Pizza e Pasta Italiana - Gennaio 2021

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n°1 gennaio 2021

anno XXXII

SPECIALE PIZZA ALLA ROMANA


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pizza e pasta italiana gennaio

2021

AZIENDE Cameo

p. 9

Cerutti Inox

p. 97

Conserve Italia

p. 25

Cuppone Forni

p. 67

Di Marco Corrado srl

p. 17

Effedue

p. 2

Farmfrites

p. 87

Forni Pavesi Rimini

p. 63

Friggio’

p. 100

Gi Metal

p. 33

Greci

p. 19

Industria Alimentare Tanagrina

p. 49

Italforni Italmill

p. 29, 85 p. 3, 65

La Torrente

p. 99

Lilly Codroipo

p. 53

Linea Dori

p. 37

Mam - Eredi Malaguti

p. 89

Millberg

p. 13

Molecola

p. 11

Molino Agugiaro e Figna

p. 45

Molino Cosma

p. 73

Molino Dallagiovanna

p. 57

Molino Magri

p. 21

Molino Naldoni

p. 77

Molino Pasini

p. 7

Mulino Padano

p. 69

Newplast

p.83

Pizza Idea

p. 71

Sanfelici

p. 61

Scugnizzo Napoletano

p. 93

Sitta

p. 41

Vito Italia Srl

p. 59

— Sommario — Guardiamo con serenità al futuro perché il sole risplenderà

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di Giampiero Rorato

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SPECIALE PIZZA ALLA ROMANA

Non solo farine.

a cura della redazione

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a cura della redazione

14 La pizza alla romana. Storia di una evoluzione che continua

L’importanza delle attrezzature con Fabrizio Contino

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di Giampiero Rorato

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SPECIALE PIZZA ALLA ROMANA

SPECIALE PIZZA ALLA ROMANA

Gabriele Bonci

di David Mandolin

di David Mandolin

La pizza Capitale

"Mi considero un fornaro"

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di Antonio Paduano

di Caterina Orlandi

Nella città Santa più pizzerie che chiese

Angelo Iezzi. La pizza è la mia vita


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s o mmar io

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Marco Montuori, professione Pinsa di Caterina Orlandi

SPECIALE PIZZA ALLA ROMANA

Edoardo Papa

In Fucina, il ristorante che ama la pizza di D. M.

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L’omaggio a Roma di Tony Gemignani di Caterina Orlandi

Francesco Roscino.

Pizzeria Emma, Roma di C. O.

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Jacopo Mercuro. La pizza? Deve essere... cotta! di David Mandolin

di Giampiero Rorato

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Un vero e proprio culto: la cacio e pepe. I carciofi alla giudìa. La regina del quinto quarto: la coda alla vaccinara di Marisa Cammarano

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Le migliori birre laziali

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La pizza in pala ed in teglia secondo Graziano Bertuzzo, Scuola Italiana Pizzaioli a cura della redazione

SPECIALE PIZZA ALLA ROMANA

I vini del Lazio

di Alfonso Del Forno

Un forte invito ai piccoli86 e medi produttori italiani di olio extravergine d’oliva di Giampiero Rorato

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Roma, una città della pizza

I chiodi di garofano: grande spezia invernale di Giampiero Rorato

di Antonio Puzzi

I decreti ristori 94

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I principali prodotti agroalimentari laziali: impariamo a conoscerli a cura della redazione

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In Lazio alla scoperta delle fraschetterie di Caterina Vianello

dell’Avv. Manuela Viscardi

Florian Legno spa

p. 81

Linea Dori

p. 37

Vitella

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p. 64

SCUOLA ITALIANA PIZZAIOLI


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— Editoriale —

Guardiamo con serenità al futuro perché il sole risplenderà Giampiero Rorato

C

ome gli antichi che nel loro cammino seguivano di giorno l’arco del sole per non perdere la direzione, così oggi, mentre ancora incombe questa brutta pandemia che ha sconvolto ogni previsione, dobbiamo guardare al sole, a quella luce che continuerà ad accompagnare e illuminare la nostra vita, a ricordarci che oltre le tante preoccupazioni che ci hanno assalito, i tanti problemi che ci sono capitati addosso del tutto imprevisti, con la triste tragica aggiunta di troppe morti che hanno colpito molti di noi, ci attende un domani di impegno, di lavoro, di libertà come è sempre successo in passato. E il sapere che domani ritroveremo la normalità, ma-

gari diversa dal passato, ma nella libertà di incontrarci, salutarci, abbracciarci, deve continuare impegnarci, mentre iniziano le vaccinazioni, a progettare con impegno il nostro futuro. Anche in questo numero della rivista presentiamo realtà già proiettate verso il futuro. Il mondo della ristorazione e della pizzeria non sta fermo, mosso da tanti fattori come l’evoluzione del gusto, la moda, il bisogno di novità, le mutate esigenze nutritive, il lavoro di ricerca per quanto riguarda prodotti, attrezzature e tecniche operative. Leggendo diverse interviste a operatori del settore qui presentate si percepisce chiaramente lo sforzo di tanti ristoratori e pizzaioli che

studiano prodotti, impegnati a valorizzare il territorio, alla ricerca di nuovi accostamenti, alla sperimentazione di nuove tecniche di cottura. Tutto questo è meraviglioso perché ci dice che davvero il sole tornerà a splendere sul nostro lavoro, trascinando molti giovani cuochi e pizzaioli a seguire l’esempio dei pionieri e avremo progressivamente una nuova ristorazione e nuove pizze. Non sarà la negazione del passato, che resta il fondamento della gastronomia in Italia come in ogni altro paese, ma l’apertura di nuovi interessanti orizzonti anche per quanto riguarda la gastronomia, nei suoi aspetti estetici, gustativi, nutrizionali.

Un contributo lo sta dando la globalizzazione, mostrando altre esperienze soprattutto orientali, relativa in particolare alla maniacale cura dei piatti, alla loro presentazione estetica, valorizzando comunque i prodotti del posto e regalando al commensale non solo il piacere della tavola, ma il ricordo della tavola che è un piacere che continua nel tempo. Temi questi che caratterizzeranno sempre più non solo il mondo dell’alta ristorazione, ma anche quello della pizza che è in costante decisa evoluzione e di questi argomenti, cari lettori, continueremo a raccontare nei prossimi mesi. E che il nuovo anno possa vedere la fine della pandemia e la rinascita per tutti.

www.giampierororato.blogspot.com COLOPHON

PIZZA E PASTA ITALIANA Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

PROGETTO GRAFICO Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi — Mediagraf lab

Edito da PIZZA NEW S.p.A. Autorizzazione Tribunale di Venezia n. 1019 del 02/04/1990 Anno XXXII - n.1 Gennaio 2021 Repertorio ROC n. 5768

DIGITAL PUBLISHING Maura Trolese — Mediagraf lab

DIRETTORE EDITORIALE Massimo Puggina DIRETTORE RESPONSABILE Giampiero Rorato SEGRETARIA DI REDAZIONE Caterina Orlandi PUBBLICITÀ Patrizio Carrer, Caterina Orlandi RESPONSABILE PROGETTO David Mandolin REDAZIONE Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

IN COPERTINA illustrazione di Sarah Alice Rabbit

ASSOCIATO ALL’UNIONE ITALIANA STAMPA PERIODICA

PER LA PUBBLICITÀ SULLE RIVISTE: ITALIA Pizza e Pasta Italiana; U.S.A. Pizza Today, P.M.Q.

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A. Noventa Padovana (Pd)

TEL 0421.83148 — FAX 0421.81007

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE Marisa Cammarano, Patrizio Carrer, Tony Gemignani (U.S.A.), David Mandolin, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Caterina Orlandi, Stefano Buso, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

PER INFORMAZIONI, SOTTOSCRIVERE UN ABBONAMENTO O RICHIEDERE UN ARRETRATO:

AFFILIAZIONI INTERNAZIONALI Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.), P.M.Q. Russia, P.M.Q. Cina.

TELEFONARE AL NUMERO 0421 212348 dal lun. al ven.: 10:00 – 12:00 / 15:00 – 17:00 INVIARE UN FAX A 0421 83178 Servizio abbonamenti Pizza e Pasta Italiana INVIARE UNA MAIL A: abbonamenti@pizzaepastaitaliana.it L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno e dà diritto a ricevere 11 numeri della rivista. L’abbonamento andrà in corso dal primo numero raggiungibile.



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PIZZA NEWS a cura della redazione

Dimmi da dove vieni e ti dirò che birra bevi: ecco la geografia della birra in Italia

IPA

a gradazione alcolica leggera al nord e nelle isole, English Ale ad alta fermentazione al centro, Lager a bassa fermentazione al sud: è quanto emerge dai dati di Doppio Malto, birrificio che da fine aprile ad oggi ha percorso 300mila chilometri su e giù per lo Stivale per consegnare le birre artigianali vendute sul suo nuovo e-commerce. Il brand, presente in Italia con 20 birrifici-cucina e in grado di raggiungere tutta l’Italia attraverso il proprio shop online ribattezzato “EHI!-Commerce” (shop.doppiomalto.com/it/), mostra come fra le nove birre disponibili online la più amata dagli italiani sia una IPA a gradazione alcolica leggera, seguita una English Ale di carattere, forte e ad alta fermentazione, mentre a chiudere il trio è la Pils a bassa fermentazione. Diversa, invece, la situazione se si analizzano le differenti aree geografiche del Paese: gli abitanti del nord e delle isole condividono l’amore per l’IPA a gradazione alcolica leggera, mentre al centro sul gradino più alto del podio c’è una English Ale ad alta fermentazione e al sud guida la classifica una Lager, la “chiara” per eccellenza, non filtrata. Secondo l’ISTAT, a consumare birra è 1 italiano su 2, percentuale leggermente più alta al centro, dove si raggiunge il 53% contro il 51% del nord e il 49% di sud e isole.

Da Bonduelle Food Service consigli utili e ispirazioni per il menù d’asporto

B

onduelle Food Service Italia (www.bonduelle-foodservice. it) presenta il nuovo numero di Ispirazioni Culinarie Magazine, il periodico di informazione su tendenze e novità nel mondo della Ristorazione, con uno speciale dedicato a Delivery e Take-Away, per i quali le verdure possono rappresentare una vera e propria risorsa. Un mercato, quello del Food Delivery, sviluppatosi molto negli ultimi anni, con tassi di crescita a doppia cifra, fino all’esponenzialità raggiunta nel 2020 e destinato in futuro a rappresentare una parte importante del business del Fuori Casa. Un’opportunità da cogliere ma che richiede preparazione sulle normative, così come un’attenta gestione delle attrezzature da utilizzare e cura nella selezione dei piatti da proporre per l’asporto, per garantire al cliente un’esperienza di qualità e di gusto quanto più simile a quella proposta nel proprio locale. Al centro delle proposte di Bonduelle Food Service per l’asporto ci sono le verdure e i loro molteplici vantaggi, primo fra tutti la versatilità oltre a diversi altri vantaggi tra i quali la riduzione degli sprechi, degli scarti e dei tempi di lavorazione, la garanzia di qualità, sicurezza alimentare e food cost costanti, il tutto lasciando spazio alla creatività e alla personalizzazione.



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PRIMA PAGINA a cura della redazione

SIGEP EXP DMT – Digital Marketing Turismo - Collana Hoepli per affrontare il futuro di travel e hospitality

Per

sostenere gli operatori di accoglienza e ristorazione sui temi dell’innovazione tecnologica e la sperimentazione di modelli digitali, scende in campo la collana di Ulrico Hoepli Editore, DMT - Digital Marketing Turismo, diretta da Nicoletta Polliotto. Sono volumi di management e digital marketing per le aziende dell'ospitalità turistica, alberghiera e ristorativa, ricchi di spunti strategici e casi di studio, una collana di manuali pensati in maniera specifica per gli operatori di settore, veri e propri prontuari per superare questi momenti di crisi. Tanti gli argomenti trattati: dalla progettazione dell’esperienza dell’ospite a un nuovo approccio di promozione digitale e sui social media per un turismo convergente che comprende destinazioni, hotellerie, extra alberghiero e ristorazione. Visione, strategia e utilizzo dei dati sono i presupposti che vengono analizzati e si sviluppano in how-to-do, buone pratiche, interviste agli specialisti e testimonianze di brand nazionali e internazionali. “La collana innovativa del turismo convergente” è il sottotitolo scelto, claim che anticipa i contenuti delle pubblicazioni. Proprio la contemporaneità delle linee guida della collana e dei relativi volumi li rende così attuali e urgenti, in un mondo proiettato verso nuovi modelli e in costante accelerazione digitale. Digital Marketing Turismo vuole anche fornire un diverso approccio divulgativo che non illuda il lettore con facili soluzioni preconfezionate, tecniche rivoluzionarie o formule vincenti, bensì sfatare le leggende metropolitane su prenotazione, distribuzione e revenue management, offrendo un approccio strategico, condiviso sin dalle prime pagine di ogni manuale, un metodo per approfondire lo studio e per applicarlo in maniera concreta. Email: info@musecomunicazione.it online: https://www.facebook.com/DigitalMarketingTurismo

The expanded edition

IEG

Italian Exhibition Group è ai blocchi di partenza con SIGEP 2021, il Salone della Gelateria, Pasticceria, Panificazione Artigianali, Caffè e rilancia con un'edizione speciale: SIGEP EXP - The expanded edition, estesa su un'intera settimana, con una forte presenza fisica e una strategica offerta digitale. SIGEP EXP si terrà dal vivo - momento insostituibile e decisivo d´incontro fra operatori - alla fiera di Rimini il 15, 16 e 17 marzo con una nuova collocazione temporale voluta pensando a una situazione mondiale più favorevole, per poi proseguire il 18 e 19 come Digital Agenda con una due giorni che farà leva sul knowhow tecnologico di IEG che attraverso una piattaforma agevolerà il matching tra aziende e buyer internazionali. Un progetto corale che nasce dall'ascolto del mercato e dalla volontà di affiancare associazioni e aziende per affrontare al top la stagione della ripresa del foodservice dolce. Le aziende troveranno una fiera leggera e smart, che consentirà di concentrarsi sugli affari e gli incontri. Il pubblico professionale in presenza potrà organizzare strategicamente la visita selezionando e salvando tra i preferiti, in base allo specifico interesse, aziende ed eventi, sfruttare il matchmaking, la modalità agenda per fissare appuntamenti, partecipare ai convegni, estendere le attività di networking. Il visitatore digitale potrà avvalersi di strumenti, per attivare chat e videochat, partecipare a tutti gli eventi disponibili in calendario da remoto e fissare appuntamenti virtuali. A completare il quadro dell´area espositiva, cinque aree eventi e sette aree speciali, alcune delle quali vere e proprie novità come Innovation Gallery, selezione delle ultimissime novità di prodotto, tecnologie e servizi per il mondo dell´Out of Home, e Meeting Zone, gli ´spazi salotto´ allestiti ad-hoc per gli incontri di business a disposizione di tutti gli espositori.


BORN TO BURN

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SILVER NEW GENERATION

NEW GENERATION

NEW GENERATION


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la Pizza alla romana di Giampiero Rorato

Storia di una evoluzione che continua

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redo non ci siano dubbi nel riconoscere che la pizza, pur piatto di antica origine, ricordata indirettamente anche nell’Eneide di Virgilio, è stata conservata nel tempo e poi rilanciata con spontanea bravura nella città di Napoli, dove è stata gustata e decantata da poeti e scrittori fin dal Settecento. Ed è sempre dal porto di Napoli che è partita nei piroscafi con le tante famiglie della Campania che già sul finire dell’Ottocento emigrarono nel Nord America, facendola poi conoscere ai residenti, tanto che è oggi uno dei business più importanti del settore alimentare degli USA. Reso omaggio a Napoli e al suo solido rapporto d’amore con la pizza, non va dimenticata che, soprattutto nel secolo scorso, la pizza si è diffusa da Napoli e dalla Campania in tante altre parti d’Italia, Roma compresa.

ii

È però vero che al di fuori della Campania la pizza è esplosa soprattutto a partire dalla metà del secolo scorso, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. E a Roma? C’era già da prima, come ci ricordano i vecchi pizzaioli romani. C’era da tempo nelle case. Storicamente nelle botteghe delle borgate popolari e anche in centro città la pizza era quella alla pala cotta nei forni, con o senza pomodoro, quindi bianca o rossa. Praticamente sempre quella, semplice, buona, soddisfacente e soprattutto poco costosa e quindi acquistata dal popolo, quello che faceva da contrappunto alla vecchia nobiltà, come ci ricorda il bellissimo film che racconta la storia del Marchese del Grillo, magistralmente interpretato dall’indimenticabile Alberto Sordi.

