Forward. Numero 29 - 2023 Confini

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Con ni

Sono tanti

i con ni e ognuno dovrebbe essere inteso come un orizzonte: il bello è andare a scoprire la diversità e la contaminazione.

www.forward.recentiprogressi.it
Il Pensiero Scientifico Editore

In questo numero

4 Con ni, con itti e contaminazioni: GIANNI TOGNONI

12 Muri che proteggono, muri che dividono: LA TIMELINE

14 Con ni e frontiere: LUCIANO DE FIORE

Con ni e orizzonti, identità

7 Una nuova s da per Agenas: FRANCESCO ENRICHENS

8 Dividersi la tutela della salute: MASSIMO BORDIGNON, GILBERTO TURATI

9 Più disuguaglianze, meno diritti: ANTONIO PANTI

Autonomia di erenziata: un

26 Regole condivise per tutelare la salute: MARINA DAVOLI, WALTER RICCIARDI

28 Logiche diverse ma obiettivi comuni: FRANCESCA PATARNELLO

Pubblico e privato: con ne

32 La sicurezza dei farmaci in Europa: ROSA GINI

34/35 Medici stranieri e burocrazia: FILIPPO ANELLI, AODI FOAD

36 Valore soglia e valore limite: NERA AGABITI

Limiti e barriere nella

15 Voci di con ne, tra passato e presente: ELISA TASCA

18 La cucina di con ne: FABIO AMBROSINO

29 Oltre il con ne, il diritto individuale alla salute

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Spazi
di oltre con ne,

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e di erenze

Un orizzonte o un limite?

Il gruppo di lavoro Forward si è lanciato ancora una volta nell’esplorazione di una nuova parola che potrebbe avere un importante impatto sulla medicina del futuro: “con ni”. In questo caso però il tema può essere associato a diverse accezioni, in alcuni casi limitanti (con itti) o al contrario s danti e di progresso (contaminazione).

Paese diviso?

In e etti ogni con ne può essere visto come un orizzonte da superare, e ogni limite un obiettivo da raggiungere. Ma ciò che divide può rappresentare un ostacolo e un collo di bottiglia. Ad esempio, molte delle procedure a cui gli operatori sono obbligati durante la normale assistenza e cura del paziente nascono dal tentativo di assicurare una migliore e cienza e sicurezza degli interventi; nonostante ciò quante volte invece sentiamo presentare queste attività come un’inutile burocrazia? In questo senso la raccolta dei contributi che troverete in questo nuovo numero di Forward vuole o rire come al solito diversi punti di vista.

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Al di là della teoria la storia recente ci obbliga in modo molto pragmatico a ragionare sulla ride nizione dei con ni decisionali di diversi attori importanti per la sanità nel nostro Paese: il ruolo centrale e periferico degli organi che governano la nostra salute (Ministero, Regioni), le responsabilità rispetto ai pazienti di più operatori sanitari (medico, infermiere, ecc.), la governance di istituzioni che stanno ridisegnando la propria organizzazione interna (Ministero, Aifa).

Un altro con ne è quello tra pubblico e privato. Purtroppo sono ancora poche le occasioni di interazione tra questi due settori, quando invece da una contaminazione reciproca potrebbero nascere le idee migliori per la presa in carico della salute dei pazienti. Un motivo in più per sfogliare questo nuovo supplemento di Forward

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29 Contatti al con ne, con l’ascolto reciproco: VIVIANA RUGGIERI 30 Convergenze di interessi e di valori: NOEMI PORRELLO uido in sanità?
margini
42 La vita di provincia: NICCOLÒ FALSETTI 43 Il con ne è dove capisci che le cose son legate: HANNE ØRSTAVIK
salute pubblica
e incontri
La mappa dei diritti: MAURIZIO BONATI 20 Le guerre ci salveranno?: PIROUS FATEH-MOGHADAM
Il parere del paziente e quello del medico: RENATO LUIGI ROSSI Arginare il dolore: ANTONELLA CAMPOSERAGNA

Con ni, con itti, contaminazioni: come interpretare queste parole nel mondo di oggi?

