tale bene è, sì, amabile relativamente al singolo individuo, ma anche più bello e più divino in relazione ad un popolo ed alle città. E dunque la nostra ricerca, che è una ricerca politica, è volta verso tali obiettivi” (Aristotele, Etica Nicomachea)

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Introdotti con Dlg. n.229/99 “Razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale promosso dal Ministro della Solidarietà sociale Livia Del Turco con il primo Governo Prodi come riportato nel 2003 in Aragona S. (2003) Piano Regolatore e Piano Regolatore Sociale. 18 A titolo emblematico la città di Colonia ha una Casa di Riposo Comunale per singoli o coppie dello stesso sesso, comunque aperta anche alle persone eterosessuali…. Mentre a Roma si chiudono come nel caso della Casa di Riposo a Casal Boccone “Casa di riposo Roma II: il Comune decide la chiusura, il Pd si oppone“ ( Francesca Divetta su http://montesacro.romatoday.it/talenti/casa-riposo-roma-II-chiusura-delibera-comune-protesta-lavoratori-pd.html) 19 Ad es. l’onere straordinario richiesto nella realizzazione di Programmi Complessi quali i PRINT nella Capitale per la riqualificazione di aree esistenti. 20 Purtroppo come ancora in La Città virtuale (op.cit.) si scrive, nonostante norme di tutela e conservazione emanate solo da pochi decenni (National Historic Preservation Act, 1966 con emendamenti del 1992) che tentano di preservare le parti storiche delle giovani - se confrontate con quelle del resto del mondo- città americane continua a prevalere la rendita fondiaria associata alla convenienza della demolizione rispetto al recupero e così anche lo storico quartiere di Greenwich Village a Manhattan, New York, sta perdendo molti dei suoi famosi locali. Attore di uno dei grande progetti immobiliare è… la New York University (Aquaro, 2012; Berger, 2012a; Beger, 2012b). Stefano Aragona

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Urbanistica, Città, Politica, Economia

Figura 5. Progetto di espansione della New York University nell’area storica del Greenwich Village, New York 21

Bibliografia Aquaro A. (2012), “Un piano per salvare il Village la sfida della New York bohémien”, La Repubblica 25 marzo Aragona S. (2011), “Urbanistica e marketing urbano stanno dalla stessa parte?”, in Atti XIV Conferenza SIU Abitare e Italia. Territori, Economie, Diseguaglianze, Atelier 5 Mercati immobiliari ed economie urbane, Torino, 24 - 26 marzo, in Planum - The European Journal of Planning on-line. Aragona S. (2009). “Città politica o città economica?” In Atti V Giornata di Studi INU Urbanistica e Politica, Napoli. Aragona S., Grancio C. (2009), “Progetto Urbano “Bufalotta - Porta di Roma”, in Innovazione del piano e valutazione delle trasformazioni urbane”, Urbanistica Dossier n. 114-115, 2009, Atti Seminario Innovazione del piano e valutazione delle trasformazioni, DIPTU - INU Lazio, Roma, Auditorium dell’Ara Pacis, 13 marzo Aragona S. (2005). Città, abitanti, innovazioni, in (a cura di) Di Palma V., INU Lazio, La ricerca territoriale a Roma e nell’area romana, Gangemi Editore, Roma, 2005 Aragona S. (2003). Piano Regolatore e Piano Regolatore Sociale, in (a cura di) Bonsinetto F., Il Pianificatore Territoriale. Dalla formazione alla professione, Quaderni del DSAT, Gangemi Editore, Roma Aragona S. (2000). Ambiente urbano e innovazione. La città globale tra identità locale e sostenibilità, Gangemi Editore, Roma - Reggio Calabria Aragona S. (1993a). La Città virtuale. Trasformazioni urbane e nuove tecnologie dell’informazione, Gangemi, Roma, cap.4 Aragona S. (1993b). Infrastrutture di comunicazione, trasformazioni urbane e pianificazione: opzioni di modelli territoriali o scelte di microeconomia?, in Atti della XIVa Conf. Italiana di Scienze Regionali, vol.2, Bologna Berger J. (2012a). N.Y.U.’s Plan for Expansion Draws Anger in Community, Greenwich Village Journal. The New York Times 9 marzo Berger J. (2012b). Bohemian Hub for Entertainment, Still Unprotected, Greenwich Village Journal. The New York Times, 23 marzo Cacciari M., Aut Civitas, (1990). Aut Polis in Mucci E., Rizzoli P. (a cura di) L’immaginario tecnologico metropolitano, Franco Angeli, Milano 21

Fonte immagini in senso orario: planimetra, The New York Times; aereofoto, NYU Photo Bureau; particolare angolo fabbricato entrata area, Marilynn K. Yee/The New York Times; prospetto in cortina Marilynn K. Yee/The New York Times; render del progetto The New York su cortesia della New York University.

