Rivista lasalliana 2-2012

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TASSA RISCOSSA TAXE PERÇUE ROMA

Rivista lasalliana Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com

2012

Rivista lasalliana

Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

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ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Liberi di scegliere Francesco Trisoglio S. Ignazio d’Antiochia, araldo dell’unità Edwin Artega Tobòn La espiritualidad del educador lasaliano hoy Gabriele Di Giovanni Gli orientamenti pastorali della C.E.I. interrogano il mondo lasalliano Dario Antiseri Come favorire la creatività Marica Spalletta Contro il “professorese” Bérnard Pitaud La spiritualité du Bieneureux Nicolas Roland Sergio De Carli Pavel Florenskij e la scuola Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera Antonio Iannaccone Il Centro Universitario “Villa S. Giuseppe” (Torino) Scuola dell’Infanzia “M. Montessori” (Pozzuoli - NA) Percorso didattico di educazione scientifica APRILE - GIUGNO 2012 • ANNO 79 – 2 (314)



RIVISTA LASALLIANA Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondata nel 1934 Anno 79 • numero 2 • aprile-giugno 2012 Direttore DONATO PETTI

Comitato scientifico DARIO ANTISERI (Medodologia delle Scienze Sociali)

ITALO FIORIN (Pedagogia speciale)

PAOLO ASOLAN (Teologia pastorale)

REMO L. GUIDI (Questioni umanistico-rinascimentali)

ANTONIO AUGENTI (Educazione comparata)

PASQUALE MARIA MAINOLFI (Bioetica)

DENIS BIJU-DUVAL (Teologia dell’evangelizzazione)

ANTONELLO MASIA (Legislazione Universitaria)

GIORGIO CALABRESE (Scienze dell’alimentazione umana)

DIEGO MUÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)

PASQUALE CAPO (Gestione risorse professionali)

RAIMONDO MURANO (Formazione tecnico-professionale)

MARIA CZEREPANIAK-WALCZAK (Pedagogia)

CARLO NANNI (Scienze dell’educazione)

LUCIANO CHIAPPETTA (Legislazione scolastica)

STEPHANE OPPES (Filosofia teoretica)

MARIO CHIARAPINI (Direttore Rivista “Lasalliani in Italia”)

CARMELA PALUMBO (Autonomia scolastica)

GIUSEPPE COSENTINO (Ordinamenti scolastici)

MARCO PAOLANTONIO (Studi lasalliani)

ENRICO DAL COVOLO (Letteratura Cristiana Antica)

MAURIZIO PISCITELLI (Didattica)

GAETANO DAMMACCO (Diritto di libertà religiosa)

MARIO RUSCONI (Management scolastico)

GABRIELE DI GIOVANNI (Direttore “Sussidi per la catechesi”)

LORENZO TÉBAR BELMONTE (Pedagogia Lasalliana)

FLAVIO FELICE (Dottrine Economiche e Politiche)

ENRICO TRISOGLIO (Storia e Letteratura Patristica)

Collaboratori Roberto Alessandrini, Edwin Arteaga Tobòn, Bruno Bordone, Ernesto Borghi, Emilio Butturini, Angelo Piero Cappello, Umberto Casale, Robert Comte, Sergio De Carli, Alberto Di Giglio, Paulo Dullius, Andrea Forzoni, Oreste Gianfrancesco, Pedro Gil, Mariachiara Giorda, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Antonio Iannaccone, Léon Lauraire, Lino Lauri, Annalena Liberotti, Herman Lombaerts, Anna Lucchiari, Matteo Mennini, Patrizia Moretti, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Laura Pappone, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Bérnard Pitaud, Gerard Rummery, Marica Spalletta, Giuseppe Tacconi, Roberto Zappalà.


DIREZIONE Donato Petti - Via dell’Imbrecciato, 181 - 00149 Roma 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Le riviste in cambio e i libri per recensione vanno inviati alla Direzione

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Rivista lasalliana 79 (2012) 2

SOMMARIO EDITORIALE 155 Donato Petti Liberi di scegliere Oggi, in Italia, a differenza delle altre nazioni europee, non esiste la possibilità di scegliere, a parità di condizioni, una scuola diversa da quella statale. Infatti, mentre chi manda un figlio ad una scuola statale riceve un servizio che ha pagato con le imposte, il contribuente che non manda il figlio ad una scuola statale paga con le imposte un servizio che non riceve, o, ciò che è lo stesso, paga due volte l’istruzione dei propri figli: la prima volta con le imposte, la seconda volta sotto forma di retta scolastica da corrispondere alla scuola non statale. In Italia, il finanziamento pubblico della scuola è stato limitato, fino ad oggi, alle sole scuole statali, in condizione di monopolio o quasi. Tale forma di finanziamento dell’istruzione è assolutamente incompatibile con le regole di una libera democrazia perché mette in pericolo la libertà, viola le regole della giustizia sociale e compromette l’efficienza della scuola. Quale il rimedio? Una scuola veramente “libera”, nella quale, cioè, venga riconosciuta realmente ai cittadini la libertà di scegliere la scuola più idonea ai loro convincimenti educativi, morali e religiosi, in un sistema di libera concorrenza, senza alcuna discriminazione. Free to choose Today, in Italy, unlike the other European nations, the possibility to choose, all things being equal, a different school different from the state one, does not exist. In fact, while the person who send his son to a state school receives a service which he has payed with a tax, the tax payer who does not send his son to a state school, pays with a tax a service he does not get back. What is unjust is the fact that this parent pays twice the education of his sons: the first time with the taxes, the second time with the school fees to pay to the institution. In Italy, the public fund for the school, has been given, so far, only to the state schools, on a kind of monopoly or something similar. This kind of financing for the education is absolutely against the rules of a free democracy because it endangers freedom, violates the rules of the social justice, and jeopardizes the efficiency of the school itself. What is the remedy? A school really “ free “, where, the right to choose is really recognized to the citizens who want a school more suitable for their educational, moral, and religious principles, in a system of free competition, and without any discrimination.


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STUDI 161 Francesco Trisoglio S. Ignazio d’Antiochia, araldo dell’unità Ignazio l’unità la visse e l’inculcò, vedendovi non soltanto un rapporto sociale ma un effetto della carità; essa si fa visibile e si concreta nel vescovo, che rappresenta l’emblema di Cristo. Per Ignazio l’unità si estende a tutti gli ambiti della vita religiosa. Per lui il vescovo è il centro della fede, al quale bisogna guardare come al Signore stesso; è il centro dell’autenticità, che garantisce la genuinità dell’amministrazione dei sacramenti; è il centro della gerarchia ecclesiastica, attorno al quale si raccolgono fedeli e ministri. A complemento di questo fulcro essenziale si stendono l’unità dei fedeli tra di loro, che si esprime particolarmente nella coralità della preghiera, e l’unità delle Chiese, che si incrementa con sistematiche comunicazioni vicendevoli. Nell’interiorità dell’anima deve poi effettuarsi l’unità della propria vita, che si realizza nella dedizione a Cristo, la quale si sublima nel martirio. St.Ignatius of Antioch, Herald of Unity Ignatius lived unity and inculcated it, seeing in it not only a social connection but an effect of charity; this is made visible and is made concrete in the bishop, who represents the emblem of Christ. For Ignatius unity extended to all the ambits of the religious life. For him the bishop is the centre of the faith, towards whom we must look as at the Lord himself; he is the centre of authenticity , which guarantees the genuineness of the administration of the sacraments; he is the centre of the Church hierarchy around which the faithful and the ministers gather. Around this essential fulcrum there extends the unity of the faithful among themselves, which is particularly expressed in the choral nature of prayer, and the unity of the Churches, which grows with systematic mutual communications. In the interiority of the soul there should then be effected the unity of one’s own life, which is achieved in dedication to Christ, which is exalted in martyrdom.

171 Edwin Arteaga Tobòn La espiritualidad del educador lasaliano hoy a la luz de los escritos de San Juan Bautista De La Salle No se logra fomentar el Reino de Dios sino mediante la espiritualidad, es decir, a través de un estilo de vida y de pensamiento como el que caracteriza, por ejemplo, las órdenes religiosas y las asociaciones de seglares dedicados a una tarea específica en la Iglesia. No cabe la menor duda que la familia lasaliana tiene su propia espiritualidad fundamentada en los escritos de su Fundador y en la praxis de sus Her-


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manos y seglares. Este artículo describe el estilo de vida y de pensamiento fundamentales que caracteriza al educador lasaliano hoy en día. Se trata, en principio, de una espiritualidad que desarrolla: las dinámicas del bautismo, la presencia de Dios, un amor cristocéntrico, la elección para una misión eclesial, el abandono a la Divina Providencia, la capacidad de mover corazones mediante con la ternura, el buen ejemplo, la vida interior y la oración. Por último, la asociación, aunque no haya sido consagrada en los numerosos textos fundadores, ha marcado definitivamente la praxis de La Salle y de sus Hermanos como una vigorosa fraternidad destinada a “fundar” las escuelas, a fomentar su salvación y una verdadera vida cristiana en aquellos que Dios les ha confiado. The spirituality of the Christian educator today in the light of the writings of Saint Jean Baptiste de La Salle Fostering the Kingdom of God can only be attained through spirituality, a way of life and thinking which characterizes religious orders and associations of lay Christians dedicated to a specific task in the Church. Having seen that the Lasallian family has a spirituality that is definitely its own, based upon the writings of its founder and the practice of his Brothers, this article draws the basic way of life and thinking which characterizes the Lasallian educator nowadays. It is, basically, a spirituality which develops the dynamics of baptism, the presence of God, a Christocentric love, the election for a mission in the Church, the abandon to the Holy Providence, the capacity to touch hearts through tenderness and good examples, interior life and prayer. Last but not least, although not formally consecrated by extensive founding texts, the praxis of St. John Baptist de La Salle and his Brothers was definitively marked by their association, a strong brotherhood intended to foster their own salvation and a true Christian life for those confided to them. 183

Gabriele Di Giovanni “Educare alla vita buona del vangelo”. Gli orientamenti pastorali dei vescovi italiani interrogano il mondo lasalliano Nell’autunno del 2010 i Vescovi italiani hanno consegnato al popolo di Dio in Italia gli Orientamenti Pastorali per il decennio 2010 – 2020 dal titolo “Educare alla vita buona del Vangelo”. La riflessione dei Vescovi, dedicata alla intera Chiesa che è in Italia, investe direttamente il mondo lasalliano, tocca corde che gli sono proprie. Tutto ciò che gli Orientamenti dicono in rapporto alla scuola, alla scuola cattolica e all’educazione in genere, l’Autore lo applica direttamente al mondo lasalliano dell’educazione, invitandolo a riscoprire e a ripensare la propria identità, il proprio essere e il dover essere. Gli Orientamenti sono presentati come un’occasione e una guida per rimetterci in discussione in modo positivo.


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“To bring up to the good life of the Gospel“. The pastoral orientations of the Italian bishops examine the lasallian world. In the autumn 2010 the Italian Bishops gave the people of God the Pastoral Orientations for the decade 2010-2020 with this title “To bring up to the good life of the Gospel“. The reflection of the Bishops, sent to the whole Church who is in Italy, directly regards the lasallian world, and touches themes that are dear to it. All that the Orientations say about school, the catholic school, and the upbringing in general, is directly applied by the Author to the lasallian upbringing, inviting everybody to find again and think over his own identidy, his own being, and what he should be. The Orientations are offered as a chance and a guide to examine ourselves in a positive way.

PROPOSTE 199

Dario Antiseri Come favorire la creatività Tutta la ricerca scientifica – in qualsiasi ambito essa venga praticata – si risolve in tentativi di soluzione dei problemi. E per risolvere i problemi c’è bisogno di menti creative, cioè di menti in grado di creare ipotesi risolutive. Ora è certo che la creatività non può essere insegnata: non c’è un’ora di creatività accanto ad un’ora di italiano o ad un’ora di matematica. E, tuttavia, la creatività può venire stimolata – sia insistendo su di un insegnamento per problemi piuttosto che per esercizi, sia cercando di abituare i ragazzi a non aver paura di sbagliare. Tutta la ricerca procede per tentativi ed errori. Il panico dell’errore è la morte del progresso, la morte della ricerca. Da qui anche un’attenta didattica tesa allo sfruttamento formativo dell’errore. Come ha scritto Popper ”l’errore commesso, individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza”. How to favour creativity All scientific research – in whatever ambit it is practiced - ends up in attempts to solve problems. To solve problems we need creative minds, that is minds capable of creating hypotheses for solutions. Now it is certain that creativity cannot be taught: you do not have an hour of creativity beside an hour of Italian or of maths. However creativity can be stimulated - either by insisting on a teaching by means of problems rather than by exercises, or by trying to get pupils used to not being afraid of making mistakes. All research proceeds by means of attempts and mistakes. Panic over mistakes is the death of progress, the death of research. Hence a careful teaching finalised to the formative exploitation of error. As Popper writes: “The error committed, individualized and eliminated is the weak red light which allows us to come out of the cavern of our ignorance”.


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Marica Spalletta Contro il “professorese”. Alcune best practices nella comunicazione tra docenti e studenti La relazione tra studenti e insegnanti si presta a essere analizzata attraverso molteplici e diverse modalità di studio, tra cui figurano anche gli studi sulla comunicazione. Essi consentono infatti di analizzare questa relazione mettendo in luce, da una parte, gli errori più comuni, dall’altra le best practices. L’Autrice si propone dunque di indagare la relazione educativa dal punto di vista della comunicazione, focalizzando in particolare l’attenzione sulla contrapposizione tra dire e parlare, e tra sentire e ascoltare. Dall’analisi emerge che un “bravo insegnante” deve essere in grado di capire e di farsi capire: dunque un “bravo insegnante” è un buon comunicatore. Against the “professorese”. Some best practices in communication between teachers and students Several and different ways of studying can be used to analyse the relationship between students and teachers, and communication studies are certainly one of them. The main aim of this paper is to investigate the educational relationship with the help of communication studies, that allow us to highlight both the most common mistakes and the best practices; the authoress focuses on the opposition between talking and speaking, between hearing and listening. The analysis shows that a “good teacher” must be able to understand and to be understood: thus a “good teacher” is a good communicator.

RICERCHE 215

Bérnard Pitaud La Spiritualité du Bienheureux Nicolas Roland Tous les lassaliens le savent: Nicolas Roland fut le directeur spirituel de Jean-Baptiste de la Salle. Et quand il mourut en avril 1678, il choisit le jeune chanoine, pas encore prêtre, comme l’un de ses deux exécuteurs testamentaires. On sait aussi que Jean-Baptiste de la Salle s’inspira pour une part des orientations et des règlements donnés par Nicolas Roland aux Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims pour la fondation des écoles gratuites de filles. L’article que nous proposons ici est une tentative de synthèse de la «spiritualité» de Nicolas Roland. Nous l’avons abordée sous trois angles: d’abord la perception qu’ont eue ses contemporains de sa personnalité spirituelle; ensuite ce que révèlent ses propres écrits; enfin ce que nous pouvons découvrir des sources de sa spiritualité. Ce travail n’avait jamais été entrepris. Il laisse ouvertes encore un certain nombre de questions.


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The Spirituality of Blessed Nicolas Roland All Lassalians know: Nicolas Roland was the spiritual director of Jean-Baptiste de la Salle. When he died in april 1678, he choose the young canon, not yet ordained a priest, as one of his two executors. Moreover, Jean-Baptiste de la Salle drew his inspiration from the orientations and rules given by Nicolas Roland to the Sisters of Jesus-Child of Reims, for the foundation of free schools for girls. In this article, we attempt a beginning synthesis of the “spirituality” of Nicolas Roland from three points of view: first, the perception of his contemporaries on his “spiritual personality”; then, what his own written works show; at last what we can discover from the sources of his spirituality. As this work had never been undertaken, it leaves a number of unanswered questions. 239

Sergio De Carli Pavel Florenskij e la scuola. Il pensiero pedagogico del “Leonardo russo” e la condizione italiana Il tempo che stiamo vivendo è tempo di crisi e di passaggio e chiede un ripensamento della scuola, a partire dai suoi fondamentali. Preziose indicazioni possono essere tratte dalla riflessione di Pavel Florenskij, il “Leonardo russo”. Egli sostiene la centralità della relazione capace di educare l’interiorità dei ragazzi insieme alla socialità, recuperando quelle motivazioni che costituiscono spesso le domande inespresse eppure centrali perché riescano a dare un senso all’esistenza (scoperta della propria identità personale) e al loro andare a scuola. Insegnanti e genitori devono rimotivarsi e riscoprire la dimensione educativa della cultura, intesa come percorso relativo ai contenuti ma mai staccato dall’esistenza, come ripetutamente ricorda Florenskij. Pavel Florensky and the school. The pedagogical thought of the ‘Russian Leonardo’ and the Italian condition The period we are living in is a time of crisis and a time of passage and calls for a rethinking of the school, starting out from its fundamentals. Valuable indications can betaken from the reflections fo Pavel Florensky, the ‘Russian Leonardo’. He supports the centrality of the connection capable of educating the interiority of the children along with their socialization, recovering those motivations which often constitute the unexpressed questions which yet are central because they succeed in giving meaning to existence(discovered from the personal identity itself) and to their going to school. Teachers and parents ought to re-motivate themselves and rediscover the educational dimension of culture, understood as a relative path to the contents but never detached from existence, as Florensky repeatedly says.

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Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera Scopo principale delle Scuole Cristiane istituite dal de La Salle è la formazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani. Coefficiente


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essenziale di essa è la preghiera. Il de La Salle, uomo e maestro di orazione, fornì anche strumenti didattici, soprattutto dettò riflessioni, preghiere, esercizi e pratiche di pietà, che troviamo raccolti nel volume “Istruzioni e preghiere, esercizi di pietà, canti spirituali”. La preparazione di tali strumenti è proseguita grazie all’interesse e all’impegno di diversi Fratelli lasalliani lungo il decorso del tempo. È assai probabile che parecchi di questi testi siano andati smarriti, ma di alcuni rintracciamo la presenza nella Biblioteca lasalliana di Torino. L’Autore ne illustra la presentazione. Lasallians who are authors of prayer books The principle aim of the Christian Schools founded by De La Salle is the human and Christian formation of children and young people. The essential factor in this is prayer. De La Salle, man of prayer and master of prayer, also provided teaching tools, above all reflections, prayers, exercises and practices of piety, which we find collected together in the volume “Istruzioni e preghiere, esercizi di pieta, canti spirituali” (Instructions and prayers, exercises of piety and spiritual hymns). The preparation was achieved thanks to the interest and the work of different lasallians Brothers down through the years. It is probable that some of these texts have disappeared but we have traced the presence of some in the Biblioteca Lasalliana in Turin. The author illustrates their presentation.

ESPERIENZE 267

Antonio Iannaccone Il Centro Universitario “Villa San Giuseppe” (Torino) Appena oltre il fiume Po, all’inizio della collina di Torino, c’è un piccolo mondo dove vivono 170 giovani universitari che hanno deciso di andare controcorrente rispetto al “mondo grande” circostante: i nuovi sono al centro della scena, le attività (oltre allo studio naturalmente) sono tantissime e tutte rigorosamente gratuite. Per cercare la vera Bellezza, quella che non si può comprare. The University Centre “Villa San Giuseppe” (Torino) Just across the river Po, where begins the hill of Turin, there's a small world where live 170 young academics who have decided to go in the opposite direction to the "big world": the new ones are at center stage, the activities (in addition to the study, of course) are many and all strictly free. To find the true Beauty, one that you can not buy.


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Scuola dell’Infanzia: percorso didattico di educazione scientifica La scuola dell’Infanzia “M. Montessori” del 2° Circolo Didattico “De Amicis” di Pozzuoli (NA) ha realizzato un progetto di educazione scientifica, basato sul metodo IBSE (Inquiry-Based-Science-Education). I bambini si sono cimentati nell’allevamento di bachi da seta, a partire dalle uova, osservando tutto il ciclo vitale dell’insetto. Durante il percorso, durato otto settimane, i piccoli, oltre a manipolare oggetti, sono stati guidati a raccogliere dati, a verificarli e a riflettere sulla loro interpretazione, realizzando in tal modo una vera e propria indagine scientifica in miniatura. Nursery School: Educational survey of Science Education The Maria Montessori Nursery School of the 2nd Teaching Circle “De Amicis” (Naples) has concluded a science educational program, based on the IBSE method (Inquiry Based Science Education). The children were involved with the rearing of silkworms, beginning with the eggs, and observing the entire life cycle of the insect. During this journey, which lasted eight weeks, the children, as well as controlling objects, were directed to collect data, to verify it and to reflect on their interpretations, thus creating a true and proper scientific inquiry in miniature.

RECENSIONI 277

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FR. ALVARO RODRIGUEZ ECHEVERRIA, Consacrati dal Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sottopongono al giudizio di Dio il loro ministero. Lettera Pastorale, Roma, 2011. SILVANO FAUSTI, S.J. - VINCENZO CANELLA, F.S.C. - Alla scuola di Marco. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2004, pp. 335. - Alla scuola di Matteo. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2007, pp. 592. - Alla scuola di Luca. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2009, pp. 614. - Alla scuola di Giovanni. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2012, pp. 512. FILM 12. Regia: Nikita Mikhalkov.

SEGNALAZIONE LIBRI


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EDITORIALE

LIBERI DI SCEGLIERE DI

DONATO PETTI

L’anomalia della scuola italiana

ggi, in Italia, a differenza delle altre nazioni europee, non esiste libertà di scuola, cioè la possibilità di scegliere, a parità di condizioni, una scuola diversa da quella statale. Infatti, mentre chi manda un figlio ad una scuola statale riceve un servizio che ha pagato con le imposte, il contribuente che non manda il figlio ad una scuola statale (per i motivi più diversi), paga con le imposte un servizio che non riceve, o, ciò che è lo stesso, paga due volte l’istruzione dei propri figli: la prima volta con le imposte, la seconda volta sotto forma di “retta scolastica” da corrispondere alla scuola non statale. Il sistema attuale, da un lato, consente un lusso che non tutti si possono permettere (pagare due volte l’istruzione dei figli), dall’altro restringe, presumibilmente in nome della giustizia sociale, proprio la libertà di scelta dei meno abbienti, che non possono permettersi una scuola diversa da quella statale. Introdotto per garantire uguaglianza di accesso, il sistema statalista finisce così per determinare, invece, diseguaglianza di uscita. Quale il rimedio? Una scuola veramente “libera”, nella quale, cioè, venga riconosciuta realmente ai cittadini la libertà di scegliere la scuola più idonea ai loro convincimenti educativi, morali e religiosi, in un sistema di libera concorrenza, senza alcuna discriminazione.

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Fondamenti della libertà di educazione La presunzione di avere in mano il “monopolio della verità” trova i suoi equivalenti, in politica, nel totalitarismo, e, in economia, nella pianificazione centralizzata. La logica della ricerca scientifica, come di un processo senza fine di soluzione di problemi attraverso la “concorrenza” di più idee, trova,


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Donato Petti

invece, i suoi equivalenti: in politica, nella democrazia, e, in economia, nel mercato. In realtà, la logica del mercato è la logica della ricerca. Nell’economia di mercato vince - di volta in volta, e non per l’eternità - colui che ha saputo inventare una merce che risolve un problema (o un insieme di problemi) meglio di altre merci. E come nella scienza sovrani sono i fatti, così sul mercato (su un mercato senza protezioni) sovrani sono i consumatori con le loro preferenze e i loro valori. In una società basata sul libero mercato, la concorrenza (con regole stabilite e chiare e dove nessuno viene favorito o protetto) è la più alta forma di collaborazione. La pianificazione centralizzata è la patologia della società; la logica del mercato ne è, invece, la fisiologia. Proprietà privata, concorrenza e profitto sono processi razionali in vista di quel fine etico che è il benessere di tutti. Concordo con Dario Antiseri allorché si interroga: è preferibile dividere in parti disuguali la ricchezza in un mondo di libertà e di pace oppure dividere sempre e comunque in parti disuguali la miseria in un mondo di oppressione e di odio? Già negli anni venti, L. von Mises dimostrò che in un sistema economico in cui è stato abolito il mercato, il calcolo economico è impossibile. Inoltre, l’abolizione del mercato implica, di necessità, l’impossibilità di risolvere razionalmente i problemi economici. Le conseguenze sono l’arbitrio e la corruzione del potere politico, la distruzione della ricchezza, la riduzione degli individui a servi dei presunti e sedicenti “possessori della verità” e dei “guardiani del senso della storia”. L’abolizione del mercato conduce inesorabilmente verso la schiavitù.1

Pluralismo culturale, educativo e scolastico In Italia, si diceva, il finanziamento pubblico della scuola è stato limitato, fino ad oggi, alle sole scuole statali, in condizione di monopolio o quasi. Tale forma di finanziamento dell’istruzione è assolutamente incompatibile con le regole di una libera democrazia. Innanzitutto perché il sistema monopolistico nell’istruzione è caratteristico di tutti i regimi totalitari, che sono perfettamente consapevoli del fatto che il mancato controllo, rigido e assoluto, sull’intero sistema scolastico metterebbe in pericolo la loro sopravvivenza.

1

DARIO ANTISERI, Logica della ricerca, logica del “mercato” e scuola libera, in “ In difesa della scuola libera. Il “Buono Scuola”, (a cura di Lorenzo INFANTINO, Borla, Roma 1994), p. 10 - 12.


Liberi di scegliere

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Il sistema statalistico è contrario ai valori fondamentali della democrazia perché mette in pericolo la libertà, viola le regole della giustizia sociale e compromette l’efficienza della scuola. Il sistema scolastico fondato sul monopolio dell’istruzione impartita e gestita dallo Stato è contrario alla libertà, perché conferisce un ingiusto vantaggio alla scuola statale nella concorrenza con la scuola non statale. E l’esistenza di quest’ultima è garanzia di libertà, offrendo alle famiglie la possibilità di un’alternativa sia sul piano dell’indirizzo culturale, politico o religioso, che sotto il profilo della qualità e del contenuto dell’insegnamento. Infatti, la pluralità di indirizzi, la varietà e la diversità di contenuti rappresentano una componente essenziale della libertà.2 Quando lo Stato gestisce in proprio la scuola, sottraendola al controllo salutare della concorrenza, il risultato prevedibile non può non essere che lo scadimento del servizio e l’incremento dei costi. L’attuale situazione italiana ne è la conferma plateale. In conclusione, ogni forma di monopolio scolastico ed educativo, cioè il preteso diritto esclusivo ad istruire ed educare, contraddice ai diritti naturali della persona umana e anche allo sviluppo e alla divulgazione della cultura, alla pacifica convivenza dei cittadini, nonché a quel pluralismo, quale oggi esiste in moltissime società.3 Per la sua complessità la formazione non può essere identificata con l’azione dello Stato, ma va considerata come un sistema allargato e diversificato che dovrebbe includere una pluralità di soggetti (lo Stato, le Regioni, gli Enti locali, gli altri Enti e i privati), tra i quali realizzare ipotesi di coordinamento e integrazione. L’estensione della responsabilità globale dell’educazione all’intera società e alle comunità in cui quella si articola mira a garantire alla persona il diritto di educarsi, scegliendo liberamente il proprio percorso tra una molteplicità di istituzioni, contenuti, metodi e tempi. Entro questo quadro, la libertà effettiva di educazione e la parità tra scuole statali e non statali si presentano come delle strategie che la società, nel suo impegno a valorizzare tutte le strutture per fini educativi, utilizza, allo scopo di realizzare una collaborazione feconda tra scuole pubbliche, statali e non statali, operanti senza finalità di lucro.

2 ANTONIO MARTINO, Il finanziamento dell’istruzione in una libera democrazia, in “In difesa della scuola libera. Il “Buono - Scuola”, op. cit. , pp. 29 - 55. 3 CONCILIO VATICANO II, Dichiarazione “Gravissimum Educationis” (in seguito citata G.E.), 1965, n. 6.


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EDITORIALE

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La scuola, sia essa statale che non statale, e quest’ultima, cattolica o laica, è un’espressione del diritto di tutti i cittadini alla libertà di educazione, e del corrispondente dovere di solidarietà nella costruzione della convivenza civile. Ora tale diritto-dovere appartiene ai cittadini come persone e nelle formazioni sociali in cui si svolge la loro vita: la famiglia singola o aggregata in comunità storiche, territoriali, culturali. Sicché il fine ultimo di ogni istituzione scolastica è di porsi come scuola delle famiglie e delle comunità, al servizio della crescita culturale e sociale dei cittadini. La famiglia - che ha un ruolo decisivo, non solo materiale, ma anche di indirizzo, garanzia, solidarietà, gestione sociale degli indirizzi educativi - assume il ruolo pregnante non solo di utente, ma anche di autentico committente del servizio. Se, dunque, la scuola si pone come scuola delle famiglie e delle comunità e se l’assetto normativo non solo consente ma addirittura stimola le famiglie a coinvolgersi sempre più nella scuola, allora si pongono le condizioni reali per un’effettiva libertà di educazione, sicché i genitori possano scegliere le scuole per i propri figli in piena libertà, secondo la loro coscienza,4 e possano liberamente adempiere - anche in forza di interventi pubblici - ai loro fondamentali doveri educativi.5 L’impegno civile, quindi, che le famiglie esprimono a sostegno della libertà della scuola, non è rivendicazione di un privilegio, bensì un esercizio del diritto originario della partecipazione, per la costruzione della società a misura di uomo.6 Il monopolio scolastico da parte dello Stato è, pertanto, inammissibile, mentre il pluralismo delle scuole rende possibile il rispetto dell’esercizio di un diritto fondamentale dell’uomo e della sua libertà.7 Lo “Stato educatore” di stampo napoleonico che pretende di gestire dal centro l’intero sistema educativo, è ormai anacronistico e culturalmente superato. Ciò, tuttavia, non significa che lo Stato vada eliminato per far posto ai privati, a una specie di giungla senza regole, né garanzie. Piuttosto, si vuole intendere che dall’attuale regime di monopolio statale si passi a un sistema nuovo e integrato, nel quale accanto all’iniziativa statale, ci sia spazio anche per quella privata, ma

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CONCILIO VATICANO II, Ibidem. C.E.I., La scuola cattolica oggi in Italia (in seguito citata S.C.O.I.), 1983, n. 85. 6 C.E.I., S.C.O.I., nn. 12, 83. 7 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Il laico cattolico testimone della fede nella scuola, 1982, n. 14; G.E., n. 6. 5


Liberi di scegliere

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su un piano di totale parità, con pari opportunità giuridiche, sociali ed economiche. A monito, mi piace ricordare le parole di John Stuart Mill contro il monopolio statale: “Un governo non può aver mai abbastanza di quella specie di attività, che non impedisce, ma aiuta e stimola l’iniziativa privata e gli sforzi individuali. Il male comincia quando il governo, in cambio di incoraggiare l’azione degli individui e dei corpi collettivi, sostituisce la propria alla loro attività: quando invece di consigliarli e, all’occorrenza, di denunciarli davanti ai tribunali, li lascia in disparte, ne inceppa la libertà, o fa per essi i loro affari. La virtù dello Stato, a lungo andare, è la virtù degli individui che lo compongono; e lo Stato che pospone lo sviluppo intellettuale degli individui alla vana apparenza di una maggiore regolarità nella pratica minuta degli affari, lo Stato che rimpicciolisce il popolo per farne un docile strumento dei suoi progetti, anche se generosi, finirà ben presto per accorgersi che grandi cose non si possono fare con piccoli uomini, e che il meccanismo, alla cui perfezione ha tutto sacrificato, non gli servirà più a nulla, per mancanza di quello spirito vitale che avrà voluto deliberatamente distruggere col proposito di agevolarne i movimenti”.8 Oggigiorno si lascia intendere che l’unica forma possibile di pluralismo culturale sia quella garantita dalla compresenza, nella stessa istituzione, di orientamenti ideologici diversi, magari competitivi tra loro, e quindi tendenzialmente non alieni da rischi di manipolazione. Il pluralismo, in realtà, è rispettato laddove la cultura è autentica; dove, cioè, essa evidenzia, con accurata analisi critica, la relatività di tutte le soluzioni storicamente contingenti, e stimola un dialogo senza preconcetti con le diverse posizioni, nello sforzo di ricerca di ciò che è vero, giusto e buono. La verità non è possesso esclusivo di nessun uomo, ma si rivela al pensiero umano, quando esso si apra all’incontro con la realtà, soprattutto se con la sua indagine è capace di confronto e di condivisione. In questa prospettiva, il pluralismo delle istituzioni è condizione per il formarsi dello stesso pluralismo. Per questo il pluralismo culturale e sociale non può esaurirsi all’interno delle istituzioni statali, ma si traduce anche in un pluralismo di istituzioni, nate come emanazioni delle diverse formazioni sociali in risposta a bisogni diversi, ma convergenti e solidali nell’edificazione della società. La scuola non statale, proprio perché rispetta la propria identità, contribuisce al pluralismo culturale - educativo e scolastico di uno Stato democratico.

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JOHN STUART MILL, Della libertà, Sansoni, Firenze 1974, pp. 156 - 158.


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Dunque, diritto di libertà nella scuola (pluralismo culturale) ma anche libertà delle scuole (pluralismo delle istituzioni scolastiche). La famiglia, che per diritto naturale, è il soggetto primario dell’educazione dei figli, deve godere di una reale scelta educativa (tra scuole statali e non statali, cattoliche e non), secondo propri convincimenti ideologici e religiosi, senza discriminazioni giuri-diche, sociali ed economiche. Lo Stato ha il dovere di garantire concretamente alle famiglie il diritto alla libertà di educazione.


Rivista aLasalliana 79 (2012) 2, 161-170

STUDI

S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA, ARALDO DELL’UNITÀ FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)

gnazio1 fu l’uomo dell’unità; ne divenne il dottore e l’apostolo. L’unità fu il tema che unì in coerenza le sue lettere, le quali furono lettere autentiche e non trattazioni formalmente indirizzate ad una persona; insegnava, anche, ma lo faceva quasi sfogandosi con un interlocutore. Non scriveva tanto quello che si era proposto, quanto quello che gli urgeva dentro e che egli non poteva trattenersi dall’esprimere. L’unità gli era, quasi più che un concetto distinto, un sentimento che colorava tutte le sue affermazioni e s’introduceva anche nei saluti ai suoi corrispondenti. L’unità, se fu per lui un argomento, fu soprattutto un clima, nel quale trattava tutti gli argomenti; se ne imbibivano; se ne caratterizzavano. La sua parola emanava costantemente una risonanza di unità. Ignazio fu personalità di straordinaria intensità, perché condensò il suo pensiero in una unitarietà che tutto comprendeva senza nulla defor-

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È significativo che Ignazio, nelle sue presentazioni ufficiali, al proprio nome affianchi, programmaticamente, l’epiteto qualificante di Teoforo; i due appellativi gli erano un po’ come il corpo e l’anima. Della sua biografia non sappiamo pressoché nulla; siamo informati soltanto che fu vescovo di Antiochia dopo l’apostolo Pietro ed Evodio e che affrontò il martirio a Roma sotto Traiano nel 107/108. Nel suo viaggio da Antiochia a Roma sostò in varie località dell’Asia Minore, da dove inviò lettere ad alcune Chiese; ne abbiamo sette sicuramente autentiche. Da Smirne scrisse alle Chiese di Efeso, Magnesia, Tralle ed alla comunità di Roma; da Troade si rivolse a Filadelfia, a Smirne ed al vescovo di Smirne Policarpo. Sulla sua persona, la sua attività letteraria, la sua dottrina resta fondamentale G. BAREILLE, in Dict. Théol. Cath. VII,1 (1927) coll. 685/713, eccellente per ampiezza, completezza e profondità di analisi. Opportuni anche E. PETERSON, Enc. Catt. VI (1951), coll. 1598/1599; G. BOSIO, Bibl. Sanct. VII (1966), coll. 653/664; F. R. PROSTMEIER, Diz. Lett. crist. antica di S. DÖPP - W. GEERLINGS, trad. it. di C. Noce, Roma 2006, pp. 489/492. - Per l’edizione offre sicurezza Sources chrétiennes 10, Paris 1958, testo greco, introduzione, traduzione, note di TH. CAMELOT, che si raccomanda anche per un’introduzione assai pregevole nell’informazione e nella felice intuizione con cui documenta in Ignazio il filo conduttore dell’unità.


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mare. I suoi concetti gli erano validi perché connessi in una spontanea concordanza che ne faceva un complesso unitario.

Valore dell’unità Scrivendo a Policarpo, vescovo di Smirne, tempra saldissima in perfetta coerenza con la sua, Ignazio lo esortava: «Giustifica il posto che occupi con ogni sorta di impegno; datti pensiero dell’unità, della quale non c’è nulla di migliore; sopporta tutti, come anche il Signore sopporta te» (I,2). L’eccellenza dell’unità, che ne comporta lo stabilimento (con generosità d’iniziativa) ed il mantenimento (con tenacia di perseveranza), non si limita per lui ad una pacifica vicinanza statica, implica una conquista pagata con un costante sforzo esposto a logorio; come stimolo e conforto alla resistenza pone quindi il modello divino. La fatica non è tuttavia gratuita, perché viene incoraggiata e motivata dal contraccambio operato da Dio. «Sopporta tutti con carità» (ibid.) dice; il precetto non viene però impartito in una secca imposizione, viene immerso in un clima di preghiera, di sapienza, di intensa alacrità spirituale e soprattutto di una concretezza aliena da ogni astrattezza teorica: «Rivolgiti a ciascuno individualmente, come suole fare Dio» (I,3): accanto al precetto colloca l’esempio e l’appoggio: la pratica della concordia è la prassi divina. L’intimità di rapporto comprende tutti, ma si raccoglie, si manifesta, si assolutizza con uno, col vescovo.

Il vescovo, centro d’unità Il vescovo è persona, è istituzione, ma è soprattutto passaggio all’oltre, è trasferimento a quel Cristo che abita in lui. Ignazio ha fatto del vescovo la grande erma dell’unità; è la figura preminente che svetta in tutto l’ambito dei suoi scritti. È un centro dal quale partono tutti i raggi, che poi tornano a riflettersi su di lui; è il punto di coagulo dell’essere e del fare. Ignazio pone una linea di sviluppo che ha l’assolutezza dell’inflessibilità: il fedele col vescovo, il vescovo con Cristo, come Cristo è col Padre; è un binario che non ha scambi. Egli invita: «Come il Signore non ha fatto nulla da se stesso senza il Padre, con il quale è uno, così anche voi non fate nulla senza il vescovo ed i presbiteri» (Magn VII,1).2 «Sottomettetevi al vescovo, come Gesù Cristo, in quanto incarnato, si sottomise al Padre e come gli Apostoli si sottomisero a Cristo, al Padre ed allo Spirito, affinché l’unione sia attuata nel comportamento e nello spirito» (Magn XIII,2).

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Cfr. A. JAKAB, Ignace d’Antioche: “Ne faites rien sans l’évêque et les presbytres, in Choisir 588 (décembre 2008), pp. 9-11.


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L’esempio si fa norma, che non richiede dimostrazioni ad appoggio; ed è imposizione dalla quale esula ogni ombra di umiliazione; appare infatti come la massima sublimazione: fare come Cristo. Il vescovo resta persona storica, ma viene trasfigurato in una luce divina nella sua equivalenza con Cristo. Anche ai Tralliani ribadisce: «Sottomettetevi al vescovo come a Gesù Cristo» (II,1): è una ripetizione che fa definitivo. Ed è un’esortazione che diventa appassionata: «Aderite al vescovo, affinché anche Dio aderisca a voi. Io offro in cambio la mia vita per quelli che si sottomettono al vescovo, ai presbiteri ed ai diaconi; possa io avere con loro la mia parte in Dio. Condividete tra voi le fatiche; gareggiate insieme, correte insieme, soffrite insieme, insieme dormite e vegliate come amministratori di Dio (i vescovi), suoi (di Dio) collaboratori (i presbiteri) e servitori (i diaconi) (Pol VI,1). Il fervore è tale che Ignazio spontaneamente, dall’esortazione ai fedeli ad essere, con convinzione, uniti al vescovo, trapassa ad un invito commosso ai tre gradi della gerarchia ecclesiale perché siano uniti tra di loro; è un invito che si riscalda a scongiuro; l’idea dell’unione gli fermenta nell’anima così impetuosa che inavvertitamente egli la espande indistintamente a tutti. Sulla singolarità delle persone e degli uffici domina, per tutti, un ‘insieme’. Questa disposizione a mettere la sua vita in cambio dell’unione dei fedeli col vescovo non è un’avventatezza sfuggita in un momento d’emozione; la ripete anche nella direzione contraria del vescovo verso i fedeli. L’unità verso i fedeli Ignazio la vive; agli Efesini scrive: «Io sono disposto a dare la vita per voi e per quelli che voi, ad onore di Dio, avete inviati a Smirne» (XXI,1): l’unione fa compenetrazione di vita; gli interessi si fondono; lo spendere la sua vita per loro non è più una perdita, è semplicemente un trasferimento. È uno scambio che si effettua particolarmente nella comunione della preghiera; agli Efesini confida: «Le catene che porto sono perle spirituali con le quali bramo risuscitare grazie alla vostra preghiera, alla quale auspico di poter sempre partecipare» (XI,2). Avviene un’intima condivisione; il rapporto fluisce nelle due direzioni; non è solo il vescovo a dare, danno anche i fedeli; anche il vescovo riceve, senza nessun sussiego di degnazione, in spontanea apertura di cuore. ll vescovo è al centro della salvezza.

Il vescovo, centro di fede Ignazio esorta gli Efesini «a camminare in accordo con la mentalità del vescovo» (IV,1); supera la frammentarietà delle singole questioni in una comprensione generale; il vescovo è punto di riferimento stabile. Ignazio li informa che egli ha con il loro vescovo Onesimo “una dimestichezza che non è umana ma spirituale» (V,1). Supera totalmente la simpatia per le sue doti naturali, automatica e quindi superficiale, per radicarsi negli alti valori dello spirito; anche gli Efesini «siano profondamente uniti (‘mescolati’) al loro vescovo, come la


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Chiesa lo è a Cristo e Cristo lo è al Padre» (ancora V,1). Ignazio cala nella vocazione umana la sublime realtà divina. L’imperativo morale viene assorbito da quella visione. Ignazio non si scalda in parole, apre uno spettacolo; affianca in stretto parallelismo due livelli; sono incomunicabili nella sostanza, ma quello inferiore subisce un’attrazione che col suo fascino stimola all’imitazione. Il fatto divino si presenta come ideale umano; la lontananza non deprime, perché è permeata di un incanto che non può non farsi aspirazione. Afferma: «Dunque è chiaro che noi dobbiamo guardare al vescovo come al Signore stesso» (Efes VI,1). Il vescovo diventa la traduzione umana, la proposizione effettuabile di una realtà irraggiungibile; è il tramite indispensabile; servirsene è un obbligo, ma è innanzi tutto l’unica utilizzazione possibile del modello divino, che, per la sua lontananza, risulterebbe totalmente inapplicabile e quindi inutile. Ne deriva che «lo schierarsi contro il vescovo impedisce di schierarsi sotto Dio» (Efes V,3); la paronomasia, in greco, è chiaramente voluta per sottolineare una contrapposizione. Un inquinamento che perverte la fede è costituito dalle eresie. Nel tumulto delle opinioni si insinuano facilmente seminatori di errori, che alle loro divagazioni frammischiano il nome di Cristo, porgendo un vino in cui hanno mescolato miele e veleno mortale (Trall VI,2). Da costoro bisogna guardarsi, e lo si fa «rimanendo inseparabili da Gesù Cristo Dio, dal vescovo e dai precetti degli Apostoli» (Trall VII,1). È sintomatico che collochi il vescovo tra Cristo e gli Apostoli; è il garante di entrambi ed il baluardo contro i pervertimenti; nell’incertezza fa sicurezza; l’adesione a lui più che dovere è sollievo; con lui ci si procura la verità nella tranquillità della coscienza. L’adesione al vescovo è un pregio tanto più grande quanto più grave è l’obbligo di fuggire l’eresia. Al riguardo Ignazio formula un precetto d’una potenza, nella quale si compenetrano risolutezza intransigente e perspicuità visiva; intima infatti: di fronte agli eretici «sta’ saldo come un incudine sotto i colpi del martello; è proprio di un grande atleta lasciarsi scorticare e vincere» (Pol III,1). All’aspro precetto, che non pone limite all’eroismo, Ignazio offre l’antidoto di un alleato che quei colpi attutisce con il suo soccorso. È Colui che ha condiviso queste sofferenze, ma le ha immerse in tutt’altra atmosfera; la contingenza del dolore è dissolta dall’infinito delle dimensioni: «Aspetta Colui che è al disopra delle vicende mutevoli, intemporale, invisibile, che per noi si è fatto visibile, impalpabile, impassibile, che per noi si è fatto passibile, che per noi ha sopportato ogni genere di angherie» (Pol III,1). Ai Magnesii lascia la consegna di un’unione in tutti i rapporti, vicendevoli e con i superiori: «Che non ci sia nulla che vi possa separare tra di voi; unitevi invece al vescovo ed a coloro che presiedono» (VI,2).