Le parole “confini”, “conflitti” e “contaminazioni” sono termini profondamente ambigui, nel senso che possono significare tutto e il contrario di tutto. A partire dagli anni Novanta ci si è abituati a pensare che queste parole avessero perso la loro importanza, perché si è introdotta e imposta progressivamente come termine onnicomprensivo la parola “globalizzazione”, che si autoproclamava arbitrariamente, nel linguaggio e nella pratica, come definizione ufficiale di una realtà di fatto indefinibile. Valida sia per le persone sia per le merci: per le persone mirava esplicitamente, senza strepito, per non destare resistenze, a sostituirsi alla logica dell’universalità dei diritti umani della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948; per le merci e i mercati coincideva di fatto con la dichiarazione di un nuovo ordine, confini e frontiere dovevano ridefinirsi in modo da essere funzionali alla libera circolazione di ciò che si doveva vendere-comprare in un mondo nuovo, che aveva bisogno di una qualifica che ne dichiarasse l’autonomia, l’immunità, l’impunibilità rispetto al diritto universale delle persone e dei popoli. La logica e il linguaggio della globalizzazione impongono un nuovo vocabolario: i conflitti possono e debbono essere qualificati e normati come “concorrenza”; gli unici confini che contano sono quelli dei contratti proprietari, privati e pubblici, della sempre più importante “proprietà intellettuale” o della vecchia ma sempre più invadente “estrazione di valore” in una realtà che mira a rinnovare il tempo delle colonie; la creatività delle contaminazioni che avevano scritto la storia della civiltà umana viene degradata a essere folklore da riconoscere nella misura in cui arricchisce e favorisce gli scambi. La globalizzazione nasce per un artificio definitorio dall’alto: dichiara pericolose le parole che mantengono la visibilità alle tante diversità che evocano, quasi confuse con la minaccia di terrorismi, il diritto delle minoranze, i progetti in cui il diritto deve rispondere a scelte responsabili degli umani di un dato territorio, e non può obbedire a regole emanate dai poteri di turno. La globalizzazione ha bisogno di inventare muri di qualsiasi tipo, e confini che siano espressione e garanzia di separazioni inviolabili di interessi. Bauman parlava della liquidità come indicatore della novità del mondo e della sua civiltà, ma mai come oggi i muri di qualsiasi tipo (economici, fisici) sono diventati la regola che nessuno può infrangere. Le tre parole da cui si è partiti definiscono dunque un vivere in tempi di profonda transizione, necessariamente confusa, in cui esplicitamente alcune delle categorie che erano state considerate acquisite sono messe in discussione. Su tutte il diritto: nei suoi confini di competenza, e ancor più di direttività condivisa tra le parti in causa.

Intervista a La parola “con ni” può avere dunque accezioni positive o negative. Per esempio, l’identità di un popolo si fonda anche sui con ni: io sono italiano perché vivo all’interno dei con ni italiani. In questo senso annullare i con ni è davvero una soluzione?

La cancellazione della definizione rigida di confini come segnali di separazione e di comunicazione controllata in termini di cittadinanza era stata una delle caratteristiche più importanti dell’Unione europea. Nei primi anni Novanta i trattati di Schengen – con tutti i limiti che avevano – in un certo senso eliminavano i passaporti e quindi i confini. In antagonismo a quello che accadeva in molte parti del mondo dove negli stessi anni si rafforzava la necessità del passaporto per le persone ma si introduceva, quanto sopra si è ricordato, il “non confine” per le merci. In Europa ci si era evoluti da Unione economica a Unione europea degli Stati e dei rapporti dei loro popoli: l’Europa rappresentava ancora una frontiera aperta nella interpretazione del diritto. La storia-memoria dei confini tragici della seconda guerra mondiale,

CONFINI, CONTAMINAZIONI

La globalizzazione ha bisogno di inventare muri di qualsiasi tipo, e con ni che siano espressione e garanzia di separazioni inviolabili di interessi.