Stefano Aragona

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Urbanistica, Città, Politica, Economia

Camagni R. (2010). Coesione territoriale: quale futuro per la politica europea?, Sessione Plenaria, Conferenza Annuale dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali, Identità, Qualità e Competitività territoriale. Sviluppo economico e coesione nei Territori alpini. Aosta, 20-22 settembre Collicelli, C. (1991) Il mutamento degli equilibri quantitativi in CENSIS, "Dossier Infanzia e Anziani. Ripensare le generazioni", Edilgraf, Roma Demos&pi, (2006). X Osservatorio sul Capitale Sociale degli Italiani Focus sulle classi sociali, Rapporto Maggio 2006 in www.demosnline.it Dornbusch R., Fischer S. (1990 5th ed.). Macroeconomics, McGraw-Hill, New York, Erba, V. (1988). "L'Efficacia dello strumento 'piano regolatore' letta attraverso la produzione di modelli e di generazioni di piano", in (a cura di) Gibelli, M.C., Magnani, I., "Pianificazione Urbanistica come Strumento di Politca Economica", Coll. Scienze Regionali, F. Angeli, Milano Form, W.H. (1984). Struttura sociale e destinazioni d'uso del suolo, in (a cura di) Crosta, P.L., La produzione Sociale del Piano, F. Angeli, Milano EURISPES Rapporto Italia 2012 e Rapporto Italia 2010 Fossati S., Tovati G, (2012). Imu, aliquote incerte fino al 10 dicembre. Saldo a rischio sanzioni e interessi [Online]. Disponibile su: http://www.ilsole24ore.com, 4 aprile Guerzoni M. (2011). Intervista a Rosy Bindi, Corriere della Sera 26 ottobre Masocco F (2012). Casa, non c’è solo l’IMU. In arrivo un salasso per i contratti d’affitto, l’Unità, 10 aprile Rodrik D. (2011). La globalizzazione intelligente, Bari: Laterza Tafuri, M., (1973). Progetto ed utopia, Laterza Tocci W.(2009). L’Insostenibile ascesa della rendita urbana, in Dialoghi Internazionali. Città del mondo n. 10 Siti web www.biennalespaziopubblico.it www.panorama.it/mondo/2008/08/14/ http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/ContentItem-ed04e712-d858-46f9-bfd5-095fad9547ed.html http://virtualblognews.altervista.org/tassare-i-grandi-patrimoni-e-la-cura-piu-giusta-per-l%E2%80%99italia/543/ http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/labour_market http://montesacro.romatoday.it/talenti/casa-riposo-roma-II-chiusura-delibera-comune-protesta-lavoratori-pd.html http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-04/sveglia-politica-attacca-mercati134159.shtml?uuid=AaDJ9S1D http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3%3Ao6685 http://www.nytimes.com/2012/03/24/nyregion/bohemian-heart-of-greenwich-village-seeks-landmark-status.html http://www.nytimes.com/2012/03/10/nyregion/nyu-expansion-plan-upsets-some-greenwich-villageneighbors.html?pagewanted=all

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Urbanistica e Real Estate. Nuovi soggetti e nuovi interessi collettivi

Urbanistica e Real Estate. Nuovi soggetti e nuovi interessi collettivi Carlo Alberini Università degli Studi di Genova Dipartimento DSA, Facoltà di Architettura Email: architettoalberini@gmail.com Tel. 347.6747810

Abstract Il futuro sarà urbano. Le previsioni più recenti indicano che, entro il 2050, nelle aree rurali potrebbe vivere meno del 30% della popolazione globale. In questo contesto, le realtà urbane saranno chiamate ad assumere il ruolo di veri e propri motori della next economy, divenendo il luogo dove prenderà forma la sintesi tra la scala globale e la scala locale, l’ambito dove macro e metro si connetteranno tra loro. La great recession, partita nell’ottobre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers, ha comportato uno stravolgimento radicale nella gestione delle finanze pubbliche degli Stati. Il tema del nuovo decennio sarà costituito dalla scarsità delle risorse economiche pubbliche disponibili per l’avvio di processi di rigenerazione urbana. Appare irrinunciabile iniziare a riflettere sulle modalità con le quali analizzare e gestire i rapporti tra i “nuovi” interessi pubblici e i “nuovi” soggetti privati. L’Urbanista sarà chiamato ad assumere anche il ruolo di interprete e traduttore dei differenti linguaggi e tra questi non potranno mancare quelli relativi al mondo della finanza e del real estate.