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Il vescovo, centro d’autenticità Soltanto la sua presenza conferisce legittimità e genuinità agli atti ecclesiali, tra i quali primeggiano la confezione e l’amministrazione dei sacramenti. Ignazio esorta quindi i fedeli di Efeso a riunirsi in un’unica fede in Cristo ubbidendo al vescovo ed al presbiterio con una mentalità che non si lasci distaccare sotto nessun aspetto, spezzando un solo pane, che è medicina d’immortalità (XX,2). L’unione col vescovo autorizza quella celebrazione eucaristica che, nella sua unicità, stringe in congiunzione tutti i fedeli. L’unione col vescovo deve essere effettiva; Ignazio mette in guardia i Magnesii dinanzi alla tentazione dell’adesione illusoria ed inconsistente; li ammonisce infatti che taluni hanno sempre in bocca la parola vescovo, ma che poi fanno tutto al difuori di lui; si ingannano, perché le loro riunioni non hanno validità, non essendo conformi al precetto del Signore (IV). Ai fedeli di Filadelfia, nella condanna di ogni divisione, proclama netto: «Tutti quelli che appartengono a Dio ed a Gesù Cristo sono col vescovo» (III,2); solo con lui si ha la pienezza della vita spirituale con l’applicazione dei sacramenti fondamentali; agli Smirnei comunica la precisa norma legale: «Si consideri solo legittima quella Eucaristia che viene effettuata ad opera del vescovo o di un suo incaricato; dove si vede il vescovo, là ci siano tutti insieme i fedeli; come dove c’è Gesù Cristo, là c’è la Chiesa cattolica.3 Non è permesso, separatamente dal vescovo, né battezzare né celebrare l’Eucaristia; ma tutto quello che egli approva è gradito anche a Dio; così tutto quello che si farà sarà sicuro e valido» (VIII,1-2). Non c’è nessuna spettacolarità nel potere episcopale, ma c’è una potente efficacia nel conferire valore e genuinità; se l’adesione a lui è, per il fedele, un obbligo, gli è, prima ancora, una garanzia che gli fornisce una tranquilla sicurezza. È un potere ad alta intensità, perché nel vescovo opera Cristo; ai Magnesii dichiara infatti che essi debbono al loro vescovo una «reverenza totale» sottomettendosi a lui e, tramite lui, al Padre di Gesù Cristo; il Padre è il vescovo di tutti; disobbedire ipocritamente al vescovo è un cercare di ingannare il vescovo invisibile (III,1-2). Dietro la figura di primo piano, che può anche personalmente non essere immune da carenze, se ne staglia un’altra dalle dimensioni infinite. Ne risulta che «è bello prestare un riguardoso ossequio a Dio ed al vescovo; chi onora il vescovo è onorato da Dio; colui che compie qualche cosa di nascosto dal vescovo serve il diavolo» (Smirn IX,1). Questo avviene perché il vescovo costituisce un transito verso Dio. In una visione sintetica Ignazio dà a Policarpo la regola della vita ecclesiale: «Non si faccia nulla senza la tua approvazione ed anche tu non fare nulla senza Dio» (IV,1). Il vescovo sta al centro come punto di raccordo tra i fedeli e Dio. 3

Camelot ad loc. rileva che è questa la prima volta in cui il vocabolo appare nella lingua cristiana.


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Il vescovo, centro della gerarchia ecclesiastica Il vescovo è centro per i fedeli e lo è per i ministri del culto, i quali si raccolgono attorno a lui, da lui ricevono l’autorità ed a lui prestano un servizio di collaborazione. Condividono la sua missione e partecipano al suo diritto di onore. Uniti al vescovo nello spirito debbono essere in primo luogo i presbiteri, che gli sono i più vicini nell’esercizio del culto. Ignazio ha la soddisfazione di constatare che ad Efeso il presbiterio è connesso col vescovo come lo sono le corde alla cetra (IV,1). L’idea si concretizza e si fa visione; quella concordanza armonica ha l’attrazione della melodia; quella sintonia è un dovere, ma è anche una bellezza in se stessa; è un valore, ma è anche uno spettacolo rasserenante. Presbiteri e diaconi formano col vescovo un’unità, ed unitariamente col vescovo vanno dai fedeli considerati. Ai cristiani di Filadelfia Ignazio scrive: «Io ho gridato in mezzo a voi e ho detto con voce forte, la voce di Dio: aderite al vescovo, al presbiterio e ai diaconi» (VII,1);4 essi formano come un unico blocco unitario; il vescovo li irraggia della sua autorità: ne sono le emanazioni operative. E dalla considerazione sintetica scende all’analisi specifica: «Seguite tutti il vescovo, come Gesù Cristo segue il Padre, il presbiterio come gli apostoli; i diaconi rispettateli come la legge di Dio. Nessuno faccia nulla separamente dal vescovo di ciò che concerne la Chiesa» (Smirn VIII,1). C’è una gerarchia di dignità, ma non di santità di missione. La triplicità dei maestri va considerata in unità di ossequio. In lieve variazione di forma, ma in salda identità di contenuto, Ignazio ai Magnesii afferma: «Vi esorto che vi impegniate a fare tutto nella concordia con Dio, sotto la presidenza del vescovo, il quale tiene il posto di Dio, dei presbiteri, i quali tengono il posto del senato degli Apostoli e dei carissimi diaconi, ai quali è stato affidato il servizio di Cristo, che prima dei secoli era presso Dio» (VI,1). Anche ai Tralliani ripete la medesima impostazione (II,2; III,1) ed afferma che «senza di loro non si può parlare di Chiesa» (III,2) e, quasi temesse di non avere espresso l’idea con sufficiente energia, la rinnova anche nei saluti finali (XIII,2). Scrivendo ai fedeli di Filadelfia, subito nel saluto d’esordio, esprime la sua gioia se essi sono uniti a questi tre gradi della gestione ecclesiale (prologo); li avverte che, chi agisce al difuori del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi non è puro di coscienza (VII,2). La disposizione di gradi e di azioni in loro non autorizza nei fedeli diversità di deferenza verso di loro. 4 Cfr. M. MARITANO, Formazione e ministero dei diaconi nelle Lettere di Ignazio di Antiochia, in L.Padovese (a cura di), Atti del VI Simposio di Tarso su S. Paolo (Turchia: La Chiesa e la sua storia 14), Roma 2000, pp. 155/180 e R. SELEJDAK, Figura e ministero dei diaconi nelle Lettere di Ignazio d’ Antiochia, in Vox Patrum 26 (2006), pp. 573:591.


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Unità tra i fedeli L’unione con il vescovo ne implica una tra i fedeli ed è esigenza che viene proclamata direttamente da Dio; rivolgendosi infatti ai fedeli di Filadelfia Ignazio confida loro che la sua esortazione all’unità gli era stata suggerita dallo Spirito Santo: «Lo Spirito me lo proponeva dicendo: Non fate nulla senza il vescovo... amate l’unione, fuggite le divisioni, siate imitatori di Gesù Cristo, come anch’egli lo è del Padre suo» (VII,2). È una voce divina che egli ha coscienza di avere applicata con tutte le sue forze: «Io ho fatto quello che dipendeva da me, come uomo fatto apposta per l’unione; là dove c’è divisione e collera non abita Dio, ma a tutti coloro che si pentono il Signore perdona, se si pentono andando all’unità con Dio e con il senato del vescovo» (Filad. VIII,1). È una confidenza che gli esce spontanea, quasi inconsapevole nella sua schiettezza; si riconosce ‘l’uomo fatto per l’unione’. Egli la pratica e sente che essa si riflette sulla sua persona; ai cristiani di Smirne rilascia un esplicito riconoscimento: «Tanto che io fossi assente quanto che fossi presente voi mi avete voluto bene; che Dio ve lo ricambi» (IX,2); qui Ignazio è vescovo ed è persona umana; la soprannaturalità fiorisce sulla naturalità. Amano lui e si amino tra loro. Agli Efesini prescrive: «Diventate tutti un coro, affinché nell’armonia della concordia, prendendo lo stile di Dio nell’unità, cantiate con una sola voce, tramite Cristo, un inno al Padre, affinché vi ascolti e vi riconosca, per le vostre buone opere, come membra del Figlio suo; è dunque utile per voi stare in un’impeccabile unità, per avere sempre parte con Dio» (IV,2). Questa unità si esprime e si documenta nella preghiera, che deve essere comunitaria nella compresenza di tutti in chiesa; «chi non viene alla riunione è un superbo che si attira la riprovazione di Dio» (Efes V,2). Ignazio auspica quindi che queste riunioni avvengano il più frequentemente possibile5 per ringraziare e lodare Dio; la concordia della fede, che esse incentivano, abbatte la potenza di Satana (Efes XIII,1). Il pregare insieme rafforza la preghiera, perché è un atto di carità, la quale non può rinchiudersi nell’interesse individuale, ma deve espandersi sugli altri; gli Efesini preghino dunque per tutti gli altri, perché anche quelli possano arrivare a Dio (X,1); siano fratelli a tutti nella bontà (X,3). Questa coralità di preghiera, oltre a rivolgersi all’esterno della Chiesa, va anche diretta al suo interno; Ignazio esorta infatti i Tralliani: «Perseverate nella concordia tra voi e nella preghiera vicendevole; è infatti opportuno che ciascuno di voi individualmente, e soprattutto i presbiteri, rianimi e conforti il vescovo, ad onore del Padre di Gesù Cristo e degli Apostoli» (XII,2). È forse un sospiro per-

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Ed a Policarpo raccomanda che siano il più folte possibile, IV,2.


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sonale che gli è sfuggito dal cuore; il vescovo dirige, stimola, incoraggia e spesso lo fa in scarsità di ascolto ed in aridità di frutti; questo ingenera stanchezza e qualche folata di abbattimento. I fedeli non si affloscino a recettori inerti, sappiano farsi rianimatori solleciti. Frontalmente opposta all’unità è la scissione prodotta dallo scisma, che nasce inevitabilmente dall’eresia. Ai Tralliani scrive: «Vi esorto, non io ma l’amore di Gesù Cristo, a servirvi soltanto del cibo cristiano; astenetevi da ogni foraggio estraneo, quale è quello dell’eresia; gli eretici intrecciano Gesù Cristo a se stessi» (VI,1-2). La formulazione, così duramente incisiva, emette un’immediata impressione di profanazione; implica una temerità sacrilega. Anche con i Filadelfiesi insiste: «Figli della luce di verità, fuggite le divisioni ed i falsi insegnamenti; dov’è il vostro pastore, colà seguitelo come pecore» (II,1). Agli Smirnei ribadisce: «Fuggite le divisioni come il principio di tutti i mali» (VII,2). Cemento dell’unità è l’Eucaristia; ai Filadelfiesi enuncia la norma: «Ponete il vostro zelo a partecipare ad una sola Eucaristia;6 una sola è infatti la carne del Signore Nostro Gesù Cristo; uno solo è il calice per unirci nel suo sangue; uno solo è l’altare, come uno solo è il vescovo insieme al presbiterio ed ai diaconi, che condividono con me il servizio; così qualunque cosa voi facciate, la farete secondo Dio» (IV). È una sintesi completa; l’unità raggiunge la sua totalità, fondendo livelli divini ed umani, i sacramenti, che forniscono la presenza di Dio, ed i ministri, che li porgono ai fedeli. L’unità dei sentimenti gli sorge naturale dall’unità del culto. Ai Magnesii rivolge l’invito: «Fate tutto in comune: una sola preghiera, una sola richiesta, una sola mente, una sola speranza nella carità (cfr. Paolo, Ef 4,4-6), in una gioia irreprensibile; tutto questo è Gesù Cristo» (VII,1).

Unità tra le Chiese Unità delle persone nella Chiesa ed unità delle Chiese che formano, in Cristo, come una sola persona. Aprendo il suo colloquio con i Magnesii Ignazio fa voto che «le Chiese abbiano l’unione con la carne e con lo spirito di Gesù Cristo, unione nella fede e nella carità e, ciò che è più importante, l’unione con Gesù e con il Padre» (I,2). Tutte le Chiese debbono, individualmente, essere unite a Cristo ed al Padre; questa identità di rapporto verticale produce un allineamento orizzontale che le unisce vicendevolmente tra loro nella comunione della medesima concezione dello scopo della vita. È un’unione che sta

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L. DE BELLSCIZE, L’Eucharistie chez Ignace d’Antioche et Polycarpe de Smyrne, in Nouv. Rev. Théol. 132 (2010), pp. 197/216, nota che in entrambi il vescovo visibile, che presiede alla celebrazione eucaristica, è identificato col Cristo vescovo invisibile; i fedeli vengono collegati col sacerdozio del vescovo mediante la loro partecipazione alla sua offerta.


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nei fatti, ma che è auspicabile che si manifesti anche nelle relazioni sociali. A Policarpo assegna un compito che ha l’austera dignità impositiva di un testamento: «Poiché non ho potuto scrivere a tutte le Chiese, come me lo comanda la volontà di Dio, a causa della mia improvvisa partenza, scriverai tu alle Chiese orientali, tu che sai pensare come pensa Dio, perché anch’esse facciano la stessa cosa; quelli che lo faranno spediscano dei messaggeri a piedi, gli altri delle lettere per mezzo di coloro che tu avrai inviati; così voi sarete glorificati per un’azione eterna» (Pol VIII,1). La formulazione ha una solennità sacra, che la eleva al di sopra delle convenienze sociali; c’è il comando espresso della volontà divina, ed il piccolo commercio minuto si configura come un’azione eterna; c’è quella presenza di Dio che innalza a sé nella carità i collegamenti correnti. L’unione vicendevole delle Chiese diventa testimonianza di una fraternità che nasce dalla paternità divina. Ignazio esorta quindi Policarpo a raccogliere un’assemblea che elegga un individuo risoluto, il quale possa venir chiamato ‘la staffetta di Dio’, incaricato di andare in Siria a celebrare il loro intrepido amore per la gloria di Dio (VII,2). L’importanza della missione è tale che Ignazio non limita l’invio alla sola iniziativa di Policarpo, ma vi coinvolge tutta la comunità; a spirito del viaggio non c’è solo il conforto di superare la depressione della solitudine, ma c’è ‘l’amore per la gloria di Dio’. A tale messaggero Ignazio riserva una menzione speciale nella rosa dei saluti finali (VIII,2). Non si tratta, in Ignazio, di un interesse passeggero. Infatti, subito, nel saluto che rivolge agli Efesini, gli affiora dall’anima che la Chiesa di Efeso è predestinata, prima dei secoli, ad essere infrangibilmente unita nella Passione di Cristo per la volontà del Padre e di Cristo; a lei Ignazio indirizza un saluto in una purissima gioia (Prologo agli Efesini). È la Chiesa di Antiochia che si sente invincibilmente unita alla Chiesa di Efeso, la quale è invincibilmente unita in se stessa alla Passione di Cristo. Le due Chiese vivono in una sola comunione. La visita che Onesimo, vescovo di Efeso, gli ha fatta, Ignazio la considera compiuta da tutta la comunità di Efeso (Efes I,3). Rivolgendosi ai fedeli di Smirne formula la sua proposta in un tono di ieratica solennità: «Affinché la vostra opera sia perfetta sulla terra ed in cielo, conviene che la vostra Chiesa, in onore di Dio, elegga ‘un ambasciatore di Dio’ che si rechi in Siria per congratularsi con loro perché vivono in pace» (XI,2 ed anche in Filad X,1). L’amore vicendevole si eleva a vivere la vita altrui.

Unità nella sua stessa vita Se c’è un’unità con la vita altrui, ce n’è, prima ancora, una nella vita propria, la quale concentra tutte le sue aspirazioni in una totale dedizione a Cristo, raggiunta con il martirio per lui. Agli Efesini confida «di avere la speranza di combattere a Roma con le fiere, per poter essere un autentico discepolo di Cri-


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sto» (I,2). Ai Tralliani dichiara di desiderare il martirio, nel dubbio però di esserne degno (IV,2); non ha paura della morte per Cristo, ha paura di non meritare di arrivarvi. Non si tratta di un’eventuale, fugace vampata di misticismo, quando dal martirio era ancora lontano; vi insiste infatti, intensamente, anche quando gli era ormai vicino, in tutta la lettera ai Romani, ai quali parla con un fervore che pare quasi accanito. Nel momento risolutivo dichiara ai Romani di non volere che essi si intromettano per strapparlo al martirio (II,1-2). Proclama loro: «Io volentieri muoio per Dio, se voi non me lo impedite; vi supplico, non abbiate per me una benevolenza inopportuna. Lasciatemi essere pasto delle belve, tramite le quali mi è possibile raggiungere Dio. Io sono il frumento di Dio e vengo macinato dai denti delle belve, per essere trovato un puro pane di Cristo. Piuttosto aizzate le belve, perché diventino la mia tomba e non tralascino nulla del mio corpo... (IV,1-2). C’è una determinazione assoluta, in una consapevole pacatezza, senza nessuna esaltazione; non c’è febbre, c’è fervore; la sua parola è ferma, esula da qualsiasi tensione retorica. Parla, in schiettezza, un’anima eroica, la cui voce ha continuato a risuonare lungo tutte le generazioni. Verrebbe da dire che egli, quando scrive, sia ormai di là, con Cristo. Il suo voto finale nella lettera a Policarpo è: «Possiate sempre in Gesù Cristo, nostro Dio, rimanere nell’unità con Dio e sotto la sua guida» (VIII,3). - Ignazio non discute sull’unità; la vede in se stessa, non ne indaga i motivi, non ne scava radici ed effetti psicologici, la inculca. Per lui l’unico effetto che essa produca è l’adorazione a Dio ed a Cristo, attraverso all’ossequio verso il vescovo ed il suo presbiterio. Ha una sola linea, forte, sulla quale appoggia tutto, ed è la trafila che sale dal fedele, al vescovo, che è Cristo, a Cristo, che è Dio, al Padre, che è l’assoluto. Per essere unito a Cristo, egli desidera, non soltanto morire, ma essere ‘sbranato’ dalle belve; la risolutezza si esprime in un realismo che ha una sfumatura di brutalità; non cita il fatto dell’aggressione, contempla lo spettacolo. Ignazio vede l’oggetto senza soffermarsi ad esplicitarne le qualità. L’unità gli si fisicizza nel vescovo, il quale si apre in un bivio: verso l’alto è Cristo, verso l’orizzontale è la Chiesa. L’unità in lui produce un’estrema concentrazione della personalità; Ignazio è l’antitesi della dissipazione della vita. Quella densità di sostanza che l’unità conferisce alla persona, egli la raccomanda anche per la preghiera, assicurandole così l’esaudimento. In viaggio verso il martirio, Ignazio non ha né tempo né modo di impostare un quadro organico della fede; la sintetizza in un’idea sola; non è angustia, perché essa comprende e condensa tutti gli elementi. L’unità, con la sua essenzialità, gli diventa chiarezza intellettuale, tranquillizzazione psicologica, sicurezza morale.


Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 171-182

LA ESPIRITUALIDAD DEL EDUCADOR LASALIANO HOY A LA LUZ DE LOS ESCRITOS DE SAN JUAN BAUTISTA DE LA SALLE EDWIN ARTEAGA TOBÓN Professore emerito di Teologia biblica alla Pontificia Università di Medellín Studioso di spiritualità lasalliana.

a temática de la espiritualidad del educador lasaliano fundamentada en los textos del Santo Fundador comenzó a desarrollarse poco antes del Concilio Vaticano II. Se destaca en ese momento la reflexión del Hno. Saturnino Gallego en “Teología de la educación en San Juan Bautista de La Salle”.1 Cabe notar de entrada que los textos fundadores de La Salle fueron escritos para los Hermanos de las Escuelas Cristianas,2 pero se pueden aplicar en su mayoría a todos los docentes lasalianos. En la medida en que sean aplicados y vividos existencialmente por ellos, La Salle será más que una referencia social o un recuerdo histórico. La Salle encarna una estilo de vida que marca la mente y el corazón de sus discípulos, tanto Hermanos consagrados como seglares. Su estilo se define por características propias entre las cuales se destacan: la espiritualidad bautismal; la Presencia de Dios; la confianza en la Providencia; una profunda interioridad; la experiencia de la elección, de la mediación y de la oración;

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Ediciones Bruño, Madrid, 1958. Habría que agregar una vasta bibliografía de la cual destacamos: CANTALAPIEDRA CARLOS, El educador de la fe según San Juan Bautista de La Salle, Madrid, 1988, pp. 269; PUNGIER JEAN, Una espiritualidad para educadores cristianos, Bujedo, 1980, pp. 60; BOTANA ANTONIO, Itinerario del educador, Cuadernos MEL, 8-9, Roma; MORALES ALFREDO, Espíritu y vida. El ministerio educativo lasallista, Santo Domingo, Rep. Dominicana, 1987, pp. 165 2 Salvo las “Meditaciones para el tiempo del retiro” cuya introducción indica: “para uso de todos los que se dedican a la enseñanza de la juventud y particularmente para el retiro que los Hermanos de las Escuelas Cristianas hacen durante las vacaciones.”


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el sentido de un ministerio eclesial; una profesión innovadora y creativa y la mirada retrospectiva al carisma de los orígenes que impulsa hacia el futuro.

La espiritualidad bautismal En primer lugar, el educador lasaliano desarrolla las potencialidades del bautismo, tanto en sí mismo como en el corazón de los niños y jóvenes que le son confiados. Su afán por la educación cristiana apunta a llevarlos a todos “a la plena madurez de Cristo” (Ef 4, 11-13) y a la salvación como último fin del bautismo. Él trata de vivir con ellos, día tras día, la filiación de hijos de Dios, la fraternidad cristiana, el anuncio de la Buena Noticia y el disfrute de la luz de la Revelación. En segundo lugar, el educador lasaliano trata de experimentar lo anterior, no como una tarea exterior o un efluvio místico, sino según el principio esencial e integrador de La Salle: sin hacer diferencia entre los asuntos propios de su estado y los de su salvación (RP 3,0,3 y CT 16,1,4).3 Para lograr este cometido él vive del espíritu de fe y celo. La fe y el celo por la salvación de los alumnos son la base de la actividad educadora lasalian. Para el educador “la fe ha de ser la luz que lo guíe por doquiera y también luz ardiente para los que instruya, para guiarlos en el camino del cielo” (MF 178,1,2). Además, agrega La Salle: “Ustedes ejercen un empleo que requiere mucho celo; pero ese celo sería poco útil si no produjera su efecto; sin embargo, no podrá producirlo, si no es el fruto del amor de Dios residente en ustedes” (MF 171,2,2). En definitiva, “si no son de Dios, si no recurren a menudo a Él por la oración, si no enseñan a los niños más que cosas exteriores, si no ponen todo su cuidado en inspirarles un espíritu religioso, ¿no deben ser considerados por Dios como ladrones, que se introducen en su casa, que permanecen en ella sin su consentimiento, y que en vez de inspirar a sus alumnos el espíritu del cristianismo, como es su deber, les enseñan cosas que sólo les servirán para el mundo?” (MD 62,1,2). Para el educador lasaliano desarrollar las potencialidades del bautismo y pertenecer a Dios implica tener el sentimiento de la presencia de Dios y experimentarla a menudo.

3 Abreviaturas usadas en este artículo: CT: Colección de trataditos; EMO: Explicación del Método de Oración; MEL: Misión educativa lasaliana; MD: Meditaciones para los Domingos; MF: Meditaciones para las Fiestas principales y santoral; MR: Meditaciones para el tiempo del retiro; RP: Reglas personales de La Salle (Reglas que me he impuesto).


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La presencia de Dios La Presencia de Dios en la vida del educador lasaliano es el ámbito normal de toda su existencia. Es la respuesta a la invitación del Señor: “Camina en mi presencia y sé honrado” (Gn 17.1). El tema de la presencia de Dios empieza desde la alegría que siente el educador de ser templo de Dios,4 penetra todas sus actividades y culmina haciéndolas todas “con la mira puesta en Dios y con la intención de agradarle”.5 Se trata de una presencia múltiple, discreta, comprometedora y renovada mediante lo que se llama desde tiempos de La Salle “el ejercicio” de la presencia de Dios.6 Sin caer en un panteísmo barato, el educador lasaliano ve y siente a Dios presente en todas sus acciones y en todo lo que lo rodea. A ello lo entrena su oración diaria cuando escoge uno de los seis modos de entrar en presencia de Dios al inicio de la oración mental. Es una presencia eficiente porque convierte el peregrinar del educador en un camino de salvación que lo lleva sin cesar al regazo de Dios–Padre. El ejercicio de la presencia de Dios es tan importante para el educador lasaliano que es uno de los temas del examen de fin de año propuesto por el Santo Fundador. “¿Han recordado que tenían presente a Dios en todas partes? ¿Se han abismado interiormente, en sentimientos de adoración, en la consideración de la presencia de Dios? Y puesto que no hay nada tan agradable al alma que ama a Dios como prestarle atención, ¿han hecho de ello su delicia? (MF 90 1,2). Para llegar a hacer de la presencia de Dios una delicia se necesita un hombre adicto al recogimiento, un hombre interior, dócil a las mociones del Espíritu Santo. El lugar teológico “corriente” de la presencia de Dios para La Salle es su empleo y el ámbito escolar, pero el más “importante”, es el niño o el joven confiado a su cuidado. Por consiguiente, el educador cristiano está invitado a “reconocer a Jesús bajo los pobres harapos de los niños que tiene que instruir; a adorarlo en ellos… Que la fe lo impulse a hacerlo con amor y celo, puesto que son los miembros de Jesucristo” (MF 96,3,2). Para asegurar el contacto permanente con Dios el Santo Fundador invita al educador cristiano a usar muy a menudo textos cortos de la Sagrada Escritura que iluminan las diferentes circunstancias de la vida diaria para producir en su corazón “sentimientos de fe”.7 “Dense cuenta que [su

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“Cuán dichoso debo considerarme, oh Dios mío, cuando pienso que soy tu templo” (EMO 2,63,1). MF 177,3,2 6 Cf. GOUSSIN JACQUES, FSC, “Una práctica lasaliana : la presencia de Dios”, Cuaderno MEL 21, Roma. 7 Cf. Colección de Trataditos, CT 12, en Obras Completas de San Juan Bautista de La Salle, Madrid, San Pío X, tomo I, p. 151. 5


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empleo] los obliga, sin duda, a practicar el Santo Evangelio. Léanlo pues con frecuencia, con atención y con amor, y sea él su principal estudio, pero que sea sobre todo, para practicarlo” (MF 171,3,2).

Un amor cristocéntrico El amor cristocéntrico de La Salle es un desafío apostólico para el educador cristiano. “Si aman mucho a Jesucristo, se aplicarán con todo el esmero posible a imprimir su Santo amor en el corazón de los niños que educan para ser sus discípulos. Procuren, pues, que piensen a menudo en Jesús, su buen y único maestro; que hablen a menudo de Jesús, que no aspiren sino a Jesús y que no respiren sino por Jesús” (MF 102,2,2). Se trata de amar a Jesucristo como lo amaba La Salle: “Jesús era su recurso, su preocupación, su modelo, sus delicias, su vida. En todo y por todas partes, acudía a él, andaba en su presencia, se lo proponía por modelo, se unía a él y procuraba no vivir más que para él. En una palabra, la empresa de toda su vida fue retratar en sí la imagen de Jesucristo y reproducirla en su persona”.8 El Santo Fundador nos lo cuenta con palabras propias al describirnos lo que significa la realeza de Cristo en la meditación para el Domingo de Ramos (MF 22).

El sentirse elegidos para un ministerio eclesial Los educadores cristianos son conscientes de su elección como lo afirma La Salle: “Ustedes son los elegidos por Dios para dar a conocer a Jesucristo y para anunciarlo. Siendo así, admiren la bondad de Dios con ustedes, siempre y cuando permanezcan firmes en el estado en que su bondad los colocó” (MF 87,2,2). Dicha elección los destina a un ministerio eclesial. El contrato laboral que une al educador lasaliano con la comunidad de los Hermanos va más allá de meras metas académicas. Se trata de una clarísima delegación de poderes y para describirla el Santo Fundador usa varias designaciones cargadas de dinamismo y simbolismo: “Ustedes son embajadores y los ministros de Jesucristo (MF 195,2,1); ángeles custodios de los niños (MF 197 1,1); ministros de la reconciliación con Dios (MF 193,3,1); dispensadores de sus misterios (MF 193,1,2); sucesores de los apóstoles (MF 138,3,2) y ministros de la Iglesia (MF 199 2,2); ministros del Nuevo Testamento (MF 199,3,2); mediadores de quienes Dios se sirve para enseñar a los niños los medios para salvarse” (MD 56,3,2).

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BLAIN IV, 274, Vida del Padre Juan Bautista de La Salle, Bogotá, 2010. Traducción de los Hermanos Bernardo Montes Urrea y Edwin Arteaga Tobón.


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En consecuencia, los educadores cristianos “Deben considerar su empleo como una de las funciones más significativas y más necesarias en la Iglesia de la que están encargados de parte de los pastores y de los padres” (MF 199 1,1). En un arrebato de fe, el Santo Fundador invita al educador cristiano a agradecerle a Dios por la bondad que le ha hecho en su empleo ”al participar en el ministerio de los Santos apóstoles y de los principales obispos y pastores de la Iglesia” (MF 199,3,2). Asimismo, invita el Santo a los maestros cristianos a que “den todos los días gracias a Dios, por Jesucristo Nuestro Señor, de haberse dignado establecer este bien [el de las Escuelas Cristianas] y dar este apoyo a la Iglesia” (MR 207 3,2).

Atento a la realidad con creatividad El maestro lasaliano discierne y da respuesta a los desafíos que plantea la sociedad con respecto a la educación de la juventud tal como lo hizo el Santo Fundador al describir su situación precaria: “Es proceder muy común entre los artesanos y los pobres dejar a sus hijos que vivan a su antojo, como vagabundos y errantes… Y no tienen ninguna preocupación por enviarlos a la escuela… Sin embargo las consecuencias de esto son desastrosas” (MR 194,1,1). También constata el maestro cristiano con La Salle que “los niños, al nacer, son como una masa de carne, y que en ellos el espíritu se va desprendiendo de la materia sólo con el tiempo y desligándose poco a poco” (MF 186,1,1); que “ las inclinaciones de los jóvenes son fáciles de moldear, y ellos, por su parte, aceptan, sin mayor dificultad, los sentimientos que se les inspira” (MR 1971,1,1). “Éste debe ser también uno de los principales cuidados de quienes están empleados en la instrucción de otros: saber conocerlos y discernir el modo de proceder con ellos. Pues con unos se precisa más suavidad, y con otros más firmeza; algunos requieren que se tenga mucha paciencia, y otros que se les aliente y anime; a algunos es necesario reprenderlos y castigarlos para corregirlos de sus defectos; y hay otros a los cuales hay que vigilar continuamente, para evitar que se pierdan o se descarríen. Este proceder depende del conocimiento y del discernimiento de los espíritus. Es lo que deben pedir a Dios a menudo e insistentemente, como una de las cualidades que más necesitan para guiar a aquellos de quienes están encargados” (MD 33,1,1 y 1,2). En las instituciones lasalianas donde se encuentran, los educadores cristianos “se adaptan a la época en que viven los jóvenes y se preocupan para que ocupen su puesto en la sociedad… Prestan atención a cada uno y en


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especial a los que más lo necesitan… Favorecen su crecimiento en cuanto personas llamadas a sentirse cada día más hijos de Dios”.9 Asimismo, se esfuerza en crear hábitos nuevos en la persona de sus alumnos porque: “Los hábitos virtuosos que uno ha cultivado durante la juventud, al hallar menos obstáculos en la naturaleza corrompida, echan raíces más profundas en los corazones de quienes se han formado en ellos” (MR 194,3,2). Pero para crear dichos hábitos hay que mover corazones.

Moviendo y tocando corazones Más allá de todo lo que implica la formación académica de sus alumnos el educador cristiano sabe que “ejerce un empleo que lo pone en la obligación de mover los corazones y que no podrá conseguirlo sino por el Espíritu de Dios” (MD 43,3,2). Para mover los corazones es preciso establecer antes una relación personal intensa: “Ustedes pueden obrar diversos milagros, tanto en ustedes mismos como en su empleo. En ustedes, por medio de la plena fidelidad a la gracia, no dejando pasar ninguna moción sin corresponderle. En su empleo, moviendo los corazones de los niños descarriados que están confiados a sus cuidados, y haciendo que sean dóciles y fieles a las máximas del Santo Evangelio y a su práctica; piadosos y modestos en la iglesia y en los rezos; y aplicados a su deber en la escuela y en sus casas” (MF 180,3,2). Corresponde a los maestros cristianos interrogarse con La Salle: “¿Poseen ustedes tal fe que sea capaz de mover el corazón de sus alumnos e inspirarles el espíritu cristiano? Ése es el mayor milagro que pueden realizar y el que Dios les exige puesto que es el fin de su empleo” (MF 139,3,2). En su oración los educadores lasalianos responden al llamado del Santo Fundador: “Pidan a menudo a Dios la gracia de mover los corazones como él. Ésa es la gracia de su estado” (MF 81 2,2). Para mover los corazones es preciso que den ejemplo, sean hombres interiores, hombres de oración y sean tiernos con sus alumnos.

El maestro lasaliano da ejemplo Para ilustrar la importancia del buen ejemplo que debe dar el educador cristiano basta con estas citas del Santo Fundador. “Si quieren que sean provechosas las instrucciones que dan a los que tienen que instruir, para llevarlos a la práctica del bien, es preciso que las practiquen ustedes mismos y que estén bien inflamados de celo, para que pue-

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Regla de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, 13, Roma 2002.


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dan recibir la comunicación de las gracias que hay en ustedes para obrar el bien; y que su celo les atraiga el Espíritu de Dios para animarlos a practicarlo” (MR 194,3,2). “Su conducta debe ser tan prudente, respecto de ustedes y de ellos, [sus alumnos], que la admiren, por considerarla muy por encima del humano proceder y exenta de las pasiones que inhiben, o al menos disminuyen, el respeto debido a quienes están encargados de guiar a los demás. Y, en fin, sus costumbres deben ser el modelo de las suyas, porque tienen que encontrar en ustedes las virtudes que ellos deben practicar” (MF 178,1,2). “¿Quieren que sus discípulos practiquen el bien? Practíquenlo ustedes mismos, pues los convencerán mucho mejor con el ejemplo de una conducta juiciosa y modesta que con todas las palabras que pudieran decirles. ¿Quieren que guarden silencio? Guárdenlo ustedes. No los harán modestos y comedidos sino en la medida en que ustedes lo sean” (MD 33,2,2).

El educador lasaliano, hombre interior10 El recogimiento y el silencio además de mantenerlo en presencia de Dios le van imprimiendo el carácter de “hombre interior”. De ahí la insistencia del Santo Fundador en exhortar a sus discípulos a adquirirlos. A uno de ellos le escribe: “Aplíquese por encima de todo al recogimiento y a la presencia de Dios, pues es el medio más adecuado que pueda usted adoptar para llegar a ser interior” (Carta 103,4).

Con la experiencia de la oración La experiencia de la oración es el fruto del ministerio eclesial del educador cristiano, de su rol de mediación entre padres, educandos y el Buen Dios. El ícono poderoso de la escala de Jacob es la mejor ilustración de esta característica de la espiritualidad de mediación de La Salle. Después de haber profundizado su conocimiento de cada uno de sus alumnos como se lo recomienda la Guía de las Escuelas,11 y después de convivir a diario con ellos, el educador tiene suficientes razones para subir a Dios. “Con los niños que están confiados a sus cuidados su deber es subir todos los días a Dios por la oración para aprender de Él todo lo que deben enseñarles, y descender luego hasta ellos, acomodándose a su capacidad, 10

Cf. MORALES ALFREDO, “El hombre interior según San Juan Bautista de La Salle – Un itinerario evangélico para educadores cristianos”, Santo Domingo, República Dominicana, 2000, pp. 139. 11 Guía de las Escuelas, cap. 2,2; y cap.4,2: “Es imprescindible estudiar el espíritu, las costumbres y las inclinaciones de cada niño. Sólo así se puede acertar en su educación y en el modo de actuar y en el trato que debe recibir en cada momento.”


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para instruirlos sobre lo que Dios les haya comunicado para ellos, tanto en la oración como en los libros sagrados, repletos de las verdades de la religión y de las máximas del Santo Evangelio” (MR 198,1,2). Es en este vaivén entre cielo y tierra, entre preocupación por su ministerio y contemplación del misterio que el educador lasaliano vive su rol mediador y salvador impulsado por sentimientos de fe inspirados por la Sagrada Escritura. “De los Sagrados Libros es de donde manan todos los tesoros de la ciencia y de la sabiduría de Dios (Col 2,3). Éstos son los libros divinos que hay que devorar, según la expresión del profeta, y de los cuales han de saciarse los verdaderos siervos de Dios (Ez 3,3), para comunicar y explicar sus secretos a los que tienen obligación de instruir y formar en el cristianismo, de parte de Dios” (MF 170,1,1). “Ustedes tienen la suerte de participar en las funciones apostólicas, al explicar todos los días el catecismo a los niños cuya dirección tienen, y al instruirlos en las máximas del Santo Evangelio. Pero no producirán mucho fruto en ellos si no poseen plenamente el espíritu de oración, que comunica unción santa a sus palabras, y que las hace plenamente eficaces, al penetrar hasta el fondo de sus corazones” (MF 159,2,2).

Con su ternura mueve corazones Los educadores cristianos saben que “cuanta más ternura sientan por los miembros de Jesucristo y de la Iglesia que les están confiados, tanto más producirá Dios en ellos admirables efectos de la gracia” (MF 134,2,2). Que “si emplean con ellos firmeza de padre para retirarlos y alejarlos del desorden, también deben tener con ellos ternura de madre para acogerlos y procurarles todo el bien que depende de ellos” (MF 101,3,2).

Con su mirada hacia el pasado: vive del carisma de los orígenes El educador lasaliano en su caminar de cristiano y de pedagogo debe, de tiempo en tiempo, mirar hacia atrás y con la ayuda del Espíritu Santo leer los textos fundadores, contemplar y saborear el misterio de su ministerio, para descubrir la pedagogía de Dios en su vida. Con San Juan Bautista de La Salle reconoce que “Dios, que gobierna todas las cosas con sabiduría y suavidad, y que no acostumbra a forzar la inclinación de los hombres, queriendo comprometerme a que tomara por entero el cuidado de las escuelas, lo hizo de manera totalmente imperceptible y en mucho tiempo; de modo que un compromiso me llevaba a otro, sin haberlo previsto en los comienzos” (MSO 6). Mirando hacia el futuro, también recuerda las dos últimas meditaciones para el tiempo del retiro: Fiel a su pensamiento, el educador cristiano “agra-


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dece a Dios de todo corazón todas estas clases de recompensas que le concede por anticipado ya en esta vida” (Cf. MF 207,2,2).

Se abandona a la Providencia El abandono a la Providencia es una de las mayores características lasalianas. La fe según La Salle “es confiarse a la Divina Providencia como el hombre que se hace a la mar sin velas ni remos” (MF 134,1,2). Las tres actitudes fundamentales de la fe son las que sustentan el abandono y la entrega del educador cristiano a la Providencia: “no mirar nada sino con los ojos de la fe; no hacer nada sino con la mira puesta en Dios y atribuirlo todo a Dios”.12 “Hay que abandonarse totalmente a la Providencia; y si no se tiene suficiente virtud para ello ni suficiente fe, hay que tomar las medidas; si no, no se actúa ni cristiana ni sabiamente” (Carta 19,14). Es la Providencia Divina ”la que sustituye a los padres con personas que tengan luces suficientes y celo para que los niños lleguen al conocimiento de Dios y de sus misterios” (MF 193,2,2). Para el educador como para La Salle todo es dirigido oportunamente por la divina Providencia. Ella es la que ha decidido el establecimiento de las Escuelas Cristianas, ayer y hoy (MF 193). Ella es la que los encarga de instruir y formar en la piedad a los que ella les ha traído (Cf. MD 37,1,2). En el mundo de la precisión robótica, donde todo está asegurado, donde todo está previsto para conjurar lo aleatorio, la confianza total en la divina Providencia es el mayor desafío para el educador cristiano.

Asociado para la misión La asociación fue vivida por el Santo Fundador de manera inesperada cuando el señor Adrián Nyel, funcionario del Hospital General,13 se presentó a la casa de las Hermanas del Santísimo Niño Jesús en Reims. De La Salle quiso, sencillamente, ayudarle con su consejos y citas oportunas con las autoridades civiles y parroquiales de la ciudad para que pudiera abrir las escuelas proyectadas por los servicios del citado Hospital General. Al alejarse de Reims para fundar otras escuelas, Nyel deja el cuidado de las que acaba de fundar a su nuevo amigo. No deja de sorprender que Juan Bautista de La Salle sea el primer asociado en la historia del nacimiento de

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Reglas Comunes de 1718, cap. 2. Institución real francesa encargada conjuntamente de lo que hoy llamamos “ministerios” de la educación, de la salud y del bienestar social. 13


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las Escuelas Cristianas. ¡Asociado a un seglar, al “hermano”14 Adrián Nyel, porque así se llamaba el abnegado funcionario! La historia lasaliana empieza a escribirse en plural. Fuera de sus cartas dirigidas a particulares, La Salle habla siempre en plural. El educador lasaliano vive y se entrega en el marco de una comunidad educativa. Está asociado con otros colegas, seglares y Hermanos, para la Misión. La Salle no habla de “asociación” en los términos ahora vigentes en el ámbito lasaliano. Sencillamente, él la vivió con laicos, los Hermanos de las Escuelas Cristianas, durante cuarenta años. Como uno de ellos, usando su hábito, al menos durante una temporada en Reims, obedeciendo a uno de ellos los últimos años de su vida y cumpliendo todas las reglas de sus asociados hasta el momento de su muerte.15 Fue una asociación total para la misión. Él no se comprometió, por voto con ellos, a llevar una vida religiosa austera al estilo de la que se llevaba en los conventos del siglo XVII sino “a unirse y permanecer en sociedad con los Hermanos de las Escuelas Cristianas”,16 “una comunidad de hombres que, iluminados por Dios, y en sintonía con su designio salvador, se asociaron para dar respuesta a las necesidades de una juventud pobre y alejada de la salvación”.17 Este es el marco histórico y vivencial del Santo Fundador que permanece como un llamado a la “asociación” dirigido a todos los educadores cristianos del ámbito lasaliano. Si los Hermanos de La Salle viven a cabalidad su “asociación” expresada por voto, como fraternidad animada por la Santísima Trinidad; si son en realidad “corazón, memoria y garantía”18 del carisma de La Salle, entonces el seglar, educador cristiano lasaliano, se sentirá atraído por la asociación a un nivel muy alto de participación espiritual en la misión compartida y asumida con ellos. Terminarán viviendo juntos una consagración diferenciada; el Hermano será consagrado por el bautismo y sus votos de religión mientras que el

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Sobre Nyel y este apelativo de «hermano» ver POUTET YVES, Le XVIIème siècle et les origines lasalliennes, tomo I, pp. 498 y 670: La période rémoise, Rennes, 1970. 15 En el primer párrafo de su testamento La Salle encomienda su alma a Dios “y a los Hermanos de la Sociedad de las Escuelas Cristianas con quienes me ha asociado” (Obras Completas de San Juan Bautista de La Salle, t. I, p. 125). La palabra francesa–uni- se traduce a veces como “asociado,” palabra fiel al pensamiento del Fundador. 16 Fórmula de votos de 1694. 17 Regla de los Hermanos, 47, Roma 2002. 18 Según la expresión forjada en el 42º Capítulo General, Circular 435, p. 15 (8º párrafo) y p. 43 ( 3,3,1).


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seglar desarrollará las potencialidades del bautismo. Consagración vertical. Ambos serán consagrados en la medida en que, por su estilo de vida, “los reconozcan como consagrados”19 en la comunidad educativa. Consagración horizontal. Al finalizar este recorrido el lector puede haber experimentado algo del “déjà vu”, los mismos textos con enfoques tradicionales. Difícil pensar en un recorrido totalmente diferente: los textos son perennes y los recorridos hechos por miles de Hermanos de La Salle y sus colegas seglares son muy semejantes, aunque marcados por la personalidad de cada uno. Algunos hasta llegar a ser “santos” canonizados por la Iglesia constituyendo así la mejor prueba de la encarnación de la espiritualidad lasaliana en diferentes caracteres, tiempos y culturas. Toca a los maestros educadores, tanto Hermanos como seglares de hoy en día, echar hacia el futuro una mirada oteando a la eternidad y a “la gloria para las personas que hayan instruido a la juventud, cuando se proclamen ante todos los hombres su celo y su dedicación en procurar la salvación de los niños, y cuando todo el cielo resuene con acciones de gracias ofrecidas por los niños bienaventurados, a quienes les enseñaron el camino del cielo!” (MR 208,3,2). De hecho, la mirada escatológica también hace parte del pensamiento de La Salle para los maestros cristianos que descubrirán algún día la hermosa sentencia del profeta Daniel: “Los maestros brillarán como el resplandor del firmamento, y los que enseñaron a muchos a ser justos, como las estrellas para siempre” (Dn 12,3).

19

Cfr. GIL PEDRO MARÍA, Palabras como pájaros, Madrid, San Pío X, 2006, p. 225 ss.


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Edwin Arteaga Tobón

LA SPIRITUALITÀ DELL´EDUCATORE CRISTIANO OGGI ALLA LUCE DEGLI SCRITTI DI SAN GIOVANNI BATTISTA DI LA SALLE (Sintesi) L’espansione del Regno di Dio non si raggiunge se non attraverso una forte spiritualità, uno stile di vita e di pensiero che caratterizza le Congregazioni religiose e le Associazioni di laici impegnati nell’apostolato della Chiesa. La famiglia lasalliana possiede una spiritualità particolare fondata sugli scritti di san Giovanni Battista de La Salle, suo fondatore, e nella vita dei suoi discepoli fino ad oggi. Questa è una spiritualità proposta all’educatore cristiano, che attualizza il suo battesimo con un’autentica vita di fede e di zelo, a servizio dei fanciulli e dei giovani a lui affidati. La vita di fede intensa, piena di amore incentrato in Cristo e di totale abbandono alla Divina provvidenza, rende l’educatore cristiano un “uomo interiore”, un “uomo di orazione” che si avvale della “presenza di Dio” nel luogo teologico dei suoi doveri scolastici e verso i giovani. Per raggiungere la sua salvezza dovrà “toccare” e “muovere” i cuori dei suoi alunni attraverso il buon esempio, una tenerezza materna e la fermezza di un padre, insieme ad uno spirito realista e creativo come lo è stato San Giovanni Battista de La Salle. La spiritualità lasalliana evidenzia una nuova identità, dinamica, espressa con titoli di una densità straordinaria per un educatore cristiano. Con essa, egli si sente “ambasciatore di Cristo”, “ministro della Chiesa”, “successore degli Apostoli”, “Angelo custode” dei suoi alunni, “dispensatore dei Misteri” di Gesù e “ministro della riconciliazione” con Dio. Pur non apparendo nei testi fondazionali, “l’ Associazione alla missione educativa” è un elemento di capitale importanza della spiritualità lasalliana. La Salle promise e fece voto di unirsi ed associarsi con alcuni laici secolari per tenere la Scuole Cristiane, non per vivere uno stile di vita conventuale del secolo XVII. Il suo incontro con il “Fratello” Adriano Nyel e l’aiuto che gli offrì nella fondazione delle scuole a Reims, fanno del La Salle il “primo associato” ad un laico nella storia lasalliana. Tutta la sua vita è stata segnata dal voto di associazione. Vivere intensamente l’Associazione con i suoi compagni e Fratelli, creando così una nuova comunità di Scuole Cristiane dove tutti si consacrano e si riconoscono consacrati, è la nuova sfida che la spiritualità lasalliana propone all’educatore cristiano. Il carisma del La Salle è il carisma dell’Associazione, vissuta con profonda fede cristiana e fraternità, per la salvezza del maestro cristiano e di quelli che Dio gli ha affidati.


Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 183-198

“EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO” GLI ORIENTAMENTI PASTORALI DELLA C.E.I. INTERROGANO IL MONDO LASALLIANO1 GABRIELE DI GIOVANNI Direttore della Rivista “Sussidi per la catechesi”

ell’autunno del 2010 i Vescovi italiani hanno consegnato al popolo di Dio in Italia gli Orientamenti Pastorali (OP) per il decennio 2010 – 2020, dal titolo “Educare alla vita buona del Vangelo”. La riflessione dei Vescovi, dedicata alla intera chiesa italiana, investe direttamente il mondo lasalliano, tocca corde che gli sono proprie. Credo che gli OP consentano a tutti noi una riscoperta e un ripensamento di caratteristiche, che sono nostre e che andrebbero valorizzate: ci richiamano e sollecitano. In qualche modo ci invitano a ripensare noi stessi, quello che siamo e che siamo diventati, l’essere e il dover essere. Ci forniscono insomma una traccia, per tornare a metterci in discussione in modo positivo.

N

1. Stimare il compito a cui siamo chiamati Gli OP ci ricordano che educare è azione grande e meritoria: questo si vede un po’ meno se riduciamo l’educare all’insegnare, come qualche volta ci capita di pensare. Qualche volta sopraffatti dalla fatica e dalle difficoltà, dai molti impegni anche burocratici che non ci consentono di alzare la testa, perdiamo di vista la dignità insita nell’educare. Così ci sottomettiamo al giudizio di una mentalità sociale diffusa che non assegna un ruolo particolarmente importante alla funzione docente: non se ne vede l’importanza per la società e per i giovani e non se ne coglie la pesantezza. In realtà quello dell’insegnante, se svolto con responsabilità

1

Quello che presento è la seconda parte di una riflessione, nata dallo studio e dalla presentazione degli Orientamenti Pastorali in diverse sedi.


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educativa, è un lavoro molto duro, che porta all’esaurimento delle energie, e riprova ne siano le svariate patologie professionali che lo attraversano.2 In questa fase storica bisogna tornare a scommettere sugli educatori: il loro ruolo dovrebbe essere meglio riconosciuto sia a livello sociale che ecclesiale. Essi sono la “force de frappe” della proposta educativa cristiana, spesso l’unica faccia della Chiesa verso i giovani. E non necessariamente la peggiore. Per fare questo si deve anche andare oltre il puro mestiere ed anche oltre una “professionalità” molto sbandierata, ma non sempre definita.3 Bisognerà riconsiderare il ruolo educativo come una specifica vocazione nella Chiesa e pertanto dotato di un carisma particolare. D’altro canto La Salle è chiaro: Riflettete su queste parole di san Paolo: È Dio che ha costituito nella Chiesa gli apostoli, i profeti e i dottori e vi persuaderete che è stato lui ad eleggervi per la vostra missione. Uno dei segni che egli vi dà è che vi sono diversità di ministeri e diversità di operazioni. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune, cioè per l’utilità della Chiesa. A uno viene concesso dallo Spirito il dono di parlare con sapienza, a un altro il dono della fede per mezzo dello stesso Spirito. Non dovete dubitare che non sia un grande dono di Dio la grazie che vi ha fatto dandovi l’incarico di istruire i fanciulli, di annunziare loro il Vangelo e di educarli nello spirito di religione. Pensate però che Dio, chiamandovi a questo santo ministero, esige che lo compiate con zelo ardente, se volete davvero salvarli perché esso è opera di Dio che maledice chi compie la sua opera con negligenza. Fate dunque vedere, nel modo di comportarvi con i ragazzi a voi affidati, che vi considerate come ministri di Dio, agendo con carità e con zelo sinceri e veri e sopportando con molta pazienza i fastidi che dovrete sopportare, felici di essere disprezzati dagli uomini e di subire le loro persecuzioni fino a spargere il vostro sangue per Gesù, per compiere bene il vostro ministero (MTR 201,1 trad. Barbaglia).

Nella storia lasalliana esistono diversi Fratelli che in nome del loro ministero hanno subito il martirio. Noi abbiamo lo stesso coraggio e la stessa forza? Inoltre: tutto ciò, in ambito lasalliano, non è questione del singolo, è una questione di comunità: ci associamo per tenere insieme le scuole gratuite, come si esprime la formula della consacrazione dei Fratelli. Sempre La Salle ci insegna a pregare in questo spirito: Gesù dice nel Vangelo al cap. 18 di s. Matteo, che dove sono due o tre persone riunite nel suo nome egli è in mezzo a loro. Non è una grande felicità, trovandoci riuniti con i nostri fratelli sia per pregare che per fare qualche altra attività, essere certi di trovarsi con Gesù e di averlo in mezzo a noi? (MO 2,1).

2

Cfr. G. CURSIO No stress. Strumenti per la prevenzione del bornout degli IRC, SEI, 2007. Per una panoramica più generale: A. CAVALLI – G ARGENTIN Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine IARD selle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, Il Mulino, 2010 3 Su questo, cfr. G. DI GIOVANNI “Educazione come strada alla santità (2). Educare come professione e come missione”, in Sussidi per la catechesi 2/2011 pp. 5 – 11.


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2. Valutare/si Un sistema che voglia migliorarsi ricorre alla valutazione: lo chiedono gli stessi Vescovi (Cfr. OP, 3 e 4). Mi sembra che la scuola lasalliana debba farsi carico della attuale “emergenza educativa”, arrivando alla comprensione profonda dei fenomeni socioculturali che si vivono. Non è scontato che si faccia e che se ne sia realmente consapevoli.4 Come qualche volta ci accade, noi lasalliani italiani ci facciamo schiacciare dall’immediato scolastico senza riuscire a recuperare un respiro più ampio. La scuola per noi è tutto, ma per “scuola”, alla fine, intendiamo solo la classe, la nostra. Il che ci impedisce di proporci e impegnarci all’esterno: non ci interessa e comunque intralcia il nostro lavoro. È un atteggiamento in parte orgoglioso, in parte timido, in parte comodo, che dovrebbe mutare. In questa ottica mi sembra che diventi necessario per la scuola lasalliana un ripensamento identitario del proprio ruolo nella società e nella Chiesa. Provo a spiegarmi. La scuola lasalliana, a cui in Italia accede una fascia sociale sostanzialmente benestante, di per sé non sembra apparentemente essere in emergenza educativa: le sue emergenze sono piuttosto di natura economica e gestionale.5 Per quanto riguarda l’universo educativo, la scuola lasalliana appare ancora come una isola felice all’interno della quale le cose sostanzialmente funzionano e i giovani, anche se non tantissimi ovunque, proseguono il loro cammino di crescita. L’emergenza sembra non appartenerle, è altrove: nella società, nella scuola statale, nella famiglia, nella notte. In generale chi frequenta la scuola lasalliana è soddisfatto. E chi ci lavora è portato ad accontentarsi di questa percezione. Ma la realtà diventa subito altra, se i marcatori della crisi educativa in atto vengono meglio precisati, soprattutto in rapporto al risultato in uscita: – Che fine fanno i giovani che escono dalla scuola lasalliana? – Sono riusciti ad orientarsi sulla loro vita futura? – Sanno essere solidali verso gli altri, accoglienti, non razzisti, fraterni? – È proprio vero che coloro che la frequentano, fanno propri i valori (e non soltanto subiscono/ sopportano) che essa cerca di trasmettere? In concreto i giovani di scuola lasalliana non si drogano, non trascendono, non si ubriacano…

4

R. BETTINI in Sussidi per la catechesi 6/2011 pp. 10 - 16 dedica una articolata riflessione proprio a questa necessità: “Riflessioni sul documento CEI “Educare alla vita buona del Vangelo”. 5 Giustamente il recente 2° Cap. Provinciale FSC (luglio 2011) si è occupato anzitutto di questo, con la chiara comprensione che il problema “gestione” non è un fatto puramente economico: attiene direttamente alla continuità della missione.


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– E oltre quello che “non” dovrebbero fare, che cosa hanno appreso circa quello che dovrebbero fare, come ad esempio “costruire una famiglia”? – La loro adesione al cristianesimo, ufficialmente vengono a scuola anche per questo, come potrebbe essere classificata? E più semplicemente, che voto decimale possiamo onestamente dare alle loro conoscenze cristiane? Domande pesanti, la cui risposta anche parziale, dimostra che l’emergenza educativa, la fatica oggi di trasmettere, appartiene in toto alla scuola lasalliana. E le appartiene soprattutto nella sua identità di “cattolica”, cioè nel suo essere una fucina di cristiani maturi: non è tanto un problema confessionale, quanto una riflessione profonda sulla natura della “scuola cattolica lasalliana”. Una scuola lasalliana non poggia sulla idea che esiste anzitutto la scuola la quale acquista poi una caratterizzazione specifica, una qualificazione ulteriore, bensì vale il contrario: esiste primariamente una comunità credente che poi utilizza la scuola. In questa seconda ottica, se va in crisi la dimensione cristiana, la scuola lasalliana non ha più ragione di essere in quanto scuola della chiesa, perché non ci sono più persone e ragioni per farla. Diventa una scuola privata qualunque, anche se possiamo pensare di chiamarla “lasalliana”. Per vocazione voi siete chiamati a collaborare alla santificazione dei vostri alunni, siate dunque santi di una santità non comune, perché siete voi che dovete trasmettere la santità, sia con il buon esempio sia con le parole di salvezza che ogni giorno dovete annunziare loro. L’applicazione interiore all’orazione, l’amore ai vostri esercizi spirituali, la fedeltà a compierli bene e la partecipazione alle pratiche di comunità, vi aiuteranno ad acquistare la santità e la perfezione che Dio vuole da voi. Domandategliela comunque e con insistenza tutti i giorni e prediligetela a tal punto di non smettere di pregare finché non l’avrete ottenuta (M. 37,2 trad. Barbaglia).

Ora tutto questo mi sembra che oggi non sia subito evidente: perché lo diventi, serve una forte presa di coscienza di tutti coloro che operano all’interno della scuola lasalliana, tale che la qualifica di “lasalliano e cattolico” sia la sua ragion d’essere, non quella che è meglio tacere per non sconvolgere le relativistiche coscienze laiche di coloro che per svariate ragioni la frequentano.

3. Preoccuparsi dell’educazione della fede È fatto noto che le motivazioni di chi frequenta la scuola lasalliana sono le più diverse, in genere collocate sul versante della tranquillità genitoriale e di cicli di studi abbastanza affidabili e seri, motivi che qualche volta non incontrano il favore dei figli che vorrebbero altro: più libertà e meno impegni. Ma non è sempre così (Cfr. OP, 32). Le difficoltà odierne dei giovani cui si fanno riferimento gli OP possono avere agenti diversi e certamente le vie di soluzione non si instaurano solo a


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scuola, ma almeno a scuola (lasalliana) dovrebbero instaurarsi. Da punto di vista cristiano questo cammino pone delle esigenze e delle finalità che la scuola lasalliana, per dirsi tale, non può non fare proprie… – – – – – – –

Questo cammino, con le sue esigenze radicali, deve tendere: all’incontro con Gesù mediante il riconoscimento della sua identità di Figlio di Dio e Salvatore; l’appartenenza consapevole alla Chiesa; la conoscenza amorevole e orante della Sacra Scrittura; la partecipazione attiva all’Eucaristia; l’accoglienza delle esigenze morali della sequela; l’impegno di fraternità verso tutti gli uomini; la testimonianza della fede sino al dono sincero di sé (Cfr. OP, 32 grafica nostra).

Gli obiettivi di questa lista che sono tutti ordinati alla formazione del cristiano e mettendo qualche puntino di precisazione in merito alla partecipazione attiva alla eucaristia, (ma in quale scuola lasalliana non si celebra mai la santa messa?) appartengono tutti di fatto e di diritto ad una scuola lasalliana che funziona. Piuttosto che rimanere bloccati dalle difficoltà dei giovani, che spesso sono più collegate alla situazione culturale di oggi che difficoltà effettive, penso che spetti noi offrire loro strade per cercare di uscire dal bosco (Cfr. OP, 26). In questo senso un ruolo particolare e una rilevanza esplicita dovrebbe venir data nella scuola lasalliana all’insegnamento di RC che non è semplicemente un insegnamento tra gli altri, ma, per usare una espressione musicale, la chiave per leggere lo spartito. Su questo aspetto in questi ultimi anni, benché sia stato idealmente difeso, abbiamo nel concreto manifestato un certo timore e una certa ritrosia, motivata in vario modo, non ultimo il fatto di avere qualche perplessità nella nostra identità “cattolica”. Il lasalliano dovrebbe bramare di insegnare il cristianesimo, per quanto questo risulti arduo e complesso ed oggi richieda una formazione assolutamente ampia ed articolata. Dio vi ha chiamati alla missione di educare i giovani: fate dunque fruttificare, secondo la grazia che vi è stata concessa, il dono di istruire insegnando e di esortare animando con vigile cura quelli che vi sono affidati (M 193, 2 trad. Scaglione).

In realtà la dimensione religiosa permea tutto quanto avviene nella scuola. Nella scuola lasalliana si annuncia la fede,6 la si celebra e la si testimonia mostrandola come carità: tutti e tre gli aspetti dovrebbero essere curati con 6

La dinamica del “primo annuncio” di cui oggi tanto si parla non è estranea alla scuola lasalliana, soprattutto oggi, quando cristiani spesso lo si è solo perché si è ricevuto il battesimo: certo occorre individuare le modalità adatte. In questo contesto riguarda il mondo lasalliano anche tutta la problematica legata alla “nuova evangelizzazione”.


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attenzione. Tuttavia è proprio dell’essere “scuola” privilegiare alcuni aspetti rispetto ad altri. A scuola si curerà in particolare e a partire da questo peculiare punto di vista tutto ciò che ha attinenza con la Parola e il suo servizio (ministero): Bibbia, annuncio, evangelizzazione, predicazione, creazione di una mentalità di fede, profezia… cercando di far apprendere e praticare anche gli atteggiamenti conseguenti legati ai diversi ambiti di vita.7 Si tratta di diventare consapevolmente grati con Paolo (cfr. 1 Cor 1,17) di essere stati inviati non a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo e di doverlo fare non con la sapienza delle parole, per non rendere vana la croce di Cristo.8 È questo un fatto paradossale che attraversa la missione della scuola lasalliana: la cultura certo, ma la cultura della croce; la sapienza certo, ma quella che viene da Dio e che gli uomini carnali non comprendono, ma che viene rivelata ai piccoli. Dio vi ha destinati ad annunziare ai giovani le verità del Vangelo e a offrire loro anche i mezzi di salvezza adeguati alle loro capacità. Insegnate quindi queste verità, “non però con un discorso sapiente, perché la croce di Cristo, fonte della nostra santificazione, non venga resa vana” (1 Cor 1,17) senza lasciare traccia nella mente e nel cuore dei giovani. I vostri alunni, oltre a non comprendere discorsi complicati, spesso sono stati formati male. Perciò che si impegna a guidarli alla salvezza, parli loro in modo così semplice che tutte le parole diventino chiare e intelligibili. Seguite questa norma per contribuire alla redenzione dei giovani nella misura che Dio esige da voi” (MTR 193,3 trad. Scaglione).

E questo è un compito grande ed infinito, dalle infinite sfaccettature e di una ricchezza quasi inimmaginabile perché tutta la vita e la cultura degli uomini viene chiamata giudizio, a rendere ragione di sé di fronte alla croce di Cristo. Compito a cui la scuola lasalliana non può sottrarsi: guai a lei se non predicasse! Dio sceglie chi vuole per predicare, ma certo ha scelto coloro che lavorano nella scuola lasalliana. La predicazione dunque è il suo specifico, che soprattutto oggi deve farsi testimonianza: così diventa relazione, diventa educazione. 7

In questo senso si può configurare il percorso cristiano proposto dalla scuola lasalliana anche come “catecumenale”, cioè come un progressivo ingresso nel mistero di Cristo. Questo è un aspetto che dovrà essere meglio approfondito nella sua portata educativa anche in relazione al ripensamento italiano dei percorsi di iniziazione cristiana molto collegato al discorso catecumenale. Sul catecumenato cfr. P. L. GAVRILYUK Histoire du catéchuménat dans l’église ancienne, Cerf, 2007; G. CAVALLOTTO Catecumenato antico, EDB ristampa 2005. 8 Che non è un versante minore rispetto all’altro del battezzare: è diverso. Il concetto merita un futuro approfondimento sulla linea di san Paolo inviato per predicare e non per battezzare. Su questo cfr. R. PENNA, “La predicazione come sacramento di salvezza in Paolo e nel Nuovo testamento”, in L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Paoline, 1991, pp. 369 – 378. Da notare che nella organizzazione del suo catechismo La Salle fa precedere la trattazione dei sacramenti da quella dei comandamenti: d’altro canto quali messi di salvezza possono direttamente offrire dei laici? Quelli legati alla parola di Dio.


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In questa indicazione gli OP invitano il mondo lasalliano a riconsiderare la sua particolare vocazione laicale9 e a valorizzarla nella giusta prospettiva.

4. Avere cura La scuola lasalliana gioca se stessa, soprattutto oggi, sul clima che riesce ad instaurare, un clima di accoglienza e di attenzione alle persone, particolarmente le più deboli e psicologicamente fragili, e ai portati della loro vita concreta. Oggi in un senso molto generale, tutti i giovani appartengono alla categoria dei “deboli”, di coloro che non hanno particolare rilevanza in una società come quella italiana tendenzialmente anziana che vuole apparire giovane, ma non offre spazio ai giovani, se non quello dei reality show. È questo uno dei motivi per cui l’età giovane si è allungata a dismisura ponendo non pochi problemi sociali ed anche educativi che per il mondo lasalliano concretamente investono la fascia degli ex alunni giovani. Tuttavia anche all’interno della categoria “giovani” è possibile distinguere ulteriormente i più deboli dei deboli, magari non in una forma stabile, bensì in una sorta di “fragilità variabile”, collegata certi momenti o a certe situazioni. “Aver cura” diventa anche accorgersi dei particolari momenti che vengono vissuti dalle persone e rendersi presenti in essi. Se da un lato tutti dobbiamo fare i conti con le nostre fragilità, dall’altro occorre operare perchè si possa affrontare con una certa sicurezza ciò che la vita ci riserva.10 Il motivo dell’ “aver cura” è esplicitato dagli OP in maniera forte (Cfr. OP, 33). Nel testo si fanno due affermazioni piene di conseguenze. Vengono indicati i contenuti/punti sensibili dove la relazione educativa dovrebbe andare ad incidere: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità umana, tradizione, cittadinanza. Tutti questi ambiti dove si svolge la vita degli uomini e in questo caso dei giovani, appartengono in vario modo alla scuola lasalliana anche se non sono scritti nei programmi di studio e possono trovare in essa un luogo efficace di presa di coscienza, se non di inizio di soluzione. Il punto è che la scuola lasalliana dovrà farlo dal suo particolare punto di vista, che non è soltanto esclusivamente suo, ma che certamente le appartiene. Ma soprattutto si afferma che senza relazione non c’è educazione e che dunque solo dove è possibile stabilire relazioni autentiche è possibile educare. L’affermazione è un epitaffio tombale sulla cosiddetta “scuola del regi-

9 Fa ancora testo il noto lavoro di M. SAUVAGE Catéchèse et laicat. Partecipation des laics au ministère de la Parole e mission du Frère-enseigant dans l’Église, Ligel, Paris, 1962. 10 Su questo collegato al tema dell’autostima cfr. G. CUCCI, La forza della debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, AdP, 20112.


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stro”: non perchè non debba essere usato (anzi), piuttosto perché non è il punto di riferimento. Il riferimento sono le relazioni: l’educazione sta o muore se ci sono o meno relazioni.11 Il che mi sembra che chieda una doppia attenzione, qualitativa e quantitativa. La prima è relativa alla qualità delle persone coinvolte nella relazione educativa, con l’obbligo di chi ha responsabilità educativa di compensare e far crescere le qualità non ancora sviluppate dell’altro, a cui si chiede comunque una dose di disponibilità al camminare insieme. Relazioni autentiche vogliono persone autentiche, che non si sottraggono (Cfr. OP, 28). Inoltre, il concetto di “relazione educativa” implica quello di correzione, pratica che per troppi anni è apparsa inadeguata,12 ma che gli OP sembrano tornare a puntualizzare e che il mondo lasalliano, da sempre attento su questo fronte, deve tornare a rimeditare e riproporre con un linguaggio adatto. Correggere infatti non è punire, ma avere cura, preoccuparsi, accompagnare, offrire una nuova chance. Senza la possibilità della correzione non c’è possibilità di educazione. Recherebbe scarso profitto intervenire col rimprovero e la correzione senza rispettare le regole della giusta misura. L’educatore deve anzitutto farsi condurre dallo Spirito di Dio facendo precedere all’intervento istanti di raccoglimento al fine di porsi nella disposizione di agire con la massima saggezza e nella forma adatta per rendere utile la correzione. Questo l’effetto che dobbiamo riprometterci e che lo spirito Santo in forma proverbiale suggerisce “Chi ama la disciplina ama la scienza, chi odia la correzione è stolto” (Pr 12,1). Conviene poi riflettere, dinanzi a Dio, quale castigo meriti la colpa commessa e assicurarsi che il colpevole sia disposto

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Il tema è diventato particolarmente importante e molto vasto nell’ambito educativo e terapeutico a partire dalla filosofie della relazione come ad es. quella di Buber e Levinas. Alcune indicazioni di lettura: B. CASPER Il pensiero dialogico, Morcelliana 2009; M. BUBER, Discorsi sull’educazione, Armando 2009, G. MILAN Educare all’incontro la pedagogia di M. Buber, Città Nuova 1994; Gruppo di Scholé Relazione educativa ed educazione alla scelta nella società dell’incertezza, Atti del XLVI convegno di Scholé, La Scuola 2008; M. DELPIANO (a cura), La relazione cercata, Elledici, 1988; E. GOFFMAN Modelli di interazione, Il Mulino 1969; P WATZLAWICK e altri, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971; P. BASTIANONI Interazioni in comunità Carocci, 2000; G. BARRET – LENNARD, La relazione al centro, La meridiana, 2010; M. POLLO La comunicazione educativa, Elledici, 2004; P:C: RIVOLTELLA Ontologia della comunicazione educativa, Vita e Pensiero, 2006; V. E. FRANKL, Logoterapia Medicina dell’anima, Gribaudi, 2001; E SCOGNAMIGLIO Dia-logos 1. Prospettive. Verso una pedagogia del dialogo, San Paolo, 2009; 2. Orientamenti. Per una teologia del dialogo, San Paolo 2012. 12 È dagli anni ’70 che si parla di “scuola non direttiva” che alla fine si è trasformata in “arrangiati”: così ci siamo risparmiati la responsabilità di fornire indicazioni e l’onere di dire “Qui sbagli, ma qui invece hai fatto bene”. Cfr. FACCHINELLI, MURARO VAIANI, SARTORI (a cura di), L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Einaudi, 1971; G. M. BERTIN, Educazione e alienazione, La Nuova Italia, Firenze, 1973. Di segno opposto anche se sul versante sociologico, F. FUREDI, Il nuovo conformismo. Troppo psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, 2005.


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a riceverlo con sottomissione o se è necessario attendere per disporne l’animo. Se vi comportate con prudenza, non c’è da temere che la correzione sia controproducente; gli educatori che correggono e riprendono con tatto, si attirano la lode degli uomini, sono benedetti da Dio e “troveranno più favore di chi ha una lingua adulatrice” (Pr 28,23) (M 204,1 trad. Scaglione).

La seconda attenzione è relativa alla quantità delle persone coinvolte: servono gruppi quantitativamente ristretti, che rendano possibili interazioni autentiche. Il luogo che facilita questo discorso è la scuola e, in ambito parrocchiale, i diversi gruppi di giovani che possono formarsi (Cfr. OP, 32).13 In questi anni il mondo lasalliano, tramite l’elaborazione dei Progetti di Pastorale a livello italiano14 ha cercato in molti modi di sostenere le attività che precedentemente definivamo “parascolastiche”. Oggi gli OP ci dicono che tali attività sono educative tout court e sono particolarmente importanti anche in prospettiva vocazionale. Tale prospettiva mi sembra che debba essere oggi considerata come elemento imprescindibile di ogni vera educazione.

5. Trasmettere e produrre cultura cattolica Una scuola lasalliana oggi, anche secondo le sollecitazioni degli OP, dovrebbe essere impegnata a trasmettere e produrre cultura cattolica. È doveroso impegnarsi con la massima cura ad insegnare la lettura, la scrittura e tutte quelle materie profane attinenti alla formazione degli alunni. Venendo meno a tale dovere si dovrà rendere conto a Dio non solo del tempo perduto, ma anche dello sperpero di beni messi a vostra disposizione a questo scopo. È necessario prendere le dovute precauzione trattandosi di un dovere importante (M 91,3 trad. Scaglione).

Dovrebbe, ma una serie di ragioni storiche, economiche, culturali, non le rendono facile questo compito. In Italia non si è mai posto seriamente e qualche volta drammaticamente il problema della definizione puntuale dell’essere cattolico: noi italiani nasciamo tutti “cattolici romani”.15 Le percentuali “bulgare” di coloro che ricevono i sacramenti ne sono una prova. Il cattolicesimo è un dato così diffuso nella nostra cultura che non abbiamo mai veramente sentito il bisogno di andare a fissarlo in modo specifico. La chiesa è la casa di tutti. Se ne può parlare male e non frequentarla mai, ma

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Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, n.17. 14 Rimandiamo ai vari testi dei Progetti che si sono succeduti in questi anni sotto l’egida della prospettiva quadriennale prima (Dio abita la tua storia anni 2007 – 2011) e triennale ora (Cammina alla mia presenza anni 2011 – 2014). 15 Altrove, come ad esempio in Germania o in Inghilterra, la presenza di altre chiese ha costretto i cattolici a definirsi anche da un punto di vista sociologico e non solo dottrinale.


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ciò non toglie il dato di fatto che la sentiamo un po’ come casa nostra.16 Fino ad ora. La situazione è cambiata molto rapidamente: non crediamo che si possa continuare nell’illusione di un cristianesimo diffuso. Due le ragioni principali di questo cambiamento, se vogliamo epocale. Da un lato l’evoluzione sociale e culturale in senso sempre più materialistico, amorale, relativistico, privatistico, secolare; evoluzione che riguarda tutto l’Occidente capitalistico ed opulento dentro cui siamo, e ci vantiamo, di essere inseriti.17 Dall’altro, l’ingresso, ormai compiuto in Italia, di altre tradizioni religiose, di altre prospettive, di altre risposte alle domande del cuore degli uomini. Motivo principe di questo il fenomeno migratorio, ma non solo: è un portato della globalizzazione, ma anche del non trovare più risposte significative. In realtà forse proprio il cattolicesimo tenue e poroso degli italiani è stato una delle ragioni della attuale situazione: non ha opposto resistenza alla cultura sempre più dominante del consumo e dei massmedia, né ha saputo confrontarsi seriamente con le diverse tradizioni religiose che sono apparse nel suo orizzonte, perché non aveva gli strumenti soprattutto culturali per farlo. Tanto per fare qualche esempio: quanti sono in grado di mettersi a ragionare con i testimoni di Geova? E quanti riescono a cogliere i non valori che passano tante trasmissioni televisive? Sono riflessioni generiche e sommarie, lo riconosco, ma conservano anche un loro fondo di verità. Dico a mo’ di parziale conclusione: il cristianesimo italiano non è riuscito a fare quel minimo di controcultura evangelica che rende salata la terra. Ci sta provando con il Progetto Culturale orientato in senso cristiano: ma la strada da compiere, che è la strada della cultura, e nel contesto odierno di una rinnovata inculturazione, mi sembra veramente molto lunga. Su questa strada un ruolo non marginale penso che spetti alla scuola lasalliana come luogo educativo di trasmissione ed elaborazione di cultura cattolica. Quale cultura cattolica propone ed elabora la scuola lasalliana oggi in Italia? La scuola cattolica italiana da un lato ha “utenti” che sono poco interessati alla cultura cattolica, al massimo vogliono cultura, e oggi soprattutto

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Tanto è vero che anche il mondo laico si aspetta uno scatto di reni dei cattolici per dare una sterzata alla realtà politica italiana: cfr. il fondo di F. DE BORTOLI sul Corriere della Sera del 18. 10. 11. 17 Cfr. C. TAYLOR L’età secolare, Milano, 2009, ma anche U BECK, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Bari, 2009, e O. ROY, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Milano, 2009


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“cura”; dall’altro è portatrice di un progetto educativo che necessariamente contempla la proposta e l’acquisizione di una cultura cattolica. Per “cultura cattolica” intendo quel sistema di valori, di simboli, di riferimenti, finanche di oggetti culturali, autori, sintesi concettuali, che fanno riferimento ad un universo di pensiero e di vita cattolici e che consentono, a chi li fa propri, di orientarsi nella vita in modo “cattolico”: insomma per dirla con Guardini, “una visione cattolica del mondo”,18 che sia intelligenza cristiana delle cose e pratica cristiana della vita: “coscienza cristiana”.19 Non penso che sia facile affermare che oggi in uscita, l’alunno di scuola lasalliana possegga una visione cattolica del mondo. Durante il suo itinerario educativo è stato costretto ad ascoltare troppe voci discordanti … Probabilmente però (speriamolo) possiede “semi”, di cui ora non è totalmente consapevole, che dovranno germinare. Inevitabile in questo contesto fare i conti con la parabola evangelica del seminatore: più che in parrocchia, dove si presume che il terreno sia buono, nella scuola cattolica il seme anche largamente sparso, cade in situazioni variegate. Spesso sulla strada o in luoghi dove sembra che germini, ma che a lungo andare mostrano tutta la loro fragilità; qualche volta e per grazia di Dio, sul terreno buono dove i risultati saranno eclatanti. Al seminatore occorre l’obbligo da un lato di avere a disposizione nella bisaccia un buon seme (qui c’entra la sua vita interiore e il suo personale rapporto con Dio); dall’altro di non disperderlo (e qui c’entra la sua abilità e competenza pedagogico – didattica: qui sta la sapienza del bravo educatore che sa intervenire nel momento opportuno, casomai dopo aver preparato il terreno), cercando di farlo cadere nel terreno buono, dove possa produrre frutto perché altri se ne nutrano. Il seminare al di là del risultato ha valore in se stesso: è un atto di carità verso il terreno ed in certo senso anche verso il seme: per questo va gettato a piene mani.20

6. Accettare e ricercare la collaborazione 6.1.Oltre le contrapposizioni È giunto il momento per andare oltre sterili contrapposizioni e vedere dove e come è possibile trovare sinergie significative, senza venire meno agli

Cfr. R. GUARDINI, La visione cattolica del mondo Morcelliana, 20052. Cfr. G.B. MONTINI Coscienza universitaria Note per gli studenti Studium, 19822 Ristampa 2000. 20 Per leggere in profondità la parabola del seminatore cfr. K DRONSCH “Portare frutto”, in R. ZIMMERMANN (a cura) Compendio delle parabole di Gesù, Queriniana, 2011, pp. 486 -509. 18 19


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obblighi che vengono dall’essere “scuola”. Il che, mi rendo conto, chiederà una vera “conversione” di tutti e negli atteggiamenti e nelle prospettive (Cfr. OP, 35). Per giungere a questa “alleanza educativa” credo che occorra una qualche definizione dei diversi ambiti e delle diverse responsabilità: l’espressione “comunità cristiana” risulta generica: può esserlo la famiglia (chiesa domestica), la scuola cattolica (soggetto ecclesiale), la parrocchia (chiesa territoriale) e molte altre strutture cristiane.21 Il “perchè” di questa rinnovata alleanza educativa sono i giovani e ciò che, come comunità cristiana che in alcuni casi si struttura in scuola (cattolica), vorremo fare per loro. Volenti o nolenti, noiosa o meno, non si può non prendere atto che i giovani di oggi trascorrono a scuola molto del loro tempo e il loro mondo ha nella scuola un punto istituzionale di aggregazione e di riferimento: della scuola si parla, a partire dalla scuola si frequentano i compagni, nascono iniziative di vario genere, nella scuola ci si innamora… A scuola ci si va e ci vanno (quasi) tutti, in parrocchia (e nell’oratorio) si sceglie di andare. 6.2. La comunità cristiana Occorre pertanto riflettere sul fatto che, in partenza, esistono comunità cristiane che si strutturano nel concreto della storia: diventano diocesi, diventano parrocchie, diventano monasteri, diventano scuole (in alcuni casi collocate spazialmente le une vicino alle altre), diventano movimenti. Sono comunità cristiane diverse, unite dalla stessa fede, speranza, carità: circumdata varietate. La scelta storica italiana, sempre ribadita, è stata quella di strutturare la comunità cristiana nella forma della parrocchia: ma non è mai stato l’unico modello per essere “chiesa”. Se è un modello efficace (e lo è), qualche volta può risultare stretto. Al fondo del problema c’è dunque la visione che si ha della Chiesa e dei rapporti che debbono instaurarsi in essa. Questa può essere l’occasione per far maturare tale visione e noi lasalliani dovremmo dare il nostro contributo inserendoci in maniera più visibile e matura all’interno della chiesa locale, intesa sia come parrocchia che come diocesi. In questo senso la scuola lasalliana da parte sua deve superare l’impressione diffusa di essere un circolo chiuso, autoreferenziale, che ci tiene a rimanere tale, partecipando molto poco alle diverse iniziative di pastorale d’insieme. Questo dipende da diversi fattori, non ultimo l’atteggiamento vagamente lobbistico delle famiglie che vi mandano i propri pargoli. Tuttavia crediamo che forse la difficoltà è altrove: chi fa scuola seriamente, ad esempio 21

Il problema è più complesso di quanto sembri ed è all’ordine del giorno della riflessione catechetica, soprattutto oggi dove si insiste molto sulla comunità come “culla” del cristiano.


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preparandosi attentamente le lezioni e correggendo per tempo i compiti assegnati, difficilmente riesce a fare altro e non ha molta voglia e forza di fare altro. Ma la situazione attuale richiede uno sforzo in più: occorre rimboccarsi le maniche e trovare spazio anche per “altro” oltre lo stretto lavoro scolastico. 6.3. La famiglia Se collaborazione è necessaria con la chiesa locale, altrettanto e di più lo è con le famiglie, le quali attraversano oggi sul versante educativo un momento molto difficile. Alla famiglia, prima responsabile dell’educazione dei figli, OP dedicano una riflessione articolata che ne tocca le attuali difficoltà, ma anche ne definisce responsabilità e possibilità. Nell’orizzonte della comunità cristiana, la famiglia resta la prima e indispensabile comunità educante. Per i genitori, l’educazione è • un dovere essenziale, perché connesso alla trasmissione della vita; • originale e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; • insostituibile e inalienabile, nel senso che non può essere delegato né surrogato.22

Qualche volta nei confronti delle famiglie abbiamo un atteggiamento timoroso ed anche in po’ irritato: intervengono quando non dovrebbero e riescono a vedere solo l’interesse diretto del proprio figlio. In realtà la famiglia resta la prima responsabile della educazione (Cfr. OP, 27). Il primato educativo della famiglia non implica il disinteresse da parte nostra: piuttosto ci obbliga a farci carico delle attuali difficoltà della famiglia (Cfr. OP, 27). E La Salle tre secoli fa era sulla stessa linea con la chiara consapevolezza che attraverso i figli si possono educare i genitori: Bisogna cercare di attirare con tutti i mezzi possibili i figli dei genitori che non se ne curano. Questo modo di procedere spesso dà buoni risultati perché ordinariamente i figli dei poveri fanno ciò che vogliono e i genitori non ne hanno la minima cura, anzi cadono come in adorazione davanti a loro: ciò che vogliono i figli lo vogliono pure loro. Così, basta che i figli vogliano venire a scuola e loro sono ben contenti di mandarli (CE 187, trad. Scaglione).

6.4. Le altre scuole Gli OP, dando forse per presupposta la collaborazione tra scuole cattoliche (esistono strutture di collegamento come Fidae, Agidae,…, ma molto ancora può essere fatto sul piano operativo) chiedono di collaborare con la

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Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, n. 36.


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scuola statale in vista di vivacizzare l’intero sistema scolastico dell’Italia (Cfr. OP, 48). Questa indicazione ci permette di riflettere sul ruolo politico della scuola e della scuola lasalliana in particolare capace di formare personalità in grado di mettersi al servizio del bene comune. Nella vostra missione dovete unire lo zelo per il bene della Chiesa e per quello dello Stato, del quale i vostri alunni cominciano ad essere membri e devono diventarlo ogni giorno più perfettamente. Procurerete il bene della Chiesa rendendo i vostri alunni dei veri cristiani, docili alle verità della fede e agli insegnamenti del Vangelo. Procurerete il bene dello Stato insegnando le scienze profane, o piuttosto insegnando tutto ciò che ha attinenza con il vostro ministero. Aggiungete però sempre alle conoscenze umane la pietà, senza la quale il vostro lavoro sarebbe poco utile (M 160, 2 trad. Scaglione).

La grandezza di una scuola la fanno i maestri, la notorietà nel bene e nel male la danno gli ex alunni: oggi abbiamo bisogno anche del secondo aspetto per rendere appetibile il venire a scuola.

7. Pregare e studiare Gli OP ci invitano a ridare spolvero al nostro ruolo di educatori. Al di là delle attenzioni alle cose dette e a fondamento delle stesse ci sono due modalità che sono nostre e che devono tornare ad essere percepite come tali: lo studio e la preghiera. Non crediamo sia possibile nessun rinnovamento, nessuna presa di coscienza, nessuna cura effettiva se non si ricomincia a studiare con serietà. Non uno studio fine a se stesso, ma orientato a rendere un servizio sempre più completo a chi frequenta la nostra scuola. Non si studia per la propria gloria, si studia per educarci all’attenzione e dunque all’amore23 e per riuscire a spezzare meglio il pane: questa motivazione deve essere portata in primo piano. Solo così si riacquista anche sicurezza nel nostro ruolo. È necessario studiare a fondo le verità; la vostra ignoranza sarebbe infatti criminale: causerebbe l’ignoranza di coloro che dovete istruire (M 153,1 trad. Scaglione).

Con questo non si vuole dire che attualmente non si studi, ma che occorre fare diventare lo studio, soprattutto delle discipline teologiche, una priorità per il presente e il futuro prossimo. I nostri alunni devono avere la certezza che colui che li accompagna è persona altamente preparata, consapevole di quello che dice, capace di trasmetterlo in modo che anche loro possano accedervi. Serve, come si diceva una volta, una prepa-

23

Così S. WEIL “Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici al fine dell’amore di Dio” in Attesa di Dio. Obbedire al tempo, Rusconi 1996, pp. 75 – 84.


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razione remota solida e una preparazione prossima puntuale, osiamo dire obbligatoria. È essenziale che l’insegnante non faccia mai lezione, né dia una istruzione qualsiasi, senza essersi preparato coscienziosamente e messo in condizione di fare bene (RSY trad. Scaglione).

Serve il lavoro di scrivania. Nei nostri racconti ogni tanto riemergono ricordi di situazioni di studio notturno, di tempo strappato ai mille impegni, di situazioni al limite del rocambolesco. Non rimpiangiamo quei tempi nelle loro modalità, ma sì nella loro passionalità: come possiamo pensare di stimolare gli alunni ad arrivare da qualche parte se noi stessi ci siamo fermati e continuiamo stancamente a ripetere cose che sappiamo sempre meno? Rientra nel quadro dello studio anche il produrre cultura oltre le sole parole: per strada ci siamo persi case editrici, testi scolastici, eserciziari, guide spesso frutto di anni di pratica saggia ed intelligente. Abbiamo un enorme patrimonio alle spalle: per non dilapidarlo e perderlo, possiamo solo accrescerlo. Infine, ma come fondamento, la preghiera. Qui il ricorso a La Salle è di una semplicità sconcertante. Non c’è quasi pagina degli scritti lasalliani dove non si faccia riferimento a Dio e al ricorrere a lui nelle difficoltà. D’altro canto nell’ottica lasalliana noi non siamo che “voci”: “Quelli che istruiscono gli altri sono la voce di colui che dispone i cuori a ricevere Gesù Cristo e la sua dottrina e colui che li dispone non può essere che Dio il quale concede loro il dono della parola. Se non è Dio che vi fa parlare e che si serve della vostra voce perché parliate di lui e dei santi misteri, non siete altro come dice san Paolo, che un bronzo sonante e un cembalo squillante, perché tutto quello che voi direte non avrà alcun effetto e non darà alcun frutto (M 3, 2 trad. Scaglione).

Questa dimensione ministeriale della preghiera dell’educatore dovremmo riscoprirla: sia nel senso di preghiera di intercessione per giovani a noi affidati, Voi dovete essere presso Dio gli intercessori per i vostri allievi, per procurare loro con la vostra preghiera, la pietà che non potreste dare con tutte le cure che avete per la loro educazione (M 157,2 trad. Scaglione).

sia nel senso di luogo di apprendimento per noi di ciò che poi dobbiamo trasmettere, È vostro impegno salire a Dio tutti i giorni con la preghiera, per imparare da Lui quello che dovete insegnare. Dovete poi discendere verso i giovani e mettervi al loro stesso livello, per istruirli su ciò che Dio vi ha comunicato per loro, sia nella preghiera che nei libri santi (M 198, 1 trad. Scaglione).

sia come “sportello” dove chiedere soluzioni ai nostri problemi didattici ed educativi Domandate spesso a Dio la grazia di toccare i cuori dei vostri allievi., come lui solo sa fare: questa è la grazia del vostro stato (M 81,2 trad. Scaglione). La preghiera è l’unico mezzo adatto per riuscire nell’opera divina dell’educazione: presen-


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tate continuamente a Gesù le necessità dei giovani e le difficoltà che incontrate nel guidarli. Egli, vedendo che ricorrete a lui, che può tutto, nelle difficoltà del vostro ministero e che vi considerate come uno strumento nelle sue mani, non mancherà di concedervi quanto gli chiedete (M 196, 1 trad. Scaglione).

Conclusione: la nostra preoccupazione sono i giovani La comunità cristiana si rivolge ai giovani con speranza: li cerca, li conosce e li stima; propone loro un cammino di crescita significativo. I loro educatori devono essere ricchi di umanità, maestri, testimoni e compagni di strada, disposti a incontrarli là dove sono, ad ascoltarli, a ridestare le domande sul senso della vita e sul loro futuro, a sfidarli nel prendere sul serio la proposta cristiana, facendone esperienza nella comunità. I giovani sono una risorsa preziosa per il rinnovamento della Chiesa e della società. Resi protagonisti del proprio cammino, orientati e guidati a un esercizio corresponsabile della libertà, possono davvero sospingere la storia verso un futuro di speranza (OP 32).

Pensiamo che queste parole possano e debbano diventare le nostre, semplicemente perchè lo sono sempre state: neanche possiamo dire di averle dimenticate. Da cristiani, insieme alla Trinità, continuiamo a sperare negli uomini24 e nei giovani ed in ciò che di grande e di bello possono dare al mondo. Nessuno deve sottrarsi, tutti devono essere messi nelle condizioni di poter dare il loro contributo25 insostituibile. Speriamo nei giovani perchè siano in grado, con l’aiuto dello Spirito, di costruire un mondo diverso e finalmente fraterno. E questo a cominciare da noi stessi, nonostante tutto (Cfr. OP, 30). Se questo accadrà la scuola lasalliana potrà svolgere un ruolo decisivo nella realizzazione degli Orientamenti dei Vescovi ed insieme riuscire a rivitalizzare se stessa.

24

Cfr. G. CHIOSSO Sperare nell’uomo. Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, SEI, 2009 25 Cfr. AA. VV., L’intelligence est- elle modifiable?, Bruno, 1997.


Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 199-206

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COME FAVORIRE LA CREATIVITÀ DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali

1. Albert Einstein: «Un’idea buona è veramente rara»

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acques Monod esordì così durante i lavori di un convegno che aveva a suo oggetto la questione della creatività nella scienza: «Potrei cominciare col presentarvi una storia vera, una storia che alcuni di voi forse già conoscono e che riguarda una conversazione avvenuta tra Einstein e il poeta francese Valéry. Quando Einstein venne per la prima volta a Parigi, una signora molto nota riuscì ad avere il trionfale onore di ospitare Einstein e Valéry nel suo salotto, e sistemò le cose in modo tale che la conversazione tra i due potesse essere ascoltata da tutti. Come voi sapete, Valéry aveva la mania di dire che egli era più interessato al processo di creazione che all’effettivo prodotto di questo processo creativo. Ovviamente, Valéry, che è stato un grandissimo poeta, non era proprio un buon filosofo e certamente non aveva letto quel che Karl Popper ha scritto sul mondo 3. In ogni caso, però, egli era interessato al processo della creatività e cominciò la conversazione ponendo ad Einstein domande su come lui lavorasse. “Come è che Lei lavora? E potrebbe raccontarci qualcosa del Suo modo di lavorare?”. Einstein, a questo proposito, fu molto evasivo; meglio: stette sul vago e rispose: “Bene, non so... Esco di buon mattino e faccio una passeggiata”. “Davvero interessante, replicò Valéry. E naturalmente Lei ha con sé un taccuino; e allorché Lei ha un’idea, la scrive sul Suo taccuino”. “No, disse Einstein, non faccio questo”. “Dunque, Lei non fa così?”. “Vede, un’idea è veramente rara”».1

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J. MONOD, in AA.VV., The Creative Process in Science and in Medicine, in «Excerpta medica Amsterdam», 1975, p. 3.