Le prime pizzerie moderne a Roma

Della storia millenaria della pizza ho molto raccontato negli anni scorsi nelle pagine di questa rivista, perché la storia della pizza coincide con la storia alimentare dell’umanità e sapere che centinaia e centinaia di generazioni, susseguitesi nel corso dei secoli e dei millenni, hanno inventato dapprima la pasta, ne hanno fatto dei dischi sottili che hanno cotto inizialmente sopra delle pietre roventi, e poi li hanno arricchiti coi sapori dei prati, dell’orto, dei campi e del mare; li hanno elaborati e affinati fino a regalarci oggi le stupende pizze che conosciamo, ci


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iii L’evoluzione Negli anni 80 si assiste in Italia ad un fiorire di iniziative culturali che interessano il mondo della pizza. Nasce l’Apes, la prima associazione di pizzaioli, poi l’Api, associazione pizzaioli italiani, nasce anche questa rivista e nascono i primi incontri tra pizzaioli e le prime gare da cui poi nascerà, per iniziativa di questa rivista, il Campionato Mondiale della Pizza. E a Roma? Nell’effervescenza di iniziative anche culturali, i pizzaioli romani, grazie ad alcuni di loro, molto attenti a quanto succedeva altrove, consapevoli che la pizza tradizionale aveva dei problemi, avevano cominciato a interessarsi presso panettieri o frequentando le prime scuole per pizzaioli, scoprendo così l’importanza della corretta lievitazione della pasta. In verità – e la cosa va detta per rispetto alla storia – c’erano in quegli anni 80 due tendenze, cioè due scuole di pizza. La prima, quella storica, cioè la napoletana, preparava velocemente l’impasto, e le palline di pasta, dopo breve lievitazione, venivano trasformate in disco, farcite, cotte e quindi vendute ai clienti. L’altra scuola, nata da poco anche in collaborazione con bravi panettieri artigiani, era sorta a Caorle, e, con l’aiuto anche di docenti universitari, aveva approfondito la conoscenza delle tecniche d’impasto e dei tempi di lievitazione e maturazione delle

impone di conservare nel migliore dei modi questo straordinario patrimonio alimentare che abbiamo ereditato perché lo possano godere anche le future generazioni. Ma la storia è alle spalle e, gettando con attenzione lo sguardo su Roma, la cronaca ci dice che le prime pizzerie popolari romane hanno iniziato ad aprire poco dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, attorno agli anni 50 del secolo scorso. Erano locali semplicissimi, con un tavolo da lavoro e il forno e, più in là, un banco di mescita di vino dei Castelli venduto sfuso e di bottigliette di

birra tenute nel ghiaccio, dove possibile. La grande diffusione delle pizzerie a Roma è avvenuta nel corso degli anni 60 del secolo scorso e si trattava di pizze al taglio, che hanno rappresentato il fast food più diffuso nella capitale e quel modo di preparare e servire la pizza era allora una caratteristica tipicamente romana. Si trattava di un secondo momento nell’evoluzione della pizza nella città eterna. Il primo era stato quello della pizza detta alla pala, in forno, con o senza pomodoro, cioè bianca o rossa, di derivazione domestica; poi, dagli anni ’60, la grande invasione delle pizzerie, con piz-

ze cotte in teglia e vendute al taglio con varietà di farce. Il fenomeno durò fino agli anni 80, con pizze sempre semplici, popolari, a basso costo anche per i consumatori e fu questo il motivo del loro successo.


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palline, col risultato che, seguendo i consigli dei panettieri e dei docenti universitari esperti del settore, la pizza, una volta cotta, risultava più leggera e digeribile. A Roma il passaggio dalla scuola napoletana tradizionale ad una conoscenza dei reali tempi tecnici di maturazione degli impasti si ebbe tra gli anni 80 e 90 del secolo scorso, con la conseguenza di un deciso miglioramento qualitativo della pizza romana, ma il dilemma continuò ad esistere, poiché molti pizzaioli rimasero fedeli alla vecchia tradizione e consideravano le novità quasi come un insulto alla pizza stessa. Questa situazione perdurò anche nei decenni successivi ed ancor oggi non tutti i pizzaioli romani accettano le novità, anche se la tecnica d’impasto e i tempi di lievitazione e maturazione per garantire ottima digeribilità alla pizza, come ebbe a promuovere fin dagli anni 80 la scuola veneta (chiaramente non legata alla tradizione), viene sempre più accettata sia a Roma che e a Napoli, dove i pizzaioli hanno fatto proprie le novità e la nuova pizza, realizzata con farine di ultima generazione e nel rispetto dei tempi necessari per una corretta lievitazione e maturazione della pasta, è definita “contemporanea”.

iv Un passo indietro Credo sia nella memoria collettiva dei romani il dolce e caro profumo della pizza bianca sfornata, con il sentore di olio d’oliva versato a crudo, data ai bambini prima che uscissero da casa per andare a scuola, buona durante la ricreazione, spezzafame nei pomeriggi tra i compiti e i giochi nei cortili o in strada. Ecco la pizza bianca dei romani, altrove conosciuta come focaccia. E, oltre a quella bianca, poteva essere preparata anche con il pomodoro, ed era la pizza rossa, di storia molto più recente, anche questa straordinariamente profumata e buonissima. E c’è un altro aspetto che incuriosisce chi ama la pizza. Le mamme nelle case preparavano l’impasto, lo stendevano velocemente col mattarello e la pizza ottenuta era “scrocchiarella”, cioè croccantina e molto sottile.

E, nell’immediato dopoguerra, dalle case alle botteghe il passo fu breve: pur con un forno più adeguato, pur con un bel fuoco a riscaldarlo, pur con l’uso della pala per infornare, la pizza era uguale a quella di casa, bianca o rossa, comunque scrocchiarella e proprio da qui ebbe inizio, circa settant’anni fa, la storia della moderna pizza alla romana. Sappiamo – come vedremo anche negli articoli che seguono - le tante diversità, le pizze più vicine alla tradizione e quelle definite gourmet: c’è oggi nella capitale una enorme varietà di proposte, frutto anche della cultura professionale, dell’ingegno e della fantasia dei pizzaioli e c’è soprattutto un’evoluzione in atto che promette bene, poiché, con i tempi che corrono, quando questo brutto periodo pandemico sarà final-

mente concluso (speriamo del tutto, grazie al vaccino per tutti), la pizza sarà ancora più importante, a Roma, a Napoli, a New York, a Tokio, cioè ovunque nel mondo e questi anni così intensi di studio, di ricerca e di evoluzione sfoceranno in un ancor maggior successo per la pizza, che sia alla romana, tonda, al tagli, lunga, per asporto o come altro la si vorrà fare, diventerà per tutti il piatto più ricercato, più gustato e più gradito.



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LA PIZZA APITALE

C È

di David Mandolin

corretto parlare di pizza alla romana o più appropriato parlare di pizza a Roma? Probabilmente la verità sta in entrambe le affermazioni. La pizza nel panorama gastronomico della città eterna gioca un ruolo fondamentale e, come tutti i processi che riguardano la capitale d’Italia, è il frutto di una continua evoluzione e mescolanza di tradizione, innovazione ed influenze portate da tutti coloro i quali, attratti per forza gravitasotto zionale dal fascino e dalle opportunità dida da definire offerte dalla città, decidono di viverci e di mettersi in gioco con la propria professionalità ed il bagaglio di conoscenze dei paesi d’origine. Nel 2018 due giornalisti – Lorenza Fumelli e Antonio Scuteri – proposero la bozza di un documento che voleva essere una riflessione sulla pizza a Roma e che sfociò prima nel Manifesto della Pizza Romana e poi nel Pizza Romana Day. Il

Manifesto non voleva rappresentare le “tavole della legge” bensì il punto di partenza per rispondere a un quesito ben preciso, ovvero se esistesse una tradizione gastronomica romana ben distinguibile dalle altre tipologie di pizza (pensiamo a quella napoletana in primis). Ne nacque una discussione e l’adesione, da parte di numerosi professionisti protagonisti della scena romana della pizza, ad un documento che rispondeva affermativamente al quesito. La pizza tipicamente romana c’è, ed ha caratteristiche ben precise, anche se non declinata in un unico stile bensì in quattro tipologie di lavorazione ovvero la tonda, la teglia, la pala e la pinsa. Dalle prime pizze nei forni romani (quella che oggi è più comunemente conosciuta come teglia) per passare poi a quella tipicamente tonda, bassa, croccante e sottile con assenza di cornicione si percorrono i decenni, attraversati da



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evoluzione e ricerca nelle materie prime, negli impasti e nelle farce e si arriva dunque ad oggi. Quello che state leggendo è un numero frutto di riflessione riguardo a cosa sia la pizza a Roma oggi e che tenterà di offrirvi, per quanto certamente in maniera non esaustiva, uno spettro di testimonianze di professionisti che, ognuno a modo proprio, hanno certamente contribuito alla “riscossa” della pizza alla romana in Italia e fuori dai confini.

Un piatto che non è semplice inquadrare perché, per l’appunto, si è evoluto profondamente nel tempo senza però perdere alcuni connotati di fondo che abbiamo provato a individuare attraverso la voce di quelli che sono veri e propri artigiani dell’arte bianca, pur avendo ormai interessi, notorietà ed – alcuni di loro -attività in tutto il mondo. Abbiamo deciso poi di allargare questa panoramica ai gioielli alimentari laziali, ai vini della regione che sempre più i bravi professionisti offrono in accompagnamento ai loro piatti così come del resto le birre artigianali per proseguire con alcune informazioni utili riguardo ad impasti e tecniche di preparazione e cottura.



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N ella città Santa più pizzerie che Chiese di Antonio Paduano

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Roma oggi ci sono circa 15.000 pizzerie e ciò fa capire quanto sia grande il consumo della pizza romana. Tipica frase nel gergo romano è “annamo a magnasse 'na pizza!”. Che sia pizza tonda, alla pala o in teglia non fa differenza, l'importante è che sia romana. La pizza romana tonda ha un diametro di circa 32/33 cm, viene stesa con il mattarello e resa fine, è condita a tutto bordo ed è caratterizzata da una bassa masticabilità e da un'elevata croccantezza. La pizza romana alla pala è lunga circa 70-80 cm e larga 30-32 cm, ha un bordo pronunciato e una stesura delicata che rende la pizza alveolata, croccante sotto e morbida sopra. La pizza romana in teglia è un prodotto che conserva una croccantezza importante e un basso spessore ma fa notare

comunque la sua alveolatura. La farcitura è a tutto bordo e la sua leggerezza e digeribilità la contraddistinguono.

C ome nas ce l a pizz a in te glia romana? Dopo gli anni '60, alcuni ternani tra i più famosi pizzaioli - Lino Tedeschi, Michele Checchi, Gianni Giochi - portarono nel consumo giornaliero dello “street food” la pizza in teglia alla romana. Nacquero le prime pizzerie rustiche e fu subito un successo: non c'era persona, dal più piccolo ai più grande, che ogni giorno non assaggiasse un pezzo di pizza. Tra le più consumate la classica focaccia bianca con sale e olio, la pizza rossa con pomodori pelati schiacciati a mano, la pizza con i funghi champignon, quella con le patate e la famosa e semplice pomodoro e mozzarella.


Dagli anni '60 già si iniziava a utilizzare per la pizza una farina proteica con circa l'11-12% di proteine (300/340 W) con l'aggiunta di strutto raffinato e deodorato, che conferiva alla pizza una croccantezza, una dolcezza e una friabilità notevoli. Un morso tirava l'altro per quanto era gustosa. Già dagli anni '80, molti pizzaioli, per motivi salutistici, dietologici e religiosi (per rispetto a clienti di religione ebraica e nusulmana), hanno sostituito lo strutto con l'olio d'oliva e si sono convertiti a metodi diversi di impasto. La popolazione ricercava prodotti gustosi ma sani, con meno calorie, più leggeri e facilmente digeribili. Dopo il 1992, a seguito della forte spinta verso il perfezionamento e la migliore conoscenza delle materie prime, sono nate le prime scuole per pizzaioli. La prima è stata quella di Via Vaglia a Roma, poi trasferita a Via Taro. Da quel momento il mondo della pizza è cambiato. Iniziò l'utilizzo di farine più “forti”, con l'aggiunta di soia (grasso vegetale), che davano la possibilità di idratazioni più alte (fino all'80%) e di maturazioni più lunghe, per ottenere la famosa pizza alveolata, croccante e digeribile. Grazie a queste nuove caratteristiche, il consumo di pizza romana in teglia e alla pala è cresciuto enormemente. Di conseguenza, la “tecnologia” della pizza si perfeziona: nascono forni specifici per ogni tipo

di pizza, impastatrici performanti capaci di sostenere alte idratazioni, diversi tipi di pomodori e diversi tipi di mozzarella. Gli addetti ai lavori, artefici della buona riuscita della pizza romana (produttori di forni, di attrezzature per l'impasto, aziende alimentari), si impegnano per la ricerca dei migliori sistemi di lavorazione in tutte le fasi di creazione della pizza, con la finalità di ottenere la perfezione della classica pizza romana.

C ome si s ono evolu te le farine ne gli anni? Vista la forte crescita del numero di professionisti e della richiesta di prodotti sempre più di qualità e performanti, i molini hanno iniziato a lavorare diversi tipi di farine e mix per ogni esigenza. In base alla loro caratteristica, le farine offrono diverse possibilità di lavorazione. Le farine più povere di W e proteine permettono impasti a breve maturazione (fino a 12 ore) e con poca idratazione (massimo 60%). Farine con un W più alto e un maggior livello proteico (circa 11-12%) consentono un periodo di maturazione più lungo


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(fino a 48 ore con temperature controllate) e un'elevata idratazione (fino all'80%). Molti molini oggi creano mix di farine per offrire un prodotto più facile nella gestione e con caratteristiche precise, per migliorare i profumi, la stabilità e garantire un mantenimento più lungo al banco. Per sfornare una buona pizza tonda romana, croccante e sottile, occorre partire dalla scelta di una farina di circa 280/300 W, con una proteina del 12%, un impasto idratato al 60% e con 20 grammi di olio evo per kg di farina, 25 gr di sale per kg di farina e 4-5 gr di lievito per kg di farina. Appena concluso l'impasto, che dovrà avere una temperatura di circa 24 gradi, si inserisce lo stesso in frigo e si lascia maturare per 24 ore circa. Dopodiché, lo stesso impasto andrà suddiviso in panetti di peso di 180/200 grammi per ottenere, alla stesura, un diametro di 32/33 cm. Quando i panetti avranno raggiunto il doppio del volume iniziale, si stenderanno con il mattarello. La pizza andrà infornata per 3-4 minuti alla temperatura di 300-310°.

P

ANTONIO ADUANO Antonio Paduano, di Roma, consulente alimentare specializzato in farine, panificazione e farciture.

Per una pizza romana alla pala croccante ed alveolata occorre utilizzare una farina del 320/340 W; per ottenere una idratazione più alta, di circa 70-75%, bisogna impastare utilizzando sempre acqua e farina fredde, così da ottenere una maglia glutinica più forte, che aiuterà anche l'assorbimento dell'acqua. Per l'impasto occorrono 20 g di olio evo per kg di farina, 22/25 g di sale per kg di farina e 4-5 g di lievito. Quando l'impasto avrà raggiunto i 24°, si inserisce lo stesso in frigorifero per 24 ore. Successivamente lo stesso impasto andrà suddiviso in panetti di peso di 900 g circa, da far riposare a temperatura ambiente fino al raggiungimento del doppio del loro volume iniziale e di una temperatura di circa 21-22°, che favorirà la stesura. La pizza alla pala ha di norma una lunghezza di 70-80 cm e una larghezza di 30-32 cm. Una volta steso, l'impasto andrà cotto in forno a 280/290° per circa 7/9 minuti a seconda della farcitura. L'impostazione del calore del forno sarà di circa il 70% di cielo e il 30% di platea.

Per una pizza in teglia alla romana va utilizzata una farina di circa 360/380 W, con una proteina del 13-14%, da idratare al 75/80% con acqua fredda a circa 4°. Per l'impasto occorrono 20 gr di olio evo per kg di farina, 23-25 gr di sale per kg di farina e 3-4 gr di lievito. Dopo aver impastato per circa 18 minuti, bisogna attendere che l'impasto raggiunga una temperatura di 23-24° e lasciar riposare in frigo per 36/48 ore. Per cuocere in una teglia di 60x40 cm andrà spezzato l'impasto in panetti di 900/950 gr per le pizze da farcire, di 1,3/1,4 kg per la focaccia bianca. Quando i panetti avranno raggiunto il doppio del loro volume iniziale e una temperatura di 21-22° circa, andranno stesi delicatamente sulla teglia, senza eliminare l'aria che si è creata al loro interno, per ottenere l'alveolatura. L'impasto andrà cotto preferibilmente in un forno con la bocca di 12 cm a una temperatura di circa 300/320°. L'impostazione del calore del forno sarà di circa il 30% di cielo e il 70% di platea.


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Non solo farine.

L’importanza delle attrezzature con Fabrizio Contino

N

el nostro viaggio all’interno del mondo della pizza a Roma abbiamo intervistato Fabrizio Contino (Food&beverage consulting manager con esperienze professionali in buona parte del mondo), per approfondire alcune tematiche riguardanti il rapporto strettissimo tra una buona pizza romana e la giusta scelta – nonché il corretto uso – delle attrezzature in pizzeria. “Ho da sempre sviluppato e testato molti brand di materie prime – ci racconta Fabrizio - e mi sono altresì sempre impegnato a consigliare le attrezzature più adatte sul mercato in base al progetto ed alle esigenze dei clienti. Molte volte noto che si pone il focus solo sulle materie prime (farine, lieviti, olio e via elencando) ma va ricordato che il risultato di un buon prodotto è dato da una sinergia di fattori ovvero le materie prime, attrezzature adeguate e la conoscenza professionale del pizzaiolo. Partendo infatti dal concetto che un’ottima qualità delle materie prime è basilare per creare un buon prodotto finale, dobbiamo anche fare molta attenzione alla scelta degli strumenti che devono essere presenti in laboratorio.”