e della guerra fredda, erano venuti meno. Oggi la nostra civiltà interpreta i confini da un lato come libera circolazione, dall’altro come giustificazione dell’espulsione. La parola “senza confini” è la parola dei diritti umani, sarebbe molto importante se la dignità delle persone prevalesse su tutte le altre interpretazioni. È la grande sfida, in fondo, che pongono ogni giorno i migranti. Perché mai il diritto deve discutere se questi sono umani. I migranti sono i soli per i quali l’omicidio non è considerato un delitto. E in una storia dell’Europa – e degli altri Stati democratici – dove si discutono all’infinito e senza nessun piano di pace perfino le guerre guerreggiate (non solo quella ucraina) con bilanci impensabili in termini di armi di ogni tipo, non si riesce né si vuole neppure mettere all’ordine del giorno la priorità di un vero e proprio popolo, quello dei migranti, che è di fatto l’espressione più autentica e di futuro di quella che dovrebbe essere una civiltà della inclusione e della sostenibilità umana: i migranti sono di fatto il popolo senza confini né frontiere di razza, di colore, di cultura, di religione di cui è fatto il mondo globale. La non soluzione – e peggio la negazione formale del popolo dei migranti come misura di civiltà e la sua repressione come crimine impunito contro l’umanità – di questo nodo di confini, frontiere, contaminazioni coincide con una scelta, senza se e senza ma, di inciviltà e non-democrazia

Sono tanti i con ni e ognuno dovrebbe essere inteso come un orizzonte: il bello è andare a scoprirne la diversità e la diversi cazione.

Gianni Tognoni Tribunale permanente dei popoli
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I con ni da un lato possono essere zone di con itto, dall’altro zone positive di contaminazione tra popoli. Anche in questo caso, dunque, una doppia accezione della parola con ne…

La diversità è uno dei grandi motivi di ricchezza e per anni è stata la protagonista delle generazioni che diventavano adulte nel periodo della prima globalizzazione. È molto bello scoprire la diversità e poter scegliere tra tante cose. Il problema è che tutto questo oggi viene messo sotto il giudizio di una logica economica che ha come suo dogma intoccabile un termine che è parte integrante della cultura attuale dei confini: sostenibilità. Si può fare ciò che si può pagare. Cosa saggia, se letta in

Come si applica tutto ciò alla sanità, in Italia ma non solo?

È forse difficile oggi avere memoria, ma la sanità è nata, nella Dichiarazione universale e nella nostra Costituzione, come uno degli indicatori più immediati della democrazia sostanziale, di un universalismo vissuto non come dichiarazione soddisfatta di principi, ma come ricerca e sperimentazione permanente. Se si perde questa memoria, qualsiasi speranza di una sanità a misura umana è pura chiacchiera. I Lea o Lep condividono tutte le ambiguità delle parole che si sono discusse fin qui. Segnano confini e frontiere. Se le persone reali, portatrici di bisogni e fragilità inevase, sono considerate nei fatti

CONFLITTI, CONTAMINAZIONI

Tutto è cambiato. Per guardare avanti con ottimismo servono nuove de nizioni

un contesto di diritti universali. Ma se il contesto è quello della diseguaglianza crescente, trasversale e invasiva, fino a fare della povertà assoluta una parte importante del vivere, la contaminazione non è creazione di innovazione ma condivisione di strategie di sopravvivenza, restrizione di spazi di libertà. Solo la classifica di “umano” è senza confini e ha bisogno di contaminazioni: fa delle frontiere l’opportunità di scoprire la positività di conflitti favorevolmente orientati a includere ciò che ancora è escluso. Sono tanti i confini e ognuno dovrebbe essere inteso come un orizzonte: il bello è andare a scoprirne la diversità e la diversificazione.

come il popolo dei migranti di cui si è parlato prima, esse subiranno la stessa sorte dei migranti. Le statistiche sanitarie dovrebbero divenire strumenti di trasparenza, comunicazione, guida nella scelta e nella cura concreta delle priorità. Fare della epidemiologia delle malattie solo o principalmente uno strumento per misurare costi, ritardi, carenze e non uno strumento di visibilità tempestiva e permanente dei destini delle popolazioni equivale ad alzare muri; così come non garantire continuità vera tra i vari livelli assistenziali ospedalieri e comunitari, tra privato e pubblico, corrisponde a fare del sistema sanitario un insieme di frontiere che escludono; e la separazione tra aspetti strettamente sanitari e sociali significa riprodurre il non riconoscimento della contaminazione di saperi, di punti di vista, di complementarietà culturali come generatrice di saperi originali e di interventi creativi e personalizzati.