La great recession, partita nell’ottobre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers, oltre a condurre il mondo occidentale ad un passo dal baratro finanziario globale, ha comportato uno stravolgimento radicale nella gestione delle finanze pubbliche degli Stati sovrani. Le recenti manovre finanziarie che i governi di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia si sono trovati costretti a predisporre nel corso degli ultimi 8 mesi testimoniano la gravità e la perdurante vulnerabilità dei sistemi economici mediterranei. Il nostro Paese, grazie ad una rinnovata autorevolezza in ambito internazionale, sembra avviarsi verso il perseguimento di ragionevoli livelli di sicurezza delle finanze pubbliche, a fronte di importanti modifiche a carico del sistema delle tutele sociali, del mercato del lavoro, dei valori di spesa e dell’incremento dei livelli di tassazione. Quest’ultimo aspetto risulta particolarmente importante, non soltanto perché ha determinato la reintroduzione di un sistema di tassazione diretta sulla proprietà degli immobili, ma anche perché ha comportato una nuova disciplina delle tassazioni alle quali vengono sottoposti i guadagni dei fondi di investimento attivi nel settore immobiliare. In tal senso, si può affermare che il comparto economico legato al settore delle costruzioni sarà certamente uno di quelli che, più di altri, potrà subire penalizzazioni, sia per quanto riguarda l’attività degli investitori privati, sia per quanto concerne quella degli investitori istituzionali. Infatti, per poter tentare di definire un realistico scenario operativo entro cui collocare i margini di operatività del settore immobiliare e del real estate, occorre tenere in considerazione, oltre al richiamato nuovo impianto fiscale, anche l’insieme delle ricadute che si registreranno a carico dei fondamentali del comparto. La prima ricaduta riguarderà la solidità del sistema bancario e la capacità di erogazione del credito, drasticamente diminuita nel corso degli ultimi mesi; la seconda riguarderà la propensione delle famiglie all’indebitamento a lungo termine, a fronte di un’entrata in recessione del nostro sistema economico, certificata dall’Istat già per il 4Q del 2011 e confermata anche per i primi 2Q del 2012. La terza è rappresentata dall’andamento dei valori immobiliari che, pur non avendo mai subito l’effetto “bolla” che si è avuto sul mercato iberico e ancor più su quello irlandese, dovrà necessariamente avviare un definitivo repricing, che viene fissato dai principali centri di ricerca (Scenari Immobiliari e Nomisma) nell’ordine del 5-7% rispetto ai valori del 2011, per altro già in flessione di almeno un 5% rispetto ai dati del 2010. In merito all’andamento dei valori immobiliari, non si potranno tralasciare gli effetti che si potranno verificare sul ritracciamento delle valutazioni, sia in relazione all’aumento dell’offerta, con l’avvio del piano di dismissione del patrimonio immobiliare Carlo Alberini

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Urbanistica e Real Estate. Nuovi soggetti e nuovi interessi collettivi