En triamo nel merito “Prima di tutto quale progetto vogliamo sviluppare? Oggi il mercato della pizza si sviluppa principalmente in tre tipologie: pizza tonda, alla pala, in teglia. Possiamo tranquillamente affermare che le tipologie di impasto si differenziano tra loro per l’idratazione, i tempi di maturazione/lievitazione e il peso del panetto. L’importanza della scelta del forno è basilare. Noi coccoliamo il nostro impasto, a volte, per giorni e potremmo rovinare tutto negli ultimi minuti durante la cottura! Essendo la cottura definita come la rimozione rapida di umidità, più alta sarà l’idratazione della pizza più dovremo usare un metodo di cottura che sia dolce e non aggressivo, per evitare che la pizza sia cotta all’esterno e cruda all’interno. Partendo da questo concetto di base, andiamo ad analizzare le varie tipologie di pizza e gli abbinamenti a mio avviso più appropriati con le attrezzature.

Pizza tonda: potremmo dire in maniera grossolana che si divide fondamentalmente in due tipologie (in realtà ne esistono molte di più) ovvero quella classica e quella napoletana. Per questi tipi di pizza abbiamo solitamente un’idratazione (rapporto acqua-farina) che varia dal 55% al 65%, cioè per ogni kg di farina avremo 550650 g di acqua, e un peso che varia dai 180 g ai 250 g per panetto di pizza. Questa pizza richiede una cottura “aggressiva” anche perché essendo poco idratata potremmo rischiare di asciugarla troppo rendendola troppo secca. Servirà quindi una temperatura che potrà variare dai 320°C per 3 minuti circa fino ad arrivare ai 450° C per 60/90 secondi nel caso della pizza napoletana. In questo caso possiamo usare tutte le tipologie di forni, anche se ad esempio il disciplinare STG sulla Napoletana richiede rigorosamente il solo uso di forno a legna. Pizza alla Pala: qui l’idratazione varia dal 65% al 75%. Questa pizza viene cotta direttamente su pietra come la pizza tonda, ma attenzione, perché ha più idratazione quindi la temperatura di cottura scende rigorosamente tra 275°C ai 300°C per circa 6 minuti. Questa pizza ha bisogno di una cottura meno aggressiva.


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Solitamente in questo caso si usa un forno elettrico per ottenere una cottura uniforme, anche se i pizzaioli professionisti riescono a cuocere un ottimo prodotto anche nel forno a fiamma che si tratti di legna o gas. Pizza in Teglia: idratazione, che varia dal 75% al 90%. Questa pizza a mio avviso richiede rigorosamente l’uso del forno elettrico statico altamente performante, perché ha bisogno di una cottura dolce che si avvicina a certi tipi di cottura di pane, 275°C - 295°C per 10-15 minuti a seconda dei condimenti presenti sulla pizza. Viene cotta su una teglia di ferro alimentare che quindi fa da ostacolo alla legge di conduzione della cottura: per questo motivo avremo bisogno di incrementare la potenza-temperatura del suolo ed abbassare la temperatura del cielo della camera di cottura. Ecco spiegata la necessità del forno elettrico.”

Parliamo di pre stazioni dei forni; quali s ono le t ue os servazioni al riguard o? “Ritengo che le performance che i forni devono assolutamente avere, indipendentemente dal fatto che siano a fiamma o elettrici, siano sì il range di temperatura ma soprattutto il volano termico, ovvero la capacità di mantenere le temperature in cottura, specialmente quando parliamo di pizza in teglia ad alta idratazione. Paradossalmente infatti noi potremmo anche cuocere con un normale forno casalingo, perché la temperatura lo permetterebbe, ma incorreremmo nel problema del mantenimento della temperatura: alla prima infornata riscontreremmo un calo di temperatura anche di 80°C-90°C che ci bloccherebbe da una normale produzione di pizza professionale e non casalinga. Un consiglio importante può essere quindi di fare un’attenta analisi in merito alla coibentazione dei forni e, nel caso dei forni elettrici, un’attenzione particolare alle resistenze elettriche, che devono essere numericamente ben presenti nella camera di cottura. Un altro parametro che ritengo importante e che adotto sempre nella scelta dei forni è il peso del forno stesso: più il forno è pesante più sarà ben coiben-

tato e più mi aiuterà durante il lavoro di punta, ovvero quando gli richiederò massime prestazioni senza perdere in temperatura di cottura.”

È me glio cuo cere c on camino aperto o chius o? C ome influis ce l’umidità e c ome ge stirl a? Un altro elemento che deve essere presente nel forno elettrico è la presenza della valvola apertura/scarico vapori (detto anche camino) che serve ad asciugare i condimenti della pizza. Starà quindi all’esperienza dei pizzaioli aprirla o meno in modo da equilibrare la cottura dell’impasto e dei condimenti messi. Valvola aperta vuol dire fare uscire umidità da ciò che è in cottura quindi una pizza con condimenti molto umidi avrà bisogno in fase finale di aprire la valvola, ma generalmente la pizza si cuoce in forno statico, quindi senza ventilazione con valvola chiusa. Perché? Specialmente nella teglia, dove la gestione degli impasti è fondamentale (ma è altrettanto imprescindibile preservare la pizza fino all’assaggio finale del cliente che dovrà rigorosamente


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assaggiare un prodotto croccante fuori e morbido dentro), la gestione post cottura è fondamentale. La pizza in teglia si basa su un concetto di “tentata vendita”: il pizzaiolo prepara una varietà di teglie che poi verranno messe sul bancone espositivo e il cliente assaggerà il trancio di pizza scelta e che dovrà anche essere riscaldata. È bene dunque tenere presente che i tempi di esposizione delle pizze in teglia sono nemiche della fragranza e friabilità della pizza stessa. Un consiglio utile può essere quello di mantenere una riserva di umidità tra impasto e condimento che al momento del riscaldamento daranno quella fragranza, morbidezza e croccantezza equilibrate, cuocendo quindi la teglia al 95% e mantenendo quel 5% di cottura finale nel riscaldo del trancio di pizza, prima di servirla al cliente.”

Che tip o di materiale c ostru t tivo s ce gliere per l a te glia vera e propria? “La pizza in teglia si cuoce su teglie di ferro alimentare e non su teglie di alluminio, questo perché il materiale giusto da utilizzare deve essere propagatore diretto di calore per una giusta croccantezza (il crunch) mentre l’alluminio si utilizza nella cottura di focaccia tipo “sfincione palermitano” o “focaccia pugliese” che non deve presentare troppa croccantezza.”

Pre c ot t ura o c ot t ura dire t ta? “Lasciamelo dire, qui si apre un altro mondo! Sicuramente la cottura in diretta delle pizze in base alle “richieste del bancone espositivo” è la soluzione migliore per mantenere tutti i valori organolettici del nostro prodotto, ma in alcuni casi si può adottare anche la tecnica della pre-cottura delle basi. La pre-cottura a mio avviso ha i suoi pro e i suoi contro. Tra i pro possiamo elencare il maggior risparmio in generale a discapito probabilmente della freschezza del prodotto, ovvero il fatto che venga usata in quei tipi di business dove abbiamo poca manodopera disponibile e picchi di flusso di vendita concentrati in pochissime ore. I tempi di stesura, condimento e cottura sono nettamente più lunghi rispetto alla pizza tonda quindi programmare una pre-cottura del solo impasto, pronto ad essere condito e finito di cuocere in un secondo tempo, contribuisce molto all’esigenza di avere il banco espositivo sempre pieno. Attenzione però a come conserviamo gli impasti di pizza precotti, altrimenti ci ritroveremo solo pizze secche. I contro dell’uso della pre-cottura sono diametralmente opposti: maggior investimento nella manodopera che richiederà un team di almeno tre pizzaioli: uno che stende, uno che condisce e uno al forno.”

Che tip o di impastatrice p os siamo usare per o gnuno dei tre tipi di pizz a? “Sicuramente bisogna capire la quantità di produzione e in alcuni casi che tipo di prodotto andremo a fare. È bene ricordare che le impastatrici che hanno la possibilità di aumentare le velocità si presentano come più adatte agli impasti ad alta idratazione, che richiedono una velocità maggiore di impastamento. Attenzione poi ad una componente fondamentale ovvero l’attrito. L’attrito durante l’impastamento è “nemico” della lunga maturazione-lievitazione, dove abbiamo bisogno di avere una temperatura finale degli impasti abbastanza fredda, intorno ai 18°C-20°C. Quindi più attrito avrò e più il mio impasto uscirà caldo dall’impastatrice. Un altro consiglio utile – che può sembrare banale ma vi assicuro che capita spessissimo - è quello di decidere subito la capacità dell’impastatrice per non doversi trovare a sprecare molto tempo nel preparare doppi o tripli impasti pagando il personale inutilmente. La mia pizzeria ideale ha comunque una doppia impastatrice per sviluppare un maggior numero di tipologie di impasti, per stupire sempre le aspettative del cliente e perché no, in caso di problemi tecnici, avere comunque un’altra macchina di back-up che mi permetta di sopperire al problema e lavorare comunque.

Fabrizio, siamo giun ti all a fine di que sta chiac chierata.

C ’è altro che vuoi c ondividere c on i t uoi c olle ghi?

Si. Vorrei che ci ricordassimo sempre che possiamo anche usare le migliori materie prime, ma senza le attrezzature giuste e performanti per svilupparle - ed è ovviamente vero anche il contrario -, non sarà mai possibile ottenere risultati come da professionisti affermati nel mondo della pizza.



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Gabriele Bonci:

MI CONSIDERO UN FORNARO. di David Mandolin

sopra Gabriele Bonci nella pagina accanto il Pizzarium

È

difficile descrivere e tratteggiare l’influenza che Gabriele Bonci ha avuto sul movimento della pizza, in Italia e nel mondo, senza rischiare di utilizzare termini troppo enfatici. Quello che è certo è che possiamo dire vi sia un prima e un dopo Bonci. Nato nel 1977 a Roma, Bonci rapidamente si è affermato sulla scena nazionale e internazionale ridefinendo e evolvendo la pizza a Roma, grazie a passione, certosina ricerca nelle farine e valorizzazione anche di grani “minori” per non parlare della qualità delle materie prime utilizzate per le sue farce, che si riflettono sia in proposte tradizionali che coraggiose ma mai azzardate. “Dopo aver terminato gli studi alberghieri, ho lavorato in alcuni tra i migliori ristoranti della capitale, con un ottimo riscontro di pubblico e critica, fino a

quando nel 2003, decisi di aprire un locale tutto mio e non avendo i soldi per aprire un ristorante, decisi di cominciare con una pizzeria al taglio: così nacque Pizzarium. Nel 2012 sempre più affascinato dal mondo del pane e dei lieviti, aprii il mio Panificio e da allora non ho mai smesso di approfondire gli studi e le tecniche di panificazione: io mi considero un fornaio, più che un pizzaiolo. Nel 2016 ho aperto un corner al Mercato Centrale di Roma e nel 2017 sono approdato oltre oceano inaugurando il primo negozio Bonci a Chicago. Nel 2019 dopo svariate stagioni alla Prova del Cuoco, ho condotto un programma tutto mio, Pizza Hero, portando per la prima volta in televisione un format che vedeva come protagonisti fornai e pizzaioli e ottenendo una grande risonanza mediatica”.


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C osa significa per lei pizz a all a romana? O me glio, l a pizz a a Roma? “La pizza per me significa infanzia: mio padre che tra un giro e l’altro mi portava a mangiare nelle pizzerie al taglio di Roma; significa amore per un prodotto troppo spesso umiliato con l’utilizzo di ingredienti di bassissima qualità. Ecco perché ho deciso di nobilitarlo”.

Qual è il c once t to che p orta avan ti C ON IL suo l avoro? “Il concetto che porto avanti è sempre lo stesso: una pizza senza compromessi che sia veicolo di divulgazione di una cultura gastronomica, i cui valori fondanti siano il buono, pulito e giusto, oltre alla tutela dell’agricoltura, quella vera, i cui protagonisti sono eroi del nostro tempo. Quando ho iniziato, decisi che avrei cucinato sulla pizza, creando dei veri e propri piatti. Questo in un primo momento mi valse qualche presa in giro, da parte di pubblico e colleghi, ma poi il tempo mi diede ragione”.

che carat te ri stiche ave va l’impasto c on cui “è nato profe s sionalmen te ” e che l a c on traddistingue ? “Alta idratazione, giusta maturazione e grande digeribilità. Queste sono state da sempre le caratteristiche principali del mio impasto, soffice e croccante allo stesso tempo, senza trascurare ovviamente l’utilizzo di farine macinate a pietra e 100% naturali”.

Parliamo di farcit ure , che lei prop one sempre in tantis sime varianti: ac curate , tradizionale ma anche c o rag giose . C ’è un filo c ondu t tore ?

“Ovviamente nasco cuoco e questo nelle mie creazioni si vede, ma credo che il filo conduttore sia la grande curiosità per il mondo della cucina, che mi ha portato inevitabilmente ad una profonda conoscenza delle materie prime. Solo con la conoscenza si possono creare abbinamenti che non siano banali o sbagliati”.

Leggiamo dal suo sito una frase interessante, per noi che amiamo l’arte bianca. Cosa significa per lei che i fornari resistono? “La frase esatta è: “i panettieri esistono, i “fornari” resistono. Questa frase pone l’attenzione su tutte quelle realtà di panificazione artigiana, che fanno il proprio lavoro con estrema passione, lavorando anche di notte, se è necessario, resistenti alle mode ed alle scorciatoie e che non cadono nella trappola del pane, come forma di arredamento, ma credono in un prodotto naturale, buono e sostenibile”.


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RICETTe: PANE MULTICEREALI Ingredienti:

500 g farina tipo 0 200 g farina integrale 100 g farina di grano duro 100 g farina di segale integrale 100 g farina di farro integrale 100 g di semi misti 200 g lievito naturale 700 g acqua 10 g di sale.

Preparazione Mettere a mollo i semi in 100 g di acqua per una notte. In una ciotola mescolare la farina e il lievito, quindi aggiungere l’acqua in più riprese. Impastare fino ad ottenere un impasto ben amalgamato ed infine aggiungere il sale. Far riposare l’impasto per 10 minuti, poi fare delle piegature di rinforzo. Ripetere questo passaggio due o tre volte.

Spargere i semi sull’impasto e lavorarlo ancora, fino a farlo diventare omogeneo, poi metterlo a lievitare in frigo per circa 26 ore. Togliere l’impasto dal frigo e procedere alla spezzatura, dando al pane una forma rotonda, quindi infornare al massimo della temperatura per 10 minuti, poi abbassare la temperatura a 160 gradi e cuocere per circa un’ora.

Preparazione

pizza con la coda alla vaccinara

sotto manca dida

Impasto:

Per condire:

1 kg di farina tipo 0

200 g di patate precedentemente

800 g di acqua

tagliate a mandolina e tenute a bagno

30 g di olio Evo

per una notte,

15 g di sale

200 g di coda alla vaccinara,

3 g di lievito di birra secco.

sedano tagliato a costine.

Mescolate il lievito di birra e la farina; impastate con 700 ml di acqua. A questo punto aggiungete il sale, l'olio ed ancora 100 ml di acqua. Impastate per lungo tempo e lasciate riposare per 10 minuti circa. Piegate la pasta, più volte, verso l’interno. Riponete in una ciotola unta d’olio e chiudete con la pellicola. Mettete a lievitare in frigorifero per 24 ore. Tirate fuori l’impasto dal frigo, formate le pezzature desiderate e lasciatele riposare a temperatura ambiente per circa 2 ore. Procedete alla stesura, poi trasferite la pasta nella teglia e cominciate a condirla con le patate. Cuocete nella parte bassa del forno preriscaldato al massimo della temperatura per circa 10 minuti, poi terminate la cottura nella parte centrale del forno. Sfornate ed aggiungete la coda alla vaccinara e le costine di sedano.


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Angelo Iezzi.

La pizza è la mia vita. di Caterina Orlandi

sopra Angelo Iezzi accanto Un interno della pizzeria Angelo e Simonetta

A

ngelo Iezzi è considerato unanimemente tra i precursori della pizza in teglia alla romana così come oggi è conosciuta. Appassionato pizzaiolo fin dalla giovanissima età, a poco più di vent’anni apre con la moglie la pizzeria “Angelo e Simonetta” in via Nomentana, dalla quale comincia a sperimentare ed a proporre progressivamente un concetto di pizza nuovo rispetto a quello fino ad allora conosciuto dai clienti. Dall’apertura di quella pizzeria – tuttora operativa – di strada ne è stata fatta molta: dalla vittoria ai Campionati del Mondo a Salsomaggiore alle “3 rotelle” nella guida del Gambero Rosso alla presidenza dell’Associazione Pizzerie Italiane.


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C osa significa per lei pizz a all a romana? Ha un significato molto speciale, perché racchiude insieme la mia vita umana e professionale. Sul finire degli anni ’80 le pizzerie della Capitale facevano la pizza. Punto. Questo mi ha spinto ad iniziare un percorso – mai finito – di ricerca e sperimentazione, che ha portato alla nascita dell’impasto a lunga lievitazione che la rendeva più digeribile. Prima era solo pizza in teglia, dal 1990 è diventata ‘pizza in teglia alla romana’. Per la prima volta in Italia, nella mia pizzeria al taglio di via Nomentana. Poi è iniziata la contaminazione che oggi - e lo dico con soddisfazione – vede tantissimi giovani pizzaioli lavorare su quei parametri, ovviamente ognuno mettendoci del proprio com’è giusto che sia! Ma posso garantirle che in via Nomentana le cosiddette ‘bolle’ si facevano già trent’anni fa. Pizza alla romana significa anche formazione. Sono tornato da poco dall’Icca di Dubai – una delle scuole di pizza aperte nel mondo con l’Api - di cui sono

orgogliosamente presidente. Portiamo il nostro know how all’estero, e per me la formazione è il primo step per tutelare e valorizzare la pizza come Made in Italy nel mondo. Oltre a Dubai siamo a Seoul, Dublino, Costa Azzurra e New York.