La separazione tra aspetti strettamente sanitari e sociali signi ca riprodurre il non riconoscimento della contaminazione di saperi.

Il con ne, come tutti i limiti, può rappresentare un ostacolo o una protezione. Possono, ad esempio, riserve naturali essere luoghi chiusi che preservano popolazioni-culture che vi sono nate?

Ci sono nel mondo esempi di con ni che sono una protezione?

La domanda apre uno dei capitoli più delicati, controversi, dolorosi del mondo dei diritti. Sulla carta l’esistenza e la dignità dei “popoli originari” si possono considerare ben definite e acquisibili. Ci sono realtà importanti di miglioramento della situazione, soprattutto a livello delle grandi realtà del Pacifico come Australia e Nuova Zelanda, e, in modo spesso controverso, in Canada. La situazione è molto più precaria in altre aree come l’Amazzonia, soprattutto, ma non solo quella brasiliana, la Bolivia, il Perù, la popolazione Mapuche in Cile, per non dimenticare l’Africa, o altre popolazioni asiatiche. D’altra parte è noto che tutt’oggi il diritto che protegge l’ambiente è ancora molto separato da quello che regola i rapporti economici tra i poteri multinazionali e gli Stati dove vivono questi popoli. L’attuale crescita di una logica di sfruttamento delle risorse delle terre non ancora gentrificate che riproduce quella coloniale non costituisce certo un indicatore ottimistico per il futuro. È certo che l’applicazione rigida di norme che evocano la logica della riserva non è un quadro di riferimento che permetta di guardare al futuro con molto ottimismo. Dunque, le prossime generazioni hanno di fronte a sé il problema di guardare avanti, perché non si possono riprodurre le stesse definizioni che sono state utilizzate fino adesso. Tutto è cambiato. C’è stato un tempo in cui il confine veniva interpretato come opportunità, perfino la nostra migrazione era stata interpretata in questo senso, ma poi si è tornati indietro in maniera drammatica. Per interpretare il futuro devi sapere quello che c’è dietro, ma devi sapere che il problema vero è quello di sperimentare il futuro. Sarà permesso – in un mondo che sembra aver tanta fiducia nella digitalizzazione e negli algoritmi predittivi –avere nostalgia concreta di un mondo in cui la misura di ciò che è legittimo è l’accessibilità universale al diritto della cura?

A cura di Rebecca De Fiore

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Se il manicomio di Gorizia, situato sul con ne orientale, descrive in modo emblematico l’a nità tra con ne e manicomi, relegati il più possibile lontano dal centro abitato, le mura, le sbarre, le porte chiuse sancivano in ogni caso un con ne tra dentro e fuori. Un con ne che divideva un mondo utopico di persone normali e un mondo di persone da allontanare dal contesto sociale. Per questo motivo abbiamo scelto di ospitare all’interno di questo numero di Forward il reportage di Giacomo Doni. A partire dal 2006 il fotografo ha girato le strutture ormai chiuse che non si sono riconvertite a diverso uso dopo la riforma del 1978, con l’intento di documentare e di tutelare la memoria storica ma anche di divulgare storie di questo importante spaccato storico e sociale del nostro Paese.

Dai LEA ai LEP: una nuova sfida per AGENAS

Per garantire la governance nell’autonomia regionale e la tutela dell’equità sociosanitaria

Già oggi la parte preminente della gestione della sanità è affidata alle Regioni, condotta con notevole autonomia se si considera che la sanità insiste su circa l’80 per cento dei bilanci di una Regione. L’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari è stata delegata a Regioni e Province autonome con la storica riforma costituzionale nel 2001 del Titolo V – Capo II che ha inserito la tutela della salute tra le materie di potestà legislativa concorrente previste dall’articolo 117, terzo comma. La missione del Ministero della salute e il ruolo dello Stato in materia di sanità si sono così trasformati da funzione preminente di organizzatori e gestori di servizi a quella di garanti dell’equità sul territorio nazionale. Lo Stato definisce in materia sanitaria i principi fondamentali con legge quadro, definisce i Lea cioè il livelli essenziali di assistenza che devono essere erogati e garantiti su tutto il territorio nazionale. Il Comitato Lea ne verifica l’attuazione attraverso un lavoro istruttorio preparato dagli uffici del Ministero con il supporto di Agenas che monitora l’equità dei livelli di assistenza valutando che le organizzazioni siano in grado di assicurare i Lea in maniera uniforme a tutti i cittadini.