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Un’idea, una buona idea cioè, è veramente rara. La creazione di nuove e buone idee non è cosa di tutti i giorni: questo, al pari di una mutazione biologica che abbia buone possibilità di sopravvivenza. In ogni caso, seguendo Popper, Monod scrive: «Se mi è permesso di supersemplificare, la scoperta scientifica consiste nello stabilire assunzioni o ipotesi, che obbediscono al principio di demarcazione di Popper; cioè a dire assunzioni basate su ipotesi che, per la loro struttura, possono venir falsificate, seppure da un esperimento immaginario; e pertanto segue che non esiste qualcosa che assomigli a una pura scoperta empirica, ma può esistere soltanto il processo che implica una assunzione la quale precede l’esperimento empirico del fatto, e ciò significa che Popper è del tutto nel giusto allorché dice che non esiste una cosa come una scoperta puramente empirica».2 In realtà, nella Logica della scoperta scientifica, Popper, a proposito della immaginazione o creatività nelle scienze, ebbe a dire: «Lo stato iniziale, l’atto del concepire o dell’inventare una teoria, non mi sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile. La questione: come accada che a un uomo venga in mente un’idea nuova – un tema musicale, o un conflitto drammatico o una teoria scientifica – può rivestire un grande interesse per la psicologia empirica ma è irrilevante per l’analisi logica della conoscenza scientifica. Quest’ultima, prende in considerazione non già questioni di fatto (il quid facti?, di Kant), ma soltanto questioni di giustificazione o validità (il quid juris?, di Kant)».3 In altre parole, Popper sostiene che la logica della conoscenza scientifica si interessa a questioni di questo genere: «Può un’asserzione essere giustificata? E, se lo può, in che modo? È possibile sottoporla a controlli? È logicamente dipendente da certe asserzioni? O le contraddice?».4

2. Come selezionare le “idee buone” tra le “tante idee nuove” Perché, dunque, una idea possa venir esaminata logicamente, deve essere già stata in precedenza formulata. Ma come si fa ad avere nuove idee? C’è un metodo, insomma, per creare teorie o ipotesi in grado di risolvere i problemi in cui si è inciampato? Ebbene, a questo interrogativo Popper risponde: «Lo stadio iniziale, l’atto del concepire o dell’inventare una teoria non mi sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile». E aggiunge che «la questione: come accade che a un uomo venga in mente un’idea nuova [...] può rivestire un grande interesse per la psicologia empirica». Ma che

2

Op. cit., pp. 3-4. K.R. POPPER, Logica della scoperta scientifica, trad. it., Einaudi, Torino, 1970, pp. 9-10. 4 Op. cit., p. 10. 3


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cosa può fare la psicologia empirica nell’analisi del pensiero creativo? Fin dove potrà essa condurci? Che cosa, in breve, la psicologia della creatività è in grado di spiegare? Ed ecco la risposta di Popper a tali interrogativi: «Innanzitutto, vorrei muovere delle critiche riguardo l’approccio psicologico nei confronti della comprensione del lavoro creativo [...]. La creatività è legata [si dice] con una certa quantità di ribellione. Sono d’accordo su ciò, ma penso che asserzioni psicologiche di questo tipo sono dubbie e svianti, e questo è dovuto ad una inevitabile ambivalenza, o ambiguità, specie quando si tratti di applicarle. Se i genitori di un bambino cercano di reprimere il bambino, essi possono rendere il bambino meno ribelle – o lo possono rendere più ribelle. E se il bambino è reso più ribelle, questo fatto può rendere il bambino o più incline a fare scoperte – o meno incline. Ebbene, generalizzando questa riflessione, io sostengo – afferma Popper – che non ci sono proprio relazioni dirette da esser trovate tra fattori psicologici (come la ribellione) e la creatività. E mentre non penso che si debbano perciò buttar via i suggerimenti che sono stati avanzati nell’ambito della psicologia della creatività, è mia opinione che non dovremmo però prestarvi molta attenzione. Così, per esempio, sono certo che i cuccioli allorché giocano sono creativi (e forse persino ribelli), in un modo non troppo dissimile dal modo in cui gli scienziati sono creativi, ma penso pure che esistano importanti differenze».5 Nuove idee, buone o cattive che siano, si ottengono – prosegue Popper – attraverso quella che Monod ha chiamato «simulazione soggettiva», «in termine, questo, molto buono per quello che altri ha spesso chiamato “intuizione simpatetica” o “empatica” (in tedesco: Einfühlung). Quel che importa, è che ci si deve preoccupare del problema nel quale si è inciampati: che si deve entrare nella situazione problematica in modo tale da diventare quasi una parte di essa. E l’effetto di questa immersione nel problema può essere duplice. Da una parte, può trattarsi di una esperienza davvero affascinante; e dall’altra, il problema può perseguitarti anche nel tuo sonno. Poincaré e Hadamard hanno descritto alcuni di questi aspetti in maniera interessante nei loro scritti sul processo di scoperta in matematica».6 Per quanto poi concerne il problema di come ottenere buone idee, «la mia opinione – dice Popper – è che noi le otteniamo prendendo le idee generali (buone o cattive) e criticandole [...] E questo è anche il modo in cui uno ottiene la padronanza di un problema – solo allora costui vede dove giace la difficoltà reale. Se qualcuno produce molte differenti soluzioni di un problema e queste non funzionano, costui non solo sa che, e perché, ha a che fare con

5 6

K.R. POPPER, in AA.VV., The Creative Process in Science and in Medicine, cit., p. 17. Op. cit., p. 18.


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una seria difficoltà, ma per di più costui sarà diventato una specie di esperto del problema, e nella buona posizione per valutare criticamente i nuovi suggerimenti o ipotesi, siano queste ipotesi le sue o proposte da altri. È questo il modo in cui si acquista familiarità e si conosce un problema e in cui il problema diventa parte di se stessi».7 Quindi la via per ottenere nuove e buone idee Popper la vede in un continuo tentare la soluzione di un problema e nella critica severa di questi tentativi. È così che si diventa esperti di un problema: conoscendo il maggior numero di tentativi sbagliati, e ponendosi in tal modo nella situazione migliore per catturare e valutare l’idea o congettura o ipotesi nuova e buona, buona cioè per la soluzione del problema. Ed è ovvio che per diventare esperti di un problema bisogna essere ad esso interessati: interessati a tutti i possibili tentativi di soluzione. «Vi sono alcuni – ha scritto Popper – che avvertono l’urgenza di risolvere un problema, e per loro diventa qualcosa di reale, come un elemento di disordine che debbono eliminare».8 Einstein ha scritto – fa presente Popper – che «nei due anni prima del 1916 – nei due anni cioè precedenti la sua teoria generale della relatività – egli avrà avuto, in media, un’idea ogni due minuti: quasi sempre, naturalmente, un’idea che egli respinse. Una prospettiva analoga a questa è presupposta nell’osservazione di John Archibald Wheeler secondo cui “il nostro problema nella sua interezza è fare i nostri sbagli il più presto possibile”».9

3. Risultati insoddisfacenti delle ricerche psicologiche sulla creatività Le idee nuove sono, e possono essere, dunque, tante. Ma un’idea buona è veramente rara. E questa sboccia su di un terreno concimato da mucchi di idee uccise. Ma, vale la pena ripetere, che la ricerca scientifica procede per tentativi ed errori e parte sempre da un problema, da una situazione problematica, cioè da un problema col suo sfondo. E chi è interessato ad un problema cercherà appunto di risolverlo. Ne vedrà la storia. Indagherà come esso è cambiato col mutare delle teorie, delle prove acquisite; col mutare del sapere di sfondo rilevante. Cercherà di analizzare, insomma, se tale problema, per usare un concetto di Lakatos, è slittato progressivamente o regressivamente. E i nuovi tentativi di soluzione vengono tentati con sullo sfondo una ben precisa memoria: cioè il background del sapere di sfondo rilevante. La

7

Op. cit., pp. 18-19. K.R. POPPER, La natura dei problemi filosofici, in Congetture e confutazioni, trad. it., il Mulino, Bologna, 1972, p. 127. 9 K.R. POPPER, in AA.VV., The Creative Process in Science and in Medicine, cit., pp. 18-19. 8


Come favorire la creatività

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fantasia dello scienziato è una faccenda seria. Anche se c’è da dire che nessuna ipotesi o congettura è proibita, se questa può essere di aiuto a risolvere il problema. In conclusione: la creatività trova la sua ragione di esistenza negli stati problematici oggettivi; l’organo produttore delle idee nuove è la mente umana con il suo potere di simulazione, cioè di immaginazione; le idee nuove trovano il loro giudice severo davanti al tribunale delle falsificabilità. Il discepolo e collaboratore di Pasteur, Emile Roux, ebbe una volta a dire: «Quante esperienze impossibili e assurde non abbiamo discusso! Dovevamo noi stessi riderne il giorno dopo».10 Pasteur e i suoi collaboratori, insomma, davanti ad un problema simulavano, immaginavano, concepivano o costruivano mondi possibili, vale a dire idee o ipotesi o congetture nuove; e poi le discutevano; e nella discussione critica molte di queste idee dovevano apparire addirittura assurde e ridicole; ma la simulazione la si mette in atto per ottenere nuove idee, e la discussione critica per trovare tra queste nuove idee quelle buone. Einstein, infatti, ha ragione: un’idea nuova e buona è veramente una cosa rara. Ma, come diceva già Eraclito: se non si cerca l’impossibile, non lo si troverà. Monod ha insistito sul fatto che il processo creativo consiste in un processo di simulazione, di simulazione di possibili situazioni, di mondi possibili relativi e rilevanti per i problemi in questione. La mente umana, insomma, davanti ad un problema o, meglio ancora, davanti ad una oggettiva situazione problematica, scatena la fantasia: cerca di simulare i possibili comportamenti di quell’atomo, di quella particella, di quella sostanza, di quel virus in quelle e in altre possibili situazioni.11 Ma ci sono ulteriori ingredienti – ha scritto Monod – nel processo creativo: (a) l’abilità nel prestare attenzione alle stranezze, alle piccole cose strane che capitano nel corso degli esperimenti; (b) il «coraggio tecnico», cioè il coraggio di buttar via una «metodologia» inveterata (teorie e tecniche di controllo) per assumerne un’altra; (c) il «buon fiuto» nella scelta del problema (ci sono problemi promettenti e situazioni problematiche sterili) e del sistema sperimentale che si assume per lavorare o teorizzare su qualcosa; (d) l’eleganza tecnica; (e) l’eleganza teoretica; (f) l’ansietà.12 In ogni caso, con tutto ciò non va dimenticata quella che è una sostanziale infecondità della discussione psicologica sulla creatività nella ricerca scientifica. Sostanzialmente infeconda tale discussione, poiché non è difficile constatare che ogni qualvolta si prenda un elemento psicologico (ribellione,

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P. DE KRUIF, Cacciatori di microbi, Mondadori, Milano 1953, p. 102. J. MONOD, in AA.VV., The Creative Process in Science and in Medicine, cit., p. 4. 12 Op. cit., pp. 6-7. 11


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audacia, tenacia, ecc.) come fattore della creatività della scienza, si vede subito che non è affatto difficile addurre esempi in contrario in grado di frantumare le generalizzazioni della psicologia tendenti a stabilire dei nessi necessari tra uno di quei fattori psicologici e la creatività. Si dice che è creativo chi è ribelle, ma poi vediamo che riesce chi è ortodosso e riesce proprio perché ortodosso. Si dice che, per essere creativi, occorre essere audaci, ma come si fa se non post factum a distinguere l’audace dal temerario? In realtà, chi vince è l’audace e chi perde il temerario. Si dice che la creatività necessita di tenacia, ma come si fa, se non sempre post factum, a sapere quando si è tenaci e quando invece testardi? Insomma, uno status quaestionis siffatto ci mostra che quel che la psicologia oggi può darci è una descrizione di una serie di casi in cui delle menti furono produttrici di pensieri o teorie nuove e buone: nuove, ricche di contenuto esplicativo e feconde per l’ulteriore ricerca. Ma, al di là di questa fenomenologia, la ricerca psicologica non pare sia andata. Siamo di fronte ad una specie di «anatomia descrittiva» di casi di pensiero creativo e nulla più. Le generalizzazioni proposte e tendenti a vincolare un fattore psicologico (o, se si vuole, anche sociologico) e il pensiero creativo cadono sotto i colpi dei «casi contrari». E tutto ciò ha condotto Popper a riaffermare la sua vecchia distinzione tra psicologia della ricerca e logica della ricerca e a ribadire ancora una volta che «lo stadio iniziale, l’atto del concepire o dell’inventare una teoria non sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile». «Il mio punto di vista – asserì Popper già nel 1934 – si può esprimere dicendo che ogni scoperta contiene un “elemento irrazionale” o “un’intuizione creativa” nel senso di Bergson».

4. La teoria del pensiero creativo non equivale alla richiesta del pensiero che ha successo C’è il caso e la necessità nell’evoluzione biologica; c’è il caso e la necessità nell’evoluzione della scienza. Nell’uno e nell’altro ambito ci troviamo davanti a processi che avanzano per tentativi ed eliminazioni degli errori. Tentativi che – afferma Popper – «non sempre sono del tutto ciechi alle richieste del problema: spesso è il problema che determina la gamma entro la quale devono essere scelti i tentativi [...]. Ciò è ben descritto da David Katz: “Un animale affamato divide l’ambiente in cose mangiabili e in cose immangiabili. Un animale in fuga vede vie di scampo e nascondigli”. Inoltre, con i tentativi successivi, il problema può in qualche modo cambiare; l’ambito, ad esempio, può restringersi. Ma possono darsi anche casi del tutto


Come favorire la creatività

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differenti; specialmente a livello umano; casi nei quali tutto dipende dalla capacità di passare i limiti della gamma assunta».13 A volte, infatti, la soluzione di un problema la si cerca entro una gamma di possibili tentativi (gamma assunta congetturalmente, per quanto ciò possa restare a livello inconscio). Ma «il pensiero critico può consistere non solo nella ripulsa di un tentativo o di una particolare congettura, ma anche nel rifiuto di ciò che può essere descritto come una più profonda congettura – l’assunzione della gamma di tutti i tentativi possibili. È questo, a mio avviso, ciò che accade in tanti casi di pensiero “creativo”».14 Di conseguenza, «quel che tipicizza il pensiero creativo, oltre all’intensità dell’interesse per il problema, mi sembra che sia spesso la capacità di oltrepassare i limiti della gamma – o di mutare la gamma – entro la quale sceglie i propri tentativi un pensatore meno creativo. Questa capacità, che è chiaramente una attitudine critica, può venir descritta come immaginazione critica. E spesso si tratta del risultato di uno scontro culturale, cioè di un conflitto fra idee, o contesti di idee. Questo scontro può aiutarci a superare i limiti ordinari della nostra immaginazione».15 È ovvio che considerazioni siffatte «risulterebbero difficilmente soddisfacenti per quanti vanno in cerca di una teoria psicologica del pensiero creativo, e specialmente della scoperta scientifica. Quello che costoro cercano, infatti, è una teoria del pensiero che ha successo. [Ma] io ritengo – scrive Popper – che la richiesta di una teoria del pensiero che ha successo non possa essere soddisfatta; e che essa non sia identica alla richiesta di una teoria del pensiero creativo. Il successo dipende da tante cose – ad esempio dalla fortuna. Può dipendere dal fatto che ci si è imbattuti in un problema promettente. Dipende dal non essere anticipati. Dipende da cose quali una felice divisione del tempo fra il cercare di mantenerci aggiornati e il concentrarsi sull’elaborazione delle proprie idee».16

5. La creatività non può venir insegnata, ma può venir incoraggiata e favorita Popper è, pertanto, dell’avviso che chi va in cerca di una teoria del pensiero che ha successo, va incontro ad un chiaro insuccesso: è destinato, a quanto pare, a fare cilecca. La sua idea è che «ciò che è essenziale al pensiero

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K.R. POPPER, La ricerca non ha fine, trad. it., Armando, Roma, 19973, p. 60. Ibidem. 15 Ibidem. 16 Op. cit., pp. 60-61. 14


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‘creativo’ o ‘inventivo’ è una combinazione di un interesse intenso per un problema (e quindi una disponibilità a tentare continuamente) con un pensiero altamente critico; con una disposizione ad attaccare perfino quei presupposti che per il pensiero meno critico definiscono i limiti della gamma entro la quale vengono scelti i tentativi (le congetture); con una libertà immaginativa che ci permetta di vedere fonti di errore fin qui inaspettate: possibili pregiudizi che richiedono un esame critico».17 In poche parole: l’opinione di Popper, già delineata più sopra, è che «le ricerche nell’ambito della psicologia del pensiero creativo siano generalmente piuttosto sterili [...]. Il pensiero creativo, infatti, o l’eliminazione degli errori, può essere meglio caratterizzato in termini logici che in termini psicologici».18 «La creatività – ha scritto P. B. Medawar – forse non può essere appresa, ma può certamente essere incoraggiata e favorita. Possiamo avviarci verso le idee creative mediante la lettura e la discussione, guidati dal sano principio per il quale non si troverà mai una risposta a una domanda che non sia stata formulata nella mente».19 Inciampare nel problema; ricostruirne lo stato problematico oggettivo; e tentare soluzioni per questo problema; tentarne di continuo senza aver paura di sbagliare; gli errori commessi sono vie che quasi certamente non percorreremo più e che quindi restringono in qualche modo le possibilità di errori futuri, e che pertanto ci avviano verso «più verità». Inciampare, quindi, nel problema e tentare di offrirne la soluzione, simulando mondi possibili, e se siamo creativi cercare la soluzione al di là della gamma delle soluzioni possibili per un certo paradigma: buttare via tutti i mazzi di chiavi per aprire la porta ed entrare in casa per il camino. Inciampare nei problemi; immaginare mondi possibili; e selezionare tra questi, quello che, all’epoca, può descrivere e spiegare e prevedere quel pezzo di mondo reale messo in rilievo dal problema. Passione del problema e nessuna paura di errare. Senza passione, infatti, non si fa niente. E se si ha paura di errare non si avrà nemmeno la soddisfazione di indovinare.

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Op. cit., p. 61. Ibidem. 19 P.B. MEDAWAR, Induzione ed intuizione nel pensiero scientifico, Armando, Roma 1971, p. 89. 18


Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 207-214

CONTRO IL “PROFESSORESE” ALCUNE “BEST PRACTICES” NELLA COMUNICAZIONE TRA DOCENTI E STUDENTI MARICA SPALLETTA Ricercatore di Sociologia dei processi culturali e della comunicazione all’Università degli Studi “Guglielmo Marconi” (Roma)

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ul rapporto tra docenti e studenti in moltissimi hanno scritto, nel corso dei secoli: filosofi e sociologi, pedagogisti e linguisti, finanche i giuristi, a riprova del fatto che abbiamo a che fare con un tema assolutamente centrale e che ben si presta a essere esaminato attraverso molteplici e diverse lenti di ingrandimento1. Nel novero di coloro i quali hanno dedicato parte della propria riflessione allo studio di questo rapporto – e che lo hanno fatto attraverso un’analisi centrata sulle dinamiche comunicative insite nella relazione tra docenti e studenti – figura anche Massimo Baldini.2 Saranno proprio le sue riflessioni a guidarci in questo nostro contributo, nel quale ci proponiamo di focalizzare l’attenzione sulla dimensione comunicativa della relazione educativa: dunque, da una parte sulle pratiche di “buona comunicazione” tra docenti e studenti;3 dall’altra

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La bibliografia in materia è ovviamente sterminata, ancor più se si considera che, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, il tema dell’educazione si lega strettamente ad altre problematiche centrali quali, per esempio, i concetti di cultura o di esperienza. Ci permettiamo comunque di rimandare al lavoro di L. PATI, Pedagogia della comunicazione educativa, La scuola, Brescia 2008. 2 Baldini si occupa di questo tema in svariati contributi e poi, più nel dettaglio, in un capitolo del suo Elogio dell’oscurità e della chiarezza (Armando, Roma 2004). 3 Il concetto di best practices è stato teorizzato, per la prima volta, all’inizio del Novecento (cfr. F. TAYLOR, The Principles of Scientific Management, Harper & Brothers, New York 1911), e inizialmente applicato nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Successivamente, il suo uso è stato metabolizzato anche in altri contesti (per esempio la medicina o l’ingegneria), fino agli studi sull’educazione.


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sulle patologie4 che, a seguito di una cattiva comunicazione, possono influire negativamente sui processi di apprendimento. a) Relazione educativa e relazione comunicativa Il punto di partenza della nostra riflessione non può che essere rappresentato dal rapporto tra relazione educativa e relazione comunicativa: dobbiamo cioè chiederci se e in che maniera tali relazioni risultano connesse reciprocamente tra loro. Una risposta a questa domanda la troviamo, come anticipato, nel lavoro di Baldini, il quale definisce la relazione educativa come «relazione dialogica»,5 ossia una relazione fondata sulla presenza di due soggetti che, in una continua alternanza di parola e ascolto, dialogano vicendevolmente tra loro. A caratterizzare questo dialogo è un continuo succedersi di domande cui ciascuno dei soggetti che operano nella relazione cerca di offrire delle risposte, ed è proprio questa disponibilità a dialogare e ad ascoltare «uno degli elementi centrali di ogni processo di apprendimento, di ogni processo educativo».6 Ogni relazione educativa è dunque una relazione comunicativa: docenti e studenti, infatti, nel momento in cui dialogano tra loro, compiono ciascuno delle azioni che sono strettamente comunicative. Queste azioni – che si esprimono attraverso tanto la parola, quanto il silenzio e l’ascolto7 – non sono tuttavia appannaggio esclusivo di uno soltanto dei due soggetti della relazione: al contrario, parlare e ascoltare sono attività che, nella relazione educativa, possono essere svolte (rectius: devono essere svolte) alternativamente da studenti e docenti. In altre parole, è necessario tanto l’«ascolto dell’allievo nel momento in cui parla il maestro», quanto l’«ascolto del maestro quando a parlare è l’allievo».8 Parlare e ascoltare, quindi, ma che cosa? O, meglio ancora, perché? E con quali finalità? Rispondere a queste domande impone di richiamare un’altra caratteristica fondamentale della relazione educativa, che ha principalmen-

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Utilizziamo il termine “patologia” nell’accezione proposta da Paolo Scandaletti a proposito dei rapporti tra il sistema della comunicazione e gli altri sistemi nei quali si articola la società: laddove le interazioni prendono forma nel rispetto dei ruoli e delle funzioni, i rapporti sono fisiologici; laddove, invece, manca questo rispetto di ruoli e funzioni, le fisiologie diventano patologie, e l’equilibrio tra i sistemi viene meno. Cfr. P. SCANDALETTI, Come parla il potere. Realtà e apparenze della comunicazione pubblica e politica, Sperling & Kupfer, Milano 2003. 5 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 109. 6 Ibidem. Come ci ricorda Hans-Georg Gadamer (Verità e metodo, Fabbri, Milano 1972, p. 424), «il dialogo ha, necessariamente, la struttura della domanda e della risposta». 7 Sulla valenza comunicativa del silenzio cfr., tra gli altri, P. WATZLAWICK, J.H. BEAVIN, D.D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione, Astrolabio, Roma 1971. 8 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 112.


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te a che fare con il contenuto della relazione stessa: in ragione del suo essere una relazione comunicativa, in ogni relazione educativa si parla, infatti, e si ascolta con la finalità di farsi capire e di capire. Operazioni, queste ultime, alquanto «complesse» e nel contempo assolutamente «non automatiche o ovvie».9 b) Il “cattivo maestro”: gli errori più comuni10 Non a caso, infatti, è proprio nel momento del capire e in quello del farsi capire che prendono forma i più gravi errori11 che gli insegnanti compiono nel loro relazionarsi con gli studenti, e viceversa. Questi errori possono essere facilmente distinti a seconda che essi si riferiscano al parlare oppure all’ascoltare. Sul primo versante, l’errore più comune in cui gli insegnanti corrono il rischio di incorrere è quello di eccedere nel monologo, che altro non è che una forma di «comunicazione fittizia»,12 in cui vi è un solo soggetto che parla e che compie tale operazione senza curarsi dell’effettiva comprensione da parte di chi ascolta. Si parla, cioè, per il solo gusto di farlo, perché si trae soddisfazione dall’ascoltare il suono della propria voce oppure perché si ritiene che l’oscurità semantica venga percepita, da parte di chi ascolta, come sintomo dell’importanza di chi parla: non ti capisco, quindi do per scontato che

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Ivi, p. 110. Capita di frequente, tuttavia, che gli insegnanti tendano a considerare il capire e il farsi capire come operazioni ovvie, scontate; a sostegno della proprie tesi, Baldini richiama espressamente il lavoro di L. LUMBELLI (Quando insegnare è capire e far capire, Emme, Milano 1981, p. 29), la quale rimarca come spesso capita che, al termine di una lezione, gli insegnanti siano portati naturalmente a pensare tanto di aver detto (e bene) tutto quello che dovevano quanto di essere stati perfettamente compresi da parte degli studenti. Così facendo, evidentemente, viene meno quel necessario feedback che, al contrario, rappresenta un elemento fondamentale di ogni forma di comunicazione. 10 Prendiamo a prestito, per il titolo di questo paragrafo, l’efficace espressione con cui Karl Popper definisce la televisione come “cattiva maestra”. Per il filosofo austriaco, la televisione è infatti una “cattiva maestra” nel momento in cui si avvale di educatori che non sono in grado di svolgere correttamente il proprio lavoro; allo stesso modo – a nostro avviso – un “cattivo maestro” è quell’insegnante che, per malizia o per imperizia, non si avvale di quegli strumenti o non assume quei comportamenti che, al contrario, gli consentirebbero di svolgere correttamente il proprio lavoro. Cfr. K.R. POPPER, J. CONDRY, Cattiva maestra televisione, a cura di Francesco Erbani, Reset, Milano 1994. 11 Per esigenze di spazio, parliamo qui, genericamente, di “errore”, rimarcando tuttavia come sarebbe più opportuno distinguere – al pari di quanto si fa, per esempio, in medicina – gli errori dell’insegnamento dagli sbagli dell’insegnante. Cfr. D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet, Torino 1996. 12 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 109. Cfr. anche J. PIAGET, Commenti alle osservazioni critiche di Vygotskij, in L. S. VYGOTSKIJ, Pensiero e linguaggio, Editrice Universitaria, Firenze 1966, p. 238.


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tu sia molto più intelligente, preparato, colto di quanto non lo sia io che ti ascolto.13 L’altro errore assai comune in cui gli insegnanti possono cadere è quello di affidare il proprio messaggio a una lingua assolutamente incomprensibile per gli studenti e, più in generale, per chi ascolta: una lingua che «solleva solo cortine di nebbie semantiche, provoca caotici ingorghi linguistici».14 Tuttavia, non sempre il ricorso alla cosiddetta “lingua professorale” è una scelta fatta con malizia: in molti casi, infatti, essa può essere espressione di un’imperizia o di una negligenza del docente (il docente, cioè, per suoi limiti o per mancanza di cura non è in grado di parlare con chiarezza) o dell’estrema complessità dell’argomento trattato (l’argomento è, cioè, molto complicato, o necessita dell’uso di numerosi e criptici termini tecnici).15 Quali che siano le motivazioni, tanto il monologo quanto il ricorso all’oscurità sono espressione di una comunicazione che si risolve in quello che Baldini definisce come «il professorese»,16 ossia «una variante dotta del difficilese»,17 «un monologo, teatrale, un modo di comunicare in cui le perdite d’informazione superano i guadagni».18 Un atteggiamento che non soddisfa minimamente quell’esigenza di farsi capire che, come abbiamo visto in precedenza, rappresenta invece uno dei due pilastri della relazione educativa. Agli errori sul versante del farsi capire si associano poi quelli che emergono nella fase del capire, quando cioè tanto gli insegnanti quanto gli studenti dovrebbero esercitarsi nella complessa arte dell’ascolto. Errori, in tal senso, vengono compiuti tanto dagli uni quanto dagli altri. Non è affatto raro, infatti, che dinanzi all’oscurità che domina certe spiegazioni dei propri

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«È un errore – scrive Emile Cioran (Squartamento, Adelphi, Milano 1981, p. 85) a proposito del fascino che l’oscurità riesce a esercitare su chi legge o su chi ascolta – voler facilitare il compito del lettore. Non te ne sarà grato. Non gli piace comprendere, gli piace sprofondare, gli piace essere punito. Donde il fascino degli autori confusi, donde la perennità della farragine». Ancor più laconico il pensiero dello scrittore latino Cornelio Tacito (Agricola, 30, 3), il quale afferma che «omne ignotum pro magnifico est». 14 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 109. 15 La tassonomia delle possibili cause di scarsa chiarezza che Baldini propone (ivi, pp. 36-37) trae spunto da un celebre aforisma del retore Vittorino (IV sec.) che recita: «vel rei magnitudine, vel doctoris imperitia, vel audientis duritia». Accanto, dunque, alle cause dell’oscurità che attengono a colui che parla (malizia, negligenza, imperizia, fine lodevole) e a quelle che riguardano la materia trattata (difficoltà, grandezza), ve ne sono altrettante che emergono con riferimento al lettore/ascoltatore (pochezza d’intelligenza, pochezza di scienza). 16 Su questo tema cfr. G.L. BECCARIA, Il linguaggio, in AA.VV., Il linguaggio della divulgazione, «Selezione dal Reader’s Digest», 1982; L. LUMBELLI, Quando insegnare è capire e far capire, cit. 17 Cfr. T. DE MAURO, L’Italia delle Italie, Nuova Guaraldi, Firenze 1979. 18 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 110.


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docenti, o più in generale dinanzi alla loro incapacità di farsi capire, molti studenti preferiscano rifugiarsi in un «silenzio distratto e inascoltante», che «alimenta nei docenti l’illusione di essere compresi».19 Stesso discorso per quanto riguarda l’insegnante che, dinanzi allo studente che parla, può cadere nella tentazione di assumere l’atteggiamento di un «inascoltante educato»:20 egli, cioè, sente ciò che lo studente dice, ma non lo ascolta; percepisce il suono della sua voce, ma non capisce ciò che egli gli sta dicendo. c) Il “bravo insegnante”: alcune “best practices” Così descritti gli errori più comuni in cui insegnanti e studenti possono incorrere, appare spontaneo chiedersi se, al contrario, in questo contesto esistono delle best practices: comportamenti, cioè, che – una volta posti in essere – garantiscono (o quanto meno agevolano) il corretto declinarsi del rapporto tra studente e insegnante e, di conseguenza, la relazione educativa nel suo complesso. La risposta a questa domanda è evidentemente positiva, nel senso che tali comportamenti esistono e che sono facilmente individuabili in una prospettiva d’indagine della relazione educativa che ponga al centro dell’attenzione la sua dimensione comunicativa: come sostiene infatti Baldini, «il bravo insegnante non è quello che conosce la propria disciplina come le proprie tasche, ma quello che a queste conoscenze unisce buone competenze anche a livello comunicativo».21 Per essere un “bravo insegnante” è dunque necessario, ma non sufficiente, possedere delle nozioni, padroneggiare dei contenuti: bisogna anche avere la capacità di comunicare tali contenuti. E la capacità di comunicare questi contenuti altro non è che la già menzionata capacità di capire e di farsi capire. Partiamo da quest’ultimo aspetto. Un bravo insegnante è senza dubbio colui che riesce a esprimersi bandendo dal proprio discorso ogni forma di oscurità: dunque, l’insegnante il cui linguaggio, rifuggendo ogni forma più o meno acuta di “professorese”, risulta invece ispirato alla massima chiarezza. Qui occorre aprire una piccola parentesi, perché non è raro che la chiarezza finisca spesso per essere associata alla banalità. Al contrario, essere realmente chiari – luminosamente chiari, per utilizzare le parole di Baldini22 – è un

19 Ivi, p. 109. È proprio sui banchi di scuola, sostengono infatti Bourdieu e Passeron (La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale, Guaraldi, Rimini 1972, p. 173), che matura negli studenti una «rassegnazione statutaria alla comprensione approssimativa». 20 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 112. Cfr. C.R. ROGERS, Libertà nell’apprendimento, Giunti-Barbera, Firenze 1973. 21 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 112. 22 Ivi, p. 33.


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atteggiamento che con la banalità ha davvero poco a che fare. Ne deriva che quella cui deve ispirarsi il linguaggio del bravo insegnante è una chiarezza luminosa, ben diversa dalla chiarezza fittizia (ossia quella chiarezza «che non rischiara alcun pensiero dato che caratterizza messaggi costruiti solo di banalità e ovvietà») o dalla chiarezza compiacente (quella chiarezza «che sacrifica la complessità dei concetti e dei pensieri alla capacità di comprensione di coloro che ascoltano», una chiarezza «deproblematizzante, semplificatoria, banalizzatrice; una chiarezza, per così dire, paternalistica»). Una chiarezza luminosa è altresì quella che si affida a parole parlanti (ossia quelle parole che hanno qualcosa da dire e che riescono a dirlo) e non a parole parlate (ossia parole non pensate, parole vocianti, gargarismi linguistici),23 nonché quella chiarezza che tiene sempre nella giusta considerazione le competenze (linguistiche e cognitive) dell’ascoltatore.24 La prima regola da seguire se un insegnante vuole farsi capire consiste dunque nell’utilizzo di un linguaggio chiaro, ossia un linguaggio che eviti parole difficili (senza spiegarle), costruzioni sintattiche contorte oppure, più in generale, parole che si parlano addosso senza parlare a nessuno. A questa prima regola se ne aggiunge una seconda, che emerge chiaramente laddove si consideri che «la comprensione di un testo o di un discorso […] richiede sempre, oltre l’applicazione di particolari codici linguistici, anche un lavoro cognitivo più o meno laborioso. L’allievo deve, cioè, riuscire a ricostruire nel modo più corretto possibile le informazioni o i contenuti concettuali che si trovano nel testo».25 Va da sé dunque che l’insegnante che vuole farsi capire deve tener conto, da una parte, «delle conoscenze e delle competenze linguistiche dei suoi interlocutori»,26 dall’altra della loro capacità di comprensione dei concetti. Il che non significa, per esempio, che l’insegnante deve rinunciare a priori a utilizzare un linguaggio tecnico, soprattutto laddove la materia lo richieda, ma che utilizzi tale linguaggio sforzandosi di spiegare il significato dei termini che di volta in volta vengono usati.27

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La distinzione tra parole parlanti e parole parlate si deve a Maurice Merleau-Ponty (Segni, a cura di A. BONOMI, Il Saggiatore, Milano 1967). 24 Peter Altenberg (Favole della vita, Adelphi, Milano 1981, p. 159) sostiene che «si scrive perché un altro legga. Una scrittura poco chiara è qualcosa d’insensato». Parafrasando il suo pensiero, possiamo dire che si insegna perché un altro impari. Una lezione poco chiara è un qualcosa d’insensato. 25 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 111. 26 Ibidem. 27 L. LUMBELLI (Quando insegnare è capire e far capire, cit., pp. 36-37) dedica alcune riflessioni molto acute a questo tema, richiamando l’attenzione – in particolare – sull’utilità delle parafrasi.


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Questo sul versante del parlare/farsi capire. Altrettante best practices emergono ovviamente anche sul versante dell’ascoltare/capire. Esse si legano strettamente alla consapevolezza che ciascun insegnante dovrebbe avere del proprio ruolo: l’insegnante non è infatti soltanto un «conduttore di conversazioni», bensì un «facilitatore di comunicazione».28 Dunque, lo sforzo che gli si richiede è quello di cercare sempre di capire ciò che gli studenti cercano di dirgli, con le loro parole e/o con i loro silenzi. Per riuscire in questa impresa, è tuttavia necessario che l’ascolto con cui l’insegnante si pone nei confronti dello studente sia un ascolto fecondo, un ascolto che si alimenta di un silenzio parlante (ossia un silenzio finalizzato non al semplice sentire, bensì a un reale ascoltare) e non di un silenzio parlato (dunque un silenzio che si traduce in un non-ascolto).29 Parlare, ascoltare, capire e farsi capire: queste dunque sono le parole chiave attorno alle quali si sviluppa la relazione educativa tra studente e docente e tanto più è efficace il rapporto tra parlare e ascoltare, tra capire e farsi capire, tanto più la relazione educativa ne trae beneficio e risulta, essa stessa, efficace. E se è evidente che, per il fatto stesso di avere a che fare con una relazione, fondamentale è l’apporto che deve venire dagli studenti, la loro attiva collaborazione, è altrettanto evidente che un compito importante, fondamentale, è quello che spetta agli insegnanti, cui si chiede una piena consapevolezza del proprio ruolo sociale. Tale consapevolezza, e con questa considerazione concludiamo la nostra riflessione, deve necessariamente tradursi in un atteggiamento volto a «privilegiare una concezione problematizzante e non già depositaria dell’educazione, a concepire i giovani non come contenitori da riempire, ma come persone con le quali stabilire rapporti di reciprocità».30 Colui che riesce in questo compito è senza dubbio il “bravo insegnante”.

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M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 111. M. BALDINI, Elogio del silenzio e della parola, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 117-118. 30 M. BALDINI, Elogio dell’oscurità e della chiarezza, cit., p. 112. Qui Baldini cita una considerazione molto bella di Erich Fromm (Avere o essere?, Mondadori, Milano 1986, pp. 42-43), il quale afferma che, nei processi educativi, gli studenti «non acquisiscono semplicemente conoscenze, un bagaglio da portarsi a casa e mandare a mente»: ciò che essi ascoltano, ciò che essi imparano, infatti, «stimola gli autonomi processi di elaborazione mentale, provocando in loro il sorgere di nuove domande, di nuove idee, di nuove prospettive». «Il loro ascoltare – conclude Fromm – è un processo vitale». 29



Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 215-238

RICERCHE

LA SPIRITUALITE DU BIENHEUREUX NICOLAS ROLAND BERNARD PITAUD Professore incaricato emerito di Storia della spiritualità all’Institut Catholique di Parigi

La Spiritualité du bienheureux Nicolas Roland

N

ous prendrons ici le mot «spiritualité» dans le sens suivant: la manière dont une personne vit et exprime sa vie spirituelle à une époque et dans un contexte donnés; autrement dit, pour nous chrétiens, la manière particulière dont quelqu’un manifeste, dans son comportement et dans ses écrits, sa relation au Christ et au Dieu-Trinité dans son rapport à l’Église et à ses contemporains. Ce travail n’a jamais été entrepris pour Nicolas Roland de manière synthétique. Nous nous y engageons, avec tous les risques de l’interprétation. Nous tenterons d’abord de reprendre les grands traits du comportement de Nicolas Roland tel que ses contemporains l’ont décrit dans les lettres demandées par les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims autour de 1693 à ceux qui l’avaient connu et qui vivaient encore à cette époque; sans oublier la «compilation» intitulée: «Mémoires sur la vie et les vertus»; celle-ci contient parfois quelques traits qui ne figurent pas dans les «Témoignages des contemporains».1 Puis nous essaierons d’analyser ses écrits ainsi que ses «Avis donnés de vive voix», pris en note et retranscrits ensuite par les Sœurs, pour mieux comprendre comment il envisageait la vie spirituelle. Enfin, nous devrons, aussi délicate que soit l’entreprise, essayer de déterminer ses sources.

1

GSF: Guide spirituel et Fondateur, titre de la dernière édition des Ecrits de et sur Nicolas Roland, Lethielleux, 1999. TC, GSF, pp. 153-187; MV, GSF, pp. 191-255 (TC: Témoignages des Contemporains; MV: Mémoires sur la vie et les vertus). Nous donnerons à chaque fois la référence à cette édition et aussi celle du texte électronique: informatique et Bible, abbaye de Maredsous, 1999.


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RICERCHE

Bérnard Pitaud

1ère partie: Nicolas Roland, tel que l’ont perçu ses contemporains Nicolas Roland dans son époque Essayons d’abord de situer Nicolas Roland dans son époque. Nous pouvons partir d’une question simple: nous avons affaire à quelqu’un qui fut à la fois très aimé, très estimé, mais auquel ne manquèrent point les critiques, les difficultés voire les calomnies. Pourquoi cette agressivité à son égard? Il faut croire que cet homme ne laissait pas indifférent. Passés les premiers mois de son canonicat où il semble avoir sacrifié à la mode des sermons fleuris, les homélies du chanoine théologal de l’église cathédrale ne manquaient pas d’être provocantes en allant débusquer le péché là où on aurait préféré ne pas le voir. Il dut se faire ainsi sinon de solides ennemis, du moins des adversaires excédés par ses exigences. Certains le traitaient d’ «indiscret, d’extravagant, de fou dévot»; d’autres cependant témoignent qu’il savait persuader, en privé aussi bien qu’en public, par la douceur. Chez cet homme plein de fougue et de zèle qui meurt à 35 ans, la personnalité n’était peutêtre pas encore pleinement unifiée et elle pouvait présenter des contrastes. Mais la cause profonde de sa prédication dérangeante était son zèle apostolique: «il portait tout le monde aux pratiques de la vertu, chacun selon son état, cela avec des paroles de feu que l’on ne pouvait y résister», dit son ami, le Provincial des Carmes.2 Il y eut aussi la mise en route de son entreprise de fondation des «écoles gratuites» pour les filles, due à la fois à sa ténacité et à l’appui qu’il recevait alors de l’archevêque; celle-ci suscita probablement bien des jalousies autour de lui, en tout cas bien des résistances, au moins de la part du Conseil de Ville. Il fut certainement très rigoureux en matière de mœurs: «Il était ennemi de cette morale relâchée que l’esprit du siècle a introduite et qui veut allier les choses commodes à l’esprit de l’Évangile».3 Mais on ne peut pas l’accuser de rigorisme au sens d’une sévérité telle qu’elle aurait fait fuir ceux qui tentaient de l’approcher. Au contraire, sa grande bonté a été soulignée par beaucoup de ses proches, comme cet abbé Camuset qui craignait sa réputation d’austérité et fut surpris de trouver un homme accueillant qui lui prêta volontiers le luth qu’il était venu lui emprunter et resta avec lui dans une relation très fraternelle. A plus forte raison Nicolas Roland n’a-t-il jamais été rigoriste au sens où on opposait alors ce terme à celui de laxisme dans le grand débat sur la morale qui dura des décennies. Nous ne possédons aucun document qui le montrerait mêlé en quoi que ce soit aux querelles théologi-

2 3

GSF, p. 166; TC, 9T1. GSF, p. 223; MV, 2 T16.


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ques de son temps. Mais il est vrai que son austérité était célèbre; à partir de sa «conversion», il n’hésita pas à entreprendre des mortifications qui étonnent nos sensibilités modernes, bien qu’elles fussent assez courantes à l’époque. Il ne se ménageait guère, et la maladie qui le frappa à mort à l’âge de 35 ans, contractée auprès de sœurs malades qu’il soignait, ne trouva guère de résistance dans un organisme passablement affaibli. On peut légitimement penser qu’il appartenait de cœur à ce courant qui tendait alors à réguler la moralité publique par diverses mesures concernant les jours fériés, le carnaval, les fêtes. S’il n’avait rien représenté en ce domaine, pourquoi les libertins seraient-ils venus tirer des coups d’arquebuse sous ses fenêtres en signe de joie, dès que se répandit la nouvelle de sa mort? Le Provincial des Carmes témoigne de sa «liberté à dire la vérité à tout le monde, aux magistrats, aux ecclésiastiques, aux confesseurs, aux pères de famille, aux jeunes et aux vieillards; il a combattu tous les vices qui régnaient dans la ville, et est entré dans un détail qui lui a valu l’inimitié des libertins». Pour ce qui est du détail en question, nous resterons sur notre faim, mais l’affirmation générale nous suffit. D’aucuns le traiteront de janséniste, parce qu’il est devenu courant, selon un raccourci historique trop facile, d’assimiler jansénisme et austérité morale. Mais les grands courants spirituels qu’il a fréquentés à Paris étaient au contraire très opposés au premier jansénisme, celui de Saint-Cyran, de l’Augustinus et de Port-Royal, qui était d’abord un débat sur la liberté et la grâce. D’autre part, chez lui comme dans l’École Française de spiritualité, le comportement moral jaillit d’une communion mystique au Christ et à ses mystères. Dans le «Petit Traité des Vertus nécessaires aux Sœurs du SaintEnfant Jésus»,4 par exemple, il est soucieux d’enraciner plusieurs des vertus dont il parle dans l’un ou l’autre des mystères du Christ. De plus, tous ceux qui l’ont fréquenté disent qu’il s’agissait d’un homme bon et miséricordieux; les prêtres qui ont vécu quelque temps dans sa maison soulignent son accueil fraternel et simple, sa disponibilité et sa grande bonté. Il vaut mieux dire plus simplement que Nicolas Roland se situe dans la ligne de ce courant réformateur de l’Église catholique qui faisait son chemin depuis le début du XVII° siècle, courant créateur de communautés sacerdotales dont l’objectif était de vivre l’Évangile dans le partage fraternel (c’est une de ces communautés que Nicolas Roland a voulu constituer dans sa maison, sans rien fonder en ce domaine, car la communauté était ouverte et avait surtout pour but la formation de ceux qui y résidaient temporairement); courant qui a suscité de multiples initiatives en faveur des pauvres et

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GSF, pp. 133-144; TV, 0T.