Che carat teristiche ha l’impasto che pro p one e che l a c on traddistingue ? Ogni situazione di lavoro ha il suo tipo di impasto: io proseguo sulla linea tracciata nel lontano 1990 dove nasce la pizza a taglio alla romana come oggi è conosciuta. Lunga lievitazione/maturazione, pochi grassi, solo olio extra vergine di oliva, alta idratazione e lievito bilanciato: praticamente la tecnica dell’ossigenazione controllata a freddo. In questo lungo percorso abbiamo apportato delle continue migliorie sia agli ingredienti (farina olio lieviti e via elencando), che nelle attrezzature. Poi negli ultimi anni abbiamo inserito negli impasti una parte di lievito madre

importante per dare ancor di più stabilità, digeribilità, profumi e sapori. Tutto questo è stato possibile collaborando con le aziende del settore che ci hanno messo a disposizione il loro sapere ed al contempo seguito le nostre indicazioni. Negli anni poi volevo aggiungere che il metodo di lavoro non è cambiato di molto, sono cambiati gli ingredienti che ci hanno permesso di stabilizzare ancor di più la tecnica dell’ossigenazione controllata a freddo.

Come trasmette il suo legame col territorio? Io sono di Roma, perciò i nostri cavalli di battaglia sono innanzitutto cacio e pepe, carbonara, amatriciana e gricia; poi chiaramente si spazia un po’ su tutto il territorio nazionale cercando sempre le eccellenze. Questo deve essere il filo conduttore. Per valorizzare un buon impasto bisogna usare delle materie prime di alta qualità. Utilizziamo spesso il piccante in tutte le sue sfaccettature, tartufo e spezie senza esagerare.


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SVOLGIMEN TO Tutta la farina

La ricetta Ingredienti:

10 kg di farina

Tutto il lievito di birra 6,5 lt di acqua Tutto il lievito madre (metterlo dopo aver messo l’acqua) Impastare fino a quando non si è formata la zucca

“pizza a taglio alla romana” W 380

Tutto il sale

8 litri di acqua fredda (4°)

Impastare

250 gr olio EVO

Tutto l’olio

250 gr sale

Impastare

10 gr di lievito di birra secco (30 fresco) 300 gr di lievito madre fresco sotto manca dida

L a pizz a di Ie zzi

1, 5 litri di acqua ed impastare fino a che l’impasto non risulti ben asciutto e non appiccicoso e in qualsiasi caso non dovrà superare la temperatura finale indicata, che dovrà essere 19°/21° d’estate e 21°/23° di inverno. Lasciar riposare l’impasto nell’impastatrice per 15 minuti, poi far fare un giro all’impastatrice; a questo punto levarlo e riporlo in frigo in cestoni tra 9/11 kg alla temperatura di 4° Dopo 24 ore rigenerare l’impasto e riporlo in frigo. Dopo altre 24 ore rigenerare di nuovo e riporlo in frigo. Dopo altre 24 ore formare le pagnotte del peso desiderato e riporle in frigo per altre 24 ore. A questo punto l’impasto è pronto, tirare fuori le cassette almeno 3/4 ore prima di lavorarle.

Una base cotta con mozzarella vaccina, mozzarella di bufala, pepe ed erba cipollina. In uscita carciofi arrosto, mozzarella di bufala, burrata ed abbondante prezzemolo.


LE AZIENDE INFORMANO

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Linea Dori 3000 SRL LINEA DORI 3000 SRL Via di Vigna Girelli 48/b 00148 Roma, Italia Tel/Fax +39 0665671626 info@lineadori.com

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L

a Linea Dori nasce nel 1950, fondata da Cesare Dori. Ha una storia romantica che profuma di pane e di legno, che affonda le sue origini in una piccola bottega artigiana nel centro storico Roma, dove ogni pezzo veniva realizzato a mano con legni selezionati e stagionati. Fabio Dori, figlio di Cesare, amando il lavoro del padre, ha portato avanti la sua piccola bottega trasformandola in un’azienda. La Linea Dori, ad oggi, è leader nella progettazione e produzione di attrezzature professionali per panifici e pizzerie. Tali attrezzature, apprezzate in tutto il mondo per loro unicità, robustezza e funzionalità, vengono costruite con macchinari all’avanguardia nel rispetto di antiche tecniche di lavorazione, usando legnami che provengono da foreste ecosostenibili con programmi di rimboschimento. I suoi prodotti in legno vengono

realizzati esclusivamente con legnami non trattati chimicamente e la lavorazione viene effettuata senza l’uso di colle, o qualsiasi altro prodotto nocivo che venga a contatto con gli alimenti. I prodotti dedicati all’infornamento sono accompagnati da certificato di idoneità. Inoltre, tutti gli articoli destinati ad entrare in contatto con gli alimenti sono lavabili a mano, grazie alla finitura alimentare certificata con cui vengono trattati. La Linea Dori 3000 srl è in costante aggiornamento per tutte le esigenze degli operatori dell’Arte Bianca garantendo il massimo della professionalità con un prodotto certificato e idoneo alle normative vigenti, GMP e ISO9001. La sua missione è quella di migliorarsi sempre e di portare nel futuro la sua tradizione Made in Italy attraverso l’impegno della terza generazione, Fabiola e Camilla Dori.

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Edoardo Papa.


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InFucina, il ristorante che ama la pizza. di D.M.

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ell’esplorare il panorama gastronomico della Capitale non potevamo dimenticare Edoardo Papa. Con il suo InFucina fornisce una prospettiva diversa nell’interpretazione della pizza , che diventa un'esperienza unica per il cliente. “La mia esperienza deriva da oltre 30 anni di cucina come autodidatta. Non mi sono ispirato a nessuno, ho soltanto dato spazio alla mia creatività. Ho avuto la fortuna di girare l'Italia da nord a sud e in ogni regione ho curiosato e approfondito le tradizioni, soprattutto culinarie. Quando ho aperto In Fucina, ho semplicemente messo le mie ricette sul disco di pizza piuttosto che sul piatto, partendo da una riflessione: noi italiani siamo abituati a mangiare quasi tutto con il pane, e allora perché non usare la pizza sia come pane che come piatto? In sintesi io amo la cucina e la pizza, così ho deciso di metterle l'una sull'altra.”

C osa significa per lei pizz a all a romana? O a suo avvis o è più c orre t to parl are di “pizz a a Roma”? “Preferisco essere considerato un artista che quotidianamente dipinge le proprie tele, mai uguali al giorno precedente, quindi non mi piace essere catalogato, cerco di creare una pizza che somigli al mio modo di pensare, senza appartenere a nessuna scuola. “

Che carat teristiche ha l’impasto che pro p one e che l a c on traddistingue mag giormen te ? “L'impasto che lavoro non è né romano né tantomeno napoletano, in questi 11 anni ho usato e creato almeno 50 tipi di impasti, partendo però sempre da farine biologiche, macinate a pietra e senza

nessun additivo, miglioratore o qualsiasi altra "diavoleria" che le rendano più facili da lavorare. Una condizione imprescindibile della mia cucina è la "digeribilità"! Guai se quello che preparo risulta pesante. La caratteristica fondamentale del mio lavoro è la ricerca costante e continua di materia prima naturale, sostenibile, "PURA", così come lo devono essere i miei fornitori. Ultimamente ho provato una farina di grani antichi, proveniente dal Molise, che viene coltivata con sistemi di aratura ante 1950, con macchinari moderni che rispettano i canoni delle coltivazioni medievali. Il sistema di aratura è quello con l'aratro di 5 cm che smuove solamente la parte superficiale del terreno, dando al seme la parte più nutritiva della Terra. Lo sa che un terzo dell'anidride carbonica prodotta viene dalle coltivazioni tradizionali con l'aratro che va oltre 50/60 cm in profondità e che in questo modo sprigiona carbonio? Lo sa che se si continua così in Italia, tra 50 anni le nostre terre saranno completamente infertili? Che in Italia solamente lo 0,8% è coltivato con l'aratura a 5 cm? Noi dobbiamo diffondere queste informazioni e sensibilizzare quanto più possibile l'opinione pubblica.”


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La passione con cui Papa ci spiega la sua filosofia di lavoro è davvero piena di trasporto. E gli chiediamo ancora:

Perché In F ucina è “il ristoran te che ama l a pizz a”? Che me s sag gio in tende dare ? “Le mie ricette nascono sempre dalla stagionalità dei prodotti, il mio modo di preparazione scaturisce dal momento, dall'intuito e dalla sensazione che deriva dalla materia che ho davanti. La pizza rappresenta una "stoviglia" sulla quale adagiare le ricette create. Una ricetta cui sono particolarmente legato consiste in mostarda di pere e mele bio, ricotta e mozzarella di bufala e speck affumicato artigianale, il tutto poggiato su una focaccia bianca e cotta in tempi e modalità diverse. Aggiungo l'ultima novità che riguarda il delivery che tra breve metterò in campo: le pizze arriveranno a casa con sotto l'ultima cottura da fare e gli ingredienti manca didaper farcirle, insieme alle istruzioni con un barcode che permetterà di aprire un video che aiuterà il cliente a concludere perfettamente il processo. Le pizze saranno molto semplici da finire, ma sempre con la qualità che mi contraddistingue, con materie prime di assoluto livello e ad un prezzo "sorprendente".”


Mantenimento ad alto


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Francesco Roscino. Pizzeria Emma, Roma di C.O.

accanto Uno scorcio della pizzeria Emma


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“I

o nasco selezionatore di prodotti. Nel 2002 ho aperto la mia prima società di selezione e fornitura per la ristorazione e mi occupavo principalmente di prodotti francesi, fra cui il sale di Guerande. Attraverso questo prodotto ho conosciuto Pierluigi Roscioli del forno Roscioli, che cercava un sale grezzo per il suo Lariano. Da lì è iniziato un percorso professionale che ci ha portato a collaborare quasi continuamente nel primo decennio dei 2000, ad avere un ristorante temporaneo insieme e soprattutto a diventare amici fraterni. Nel 2013 ho deciso di rilevare una storica pizzeria nella via adiacente al forno e di intraprendere un percorso mio, facendo della selezione di materie prime l’elemento centrale dell’offerta di forno e cucina, quella che poi è diventata “Emma”. Con Pierluigi abbiamo messo a punto l’impasto, che è composto da diverse tipologie di farine di diversi molini, tutte biologiche. La sua firma sull’impasto è stato il suo regalo di inaugurazione del locale. “ È Francesco Roscino a parlare, patron di Emma, pizzeria con cucina nel cuore di Campo de Fiori, tra i primi protagonisti della rivisitazione della pizza romana.

“Il concetto di pizzeria in Italia è quello di un locale popolare, accessibile a tutti. Dove si possa mangiare senza troppa formalità “una pizza tra amici”. Emma ha dimostrato che questo concetto si può applicare anche a un prodotto di altissima qualità, con un incremento di prezzo non così elevato. La risposta da parte della clientela è stata entusiastica. A questo concetto abbiamo aggiunto quello di ristorante puro, con una cucina che propone un menu molto articolato, della tradizione ma sempre basato sulla materia prima. La stagionalità, il biologico, la cucina espressa: il tutto applicato anche al forno.”

Ha un significato per lei l a definizione di “pizz a all a romana”? “A Roma la pizza si è sempre fatta bassa e croccante, la cosiddetta “Pizza Romana”. Tutti noi siamo cresciuti con questo gusto nel dna. Ma la pizzeria “vecchio stampo” era lontana dagli attuali orientamenti di qualità; poca attenzione agli equilibri di lievitazione e agli ingredienti usati, sia per gli impasti che per i condimenti. Il risultato era spesso un prodotto poco digeribile, carico di lievito e abbastanza standardizzato. In anni più recenti nasce il movimento che si ispira alla pizza napoletana, con una maggiore attenzione agli impasti e agli ingredienti, anche se, in effetti, la pizza napoletana fatta a Roma rimane un ibrido, in quanto spesso croccante. Cosa questa ritenuta un difetto per la pizza napoletana, soffice per definizione. Emma nasce da questo, dalla voglia di dare una dignità nuova alla pizza romana restituendo alla clientela una tipologia di pizza da sempre apprezzata


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a Roma ma con in più un’attenzione maniacale alla selezione delle materie prime, degli impasti e dei prodotti usati. Facciamo tre fasi di lievitazione, in totale circa 36 ore a diverse temperature. Usiamo meno di un grammo di lievito per kg di farina, quasi niente. Svolgiamo completamente il processo di amilasi a temperatura controllata e la lievitazione in una sala apposita. L’utilizzo di materie prime di alta qualità e l’attenzione all’impasto rende questa pizza estremamente digeribile, cosa per noi molto importante.”

Le farcit ure che prop one s ono le gate e s clusivamen te al territorio? O i criteri s ono diversi? “Dell’ agro romano utilizziamo naturalmente tanti prodotti, principalmente frutta e verdura. Ma il principio che ci ispira è quello della qualità totale, quindi non possiamo limitarci al km 0. I pomodori li prendiamo in Sicilia, compriamo campi di datterini en primeur nella zona di Scicli; il pomodoro in conserva è Pomilia (Puglia), Officina Vesuviana, Miracolo di San Gennaro, Corbara (Campania). La bufala è di Paestum, la mozzarella vaccina di Maccarese e così via. Dodici tipologie di olio, più di dieci di pomodoro solo per fare un esempio: questo è il nostro modo di lavorare. Per quanto riguarda la cucina ci sarebbe altrettanto da dire, ma ne parleremo magari la prossima volta”.

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Jacopo Mercuro La pizza?

Deve essere... cotta! di David Mandolin

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acopo Mercuro è un giovane pizzaiolo, appassionato e tenace nel perseguire i propri sogni nonché la ricerca della propria modalità espressiva. La sua pizza, spiccatamente “alla romana” come la definisce, può essere degustata a Centocelle: la pizzeria 180 g è una realtà giovane e già affermata nel panorama gastronomico della Capitale. “Tutto è iniziato qualche anno fa, tra le mura di casa. Lavoravo nello studio legale di famiglia, ma sentivo che non era quello che mi metteva il sorriso a fine giornata. Quando tornavo a casa invece provavo a giocare con gli impasti, il tempo volava; pian piano ho iniziato ad approfondire la materia e ho scoperto che la pizza è vita. Qualche corso professionale e poi mi sono messo in gioco aprendo “Mani in pasta”, la mia prima pizzeria al taglio a Roma.”

accanto Jacopo Mercuro

C osa significa per lei pizz a all a romana? “La pizza romana ha molte declinazioni, la prima che mi viene in mente è la teglia romana: un prodotto fantastico, il mio primo amore. Poi c’è la tonda romana, la pizza bassa e croccante, che il destino ha messo davanti al mio percorso. La tonda romana era un prodotto sul quale non puntava nessuno, se non le storiche insegne aperte dai primi anni 70’. A Roma, da bambino, la pizza si mangiava bassa e croccante, senza cornicione. La pizza tonda romana era l’unica pizza che non si era evoluta e il gioco è stato quello di prendere un prodotto del passato e fargli fare un salto nel futuro, riscrivendone i canoni e diventandone un punto di riferimento. Così è partito 180grammi, tre anni fa, una scommessa folle, un percorso che ci ha portato ad essere la prima pizza tonda romana con tre spicchi del Gambero Rosso, riscuotendo successo tra pubblico e critica.”


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C ome el abora le farcit ure che prop one ? S ono le gate al territorio oppure si tie ne più “libe ro” s ce gliend o fornitori anche oltre l a sua re gione ?

Che carat teri stiche ha l’impasto che pro p one e che l a c on traddistingue ?

sotto La pizza di Mercuro per Pizza e Pasta Italiana

“Quando mi chiedono qual è la caratteristica della pizza di 180grammi io rispondo: “cotta”. È una pizza bassa e croccante, che nasce da un pre-fermento solido gestito a 18 gradi per 20 ore, cotta in un forno a fiamma (gas), a 330 gradi per due minuti circa. Abbiamo elevato il concetto di pizza tonda romana, tanto che oggi molto giovani si cimentano in un prodotto su cui non puntava più nessuno. Roma aveva bisogno della sua pizza, così abbiamo creato quello che mi diverte definire “la pizza romana del futuro.”

“La sperimentazione sugli impasti va di pari passo con il lavoro fatto in cucina, dove studiamo condimenti che valorizzino la nostra pizza. Il gioco è stato quello di partire dalla ricerca della materia prima regionale (come la bufala di Amaseno) per poi andare a fare ricerca su tutto il territorio italiano (come il guanciale di mora romagnola). Per i condimenti mi piace giocare, presentare ai miei clienti una parte di me, la pizza è il modo di esprimere quello che ho dentro e raccontare Jacopo. Tutto gioca sull’equilibrio di sapori e sull’impatto cromatico. Una delle ultime nate è “burro, parmigiano e tartufo”: uno dei miei piatti preferiti è la pasta burro e parmigiano, e doveva diventare una pizza! Così è nato un gioco di varietà e consistenze.