pubblico per valori indicativi degli assett nell’ordine dei 5 mld. di euro nei prossimi tre anni, sia per l’aggiornamento a valore di mercato (mark-to-market) dei cespiti presenti nei portafogli dei fondi immobiliari. Quest’ultimo tipo di operazione, apparentemente solo di natura contabile, comporterà l’inserimento di inevitabili perdite nella maggior parte dei bilanci, con valori medi, recentemente quantificati dal centro studi di Mediobanca, nell’ordine del 30-35%, con conseguenze dirette, sia in termini di ritorno degli investimenti che di esposizioni nette verso il sistema creditizio. Il primo ordine di problemi (ritorno dell’investimento), potrà generare una diminuzione, più che lineare, del valore delle azioni, in misura maggiore per tutti quei Fondi che sono quotati in Borsa; il secondo genere di problema (esposizione bancaria), potrà aggravare situazioni già fortemente critiche, in relazione all’uso eccessivo della leva finanziaria, con conseguente rischio di aumento delle insolvenze e conseguente fallimento e messa all’asta degli asset posti a garanzia delle quote di debito. In questo delicato scenario, carico di insidie e incertezze, si troveranno costrette ad agire le pubbliche amministrazioni, chiamate a definire le linee di indirizzo dello sviluppo urbanistico delle nostre città. Peraltro, risulta del tutto evidente che quelle realtà che devono ancora avviare la redazione dei nuovi Piani potranno calibrare, sin da subito, le ipotesi di trasformazione, riqualificazione urbana e sviluppo, all’interno di questo mutato scenario macro economico, mentre, per quelle Amministrazioni che recentemente si erano date nuovi strumenti di governo del territorio occorrerà avviare una fase di verifica e di aggiornamento delle previsioni, che dovrà necessariamente condurre ad una riduzione quantitativa del numero dei programmi di trasformazione e al contestuale innalzamento qualitativo dei contenuti delle ipotesi che potranno trovare conferma nella propria portata strategica, soprattutto in relazione al miglioramento e all’innalzamento della qualità urbana complessiva. L’Atelier propone di avviare una discussione in merito al rischio concreto che le Amministrazioni possano essere tentate dall’utilizzare, in misura ancora maggiore rispetto a quanto non abbiano già fatto negli ultimi anni (soprattutto da parte dei piccoli comuni), lo sviluppo immobiliare come fonte alternativa di finanziamento, utile per supplire ai tagli dei trasferimenti centrali. Se un tale approccio dovesse trovare applicazione in maniera diffusa, con ogni probabilità, sarebbe all’origine di gravi carenze sui livelli di attuazione degli strumenti urbanistici, per due ordini di motivi principali. Il primo, in ragione del fatto che il supposto “sviluppo immobiliare”, ben difficilmente potrebbe essere considerato come un dato acquisito e certo, rispetto al quale garantire alla collettività l’avvio e, ancor più, la conclusione dei processi di trasformazione urbana. Il secondo, in relazione al fatto che eventuali politiche incentrate sull’uso eccessivo dello sviluppo immobiliare quale strumento impiegato per finanziare il bilancio (con incremento degli introiti derivante dalla monetizzazione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria) potrebbero costituire un elemento ostativo all’apporto dei capitali privati. In tal senso, non si può trascurare la circostanza per la quale la competizione che si svilupperà tra i differenti centri per garantirsi le limitate risorse finanziarie apportabili dai grandi player del real estate si giocherà, oltre che sul fattore temporale, legato all’iter autorizzativo dei progetti, anche su quello gestionale, con particolare riferimento alla quantificazione preliminare dei costi, diretti e indiretti, legati alle fasi decisionali e partecipative di condivisione delle proposte e dei mix funzionali insediabili sulle aree. Se il problema centrale del prossimo decennio sarà costituito, dunque, dalla scarsità delle risorse economiche pubbliche, urbanisti e amministratori locali dovranno essere capaci di perfezionare strumenti di piano capaci di indirizzare e guidare la redazione dei progetti verso soluzioni caratterizzate da un’intrinseca qualità - urbana e architettonica - in termini di migliori risposte funzionali alle nuove esigenze della collettività, oltre che in riferimento ai livelli di sostenibilità ambientale, economica e gestionale degli interventi proposti. In tal senso, appare utile richiamare una recente intervista rilasciata da Oriol Boigas, nella quale ribadisce che a suo avviso “non bastano i numeri dei piani regolatori per controllare la trasformazione della città: servono progetti architettonici e di dettaglio per ogni cosa (…) si crede ingenuamente che le soluzioni per le città si possano trovare con strumenti che vincolano in termini quantitativi, ma la città contemporanea va controllata con un progetto urbanistico e architettonico. Il tema della densità non è economico ma riguarda la struttura urbana. Densificare genera numerosi vantaggi sociali: non è solo un plus economico per i proprietari. Meglio vivere in un quartiere con una buona qualità urbana, accessibile e con tutti i servizi” (Pierotti, 2012). Peraltro, dal momento che le previsioni più recenti indicano il 2050 come l’anno in cui nelle aree rurali potrebbe vivere meno del 30% della popolazione globale del Pianeta, resta da comprendere la reale portata di questo fenomeno: le conseguenze di questo nuovo inurbamento porteranno ad una accelerazione del processo di trasformazione dell’assetto economico e produttivo, non tanto dei principali paesi industrializzati, quanto di quelli a più rapida crescita (Paesi BRIC). In questo contesto, le realtà urbane saranno chiamate ad assumere il ruolo di veri e propri motori della next economy, divenendo così il luogo dove prenderà forma la sintesi tra la scala globale e la scala locale, l’ambito dove macro e metro si connetteranno tra loro. In un futuro in cui oltre al 60% del Pil nazionale sarà realizzato dai sistemi macro-economici urbani, le issues dei piani urbanistici delle città europee e, ancor più di quelle italiane, dovranno allora favorire le occasioni di sviluppo economico, in un quadro di rinnovato equilibrio tra la partecipazione diretta e qualificata dei capitali privati, e il perseguimento dei nuovi interessi collettivi. Questi, infatti, non trovando più una fisiologica declinazione e composizione nell’ambito dei dibattiti che storicamente si sono realizzati all’interno dei partiti politici, dovranno essere