L’autonomia passando per le prestazioni

È in questa specifica organizzazione del nostro servizio sanitario che si inserisce il disegno di legge (ddl) per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Il ddl recepisce i contenuti del documento approvato all’unanimità dalla Conferenza delle Regioni, in attuazione del principio di decentramento amministrativo e della semplificazione delle procedure definendo i principi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

Tale ulteriore attribuzione di autonomia è concessa subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle

prestazioni, i cosiddetti Lep, concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione. L’obiettivo è sburocratizzare i vari procedimenti a fronte di una distribuzione di competenze che meglio risponda ai principi di sussidiarietà e differenziazione.

L’esercizio congiunto Stato-Regioni garantisce un contesto di unità nel rispetto delle diversità e le eterogeneità senza negarne l’esistenza.

I Lep sono determinati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri. A tal fine, l’ultima legge di bilancio ha istituito a Palazzo Chigi una cabina di regia che entro la fine del 2023 deve individuarli sulla base delle indicazioni della Commissione tecnica per i fabbisogni standard. Le risorse umane, strumentali e finanziarie per l’esercizio di tali funzioni sono determinate da una commissione paritetica Stato-Regioni, il finanziamento avviene attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi o entrate erariali regionali. Sono previste nel ddl misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale garantendo l’esercizio effettivo dei diritti civili e sociali attraverso interventi speciali anche nelle Regioni che non concludono intese.

Il ddl ha impatto a livello nazionale per la materia salute poiché la sanità costituisce più dei due terzi della finanza delle Regioni, come già accennato, e rappresenta la gran parte dell’attività politico amministrativa degli enti regionali. L’esercizio congiunto Stato-Regioni garantisce un contesto di unità nel rispetto delle diversità e le eterogeneità senza negarne l’esistenza; e in tal senso si è espresso il ministro Schillaci che ha sotto -

Agenas innesterà un dialogo virtuoso e costruttivo da parte di tutti gli attori istituzionali – Stato, Regioni e Comuni – che dovranno accelerare il ragionamento su un servizio sociosanitario integrato.

lineato la necessità che le Regioni “siano guidate dal Ministero che deve conservare un ruolo di guida e garantire un meccanismo virtuoso insieme alle Regioni per capire chi lavora meglio e aiutare chi è in difficoltà”.

Il (nuovo) ruolo di Agenas

Proprio in questo contesto si inserisce e si rende ancora più necessario il ruolo di Agenas, sia nella già consolidata funzione di supporto alle Regioni nella erogazione dei Lea sia nella importante sfida che si aprirà con la definizione dei Lep. Questa necessariamente innesterà un dialogo virtuoso e costruttivo da parte di tutti gli attori istituzionali (Stato e Regioni, ma anche Comuni) che dovranno accelerare il ragionamento su un servizio sociosanitario integrato – e non solo sanitario da una parte e sociale dall’altra. In questo senso Agenas sta fornendo un importante contributo in molte realtà, seguendo esperienze importanti, quali ad esempio il progetto europeo Pon Gov Ict e Cronicità che – attraverso la costruzione di una numerosa e attiva comunità di pratica –mira a monitorare le buone pratiche sociosanitarie nel contesto delle Regioni e anche dei Comuni e delle aziende sanitarie, fino alle sinergie tra distretti e autonomie locali.