Su una base di fior di latte, in uscita andiamo a mettere una crema di parmigiano reggiano 36 mesi con aggiunta di vaniglia del Madagascar che ne esalta il sapore; il burro lo ritroviamo in un crumble di burro salato, grattata di parmigiano reggiano Vacche Rosse, tartufo nero uncinato e una gratta di pepe di Sichuan che ci darà una nota agrumata.”


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Marco Montuori, professione pinsa.

M

arco Montuori, giovane pizzaiolo dalla storia davvero interessante, si è specializzato nella pinsa, prodotto relativamente giovane nel panorama dell’arte bianca laziale ma che si è rapidamente diffuso in tutto il mondo per la sua versatilità. Gli abbiamo chiesto di raccontarla ai nostri lettori, assieme ad una serie di utili indicazioni. "Ho da sempre amato cucinare, già a 14 anni tornato da scuola mi preparavo il pranzo da solo, i miei genitori lavoravano e io arrangiavo i miei primi piatti a casa. In quello stesso anno cominciai a lavorare come cameriere ad Anzio, la città in cui sono cresciuto. Al ristorante ero l’ultimo arrivato e il più piccolo, ovviamente i camerieri più grandi ed esperti se ne “approfittavano”. Qui

di Caterina Orlandi

nasce il mio amore: mentre aspettavo lo sfornare delle pizze rimanevo incantato nel guardare il pizzaiolo all'opera davanti alla fiamma del forno a legna. La voglia di saperne sempre di più e di lavorare davanti al forno era troppa, così andai dal mio titolare proponendogli di lavorare gratuitamente e iniziai a muovere i primi passi verso questo mondo. Le difficoltà in questo percorso non mancarono, ma quello era il mio ambiente ed ero felice. Dopo il diploma mi trasferii a Roma, cominciai a studiare seriamente la materia mentre nel frattempo lavoravo come pizzaiolo per pagarmi gli studi; a 22

anni iniziai ad insegnare nel tempo libero a chiunque me lo chiedeva e diventò provvisoriamente un secondo lavoro. Poco tempo dopo conobbi i produttori del mix per la Pinsa Romana e cominciai una collaborazione con questa azienda, una grande occasione che mi fece crescere tantissimo sotto il punto di vista professionale. Entrai così in contatto con la pinsa per la prima volta e fu “amore a prima vista”! Cominciai ad insegnare privatamente la realizzazione della pinsa entrando in contatto con belle realtà seguendo grandi progetti soprattutto all’estero. Nel 2016 ho creato una base fissa d’insegnamento a Roma, nasce così Pinsa School: il mio intento era quello di creare la prima scuola esclusiva per l’insegnamento della Pinsa Romana ed ha riscosso un enorme successo.


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Quali s ono que ste carat teristiche ?

L a sua è pro prio una bell a storia che può inse gnare il valore dell a perseveranz a per cre s cere profe s sionalmen te . Vuole illustrarci me glio storia e carat teristiche dell a pinsa?

sopra Marco Montuori

Un altro importante tassello della mia carriera è stato senza dubbio quello di diventare consigliere dell’Associazione Originale Pinsa Romana, ente che certifica e tutela le pinserie che realizzano il prodotto in maniera originale seguendo il protocollo di lavorazione. Ad oggi a 30 anni, dopo 16 anni da quel primo lavoretto in pizzeria e dopo 8 d’insegnamento, rifarei tutto così non cambiando nulla. Un consiglio che mi sento di dare a chi comincia oggi il suo percorso professionale è quello di perseverare, è un percorso lungo e che non termina mai, ma che se seguito con passione e costanza, porterà grandi soddisfazioni.

La storia della Pinsa non è molto chiara; la verità è che la pinsa nasce nel 2001 da un’intuizione dettata dall’esperienza e dalla grande passione per la panificazione del tecnico pizzaiolo Corrado Di Marco (fondatore dell’omonima azienda) che crea questo innovativo prodotto. Di Marco per suscitare la curiosità dei clienti raccontò durante un'intervista di diversi anni fa che la pinsa nacque nell'antica Roma; in modo molto inaspettato questa storia iniziò a circolare molto velocemente diventando così agli occhi di tutti "la vera verità". È qui che nasce la confusione, molti ancora credono che quella sia la vera storia ma la realtà è appunto un'altra... mi dispiace per gli antichi Romani che non hanno potuto assaggiare la pinsa ma è effettivamente nata con diversi secoli di ritardo! Ad oggi la crescita esponenziale della pinsa ha portato all’apertura di più di 5000 pinserie in tutto il mondo, frequentate da migliaia di clienti consapevoli delle caratteristiche e delle peculiarità di questo prodotto.

Il mix di farine con cui viene realizzata (frumento, soia e riso) abbinato all’alto grado di idratazione e una lavorazione completamente diversa dalla normale pizza permette a questo prodotto di essere unico nel suo genere sotto il punto di vista della qualità e della digeribilità. La forma ovale permette di riconoscere subito il prodotto, con la sua forma stretta e lunga cuoce nel forno in maniera uniforme garantendo al cliente la classica croccantezza esterna.

Ci spie ga l a pro cedura? L’impasto della pinsa si può riassumere in due concetti: croccante fuori, morbido dentro. È questo che fa innamorare le persone di questo prodotto, è il connubio perfetto tra le due consistenze senza dimenticare il profumo e il sapore unico dato dalle diverse farine che lo compongono e da una particolarissima pasta acida essiccata. La procedura dell’impasto è quella di qualsiasi impasto ad alta idratazione, l’acqua va inserita pian piano e non tutta insieme per permettere al glutine di formarsi nel modo corretto. Ad un chilogrammo di farina si aggiungono 800 grammi di acqua, 3 di lievito, 20 di sale e 20 di olio EVO. Il cliente della pinsa è un cliente attento a ciò che mangia, a cui piace star leggero senza rinunciare al gusto. Le tipologie di locali che si prestano bene a questo prodotto sono le classiche pizzerie che servono pizza tonda, molte in questi anni si sono convertite a “pinserie”. In alcune zone ricche di passaggio è perfetta anche come prodotto da street food nel formato più piccolo da circa 20 centimetri, all’estero forse è molto più facile trovare una pinseria che serve questo formato invece di quello più grande al piatto.


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C osa carat te rizz a l a pinsa da un pun to di vista delle farcit ure ? Che tipi di prod ot ti si le gano me glio a que sto tip o di piz z a? Sicuramente le farciture utilizzate sulla pinsa sono meno canoniche rispetto alla pizza, nascono per stupire. Molti chef ci si sono avvicinati proprio per la sua versatilità nella creazione delle ricette più gourmet. È chiaro che i prodotti che si legano meglio sono quelli di qualità, sul lato tecnico consiglio condimenti non troppo umidi per facilitare la cottura di questo impasto ad alta idratazione.

Ricetta: Ecco la ricetta della pinsa proposta da Marco Montuori

L’impasto è il cl as sic o dell a Pinsa Romana, ovvero:

1 kg di farina Pinsa Romana 800 g di acqua fredda 3 g di lievito di birra secco 20 g di sale 20 g di olio Evo È importante finire l’impasto a 22 gradi circa e lasciare partire la lievitazione prima di metterlo in frigo in massa fino ad almeno il giorno dopo. Potete far maturare anche fino a 96 ore senza problemi, è una farina di forza e tiene molto bene le lievitazioni. Una volta fatto matu-

rare l’impasto va pezzato in palline da 250 g che andranno lasciate lievitare fino al raddoppio. Andranno stese con delicatezza, farcite con una mousse di piselli e mentuccia romana e infornate. Dopo la cottura farcite con le melanzane: io le ho cotte in precedenza infornandole con una teglia nel forno della pizza, semplicemente con sale e olio. Concludiamo la farcitura con stracciatella di burrata, noci tostate, sale, olio EVO e paprika piccante.


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L’omaggio a Roma di

Tony Gemignani di Caterina Orlandi

L sopra Tony Gemignani nella pagina accanto La pizza proposta per Pizza e Pasta Italiana

a pizza romana è davvero senza confini e negli anni, come già anticipato nelle pagine precedenti, si è diffusa in tutto il mondo. In queste pagine trovate l’omaggio a questo straordinario prodotto reso da Tony Gemignani, professionista dell’arte bianca che non necessita di troppe introduzioni come tutti i bravi professionisti presentati in queste pagine. Gemignani, pluricampione del mondo, imprenditore - con numerosi punti vendita, docente di Scuola Italiana Pizzaioli negli Usa da molti anni nonché autore di diversi libri, - è prima di tutto un pizzaiolo che ama il suo mestiere e che ama moltissimo l’Italia e tutte le eccellenze che il nostro paese può offrire.

E c c o a voi l a sua pizz a in te glia.

“La pizza alla romana può essere fatta in diversi modi. Una delle ricette che ho elaborato è sostanzialmente una fermentazione utilizzando il metodo dell’autolisi in massa. La fermentazione in massa è una tipologia di impasto mixato anziché stagliato e impallinato: l’impasto va messo in un ampio contenitore sigillato (coperto) e lasciato fermentare in frigorifero dalle 24 alle 48 ore. Dato che questa ricetta ha una maturazione così lunga, suggerisco di utilizzare una farina che abbia almeno un W 330 o più alto. Utilizzo anche altri due tipi di cereali che verranno miscelati all’interno dell’impasto. NB: l’acqua in questa ricetta potrebbe essere aumentata (se desiderato).


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Ricetta:

800 gr acqua fredda 200 gr acqua calda Totale acqua: 1 kg 1 kg farina alto contenuto di glutine/alto contenuto proteico W 330 100 gr farro o farina integrale 100 gr soia Miscelare tutti i tipi di farina assieme tra loro. 10 gr lievito disidratato attivo 2 gr malto a bassa diastasi 36 gr sale marino 36 gr olio Evo

Cominciamo dicendo che ho utilizzato un'impastatrice a spirale. Miscelare il malto assieme a tutta la farina, miscelare il 50% di acqua fredda nella farina per 2 minuti alla velocità più bassa. Riposo per 45 minuti coperta in vasca: questo viene chiamato metodo dell’autolisi. Usando una frusta in metallo attivare il lievito in 200 gr di acqua calda e lasciarlo riposare per 5 minuti. Aggiungere quanto ottenuto nella vasca e far girare l’impastatrice alla velocità più bassa. Lentamente aggiungere il 90% dell’acqua rimanente mentre si fa girare l’impastatrice ora alla velocità superiore. Lasciar lavorare per 3/5 minuti e aggiungere il sale. Continuare per 3 minuti e aggiungere poi l’olio evo, altri 3-4 minuti sempre a velocità superiore e aggiungere il rimanente del 10% di acqua e mescolare finché l’impasto non risulterà pronto. Estrarre l’impasto dalla vasca. Metterlo in un vascone sigillato e precedentemente unto d’olio. Dopo 2 ore procedere con la piegatura dell’impasto per 3 volte, riponendolo poi nel contenitore in frigorifero positivo per 48 ore (per ottenere il miglior risultato). Estrarre l’impasto dal frigo e delicatamente formare le pagnotte. Lasciare l’impasto coperto a temperatura ambiente fino a che non ha raddoppiato o triplicato il volume. Ora lasciare che l’impasto lieviti durante la notte coperto, riposto nelle cassette apposite all’interno del frigo. Passata la notte in frigo estrarre il tutto, lasciare che prenda la temperatura circostante e che riparta la lievitazione prima dell’utilizzo.

Ste sura in te glia: Passare l’impasto nella semola e adagiarlo in una teglia apposita per pizza alla romana. Stenderlo il più possibile e mettere la teglia in una zona calda per circa 1 ora. “Massaggiare” l’impasto dolcemente con i polpastrelli, stendere un filo d’olio d’oliva e precuocere al 50%, poi aggiungere la mozzarella tagliata e le patate (tagliate sottili precedentemente). Assicuratevi che in fase di preparazione le patate siano state immerse nell’acqua per 4 ore per rilasciare l’amido: questo aiuterà le stesse a cuocersi meglio. Cucinare il tutto in un forno elettrico o a gas a 280° per 9-13 minuti, con l'accortezza di ruotare a metà cottura la teglia di 180° per rendere omogenea la cottura. I tempi comunque sono indicativi, e dipenderanno dal tipo di alimentazione del forno disponibile.

Farcit ura Quando la pizza ha terminato la cottura tagliatela, aggiungete rosmarino sminuzzato, prosciutto di Parma, sale marino, formaggio di capra, Parmigiano grattugiato e se, aveste disponibile della nduja in chiusura, sarebbe l’ideale!”



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LA PIZZA IN PALA ED IN TEGLIA di Graziano Bertuzzo

— Area Tecnica Scuola Italiana Pizzaioli

PALA

impasto romana

alla

(diretto)

Ingredienti in ordine di inserimento

• 5 kg farina tipo 00 W330

• 5 gr lievito secco per kg di farina • 5 gr malto x kg farina • 25 gr sale per kg farina • 30 gr olio evo per kg farina • Idratazione 90%

Procedimento

Introduciamo tutta la farina, tutto il lievito e tutto il malto e facciamo girare la nostra impastatrice alla 1° velocità per qualche minuto per ossigenare il composto. Successivamente aggiungere il 60% di acqua per kg farina a 15°, aggiungere il sale (tutto).

Gradualmente versare il rimanente 30% di acqua a filo, inserendo la seconda velocità dell’impastatrice (nel nostro caso 200 battute minuto). Una volta incorporata l’acqua aggiungere tutto l’olio e terminare l’impasto: l’ideale sarebbe rappresentato da una temperatura finale tra i 22 e i 24°. Mettere impasto in un vascone unto, lasciarlo a temperatura ambiente 15/20 minuti, fare delle pieghe dentro il vascone e inserirlo in frigo a 4° per 48 ore. Formare pagnotte dal peso a piacere, lasciare raddoppiare l’impasto a temperatura ambiente, stendere e infornare per una fase di precottura di circa 7 minuti a 280°. Altrimenti 11-12 minuti a 280° per cottura unica.


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TEGLIA impasto romana

alla

(diretto)

Ingredienti in ordine di inserimento

• 5 kg farina tipo 00 W330 • 5 gr lievito secco per kg di farina • 5 gr malto x kg farina • 25 gr sale per kg farina

Procedimento

Abbiamo utilizzato il medesimo procedimento per l’impasto messo in pratica per la pizza in pala. Per la teglia 60x 40 però il peso della pagnotta oscilla tra 1 kg e 1,1 kg; una volta formate le

pagnotte lasciarle raddoppiare a temperatura ambiente. Poi ungere la teglia, stendere, farcire la pizza e cuocere direttamente senza precotture a 300° con platea 60% e 40% irraggiamento

• 30 gr olio evo per kg farina • Idratazione 90%

DOPPIA farcita

la

Ingredienti e procedimento uguale che per la pizza teglia; la discriminante (essendo doppia la pasta) è la cottura, che va impostata (diretta o con precottura) in base alle caratteristiche organolettiche dei condimenti con i quali farciamo.


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Roma, una città della pizza. di Antonio Puzzi, Antropologo dell'alimentazione e giornalista

Qu

ando mi hanno chiesto quale fosse il punto di vista di Slow Food sulla pizza romana, confesso che ho esitato non poco a riordinare le idee. Partirei però con quella che forse meno sembra avere a che fare con la pizza: la modalità di pagamento. “Fare alla romana” – come si sa – vuol dire suddividere in parti uguali il conto di un locale dove abbiamo cenato o pranzato con amici e colleghi senza badare a chi abbia consumato cosa. Probabilmente è una delle forme più alte di convivialità, in quanto per il piacere di stare insieme si è disposti anche a mettere sul tavolo qualche euro in più. Secondo la prestigiosa Accademia della Crusca, l’origine di questa espressione è probabilmente antica ma trova nell’Ottocento la sua formula più coerente con l’uso contemporaneo: molti autori infatti la adoperano per definire una vivanda messa in comune dai vari commensali.

In questo senso, tale locuzione verbale ha molto a che vedere con la pizza, la quale è di per sé una pietanza sinonimo di condivisione. Fermo restando dunque che ogni pizza, soprattutto se mangiata “a giro”, è una pizza che viene condivisa “alla romana”, è altrettanto importante ricordare che esistono due importanti tipologie di pizza che sono più propriamente legate alla Capitale. Entrambe sembrano avere origine all’interno dei tanti panifici dell’Urbe. La prima a nascere è stata probabilmente la “pizzetta” ossia il trancio di pizza tagliato a fette e venduto a peso: la sua particolarità è quella di avere una farcitura (o un condimento, a seconda della ricetta) particolarmente abbondante.


63 La seconda è la cosiddetta scrocchiarella. Pur essendo di adozione più tarda, quest’ultima è forse la pizza che più ricorda la prima pizza mangiata dal nostro progenitore: Enea. Leggenda vuole che il “patriarca” della civiltà tricolore nato dalla penna di Virgilio abbia sofferto a tal punto la fame da mangiare la propria “mensa”. Nella lingua latina, il termine “mensa” è adoperato sia per descrivere la tavola (ed è improbabile che Enea lo abbia fatto) sia per descrivere il piatto (fatto di un impasto di acqua e farina, cotto al forno) su cui venivano poggiate le abbondanti pietanze (e ci sembra più facile propendere per l’ipotesi che Enea abbia mangiato proprio questo prodotto, privo però di tutti gli ingredienti). La particolarità della “scrocchiarella” è il suo essere sottilissima e farcita anche qui con dovizia di ingredienti.