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Urbanistica e Real Estate. Nuovi soggetti e nuovi interessi collettivi

garantiti da una rinnovata sensibilità sociale degli architetti-urbanisti, che diverranno i driver per il conseguimento degli obiettivi e il successo delle iniziative di sviluppo e di riqualificazione urbana. L’utilizzo del termine nuovi, riferito agli interessi collettivi, vuole stimolare un ripensamento generale e un aggiornamento delle priorità e delle modalità con le quali queste trovano sempre più spesso l’occasione di manifestarsi all’interno del dibattito che si sviluppa sul tema della gestione urbana. In primis, non si deve trascurare il fatto che, anche a seguito della recente crisi finanziaria, e soprattutto grazie alla efficace evocazione che ne è stata fatta dall’attuale Presidente degli Stati Uniti, i temi della green economy sono entrati prepotentemente nelle agende dei politici e dell’opinione pubblica dei Paesi maggiormente sviluppati. L’aumento della sensibilità della cittadinanza in merito all’esigenza di preservare il territorio e di migliorare l’ambiente urbano, per garantire qualità alla vita e futuro alle prossime generazioni, rappresenta uno dei nuovi fattori centrali all’interno di qualsiasi dibattito sul futuro di una determinata città. Dalla capacità degli amministratori e dei progettisti di saper integrare e raccogliere le sfide che questi temi lanciano alla maggior parte dei progetti di trasformazione urbana dipende, in misura diretta, anche la possibilità di gestire la conflittualità che, sempre più, trova manifestazione con la nascita di comitati “contro”. Peraltro, è del tutto evidente che l’eliminazione delle incertezze sull’attuazione dei piani derivanti dalla forza relativa di tali comitati, molto spesso portatori di interessi particolari piuttosto che di ragioni collettive, costituisce un altro fattore fondamentale per la valutazione dell’appetibilità di un investimento da parte dei capitali privati chiamati a partecipare e a sviluppare le grandi scelte strategiche contenute negli strumenti urbanistici. Allo stesso tempo, proprio per ridurre la portata delle eventuali opposizioni ai progetti e per migliorare la trasparenza dei processi decisionali, si dovranno limitare al massimo gli spazi per operazioni che possano essere facilmente classificabili come meramente speculative. L’equilibrio tra il soddisfacimento delle giuste aspettative di remunerazione del capitale privato investito e la risoluzione delle specifiche esigenze della collettività direttamente coinvolta nel progetto dovrà trovare immediata individuazione e riconoscibilità. Solo così, infatti, si potranno ridurre gli spazi a disposizione dei comitati, limitandoli a quelli di natura meramente ideologica, che nella presenza e nella remunerazione del capitale privato vedono sempre una circostanza da combattere aprioristicamente. L’innalzamento dei parametri qualitativi delle proposte progettuali finali e la capacità che queste avranno di risultare sostenibili in chiave ambientale e gestionale nel lungo periodo costituiscono fattori fondamentali anche per la determinazione del prezzo di vendita degli spazi realizzabili. Tutte le più recenti indagini di mercato confermano che, a fronte di elevati standard di efficienza energetica e di uso di materiali da costruzione green, gli acquirenti sono disposti a sostenere un prezzo di acquisto maggiore rispetto alle valutazioni medie della zona, trovando giustificazione nei risparmi sulla spesa energetica e sulla salubrità degli ambienti. Circostanza che conferma che, ormai e sempre più, i fattori in grado di massimizzare i valori immobiliari e, con ciò, l’interesse del developer, coincidono in misura crescente con il soddisfacimento di nuove esigenze manifestate da parte degli utilizzatori finali. In tal senso, si deve riconoscere che riuscire a declinare compiutamente il tema della qualità (architettonica, urbanistica, ambientale, funzionale, ecc.) delle proposte rappresenta un fattore di successo, sia a vantaggio dell’investitore, sia a favore della collettività che, grazie ad un ottimo progetto, riuscirà ad ottenere un reale e concreto soddisfacimento dei propri bisogni quotidiani. La contrazione sempre maggiore che, nel corso dei prossimi anni, si registrerà sul fronte della disponibilità di risorse finanziarie pubbliche, imporrà dunque un profondo cambiamento, oltre che degli approcci progettuali, anche delle policies messe in campo dalle classi politiche che saranno chiamate a governare la complessità e la velocità delle trasformazioni urbane. E’ del tutto evidente, infatti, che per cercare di tenere il passo con le sfide imposte dalla globalizzazione, si dovranno definitivamente archiviare i tempi in cui l’interesse collettivo, pretestuosamente richiamato dai promotori e dagli amministratori impegnati a presentare numerose iniziative immobiliari, poteva essere ricondotto al semplice soddisfacimento di istanze particolari, provenienti da alcuni attori locali. Troppe volte, infatti, è capitato che, a fronte di una costruzione del consenso non del tutto sana e basata su sistemi clientelari, volti per lo più a garantire una continuità amministrativa degli stessi soggetti, si sia dato corso ad iniziative immobiliari che hanno influito scarsamente su un effettivo rilancio e su un sostanziale miglioramento delle qualità dei contesti urbani coinvolti. Numerosi e recenti fatti di cronaca, che hanno visto il coinvolgimento diretto di architetti, funzionari della pubblica amministrazione e leader dei partiti oltre che di grandi gruppi immobiliari, ripropongono in tutta la sua urgenza, oltre al tema della legalità, il tema della trasparenza delle scelte in materia urbanistica. Dare forma progettuale compiuta alla richiesta di innalzamento della qualità urbana, soprattutto in termini di vivibilità dello spazio pubblico, miglioramento dell’accessibilità, disponibilità del verde e riduzione del traffico, oltre che alla creazione di posti di lavoro duraturi e al miglioramento complessivo della vita quotidiana, soprattutto in relazione ai tempi organizzativi della famiglia, divengono allora le vere leve sulle quali muovere la costruzione di un consenso sempre più allargato e diffuso, capace di bypassare la mediazione degli apparati politici. In questo quadro, in continua evoluzione, riuscire ad interconnettere le nuove istanze della società urbana con i meccanismi decisionali del settore finanza e del real estate diviene condizione necessaria e irrinunciabile per l’aggiornamento del ruolo dell’urbanista. La crisi del livello di rappresentatività e di capacità interpretativa dei bisogni della comunità locale che colpisce i partiti politici obbliga ad un ripensamento del ruolo del tecnico che si occupa del disegno della città. Sempre più egli dovrà sapere e poter rispondere direttamente ai nuovi soggetti, riducendo gli spazi delle mediazioni tra interessi politici convenzionalmente rappresentati. Il ruolo dei social Carlo Alberini