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entre autres de l’instruction des enfants pauvres; courant profondément apostolique qui prêchait aux chrétiens la conversion, laquelle devait commencer par la conversion des prédicateurs eux-mêmes. Il s’agissait en effet de «réformer le christianisme» comme le disaient les tenants de ce qu’on appela beaucoup plus tard «l’École Française de Spiritualité»,5 de lui redonner sa vigueur, en particulier face au protestantisme, considéré alors comme la grande plaie ouverte aux flancs du Royaume de France. Mêlées à des conceptions politico-religieuses aujourd’hui depuis longtemps dépassées, ce mouvement de grande ampleur véhiculait de magnifiques ouvertures spirituelles et une mystique qui s’éteignit malheureusement à partir de la fin du siècle. Il serait par ailleurs très imprudent de croire que Nicolas Roland partageait le gallicanisme farouche qui habitait prêtres et chanoines rémois depuis fort longtemps et qui aboutit au deuxième jansénisme, celui de l’opposition à la Bulle Unigenitus qui toucha une bonne partie du clergé de Reims au début du XVIII siècle. Cette forte tendance gallicane, depuis longtemps présente dans le diocèse, mit le clergé de Reims en conflit avec le cardinal Barberini, prélat romain, archevêque de 1657 à 1671, en phase au contraire avec Mgr Le Tellier, frère de Louvois, qui lui succéda, et de nouveau en conflit avec Mgr de Mailly, anti-janséniste convaincu. Or on ne voit jamais Nicolas Roland mêlé aux procès multiples qui agitent le chapitre cathédral dans sa relation avec le cardinal Barberini. On le remarque au contraire participant avec le zèle fougueux qui était le sien à la procession organisée par l’archevêque pour demander à Dieu la cessation de l’épidémie de peste en 1668.6 Mais on le voit également traiter de manière humble et confiante avec Mgr Le Tellier pour l’établissement de sa communauté et de ses écoles gratuites, revenir sans se plaindre de plusieurs mois de vaine attente à Paris où l’archevêque l’a tenu à distance, voire ignoré. Manifestement, Nicolas Roland poursuivait son œuvre avec persévérance dans l’obéissance à ses évêques successifs, et n’entrait pas dans d’autres débats. Un autre élément peut intéresser particulièrement les historiens: la rupture que Nicolas Roland opère avec son milieu. Il n’est pas plus tôt chanoine qu’il quitte la maison familiale et loue rue du Barbâtre une maison dans laquelle il va résider le reste de sa vie. Souci d’indépendance? Pas seule-

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Beaucoup d’autres prêtres et laïcs partageaient cet élan réformateur sans appartenir spécifiquement à cette École dont nous verrons plus loin la marque qu’elle a laissée chez Nicolas Roland. 6 On peut consulter sur ce point l’article de B. Pitaud dans «Rivista Lasalliana», gugl.-sett. 2011, Anno 78, t. 3, pp. 465-484: «Nicolas Roland et la Peste à Reims en 1668».


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ment! Il vient vivre dans un quartier plus pauvre que celui de l’hôtel particulier de ses parents. Certes, il ne se coupe pas de sa famille avec laquelle il restera toujours en bons termes, même si sa sœur se plaindra plus tard de ses exhortations qu’elle jugeait alors excessives. Mais il estime sans doute que s’il ne s’éloigne pas, il n’aura pas toute la liberté nécessaire pour se tourner vers les enfants pauvres, il ne pourra pas accueillir des prêtres et faire de sa maison une sorte de séminaire comme il en a le désir. Or tout laisse à penser qu’il veut rééditer, à sa mesure, les communautés auxquelles il a appartenu quand il était à Paris, particulièrement celle du Père Bagot; il veut mettre en œuvre ce qu’il a découvert en fréquentant le séminaire Saint-Sulpice, la communauté de Saint Lazare, celle de Saint Nicolas du Chardonnet, à laquelle appartenait son oncle Matthieu Beuvelet. Comment le pourrait-il sans devenir indépendant de sa famille? Quant à son argent, il ne l’utilisera pas pour lui, mais pour les pauvres, pour l’établissement des écoles gratuites et pour les orphelins. Quand il mourra, il ne lui restera plus grand chose. Tel ou tel des prêtres qui ont vécu avec lui a souligné son indifférence à son statut social. A une époque où le respect des convenances constitue une des bases de la vie sociale, il n’hésite pas à faire marcher à côté de lui (et non derrière comme cela convenait) un autre prêtre beaucoup moins élevé en dignité et qui s’en étonne. Cela nous fait sourire, comme nos successeurs souriront plus tard d’un certain nombre de nos pratiques.7 En tout cas, l’Évangile met Nicolas Roland sur un pied d’égalité avec ceux que, socialement, il aurait pu considérer comme ses inférieurs. Il a accepté d’être chanoine: cela lui donne un statut, une autorité morale, une certaine indépendance financière aussi (même si ce qu’il dépense pour ses œuvres vient surtout de sa fortune familiale). Mais le canonicat est pour lui un cadre trop étroit d’où il s’échappe en permanence, pour des missions et des prédications dont il prend l’initiative ou pour lesquelles il est demandé, pour former les prêtres qu’il accueille chez lui, pour fonder sa communauté et les écoles gratuites. Telle est la source du conflit qui l’opposera à la fin de sa vie au chapitre cathédral, celui-ci lui reprochant avec véhémence de ne pas remplir sa tâche comme il convenait, et de ne pas assurer avec assez de rigueur le devoir de présence et de prédication auquel il était tenu, ce dont il se défendra avec précision. En fait, Nicolas Roland déborde d’un zèle apostolique dans lequel il va épuiser sa vie. Car il mourra de ses fatigues. Certes, il vivait de manière austère, comme nous l’avons dit; il mangeait peu et mal; il portait un cilice, il se donnait la discipline, tout en essayant de le cacher. Mais Nicolas Roland est

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GSF, p. 157; TC, 3T2.


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d’abord donné sans réserve à une tâche multiforme dont les trois activités essentielles sont la prédication (à la cathédrale dans le cadre de son canonicat, et plus largement au cours des missions qu’il organise ou auxquelles il participe), la formation des prêtres qui vivent chez lui selon une durée variable et surtout l’établissement des écoles gratuites et la formation des Sœurs. Seules la prière, les retraites (et le sommeil, mais qui devait être si bref) le soustraient momentanément à une activité sans trêve. Déjà, revenant épuisé de son premier voyage à Rouen où, nouveau saint Alexis, il n’a trouvé place que sous l’escalier de la maison de M. de la Haye, curé de Saint-Amand dont il voulait bénéficier de l’expérience, les médecins lui intiment l’ordre d’un repos complet où il lui est même interdit de célébrer la messe. Pour l’obliger à se tenir à ces prescriptions, on lui adjoint son ami, Guillaume Rogier, qui reste avec lui pour le surveiller. Mais il échappe à la surveillance et se relève à 3h du matin pour célébrer. On peut penser qu’il ne s’est pas amélioré par la suite.8 On a le droit de trouver ce comportement excessif, mais on n’a pas le droit d’en faire reproche à Nicolas Roland. Nous avons affaire à un homme qui a été entièrement saisi par le Christ et qui ne garde rien pour lui. Tels sont les saints, si par ailleurs leur don total ne se transforme pas en dureté pour les autres, ce qui, en effet, n’était pas son cas. Il a une œuvre à accomplir, et il s’y donne sans retour, persuadé qu’il est d’accomplir l’œuvre de Dieu malgré les obstacles qu’il rencontre sur sa route. Pour le comprendre et en comprendre beaucoup d’autres, il faut se souvenir qu’au XVII° siècle, la menace de la mort prochaine est toujours présente. Pour ceux qui ont choisi de se donner, à quoi bon se ménager? Demain, l’épidémie les emportera peut-être, ou une fièvre maligne dont les médecins ne connaissaient pas le secret. Il est évident que certains précipitaient leur mort, mais quelle importance, alors que, de toute façon, elle était si proche! Quant aux austérités, aux macérations, aux cilices et autres instruments de mortification, ils étaient là pour rappeler que nous sommes des enfants de la Croix et que tout ce qui est entrepris sans la Croix n’a aucune chance d’avoir une vraie efficacité spirituelle. Dire que cela n’entraînait pas parfois certaines déviances serait naïf. Pour ce qui concerne Nicolas Roland, il est clair qu’il n’insistait pas d’abord sur la souffrance mais sur l’amour et le don de soi. Il était sévère; mais il ordonnait aussi qu’on prenne soin des malades, et qu’on leur donne quelque douceur. Comme tous les bons directeurs spirituels, il demandait de ne pas s’engager dans de nouvelles mortifications sans son accord. N’oublions pas non plus qu’il avait un tempérament fou-

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GSF, p. 171; TC, 11T3.


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gueux et qu’il est mort jeune et que la jeunesse, quand elle est généreuse, est souvent excessive. Cela ne l’empêchait d’ailleurs nullement d’être sage, méthodique, prudent et réservé. C’est quand il s’agissait de lui qu’il ne se réservait rien. Un portrait spirituel plus affiné Si nous voulons maintenant comprendre dans le détail les diverses manières dont se traduisait pour lui cet engagement sans réserve, nous remarquons chez ceux qui l’ont connu une insistance particulière sur plusieurs points: l’humilité tout d’abord. Elle se traduisait surtout chez lui par sa capacité à se laisser injustement accuser sans se défendre; la vérité se faisait d’elle-même. Accusé dans les premières années de son canonicat d’avoir dérobé un calice dont il s’était servi pour célébrer la messe, le jeune chanoine ne dit rien et le calice finit par reparaître un jour, ramené par un prêtre distrait qui l’avait placé dans une armoire en omettant de le restituer.9 Or nous savons que Nicolas Roland avait un tempérament très vif et passionné; le rouge lui montait parfois aux joues. Il lui fallait donc une grande maîtrise de lui-même pour ne pas réagir ni se défendre avec vigueur. M. Regnault, prêtre du diocèse de Reims, qui avait été son compagnon dans ses études de philosophie, témoigne qu’un jour Nicolas Roland se mit à genoux devant lui pour lui demander pardon de lui avoir causé de la peine en lui faisant une remarque, alors que ses reproches étaient parfaitement justifiés.10 D’autres témoignages concordent pour dire que les calomnies ne lui manquèrent pas, y compris celles qui mettaient en cause son honnêteté morale et sa chasteté. Sur un autre plan, même s’il était un homme déterminé, il savait s’entourer des avis de ceux en qui il avait confiance: Guillaume Rogier, son ami, rappelle qu’il avait l’habitude de demander conseil sur ce qu’il voulait entreprendre «à ceux qu’il croyait avoir l’esprit de Dieu...les priant de lui dire leur sentiment et même de le contrarier, et je l’ai vu dans de certaines circonstances, dit ce témoin, changer sur le champ de sentiment, lors même que je lui ai dit que ce qu’il voulait faire n’était point de mon goût».11 Nous avons déjà évoqué la pauvreté et le détachement dont il faisait preuve: sa bibliothèque était à la disposition de ceux qui passaient dans sa maison; il ne réclamait pas ce qu’il avait prêté; il vivait très simplement aussi bien sur le plan de la nourriture que sur celui du logement. Surtout il

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GSF, p. 226; MV, 2T2,3. GSF, p. 154; TC, 1T2. 11 GSF, pp. 171-172; TC, 11T4. 10


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engloutit toute sa fortune dans son œuvre des écoles gratuites, aussi bien dans l’achat de la maison de Landèves que dans la «fondation» elle-même; car sur ce point, il ne suivait pas le Père Barré; il voulait «fonder»12 pour garantir la pérennité des écoles gratuites. Mais surtout, les témoins soulignent fortement le zèle apostolique dont nous venons également de décrire plusieurs manifestations. Ils utilisent facilement l’image du feu; M. Barthélemy, prêtre de Reims, qui a vécu six semaines dans la maison de Nicolas Roland déclare: «Combien de larmes ai-je eu le bonheur de voir couler de ses yeux lorsqu’il me parlait de Dieu, et combien de paroles ai-je entendues de sa bouche qui étaient comme des étincelles de ce grand feu dont il brûlait au-dedans de lui-même».13 Et plus loin, le même parle du «brasier qu’il portait dans son cœur». Le Provincial des Carmes, un de ses amis, évoque, dans un passage déjà cité, la manière dont «il portait tout le monde à la pratique de la vertu, chacun selon son état, cela avec des paroles de feu (telles) que l’on ne pouvait y résister».14 Et M. Noiron, un autre de ses disciples dit que les principes qu’il lui a donnés demeurent en lui «comme des caractères de feu qui ne s’effaceront jamais»,15 et il cite la parole des disciples qui explique le geste de Jésus quand il chasse les vendeurs du temple: «le zèle de votre maison me brûle».16 Ce feu est bien sûr le feu de l’Esprit apostolique, le feu de l’Esprit de Pentecôte. En laissant ainsi l’Esprit-Saint brûler sa vie, Nicolas Roland cherche à la fois à procurer à Dieu sa gloire, et à ceux auxquels il annonce l’Évangile, le salut. Ces deux objectifs, indissociablement liés dans son esprit, excluaient tout intérêt personnel et toute recherche de lui-même, de même qu’ils l’entraînaient sur le chemin d’une pauvreté extrême, comme nous l’avons déjà montré. Avec le zèle apostolique, ses contemporains ont été sensibles à sa charité; celle-ci s’exprimait dans la bonté et la douceur dont il faisait preuve envers tous; envers les prêtres qu’il accueillait dans sa maison et qu’il formait à la vie spirituelle; envers la Communauté des Sœurs auxquelles il prodiguait beaucoup d’attention et qu’il n’hésitait pas à aider dans les circonstances difficiles, en cas d’épidémie par exemple; bonté envers les pauvres qu’il secourait sans égard à ses ressources; bonté envers les petits orphelins et les petites filles pour lesquelles il créa les écoles gratuites; bonté et douceur envers

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Au sens d’assurer par l’établissement d’un fonds la pérennité de son œuvre. GSF, p. 157; TC, 3T2. 14 GSF, p. 166; TC, 9T1. 15 GSF, p. 177; TC, 13T2 16 Jn 2, 17; parole elle-même reprise du Ps 69, 10 et où M. Noiron préfère la traduction: «brûle» pour le mot latin: «comedit», habituellement traduit par «dévore». 13


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ceux et celles qui étaient à son service, comme en témoigne sa fidèle domestique qui lui fut reconnaissante toute sa vie d’avoir fait venir discrètement et moyennant une forte somme d’argent, un chirurgien qui, pense-t-elle, la guérit d’une «furieuse peste». L’abbé Camuset, prêtre de Reims qui avoue lui-même avoir donné dans le libertinage, témoigne de manière émouvante de la manière dont Nicolas Roland le reçut chez lui à plusieurs reprises et l’attira peu à peu, avec beaucoup de patience, vers la recherche de la perfection.17 Et M. Barthélemy relève que son hôte répondait avec une grande disponibilité à ses multiples demandes d’entretien avec lui.18 Mais les témoins de sa brève existence ont aussi remarqué son goût pour la prière et la solitude. Le même M. Barthélemy le présente comme un «amoureux de la solitude»,19 au point qu’il avait pris la résolution de s’y retirer quand il aurait 50 ans. M. Guiard, promoteur du diocèse de Laon, déclare qu’il aurait voulu s’établir dans l’ermitage de Caen où était mort M. de Bernières.20 Il aurait au moins voulu, dit le Provincial des Carmes, un de ses amis, passer six mois dans la solitude pour se préparer à la mort.21 Mais celle-ci devança ses désirs. «Chaque année il allait en retraite au refuge des révérends Pères Chartreux, y faisait les exercices qu’on appelle de dix jours...»,22 fait remarquer son directeur spirituel, le Père Valentin, supérieur de la Communauté des Minimes. Celui-ci ne voit aucune opposition entre cette recherche de sa perfection et son zèle apostolique, au contraire: «Il sortait de la solitude toujours plus plein de Dieu, se donnant toujours plus aux pécheurs, aux ignorants, aux justes, à tout ce que la Providence lui envoyait, car son zèle embrassait toutes choses...».23 Quant à l’Eucharistie et à l’oraison, ce que disent les «Mémoires sur la vie et les vertus» est sans appel; il suffira de citer ce passage: «Son amour se remarquait encore bien plus par les effets que par les paroles. Il apportait une grande fidélité au service de Dieu, et il ne passait aucun jour sans célébrer le Saint Sacrifice de la messe, quoiqu’il fût souvent incommodé; il ne manquait jamais à faire son oraison, telle affaire qu’il eût eue pendant la journée; quand il aurait été minuit, il ne se couchait pas sans l’avoir faite avec la plus grande ferveur, quoique Dieu ait toujours éprouvé son amour par de grandes sécheresses et aridités qui lui ont duré jusqu’à la mort».24 17

GSF, pp. 154-156; TC, 2T1, 2T2. GSF, pp. 156-158; TC, 3T1-3T3. 19 GSF, p. 157; TC, 3T2. 20 GSF, p. 162; TC 7T2. 21 GSF, p. 168; TC, 9T3. 22 GSF, p. 175; TC, 12T6. 23 Idem. 24 GSF, p. 222; MV 2, T14. 18


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2éme Partie: La Spiritualité de Nicolas Roland à travers ses écrits La spiritualité de Nicolas Roland se présente dans ses écrits25 sous la forme d’un enseignement. Nous ne ferons pas ici de distinction entre ceux qu’il a rédigés lui-même, comme le «Petit Traité des vertus», ceux qui résultent de notes prises par les sœurs quand il parlait, comme les «Avis donnés de vive voix», ou ceux qui ont été réaménagés dans leur disposition, voire dans leur rédaction, par un autre que lui, comme les «Avis aux Personnes régulières». Après examen, les quelques infléchissements qui pourraient s’y trouver et qui sont très difficiles à déceler et à apprécier ne trahissent pas notablement la pensée du fondateur des Sœurs de l’Enfant-Jésus, et peuvent légitimement être laissés de côté dans une synthèse générale. Mais avant même de nous lancer dans cette tentative, il faut souligner deux points qui sont loin d’être marginaux; ils touchent en effet au cœur même de la spiritualité de Nicolas Roland. Le premier est son rapport à l’Écriture sainte, le second est l’enracinement dans le mystère du Christ de son enseignement moral. Son rapport à l’Écriture sainte Nicolas Roland fréquentait l’Écriture avec assiduité. Elle constituait sa nourriture quotidienne. On peut le déduire de la facilité avec laquelle elle affleure sous sa plume. Si l’on compare ses écrits à une pièce de tissu, l’Écriture en est évidemment la trame. Les citations ne se présentent pas nécessairement sous la forme de textes explicites référencés par lui. La plupart du temps, il cite de mémoire, et il faut souvent y prêter une certaine attention pour les découvrir. Elles sont cachées dans la phrase elle-même dans laquelle elles se glissent comme naturellement. Nicolas Roland ne cherche pas à agrémenter ses propos par quelques citations d’Écriture bien choisies et adaptées. L’Écriture est plutôt son langage naturel. Elle advient spontanément à sa pensée. A tel point que le lecteur non averti peut facilement se laisser surprendre. Il arrive bien sûr que Nicolas Roland nous mette sur la voie par un: «souvenez-vous de ces paroles», ou bien «Dieu vous dit ce qui est dans l’Écriture»; ou encore: «dit le Saint-Esprit», ou bien: «suivant les paroles de Jésus-Christ qui nous dit...»; mais dans bien des cas, la citation est complètement intégrée au discours, et rien ne permet de la déceler sinon le flair du lecteur qui, tel un chien de chasse, a décidé de se lancer sur la trace des citations implicites.

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Les écrits de Nicolas Roland se présentent sous la forme de divers genres littéraires: «Lettres de direction», «Avis aux personnes régulières», «Avis donnés de vive voix», «Avis et maximes», «Petit Traité des vertus les plus nécessaires aux Soeurs», «Première Conférence».


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Ce n’est pas moins de 115 à 120 citations explicites et surtout implicites que nous pouvons déceler dans un corpus somme toute assez limité. Il s’agit d’un chiffre approximatif; étant donné la liberté avec laquelle il cite l’Écriture, il peut quelquefois se référer à plusieurs textes dans la même phrase. Sur ce chiffre global, une trentaine seulement sont des références à l’Ancien Testament, surtout Prophètes, Psaumes et livres de Sagesse. Il reste donc 85 ou 90 citations du Nouveau Testament, dont la moitié appartiennent au corpus paulinien, les autres étant essentiellement tirées des évangiles de Matthieu et de Luc. Cette familiarité avec l’Écriture sainte entraîne des conséquences pour un enseignement qui est en totalité un enseignement moral qui porte sur les vertus. Nicolas Roland ne fait pas œuvre de théologien moraliste. Il cherche simplement à entraîner les sœurs ou les personnes qu’il dirige sur le chemin de la vertu en les attirant par la saveur des textes scripturaires du Nouveau ou de l’Ancien Testament. Ce n’est pas son enseignement qu’il donne, c’est celui de l’Écriture qu’il a lui-même méditée, dont il est imprégné, dans lequel il se promène avec liberté comme dans son jardin et qui inspire sans cesse son propre comportement. Tout en intégrant ses propos dans la tradition classique de l’enseignement des vertus qu’il a reçue des Pères et des grands théologiens du Moyen-Age au cours de ses études, il ne cherche ni à la répéter servilement ni à la développer. Ce qu’il propose, c’est une manière de vivre fondée sur l’Écriture qui donne à ses écrits, pourtant constitués de paragraphes très brefs, un véritable souffle biblique. L’enracinement dans le mystère du Christ L’enracinement scripturaire des textes de Nicolas Roland le conduit à prêter une attention particulière aux mystères du Christ tels qu’ils sont exprimés dans le Nouveau Testament. Tout ce que l’homme est appelé à vivre dans l’Esprit-Saint est fondé sur le Christ lui-même. C’est lui qui réalise à la perfection les vertus chrétiennes qu’il invite l’homme à pratiquer: «comme votre Époux est le plus chaste, et le plus pur de tous les époux, il veut aussi que vous soyez soigneuse d’être pure et chaste», dit-il dans les «Avis aux personnes régulières».26 Et aussi: «vous devez porter la mortification de Jésus-Christ en votre corps et en votre esprit».27 Parfois, il se situe plus du côté de l’imitation du Christ et parfois davantage du côté de la communion au Christ qui continue en nous de vivre ses mystères. Nous reviendrons sur cette différence quand nous parlerons des sources de la pensée

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GSF, p. 97; AM, 1; T13. GSF, p. 97; AM, 1; T12.


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spirituelle de Nicolas Roland. Jésus est parfois le modèle; ainsi, à propos de la douceur et de la débonnaireté:28 «Honorez, estimez et apprenez de moi que je suis doux et humble de cœur et vous trouverez le repos de vos âmes».29 Mais en d’autres occasions, Jésus est celui qui, par son Esprit, inspire nos pensées et nos actes, de telle manière que c’est lui qui vit en nous ses mystères. Ainsi, toujours dans les «Avis aux personnes régulières», à propos de la simplicité: «C’est une vertu divine, puisque c’est Dieu qui la donne, et que c’est une émanation de l’esprit de son Fils, lequel n’a dans toute sa vie eu qu’un seul but qui était la gloire de son Père».30 Ce qu’il dit de l’humilité dans le «Petit Traité des vertus» résume en quelque sorte ces deux accents: «C’est un des fruits de l’Incarnation du Fils de Dieu et une des vertus qu’il nous a le plus enseignées de paroles et d’exemples».31 Nicolas Roland établit donc un lien étroit entre le comportement du chrétien et le comportement du Christ lui-même, que celui-ci soit vu comme un exemple ou plutôt comme l’acteur premier et intérieur des actes du chrétien aujourd’hui. L’esprit apostolique Le prêtre, resté inconnu, qui a transcrit pour les Sœurs de l’Enfant-Jésus les «Avis aux personnes régulières», en avouant qu’il avait pu parfois procéder à une «augmentation» qui ne corrompt pas, assure-t-il, la pensée du fondateur, déclare dans son adresse «Aux Filles de la Communauté du SaintEnfant-Jésus»: «C’est ce qui m’a fait dresser ce petit écrit,32 tant pour votre consolation que pour vous faire ressouvenir des premiers principes, et du premier esprit de votre institut, animé que je suis pour vous exhorter à ne rien changer ni altérer de ce que Dieu a inspiré à son serviteur en votre faveur, et pour conserver en vous cet esprit apostolique qu’il vous a inspiré par ses avis, et dont toutes les paroles étaient autant de sentences».33 Pour ce familier de Nicolas Roland, il est donc évident que c’était l’esprit apostolique qui constituait l’essentiel de l’héritage du fondateur. L’esprit apostoli-

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Le mot débonnaireté signifie bonté avec la nuance de la douceur; il n’avait pas, à l’époque le sens péjoratif dont il est affecté aujourd’hui à travers l’adjectif «débonnaire», puisque le substantif n’est plus employé. 29 GSF, p. 101; AM, 1; T18. 30 GSF, p. 100; AM, 1; T17,1. 31 GSF, p. 137; TV; 0T5,1. 32 C’est-à-dire le souci de garder le souvenir des échanges qu’il avait avec Nicolas Roland au sujet du nouvel Institut. 33 GSF, pp. 90-91; AM, 1; T0,3.


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que, c’est l’esprit des apôtres qui leur a été transmis par Jésus-Christ luimême, et qui se répand au long de l’histoire de l’Église chez tous les hommes et femmes apostoliques et dont Nicolas Roland se fait le témoin auprès des Sœurs de l’Enfant-Jésus. Et en effet, pour beaucoup de vertus et d’attitudes qu’il recommande, il fait appel à une motivation apostolique; par exemple, à propos de la douceur: «vous êtes tant plus obligée à acquérir cette vertu de douceur et débonneraireté que vous êtes engagées par vocation de gagner le prochain au service de Dieu»;34 ou encore à propos de la modestie: «Et comme vous devez vous sanctifier et édifier toutes les personnes que vous conversez».35 L’esprit apostolique, c’est donc ce qui donne à toute action bonne sa finalité ultime. C’est aussi ce qui donne sens à la vie des Sœurs de l’Enfant-Jésus; elles doivent ne pas s’ «épargner pour instruire ce cher prochain avec un esprit d’amour animé de celui de Jésus-Christ pour qu’il soit connu et aimé, que son Règne soit établi et celui de Satan renversé».36 Nicolas Roland y revient souvent: «N’oubliez jamais dans les fatigues de votre emploi, que vous êtes appelées à mener une vie apostolique et qu’il faut en prendre l’esprit pour vous acquitter dignement des obligations».37 Ou encore: «Munissez-vous souvent de l’esprit apostolique pour porter utilement la Parole de Dieu dans les âmes».38 L’organisme des vertus Tout au long des recommandations qu’il adresse à ses dirigés et des exposés spirituels plus construits qu’il donne à la Communauté des Sœurs de l’Enfant-Jésus, Nicolas Roland aborde l’ensemble de l’organisme des vertus. Il le fait en s’appuyant sur la tradition la plus classique, selon laquelle il y a deux vertus majeures: l’humilité et la charité, la première étant considérée comme le fondement solide de toutes les vertus, la base sans laquelle tout le reste est vicié («considérez la chère vertu de l’humilité comme le fondement de toutes les vertus, et sans laquelle on ne peut avoir une solide piété, le reste n’étant qu’hypocrisie»),39 la seconde étant appréciée comme le couronnement de tout l’organisme, la reine des vertus. Nicolas Roland présente l’humilité comme une vertu qui prend sa source dans le mystère de Jésus-Christ et particulièrement dans le mystère de l’In-

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GSF, p. 101; AM, 1; T18. A l’époque, converser était transitif; on dirait aujourd’hui: avec qui vous conversez. GSF, p. 98; AM, 1; T14. 36 GSF, p. 128; AM, 4; T2,11. 37 GSF, p. 116, 32; AM, 3; T4. 38 GSF, p. 127; AM, 4; T2,10. 39 GSF, p. 99; AM, 1; T16. 35


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carnation: «Demandez souvent à Jésus-Christ qu’il vous fasse part de son humilité et de sa douceur».40 C’est donc l’humilité de Jésus-Christ qui nous habite et qui se manifeste en nous. Au point que Jésus-Christ nous entraîne dans ses plus grandes humiliations: «Suivez pas à pas Jésus-Christ en esprit, dans les occasions où il s’est le plus humilié pour l’amour de vous».41 Nous avons déjà cité ce passage du «Traité des vertus» où il présente l’humilité comme «un des fruits de l’Incarnation du Fils de Dieu et une des vertus qu’il nous a le plus enseignées de paroles et d’exemples».42 De même, dans le petit texte des «Douze soutiens de la Communauté», il déclare que l’esprit de la Communauté consiste «dans une sincère et très profonde humilité par conformité à Jésus-Christ».43 Tout naturellement, il fait le lien avec le mystère de l’enfance du Sauveur auquel la Communauté est consacrée. Dans une lettre de direction, après avoir invité sa dirigée à entrer «dans les dispositions de silence, d’oraison, de présence de Dieu, d’humilité dans lesquelles a été la sainte Vierge en ces saints jours (il s’agit probablement ici du temps de l’Avent), afin de recevoir dans votre cœur son divin Fils»,44 il poursuit: «Unissez-vous aussi aux dispositions du Saint Enfant».45 Même s’il n’oublie pas les autres mystères, le mystère de l’Incarnation est, avec celui de la Croix, pour Nicolas Roland, un mystère fondamental: «il avait un amour très ardent pour la personne adorable de Jésus-Christ en tous ses mystères et états de sa vie mortelle, principalement de son enfance et de sa mort...».46 Or conformément à toute la tradition reprise au XVII siècle par Bérulle et ses disciples dans la fidélité à saint Paul, il voit l’Incarnation comme un mystère d’abaissement. Et l’abaissement de l’Incarnation s’exprime bien dans le mystère de l’enfance du Christ, où la Parole se fait silence, où la puissance devient faiblesse et «est comme transformée en amour», selon l’expression bérullienne. En servant les enfants pauvres, c’est Jésus-Enfant que lui-même et les Sœurs servaient: dans la maison, «il voulait aussi que les petits orphelins y fussent bien élevés, d’autant, disait-il, que c’est l’origine de la maison et qu’ils nous représentent Jésus-Christ en l’état de son enfance, et c’est à cette fin qu’il a donné pour titre à cette maison, la Communauté du saint-Enfant Jésus».47 C’est bien

40

Idem. Idem. 42 GSF, p. 137; TV, 0T5,1. 43 GSF, p. 149; PC, 2T. 44 GSF, p. 49; LD, 1T1. 45 Idem. 46 GFS, p. 222; MV, 2, 1T,5. 47 GSF, p. 208; MV, 1, T8,5. 41


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ce que souligne le texte des Constitutions de 1683, à propos de la dévotion à l’Enfant-Jésus qui anime la Communauté: les Sœurs doivent s’adresser à lui «particulièrement pour se bien acquitter de leurs emplois dans les écoles, et envers les petits orphelins, qui le leur représentent incessamment dans l’état de son enfance».48 Ainsi la vertu d’humilité, de même que toute forme d’abnégation et de dénuement, est fondée sur le mystère du Verbe incarné et devenu enfant. Le comportement moral acquiert donc chez Nicolas Roland une dimension de communion au Christ en ses mystères, comme nous l’avons déjà remarqué. Pour vivre ainsi de l’humilité du Christ dans son mystère d’abaissement, nous devons entrer dans une connaissance de nous-mêmes qui nous persuade de notre néant, néant de notre péché bien sûr mais aussi néant de notre qualité de créature qui doit tout à Dieu. La pratique de l’humilité suppose donc que nous soyons situés de manière juste dans notre relation à Dieu. Nicolas Roland fait preuve de beaucoup de finesse psychologique dans ses analyses; il pointe les risques de vouloir briller ou de se rechercher soi-même qui peut se glisser dans toute action apostolique. Mais il s’élève aussi contre la fausse humilité; qui dit en effet humilité ne dit pas écrasement ni mépris de soi; et d’autre part la fausse humilité peut receler une «superbe cachée»,49 un orgueil subtil et dangereux. Une originalité chez Nicolas Roland: l’humilité n’est pas seulement une vertu personnelle. Elle concerne la Congrégation tout entière: «l’humilité des Sœurs ne se terminera pas à aimer et pratiquer l’humilité chacune en son particulier, il faut qu’elles soient encore disposées à l’aimer et pratiquer pour le corps de la Communauté en souffrant volontiers que toutes les autres communautés lui soient préférées; qu’elles soient quelquefois méprisées, qu’elles passent pour viles et abjectes aux yeux des hommes».50 Il va de soi, mais ici Nicolas Roland n’a rien de particulièrement original, que l’humilité est favorisée par tout ce qui est désappropriation et oubli de soi-même, renoncement et même toutes les pratiques ascétiques qui conduisent à se tourner vers Dieu en écartant tout ce qui peut faire obstacle à l’union avec lui. C’est pourquoi les mots: dénuement, abnégation, mortification, pénitence sont familiers à Nicolas Roland et font l’objet de développements spécifiques dans les différents traités et recueils de maximes. Il faut cependant remarquer, comme nous l’avons déjà suggéré, que ce ne sont pas les exercices d’ascèse qui comptent pour lui, même s’il est fort exigeant en ce domaine. Ce qui est essentiel c’est de se disposer à vivre la charité.

48

GFS, p. 265; C, 0 T2,7. GSF, p. 118; AM, 3, T6. 50 GSF, p. 139; TV, 0T5,3. 49


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Mais vivre la charité, c’est d’abord accueillir la charité que Dieu a pour nous. L’expression «pour l’amour de vous», quand il parle de l’œuvre de Dieu, revient avec insistance; il parle de «l’enfant Jésus qui a manqué de tout pour l’amour de vous».51 Nicolas Roland suggère à l’une de ses dirigées d’ «aimer ce Dieu d’amour qui vient solliciter notre cœur par l’humilité de sa crèche, par la tendresse de son enfance, par ses larmes et par ses cris enfantins».52 Si le mystère de l’Enfance est une preuve de l’amour de Jésus à notre égard; le mystère de la Croix ne l’est pas moins: «représentez-vous souvent que Jésus-Christ, pour l’amour de vous, s’est rendu obéissant jusqu’à la mort, et la mort de la croix».53 Ou encore: «Ne vous épargnez pas pour le salut des âmes, elles ne vous coûteront jamais autant qu’elles ont coûté à Jésus-Christ; et si vous ne pouvez donner de sang, donnez vos sueurs en témoignage de l’amour que vous avez pour ce divin sauveur qui a tout supporté pour vous».54 Ainsi faut-il puiser en Jésus lui-même l’amour qui nous habite; à une religieuse, il conseille de «puiser de l’amour de son cœur pour en remplir le vôtre».55 Dans les «Avis et Maximes», il parle de notre amour qui est animé de l’amour de Jésus, et il conseille aux Sœurs de «ne point vous épargner pour instruire ce cher prochain avec un esprit d’amour animé de celui de Jésus-Christ pour qu’il soit connu, que son règne soit établi et celui de Satan renversé».56 Rejoignant tous les grands maîtres de l’histoire de la spiritualité, il désigne l’amour comme la perfection de l’existence chrétienne. Mais c’est toujours l’amour de Dieu qui reste premier; un amour qu’il veut pur, c’est-àdire désintéressé, sans mélange de motifs humains: «Adieu, et n’allons qu’à l’amour et à la pureté de l’amour»,57 dit-il à l’un de ses dirigés; et à une autre: « regardez Dieu seul en toutes choses et toutes choses en Dieu».58 A l’amour infiniment pur et désintéressé de Dieu doit répondre notre amour, toujours à la recherche de plus de pureté, de désintéressement, de chasteté. Et cet amour envers Dieu rejaillit sur ceux qui nous entourent; sur les Sœurs entre elles d’abord, car la Communauté doit vivre d’une charité pleine d’attention,

51

GSF, p. 105; AM, 2T1. GSF, p. 49; LD, 1T1. 53 GSF, p. 103; AM, 1T20,1. 54 GFS, p. 127; AM, 4T2,10. 55 GSF, p. 59; LD, 17T1. 56 GSF, p. 128; AM, 4 T2,11. 57 GFS, p. 67; LD, 21T2. 58 GFS, p. 76; LD, 29T1. 52


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de vérité, de liberté, pour n’être pas guidée par les sentiments humains qui tendent toujours à former des clans, mais par la pureté et le désintéressement qui font des relations entre les Sœurs un reflet de la charité de Dieu; l’amour de Dieu rejaillit aussi bien sûr sur tous ceux et celles que les Sœurs rencontrent ou dont elles ont la charge, particulièrement les enfants qu’elles instruisent, et surtout les plus pauvres. C’est donc sur ces deux vertus de l’humilité et de la charité que Nicolas Roland, fidèle en cela à toute la tradition spirituelle, fonde l’ensemble des conseils qu’il donne aux Sœurs. Pour le reste, il ne cherche pas à passer systématiquement en revue tout l’édifice des vertus, tel qu’il peut le trouver dans les traités de théologie morale de son temps. Certes, la chasteté, la pauvreté, l’obéissance sont pour lui objets privilégiés de réflexion, cela va de soi. De même donne-t-il une grande place à la douceur, ainsi qu’à l’abnégation. Mais après, il choisit avec une grande liberté et s’attarde aussi sur des points qu’il estime essentiels, mais qui ne sont pas des vertus au sens théologique du terme; ainsi s’arrête-t-il sur l’importance du silence, de l’attention à la présence de Dieu au quotidien, de la place de la Messe et du respect pour le Saint-Sacrement, ou sur la manière de vivre des exercices qui jalonnent la journée (comme l’examen particulier , la lecture spirituelle), ou l’année (comme la rénovation intérieure). Dans le même sens, des textes importants sont consacrés à l’oraison. Il ne peut pas être question de détailler ici chacun de ces points.59 Remarquons simplement la manière dont Nicolas Roland parle de la douceur qu’il appelle aussi «débonnaireté», vertu qui va bien avec l’humilité et qui ne peut s’apprendre qu’à l’école de celui qui était «doux et humble de cœur». La douceur entretient la concorde et la paix dans les communautés, mais elle est aussi d’une grande importance dans la vie apostolique puisque, dit-il aux Sœurs, «ce sera par la douceur de l’accueil gracieux que vous attirerez les âmes, et les retirerez du péché». Enfin, il faut signaler l’énigme que pose la vertu de simplicité. Les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims y ont toujours vu un héritage particulier de leur fondateur, peut-être même ce qu’il leur aurait légué de plus précieux, la clef de voûte en quelque sorte de leur spiritualité. Le mot revient fréquemment dans les écrits de Nicolas Roland, souvent lié à l’obéissance qui exige que l’on s’ouvre avec simplicité aux supérieurs, ce qui n’est pas particulièrement original. Par contre le n° 16 des «Avis aux personnes régulières» ouvre d’autres perspectives: l’étude de ce texte y décèle une filiation par rapport à la

59

Un des petits livrets édités par les Sœurs de l’Enfant-Jésus à usage interne donne une synthèse de tout ce que dit Nicolas Roland sur chaque vertu ou attitude spirituelle dont il parle.


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pensée de saint Vincent de Paul sur cette vertu, et y voit finalement un art de vivre, une sagesse (les textes bibliques de Sagesse y affleurent très clairement) qui serait celle des Sœurs de l’Enfant-Jésus, leur manière de vivre en quelque sorte l’ensemble de leur vie communautaire et apostolique. Elles estiment qu’aussi loin qu’elles remontent dans l’histoire de leur Congrégation, elles y retrouvent la simplicité comme ce qui caractérise leur vie, le sceau que Nicolas Roland aurait apposé à tout ce qu’il leur a transmis. Si le mot énigme vient ici à l’esprit, c’est qu’on reste étonné par le fait que Nicolas Roland n’ait pas consacré un paragraphe à la simplicité dans le «Petit Traité des vertus les plus nécessaires aux Sœurs» et que dans les «Usages», long texte composite rédigé à la fin du XVII siècle pour conserver l’esprit premier de la Congrégation, la simplicité n’occupe pas non plus une place particulière. La simplicité, si chère à la Congrégation tout au long de son histoire, serait peut-être comme le mystère caché qui imprègne toutes les autres vertus, toute la vie de la congrégation et que la tradition a conservée.

3ème partie: Les Sources de la spiritualité de Nicolas Roland C’est une opération toujours délicate que de vouloir déceler les sources d’un auteur spirituel. Les citations qu’il fait lui-même ne sont pas toujours des preuves évidentes de ses différentes filiations. Elles peuvent révéler une influence profonde comme elles peuvent au contraire constituer un simple appui de sa pensée, sans signification particulière. En effet, qui dit «source» dit influence; en matière littéraire, une source c’est ce qui irrigue une pensée; elle est décelable à des mots, à des expressions, à des tournures de phrases, à une manière d’envisager le monde, les relations, la vie en général; on la perçoit à travers de multiples identités ou proximités de langage que seul un œil exercé peut repérer. La littérature spirituelle n’échappe pas à cette règle qui refuse les comparaisons trop matérielles. Le véritable maître spirituel en effet n’est pas asservi à ses sources. Il les inscrit dans sa propre expérience spirituelle. Il ne répète pas; il assimile et la tonalité de ce qu’il écrit lui est personnelle en même temps qu’on y reconnaît ce qui l’a nourri. La Bible En ce sens, la première et la grande source de Nicolas Roland est évidemment la Bible. Nous en avons suffisamment parlé plus haut. Mais la manière dont elle affleure sans cesse dans ses écrits montre combien il l’a intégrée à son expérience et à son écriture. Tant et si bien qu’à la fois elle le guide dans son expérience et lui permet de l’exprimer. Il est difficile d’imaginer symbiose plus parfaite. Il est comme emporté par le grand courant biblique et en même temps, il y trouve sa place originale. C’est comme s’il écrivait de nouveau l’Écriture pour les Sœurs de l’Enfant-Jésus. Mais il s’agit de l’Écriture


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relue dans la grande tradition ecclésiale, tradition scolastique de l’organisme des vertus, tradition religieuse et monastique du silence et de l’oraison, tradition de la vie apostolique. Nicolas Roland n’est pas en recherche d’originalité. Mais cela ne l’empêche pas d’être pleinement lui-même dans son zèle apostolique, son ardent désir de Dieu en même temps que dans son adaptation à celles qu’il rassemble en communauté pour l’instruction des petites filles pauvres. Des sources multiples Mais Nicolas Roland a subi naturellement d’autres influences, moins profondes peut-être, mais qui ont aussi modelé sa physionomie spirituelle. Or, nous l’avons dit, celles-ci ne se laissent pas facilement déceler. Nicolas Roland cite très rarement de manière explicite. Faut-il s’arrêter sur sa bibliothèque dont le Frère Aroz a par le passé décrit précisément l’inventaire? Mais les livres qu’il possédait et qui étaient plutôt nombreux pour un ecclésiastique à cette époque, fût-il docteur et chanoine, ne nous disent pas forcément ce qui retenait sa méditation. Plus révélateurs peut-être sont les livres qu’ils conseillait à se dirigés; mais il y en avait bien peu: Olier auquel il fait allusion à plusieurs reprises, Rodriguez, l’Imitation de Jésus-Christ. Il faut peut-être d’abord en revenir au temps de sa formation et aux personnes qui l’ont marqué à cette époque, avant qu’il s’installe définitivement à Reims: la communauté du Père Bagot, jésuite, les Missions Étrangères, la communauté de Saint-Nicolas-du-Chardonnet dans laquelle avait vécu son oncle, Matthieu Beuvelet, le séminaire de Saint-Sulpice, mais aussi le Père Nicolas Barré et le curé de Saint-Amand de Rouen auprès desquels il avait résidé. Son zèle apostolique s’était nourri dans la fréquentation des futurs missionnaires de l’Asie, à tel point qu’il avait un moment voulu se joindre à eux. Malgré sa fréquentation de la Communauté du Père Bagot, ses écrits laissent peu apparaître d’influences ignaciennes; de savants jésuites comme le Père Ravier, l’avaient reconnu, à une époque récente où les Sœurs de l’EnfantJésus s’interrogeaient sur leurs racines spirituelles. Par contre l’influence de l’École Française de Spiritualité est beaucoup plus évidente: la place du mystère de l’Incarnation, les références à l’action vécue dans l’Esprit-Saint, à l’abandon à l’Esprit, le langage assez souvent utilisé des «états et des mystères de Jésus», le langage de l’union aux dispositions, aux sentiments du Christ, celui de l’union à l’intériorité de Jésus et de Marie, les mots «adorer» et «honorer» en témoignent largement. Cela ne suffit pas sans doute à faire de Nicolas Roland un des grands représentants de ce courant spirituel. Mais cela montre qu’il s’y sentait à l’aise. Manifestement il est très proche surtout de la pensée de Jean-Jacques Olier (la place qu’il donne à l’Esprit et à l’abandon à l’Esprit le montrent assez clairement). N’oublions pas qu’il conseillait


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de lire ses ouvrages. Ses rencontres au séminaire Saint-Sulpice aussitôt après son ordination suffisent pour expliquer cette affinité. Cependant, il se situe à l’intérieur du langage de l’École Française avec liberté. Il s’adapte à ses interlocuteurs, en fonction de leur capacité de compréhension, et il balance, comme nous l’avons déjà fait remarquer, entre le langage de la communion et celui de l’imitation.60 Les remarques que nous venons de faire sont des remarques générales. Elles indiquent, à condition d’y mettre des nuances, comment les écrits de Nicolas Roland s’inscrivent dans un courant spirituel assez répandu à l’époque par les nouveaux instituts de prêtres créés depuis le début du siècle: Oratoriens, Prêtres de la Mission, Sulpiciens, Eudistes. Mais il ne faudrait pas se contenter de ces généralités. Pour avoir une idée plus précise des auteurs qui ont inspiré Nicolas Roland, il serait nécessaire d’opérer toute une série de comparaisons avec des textes d’autres maîtres spirituels traitant des mêmes sujets. C’est ainsi que nous avons pu trouver dans le texte sur la douceur et la débonneraité dans les «Avis aux personnes régulières», des traces très nettes d’un texte tiré des «Méditations chrétiennes» de son oncle Matthieu Beuvelet, dont le Provincial des Carmes, dans son témoignage, dit qu’il «était rempli de l’esprit».61 De même une étude détaillée du texte sur la simplicité dans le même recueil montre que Nicolas Roland a connu une conférence de saint Vincent de Paul sur la même vertu et l’a utilisée, tout en orientant sa pensée d’une manière très originale dans une direction nettement sapientielle.62 De même, on ne peut qu’être frappé par la similitude qui existe entre la conception de la perfection telle que Nicolas Roland l’expose dans sa «Première Conférence» et celle qui figure dans un texte rédigé par Alexandre de Bretonvilliers63 mais dont la source est Jean-Jacques Olier lui-même, dans une conférence sur la direction spirituelle.64 Mais l’influence d’Olier sur Nicolas Roland nous est déjà familière.