Il “Panificio” e il “Pizzarium” (ma oggi anche la sua bottega al Mercato centrale di Termini) sono templi del gusto, vere mete di pellegrinaggio per gli amanti della pizza. Impareggiabile la “pizza di Bonci” con impasto al farro, condita con abbondante mortadella.

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A dare dignità alla pizzetta (oggi rimpiazzata – a mio avviso senza rispetto – dalle pizzette tonde di imitazione napoletana), è stato il “pizza hero” (come vuole il titolo del programma televisivo che lo vede protagonista) Gabriele Bonci.

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La mortadella però – si sa – è una vera passione dei Romani che andavano a mangiarla, insieme alla porchetta, nelle tradizionali fraschette dei Castelli, ad Ariccia e a Marino. Ecco dunque che anche la “meglio gioventù” della Capitale ne ha fatto un cavallo di battaglia. È il caso di Jacopo Mercuro, l’eroe moderno che ha salvato la scrocchiarella dal rischio di estinzione in seguito alla nascita dei “canotti” contemporanei, figli della biga e di processi di lievi-maturazione particolarmente arzigogolati o più semplicemente di un mix di farine pensato apposta per l’uopo. Jacopo, nel suo locale di Centocelle, ha stabilito “il peso dell’anima” della pizza in 180 grammi (che è anche il nome del locale). Il prodotto da lui ideato è sottilissimo e steso a mano con grande abilità. La sua “pizza e mortazza” (assolutamente da condividere) ha una doppia anima (ehm… farcitura) di mortadella ed è tutta da mordere gustandone la croccantezza. Molto più che un effetto crunch ben riuscito.

Roma è dunque oggi a pieno titolo una delle “città della pizza”, come titola l’evento ideato da Vinoforum al quale ogni anno partecipano alcuni importanti protagonisti di questo pazzo mondo dell’arte bianca. Chissà cosa ne penserebbe però Matilde Serao, la fondatrice del quotidiano partenopeo “Il Mattino” che, a fine Ottocento, assistendo alla nascita e al declino di una pizzeria napoletana a Roma, sentenziò la morte del prodotto fuori da Napoli. E pensare che ancora negli anni ’60 l’inventore della Dieta Mediterranea, il fisiologo statunitense Ancel Keys, giunto a Roma, ebbe l’ardire di chiedere al cameriere di un ristorante del centro se potesse mangiare una pizza. E si sentì rispondere: “La pizza? Sono cose da Napoletani”.

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I principali prodotti agroalimentari laziali: impariamo a conoscerli a cura della redazione

Ortofrutta Il terreno fertile e il clima temperato fanno dell’ortofrutta una protagonista dell’agricoltura regionale. Un posto di primo piano è occupato dalle colture ortive, quali pomodori, patate, carciofi, bietole e lattughe e zucchine. Sotto questo aspetto è particolarmente rilevante il contributo della provincia di Latina. Il prodotto principale di questa provincia è il Kiwi, che dal 2004 vanta la certificazione IGP. In generale, il comparto ortofrutticolo pontino è ricco di produzioni quali il Carciofo Romanesco del Lazio IGP, coltivato in tutto il territorio laziale o il Sedano Bianco di Sperlonga IGP. Il comparto ortofrutticolo è particolarmente fiorente anche nella provincia di Roma e nella Tuscia Viterbese, che si segnala per la Nocciola Romana DOP “Tonda gentile Romana” e la Castagna di Vallerano DOP, impiegate soprattutto nelle lavorazioni di pasticceria o anche la Patata dell’Alto Viterbese IGP. Sui terreni della Ciociaria invece si coltivano il Fagiolo Cannellino di Atina DOP, di notevole pregio e il Peperone di Pontecorvo DOP.

Il territorio laziale, di circa 17.300 kmq, è un susseguirsi di luoghi incantevoli e caratterizzato dall’alternanza di bellezze storico-artistiche ed aree a grande vocazione agricola. La sua eterogeneità geologica e climatica si dipana in itinerari davvero interessanti, che solcano i territori di tutte le province: Viterbo, caratterizzata da laghi di origine vulcanica, Rieti, a nord-est, dominata dal verde delle montagne; Frosinone, contraddistinta da un paesaggio collinare e da borghi di grandi tradizioni agricole; Latina,

a sud, che alterna pianure e paesaggi marini ed infine Roma, centro della regione, che vanta meraviglie universali e la più grande superficie agricola per una provincia europea, pari a circa 250.000 ettari. La particolare ricchezza del territorio si traduce in un’offerta ampia di prodotti agricoli ed enogastronomici. Nel “paniere delle eccellenze laziali” figurano infatti 15 prodotti a marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta), 11 IGP (Indicazione Geografica Protetta) e quasi 400 prodotti agroalimentari tradizionali (PAT).



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L’olio extravergine d’oliva L’olio d’oliva laziale vanta una storia antichissima, già famoso ai tempi dell’antica Roma, e riflette gli usi delle popolazioni che storicamente hanno abitato i suoi territori. L’eccellenza degli oli extravergini d’oliva del Lazio è attestata anche in sede europea, con il riconoscimento di quattro DOP olivicole regionali: Canino (nell’area nord-est della Tuscia Viterbese), Tuscia (l’intera provincia di Viterbo), Sabina e Colline Pontine (provincia di Latina). Le quattro DOP sono l’asse portante di un comparto di livello, che annovera produzioni di notevole pregio e di grande tradizione, come i diversi oli monovarietali (delle cultivar carboncella, ciera, itrana, marina, olivastrone, rosciola, salviana, sirole), inclusi nell’elenco dei prodotti tradizionali (PAT) della regione. L’olivicoltura laziale si segnala anche per la produzione di olive da mensa di notevole qualità, tra le quali spiccano le famosissime Olive di Gaeta, ottenute dalla lavorazione della cultivar locale “Itrana”.

Carni La cucina laziale, da sempre, assegna alla carne un ruolo cruciale. Una delle più conosciute è sicuramente la Porchetta di Ariccia IGP, fondamentale per l’economia della cittadina laziale, in virtù dei numerosi locali tipici, botteghe o “fraschette” (di cui parliamo in un altro articolo n.d.r.) dove la Porchetta viene degustata in abbinamento al Pane di Genzano IGP. Ricordiamo poi l’Abbacchio Romano (l’agnello giovane dal sapore dolce e delicato) e l’Agnello del Centro Italia, due IGP. L’importanza dei prodotti a base di carne si riflette anche nella preparazione dei salumi tipici, come il Prosciutto Amatriciano IGP, dalla caratteristica forma “a pera” e dal particolarissimo sapore (sapido, ma dall’aroma dolce).


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Pizza alla Romana con Crusca GranEssere CARAT TERISTICHE PRODOT TO FINITO Grazie a questa ricetta è possibile ottenere una Pizza alla Romana ad elevata idratazione, molto leggera, saporita e digeribile, grazie all’elevato apporto di fibre contenute nella Crusca GranEssere®.

TIPOLOGIA DI IMPASTO

PROCEDIMENTO

Impasti indiretto con biga e lievito di birra.

1.

Impastare la biga fino ad ottenere una massa grezza e poco coesa.

INGREDIENTI

2.

Lasciar riposare la biga per 18 ore a 18°C in cella, oppure per 24 ore a 4°C.

3.

Impastare in prima velocità tutta la biga con la farina del rinfresco, la crusca e la prima parte di acqua.

Quantità

% su Farina tot.

Farina Caprì 350 (biga)

5.000 g

45,0%

4.

Aggiungere il lievito.

Acqua per la biga

2.250 g

0,8%

5.

Lievito per la biga

40 g

20,0%

Attendere qualche minuto, quindi aggiungere il sale.

1.000 g

5,0%

6.

Crusca

300 g

60,0%

Passare in seconda velocità ed aggiungere, un po’ alla volta, la seconda parte di acqua e l’olio.

Acqua (prima parte)

1.350 g

7.

Lievito di birra fresco

10 g

2,0%

Lasciar riposare l’impasto in massa per 40 minuti, quindi spezzare e formare palle da 1.100 g (si otterranno 11 pezzi).

Sale

120 g

16,0%

8.

Acqua (seconda parte)

960 g

4,0%

Lasciar lievitare per un’ora a temperatura ambiente e, successivamente, stendere l’impasto.

Olio EVO

240 g

9.

Infornare in forno statico a 280°C per 12 minuti circa.

Cosa serve

Farina Caprì 350 (rinfresco)

Totale impasto

% su Farina di rinfresco

1,0%

11.270 g

CONSIGLI • Nel caso di lievitazioni più lunghe (4 – 6 ore) si può omettere l’aggiunta del lievito nel rinfresco. • Le tempistiche di impasto dipendono dalla quantità dello stesso rispetto alle dimensioni dell’impastatrice, evitando di surriscaldare l’impasto adottando tempi troppo lunghi. • Per manipolare al meglio un impasto così idratato è consigliabile ungersi o bagnarsi le mani. • Per ottenere una pizza più croccante si può eseguire una seconda cottura per 4 minuti, a 280°C, dopo aver lasciato raffreddare la pizza per almeno 30 minuti.


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In Lazio alla scoperta delle fraschetterie di Caterina Vianello


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P

ochi fenomeni sono in grado di descrivere una convivialità semplice e gioviale, tipica di una regione e circoscritta pure ad alcune aree all’interno degli stessi confini regionali, come le fraschetterie o fraschette. Siamo in Lazio e quella delle fraschette è un’eredità quasi mitica le cui origini devono essere ricercate addirittura nel medioevo. Pare che già nell’antica Roma ci fosse l’abitudine di offrire ristoro a quanti si recavano nella capitale. Nel medioevo l’usanza tuttavia diviene consuetudine e viene “sigillata” dall’uso di apporre una frasca (spesso di alloro, ma anche ulivo) ben carica di foglie all’ingresso delle case nelle quali era possibile consumare vino novello, da accostare al cibo disponibile in loco o portato dagli stessi avventori. Se l’usanza è rintracciabile anche in altre regioni (in Friuli, per esempio: la parola dialettale “frascjis”, indica appunto aziende vitivinicole a gestione familiare o piccole realtà enogastronomiche dove è possibile bere vino accompagnandolo con formaggi e salumi) tutta laziale è invece l’anima di questi luoghi, che si identificano anche geograficamente con un’area ben definita, quella dei Castelli Romani. A conferma di una intrinseca “romanità” delle origini, si potrebbe anche citare la seconda ipotesi circa l’etimologia del termine che si rifarebbe proprio alla città di Frascati: anticamente denominata Frascata poiché in epoca medioevale i boscaioli di Tusculum (Tuscolo) costruirono e abitarono in capanne di frasche, ripari di fortuna dopo la distruzione della città. Accantonando il dibattito sulle origini, è meglio concentrarsi sull’anima di questi locali: inconfondibile l’arredamento semplice, spesso dominato dalla presenza di botti di vino, ovviamente novello, oltre alle quali erano presenti panche, sedili e tavolacci. Qualche scarno ornamento alle pareti e una certa rusticità sia nella gestione che nell’offerta completavano il quadro.


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La differenza con le osterie tradizionali risiede nel fatto che nelle fraschette non c’era cucina: ci si portava il cibo, spesso avvolto in fagotti, e lo si consumava in accompagnamento al vino, che invece appunto, era venduto dall’oste. Nel corso del tempo, le fraschette si sono evolute e accanto al vino novello, è consolidata l’abitudine di offrire anche salumi e formaggi, oltre a qualche primo piatto della tradizione laziale. Inutile precisare che se il contesto storico e geografico di riferimento è quello dei Castelli Romani, tra Ariccia, Frascati e dintorni, immancabile sulla tavola sia la porchetta, capace di riassumere bene la genuinità e la semplicità dell’offerta gastronomica locale. Formaggi e olive possono completare l’opera e malgrado oggi le fraschette siano diventate dei locali con una clientela decisamente meno ruspante rispetto a quella del passato – per cui non è difficile trovare prodotti Igp e vere e proprie leccornie gourmet – l’anima del locale è rimasta pressoché inalterato. Molto si deve al carattere dei gestori, i fraschettari, capaci di coniugare l’offerta gastronomica con

una giovialità genuina, trasformando il locale in un luogo in cui sia possibile davvero godere di un contesto semplice e di sapori non troppo elaborati. Non a caso i Castelli, Frascati e Ariccia sono mete amate da romani, turisti e sempre più giovani che desiderano assaggiare piatti della tradizione in un contesto rilassante e accogliente, in particolare nei fine settimana. E anche se alcune fraschette si sono trasformate in spazi di ospitalità più articolati, ampliando l’offerta fino al pasto completo e aggiungendo pure la vendita di generi alimentari, in quelle storiche è ancora possibile ritrovare lo spirito originario condensato nel vino “sciolto”, la Romanella, venduto in caraffe di varie dimensioni. Fatevi amico il fraschettaro (non è difficile): vi racconterà di come in passato, ogni caraffa avesse un suo nome: quella da 2 litri “boccale” o “Barzilai”, dal nome di un politico romano di fine 800 che cementava il suo rapporto con gli elettori a colpi di vino; quella da un litro “mezzo boccale” o “tubbo”; quella da mezzo litro “fojetta” e quella da un quarto, naturalmente, “quartino”.


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ne è stata il punto d’incontro di

I vini del Lazio ›

due importanti culture enolo-

facessero come avviene nelle

giche, una autoctona, quella

terre del Prosecco, dell’Asti,

etrusca e l’altra esterna arri-

del Chianti ed ora dei Supertu-

vata dalla Gracia attraverso la

scan, per limitarci a qualche

Magna Grecia con moltissimi

esempio, e li promuovessero e

nuovi vitigni originari del Vicino

valorizzassero a livello inter-

Oriente. E, come riferiscono gli

nazionale come meritano. E

antichi autori, si producevano

meritano tanto.

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Frutto di un vigneto

straordinario che dalle colline

interne arriva a lambire il mare di Giampiero Rorato

Il Lazio è una regione molto ricca di vini, anche perché circa 2500 anni fa, questa regio-

quel tempo vini memorabili e da allora la vitivinicoltura dei latini, quindi dei romani e, per estensione, laziale, è andata fiorendo, come ci ricorda Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia.

E non sarebbe certo male che i vignaioli laziali e le loro associazioni e i consorzi DOCG e

DOC, orgogliosi dei propri vini,


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› I vini DOCG Cominciamo a conoscerli, iniziando dai vini a DOCG (Denominazione di Origine Controllata e Garantita). Nel Lazio ce ne sono tre: Cesanese del Piglio, Cannellino di Frascati e Frascati superiore. Poi ci sono 27 vini DOC e li vedremo più avanti, dopo aver conosciuto meglio i tre vini a DOCG. Il vino Casanese del Piglio DOCG, prende il nome dalla città omonima ed è un vino rosso ottenuto dalle uve di Cesanese di Affile (Affile è un comune che appartiene alla città metropolitana di Roma) che è un vitigno autoctono, di antichissima storia e, come succede per molti vitigni e vini italiani, ha preso il nome dalla località più importante dove è coltivato da tempo immemorabile. Il vino ottenuto è di un bel colore rosso rubino con riflessi violacei, profumo ampio e intenso, sentori di frutta rossa, nette sensazioni speziate e di frutti di bosco, valorizzate dall'affinamento in legno e dalla intrinseca freschezza. Il sapore è morbido, leggermen-

te amarognolo, secco e la sua gradazione minima è di 12 gradi, ma può essere anche superiore. È chiaramente un vino da grandi carni, ed è capace di accontentare quanti amano il bere sapiente. Il territorio di produzione è costituito dall’intero territorio amministrativo dei comuni di Piglio e Serrone e in parte di quello dei comuni di Acuto, Anagni e Paliano, in provincia di Frosinone. Siamo nell'angolo più settentrionale della Ciociaria, tra le province di Roma e Frosinone. La strada del Cesanese si svolge in un paesaggio verdeggiante, tra colline e monti dai profili morbidi ma a tratti rocciosi, luoghi che offrono bellissime immagini non solo agli enoturisti ma a quanti cercano luoghi che regalano tranquillità e pace. Un altro vino DOCG è il Cannellino di Frascati che era il vino dolce per eccellenza di Roma, ottenuto da uve vendemmiate a fine ottobre, leggermente botritizzate, alle quali i primi freddi di novem-

bre bloccavano le fermentazioni, lasciando loro un deciso residuo zuccherino. Anche il Tokaji ungherese nasce da uve vendemmiate a fine ottobre e botrizzate, cioè attaccate da un fungo denominato Botrytis Cinerea, che colpisce e metabolizza la buccia dell’uva formando una muffa che conferisce al vino poi ottenuto sentori del tutto particolari. Il Cannellino è un grande vino dolce da apertura e da dessert, in particolare per formaggi erborinati, foie gras, biscottini secchi. Il Cannellino nasce da un uvaggio tipico delle vecchie aziende del territorio e precisamente da Malvasia bianca di Candia e/o Malvasia del Lazio (Malvasia puntinata) per almeno il 70%; poi Bellone, Bombino bianco, Greco bianco, Trebbiano toscano, Trebbiano giallo da soli o congiuntamente fino ad un massimo del 30%. Le altre varietà di vitigni a bacca bianca di cui è consentita la coltivazione nella Regione Lazio, presenti nei vigneti, possono concorrere fino ad un massimo del 15% di questo 30%. La zona di produzione delle uve comprende per intero il territorio amministrativo dei comuni di Frascati, Grottaferrata, Monte Porzio Catone e in parte quelli di Roma e Montecompatri. I terreni idonei alla coltura dei vigneti sono quelli di origine vulcanica, permeabili, asciutti e non aridi, tipici della zona. Ed ora vediamo di conoscere meglio anche il vino Frascati, in particolare il Frascati Superiore che è uno dei tre DOCG del Lazio. Questo vino è ottenuto con le medesime uve indicate per il Cannellino e nelle medesime percentuali lì indicate ed anche nel medesimo territorio. Ha un colore giallo paglierino più o meno intenso, odore intenso, con profumo caratteristico. Il sapore è secco, sapido, morbido, fine e vellutato. Come è ben noto, il Frascati Superiore Docg è il principe dei vini bianchi del Lazio e si sposa a dovere con tutta la classica cucina romana di carne e di pesce.