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network e l’immediatezza della comunicazione, alla base della forza delle mobilitazioni “contro”, impongono un salto di qualità anche nel linguaggio e nella capacità comunicativa che dovrà essere garantita da chi sarà chiamato a spiegare e presentare i progetti urbanistici. Oltre a parlare ai politici e agli imprenditori, l’architetto e l’urbanista dovranno saper tradurre e comunicare, anche al grande pubblico, i criteri decisionali posti alla base del processo progettuale. Così facendo la trasparenza potrà divenire sostanziale e non solo formale. Saper motivare scelte apparentemente impopolari ma che, di fatto, vanno adottate nell’interesse collettivo, può contribuire a ridurre le occasioni in cui le rivendicazioni nimby, che riguardano gli interessi specifici della comunità più direttamente coinvolta, potranno essere strumentalmente fatte passare come assunzioni di responsabilità a favore dell’intera collettività.

Bibliografia Libri Alberini C. (2011), Urbanistica e Real Estate. Il ruolo della finanza nei processi di trasformazione urbana, FrancoAngeli, Milano. Articoli Pierotti P. (2012), “Intervista a Oriol Boigas”, Casa24Plus, n. 37, 6 Siti web Ricci M., (2012). Riciclare città e paesaggi [Online]. Disponibile su: http://www.ecowebtown.eu

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“Antropocene” Millo 2012 ®

Atti della XV Conferenza Nazionale SIU Società Italiana degli Urbanisti Pescara, 10-11 maggio 2012

L’Urbanistica che cambia. Rischi e valori

by Planum. The Journal of Urbanism ISSN 1723-0993 | n. 25, vol. 2/2012


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