60

On pourra lire à ce sujet le ch. V de «Nicolas Roland et les Sœurs de l’Enfant-Jésus», B. Pitaud, Le Cerf, 2001, pp. 206-216: «Nicolas Roland et l’École Française de Spiritualité», 61 GSF, p. 166; TC, 9 T1. Ce texte de Matthieu Beuvelet se trouve dans les «Méditations sur les principales vérités chrétiennes et ecclésiastiques», 1ère partie «Méditations de la vie chrétienne», méditation LI, de la douceur, Paris, chez Georges et Louis Josse, rue St Jacques, 1690, pp. 138-139. 62 On peut lire à ce sujet le ch. VI de «Nicolas Roland et les Sœurs de l’Enfant-Jésus», B. Pitaud, Le Cerf, 2001, pp. 216-237. 63 Premier successeur de Jean-Jacques Olier comme Supérieur de la Compagnie des Prêtres de Saint-Sulpice. 64 Texte publié dans «Jean-Jacques Olier directeur spirituel», Bernard Pitaud et Gilles Chaillot, Le Cerf, 1998, p. 53.


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En fait, il faudrait effectuer ce travail pour tous les textes de Nicolas Roland. Cela a été réalisé pour certains d’entre eux mais pas pour tous.65 Nous aurions ainsi une idée plus exacte des influences qui se sont exercées sur lui et qu’il a su, nous l’avons vu pour plusieurs d’entre elles, intégrer à sa pensée de façon très personnelle. Mais comment passer sous silence aussi l’influence du Carmel de Beaune66 sur sa dévotion au mystère de l’enfance de Jésus? Le fait qu’il se soit rendu à Beaune dès le début de son ministère, plusieurs années avant la fondation des écoles gratuites, montre bien qu’il avait décidé dès ce moment de se mettre lui-même, ainsi que la congrégation qu’il voulait fonder, dans le rayonnement du mystère de l’enfance. Même s’il avait déjà pu découvrir à Saint-Sulpice la dévotion à l’enfance du Christ, il considérait Beaune, avec beaucoup de ses contemporains, comme le centre spirituel de cette dévotion. Ceux qui l’ont connu l’ont souligné, ainsi son ancienne domestique: «il fit, du temps que j’eus le bonheur d’être avec lui, un long voyage à Beaune, pour se consacrer à l’Enfance de Notre-Seigneur, et, à son retour, on vit un avancement tout visible dans la vertu, car il parut à toutes les personnes qui le connaissaient, comme un homme de l’autre monde quoi qu’il n’eût, pour lors, que 26 ans environ».67 Ce voyage à Beaune semble donc avoir joué, aux dires de cette dame, dont le témoignage est habituellement assez perspicace, un rôle important dans l’évolution de sa vie spirituelle. Nicolas Roland a-t-il subi sur le plan de sa pensée spirituelle l’influence de Nicolas Barré? Ce point n’a donné lieu jusqu’ici à aucune étude spécifique. Certes, le Frère Yves Poutet a bien publié dans la «Revue d’histoire de l’Église de France» un long article consacré à «L’influence du Père Barré dans la fondation des Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims»;68 mais ses préoccupations concernaient surtout les statuts et règlements des écoles gratuites et beaucoup moins la spiritualité proprement dite, même si ces deux points d’attention ne sont pas totalement étrangers. Il resterait donc à faire une étude conjointe des écrits du religieux minime et du chanoine de Reims pour chercher les points de contact éventuels. Nicolas Roland s’est sans doute laissé impressionner au moins autant par la vie des personnes qu’il a rencontrées que par les œuvres spirituelles

65

On pourra consulter à ce sujet la deuxième partie de notre ouvrage: «Nicolas Roland et les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims», «Études diverses», particulièrement les chapitres 5 et 6. 66 On pourra lire à ce sujet l’article publié dans Rivista Lasalliana, ott.-dic. 2011, Anno 78, 4, Les relations de Nicolas Roland et des Sœurs de l’Enfant-Jésus avec le Carmel de Beaune, pp. 699-720. 67 GSF, p. 185-186; TC, 16 T3. 68 RHEF, Tome XLVI, 1960, p. 18-53.


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proprement dites. Cela rend encore plus difficile le discernement des influences qu’il a subies. Ainsi, les six mois qu’il a passés auprès d’Antoine de la Haye, curé de Saint-Amand de Rouen l’ont certainement marqué profondément. La preuve en est cette série de maximes qu’il avait gardées de son séjour à Rouen, maximes qui ont été reproduites dans les «Mémoires sur la vie et les vertus»,69 et dont on voit bien, quand on regarde sa vie, qu’il s’en était imprégné. Par exemple, la maxime selon laquelle «un serviteur maladroit est un trésor» est reprise par l’ancienne domestique de Nicolas Roland comme une parole prononcée par lui et comme une règle de son comportement à son égard.70 Nous n’avons pas parlé non plus de l’influence qu’a pu exercer sur lui son directeur, le Père Valentin, supérieur de la Communauté des Minimes de Reims. Celui-ci a écrit un témoignage71 qui reste, on le comprend facilement, assez à distance, et ne permet pas de la repérer. On sait simplement que les Minimes étaient un ordre assez rigoureux. Quel rôle a joué le directeur par rapport à l’ascèse pratiquée avec ardeur par le dirigé? Aucun indice ne permet de le percevoir. Ainsi, la tentative de synthèse à laquelle nous nous sommes livrés laisse encore un certain nombre de pistes à explorer ainsi que des questions qui ne seront sans doute jamais résolues. Nous espérons simplement qu’elle pourra donner lieu à débat et servir de base à des recherches plus approfondies.

69

GSF, p. 199 ; MV, 1 T4,3. GSF, p. 186; TC, 16 T4. 71 GSF, pp. 172-175; TC, 12 T. 70


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LA SPIRITUALITÀ DEL BEATO NICOLAS ROLAND (Sintesi) Questa sintesi dell’articolo sulla spiritualità di Nicolas Roland, che fu il direttore spirituale di Giovanni Battista de La Salle e il fondatore delle Suore del Bambin Gesù in Reims, esamina i tre punti che costituiscono le tre vie di accesso alla sua spiritualità. Il primo punto è come i suoi contemporanei l’hanno giudicato. Le due fonti alle quali ci rifaremo sono le “Testimonianze dei suoi contemporanei”, Le “Lettere” chieste nel 1693 dalle Suore del Bambin Gesù alle persone che avevano ben conosciuto il loro fondatore, e le “Memorie sulla vita e sulle virtù”, che riprendono le “Testimonianze” con l’aggiunta di qualche dettaglio. Il secondo punto è il pensiero spirituale di Nicolas Roland tratto dai suoi scritti, mentre il terzo sarà una ricerca delle fonti della sua spiritualità. 1) Sulla percezione che ebbero di Nicolas Roland i suoi contemporanei una cosa è certa: egli fu molto amato e stimato nei pochi anni della sua breve vita per la sua grande bontà e per il suo ardente zelo apostolico; ma fu il bersaglio di una certa opposizione per il violento tipo di predicazione con il quale combatteva il peccato e per la sua tenacia nel fondare scuole gratuite per le ragazze: ciò che gli suscitò contro delle gelosie. Gli ambienti libertini del suo tempo non lo vedevano di buon occhio perché egli apparteneva a quella corrente riformatrice che influenzò la società francese fin dai primi anni del XVII secolo, creando comunità sacerdotali e opere a favore dei poveri e dando vita ad una grande avventura mistica e apostolica sia in Francia che in Estremo Oriente e nel Canada. La sua austerità e il suo rigore morale non permettono di tacciarlo di giansenismo perché le comunità da lui frequentate erano del tutto contrarie alle dottrine giansenistiche: Gesuiti, Saint Sulpice, Missioni Straniere e San Nicola di Chardonnet: di quest’ultima comunità un suo zio, Nicolas Beuvelet, era stato un eminente membro. Personalmente non amava immischiarsi nelle dispute dei suoi tempi: pensava all’opera che perseguiva, lavorando sotto l’autorità dei due vescovi che si susseguirono con caratteristiche ben differenti: il cardinal Barberini, prelato romano in eterno conflitto con il suo capitolo diocesano e monsignor Charles Maurice Le Tellier, ardente difensore delle libertà gallicane. I suoi contemporanei hanno soprattutto evidenziato in lui caratteristiche di grande spessore: lo zelo apostolico innanzitutto. Si può dire che il Nostro abbia consumato la sua vita nel predicare il Vangelo, nel servire i sacerdoti che a lui si rivolgevano per essere formati e interessandosi dei ragazzi, degli orfani e delle ragazze per le quali, l’abbiamo detto, fondò le scuole gratuite. Praticò anche un’ascesi molto esigente, ma che per lui era l’espressione della rinuncia necessaria per meglio appartenere a Cristo. Nicolas Roland morì molto giovane, stroncato dall’epidemia che aveva contratto servendo le suore della sua comunità; ma il suo organismo non era molto resistente e non sapeva controllare le sue forze. L’immagine del fuoco torna spesso nelle testimonianze dei suoi contemporanei…. Assieme allo zelo apostolico, quelli che lo conobbero furono impressionati dalla sua grande umiltà. Ancora vivente, egli fu più volte calunniato e accusato senza motivazioni. Ma lui non amava difendersi, perché aspettava con fiducia che la verità lo facesse per lui. Non dava importanza alcuna alle convenienze sociali: andò a vivere in un quartiere povero e non accampò alcun privilegio nelle relazioni con gli altri. Anzi, si metteva con semplicità al servizio di tutti, domandava consigli e teneva a cuore quanto gli veniva suggerito.


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Anche la sua illimitata carità fu apprezzata da quanti lo accostarono. Era carità per i sacerdoti che accoglieva in casa sua e per i quali dava prova di una sconfinata disponibilità e di un ascolto attento che conquistava i loro cuori. Era carità per gli orfani e le ragazze minorenni per le quali istituì le scuole gratuite e per le quali mise tutto in opera per raggiungere i suoi obiettivi, consumando a tal fine ogni suo bene. Era carità verso le Suore della Comunità da lui stesso fondata, nelle quali seppe suscitare quello spirito apostolico di cui la carità era l’anima vivificante. Fu anche molto comprensivo per le persone che lavoravano con e per lui, come fu per la sua fedele domestica che, dal canto suo, gli fu eternamente riconoscente perché durante un’epidemia egli chiamò a sue spese un clinico che, a suo dire, le salvò la vita. Infine, i suoi contemporanei apprezzarono il suo amore per la solitudine, il silenzio e l’orazione che lo accompagnava sempre. 2) Attraverso la lettura dei suoi scritti veniamo a conoscere gli stessi punti portanti della sua spiritualità. Tuttavia bisogna notare due caratteristiche nel suo modo di scrivere e che gli danno un taglio particolare. Innanzitutto la sua familiarità con la Bibbia. Egli ne fu talmente imbevuto che le citazioni scritturali scendono quasi naturalmente dalla sua penna. Raramente si tratta di citazioni esplicite e documentate; per la maggior parte sono citazioni implicite che si erano fissate da sé nel suo pensiero. Potremmo dire la Sacra Scrittura costituisca la trama dei suoi scritti. In uno di questi, peraltro assai limitato, vi si possono rinvenire circa 120 citazioni scritturali, di cui 30 soltanto del Vecchio Testamento; tutte le altre sono del Nuovo con queste proporzioni: la metà sono tratte dagli scritti di san Paolo e il rimanente dai vangeli di Matteo e Luca. In seguito, il lettore noterà la cura di Nicolas Roland di poggiare le sue esortazioni morali sul mistero di Cristo. Per lui tutto ciò che l’uomo è chiamato a vivere nello Spirito Santo è fondato proprio su Cristo. È lui che realizza alla perfezione le virtù cristiane che poi l’uomo è invitato a praticare. Nicolas Roland esprime questo concetto in due maniere complementari: qualche volta si pone in comunione con Cristo vivendo con lui i suoi misteri, altre volte si limita alla semplice imitazione del Cristo, nostro modello. Quanto alle virtù o atteggiamenti cristiani da lui privilegiati, è evidente l’insistenza del suo spirito apostolico: infatti egli parla spesso delle virtù indicandone le finalità apostoliche. Così la dolcezza, la carità e la modestia sono per lui le virtù che permettono di “guadagnare le anime”. Ed insiste particolarmente sull’umiltà e sulla carità, vissute in stretto legame con il mistero dell’infanzia del Salvatore al quale la Comunità delle Suore del Bambin Gesù era consacrata: mistero di abbassamento, certo, ma anche mistero d’amore, che per lui è la perfezione dell’esistenza cristiana. Ma l’amore di Dio è sempre il primo e, pertanto, ad esso dobbiamo far riferimento per poter amare i nostri fratelli. 3) Quanto alle sorgenti della spiritualità di Nicolas Roland, la Bibbia rimane, come già qui sopra abbiamo fatto capire, la prima di tutte. Bisogna tuttavia notare anche qualche traccia ben chiara dell’influenza della scuola francese di spiritualità, in particolare attraverso l’Olier, fondatore di Saint Sulpice, le cui opere egli consigliava ai suoi figli spirituali di leggere. Suo zio, Nicolas Beuvelet, l’ha anche lui sottolineato, come pure san Vincenzo dei Paoli. Non si può assolutamente passare sotto silenzio l’influenza del carmelitano de Beaume sulla sua devozione all’infanzia di Gesù. Il suo spirito apostolico fu, invece, certamente influenzato da una parte dalle frequentazioni che ebbe con i primi missionari delle Missioni Straniere a Parigi e poi durante la sua permanenza nella comunità del gesuita Padre Bagot durante i suoi studi. Però il pensiero di sant’Ignazio, malgrado i suoi anni di collegio presso i Gesuiti, sembra avere pochi riscontri nei suoi scritti. Ma resta ancora molto da fare per individuare in maniera più precisa le sorgenti della spiritualità di Nicolas Roland.


Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 239-250

PAVEL FLORENSKIJ E LA SCUOLA IL PENSIERO PEDAGOGICO DEL “LEONARDO RUSSO” E LA CONDIZIONE ITALIANA SERGIO DE CARLI Docente di Religione e saggista

avel Florenskij – teologo e matematico, ingegnere e filosofo ortodosso, definito spesso come “il Leonardo russo”1 – ha fatto irruzione nella cultura italiana da alcuni anni, sulla spinta soprattutto di Natalino Valentini, attualmente direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Alberto Marvelli” di Rimini. A mio parere, e nonostante non si sia mai esplicitamente occupato di scuola in modo specifico, il suo percorso di pensiero è capace di indirizzare positivamente la riflessione che si sta compiendo in Italia sulla questione scolastica. La logica che caratterizza il suo percorso culturale, per la quale diverse prospettive si muovono verso una unità che è epistemologica, ma anche vitale, antropologica, risulta essere infatti estremamente significativa in un tempo nel quale si sente nostalgia di unità, soprattutto perché si vive la frammentazione e la disorganicità come dato di fatto esistenziale, esperienziale, antropologico, che rende insoddisfatti e scontenti, e (in fondo) profondamente infelici. Florenskij ha evitato affermazioni di principio, preferendo le analisi precise, circostanziate e competenti sui contenuti, evidenziandone nel contempo le oscurità. Non solo, quindi, il bianco e il nero, ma anche i grigi, quelle prospettive di non facile decifrazione che impegnano l’intelligenza umana ad essere creativa, a indicare vie nuove. Proprio queste zone grigie possono diventare fari capaci di indicare le direzioni lungo le quali incamminarsi con

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Cfr. per tutti VALENTINI NATALINO, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell’amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997, p. 23.


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il pensiero nel nuovo secolo e nel nuovo millennio. Tutto ciò vale anche per la scuola e l’educazione, e per le scienze che studiano queste questioni.

Un intellettuale radicato, libero e incarnato Pavel A. Florenskij2 (1882-1937), laureato in matematica a Mosca a ventidue anni, si dedica poi allo studio della teologia. Si sposa, viene ordinato sacerdote ortodosso, ha cinque figli e insegna filosofia all’Accademia teologica moscovita. Uomo coerente sino all’estremo, arrestato e condannato, è deportato in Siberia e poi alle isole Solovki, il gulag più duro dell’Unione sovietica. Morì l’8 dicembre 1937 a Leningrado, oggi San Pietroburgo. La formazione positivista e naturalista, ricevuta in famiglia e a scuola, lo portò a una crisi profonda, unita alla intuizione dell’abisso verso il quale era lanciato il sapere scientifico occidentale.3 La condizione di crisi, di ricerca del cambiamento, lo condusse a cogliere se stesso nel contesto più ampio del crollo di un mondo che doveva far posto a un altro mondo. Questa è la condizione che vivono quotidianamente gli adolescenti del nostro tempo: banderuole sbattute dal vento, incapaci di definire una propria direzione in un mondo che li lascia come in mezzo a un guado, smarriti e privi di qualunque certezza. Mancanti cioè di qualcosa per cui valga la pena spendere la propria esistenza, e con pochi esempi, pochi testimoni della possibilità reale di dare senso alla vita. E tra costoro, gli insegnanti... Almeno alcuni. Da questa condizione di crisi è possibile uscire trasformando il cambiamento in possibilità. Come la riflessione di Florenskij, che si pone alla ricerca dei fondamenti della verità vivente. Cerca qualcosa che gli consenta di camminare in mezzo al guado: ragioni vitali, non solo razionalità pura.

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Sulla vita di Florenskij vedi: VALENTINI NATALINO, Pavel A. Florenskij: la sapienza dell’amore. Teologia della bellezza e linguaggio della verità, EDB, Bologna 1997, pp. 29-53; KAUCHTSCHISCHWILI NINA, Postfazione. Florenskij e la Georgia, in Pavel Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2003, pp. 335-342; VALENTINI NATALINO, Pavel A. Florenskij, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 7-23; TAGLIAGAMBE SILVANO, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano 2006; VALENTINI NATALINO, Nota Biografica su Pavel Aleksandroviˇc Florenskij, in FLORENSKIJ PAVEL A., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di Natalino Valentini e Alexandre Gorelov, trad. it. di Claudia Zonghetti, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. LXIII-LXXI; VALENTINI NATALINO, Nota biografica su Pavel Aleksandroviˇc Florenskij, in FLORENSKIJ PAVEL A., La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, a cura di Natalino Valentini, San Paolo, Cinisello B.mo 2010, pp. LXXI-LXXXII. 3 Cfr. VALENTINI NATALINO, Introduzione, in FLORENSKIJ PAVEL A., Il simbolo e la forma, cit., p. XXIV. Si veda anche FLORENSKIJ PAVEL, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2003, p. 250.


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Simbolo e significato Il simbolo è la vera chiave per comprendere la natura segreta delle cose, tanto che “Florenskij giunge a sostenere la struttura simbolica del linguaggio come paradigma del pensiero scientifico”.4 Questo rimando è significativo perché collega due logiche, quella razionale e quella emozionale, artistica, capace di andare oltre ciò che caratterizza l’occidente, identificato con la ragione scientifica. Come dire che Florenskij accoglie la logica della ragione, ma indica nel contempo una dimensione più profonda, che implica la compresenza anche della dimensione intuitivo-emotiva.5 In fondo, nel pensiero e nell’opera dell’intellettuale russo, domina quella stessa logica che ha indicato Giuseppe Lazzati con l’espressione “et… et”,6 una prospettiva che cerca l’inclusione, il dialogo, senza scadere nell’irenismo. Conoscere è, per Florenskij, stabilire sempre una relazione con la vita, l’esistenza concreta. Da qui la centralità dell’“Incarnazione [che] intende richiamare il legame sostanziale con la realtà concreta, con la materia, il corpo, la carne, realtà percepite in tutta la loro valenza misterica”.7 Il pensare dell’uomo non può prescindere dal linguaggio e quindi dal simbolo, che “resta dunque il vero e proprio fulcro attorno al quale ruota l’inesauribile ricerca filosofico-scientifica di padre Florenskij, […] egli elabora una teoria-esperienza del simbolo e della relazione vitale tra i «due mondi» (il visibile e l’invisibile) animata essenzialmente dalla ricerca del significato più profondo che si cela sulla soglia dell’intreccio inestricabile tra «apparire» ed «essere», tra «scorza» e «midollo», tra ciò che riluce e ciò che traluce, tra manifestazione e incarnazione”.8 Usualmente si intende il simbolo come un indicatore che rimanda ad altro. Florenskij, e con lui poi anche Paul Ricoeur,9 preferisce una concezione del simbolo nella direzione dell’approfondimento verso il centro. È una ricerca, fondata sulla relazione vitale con le persone per capirsi di più e meglio.

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VALENTINI NATALINO, ivi, cit., pp. LV-LVI. VALENTINI NATALINO, ivi, p. LXI. Sulla prospettiva polifonica si veda anche il saggio di TAGLIAGAMBE SILVANO, Come leggere Florenskij, Bompiani, Milano 2006, p. 12. 6 Cfr. LAZZATI GIUSEPPE, Et…Et... la nuova serie di Vita e Pensiero, “Vita e Pensiero”, LXII, n. 1, gennaio 1979, pp. 4-11. Sulla figura di Lazzati si vedano: MARGOTTI MARTA, Giuseppe Lazzati. Educare nella città, Centro Ambrosiano, Milano 2001; MALPENSA MARCELLO, PAROLA ALESSANDRO, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Il Mulino, Bologna 2005. 7 VALENTINI NATALINO, Introduzione, in Florenskij Pavel A., Il simbolo e la forma, cit., pp. L-LI. 8 VALENTINI NATALINO, ivi, p. LVII (il corsivo è mio). 9 Si veda il volume: Le symbole donne à penser, “Esprit”, n. 7-8, Juillet-Août 1959, trad. it. di Ilario Bertoletti, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002. 5


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Questa relazione triadrica tra ragione, simbolo e vita-esistenza concreta, è fondamentale per la scuola e il lavoro che vi compiono gli insegnanti, che è appunto portare gli studenti a cogliere il significato – e quindi il valore – della loro esistenza, darle un senso, edificare la loro sintesi personale. È il grande problema della scuola: come è possibile indicare questa prospettiva senza che le grandi culture o le religioni la intendano come luogo di conquista? Questa istituzione deve valorizzare tutto il potere educativo del simbolo, e del linguaggio che lo esprime, cioè delle culture. Questo linguaggio dei simboli ci porta al centro della vita dell’uomo, e lo fa lasciando spazio alla sua libertà. Per questa ragione può educare, tenendo conto che in questo modo si intreccia una relazione con il mondo non specificamente razionale, che è poi il mondo dominante nella vita delle persone del nostro tempo. Tutto ciò significa modificare il paradigma di fondo della scuola contemporanea, teso alla produzione di uomini della tecnica o del sapere razionali, verso una logica più attenta alle persone in crescita, qualunque sia il grado e l’ordine che si intenda. Non più, quindi scuole tecniche (Itis o Itc…) o scuole per la futura classe dirigente (liceo classico), ma scuole educative per le persone sempre, pur declinando tutto ciò nella diversità che non può mai essere cancellata.

La scuola italiana necessitevole di riforme La scuola italiana è ancora fondata sulla linea portante del pensiero gentiliano, che vede la filosofia come apice della conoscenza e ignora il valore della mediazione didattica. Oggi è tempo di cambiare: il problema è come e per andare dove. Alcune considerazioni fondamentali sono le seguenti: 1. Si deve trovare un nuovo asse di studio scolastico e poi definire le ore di lezione o il tempo scuola. Capendo cosa è oggi il classico “leggere, scrivere e far di conto”: “leggere” non può più essere solo imparare le lettere e poi le parole, ma anche decodificare e capire il testo filmico e musicale, ecc… E il computer e internet? Come rendere gli allievi capaci di contare – sviluppando le capacità logiche conseguenti – mentre si usa la calcolatrice? 2. La centralità della persona impone un dato: più è piccola e più è complessa la relazione educativa da sviluppare, per cui più va preparato l’insegnante. 3. Oggi si deve affrontare la scommessa di Paolo VI: “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, […] o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.10 Ogni insegnante mette in gioco la sua vita e non solo le sue conoscenze, le sue competenze. 10

PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, 41.


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Misurarsi con la concretezza dell’agire didattico non è facile: indicazioni utilissime possono venire dalla ricerca-azione,11 che – purtroppo – è quasi sconosciuta in Italia.

La situazione di crisi antropologica e il compito di superarla La cultura del nostro tempo si arrende alla “sovranità del desiderio”12 elevando ad assoluto il carpe diem. La logica emozionale schiaccia quella razionale e relazionale, assolutizzando l’io, narcisisticamente incapace di rapportarsi con gli altri. Il nostro tempo viene descritto con la categoria di crisi, dominata dal negativo. Se invece di “crisi” usiamo “passaggio”, le cose cambiano. Passaggio dice cambiamento, transito dal male al bene, dalla tenebra alla luce, fatto realizzabile, da cercare. Il cambio di paradigma consente di guardare al futuro con fiducia, pensandolo in positivo. A ogni momento difficile segue un tempo positivo. Ho già avuto occasione di riflettere su queste pagine intorno alla situazione del nostro tempo e quindi non mi dilungo.13 L’analisi di questo momento storico vede come centrale l’immagine dell’ossimoro, che comprende due prospettive tra loro distinte e contrapposte che si cercano secondo la logica della nostalgia. Per la scuola, indicazioni preziosissime ci giungono attraverso il testamento di Florenskij, scritto nel marzo 1921 a Mosca. Vi si trova l’invito a superare l’“approssimazione”. Infatti, “chi agisce con approssimazione, si abitua a parlare con approssimazione, e il parlare grossolano, impreciso e sciatto, coinvolge in questa indeterminatezza anche il pensiero.[…] Essere precisi e chiari nei propri pensieri è il pegno della libertà spirituale e della gioia del pensiero”.14 Per operare lungo queste prospettive si deve essere credibili. Anzitutto con se stessi, e poi con gli altri.

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Cfr. COONAN CARMEL MARY, La Ricerca Azione, http://www.univirtual.it/corsi/fino 2001_I/coonan/default.htm. 12 RIZZI ARMIDO, Etica e religione, “Rivista di Teologia Morale”, XXXIV, n. 133 (1), gennaiomarzo 2002, pp. 95-96. Si veda anche la conferenza di J. HABERMAS, Fede e sapere, “Micromega”, n. 5/2001, pp. 7-16, con un commento di G. MARRAMAO (La passione del presente, pp. 17-25). Il testo di Habermas è stato pubblicato anche da “il regno”, n. 19/2001, pp. 653-656. 13 Mi permetto di rinviare al mio saggio: Verso la terza cultura. Dall’ossimoro alla sintesi personale nella scuola del XXI secolo, “Rivista lasalliana”, 74, n. 4 (296), Ottobre-Dicembre 2007, pp. 405-420. 14 FLORENSKIJ PAVEL A., Pis’ma s Dal’nego Vostoka i Solovkov, in Id., Soˇcinenija v cˇertyrech tomach, a cura di A. Trubaˇcëv, M. S. Truba cˇ ëva e P. V. Florenskij, Mysl’, Moskva 1994, trad. it. di Giovanni Guaita e Leonid Charitonov, Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, a cura di Natalino Valenˇ tini e Lubomir Zák, Mondadori, Milano 2000, pp. 417-418.


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Affrontare la crisi di identità Una chiave per comprendere questo tempo di passaggio è la crisi di identità, l’incapacità sempre più diffusa nella persona di autodefinirsi, indicare prospettive, valori, ciò grazie a cui la vita ha senso e vale la pena viverla. L’esito di tale condizione è un essere spaventato da tutto (e quindi che ostenta una sicurezza e una decisione pressoché inesistenti), incapace di farsi valere secondo quelle preziosità che potrebbero (e dovrebbero) qualificarlo in quanto tale. È come incontrare una persona con il volto sempre coperto da una maschera, perché la realtà è un palcoscenico e per viverci occorre recitare una parte che varia a seconda di quanto richiesto dalle circostanze. Il volto, alla fine, viene inteso come tutt’uno con la maschera: coincide con essa, cancellando il proprio vero aspetto. È con questa crisi di identità che la scuola deve aiutare i ragazzi a misurarsi. Declinando a seconda della loro età la qualità degli interventi: solo una chiara intenzionalità educativa degli insegnanti, unita alla capacità di motivare alle conoscenze culturali e scientifiche, può spingere ragazze e ragazzi ad andare oltre la crisi, verso la propria identità personale che è coscienza culturale (secondo la logica delle tre culture, umanistica, scientifica e religiosa), abilità concrete, senso del limite e della legge, forte capacità critica. Il che significa porre la relazione al centro della logica scolastica. Florenskij sosteneva che l’ipotesi della continuità è arbitraria perché “è dove si rivela la discontinuità che cerchiamo l’intero”.15 E prospettava la teoria degli insiemi, capace di una sintesi rispettosa delle singolari diversità. Affermava che “noi siamo transfiniti, siamo «il mezzo tra il tutto e il nulla»”. E polemizzava con l’idealismo e il positivismo perché gli sembravano “mostruosamente grossolani, non perché astraggono, ma in quanto annientano il reale, il concetto e la persona, la persona viva”.16 Coglieva nel pluralismo la via che consente-chiede si giunga a una sintesi, cioè all’intero, al singolo unico e irripetibile. La scuola deve sfruttare questa opportunità, soprattutto in un tempo frammentato come il nostro, nel quale l’intero-sintesi esiste in quanto in relazione con la pluralità, la diversità (che è quindi ricchezza e non limitazione-povertà). È necessario ritrovare il coraggio di guardare in faccia l’antinomia, il contrasto, la relazione difficile.

Per l’incarnazione scolastica Il continuo rimando di Florenskij all’incarnazione, pone alla scuola una richiesta specifica: come legare alla realtà il percorso educativo? Come intro15

FLORENSKIJ PAVEL A., I numeri pitagorici, in Il simbolo e la forma, cit., p. 234. FLORENSKIJ PAVEL A., I simboli dell’infinito (Saggio sulle idee di G. Cantor), in Il simbolo e la forma, cit., pp. 77-78.

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durre l’esperienza nel percorso di studi: se è (relativamente) facile – ma non sufficientemente sfruttata – per le arti, perché basterebbe far trafficare gli studenti con la produzione artistica, e la stessa cosa vale per le scienze e la tecnica (la logica laboratoriale, non ancora sufficientemente utilizzata nella scuola italiana), per le culture umanistiche e (soprattutto) religiose si tratta di questione più ardua. Si incrocia la laicità: il rischio di plagiare gli allievi non è secondario, soprattutto tenuto conto che l’insegnante ha a che fare con ragazzi che stanno costruendo la loro visione del mondo. Non basta appellarsi alla sua onestà intellettuale e professionale: è necessario un di più di formazione. Tre sono le domande che tormentano l’uomo e la donna oggi: le radici del proprio sé e del mondo nel quale vive, e le motivazioni insieme ai valori che indicano alle persone le direzioni da dare all’esistenza. Tutto ciò si chiama anche cultura o, meglio, culture (al plurale) in relazione alla vita vissuta.

Valori e domanda di motivazioni Oggi manca (troppo spesso) la passione di cui parlano i vangeli quando i due discepoli notarono, dopo la scomparsa di Gesù che si era manifestato mentre si recavano a Emmaus: “non ci ardeva forse il cuore”,17 cioè non ci sentivamo motivati a superare apatia e paura? Non è forse la situazione dei cittadini italiani, privi di motivazioni nei confronti della scuola? Dopo aver trovato forza interiore (motivazioni), gli stessi discepoli di Emmaus ripartirono “senz’indugio”18 nonostante la paura della notte. Ho visto ragazze e ragazzi infiammarsi di passione per una società più giusta, più attenta alle esigenze dei cittadini. La domanda di valori rimanda alla domanda di interiorità, a motivazioni vere e radicali, capaci di condurre verso il senso dell’esistenza, e a vivere secondo il bene. Oltre le ideologie. Le responsabilità e i compiti degli intellettuali spingono oltre le ideologie. Tocca a loro, anzitutto, percorrere i sentieri della laicità,19 verso l’inclusione, per valorizzare ciò che è unico e irripetibile, il singolo essere umano. 17

Lc 24,32. “E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici” (Lc 24,33). 19 Si vedano: RICCARDI ANDREA (a cura di), Il Mediterraneo nel Novecento. Religioni e Stati, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994; EDITORIALE, Laici, laicità, laicismo, “La Civiltà Cattolica”, q. 3609, 4 novembre 2000, pp. 211-224; MARZO E., OCONE C. (a cura di), Manifesto laico, Laterza, Roma–Bari 2000; RUSCONI GIAN ENRICO, Come se Dio non esistesse, Einaudi, Torino 2000; SORGE BARTOLOMEO, Laici o cattolici? Cittadini, “Aggiornamenti Sociali”, n. 1, gennaio 2001, pp. 4-9; RIZZI ARMIDO, Gesù e la salvezza. Tra fede, religioni e laicità, Città Nuova, Roma 2001; ID., Laicità. Un’idea da ripensare, Pazzini Editore, Villa Verucchio(RN) 2004; HAARSCHER GUY, La laïcité, Puf, Paris 1996; NASO PAOLO, Laicità, Emi, Bologna 2005; BIANCHI ENZO, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006.; PAJER FLAVIO, Laicità, educazione morale, cultura religiosa in Francia, “Pedagogia e Vita”, n. 2/1999, pp. 79–115. 18


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Credenti e non credenti, oggi è in questione il tema del vivere insieme, delle regole di questo vivere insieme, e quindi di chi le scrive e le proclama come leggi dello Stato. La scuola non può restarne fuori. A condizione che gli insegnanti, intellettuali sul campo, agiscano con intelligenza e passione, per far crescere donne e uomini liberi, critici e capaci di «sporcarsi le mani» nel vivere concreto insieme agli altri. Certo questa figura di insegnante va edificata ripensandone i percorsi formativi, anche universitari.

Un primo compito per i riformatori: ritornare ai fondamentali della scuola Mi chiedevo sopra cosa potesse significare oggi, per chi si occupa di bambini e ragazzi, «leggere, scrivere e far di conto». Come adattare le esigenze conoscitive all’età differente di chi frequenta le scuole e alle tensioni emotive che vive? Queste questioni pretendono che si recuperino i fondamentali della scuola nel nostro tempo. Senza alcuna pretesa di completezza, si tratta quindi di recuperare concetti e logiche come educazione, cultura e culture, istruzione, formazione, sintesi di senso, obiettivi, disciplina come educazione al senso della legge, materie-discipline, insegnare, apprendere, percorsi formativi, esami, valutazione come momento formativo per gli allievi… Questi termini devono essere ri-determinati e ri-compresi oggi, per contribuire a edificare un mondo con una donna e un uomo nuovi. Compiti non facili: è urgente farlo con una riflessione corale, ritornando all’esperienza di Barbiana, per rimotivare coloro che si occupano di scuola. Questa istituzione (e l’università per la ricerca culturale e la formazione degli insegnanti) deve ridare fiato all’educazione e alla formazione continue, alla crescita di una mentalità del dialogo con l’altro-diverso inteso come ricchezza da acquisire a caro prezzo.20 La scuola non può non farsi carico di questa responsabilità, recuperando la memoria e le memorie, lavorando lungo due direzioni complementari: ripensare il percorso formativo di storia21 – evidenziando la passione per il futuro che animava gli uomini migliori, insieme a date, fatti, cause, ecc. – con la vita vissuta delle persone.

20 A questo proposito il riferimento d’obbligo – per un cristiano – è al volume di BONHOEFFER DIETRICH, Sequela, Queriniana, Brescia 1975, in modo particolare il capitolo La grazia a caro prezzo, pp. 21-35. Sono profondamente convinto che di questo scritto se ne possa dare una lettura e comprensione anche laica, della quale possa approfittare il lettore non credente. 21 Cfr. VON BORRIES B., CAJANI L., LASTRUCCI E., I giovani e la storia, “Il Mulino”, XLIX, n. 387, gennaio-febbraio 2000, pp. 102-136; PARISI D., BRUSA A., PRODI P., Insegnare storia, ivi, L, n. 395, maggio-giugno 2001, pp. 535-558.


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La storia da sola non basta: si pensi ai messaggi positivi che giungono a noi dal passato attraverso le letterature, la poesia, il pensiero filosofico e scientifico, le culture generate dalle religioni, e poi la politica, l’economia, le arti… La scuola intera, quindi, deve fare propria questa prospettiva: tutto ciò pretende che si ripensi la formazione dei docenti. Trasmettere una tradizione e per suo tramite una identità, porta a una “lotta consapevole contro l’appiattimento generale”.22 In questa prospettiva, e a maggior ragione dopo l’11 settembre, diviene prioritario considerare le diverse visioni del mondo che indicano spazi di senso per la vita dell’uomo. Lo studio della storia a impostazione ideologica non educa, allo stesso modo dell’impostazione moralistica, affermava P. Scoppola.23 La ricerca-scoperta di motivazioni è altro dal moralismo: presuppone idee e prospettive etiche forti, lontana dal moralismo bacchettone e privo di significato.

Indicazioni educative, pedagogiche e didattiche Negli scritti di Florenskij non troviamo una chiara ed esplicita teoria della scuola, ma precise indicazioni di fondo intorno ai suoi fondamentali. Anzitutto l’importanza delle domande.24 Scriveva dall’inferno delle Solovki: “tutti assimiliamo (e assimiliamo soltanto!) solo quello che elaboriamo attivamente dentro di noi. Ma assimilare, assimilare e basta, non è sufficiente. «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere». […] L’Incarnazione è il precetto fondamentale della vita: […] è realizzare le proprie potenzialità nel mondo, accogliere in sé il mondo e formare la materia di sé”.25 Di fronte alla generale insoddisfazione adolescenziale, la reazione della scuola non può che andare in questa direzione, difficile eppure non eludibile. Un anno prima di essere giustiziato, il Leonardo russo scriveva dalle isole Solovki al figlio Kirill che “un buon lavoro può riuscire soltanto se c’è stata una lunga stagionatura di impressioni e idee […]. Nella composizione sii libero e audace […] È meglio la non completezza, la frammentarietà, la problematica, che la compilazione forzata in stile tedesco (di cui soffrono

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FLORENSKIJ PAVEL A., Avtoreferat [Nota autobiografica], in Il simbolo e la forma, cit., pp. 67. Queste parole sono tratte da un testo nel quale lo stesso Florenskij presentò il proprio pensiero per il Dizionario enciclopedico dell’Istituto bibliografico russo Granat. Venne scritto tra il 1925 e l’anno successivo. 23 Cfr. il saggio Il contributo della cultura storica alla educazione civile dei giovani, in CORRADINI LUCIANO, DANUVOLA PAOLO, SCOPPOLA PIETRO, Educazione civica nella scuola, cit., pp. 35-43. 24 Cfr. FLORENSKIJ PAVEL A., Non dimenticatemi, cit., p. 264. 25 FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, pp. 324-325.


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Sergio De Carli

quasi tutti i nostri scienziati) di materiali e idee. Tu, invece, scrivi in modo che «i pensieri siano liberi e le parole strette» (Goethe)”.26 Quale importanza riconoscere al testo scritto nella scuola? Gli studenti devono scrivere per imparare a scrivere, e per conoscersi. Se non lo fanno si impoveriscono e basta. Infatti, afferma ancora Florenskij: “Mettendo per iscritto le tue conoscenze, avrai occasione di metterti alla prova, di esprimere liberamente il tuo pensiero, che altrimenti rimarrà vago”.27 Agli insegnanti il compito di supportare questo lavoro di edificazione personale nel tempo, nel continuo rispetto della coscienza degli allievi e in dialogo fattivo con le famiglie. Sul piano del metodo e degli strumenti che la scuola può – e deve – fornire, scriveva ancora Florenskij: “l’impeto a volte è assolutamente necessario; ma esso ha successo solo quando viene preceduto dall’accumulazione, da un lavorio costante e impercettibile nel quale si sono passati gli anni. […] In questa fase preparatoria bisogna anzitutto arrivare a possedere i più importanti mezzi ausiliari di ciascun lavoro. Essi sono: 1) l’attitudine al lavoro sistematico e al risparmio del tempo; 2) l’abitudine e la capacità di fissare ciò che si è fatto, il che richiede una registrazione chiara e sistematica; 3) il possesso della lingua, di un linguaggio preciso, compatto, corretto ed elegante; 4) il possesso delle lingue straniere, almeno fino a poter leggere i libri; 5) il possesso dei metodi dell’elaborazione matematica dei dati dell’esperienza; 6) il possesso della tecnica fotografica; 7) la capacità di fare schizzi tecnici e di disegnare”.28 Queste parole forniscono poche indicazioni fondamentali da sviluppare nella scuola e per la scuola del nostro tempo. Non per una scuola facile, bensì per una scuola che faciliti il percorso degli allievi verso la maturità personale e la libertà, li aiuti ad affrontare le difficoltà senza cancellarle. Perché diventino persone e cittadini coscienti dei loro diritti e anche dei loro doveri.

Per i genitori I genitori si sentono spesso emarginati dall’agire scolastico. Se è vero che accade di incontrarne che vogliono imporsi sugli insegnanti e sul loro compito educativo e culturale, è altrettanto vero quanto Florenskij scrive: “Voi, cioè tu, Anna e i figli, non vi rendete conto che solo attraverso di voi passa il filo che mi lega alla vita”.29 Conseguentemente i genitori non possono esse-

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FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, p. 351. FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, p. 246. 28 FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, pp. 335-336. 29 FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, p. 330. 27


Pavel Florenskij e la scuola

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re esclusi dalla scuola, perché si interviene su ciò che di più caro essi hanno. Essi stessi devono operare nel momento del progetto, per aiutare gli insegnanti a capire i figli che affidano loro. Accettando e gestendo insieme problemi, conflitti e disguidi. Si tratta di innescare processi virtuosi nel tempo.

Un secondo compito per i riformatori: formare e motivare gli insegnanti Oggi si deve parlare soprattutto di demotivazione di insegnanti e genitori verso una istituzione percepita come obsoleta e scarsamente incisiva nella vita dei ragazzi. Disporre di motivazioni forti per svolgere una professione non è mai facile, men che meno nel nostro tempo. Ma in questo contesto agire si deve, dicendo “le cose in maniera dura”.30 È, questo, un criterio educativo che la scuola deve recuperare insieme a una mentalità comunicativa non giudicante e di relazione positiva e costruttiva. A una condizione: la coerenza anche nelle difficoltà, o – ed è certo molto meno facile – grazie alle difficoltà.31

Conclusioni: la scuola come bocciolo di una società e di un mondo nuovi La scuola: è un compito affascinante e proprio per questo difficile. Si tratta di una sfida ardua, come un sogno che attende di essere realizzato. Sperare contro ogni speranza è possibile. Evangelicamente, un chicco di grano non produce frutto se prima non muore: da qui la necessità di impegno costante e forte nel tempo. L’uomo è per sua natura capace di pensare un mondo nuovo, nel quale tutti vivano felici e realizzati. La società è quindi elemento importante per la definizione dell’identità personale e insieme realtà complessa da regolare per conseguire la felicità. Ripensare la qualità della vita, e la cultura politica che la progetti, significa dare spazio a una nuova Odissea, smettendo di giocare in difesa per giungere nuovamente alla casa dove abita l’uomo. Un’avventura difficile, eppure affascinante, da costruire anche attraverso la scuola.

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FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, p. 391. Cfr. FLORENSKIJ PAVEL A., ivi, p. 375. Difficile trovare parole più profetiche per la sua esistenza, che concluse da martire. Un monito non retorico per noi, che viviamo agli albori del XXI secolo, in un tempo nel quale stiamo preparando un futuro nuovo e positivo.

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Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 251-266

LASALLIANI AUTORI DI LIBRI DI PREGHIERA CESARE TRESPIDI Cultore di studi lasalliani

Premessa1 e lo scopo precipuo dell’istituzione del de La Salle, collegato strettamente all’intento dell’istruzione, è la formazione e la cura spirituale degli alunni, coefficiente essenziale ne deve costituire la preghiera, espressione prima dell’anima che si pone in rapporto con Dio. Egli, uomo e maestro di orazione, ne trattò specificamente a beneficio dei membri della Congregazione da lui fondata – e non solo – nelle “Meditazioni per le domeniche e le feste” e nella “Spiegazione del metodo d’orazione”, ma fornì anche strumenti didattici soprattutto dettando riflessioni, preghiere, esercizi e pratiche di pietà, che troviamo raccolti nei Cahiers lasalliens 17 e 18, che possiamo leggere raccolti in un unico volume edito nel 2005, tradotti in italiano.2 La fornitura di tali strumenti – utili come sostegno ed accompagnamento per le istruzioni catechistiche, per la celebrazione eucaristica,3 per acco-

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1 Per esigenze di stampa si è dovuto ridurre il contenuto, semplificandone alcune parti. Il testo completo è a disposizione presso l’Archivio di Torino (Strada Santa Margherita, 132). 2 JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE, Opere, 5, “Istruzioni e preghiere, esercizi di pietà, canti spirituali”. Edizione italiana a cura di Serafino Barbaglia e Itali Carugno, Città nuova, Roma (Aldo Sabatini ha tradotto l’intero “Cahier” 17 e Elio Prosperini ha tradotto e versificato i “Cantiques”). 3 Nelle scuole e nei convitti dei Fratelli per molti anni si accompagnavano gli alunni ad assistere alla S. Messa oltre che nei giorni festivi quotidianamente. Col volgere del tempo, soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso, la scadenza variava nella settimana secondo i diversi programmi, ma, come si trova scritto nell’opera citata, in nota, a pag. 30 “ai tempi del La Salle le feste obbligatorie non erano molte. In un testo dell’H.no José Luis Hermovilla (Thèmes lasalliens I, p. 194) si afferma che “le feste dell’Immacolata Concezione, del S. Nome di Maria, della Visitazione e della Presentazione al Tempio non erano allora di precetto; ma La Salle, dopo aver fatto ascoltare (in tali ricorrenze n. d. r.) agli alunni la S. Messa, dava loro vacanza al posto di quella del giovedì”.