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› I vini DOC

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Abbiamo già detto prima che i vino DOC del Lazio sono 27 e molti prendono il nome dai luoghi di produzione, come abbiamo visto per il Frascati. Citiamo, a tal proposito i DOC Aprilia, Atina, Cerveteri, Circeo, Colli Albani, Cori, Genazzano, Marino, Montecompatri, Nettuno, Orvieto, Roma, Tarquinia, Terracina, Velletri, Vignanello0. Zagarollo, tutti nomi di località del Lazio. Sempre DOC, sono il Bianco di Capena, il Castelli Romani, il Colli della Sabina, il Colli Etruschi, il famoso Est! Est! Est! Di Montefiacone e qualche altro.

› I vitigni

› Conclusione

Nel Lazio c’è la presenza di numerosi vitigni, molti dei quali autoctoni di antichissima storia che prendono il nome dai luoghi dove sono coltivati, altri sono ben individuati come quelli che abbiamo citato a proposito del Cannellino di Frascati o ancora l’aleatico, il ciliegino, il canaiolo, il sangiovese, lo syirah, il grechetto, il moscato, il malvasia, il passerina, il pecorino: una gran bella varietà.

Non c’è dubbio: il Lazio offre una varietà di vini da soddisfare tutte le esigenze, anche quelle di chi organizza importanti banchetti ufficiali. Sono vini ottenuti non da un solo vitigno ma da una grande quantità di cultivar, quelle selezionate nel corso del tempo e ritenute ideali sia perché adatte ai diversi terreni che al gusto dei consumatori. Da un po’ di anni, ormai, nel Lazio ci sono ottimi produttori, in possesso delle più avanzate conoscenze tecniche della corretta tecnologia, per cui alcuni vini hanno raggiunto meritata fama internazionale. Nei ristoranti e nelle trattorie di Roma e del Lazio, i sommelier locali sanno certamente selezionare il meglio della regione per soddisfare un turismo internazionale, anche religioso, che, nei tempi normali – ci auguriamo tornino prestissimo dopo il vaccino – affollano gioiosamente la città eterna, che è e resta una delle più belle città del mondo, compiendo spesso qualche interessante escursione nella regione che offre ovunque tesori di storia, arte cultura, religiosità e enogastronomia capaci di soddisfare anche il turista più esigente.


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un vero e proprio culto:

la cacio e pepe A

Roma,

questo piatto non è solo tipico ma simbolo della romanità dunque un’istituzione ed ha origini molto antiche. Per chi visita la città eterna è un piatto da assaggiare ad ogni costo, alla ricerca della "mejo cacio e pepe de Roma"; per i romani è un colosso al pari di altre ricette della tradizione, carbonara e amatriciana in primis. Per tutti è l'emblema della semplicità (apparente) e della goduria più appagante che possa regalare una piatto di pasta. Non sappiamo precisamente quando è comparsa per la prima volta nei piatti dei romani, né per merito di chi. Ma le origini agro-pastorali della cacio e pepe sembrano ovvie: l’ingrediente principe è il pecorino, uno dei prodotti caseari dei pastori laziali, sempre a disposizione e facilmente trasportabile. La storia di questo piatto, dunque, sembra che nasca tra i pascoli durante la transumanza. Durante i lunghi spostamenti del gregge, i pastori delle periferie agresti romane riempivano la bisaccia di alimenti calorici e soprattutto a lunga conservazione. Tra i pomodori secchi ed il guanciale di maiale essiccato trovavano spazio

Dott.ssa Marisa Cammarano - Biologa Nutrizionista

anche qualche pezzo di cacio pecorino, un sacchetto di pepe nero in grani ed una cospicua quantità di spaghetti essiccati preparati a mano con acqua, sale e farina. Il pepe nero stimola direttamente i recettori del calore ed aiutava i pastori a proteggersi dal freddo, il pecorino stagionato si conserva a lungo e la pasta garantiva il giusto apporto di carboidrati e di energia. La Cacio e pepe della tradizione prevede l’utilizzo degli spaghetti ma, negli anni quasi tutte le tipologie di pasta sono state accostate a questo condimento. Molto comuni sono le versioni fatte con rigatoni e tonnarelli. I tonnarelli, però, sono da molti considerati il tipo di pasta migliore, perché con la loro ruvidità e porosità raccolgono perfettamente la crema di pecorino e lasciano il segno sul palato. L’importante, comunque, è che sia una pasta di grano duro, ruvida oppure rigata. E che sia scolata più che al dente. Il segreto della Cacio e pepe sta tanto negli ingredienti quanto nell’abilità del cuoco nel prepararla. Fondamentale per questo piatto tipico della cucina povera romana è la mantecatura degli ingredienti per ottenere la famigerata cremina. Il giusto equilibrio tra

formaggio e acqua di cottura è tutt’altro che semplice. Per far si che gli ingredienti amalgamandosi formino una crema, è necessario, infatti, aggiungere la giusta quantità di acqua di cottura alternandola al pecorino per ottenere una buona consistenza. In molti sostengono che il modo migliore sia terminare la cottura della Cacio e pepe in padella così da permettere agli spaghetti di liberare tutto l’amido fondamentale per amalgamare il condimento. Da sottolineare che la ricetta originale non prevede l’uso di olio, burro, panna per fare la crema.

Le proprietà nutrizionali. A rendere la pasta cacio e pepe nutriente e saziante, oltre che gustosissima,

Informazioni nutrizionali per porzione Energia

436 kcal - 1822 KJoule

Proteine

22 g - 19%

di cui Proteine ad alto Valore biologico

13 g

Carboidrati

63 g - 56%

Grassi

12 g - 25%

di cui saturi

7.1 g

monoinsaturi

3.0 g

polinsaturi

0.8 g

Fibre

2g

Colesterolo

44 mg

Sodio

283 mg


79 sono i suoi due ingredienti principali: la pasta, indipendentemente dal formato che si scelga di usare, è una fonte irrinunciabile di carboidrati, principale combustibile per tutte le attività quotidiane. I carboidrati dovrebbero rappresentare il 45-60% del totale delle calorie da assumere ogni giorno e la pasta è uno degli alimenti che permette di assicurarci sempre la giusta quota. Il Pecorino Romano è una miniera di proteine ed è molto ricco di vitamine A e D e di sali minerali, in particolare calcio e fosforo. Apporta anche Omega 3 e CLA, acidi grassi derivati dell’acido linoleico, amici del cuore e dalle proprietà antiossidanti e antidiabetiche. Quando stagionato, ha bassissime quantità di lattosio: questo lo rende più digeribile per gli intol-

leranti. Piccolo neo: è piuttosto ricco di sodio, oltre che molto calorico (392 kcal/100 g) e, rispetto ai formaggi a base di latte vaccino, ha un contenuto più elevato di grassi e di colesterolo. Per questo dovrebbe essere consumato con moderazione da chi è soggetto a ipercolesterolemia o soffre di ipertensione. Anche chi segue una dieta ipocalorica non dovrebbe abusarne.

I

l p ep e nero

invece, è utile per favorire la digestione e stimolare il metabolismo. Infatti, la piperina, l'alcaloide contenuto nel pepe, rende la spezia stimolante, tonica e stomachica e, stimolando la secrezione di succhi gastrici, facilita il processo digestivo ed agevola

i carciofi alla giudìa carciofi alla giudìa I sono un contorno veloce ed appetitoso da preparare in poco tempo, con risultati sorprendenti. I carciofi alla giudìa hanno una storia molto interessante. Si racconta, infatti, che Papa Paolo IV stabilì pesanti limitazioni ed obblighi per tutti gli ebrei al punto tale che furono costretti a vivere in luoghi separati da chi professava la religione cattolica. Nacque così, il ghetto ebraico di Roma, uno dei quartieri più belli della Capitale. Qui trovarono ospitalità anche gli ebrei di Spagna e Sicilia. È in questo clima che presero vita i carciofi alla giudìa, fritti due volte in olio d’oliva, assumendo particolari sembianze di una rosa aperta e conditi con sale e pepe. Si dice che questo piatto fosse preparato dalle massaie ebree che utilizzavano esclusivamente il carciofo romano della specie “mammola”, coltivato fra Ladispoli e Civitavecchia. tondo e senza spine, tipico del Lazio, per essere consumato principalmente alla fine della celebrazione ebraica dello Yom Kippur o Giorno dell’Espiazione. Una giornata caratterizzata dalla sola preghiera e dal digiuno assoluto, in

cui viene fatto divieto di mangiare, bere, ma anche di svolgere una qualsiasi attività. Questo tipo di carciofo dalla forma tonda, risulta essere molto tenero e soprattutto senza spine, cosa che consente di non buttare via niente, dopo la frittura in olio di oliva di qualità, e di gustarlo interamente. Il carciofo della varietà mammola si può trovare in vendita da gennaio a maggio dopo che è stato raccolto manualmente. I carciofi sono ortaggi che notoriamente, fin dai tempi antichi, vengono apprezzati per le numerose proprietà benefiche. Si tratta di un piatto non molto calorico e nutriente, il carciofo è, infatti, ricco di potassio, sali minerali, ferro, ed ha effetti davvero positivi sul fegato grazie alla cinarina; da non sottovalutare inoltre le sue proprietà digestive, disintossicanti e antiossidanti. Una porzione da 100 g circa di carciofi alla giudìa apporta circa 200 calorie.

Per quanto riguarda i valori nutrizionali i carciofi alla giudìa

contengono circa 18,6 g di grassi, 6,2 g di carboidrati e 1,8 g di proteine.

l'assorbimento dei nutrienti traendo il massimo beneficio dal cibo ingerito. Sconsigliato in caso di gastrite, ulcera o emorroidi perché irrita le mucose. Il pepe nero ha, inoltre, proprietà antisettiche ed espettoranti. Questa spezia sarebbe preziosa anche per combattere la depressione, sembra infatti che la piperina stimoli la produzione di endorfine nel cervello e agisca come un antidepressivo naturale.


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la "regina" del quinto quarto:

la coda alla vaccinara Q

uesto p iatto,

tipico della tradizione capitolina, è composto da coda di manzo o vitello e viene servito con le verdure. È simile a molte delle tradizionali ricette romane che venivano consumate dai poveri nell'antichità. Originariamente questo taglio di manzo veniva indicato come quinto quarto. Il quinto quarto è tutto ciò che si scarta nelle prime fasi di lavorazione del macellato. Infatti, un animale macellato è diviso in due (mezzene) e poi ancora in due, ottenendo quattro parti, appunto i quarti. Allora da dove spunta questa famosa quinta parte? Semplice, da tutto quello che si scarta nelle prime fasi di lavorazione del macellato. Dunque interiora e frattaglie (coratella, fegato, reni, cervello, lingua), più le parti più difficili da cucinare e quelle apparentemente immangiabili. La coda è ritenuta il simbolo del “quinto quarto”. Ha origine nel quartiere di Roma chiamato “Regola” dove risiedevano i vaccinari, gli operai del Mattatoio, inaugurato nel 1890 e chiuso nel 1975, i quali contribuirono in modo fondamentale alla sua diffusione e alla nascita di tanti altri piatti simbolo della cucina tradizionale romana. Infatti, la coda dei bovini è diventata, nel corso dei secoli, protago-

nista di uno dei piatti più conosciuti della tradizione gastronomica locale: la coda alla vaccinara. Nel rione Regola, a ridosso del fiume, si erano stabiliti i cosiddetti vaccinari, conciatori di pelli bovine. In aggiunta al loro magro salario ricevevano anche le frattaglie dell’animale, che non avevano praticamente valore di mercato. Le pelli da lavorare, invece, arrivavano loro complete di corna, zoccoli e coda e quest’ultima, spellata, fatta a pezzi e bollita, costituiva un’importante risorsa alimentare in un’epoca in cui la carne non arrivava molto spesso sulle tavole del popolino. Molti macellai poi, vendevano parte delle frattaglie alle osterie locali. Ed è proprio grazie all’inventiva delle massaie e dei gestori delle osterie nate nei pressi del mattatoio in quegli anni che si deve, infatti, l’invenzione dei piatti che ancora oggi sono tanto richiesti. Da questo piatto, poi arricchito dall’aggiunta del pomodoro e sedano, elemento fondamentale per la riuscita della preparazione nacque anche il soprannome un po’ dispregiativo di magnacode, dato agli abitanti del rione dagli abitanti di Trastevere. Oggi, questa portata si trova spesso nei menu delle trattorie dei quartieri Testaccio e Trastevere, ma si può gustare anche nei migliori ristoranti della Capitale. Una curiosità da sottolineare è che ognuno vanta la propria paternità della ricetta originale, che secondo alcuni prevede di aggiungere a fine cottura un tocco di dolcezza con cacao amaro in polvere, pinoli e uva sultanina. Qualcuno aggiunge anche cannella o noce moscata. C’è da dire però, che è improbabile che l'uso delle spezie e della frutta secca sia nato all'epoca, dato che questi alimenti erano molto cari e considerati di lusso, quindi i macellai non potevano certo permetterseli, così come non potevano permetter-

si di mangiare i tagli di carne migliori. L’uso di questi ingredienti, infatti, è un’ aggiunta successiva, quando il piatto si è diffuso tra le classi benestanti. Molto benestanti. Nobiltà e papato ne avevano disponibilità e li usavano per arricchire e ingentilire una ricetta altrimenti troppo forte per i loro fini palati. La carne e gli annessi della coda sono ricchi di zinco (15 mg a porzione), che aiuta e contribuisce ad un buon funzionamento del sistema immunitario. E’ la frattaglia più ricca di proteine magre ed è quindi ideale per chi vuole aumentare il tono muscolare.

Informazioni nutrizionali per porzione Energia

423 kcal

Proteine

62 g

Lipidi (Grassi)

14 g

Glucidi (Carboidrati)

6g

Amido

0g

Zucchero

6g

Fibra

2g

Sodio

810 mg

Potassio

1.229 mg

Calcio

57 mg

Fosforo

519 mg

Vitamina B1 (Tiamina)

0,20 mg

Vitamina B2 (Riboflavina)

0,58 mg

Vitamina PP (Niacina)

10,74 mg

Vitamina A 290,63 mg

290,63 mg

Vitamina C 19,99 mg

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LE AZIENDE INFORMANO

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gennaio

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Woody Briketts Pizza l’ultimo prodotto lanciato nel 2020 dal gruppo Florian, leader europeo del settore Legno

Il

Gruppo di Riese Pio X, composto da ben 15 aziende operanti su tutto il territorio europeo e non solo, nel corso degli anni si è dedicato alla ricerca dei metodi più ecologici ed efficienti per sfruttare il tronco in tutte le sue parti, senza mai tralasciare la valorizzazione delle caratteristiche e l’espressività della materia prima trattata. Negli anni, con l’ambizioso obiettivo della FILIERA INTEGRATA A ZERO SCARTI, il gruppo Florian ha lavorato ottimizzando i processi produttivi rispettando l’ambiente e l’ecosostenibilità.

www.woodyfire.it

pizza e pasta italiana

da ardere al pellet, arrivando a Woody Briketts Pizza; il tronchetto ottagonale per forni a legna 100% Faggio, senza collanti ne impurità ne corteccia, completamente made in Italy. L’alta qualità di Woody Briketts Pizza deriva dall’esclusivo utilizzo di legno di faggio non trattato chimicamente, rispetto alla normale legna da ardere dura fino al 50% in più.

Filiera integrata, significa, per il Gruppo Florian, usare e riutilizzare tutte le parti del tronco, anche lo scarto, per dare allo scarto una seconda vita.

La forma ottagonale del Bricchetto rende l’utilizzo pratico e sicuro, la materia prima utilizzata permette al forno di raggiungere la temperatura desiderata in breve tempo e mantenere la fiamma costante più a lungo, permettendo quindi cotture uniformi e di qualità, rispetto alla normale legna da ardere.

Da questa filosofia nascono i prodotti della linea “Woody Fire”, la linea di prodotti dedicati al riscaldamento, dalla legna

Il packaging, studiato ad hoc, renderà la zona di immagazzinamento ordinata e pulita.


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LA BIRRA

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Le migliori birre laziali di Alfonso Del Forno


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I

l Lazio è la regione italiana che ospita la Capitale ed è l’ombelico della nostra nazione. La centralità, fisica e politica, di questa regione, fa da cassa di risonanza di tutto ciò che accade in Italia, compreso la nascita del movimento della birra artigianale. Infatti, a Mentana nasce il primo microbirrificio tra quelli che vengono oggi definiti i pionieri della birra artigianale italiana: Turbacci. All’interno di un locale, la cui grande vetrata affaccia su una pista di pattinaggio su ghiaccio, nel 1995 viene installato il primo impianto di produzione di birra artigianale, che per quindici anni viene obbligato a vendere solo all’interno del locale stesso, senza poter commercializzare esternamente i suoi prodotti. Nel tempo le norme cambiano, i microbirrifici sono sempre più presenti e la birra laziale cresce sia intermini di quantità prodotta che di qualità. Esempio di questa evoluzione è Hilltop, nato nel 2014 grazie all’intuizione di Conor Gallagher Deeks e la sua famiglia. Dopo anni di esperienza presso Birra del Borgo, Connor apre il suo birrificio a Bassano Romano (Vt). Le sue origini irlandesi influenzano la produzione, quasi tutta ispirata alla tradizione anglosassone, senza dimenticare richiami al mondo belga e tedesco. Altro interprete di spicco del movimento laziale è Vento Forte. Il nome del birrificio lascia intuire la forte passione per il surf che anima lo spirito di Andrea Dell’Olmo. La sua passione per la California e le sue birre luppolate, spinge Andrea ad aprire il birrificio nel 2013 a Bracciano (Rm). La produzione è caratterizzata dall’attenta scelta delle materie prime, dalla costanza qualitativa e dal forte legame col territorio.

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LA BIRRA

Illustrazioni di Antonella Manenti

Continuando sulla scia dei valori familiari, troviamo il birrificio Ritual Lab, che vede protagonista il birraio Giovanni Faenza, supportato dal fratello Valerio e dal padre Roberto. Il birrificio di Formello (Rm) è noto nell’ambiente per i tanti riconoscimenti ricevuti e per le collaborazioni con diversi birrifici stranieri, che premiano una costanza produttiva basata su qualità e sperimentazione.

Roma patria di giovani birrifici, come conferma Rebel’s, nato nel 2016 grazie alla voglia di mettersi in gioco di quattro amici, tra cui spicca il nome del birraio Riccardo Di Profio. Le spezie sono protagoniste delle interpretazioni brassicole di stili classici proposte dal birrificio romano, dotato di un biergarten che permette di socializzare bevendo birra all’esterno dell’impianto di produzione.

Rimanendo a Roma, troviamo Eternal City Brewing, un brewpub nato dalla voglia di cinque amici di mettere su un posto unico dove poter bere birra e stare in compagnia, con forte personalità. Le birre sono caratterizzate dalla presenza dei luppoli e quasi tutta la gamma tende a mantenere bassa la gradazione alcolica.

Scendendo a Latina troviamo il Birrificio Pontino, nato nel 2011 grazie all’impegno di quattro amici, che hanno espresso la loro passione attraverso la produzione di birre che s’ispirano al mondo anglosassone e belga. Non mancano birre espressione del territorio e birre stagionali. Bella la taproom con impianto di produzione a vista.

Sempre a Roma troviamo Jungle Juice, un birrificio giovanissimo che ha immediatamente sorpreso addetti ai lavori e consumatori con le sue birre dal forte carattere. Il mondo dei luppoli domina la gamma delle birre, con alcune incursioni nel mondo belga. La scelta di confezionare solo lattine e fusti conferma la visione giovane del birrificio.

Sempre a Latina, nel 2013, nasce Eastside, condotto in maniera egregia da Luciano Landolfi, birraio attento ad ogni dettaglio. L’evoluzione di questo birrificio è stata davvero esemplare, partendo dalle birre luppolate fino ad arrivare alla gamma attuale che guarda a 360° il mondo della birra. Interessante il lavoro intrapreso con le materie prime del territorio.

A Veroli, un piccolo e bellissimo borgo in provincia di Frosinone, nasce nel 2017 il Birrificio Ciociaro di Francesco Viti. Il suo passato da homebrewer ha dato la possibilità a Francesco di spaziare nelle sue ricette per produrre birre che guardassero a tutto il mondo brassicolo, con un tocco di personalità che le rendono uniche. Nel 2014, a Pomezia (Rm), nasce Oxiana, birrificio nato dall’incontro tra i publicans del Birrifugio e l’imprenditore Erasmo Paone. Le birre sono ispirate agli stili classici europei, sempre molto eleganti. Interessanti le collaborazioni con altri birrifici, italiani e stranieri.


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Un forte invito ai piccoli e medi produttori italiani di olio extravergine d’oliva di Giampiero Rorato

Il

mondo del consumo più avanzato, i gourmet che sono in continuo aumento, grazie anche a trasmissioni TV e a riviste specializzate che entrano ormai in quasi tutte le case, i ristoratori più colti e professionali, i cuochi sempre più preparati, i pizzaioli d’avanguardia e ormai sono tanti, esigono materie prime di grande qualità, fra cui l’olio extravergine d’oliva italiano e, sempre più spesso, per i tavoli, lo vogliono DOP. Tutti costoro – professionisti della ristorazione, famiglie e consumatori attenti - e sono ormai centinaia di migliaia, vanno aiutati a scegliere bene e a non farsi ingannare ed anche i frantoi italiani devono aiutarli, creando con loro rapporti di reciproca convenienza. Ma chiediamoci: perché stanno vincendo le grandi industrie olearie soffocando tanti piccoli produttori?

Innanzi tutto, in generale, si conosce ancora poco del grande valore alimentare e salutistico del vero olio extravergine d’oliva italiano ed è anche per questo motivo che Pizza e Pasta Italiana continua a interessarsi di questo argomento e ad aprire le sue pagine ad articoli dedicati all’olio extravergine d’oliva italiano che da sempre sta valorizzando e promuovendo. Poi, avendo compiuto una veloce inchiesta, siamo stati colpiti dal fatto che i piccoli e medi produttori italiani di olio evo, con frantoi spesso di ultima generazione, in inox, con temperatura controllata con termosonde, che conservano l’olio sottovuoto con generatore di azoto inerte, non sono capaci (o non sono interessati) a unire le forze e a fare squadra, non sono quindi capaci di creare una loro

associazione forte e autorevole, per far conoscere l’olio evo prodotto nei piccoli e medi frantoi italiani, legati ciascuno al proprio territorio, e ciò per far conoscere ai consumatori l’altissimo valore alimentare, salutistico, economico e sociale di un mondo ancora sconosciuto ai più, ma fondamentale per la cucina e la ristorazione italiana e per il made in Italy. L’appello è, dunque, ai piccoli e medi produttori a fare squadra, eliminando invidie e concorrenze scorrette, imparando che occorre legare il prodotto al territorio, come fanno i francesi e in parte, anche i toscani – come fanno da tempo i vignaioli - alzando ciascuno la propria nobile bandiera, mostrando al mondo quale prezioso gioiello sia ciascun olio evo prodotto nel territorio italiano.


Excitement tnemeticxE on the plate... ...etalp eht no

Are you ready eht rfor of ythe daer uoy erA best tastedlof the world row eht fo etsat tseb


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pizza e pasta italiana luglio/agosto gennaio

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Se vogliamo che l’olio extravergine d’oliva italiano diventi davvero un prodotto bandiera dell’agroalimentare italiano di alta qualità, è fondamentale l’unione dei frantoiani in associazioni regionali, federate in una forte, autorevole e ascoltata associazione nazionale, come è necessario l’aumento degli uliveti dal Friuli alla Sicilia e alla Sardegna, per ottenere una maggior produzione di olio evo italiano viste anche le richieste estere e interne, che la produzione attuale non riesce a soddisfare. Poi non credo proprio servano nuove denominazioni come qualcuno ha proposto: farebbero solo confusione in un Paese dove la gente non conosce neppure la differenza fra olio extravergine d’oliva e olio d’oliva; fra olio Doc e olio Igp e olio

senza queste sigle. Restino DOP e IGP e si uniscano i produttori, lo facciano conoscere, lo valorizzino e lo promuovano in modo unitario e l’olio evo italiano conquisterà davvero le famiglie, i ristoranti, le trattorie, le pizzerie, oltre ai buongustai di tutto il mondo che già lo esigono e lo prenotano per tempo, perché non manchi sulle loro tavole questo straordinario gioiello che nasce in un Paese che tutto il mondo ama.


PRODOTTO ITALIANO - TECNOLOGIA ITALIANA - GUSTO ITALIANO

M.A.M. FORNI

È innanzitutto una famiglia modenese e, si sa, a Modena la cucina viene presa molto seriamente

ROTANTE

GAS

ELETTRICO

LEGNA

Tested


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di Giampiero Rorato

i d o i I Ch , o n a f o r a di g de

gran sp ez i a invernale

Originari delle Molucche attualmente sono presenti nelle cucine di tutto il mondo

I

chiodi di garofano sono un’ottima spezia, molto apprezzata sia in Oriente che in Occidente. Essa è originaria delle isole Molucche, conosciute come “isole delle spezie”, appartenenti all’Indonesia. I chiodi di garofano sono i boccioli essiccati di un albero sempreverde denominato “Syzygium aromaticum”, (conosciuto anche come Eugenia caryophyllata) alto anche 20 metri della famiglia delle Myrtaceae, che cresce spontaneamente oltre che nelle Molucche anche nelle Antille e in Madagascar. I boccioli di quest’albero sono lucidi e chiari quando sono freschi; maturando si seccano e assumono un colore rosso

brunito, che è quello che conosciamo. Questi boccioli sono formati da un lungo ovario e dai sepali che circondano una pallina con i loro petali sovrapposti e vengono raccolti quando da chiari assumono un color rosa che poi diventa rosso e marrone quando vengono utilizzati come spezia. A scoprire questa spezia sono stati i Portoghesi, poi è intervenuto l’ufficiale francese Pierre Poivre (1719-1786) che portò di nascosto i semi alle Mauritius insieme a un albero di noce moscato e, da allora, la spezia divenne libera da ogni monopolio.


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In verità sembra siano stati gli Arabi già nel IV sec. a scoprire questa spezia e ad esserne affascinati, tanto da convincerli ad introdurla in Occidente, esaltandone il valore e la provenienza mitologica. A suffragare questa informazione c’è una testimonianza archeologica risalente al VI sec.: la scoperta in Alsazia (FR) di una tomba contenente una piccola scatola d'oro che racchiudeva due chiodi di garofano. Tuttavia di queste antica scoperta e dell’introduzione in Occidente dei chiodi di garofano ad opera di mercanti arabi si è perso ben presto la memoria e per rivedere questa spezia in Occidente bisogna attendere fino al XVI secolo, quando la trovarono i Portoghesi alle Molucche, difendendo con le armi le isole dove veniva prodotta, facendola diventare un loro esclusivo monopolio, fino all’impresa di Pierre Poivre.

L’Indonesia, patria originaria dei chiodi garofano, utilizza questa spezia prodotta nel proprio territorio quasi totalmente per uso interno, mentre i chiodi di garofano presenti oggi nel mercato internazionale provengono soprattutto da Zanzibar, Madagascar e Tanzania, I chiodi di garofano emanano un aroma caldo, pepato e canforato e un gusto fruttato acuto e forte ed hanno il medesimo olio essenziale, l’eugenolo, della cannella.

Gli usi L’uso di questa spezia è molto vario, è adatta sia ai piatti salati che a quelli dolci e deve essere usata con moderazione proprio perché il suo sapore è molto forte; ha un potere antiossidante tra i più elevati in assoluto, circa 80 volte più potente di una mela. Come abbiamo scritto, l’impiego di questa spezia nelle cucine dei vari Paesi è molto vario. Tra i piatti più noti alcuni dolci di frutta, specie di mele, pandolci e panpepati, biscotti, creme e farciture, liquori e vini aromatizzati; nel Nord Italia è notissimo il vin brulé.


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Accompagnano molto bene marinate di selvaggina, arrosti, brodi (specie di pollo o gallina) e talvolta formaggi stagionati. Si sposano bene con alcune verdure dolci, come cipolle, cipolline, carote che spesso vengono riposte in conserva con l'accompagnamento di un paio di chiodi di garofano. Sono frequentemente usati per aromatizzare il tè o alcuni infusi. Oltre che in cucina, i chiodi di garofano trovano ampio spazio nella cosmesi, e nell'oggettistica, come pot-pourri e deodorante naturale per ambienti.

I chiodi di garofano inseriti in un'arancia sono usati come alternativa naturale alla canfora e altre sostanze di sintesi contro le tarme, per i vestiti del guardaroba. Inseriti in mezzo limone sono usati come alternativa naturale alle sostanze di sintesi contro le zanzare nelle camere da letto. Funziona fino a quando il limone è fresco, poi va sostituito. Hanno uno spiccato potere anestetico locale tanto che erano usati per lenire i dolori ai denti e tutt'oggi l'eugenolo, estratto dall'olio essenziale, viene usato in medicina nei disinfettanti orali e nei farmaci odontalgici (per il trattamento del dolore da carie). Come si vede, i chiodi di garofano sono una spezia importante che merita conoscere bene per le sue caratteristiche sia aromatiche che salutistiche, come merita usarla di piĂš perchĂŠ la sua presenza in molte preparazioni ne accentua i sapori oltre che regalare all’organismo sostanze che fanno bene.



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I Decreti Ristori dell’Avv. Manuela Viscardi

Gestisci una caffetteria e non sai se puoi chiedere un aiuto? Hai una pizzeria e non sai se avvalerti della cassa integrazione? Sei un ristoratore e ti chiedi come far fronte a tutte le scadenze fiscali?

Di sicuro sei stato messo a dura prova dalle disposizioni sulla limitazione della mobilità personale e necessiti delle misure che il Governo ha messo a disposizione dei settori produttivi più colpiti, stanziando risorse liquide. Stiamo parlando del Decreto Ristori, o meglio, dei Decreti Ristori, perché il Consiglio dei Ministri ne ha approvato quasi uno a settimana da inizio novembre a dicembre e, ad oggi, se ne contano già 4.


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Innanzitutto, in base al D.L. n. 137 del 28.10.2020, chi può usufruire del contributo a fondo perduto di circa 11,6 miliardi sono: - gli operatori IVA che svolgono prevalentemente un’attività il cui codice ATECO è compreso nell’Allegato 1 di cui al decreto 137/2020. Il contributo spetterà a condizione che gli incassi del mese di aprile 2020 siano inferiori di oltre il 33% a quelli di aprile 2019. - anche senza i requisiti sopra indicati, coloro che hanno attivato la partita IVA a partire dall’1.1.2019.

1.1.2019

Chi non abbia usufruito dell’aiuto previsto dal Decreto Rilancio 34/2020 dovrà presentare un’apposita istanza online predisposta dall’Agenzia delle Entrate. Chi, invece, abbia già percepito tale sussidio, riceverà dall’Agenzia delle Entrate il contributo sul conto corrente su cui ha ricevuto l’aiuto precedente.

Non potranno beneficiarne, invece, coloro che hanno aperto partita IVA a partire dal 25.10.2020, né i soggetti la cui partita IVA risulti cessata alla data di presentazione dell’istanza.



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E per i dipendenti? Le contromisure economiche del D.L. Ristori hanno previsto ulteriori 6 settimane di Cassa integrazione, da utilizzare tra il 16.11.2020 e il 31.1.2021. I datori di lavoro dovranno versare un contributo addizionale del 9% o del 18% delle retribuzioni non erogate ai lavoratori in cassa integrazione, nella misura in cui, rispettivamente, abbiano subito una diminuzione del fatturato nel primo semestre del 2020 inferiore al 20% o non abbiano subito alcuna riduzione. Coloro che, invece, siano incorsi in un calo superiore al 20%, sono esentati dal versare detto contributo. Inoltre, è sancito il blocco dei licenziamenti per motivi economici, salvo per fallimento, cessazione attività o adesione ad accordi collettivi aziendali. Per quanto riguarda i locali in cui si svolge l’attività d’impresa, sfruttati solamente in minima parte in questo periodo, il Governo ha deciso di predisporre un credito di imposta cedibile al 60% per gli affitti commerciali di ottobre, novembre e dicembre. Per i proprietari e i gestori, inoltre, sarà cancellata la rata IMU di dicembre.

Il Consiglio dei Ministri ha, poi, varato diverse integrazioni, tra cui le più rilevanti sono: la maggiorazione del 50% delle quote del contributo già erogato nel mese di aprile per gelaterie, bar, pasticcerie e alberghi (D.L. 9.11.2020, n. 149); l’incremento del fondo di 1,45 miliardi in soccorso delle attività che operano in Regioni che passano ad una fascia di rischio più alta (D.L. 23.11.2020, n. 154); il rinvio al 30/04/2021 dei versamenti del secondo acconto Irpef, Ires e Irap e la sospensione del versamento delle ritenute, dell’Iva e dei contributi previdenziali (D.L. 30.11.2020, n. 157). Difficile capire quali saranno le future direttive che il Governo emanerà nei prossimi mesi, mentre la lotta al Covid-19 prosegue. Per questo è sempre opportuno rivolgersi a un team di esperti che possano aiutare il professionista della ristorazione ad affrontare la situazione, con idee che rilancino l’attività e la giusta velocità nell’operare ottimizzazioni di risorse considerando la normativa.

Manuela Viscardi – avvocato presso Caronte Consultancy, opera prevalentemente in diritto del lavoro e commerciale, affrontandone i temi più innovativi. Lo Studio protegge persone con un’attività, cui fornire assistenza non soltanto durante, ma in anticipo.


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