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starsi ai sacramenti specialmente della confessione e della comunione – è proseguita grazie all’interesse e all’impegno di diversi Fratelli lungo il decorso del tempo. È assai probabile che parecchi di questi testi siano andati smarriti,4 ma di alcuni rintracciamo la presenza nella Biblioteca lasalliana di Torino: e di questi intendiamo illustrare la presentazione. Pur nelle, evidentemente necessarie, variazioni dati i mutamenti dei tempi, alcuni elementi del contenuto restano costantemente presenti: il contributo istruttivo – chiamato ora “avvertenza”, ora “considerazioni”, ora “riflessioni” – che costituisce la base dottrinale e definisce una verità; il ricorso allo strumento catechistico del dialogo costituito da domande e risposte; la fedeltà nella ripresa delle formule liturgiche, mantenendo anche l’impiego della lingua latina; la conservazione del punto focale della santa Messa, quale fulcro e sorgente prima di una vita cristiana; l’interesse ad offrire sostegno per le pratiche sacramentali e per altri esercizi di pietà; l’attenzione – diremmo tutta lasalliana – di suggerire un’applicazione pratica, magari giornaliera, la trascrizione di canti spirituali, forma corale di preghiera, per tradurre nel vissuto quotidiano l’ispirazione spirituale. Ispiratrice di tali ingredienti è proprio l’opera del de La Salle di cui si diceva, che contiene preghiere destinate agli alunni, ma, tramite loro, anche agli adulti, in particolare ai loro genitori: essa attesta quanto gli stesse a cuore il tema della preghiera.5 I Cahiers 17 e 18 comprendono i testi preparati e pubblicati dal La Salle tra il 1696 ed il 1704 (benché l’editio princeps sia abbastanza tardiva: rispettivamente del 1734 e del 1760). Confrontando il contenuto dell’opera del de La Salle con i vari “manuali di pietà” compilati da Fratelli che hanno ricalcato le orme ed il suggerimento del Fondatore, sarà abbastanza agevole riscontrare i vari aspetti che richiamano la ripresa del modello che essi hanno tenuto presente. Le differenze, ovviamente, sono legate anche alle variazioni dei tempi, alle novità delle devozioni, al livello di preparazione degli alunni e dei devoti a cui si sono rivolti.

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Ad esempio, nel “Piccolo mese di maggio” di fr. Basile André si fa riferimento ad un “Manuale di pietà” di fr. Filippo, Superiore generale dei fsc, di cui non c’è più traccia. 5 A pag. 24 dell’opera citata si legge: “Parole e concetti su di essa ricorrono 1068 volte nei suoi scritti; questo perché ne aveva ben compreso la necessità (Meditazioni per le domeniche e le feste, n. 36) e senza dubbio per esperienza personale, come affermano i suoi biografi”; e precisando, si afferma: “Per capire bene le sue argomentazioni occorre rifarsi ai suoi “Devoirs d’un chrétien”, ove il trattato sulla preghiera (fortemente ispirato al Crisostomo) occupa un sesto dell’intero volume.


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Fratel Basilio André (Falicone, Nizza 1820 – Grugliasco 1908) Tra i Fratelli che si sono segnalati per la pubblicazione di libri di pietà, a prolungamento ed approfondimento della loro attività educativa, si distingue Fr. Basilio André per l’impegno notevole che vi ha profuso. La Notice Nécrologique (fascicolo n. 25, anno 1909, pp. 238-245) indugia efficacemente nell’illustrare la figura di insegnante (a S. Pelagia di Torino ebbe come allievo il futuro successore di don Bosco, Michele Rua),6 di direttore di diverse comunità (a lui si deve il merito del prestigio dei Fratelli a Vercelli, dove, alla sua morte, si verificò una “esplosione di dolore”), di patrocinatore di opere di azione cattolica, compreso un centro sportivo e di cultura per ragazzi e adulti, di suscitatore di vocazioni (i sacerdoti celebranti alla funzione funebre nella parrocchia di S. Agnese di Vercelli erano suoi ex-allievi). Il suo zelo ardente attingeva le risorse alla fonte viva di una profonda spiritualità trasfusa nell’insegnamento culturale e catechistico della parola, tradotto anche negli apprezzabili testi di pietà pubblicati.7 Ne presentiamo alcuni, fra i tanti, tuttora presenti nella biblioteca del Centro La Salle;8 come dice Elio D’Aurora nella nota critica citata, “altri lavori sono fiori di campo sbocciati in una giornata di sole, i cui petali strappati dal vento degli anni sono finiti nel fuoco delle comunità o nel dimenticatoio” (pag 196).

L’opera di Fratel Basilio André 1. Manuale di Filotea ossia Scala del Paradiso, per cura del religioso André Fr. Basilio delle Scuole Cristiane, 3ª edizione arricchita e migliorata,

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Elio D’Aurora in Rivista lasalliana, 1993 n. 2, alle pagine 192-193 riporta gustosi episodi che attestano la venerazione e l’affetto di Don Michele Rua per il suo maestro delle elementari. Mantenne con lui rapporti costanti e – nonostante i disagi dei viaggi di quei tempi – si recava a trovarlo a Vercelli, e fr. Basilio contraccambiò quelle visite essendo ospitato a Valdocco quando raggiungeva Torino per il Capitolo annuale dei Direttori. Anche il libro più importante di fr. Basilio, il Manuale di Filotea, fu stampato a spese di don Rua nella tipografia di Valdocco. 7 Ci permettiamo una considerazione personale: fr. Basilio André ha seminato così copiosamente ed ha ricavato frutti così gratificanti svolgendo la sua attività apostolica in scuole elementari, non dimenticando di seguire spiritualmente gli allievi negli anni successivi. Ciò appare una significativa continuazione dell’impronta data da de La Salle alla sua Congregazione: gli “Ignorantelli” – secondo la definizione Volterriana – erano davvero accompagnati dal sorriso benedicente di Dio! 8 Risultano non presenti, tra i titoli reperiti: - La 1ª e la 2ª edizione del “Manuale di Filotea” rispettivamente del 1886 e del 1889; la 2ª edizione è di 939 pagine arricchita e migliorata rispetto alla prima pubblicate dalla Libreria Sco-


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Libreria Scolastica Religiosa di Davide Bellavite, Vercelli, 1193 pp. (Torino, 1893 – Tip. Salesiana, stampato nella tipografia di Valdocco a spese e cura di Don Michele Rua, ex-allievo di fr. Basilio). Come è noto, Filotea indica “l’immaginaria anima amante di Dio” della “Introduction à la vie dévote” di S. Francesco de Sales; il titolo della stessa opera è stato esteso in seguito ad altri libri devoti” (Devoto-Oli). Sulla copertina di cuoio del testo di fr. Basilio, fra ricami ornamentali, è sbalzata una Madonna col Bambino, mentre la rilegatura è cartonata, in pelle arabescata, ed il dorso delle pagine è dorato. All’interno di copertina sono raffigurati a sinistra il de La Salle (che sostituisce la figura della Vergine Immacolata delle prime due edizioni) ed a destra, a cornice del titolo, una scala del paradiso che sale dalla scena della Natività alla SS. Trinità attraverso l’Angelo dell’Annunciazione. Sono quindi riportati i giudizi lusinghieri dell’Arcivescovo di Vercelli Celestino, del 9 marzo 1888, e quello dell’arcivescovo Fr. C. Lorenzo, del 29 settembre 1892, che “raccomandano l’opera ai fedeli come istruzione e guida accurata alla pratica della pietà per le anime devote, sottolineandone anche l’utilità per l’assistenza ai divini uffici”. Al prospetto del contenuto succede, in un’intera pagina, la dedica “Alla Regina dell’Universo Madre di Dio e Vergine SS. Immacolata, firmata dal religioso come “Tuo umile servo e devoto”.

lastica Religiosa di Davide Bellavite, ciascuna in 10.000 copie, esaurite in un anno e mezzo. (La seconda edizione si trova nella Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Torino, ed è stata consultata; la 1ª edizione è attestata presso l’Archivio Storico Stefano Fasoli a Sommacampagna (Verona). - “Il Mese di Giugno dedicato al Sacro Cuore, con aggiuntovi il modo di ascoltare la S. Messa, in preparazione alla S. Comunione, ed altre divote pratiche in suo onore”. 1890, pp. 115, edito a Piacenza, Tip. Lit. Fratelli Bertola, attestato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. - “Il Regno del Sacro Cuore di Gesù, ossia ricordo del Mese di Giugno”, edito a Vercelli nel 1895, di pp. 47 edita dalla Libreria Scolastica e Religiosa di Davide Bellavite (tipografia Facchinetti), attestata nella biblioteca diocesana del Seminario vescovile di Biella. - “Doni dei padrini e della madrine ai giovanetti ed alle giovanette cresimandi, ossia l’infanzia avviata pel sentiero della salute” del 1900, pp. 287, edita a Mondovì (Tipografia Vescovile Editrice B. Graziano), attestata nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Della stessa collana del “Mese di marzo”, in quarta pagina di copertina, figurano i seguenti titoli non ancora reperiti: Via sicura del Paradiso, Ricordini di detto mese (marzo), Ricordini di detto mese (maggio), Dono ai comunicandi, Dono ai cresimandi, Dono dei padrini e delle madrine ai giovani comunicandi e cresimandi.


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La prefazione, anonima, riporta le recensioni dei giornali relative alle precedenti edizioni: dell’ “Osservatore Cattolico” di Milano, del “Popolo Cattolico”, del “Pensiero” di Nizza, della “Civiltà cattolica” e della “Metropoli Eusebiana”. Concordemente i recensori ne sottolineano “la completezza per ogni circostanza della vita”, la “saldezza di dottrina congiunta a limpida esposizione”, apprezzandone le “opportune meditazioni alternate a preghiere affettuose e nobilissime, pratiche istruzioni e spiegazioni”. Il contenuto Essendo il libro – dal prezzo non precisato, ma certamente “straordinariamente mite”, come viene segnalato, per favorirne la diffusione – piuttosto ponderoso, sarebbe impresa ardua esporne dettagliatamente le diramazioni delle titolazioni principali. Rivolto alle scuole, ai collegi ed alle famiglie, comprende davvero quanto di più completo si può incontrare in un manuale di pietà che, in più, svolge la funzione di “messalino”, ivi compresi gli uffici dei vespri. Molto probabilmente ogni allievo ne era in possesso, o lo aveva a disposizione, sia per le celebrazioni eucaristiche, sia per le pratiche sacramentali. Le istruzioni e, soprattutto, le riflessioni, che vi sono puntualmente inserite, adempiono perfettamente gli intenti della missione catechistica lasalliana e poggiano su una solida preparazione culturale, teologica e spirituale, trasfusa in una comunicazione limpida e in un suggerimento ardente di preghiera.9 Circa il contenuto e l’impiego complessivo di questi testi si potrebbe concedere spazio ad altre considerazioni, per così dire, collaterali; ad esempio, nella Conduite des écoles del Fondatore si allude alla distribuzione di Rosari10

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Elio D’Aurora, nell’articolo citato su Rivista lasalliana, intitolato “La Filotea, testamento di fede di fr. Basilio André” in cui confuta efficacemente l’accusa di plagio da parte di alcuni “critici” per la somiglianza con l’opera di Mons. Giuseppe Riva, segnala: “La Filotea di fr. Basile André è una miniera, specie nelle considerazioni che egli fa, a commento e a chiosa dei brani evangelici… Egli considera – ad esempio - la morte come un dies natalis, vero giorno di nascita dello spirito, il primo atto pienamente personale”. E ancora: “Oltre tutto la Filotea è anche un regolamento di vita. Si inserisce prepotente la dottrina di San Giovanni Battista de La Salle, di questo santo, vivo, espressivo e meraviglioso in ogni tempo. È curioso, però, notare come tra i tanti inviti a buone letture non indichi la vita del La Salle…; il de La Salle è una meteora nell’elenco dei beatificandi”; e infine: “Fratel Basile si appella alla sentenza di S. Giovanni Crisostomo che dice: “Nihil potentius homine qui orat”: segno evidente che di preghiera se ne intendeva… il suo motto: “Essere severo con me stesso, dolce con gli altri”. È una visione panoramica educativa di lasalliana fonte, un risvolto naturale di benefica fiducia. Si comprende così come abbia potuto immettere nella Filotea un po’ di galateo cristiano, desunto dalla Bienséance e dalla dottrina spirituale del La Salle” (pag. 197-199). 10 “Condotta delle scuole cristiane”, Pomba, Torino 1834, articolo III: “I porta-rosarj andranno a distribuirli a quelli che non sanno leggere, ciascuno nelle file che gli saranno assegnate”.


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durante le funzioni religiose, evidentemente per gli alunni che ancora non sapevano leggere, questi testi si proponevano anche (e non solo, perché non limitati alle funzioni liturgiche) di favorire più consapevolmente la partecipazione al sacrificio eucaristico. D’altra parte, essendo così ampia la raggera degli apporti, oltre ai contributi prettamente liturgici (un anticipo vero e proprio dei “messalini” in auge in tempi posteriori!), il supporto alla istruzione catechistica e al nutrimento spirituale è garantito sia dallo spazio ad essi riservato sia dalla cura loro applicata. A queste domande crediamo fornirà più precise risposte un’indagine – che ci risulta in atto – sull’attività catechistica dei lasalliani in quell’epoca. Secondo l’intento propostoci in questa presentazione ci limitiamo a fornire lo “scheletro” del contenuto dell’opera: pag. 5 – 8: Cose da ricordare spesso. pag. 9 – 33: Esercizio quotidiano del cristiano pag. 34 – 39: La settimana santificata (regolamento di vita cristiana) pag. 40 – 44: Ritiro mensile pag. 45 – 52: Preparazione alla morte pag. 53 – 58: La preghiera pag. 59 – 105: Della Meditazione (con argomenti di meditazione per ciascun giorno del mese pag. 106 – 159: Della Santa Messa: ordinario della messa in latino e in italiano con spiegazioni introduttive di ogni momento; i Prefazi propri dei tempi liturgici (non presenti nelle precedenti edizioni in cui venivano inseriti solo i Vangeli delle domeniche e delle feste con l’aggiunta di brevi riflessioni. pag. 160 – 491: Ufficio proprio del tempo di tutte le domeniche e feste dell’anno e quello proprio dei Santi – che è privo di riflessioni – con la versione in lingua volgare (novità della terza edizione). pag. 491 – 508:Sacramento della penitenza pag. 508 – 538:Sacramento dell’Eucarestia pag. 539 – 586:Vespro delle domeniche, dei santi e delle sante (in latino). pag. 587 – 660:Ufficio delle Beata Vergine Maria pag. 660 – 671:Inni, cantici e sequenze pag. 672 – 936:Pratiche di divozione (con preghiere e inni oltre alla indicazione delle indulgenze). Inoltre è presente una lezione catechistica sul Rosario, a domande e risposte. pag. 936 – 988:Messe e ufficio dei fedeli defunti pag. 989 – 995:I sette salmi penitenziali (in latino) pag. 996 – 1047: Regola del terz’ordine di S. Francesco e ufficio pei terziari (con l’indicazione di alcune novene). pag. 1048 – 1050 La Santa Chiesa e il Sommo Pontefice pag. 1050 – 1063 I fedeli agonizzanti (con preghiere in latino e in italiano)


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pag. 1064 – 1068 La buona morte pag. 1069 – 1081 Della vocazione pag. 1081 – 1090 Regolamento di vita pag. 1090 – 1093 Saggio di biblioteca di cristiana e soda istruzione: comprende libri di pietà, storie edificanti, istruzione religiosa, studi storici. pag. 1094 – 1125 Laudi sacre (in italiano). Il semplice scorrimento di questo “indice” degli argomenti inclusi nel “Manuale di Filotea” di fr. Basilio Andrè comprova la completezza delle risorse di nutrimento spirituale messe a disposizione dei fruitori per conoscere e salire , davvero, la “Scala del paradiso”. E tante anime vi ebbero accesso e furono sospinte dall’insegnamento e dall’esempio di fr. Basilio André. 2. L’Angelo condottiero dei fanciulli alla prima comunione, Manualetto d’istruzione e preghiere, tipografia Litografia Fr.lli Bertola, Piacenza, 1891, pp. 416. Questo libro – dal titolo piuttosto obsoleto ma che indica efficacemente il ruolo di guida dell’Angelo – presenta un’impostazione alquanto originale: è quasi completamente occupato da un dialogo fra l’angelo condottiere e il giovinetto comunicando. Ciò accentua il tono affettuoso e catechisticamente diretto che mira a stabilire un rapporto di amichevole collaborazione per preparare un evento così rilevante nella esperienza spirituale del fanciullo. Dopo la breve lettura iniziale dell’autore, indirizzata a “Cari fanciulli, care fanciulle” (pp. 3 - 4), si dà avvio alla prima parte dedicata all’“apparecchio remoto” e comprendente nove “Trattenimenti”, alcuni dei quali sono conclusi con un “Avviso essenziale”. Con essi si avvia la conoscenza reciproca, si istruisce alla “vera sapienza, sola e vera filosofia”; si mira alla correzione dei difetti e all’acquisto delle virtù; si suggerisce lo spirito con cui accostarsi al sacramento “come se tu dovessi comparire davanti a Dio”; si indicano i mezzi per combattere le tentazioni; si inculca la devozione alla vergine, aggiungendo una “preghiera quotidiana in onore di Maria SS.ma per chi si prepara alla prima comunione”. A conclusione si segnalano “avvisi particolari” pertinenti l’esame di ammissione alla prima comunione e la vigilia della stessa. La seconda parte (pp. 53 – 247) è dedicata a considerazioni sull’Eucarestia che vengono suddivise in trenta giorni, ognuno dei quali deve essere inaugurato da una preghiera indicata all’inizio. Ogni istruzione ricava la fonte ispiratrice da una breve frase tratta dall’Antico o Nuovo Testamento (il ventiseiesimo giorno lo spunto è offerto da un’antifona liturgica); ad edificazione ogni volta si riporta un “esempio” o un “tratto storico”; a conclusione si suggerisce la preghiera indicata il


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primo giorno (che viene seguita dalla formula di una “comunione spirituale” – alla quale viene riservata la riflessione del XXIX giorno, erroneamente stampato come XXIV – siglata da atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione). L’istruzione sull’Eucarestia comprende necessariamente anche il sacrificio della Santa Messa, in cui l’incontro con Cristo induce il comunicando a “vivere della vita di Gesù Cristo, scelto come proprio Maestro da imitare. Sono inclusi gli elementi di preparazione – desiderio, contrizione, fede, speranza, amore, umiltà, purità – come pure vengono denunciati eventuali risvolti negativi – indifferenza, indegnità – per insistere sulle disposizioni migliori per indicare i “segni d’aver profittato della prima Comunione ed invitare alla “Visita al SS. Sacramento”. L’istruzione dell’ultimo giorno è riservata alla “Comunione per viatico”. Questo mese di catechesi racchiude quanto di più completo – didatticamente efficace – che può essere catalogato in un prontuario d’insegnamento, scrupolosamente analitico, che sommi la profondità della preparazione, lo zelo dell’impegno apostolico, il metodo felice dell’istruzione, che possiamo definire prettamente lasalliano. La parte terza (pp. 247 – 414) è dedicata all’“Apparecchio prossimo”. Lo schema ripete quello della seconda parte – preghiera iniziale e conclusiva, citazione biblica, l’esempio (che qui è chiamato “similitudine” – con l’aggiunta di una “applicazione” a mo’ di riflessione e del suggerimento di una “pratica”. L’istruzione riguarda innanzi tutto la Confessione nei suoi singoli aspetti - esame di coscienza, contrizione, proponimento, cattiva confessione, modo di confessarsi – cui seguono diverse preghiere – prima e dopo l’esame di coscienza, fino alla “risoluzione” e preghiera per dimandare la grazia di ben eseguirla” (pp. 291 – 304). La terza parte comprende ulteriori elementi: a) La “Novena preparatoria alla prima Comunione, per ottenere la grazia di farla santamente”, sempre ricalcata sulla metodologia abituale ma con la sostituzione della preghiera conclusiva con “Aspirazioni a N. S. Gesù Cristo nel SS Sacramento”, cioè giaculatorie a mo’ di litanie. Particolare riguardo è riservato alla vigilia della Comunione, avvertendo l’intensificazione dei sentimenti di fede, adorazione, umiltà, contrizione, confidenza, amore, desiderio, riconoscenza e quindi suggerendo i sentimenti “dopo la Santa Comunione”: fede, adorazione, riconoscenza, amore, offerta e consacrazione di se stesso, risoluzione, domanda, orazione al SS Crocifisso. b) Modo per imparare a servire la Santa Messa (riportando le formule in latino). c) Invito per assistere alla Santa Messa.


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d) Modo di assistere alla Santa Messa (col suggerimento di preghiere per ogni momento della celebrazione.11 e) Messa ad onore del SS Sacramento “che può servire di ringraziamento alla S. Comunione”: vi sono indicate preghiere come nel punto precedente. f) Visita a Gesù Sacramentato: vi è riportata una preghiera di S. Alfonso Maria de’ Liguori. g) La domenica a Vespro (in latino). h) Antifone delle Beata Vergine Maria, da dirsi dopo l’Ufficio. i) La Via Crucis. l) Visita alla Beata Vergine Maria: una intensa preghiera da concludere con le tre Ave Maria al cuor dolcissimo di Maria; cui fa seguire il suggerimento: “Se non vi riuscisse di fare ogni giorno quest’atto di ossequio a Maria Santissima, fatelo almeno nelle novene delle sue feste principali. Che dire dopo la lettura di questo libro? Che soltanto un’anima veramente appassionata della preghiera e nutrita di una autentica spiritualità poteva offrirci pagine così ardenti. Pertanto ci è più agevole comprendere come Dio abbia elargito così copiosi frutti a chi si è fatto tramite della Sua voce e della Sua presenza. 3. Nuovo mese di maggio, ossia le feste principali della Gran Madre di Dio, seguito da un manualetto di pietà per i divoti di Maria. Presso Giacomo Arneodo libraio, Torino, 1894, PP. 384. Nella presentazione l’autore afferma: “Sono pochi anni che abbiamo compilato e pubblicato per la stampa un mese sacro alle glorie di Maria SS. prefiggendoci, in tale operetta di stile semplice e facile intelligenza anche all’infanzia, le sublimi ed eroiche virtù di Lei da imitarsi da ogni ceto di persone” (p. 5). L’ “operetta” cui allude non è più reperibile, ma ci resta questa, la prima di altre analoghe, attestanti, tutte, la profonda devozione di fr. Basilio André verso la Madonna. Tramite lei, questo irradiatore di spiritualità comunica e suggerisce i sentimenti che introducono al rapporto elevante dalla vicenda terrena al contatto col cielo.12 Nell’opera gli elementi principali sono tre: a) l’illustrazione delle feste principali stabilite dalla Chiesa in onore della Vergine; b) Il riferimento storico – per ognuna di esse - ad alcuni santuari, opzione preferita, avverte l’autore, “deviando dall’uso generale di riferire qualche fatto miracoloso” (p. 6);

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Ci pare rilevante questo punto, perché, essendo il rito celebrato in latino, i fanciulli potevano seguire in questo modo di “orazione personale” ogni momento nel suo significato pregnante, senza ricorrere ad altro mezzo di partecipazione religiosa. 12 Già la riproduzione, nel frontespizio, dell’immagine di Maria che mostra il Cuore, e le due quartine di un canto che le sottolineano, costituiscono un invito al fervore.


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c) L’indicazione di alcune pie pratiche “le quali possono guidare un’anima a grande perfezione e guadagnarsi il materno affetto di Maria” (ibid.), cui segue il suggerimento di un “fioretto” in relazione alla considerazione del giorno. Riguardo all’ultimo punto l’autore scrive: “Le pratiche pie e i fioretti saranno tanti anelli i quali serviranno, in mano a Maria, a formarci un’aurea catena per tenerci stretti ed a lei legati; saranno, a meglio dire, aurei fiori coi quali la Vergine ci tesserà la splendida ghirlanda che porrà sul nostro capo quando ci presenteremo ai piedi del suo trono” (ibid.). Nella “dedica” affettuosissima,13 firmata dal “povero e meschino vostro figlio ed umilissimo servo”, dopo il riconoscimento delle grazie ricevute “sin dalla tenera età”, egli chiede: “Fate che nel leggere le considerazioni del mese a Voi sacro, commuova la mente ed il cuore di chi legge, ed un raggio di luce soave e penetrante scenda a mutare i cuori e tutti santifichi” (p. 8). Corrispondentemente ai giorni del mese di maggio, trentuno sono le “considerazioni – come le definisce l’autore – offerte, ciascuna siglata, come sottotitolo, da una citazione biblica, e nutrita da pertinenti citazioni di santi. A sigla conclusiva delle “considerazioni”, l’autore aggiunge, come trepidante guida e suggeritore, alcune osservazioni relative alla chiusa del mese di maggio: “Passate la giornata col maggior possibile raccoglimento, visitate qualche chiesa od immagine di Maria, fate qualche elemosina od opera di carità, insomma impiegatelo più santamente che potete, ed intanto ai piedi della sua immagine fate l’offerta del vostro cuore” (ed egli stesso ne stila la formula pp. 289-291); ed ancora suggerisce con formule indulgenziate, tre consacrazioni fatte alla SS. Vergine. I contributi successivi all’opera rispecchiano lo zelo e l’intento dell’autore, teso ad offrire più supporti: • Le novene di Maria (pp. 293 – 306): sono nove; altre, definite “diverse”, sono aggiunte con indicazione delle indulgenze (pp. 306 – 307). • Le sette allegrezze che Maria gode in Cielo (pp. 308 – 309). • Della Santa Messa (in compagnia della SS. Vergine): ne illustra l’eccellenza quindi suggerisce preghiere per ogni momento della celebrazione (pp. 310 – 324). • La Santa Comunione della SS. Vergine (pp. 325 – 337). • Visita a Gesù Sacramentato e a Maria SS. (pp. 337 – 339). • Visita a Maria SS. Preghiera di S. Alfonso de’ Liguori (pp. 340). • Consacrazione di se stesso alla SS Vergine (pp. 341).

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Così si apre l’invocazione: “Cara ed amabile madre di Dio, e Signora nostra Clementissima”.


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• A pag. 342 è riportata una “Orazione efficacissima per implorare il soccorso della SS Vergine, che, chiarisce, attribuita al venerabile de La Salle. • Congregazione della SS Vergine e indulgenze a lei concesse (pp. 343 – 349). • Lodi a Maria SS: diciotto canti, di cui sono riportate solo le strofe, a conclusione dell’opera che, nell’insieme, è un vero inno di lode alla Madonna. 4. L’albero della vita, germogliato nel seno della Chiesa Cattolica, ossia Dono alle Anime amanti della verace loro felicità. Giacomo Arneodo Editore, Torino, 1895, pp. 319. L’autore lo presenta come un “tenue opuscoletto” con cui non intende “che di rendere amore per amore, e fare risalire fino a lui, da cuori più puri e ferventi del nostro, ciò che attingemmo al fonte di Sua infinita bontà” (Prefazione, p. IV). Ed infatti il formato è certamente tascabile (17 x 13 cm), rilegato in cartone nero che porta al centro, in caratteri dorati, la figura di un calice e di un’ostia; la bordatura delle pagine è in rosso. Nel frontespizio corrispondente alla titolazione c’è la figura delle Vergine col cuore trafitto, sotto cui è riportata l’invocazione “Janua coeli”. Il tema principale è costituito da riflessioni e slanci di preghiera dedicati all’eucaristia; il contenuto è suddiviso in due parti. La prima parte (pp. 7 – 256) è didascalicamente suddivisa in 14 capitoli che, nella seconda paginetta che elenca il contenuto, vengono riassunti nell’espressione “Argomenti di somma utilità e peso per la vera felicità temporale ed eterna”. Il primo capitolo, che dà il titolo al libro, è, appunto “L’albero della vita”, siglato dalla citazione dell’Apocalisse 22, 2 e comprende considerazioni dal peccato originale all’“Albero novello della vita piantato dal Signore nel giardino di sua Chiesa”: la croce. I successivi capitoli, sempre arricchiti di citazioni bibliche e di santi, illustrano: Gesù Cristo nella SS Eucarestia un frutto di vita per le anime nostre, guaritore di tutte le piaghe dell’anima, sposo celeste, datosi a noi in forma di cibo e tale da rendere l’uomo simile a Lui nella santa Comunione; le consolazioni e prove nella santissima comunione; l’indifferenza degli uomini per l’Eucaristia; Gesù che con l’Eucaristia è con noi, è il migliore degli amici, è il nostro conforto e sollievo; la vera felicità trova nell’Eucaristia ed assicurata anche nell’ultimo comunione del cristiano. Infine vengono decantate la “meraviglia dell’Eucaristia” (con, nel sottotitolo, “vedi Cornelio a Lapide”), cui segue, in forma di preghiera, un “Epilogo”. La seconda parte (pp. 257 – 316) è presentata come un “Breve manuale dei devoti del SS. Sacramento dell’Eucaristia” e comprende: • Metodo d’assistere alla S. Messa e fare la Comunione contemplando il SS.


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Cuore di Gesù: ci sono preghiere specifiche per i vari momenti del sacrificio eucaristico; Visita a Gesù Sacramentato con orazione annessa; Adorazione ed ammenda a Gesù Sacramentato; Esercizio divoto nel Giovedì Santo, nella festa del Corpus Domini e negli altri giovedì dell’anno; Atto per la comunione spirituale, da recitarsi dopo la visita a Gesù Sacramentato; Comunione frequente; Visita al SS Sacramento e nel tempo della orazione delle quarant’ore.

Una curiosità: nella citata indicazione sintetica del contenuto si aggiungeva “Vespri delle domeniche e della Madonna, ecc. ecc.” mentre questi non sono compresi né nel testo né nell’indice. Probabilmente esigenze editoriali, per contenere il numero delle pagine entro un limite più agibile, ne hanno escluso la stampa. 5. Mese di maggio, sacro a San Giuseppe Patrono delle Chiesa Cattolica, Libreria scolastica e religiosa Davide Bellavite, Vercelli, Tipografia Fratelli Canonica e C., Torino, 1895, pp. 302. Il volumetto, di copertina verde azzurro con un’effigie in tondo di S. Giuseppe con il Bambino Gesù in braccio – riprodotta sul frontespizio interno – allude, nella prefazione, ad un precedente “Nuovo mese sacro alle sue glorie” di cui non resta traccia. Calcolando la data di edizione, esso precede il “Manuale dei divoti di San Giuseppe” del 1900. Ogni giorno del mese di marzo presenta il titolo della “considerazione” – relativa a vicende della vita e alle virtù di S. Giuseppe –, alla quale segue un suggerimento di “pratiche” e l’“esempio” edificante che precede l’indicazione del fioretto. La seconda parte viene intitolata “Manuale di Pietà pei divoti di S. Giuseppe”: essa comprende diverse pratiche, che saranno poi incluse anche nel volume del 1900 definito proprio con questo titolo. Come viene riportato nell’“esempio” del nono giorno, la particolare devozione di S. Giovanni Battista de La Salle per San Giuseppe è stata mantenuta nei secoli dei Fratelli: basterebbe citare le numerose comunità dedicate al nome di questo Santo. Su questa direttiva si mantiene anche fr. Basilio André coi libri scritti riservati a questo santo che egli cita sovente come “Patriarca” e “Patrono della Chiesa Cattolica”. 6. Piccolo mese di maggio. Sunto delle considerazioni sulle principali feste della Gran Madre di Dio, contenute nel Nuovo mese di Maggio. Tipografia Vescov., Edit. B. Graziano, Mondovì, 1898, pp. 200. Come avverte l’autore nella Prefazione (pp. 3 – 4), queste meditazioni “non sono che sunti alquanto estesi di quelle del “Nuovo Mese di Maggio”,


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in cui “è delineata in tanti piccoli quadri la vita della Madre di Dio. Anche i passi evangelici o scritturali, su cui “si poggia ogni considerazione” come “guida per richiamare alla mente, tra giorno, l’argomento e i santi proponimenti concepiti”, come pure il suggerimento di un “fioretto” e della giaculatoria quotidiana, sono ripresi dal testo precedente, al quale l’autore rinvia anche per la novena preparatoria alle feste principali. Si registrano alcune novità relativamente al contenuto14 e, in numero maggiore, agli “esempi” e ai “fatti storici” riportati – tranne due – senza titolo. Fr. Basilio André non è certo stato scrupolosamente preciso nel segnalare le fonti da cui ha attinto un così copioso florilegio, ma il suo intento era non tanto filologico quanto devozionale, quindi gli premeva essenzialmente stimolare ad un fervore sempre più ardente verso la SS Vergine. né è di poco conto constatare la laboriosità da lui incessantemente applicata nella sua missione di apostolato. 7. Manuale dei divoti di S. Giuseppe, preceduto da considerazioni per ogni giorno del mese di marzo a lui sacro. Tip. Edit. Vescov. B. Graziano, Mondovì, 1900, pp. 432. Il volumetto, cartonato, riporta nel frontespizio un’immagine di S Giuseppe aureolato, con uno strumento di lavoro su cui poggia la mano destra e un giglio tenuto alzato con la sinistra; sottostante è l’invocazione “O gran patriarca San Giuseppe, pregate per noi”. Perché questo scritto? L’autore stesso, dopo la “dedica” a mo’ di supplica, ce lo spiega nella “prefazione”: «S. Giuseppe è il Patrono universale della Chiesa cattolica, epperciò d’ogni famiglia, d’ogni individuo; è dunque nostro modello, nostra guida, nostro rifugio; noi dobbiamo dunque studiare con attente e serie riflessioni le sue virtù per imitarle, ascoltare i suoi insegnamenti e metterli in pratica, e farci una chiara, distinta, adeguata idea di sua bontà per eccitarci a maggiormente confidare nella grazia e nell’affetto di lui» (p. 7). Lo schema ormai collaudato nelle opere precedenti, - suddivisione per ogni giorno del mese, considerazioni nutrite di citazioni di santi, esempio – presenta alcune novità: a) un “sunto della considerazione” espediente didattico così motivato: “Siccome tante anime pie, per la natura e la molteplicità delle loro occupazioni, non avranno tempo di leggere tutta la considerazione del giorno, ne abbiamo fatto un breve sunto…” (ibid. p. 8); b) la “preghiera”, non limitata ad una semplice giaculatoria che, comunque, viene aggiunta, come il “fioretto”, al termine.

14 Le pagine conclusive (183 – 198) comprendono la “Messa in onore della SS. Vergine, di cui si specifica che è un “Estratto dal Manuale di Pietà di Fr. Filippo, Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane”.


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Anche in questo testo si riscontrano novità riguardanti gli argomenti,15 le titolazioni, la collocazione e, soprattutto, gli esempi connessi ad ogni considerazione, dei quali vengono sostituiti quelli di riferimento piuttosto vago. La II parte è così presentata dall’autore (prefazione p. 8): “per maggior comodo della anime divote di San Giuseppe, abbiamo aggiunto varie pie pratiche in Suo onore; troveranno dunque un pascolo salutare nelle stesse, ed il modo di assicurarsi il patrocinio del santo Patriarca”. In realtà tali pratiche occupano uno spazio piuttosto ampio (pp. 299 – 428) e sono variegate con alcune aggiunte rispetto al testo precedente del 1895 che segnaliamo. • Messa per la festa di San Giuseppe: testi in latino e in italiano. • Primo vespro: in latino. • I cinque salmi le cui lettere iniziali compongono il nome Joseph (in latino) - Salmi 99 Jubilate; 46 Omnes; 128 Saepe; 80 Exultate ; 86 Fundamenta – seguiti da Oremus e Hymnus. • Messa per la festa del Patrocinio di S. Giuseppe (3ª domenica dopo Pasqua) in latino ed italiano. • Suppliche per triduo o novena al glorioso Patriarca San Giuseppe patrono della Chiesa Cattolica. • Aspirazioni (giaculatorie) al Patriarca San Giuseppe per ciascun giorno della settimana. • Salutazioni a San Giuseppe. • Brevi litanie di San Giuseppe (in italiano). • Vespro della domenica (in latino) • Vespro della Madonna (in latino) • Te Deum (intitolato “Inno dei santi Ambrogio ed Agostino). • Il “Miserere” ed il “De profundis”. Certamente i “devoti” del nostro tempo hanno a loro disposizione altre forme di sostegno e di suggerimento, ma non si può non riconoscere in questo testo di fr. Basilio André quanto dell’autentico “dettato” della Chiesa è trasmesso e messo a disposizione del credente per alimentare uno spirito di pietà che coinvolga interamente la propria vita: a questo scopo, incentivante la pietà, ha dedicato fondamentalmente ogni suo tempo libero dalle occupazioni del suo servizio nella comunità e nella scuola. 8. Il mese di maggio, sacro a Maria, Madre di Dio, seguito da un metodo per ascoltare la Messa e fare la comunione in compagnia di Maria SS., dalla visita a Gesù sacramentato ed a Maria, Cenno sulle Congregazioni di Maria, Lodi a

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Tra queste novità, alla vigilia del primo giorno è posto l’argomento “motivi della nostra devozione a S. Giuseppe”, cui seguono le “pratiche di pietà in onore di S. Giuseppe nel mese di marzo ricompensate”.


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Maria, ecc. Opera premiata all’esposizione di Arte Sacra di Torino 1898. Con licenza ecclesiastica,Stabilimenti Bentziger & Co. S. A., Editori tipografi della Santa Sede Apostolica in Einsiedeln, Svizzera, 1900, pp. 512. Il contenuto di questo nuovo libro dedicato alla Madonna – copertina cartonata di cm 12,5 x 7,5 – è così riassunto nella parte principale nella “Prefazione” che succede alla “dedica” sempre espressa in calda preghiera: “1) Vari fasti della gran Vergine Maria; 2) le ammirabili ed eroiche sue virtù; 3) Le Sue grandezze; 4) Il suo patrocinio e la devozione di cui Ella è oggetto (p. 8). Egli stesso, poi, motiva le frequenti citazioni introdotte nelle meditazioni: “Poiché tutti i Dottori e Padri della Chiesa santificarono la lingua e la penna, parlando e scrivendo di questa gran Madre, così procureremo che alcuni dei loro sublimi, mirabili concetti diano un quotidiano alimento ai divoti affetti che debbono infiammarci il cuore per Lei” (p. 9). Ormai conosciamo lo schema seguito dall’autore: titolo della considerazione siglato da una citazione evangelica o biblica, l’adduzione di un esempio edificante,16 la chiusura caratterizzata dal suggerimento di un “fioretto” (due volte chiamato “ossequio”) e di una giaculatoria. Occorre dire che questo testo presenta notevoli differenze rispetto all’opera analoga del 1894: solo tre titoli, pur riferiti a giorni diversi, coincidono, mentre gli altri – precedentemente riferiti soprattutto a santuari mariani – sono ricalcati solo in due casi. Ciò conferma l’indefesso impegno dell’autore nel promuovere la devozione mariana. Precedono la serie dei giorni un “invito” e alcune “istruzioni sul modo di passare il mese di maggio (pp. 11 – 22), col suggello di un mottetto – “Salve, o Maria SS.” – e di “ossequi da estrarsi a sorte sin dalla vigilia del 1° maggio e da praticarsene uno in ciascun giorno del mese”; quindi riserva un capitolo alla Vigilia per illustrare i “caratteri della divozione a Maria” completato dall’esempio di S. Giovanni Berchmans, da una “risoluzione”, una “massima” ed una giaculatoria. La “cerniera” dei giorni del mese, che si era aperta con la vigilia, si conclude col “Giorno di chiusa” che comprende: “Due parole all’anima amante della Vergine Maria; l’esempio di una guarigione miracolosa (agosto 1886 a Poggio di S. Lorenzo, Rieti) narrata da un maestro elementare che ne fu oggetto; un “ossequio”. Le aggiunte successive ricalcano quanto già inserito nell’’edizione del 1894 con qualche lieve differenza: l’esclusione della novena per la festa della Natività di Maria; la specificazione di “beato” per il de La Salle nella sua 16

L’autore specifica “…un racconto ad onore di Maria, ed avemmo cura di non asserire nulla che non fosse autentico o narrato da persona autorevole”. E noi crediamo alla sua parola anche se egli – affatto preoccupato degli scrupoli filologici – raramente puntualizza il riferimento alle fonti.


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“Orazione efficacissima”; un maggior numero di “Lodi a Maria SS.” (18 invece di 10) con la breve aggiunta, a conclusione, di una “aspirazione a Maria Vergine della Visitazione”. 9. Il vero conforto dell’anima in vita e nel punto di morte. Tipografia editrice Vescovile, Mondovì, 1905, pp. VIII – 264. L’ultima opera di fr. Basilio André è incentrata su Gesù Sacramentato: egli si propone, come specifica nella “prefazione”, di addurre “una serie di argomenti atti a penetrarvi della grandezza del divin Sacramento, a disporvi a fare buone e sante Comunioni sacramentali e spirituali, essendo l’Eucaristia il primo ed il più eccellente mezzo per ottenere le più abbondanti grazie” (pp. VI – VII). Le considerazioni sull’Eucarestia sono inaugurate da una riflessione sulle “circostanze relative all’istituzione dell’Eucaristia”, anch’essa, come sempre ricorrenti, siglata da una citazione evangelica, e seguita dall’esempio “La presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia in Lanciano”. Ricalcando l’efficace metodo didattico-catechistico, sono riportati 29 argomenti di meditazione corredati parallelamente da esempi titolati. Chiude il testo un ultimo capitolo, evidenziato dalla diversa impaginazione, così intitolato: Breve manuale pei divoti del ss. Sacramento dell’Eucarestia, (pp. 243 - 261). Comprende una “Istruzione breve sulla santa Messa molto utile a leggersi”, seguita dall’esempio tratto dalla vita della Venerabile suor Francesca Farnese: questo è riassunto in poche righe, mentre viene aggiunto un’infervorata meditazione che verte sulla Santa Messa. Abbiamo percorso e conosciuto queste opere di fr. Basilio André. Quali sentimenti hanno suscitato? Di ammirazione per un Educatore ardente di zelo che ha accompagnato la sua missione con la trasmissione di contenuti spirituali profondamente coltivati, misticamente partecipati, fervorosamente ed efficacemente trasmessi. Di riconoscenza per averci messi a contatto di un’anima “semplice”, forse anche così “ingenua” da sembrare un poco estranea ai nostri tempi iperrazionalizzanti, ma autenticamente capace di “stupore” di fronte ai prodigi della grazia di Dio a favore degli uomini: è uno dei “piccoli” a cui è promesso evangelicamente il regno dei cieli. Di conferma dell’importanza e della preziosità del dettato del de La Salle per l’istruzione e l’educazione dei fanciulli, elementi primi della costituzione di credenti autentici della comunità ecclesiale. Di soddisfazione per aver potuto usufruire del prodotto del lavoro di un “apostolo” che, fra le tante attività registrate nella sua vita, ha inteso anche raccogliere i frutti delle sue ricerche, riflessioni, manifestazioni di pietà e di devozione, in libri che certamente, tramite parole seminate su vari terreni, hanno garantito esiti benedetti dal sorriso di Dio.


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ESPERIENZE

IL CENTRO UNIVERSITARIO “VILLA SAN GIUSEPPE” ANTONIO IANNACCONE

“Q

uanto vale la tua parola da uno a dieci?”. Questo l’enigma cui l’avventuroso diciannovenne che decidesse di mettere piede dentro “la Villa” deve dare risposta per entrare. Molti cadono. E la sfinge in questione, il direttore Fratel Igino, non ha pietà quando questo accade. “Nove”, si accinge ad esempio a rispondere il giovane, facendo in tempo reale una media tra il suo essere bravo-ragazzo e la precarietà della carne umana. “Bene”, risponde la sfinge illudendo il malcapitato, “nove è un ottimo numero. Tanto è vero che sono sicurissimo che, se la tua lei ti dice ‘voglio stare con te’ e poi una volta ogni dieci va col tuo compagno di banco, tu sei ampiamente soddisfatto della sua fedeltà media”. E questo è all’incirca il modo con cui ogni candidato riceve il marchio di ingresso che segnerà tutta la sua nuova vita in Villa. Già, perché, consapevole o no, lo studente che mette piede qui, nella residenza per universitari “Villa San Giuseppe”, credendo di entrare in un semplice edificio, fa in realtà il suo ingresso in un mondo, e un mondo molto poco simile a quelli da lui fino a quel momento conosciuti. Esagerazione? Al lettore l’ardua sentenza. Dunque, la Villa, vista da fuori, è certamente tutto quello che direbbe un serio volantino informativo: una residenza universitaria torinese in un bel sito precollinare, diretta dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Assume la forma attuale nel 1961 (anche se dal 1877 è casa di ritiro dei fratelli per gli studenti) per ospitare i pellegrini del Centenario dell’unità d’Italia e si converte l’anno successivo in studentato. Oggi, 2 fratelli (Fr. Igino e Fr. Alessandro), centosettanta studenti provenienti da tutta Italia e una decina di appassionati collaboratori continuano a fare vivere questa strana creatura, questa sorta di vivace mondo che viaggia felicemente controcorrente. Però, tutto ciò dice poco tendente al nulla, per cui, per capire di che cosa stiamo parlando, seguiamo l’avventura di un aspirante “villico” (questo il nome assunto dal partecipante alla vita in Villa), cominciando dai primi vagiti.


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ESPERIENZE

Antonio Iannaccone

In principio Dicevamo che in principio era la parola. Dello studente. Tanto che gli si chiede un impegno concreto, su punti specifici che riguardano il “sentirsi responsabili del Centro Universitario, sia sotto il profilo morale che culturale e disciplinare”, come recita il terzo punto del regolamento. E già qui siamo in presenza di un cambiamento non da poco, per l’aspirante universitario. I mondi che il giovane normalmente ha attraversato fino a questo momento sono quelli dove vige la parola dei genitori, dei professori, dei compagni (e questa è la dittatura più tremenda che esista, si dà letteralmente l’anima per un giudizio benevolo dei coetanei), della tv, della cultura strisciante, eccetera (e anche quando pomposamente si dà la parola “ai giovani”, in realtà viene data ad una massa manovrabilissima, come dimostra la perfetta omologazione delle manifestazioni studentesche). Così, si immagini l’imbarazzo dell’aspirante villico, quando, nasone prorompente e sguardo fisso nei suoi occhi, si trova davanti un omone nero con facciole bianche il cui unico interesse è la “sua” parola, quella vera e unica di lui, ometto da sempre abituato a eseguire fedelmente la parola d’altri o, magari, peggio, a rispondere a bacchetta alla parola più facile di tutte, quella dell’istinto. Già perché quel che si coglie subito è la sensazione, che nel tempo diventerà sempre più forte e certa, che “qui non si scherza”, che davvero è così: gli occhioni del Fratello che attendono la tua voce unica rimarranno lì a guardarti a lungo, anzi non ti molleranno più. Insomma, la quasi-matricola sente di entrare in un mondo in cui, inaspettatamente, la sua piccola voce comincia a muovere tutto un complesso di cose, che diventerà nel tempo sempre più grande e decisivo. Tutto ciò, non senza contraccolpi, come dimostra la prima tappa della vita villica del nostro.

La settimana rossa Non è semplice spiegare a se stessi il perché, all’alba di un giovedì mattina, uno che voleva solo essere ingegnere o letterato, si ritrovi vestito di un sacco di iuta a trainare una quadriga romana in stile Ben Hur; oppure, a dimostrare la sua fedeltà alle alte cariche, legato a un guinzaglio prima di correre a quattro zampe dietro a una volpe. Ma tant’è: non ci vuole molto tempo per accorgersi che, inesorabilmente, tutta una macchina apparentemente oliata alla perfezione per umiliare te, nuova recluta, inizia ad organizzarsi durante quei giorni che vengono chiamati “settimana rossa”. Tanto per cominciare, c’è una rigida gerarchia goliardica che regge le fila del gioco: al vertice sua santità il pontefice, circondato dal suo collegio cardinalizio; più giù i vescovi; poi la schiera dei moschettieri, vere e proprie guardie della curia; infine il popolo. Guide femminili e aiutanti dei vertici sono poi le vestali. Fuori dal consesso, infinitamente più in basso, stanno le matricole, che devono dimostrare di essere degne di entrarvi. Poi, c’è un’organizzazione meticolosa dei fatidici giorni: dal rito dell’elezione del nuovo papa (con tanto di conclave), alla manifestazione pubblica del medesimo per le vie di Torino (con tutto


Il Centro Universitario “Villa San Giuseppe”

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il popolo festante al seguito, matricole vestite di sacco comprese), fino alla prova del fuoco del giovedì per i nuovi arrivati. In teoria, non parrebbe il massimo della maturità e responsabilità il fatto di obbedire e riverire, in ogni santo momento del giorno, ad ogni minimo cenno di una schiera di papaveri che ha in mano le tue sorti. E però, cosciente o no che uno ne sia, rimane intatto il fatto iniziale: gli occhi sono puntati su di me, sull’immonda matricola, e attendono davvero la mia voce. Magari per seppellirla di intimidazioni semi-serie, ma quel che resta è che la mia parola “conta”. Tanto è vero che il gran finale è la festa della matricola, in cui d’incanto scompare tutta la settimana rossa, tranne i due elementi fondamentali: la centralità dei nuovi arrivati e la loro partecipazione a una comunità viva e per questo ordinata, strutturata.

Un piccolo mondo “fuori” dal mondo Due elementi, questi ultimi, che cominciano a dare l’idea della peculiarità del piccolo mondo villico rispetto al “mondo grande” circostante. Nella normalità della vita, infatti, in generale i nuovi sono perfettamente rispettati nella loro autonomia, intangibili e tenuti rigorosamente alla periferia del gioco dal manovratore. Nel mondo villico, invece, il manovratore non rispetta per nulla l’indipendenza dei neo-arrivati, li provoca (fino alle torte in faccia magari) e si dona per una settimana anima e corpo al fine di annullare tutte le distanze con loro e metterli al centro della vita comunitaria. Per capirsi, dove si trovano tanti pazzi tutti insieme che giocano una settimana del loro tempo gratuitamente per mettere un gruppetto di sconosciuti al centro della scena? E poi, un secondo elemento, che è ancora più visibilmente in controtendenza rispetto all’opinione comune e che, in più, pare anche contraddittorio rispetto all’importanza dei nuovi venuti appena proclamata: la gerarchia. La vita nel centro universitario è organizzata, infatti, secondo una struttura di responsabilità che riprende la struttura goliardica vista sopra. “Ma come, nel pieno della giovinezza e della libertà, ti intruppi in un collegio - per di più ‘gerarchizzato’ – invece di svolazzare allegramente in un appartamento?” dice la vox populi. In realtà, la stranezza percepita non è tanto nella gerarchia in sé (tutti si adeguano a un’organizzazione costruita in vista di un’utilità, succede quasi in ogni tipo di lavoro), ma nel fatto che questa sia per qualcosa di totalmente gratuito, tanto da essere magari anche una distrazione rispetto alla mera utilità (fare esami) dello studente. Insomma, la cosa difficilmente masticabile per il “mondo grande” è una gerarchia nel luogo meno comodo, ovvero nell’intimo del mio tempo libero, e con lo scopo meno utile, la centralità di alcuni sconosciuti. Ma allora, a guardar bene, quel che sorprende i più (e spesso molesta, diciamolo), in comunità come quella di Villa San Giuseppe, non è la gerarchia, quanto piuttosto la serietà di questa strana banda di collegiali nel perseguire tutti insieme (e quindi con un’organizzazione) quel bene gratuito che invece normalmente si concepisce - se si concepisce - come iniziativa individuale, come sentimento di un momento.


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Antonio Iannaccone

Il cuore della Villa Siamo arrivati al dunque, infine, al cuore del “segreto” di questa bella realtà che è la Villa: la gratuità. Quella vera, non quella di un momento, magari condito da una parola fugace che poi cade nell’oblio. Dovesse esserci un’insegna all’ingresso del collegio, io credo reciterebbe: “La gratuità è una cosa seria”. Detto altrimenti, tutta la vita del centro universitario si potrebbe riassumere nel costante invito a cercare e creare la vera bellezza, che come tale è gratuita. Come argomenta senza fronzoli Fr. Igino: “Un bacio dato gratuitamente è amore, un bacio dato per soldi è prostituzione”. Ed è visibile a chiunque metta piede in questo piccolo mondo anche per poco tempo l’autentico vortice di iniziative - gratuite, neanche a dirlo - create e portate avanti dagli studenti: dai corsi per le matricole alle attività caritative per gli anziani e i bambini, dai giornali universitari (cui è successo di proseguire la vita anche dopo il tempo villico) alle trasmissioni radiofoniche, dai numerosi corsi informatici ai circoli letterari e poi la cura del bosco, della biblioteca, del bar e molte altre. Le riunioni del lunedì (una conferenza di un ospite illustre su un tema di cultura, società, religione) e del martedì (di organizzazione e formazione) sono poi gli appuntamenti fissi e obbligatori per tutti, i quali scandiscono la vita di comunità e sono l’occasione per trasmettere quelle suggestioni che poi, nella libertà di ciascuno, possano divenire realtà concrete e stabili nel tempo.

Infine Dicevamo che in principio era la parola dello studente. Abbiamo cercato di dire come questa nel tempo sia stata inizialmente presa sul serio, poi provocata nella settimana rossa, poi stimolata nella vita di ogni giorno e infine come essa abbia eventualmente deciso di diventare realtà creativa di bellezza. Tutto questo sempre “coi piedi per terra”, senza dimenticare l’utile dello studio, ma mettendo quest’ultimo al servizio di uno scopo più alto che il pane quotidiano del singolo, cioè il pane della bellezza gratuita. Rimane ancora un passaggio proposto al nostro villico ideale, che abbiamo seguito dall’inizio del suo viaggio, una domandina semplice semplice e che sta dietro ad ogni respiro del collegio: perché tutto ciò? Qual è la Bellezza vera, con la maiuscola, che ci percuote e ci attrae in ogni bellezza con la minuscola che cerchiamo, che creiamo? Senza questa domanda – ovvero senza il fatto culturale, decisivo per essere fino in fondo uomini - e senza un’attenzione vera alla Risposta, il cammino sarebbe bruscamente interrotto, senza ragioni, non umano. Ma la Risposta c’è e c’è come un fatto della storia. La Bellezza è diventata carne, l’uomo Gesù di Nazareth, che ha afferrato lungo i secoli altri uomini, cambiandoli per sempre e facendo sì che potessero, ad esempio, dar vita a un mondo eccezionale come quello che vi abbiamo raccontato.


Rivista Lasalliana 79 (2012) 2, 271-276

SCUOLA DELL’INFANZIA: PERCORSO DIDATTICO DI EDUCAZIONE SCIENTIFICA A cura del Dirigente e dei Docenti della Scuola dell’Infanzia “M. Montessori” (2° Circolo Didattico “De Amicis” di Pozzuoli - NA) esperienza in cui ci siamo cimentati è consistita nell’allevamento di bachi da seta, la falena Bombyx mori, a partire dalle uova. I bambini hanno osservato tutto il ciclo vitale dell’insetto, che presenta metamorfosi completa e perciò passa dallo stadio di larva a quello di pupa prima di assumere la forma adulta. Abbiamo intrapreso un percorso didattico di educazione scientifica basato sull’investigazione secondo il metodo IBSE (Inquiry-Based-Science-Education), un percorso finalizzato alla costruzione graduale di idee e di significati mediante una comprensione che si accentua e si fa più profonda in parallelo con lo sviluppo psico–fisico dei bambini. Durante questo percorso durato otto settimane i bambini, oltre a manipolare oggetti, sono stati guidati a raccogliere dati e a formulare ipotesi, a verificarli e a riflettere sulla loro interpretazione, realizzando in tal modo una vera e propria indagine scientifica in miniatura.

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“Quando pensavo al futuro pensavo ad una scuola in cui si potesse apprendere senza annoiarsi e si fosse stimolati a porre problemi e a discuterli, una scuola in cui non si dovessero sentire risposte non sollecitate a domande non poste.” Questa frase del famoso epistemologo Karl Popper ci è sembrata particolarmente adatta per esprimere la validità del metodo IBSE, un metodo che dopo la fase della motivazione prevede la progettazione e la conduzione di un’indagine scientifica durante la quale si susseguono, in una continua circolarità, le seguenti fasi: pianificare e progettare, implementare, organizzare ed analizzare dati, trarre conclusioni provvisorie, formulare nuove domande.


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È fondamentale che i bambini si avvicinino al mondo della natura con senso critico e con spirito di ricerca, progettando, formulando domande, analizzando dati, cooperando tra loro e condividendo con gli altri le competenze acquisite. Lo scopo ultimo è quello di sviluppare in loro uno spirito scientifico ed una coscienza ecologica ed ambientale, ma anche, fin dalle prime fasi della loro formazione, porli in condizione di “imparare ad imparare”, di elaborare metodi di apprendimento, strategie di costruzione delle conoscenze trasversali a qualsiasi campo disciplinare, che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali. Sviluppando con i bambini questo percorso si è dunque favorito e stimolato l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo; del linguaggio verbale, per comunicare e sostenere efficacemente idee e posizioni; della rappresentazione simbolica delle esperienze in maniera sempre più condivisibile con gli altri, ordinando ed esercitando il sapere attraverso un impiego attivo e costruttivo delle proprie energie personali.

Comincia l’avventura! La confezione contenente le uova dei bachi inviateci dal C.R.A., l’Unità di Ricerca di Apicoltura e Bachicoltura di Padova, è finalmente arrivata e viene ora mostrata a vari gruppi di bambini di tre, quattro e cinque anni: lo scopo è quello di creare un clima di curiosità e di attesa … Raccontiamo loro che il postino ha portato una busta gialla indirizzata agli alunni della “Montessori” e, su pressante richiesta dei bimbi, la apriamo: contiene una lettera e delle strane cartine con sopra dei puntini neri. Leggiamo la lettera nella quale certi “signori di Padova” scrivono di aver inviato un regalo speciale e che invitano i bimbi a conservare con cura il contenuto della busta e ad aspettare perché nei prossimi giorni sicuramente accadrà qualcosa … I bambini esaminano le cartine con le uova e molti, reduci da esperienze di semina, affermano che si tratta di “semi piccolini”. Altri, sempre sulla scorta di un’esperienza precedente, sono sicuri che abbiamo a che fare con “uova di insetto stecco”. La supposizione più fantasiosa è avanzata da una bimba di tre anni, probabilmente influenzata dall’incipit “postale” che abbiamo dato all’attività: “È un francobollo!”. Anche l’osservazione con la lente d’ingrandimento non fa che confermare ai bambini la forma di “puntini” senza risolvere l’enigma dello strano dono …

Tenere d’occhio la situazione! Il quesito significativo e motivante che viene espresso dai bambini e fa da sfondo al percorso è: “Cosa sono questi puntini?”; e soprattutto: “Come facciamo a scoprirlo?”. Nell’ambito del metodo IBSE le domande che l’insegnante tenta di far


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scaturire dal gruppo classe, dal piccolo gruppo o dal singolo, giocano un ruolo cruciale: solo le domande giuste, le cosiddette “domande produttive”, sono infatti in grado di far procedere il lavoro nella giusta direzione incoraggiando i piccoli a riflettere su come trovare le risposte. In questo caso entra poi in gioco un elemento nuovo, difficile da accettare per bambini così piccoli, naturalmente orientati al fare, al toccare, a misurarsi con la realtà concreta coinvolgendo tutti i sensi: occorre aspettare del tempo, controllare spesso se cambia qualcosa, in altre parole osservare con sistematicità. Nella settimana successiva tutti i giorni i bambini controllano il contenuto delle scatole di cartone nelle quali sono state messe la cartine con le uova, senza registrare nessuna novità, ma continuando a mettere a confronto preconcezioni e misconcezioni, formulando ipotesi, imparando ad ascoltare e a prendere in considerazione le opinioni dei compagni. Ed ecco che proprio quando la loro capacità di attendere stava per esaurirsi … la natura è arrivata in soccorso di noi maestri!

Una grande scoperta! Grande agitazione intorno alle scatole: la stragrande maggioranza delle uova si è schiusa! “Ci sono piccolissime formiche!”, “No, sono vermetti neri!”, “Tanti puntini sono diventati bianchi”, “Quelle nere sono uova piene, quando diventano bianche il vermetto è uscito”, “Ma questi vermetti mangiano?”, “Ce l’hanno la bocca?”, “Per forza, altrimenti muoiono!”, “Che cosa diamo loro da mangiare?” Alla fase esplorativa, durante la quale i bimbi hanno avuto l’opportunità di familiarizzare con il fenomeno da studiare, è seguita infatti una fase conoscitiva, dove i bambini, proprio come dei piccoli ricercatori, si sono posti domande, hanno formulato ipotesi ed hanno problematizzato l’esperienza. Si è giunti poi ad una fase di analisi e di sintesi in cui hanno associato ciò che hanno sperimentato con ciò che hanno scoperto e compreso, ciò che avevano ipotizzato con ciò che è realmente accaduto, sviluppando competenze e acquisendo delle abilità specifiche. Alla fine i piccoli hanno condiviso le esperienze vissute con i genitori e gli altri compagni. E poi, di nuovo da capo, con la progettazione di nuove esperienze. È questa la struttura dell’indagine scientifica secondo il metodo IBSE.

Un problema da risolvere: che cosa diamo loro da mangiare? I bimbi provano con foglie varie ed altri alimenti, per concludere che ai vermetti piacciono solo le foglie dell’albero dai frutti rossi che abbiamo in giardino. Usciamo tutti insieme a procurarci le foglie di gelso, così si chiama, ci spiega un piccolo botanico molto sicuro del fatto suo, perché: “Sta pure nella campagna di nonno!”.


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I bimbi triturano finemente le foglie perché i vermetti neonati mangino, preparando “una specie di pappina come quella per i bimbi molto piccoli”. Comincia così una fase molto gratificante per i bambini, che sono ben lieti di occuparsi dell’accudimento dei piccolissimi esseri in cui si sono trasformati quei “puntini” che ora hanno finalmente un nome: si trattava di uova! Ma le trasformazioni a cui i bambini assisteranno saranno molte altre, e li metteranno nella condizione di dover rivedere spesso, via via con sempre maggiore disponibilità ed apertura, le supposizioni che fioccano intorno agli scatoli di cartone …

Osservare con gli occhi e con la lente I bambini osservano i sensibili cambiamenti nei loro “vermetti,” che ogni giorno riforniscono di tenere foglie di gelso: “Certo che sono cresciuti!”, “Quanto si muovono!”, “Hanno come dei buchetti sulla pelle”, “Alzano la testa”, “Strisciano”, “Alcuni sono più grandi: sono nati prima!”, “A cosa gli servono tutti quei “peletti” che hanno addosso?”. Nasce un’importante domanda: ”Che fine fanno le foglie che mangiano?” La domanda “Che fine fanno le foglie?” è un’altra domanda cruciale che ha permesso di avviare i bambini alla comprensione che i viventi sono sistemi aperti, attraversati da continui flussi di materia e di energia. Le foglie che mangiano si trasformano in vermetti: è questa una prima conclusione a cui giungono insieme bambini e insegnanti.

Una nuova casa I giorni passano ed i bambini sono colpiti dalla voracità e dalla crescita veloce dei bruchi: “Dobbiamo mettere sempre più foglie, non bastano mai!”, “Stanno stretti nello scatolone, si vogliono arrampicare.”, “Mettiamoli in una casa più grande.” Nelle gabbie i bambini notano molti escrementi ed esuvie. “Quanta cacca che fanno!”, “Cosa sono queste “pellicine” (le esuvie)?, “Forse sono animaletti morti?”. Le larve, nutrendosi voracemente, diventavano sempre più grandi, per cui per dare loro uno spazio più adeguato alle loro dimensioni vengono allestiti, insieme ai bambini, dei contenitori ancora più capienti utilizzando alcune grosse gabbie per uccelli rivestite da una leggera rete di tulle nelle quali i bambini dispongono verticalmente rametti di gelso su cui le bestiole possano arrampicarsi. Nella vecchia scatola trovano, oltre agli escrementi, altre pellicine “strane”. Sotto la guida dell’insegnante scatta in qualcuno un’ipotesi interessante: “Ho capito, è la pelle dei vermetti: la cambiano come fa il serpente! Per diventare più grandi escono dalla pelle! Ma quanto cresceranno ancora? Diventeranno giganteschi?” Spontaneamente la discussione si incentra sul concetto di sviluppo; la loro


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crescita continuerà all’infinito o si arresterà a un certo stadio? Il concetto di vivente si allarga così a comprendere, in modo intuitivo, importanti aspetti come la crescita, lo sviluppo e la conservazione, nel breve periodo, di uno stato stazionario.

Osservare allo stereomicroscopio I bambini isolano un vermetto in uno scatolino trasparente e lo osservano allo stereomicroscopio: “Quanto sono grandi!”, “Ora hanno una bocca grande, non c’è ‘più bisogno di tritare le foglie”,“C’è un puntino sulla testa”, “C’è anche una specie di corno”, “Il musetto sembra un muso di cane”, “Il culetto sta qua dietro, c’è un codino sopra”, “Hanno zampette piccole”,“Sembrano proprio bruchi” “Hanno tre zampette sotto la testa e quattro sotto il corpo”. L’osservazione al microscopio rivela aspetti inediti della struttura delle larve. L’iniziale meraviglia dei bimbi va indirizzata verso una maggiore comprensione della loro struttura. Sullo sfondo un altro concetto chiave della biologia: quello del rapporto tra struttura e funzione.

Una comparsa inattesa: i bozzoli Dopo circa 40 giorni dalla schiusa le larve incominciano a trasformarsi in bozzoli: “Guarda: c’è una ragnatela bianca un poco trasparente intorno a qualche vermetto”, “Cosa sono questi batuffoli di ovatta?”, “I bachi dormono nell’ovatta?”, “Esce un filo dalla bocca”, “Guarda qua: c’è come un uovo appeso al ramo”,“Non è un uovo, non esce dal culetto, esce dalla bocca”, “A me sembrano nidi bianchi”, “Sono fatti di ovatta”, “Mi sembra un bocciolo”. Tutto ora si gioca sui due concetti antitetici di continuità / discontinuità: i vermetti non ci sono più e al loro posto si osservano dei batuffoli di ovatta. Diventa cruciale far intuire ai bambini che si tratta dello stesso essere vivente che ora sta attraversando uno stadio diverso.

Una prodigiosa trasformazione … Due bambini danno il grande annuncio a compagni e maestri: “Sono nate le farfalle! I bachi si sono trasformati in farfalle! “Qui c’è una farfallina! Eccone un’altra, un’altra, Quante!!!” In questa fase ricchissima di interrogativi i bambini sono stati stimolati ad osservare:“Ha le ali piccoline”, “Non è colorata!”, “Ha due piccole antenne nere”, “È un poco bruttina”, “Ma lo sai che sembra un vermetto con le ali?”, “Dalle palline di ovatta bianca sono uscite tante farfalline, sono uscite da un buchino, questo qua!”. Si è conclusa così, con un’ultima, sorprendente trasformazione, un’esperienza sicuramente complessa e diluita nel tempo, ma di grande fascino per


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i bambini che hanno avuto modo di cogliere in tutte le sue fasi il ciclo vitale completo di un organismo vivente, vivendo da protagonisti un’esperienza che rimarrà scolpita nelle loro menti. Senza accorgersene i bimbi si sono confrontati con una serie di concetti chiave delle scienze naturali, l’organismo come sistema, i flussi di materia che lo attraversano, i concetti di crescita e sviluppo e quelli solo apparentemente contrapposti di omeostasi e trasformazione. Hanno inoltre iniziato a sviluppare competenze come la capacità di lavorare in gruppo, di osservare (che è diverso dal semplice guardare), di raccogliere dati, di argomentare, di presentare i risultati agli altri in modo semplice.

Alcune considerazioni Fondamentale in tal senso è stata l’adesione della scuola al Progetto Fibonacci dell’Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturali che ha il suo primo centro Pilota nella Stazione Zoologica “Anton Dohrn” (Napoli). Il Progetto ha lo scopo di diffondere nella scuola italiana la didattica IBSE, un approccio all’insegnamento ed all’apprendimento delle scienze che ha come scopo finale la costruzione graduale di significati, di idee e concetti mediante una comprensione che si fa sempre più profonda man mano che gli studenti crescono. È per questo che si è cercato di rispettare le modalità di apprendimento dei bambini della scuola dell’infanzia, rispettando i tempi di ciascuno, incoraggiando e sostenendo l’attività nel piccolo gruppo: ogni bambino ha potuto così esprimersi nella certezza di essere preso in considerazione e di poter provare e sbagliare senza giudizi negativi da parte dei pari o degli insegnanti, ma piuttosto intuendo il valore e la “positività” dell’errore. Il percorso realizzato, proponendosi di promuovere nei piccoli un atteggiamento di rispetto per gli animali e la natura in genere e, al contempo, un atteggiamento corretto verso quella che, pur nella sua semplicità ed immediatezza, può a buon titolo definirsi un’indagine scientifica, è apparso particolarmente riuscito perché ha permesso ai bambini di vivere l’incanto di una visibile, tangibile, ma strabiliante e autentica magia: le fasi di un ciclo vitale! Con questa esperienza la scuola ha partecipato al Progetto Nazionale promosso da GOLD INDIRE “L’educazione scientifica nella scuola di base” risultando terza sul territorio nazionale. Il “progetto” che si è concluso con la realizzazione della multimedializzazione dell’esperienza, visibile all’indirizzo: http://gold.indire.it/goldvideo2/watch2.php?v=M2DPT0GZ


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FR. ALVARO RODRIGUEZ ECHEVERRIA, Consacrati dal Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sottopongono al giudizio di Dio il loro ministero. Lettera Pastorale, Roma, 2011. A Natale 2011, Fratel Alvaro Rodriguez Echeverria, Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane, ha indirizzato ai confratelli l’annuale “Lettera Pastorale”. Ispirata alle Meditazioni per il tempo del Ritiro del Fondatore, Giovanni Battista de La Salle, il Documento invita i Religiosi lasalliani a “confermare la vicinanza fraterna ai ragazzi ed ai giovani” nella missione educativa. L’Autore, alla luce delle Meditazioni 205 e 206 del La Salle, approfondisce la riflessione teologica sul ministero dell’educatore cristiano, “cooperatore dell’opera di Dio”, “dispensatore dei suoi misteri”, “amministratore” dei talenti, ricevuti gratuitamente da Dio e al quale dovrà renderne conto. Fratel Alvaro propone una pacata e articolata analisi sul giudizio di Dio nella storia della salvezza, partendo dalla constatazione che ogni persona rifugge dall’idea di dover rendere conto delle proprie faccende private (relazioni familiari, obblighi professionali, interesse per il bene comune, dedizione agli altri…), a causa di un individualismo esasperato. E, in tal modo, si rischia di compromettere un principio basilare della fede cristiana: l’attesa della seconda venuta di Cristo, giudice dei vivi e dei morti. Il Superiore lasalliano fonda le sue argomentazioni alla luce della Parola di

Dio: nell’Antico Testamento Dio rende giustizia a coloro che sono abbandonati, emarginati, indifesi. Egli si erge a difensore del povero, dell’orfano e della vedova (Dt 10, 18; Sal 76, 10; Sal 82, 3; Sal 103, 6; Sal 140, 13; Gb 36, 6); nel Nuovo Testamento, specialmente nei Vangeli sinottici, il giudizio viene presentato, con accenti apocalittici, come piena attuazione del Regno di Dio; il Vangelo di Giovanni, invece, evidenzia ripetutamente che Gesù è venuto al mondo non per condannare ma per salvare. In vista del giudizio di Dio, Fratel Alvaro sottolinea come per il De La Salle non è possibile separare nella vita del Fratello delle Scuole Cristiane ciò che riguarda la dimensione della sua vita personale e quella del servizio ministeriale dell’educatore, cioè non si può fare differenza tra gli impegni della missione e quelli della propria santificazione: la vita spirituale è l’anima di ogni apostolato (Med 137, 3; Med 205, 2). La Salle non mette in contrapposizione visione mistica ed azione profetica; non fa distinzione tra vita interiore e doveri del proprio stato, tra fede e zelo, perché entrambi si fondono nell’autentico spirito evangelico, nel quale la fede si traduce nella pratica di un amore appassionato. Secondo il La Salle, l’educatore incarna mistica e profezia, passione per Dio e per l’umanità, in perfetta unità e totale integrazione. Parafrasando l’immagine paolina dell’amore di Cristo per la Chiesa, Giovanni Battista de La Salle applica lo stesso rapporto tra l’educatore cristiano


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e i suoi alunni (Med 201, 2): egli deve amare i fanciulli e i giovani come Cristo ama la sua Chiesa (Med 205, 2). La Lettera pastorale, riprendendo un’idea-forza di S. Paolo (1 Co 4, 1-2), prosegue con l’invito agli educatori cristiani a prevenire il giudizio di Dio, per poterlo, poi, sostenere senza timore (Med 205, 1), attuando i mezzi per vivere pienamente la missione educativa come alleanza con Dio: a) la donazione totale agli altri, b) l’attenzione verso i più bisognosi e lontani dalla salvezza, c) la ricerca del bene comune. Si tratta di mettere in atto un discernimento che nasce dalla fede profonda, dalla speranza incrollabile, da un amore incondizionato, che si traduce in zelo ardente. Il Superiore Generale ripropone ai Religiosi lasalliani due mezzi, raccomandati dalla tradizione spirituale di tutti i tempi: la revisione di vita e la correzione fraterna. Nell’ottica lasalliana, la revisione di vita consiste nel guardare alla vita da una prospettiva di fede, con gli occhi di Dio, tenendo conto del suo disegno salvifico e della sua realizzazione attraverso il ministero comunitario. Per Fratel Alvaro, infatti, una delle più grandi sfide per i Religiosi lasalliani resta quella della “fraternità” (essere più “fratelli”), per aiutare i nostri simili ad essere più umani, essendo lo stile fraterno delle relazioni un anticipo della città futura ed un riflesso della vita trinitaria. La sentenza del giudizio divino, dunque, dipende da noi. Per la Chiesa, il carisma lasalliano è quello di evangelizzare attraverso la educazione (Med 140, 2). Nella Meditazione 206, il de La Salle, come in un crescendo, ci indica tre mezzi essenziali per educare evangelizzando: l’istruzione (Med 206, 1), con una particolare attenzione verso coloro che sono in maggiore difficoltà (Cfr. Med 80, 86, 128, 137, 176, 190) la vigilanza (Med

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206, 2), cioè la dimensione della responsabilità pastorale a tutto campo (Med 197, 3) e l’intenzione, che ci deve animare, cioè l’intima comunione con lo Spirito di Gesù (Med 206, 3), che si traduce in fede attiva e zelo ardente (MR. 195, 2). L’intenzione comprende anche il fine dell’apostolato dell’educatore lasalliano: procurare la gloria di Dio (Med 90, 3). Fratel Alvaro ricorda che nella vocazione dei Fratelli educatori è centrale la chiamata all’amore condiviso per i giovani (Med 80, 3). In questa logica, risulta del tutto pertinente l’invito del 44° Capitolo Generale ad essere Fratelli “dagli occhi aperti e dal cuore appassionato”. Nell’ultima parte del Documento, il Superiore Generale dei Fratelli lasallianicondivide alcune esperienze di fedele amministrazione dei talenti e dei doni ricevuti da Dio (Med 205, 1) per il servizio educativo e per l’evangelizzazione dei giovani. In particolare porta ad esempio: a) l’iniziativa delle scuole San Michele degli USA, in favore dei figli delle famiglie immigrate; b) il progetto di pastorale vocazionale denominato “L.T.I.P.” (Lasallian Teacher Immersion Program), al quale partecipano studenti di tre Università lasalliane. Gli allievi vivono in comunità e durante i loro studi trascorrono periodi di riflessione, formazione e discernimento; ogni anno, poi, compiono un’esperienza missionaria in Guatemala; c) il programma, chiamato “Dall’altra parte”, realizzato da giovani delle istituzioni lasalliane che desiderano condividere la condizione esistenziale degli immigrati. Fratel Alvaro, infine, si sofferma a tratteggiare la vita di alcuni Fratelli, vere icone lasalliane del nostro tempo, in particolare quella di San Miguel Febres Cordero, ecuatoriano, nel centenario della sua morte (1910-2010), che ha vissuto pienamente la sua vocazione di Fratello educatore e catechista.


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La Lettera Pastorale termina con un pensiero grato ai Fratelli anziani che, nel ricordo dei tanti fanciulli e giovani ai quali hanno dedicato la loro vita, continuano la missione salvifica affidata loro dal Signore, con la loro fedeltà alla preghiera e alla testimonianza evangelica. Donato Petti SILVANO FAUSTI, S.J. VINCENZO CANELLA, F.S.C. - Alla scuola di Marco. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2004, pp. 335. - Alla scuola di Matteo. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2007, pp. 592. - Alla scuola di Luca. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2009, pp. 614. - Alla scuola di Giovanni. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2012, pp. 512. I quattro volumi sono frutto di una collaborazione, apparentemente insolita, ma feconda, tra un teologo specialista in spiritualità biblica e un Religioso (Fratello delle Scuole Cristiane), insegnante di materie scientifiche di scuola secondaria. Entrambi hanno letto gli stessi testi, prima in modo autonomo e poi dialogando e hanno conferito al libro, a livello di redazione finale, una fisionomia accattivante e unitaria. La ricchezza e la densità dei testi hanno indotto gli Autori a una lettura commentata che fa “parlare” i singoli Vangeli organizzando la narrazione e guidando la riflessione secondo il metodo antico (e sempre nuovo) della lectio divina. Il commento ai quattro Vangeli si presenta in testo agile (pregevole la cura tipografica dell’editrice Àncora), di lettura facile e gradevole, ricco di suggestioni. Una sobria introduzione presenta ogni volta i tratti salienti del Vangelo preso in esame (datazione, destinatari,

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originalità, scansione) e guida il lettore ad una lettura integrale, viva, coinvolgente. Ogni pericope, breve e ben strutturata, si apre con il testo (per Luca e Giovanni nella nuova traduzione della CEI). Sotto il titolo Strumenti per capire si trovano una serie di note riferentesi, versetto per versetto, alla pericope presa in esame. Esse si caratterizzano per essenzialità, semplicità, chiarezza, e sono corredate di numerosi rimandi a passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, con particolare sottolineatura di quelli più significativi, con la raccomandazione di leggerli per avere una visione completa del contenuto e del senso del brano esaminato, e specialmente per non far dire al Vangelo quello che non dice. La sezione Piste di riflessione suggerisce soste di ampio respiro per interiorizzare e confrontare con il proprio vissuto, il messaggio offerto dalla Parola, letta e capita. La riflessione introduce alla preghiera - Suggerimenti per pregare - che cala la pagina del Vangelo nella realtà personale e comunitaria affinché da quella tragga luce e dinamismo. I punti di sospensione in coda all’ultimo suggerimento sollecitano la partecipazione attiva del lettore perché, chiuso il libro, apra davvero il cuore e la mente al colloquio con il Signore: vero punto d’arrivo, esercizio che ciascuno farà da sé. I quattro volumi, per il loro taglio didattico, possono essere utilizzati per gruppi giovanili che si propongono un cammino biblico serio ma largamente accessibile, come supporto in un’esperienza di lectio divina comunitaria o individuale, o ancora come stimolo e arricchimento culturale per chi è in ricerca. Si tratta di libri per molti aspetti stimolanti, la cui lettura e meditazione richiede un certo impegno, che però viene ampiamente ripagato dall’arricchimento personale che ne deriva. Essi sono uno strumento essenziale, rivolto


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a chiunque guidi la catechesi per Laici e Religiosi o voglia pregare la Parola in modo sempre più approfondito. L’ultimo volume (“Alla scuola di Giovanni”) presenta pure, nell’indice, l’occorrenza liturgica delle singole pericopi secondo il Rito Romano e secondo quello Ambrosiano. R.L. FILM 12 Regia: Nikita Mikhalkov. Cast: Nikita Mikhalkov, Sergei Makovezkij, Michail Efremov, Sergei Garmash, Viktor Verzhbitsky, Aleksei Petrenko, Valentin Gaft, Yuri Stoyanov, Sergei Gazarov. Remake di La parola ai giurati di Sidney Lumet, un cult del cinema statunitense, la trasposizione di Mikhalkov presentata a Venezia nel 2007 e candidata all’Oscar come miglior pellicola in lingua straniera - ci porta nella Russia moderna con un ritratto spietato della sua variegata realtà sociale. “12”, per chiarire il titolo, sono i protagonisti del racconto - interpretati e diretti magistralmente - in cui il Nikita mette a nudo fragilità e ipocrisie di diversi aspetti del suo paese, la cui ambientazione è a circa venti anni dal crollo del regime comunista. Ma ovviamente il riferimento è molto più universale. Il film è un classico del cinema russo, un esemplare apologo su temi etici fondamentali e sulle virtù, tanto che in uno dei quattro incontri organizzati dal Serra Club al Quadrivium di Genova, (novembre 2011/maggio 2012) dedicati ad altrettante virtù cardinali nell’ambito del ciclo “Educare alla vita buona”, programma culturale sollecitato dalla Conferenza Episcopale Italiana, il film 12 viene riproposto per approfondire e riflettere la virtù della giustizia. Tutto parte con l’accusa di parricidio nei confronti di un giovane ceceno.

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L’impianto accusatorio propende inequivocabilmente per la colpevolezza dell’imputato. L’arma del delitto è infatti un coltello molto particolare: e si sa almeno da parte dei russi - che l’uso del coltello è un’arte che i ceceni apprendono dall’infanzia. In sostanza, la colpa più grave dell’imputato è proprio di essere ceceno: non a caso in una magistrale sequenza di flash back il giovane supplica la madre: “Non parlare ceceno, non parlare ceceno!”. Poi, come un basso continuo, la voce della pubblica accusa: “Signori della giuria, voi sapete quanto sia grave il crimine commesso, voi avete per tre giorni esaminato il corpo di reato, ascoltato testimonianze e arringhe, avete preso visione di tutti i materiali, voi sapete quanto sia grave il crimine commesso, se sposate la tesi della pubblica accusa, aldilà di ogni dubbio, dovete decidere se l’imputato sia colpevole o no. Si chiede la condanna alla pena capitale secondo il corrispondente penale”. I giurati vengono invitati a svolgere il loro lavoro chiusi in una palestra di una scuola adiacente al tribunale. Bastano 20 minuti per decidere! Bisogna fare in fretta, prima che cominci la ricreazione! I personaggi si differenziano per età e per professione, per esperienze e visione del mondo. Tra questi: un artista (lo stesso Nikita Mikhalkov) che ricopre l’incarico di presidente della giuria; l’amministratore delegato di una grossa azienda (Sergei Makovetsky), l’unico fin dall’inizio a schierarsi a favore dell’innocenza dell’imputato, e il cui voto di non colpevolezza costringerà gli altri a discutere per ore. Dapprima refrattari, gli uomini col passare delle ore si convincono sempre di più che lo sviluppo del processo non è stato affatto convincente. La varia umanità della giuria è composta da un autista di taxi intollerante e razzista, che chiama “selvaggi” tanto i ceceni quanto gli ebrei; un ebreo intellettuale che certo non condivide certe espressioni; così


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come non lo è il chirurgo ceceno che si considera russo a tutti gli effetti, senza però rinnegare il suo retaggio caucasico; un rampollo di Harvard la cui famiglia possiede un canale televisivo modaiolo; un uomo di spettacolo con il cruccio di non essere mai preso sul serio. Il regista accompagna lo spettatore dentro il suo animo, scoprendo finitudini e grandezze, limiti e possibilità, e lui, Nikita Mikhalkov, silenzioso osservatore, presidente della giuria ascolta ed osserva tutti gli altri, intervenendo solo alla fine ed inserendo un elemento tanto nuovo quanto deflagrante. In un continuo oscillare tra violenza e virtù, odio e amore, dubbio e certezza, l’autore cerca di scuotere l’indifferenza dello spettatore, portandolo a riflettere sui temi trattati. Una novità rispetto al copione originale è l’inserimento della mafia russa, che nulla deve invidiare alle altre mafie. I giurati si rendono conto che il ragazzo ceceno è finito nel bel mezzo di una operazione “poco pulita” in forte odore di mafia, dando agli elementi emersi un significato ed una connotazione decisamente diversa. Se infatti i giurati optassero per l’innocenza del giovane e uscisse di galera, finirebbe nel mirino della mafia che l’ha incastrato, quindi paradossalmente un verdetto garantista comporrebbe una condanna a morte sicura. La responsabilità in senso lato, dunque, è un elemento che si innalza dalla storia squisitamente giudiziaria e si riallaccia alla situazione russa che da sempre sta a cuore al regista. Durante tutto il film nella stanza vola un piccolo uccellino rimasto imprigionato nell’ambiente. Quello che sem-

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bra un semplice elemento scenografico svela la propria valenza nel finale, quando uno dei protagonisti, il fisico, apre una finestra e si rivolge all’uccellino: “Vuoi volare via? Vola, sei libero. Se vuoi restare resta pure. La decisione è tua, nessuno può decidere per te.” L’uccellino spicca il volo e nell’inquadratura successiva, in esterni, dapprima intimorito, scompare nell’immensità del cielo azzurro; è libero. È come se Mikhalkov si rivolgesse ai propri connazionali invitandoli a scegliere da quale parte stare: possono andarsene se vogliono, volare via, ma se restano ognuno deve fare la propria parte ed assumersi le proprie responsabilità. Infine, il fisico, interpretato dall’attore Sergej Makovetskij, il giurato che per primo aveva incrinato l’impianto accusatorio votando a favore della non colpevolezza, tornando nella palestra oramai vuota, si riprende una piccola icona raffigurante la Vergine con Bambino di Wladimir, si tratta di una icona molto venerata in Russia. Attraverso questo affidamento alla Vergine, il regista ci vuole testimoniare che i soli ragionamenti umani se non sono sostenuti dalla grazia e dalla misericordia non bastano, si incagliano negli scogli della superficialità e dell’indifferenza. Ma sotto la prospettiva della fede tutto si riveste di nuova luce. Il Film è una riflessione sulla vita attuale, sulla necessità di prestare ascolto a chi ci vive accanto e ad aiutarlo prima che sia troppo tardi. Alberto Di Giglio



SEGNALAZIONE LIBRI

Area biblico-teologica A. ANGHINONI, Lea e Rachele. Le sorelle rivali, Edizioni S. Paolo, Milano 2012, pp. 64. e 9.50. BENEDETTO XVI, La gioia della fede, San Paolo, 2012, pp. 192. e 9.90. B. FORTE, Perché il vangelo può salvare l’Italia, Rizzoli, Milano 2012, pp. 140. e 15,00. A. PLANTINGA - R. DI CEGLIE, Dio esiste: perché affermarlo anche senza prove, Rubbettino Editore, 2012, pp. 135. e 10,00. Area filosofica F. AGNOLI, Scienziati, dunque credenti, Cantagalli, 2012, pp. 185. e 14,00. D. ANTISERI, P. MANICHEDDA, S. TAGLIAGAMBE, La libertà, le lettere, il potere, Rubbettino Editore, 2011, pp. 166. e 13,00. D. ANTISERI, G. PANIZZA, Il dono e lo scambio, Rubbettino Editore, 2012, pp. 87. e 10,00. V. POSSENTI, Nichilismo giuridico. L’ultima parola?, Rubbettino Editore, 2012. e 18,00. Area psicopedagogico-didattica A. ALIBERTINI, Traguardi di gloria. Storie a cinque cerchi, Edizioni S. Paolo, Milano 2012, pp. 128. e 13,00. N. BALLABIO – A. BERGAMINI, Sguardi sulla scuola. Guida pratica per genitori che vogliono accompagnare il cammino scolastico dei figli, Ancora, Milano 2012, pp. 206. e 14,00. L. FERRAROLI, Adolescenti trasgressivi forse, cattivi no, Edizioni S. Paolo, Milano 2012, pp. 240. e 14,00. S. FRIGATO, Buoni cristiani e onesti cittadini. La forza educativa della dottrina sociale della Chiesa, Elledici, Aprile 2012, pp. 64. e 7,00. L. GUGLIELMONI – F. NEGRI, Lo sport per la vita. Come risultare vincenti senza arrivare primi, Edizioni S. Paolo, Milano 2011, pp. 250. e 14,50. A. INCORVAIA – S. MORIGGI, School Rocks! La scuola spacca, Edizioni S. Paolo, Milano 2011, pp. 224. e 12,00. C. MAZZA – F. NEGRI, Come fuoco e vento. Percorsi per adolescenti appassionati, Edizioni S. Paolo, Milano 2012, pp. 125. e 13,00. G. PIETROPOLLI CHARMET – L. CIRILLO, Adolescenza. Manuale per genitori e figli sull’orlo di una crisi di nervi, Edizioni S. Paolo, Milano 2010, pp. 384. e 15,00.


G. PELOSI, Kuore < 3. La scuola ai tempi dell’iPhone, Ancora, Milano 2012, pp. 158. e 13,00. A. MELI, Introduzione alla comunicazione umana, Libreria Editrice Vaticana, 2011. e 15,00. ALESSANDRO RICCI, Famiglia tra risorse ed emergenza. Un percorso educativo, Elledici, Torino 2011, pp. 192. e 12,00. STEFANO PARTANI, Figli di chi? Quale futuro ci aspetta, Ancora, Milano 2012, pp. 448. e 19,00. Area pastorale e spirituale V. ALBANESI, I tre mali della Chiesa in Italia. Ritrovare il futuro, Ancora, Milano 2012, pp. 180. e 16,00. V. BOCCI, Comunicare la fede ai ragazzi 2.0. Una Proposta di catechesi comunic-attiva, Elledici, Torino 2012, pp. 256. e 15,00. S.E. CARD. PAUL JOSEF CORDES, Benedetto XVI ispira i nuovi movimenti e le realtà ecclesiali. Il punto della situazione teologico-pastorale, Libreria Editrice Vaticana, 2012. e 11,00. F. COSI – A. REPOSSI, Sulle tracce di S. Agostino. Da Genova a Pavia. Guida pratica e spirituale, Ancora, Milano 2012, pp. 160. e 17,00. M. DAL BELLO, Raffaello. Le Madonne, Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 95. e 15,00. F. M. DEBROISE, Indagine su Maria. La rivelazione dei mistici sulla vita della Madonna, Mondadori, Milano 2012, pp. 245. e 18,50. P. DANUVOLA – M. FIORONI, La famiglia. Il pane e la gioia. Lavoro e festa con gli occhi di un ragazzo, Editrice In dialogo, Milano 2012, pp. 76. e 9,50. V. PAGLIA - F. SCAGLIA, Cercando Gesù, Piemme, Milano 2012, pp. 350. e 17,50. F. RIZZI, Il vangelo secondo Manzoni, Fede e cultura, Verona 2012, pp. 112. e 12,00. M. RONCALLI, Giovanni Paolo I. Albino Luciani, Edizioni S. Paolo, Milano 2012. e 34,00. G. SCANAGATTA - S. PAOLUZZI, Etica e sport, Libreria Editrice Vaticana, 2012. e 10,00. A. SCOLA - A. CAZZULLO, La vita buona. Un dialogo sulla Chiesa, la fede, l’amore, la vita e il suo senso, Mondadori, Milano 2012, pp.136. e 15. A. SOCCI, La guerra contro Gesù, Rizzoli, Milano 2011, pp. 448. e 19,90. C. TAYLOR, Una religione “disincantata”. Il cristianesimo oltre la modernità, Edizioni Messaggero Padova, 2012, pp. 80. e 7,50. L. VIOLONI, La sfida educativa di Gesù, Edizioni S. Paolo, Milano 2011, pp. 166. e 12,00.


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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti Liberi di scegliere Francesco Trisoglio S. Ignazio d’Antiochia, araldo dell’unità Edwin Artega Tobòn La espiritualidad del educador lasaliano hoy Gabriele Di Giovanni Gli orientamenti pastorali della C.E.I. interrogano il mondo lasalliano Dario Antiseri Come favorire la creatività Marica Spalletta Contro il “professorese” Bérnard Pitaud La spiritualité du Bieneureux Nicolas Roland Sergio De Carli Pavel Florenskij e la scuola Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera Antonio Iannaccone Il Centro Universitario “Villa S. Giuseppe” (Torino) Scuola dell’Infanzia “M. Montessori” (Pozzuoli - NA) Percorso didattico di educazione scientifica APRILE - GIUGNO 2012 • ANNO 79 – 2 (314)



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