In conclusione, dove la erogazione dei servizi è ordinata a rete, come nella sanità e nel sociale, la gestione e la programmazione degli stessi può essere decentrata, purché vi siano istituzioni di riferimento autorevole che individuano standard, verificano l’attuazione e il rispetto dei medesimi e sono in grado di intervenire virtuosamente quando gli standard non vengono rispettati. In un contesto quale quello che si va delineando, caratterizzato da un più elastico esercizio della potestà centrale di governo, Agenas, quale ente vigilato del Ministero della salute che già per mandato istituzionale assicura la propria collaborazione tecnico-operativa alle Regioni, per sua propria natura si pone ancor più come autorevole riferimento per garantire equità e omogeneità anche attraverso il supporto alla programmazione. F

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Di vi der si la tutela della salute

Nel dibattito che si è aperto sullo schema di disegno di legge (ddl) Calderoli per l’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione sembra di poter cogliere qualche elemento di sorpresa nella sarabanda di voci esplicitamente contrarie. Tanto da far pensare che, più che essere contrari al ddl in sé, questa occasione venga colta per argomentare a favore di un completo accentramento di funzioni nelle mani dello Stato, tutela della salute inclusa.

L’autonomia differenziata non può però essere una sorpresa: la possibilità di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” è stata espressamente prevista addirittura dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001, poi mai attuata. Anzi, dopo di essa, per certi versi paradossalmente, le riforme finalizzate a rafforzare l’impianto decentrato si sono rapidamente spente nel Paese, anche a dispetto della legge delega 42/2009 a firma dello stesso Calderoli, poi sfociata nei costi e fabbisogni standard previsti dal decreto legislativo 68/2011 per le Regioni, in base al quale ogni anno si individuano le Regioni benchmark per fingere un riparto basato su questi parametri di efficienza.

Cinque punti almeno su cui ri ettere

Se si lascia al margine il tifo di parte, sul fronte dell’attuale schema del ddl Calderoli sono possibili diversi commenti generali.

Primo, i tempi delle procedure per arrivare a una intesa sono molto serrati, anche per arrivare alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (abbreviati in Lep), dei costi e dei fabbisogni standard.

Secondo, stupisce la mancanza di prerequisiti per richiedere ulteriore autonomia, così che anche Regioni in piano di rientro possano chiedere di espandere le competenze sul fronte della tutela della salute, materia per la quale quelle stesse Regioni sono oggi in difficoltà con le attuali competenze.

Terzo, sebbene nella relazione illustrativa del ddl venga espressa l’esigenza di coinvolgere il Parlamento in tutte le decisioni più importanti per definire l’autonomia differenziata, l’intesa è di fatto un accordo tra esecutivi.

Ad imprimere una consistente accelerazione al processo sono state tre Regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – che, nel 2018, sono arrivate a stipulare con il governo Gentiloni degli schemi di intesa preliminari. In questi schemi, le richieste delle Regioni in tema di tutela della salute si concentravano soprattutto sulla programmazione e gestione del personale, sul sistema tariffario e di rimborso per le prestazioni e sui rapporti con l’Agenzia italiana del farmaco per le decisioni sull’equivalenza terapeutica dei farmaci. La successiva crisi di governo ha portato però le tre Regioni a ulteriori richieste, presentate al nuovo governo Conte I, che tuttavia non sono mai state controfirmate come le precedenti. La manifestazione di interesse da parte di altre Regioni, unitamente all’allargamento delle materie da parte dei front-runner, ha così indotto i governi successivi a scegliere la via dell’accordo quadro per cercare di strutturare la procedura che porta all’intesa. Prima di Calderoli, sull’accordo quadro si sono esercitati sia il ministro Boccia sia la ministra Gelmini.

Quarto, alcune materie che la Costituzione classifica tra quelle a legislazione concorrente (soprattutto quelle di tipo regolamentare) oggi andrebbero discusse a livello di Unione europea, perché da quando è stato riformato il Titolo V proprio all’Unione europea sono state attribuite maggiori competenze (per esempio, in tema di ambiente).

Quinto, e non ultimo, non c’è alcuna chiarezza sul fronte delle modalità di finanziamento, in un momento come questo dove l’autonomia tributaria regionale sta scomparendo, con l’Irap che è in fase di sostanziale smantellamento e l’Irpef (su cui le Regioni impongono un’addizionale) che è diventata solo una tassa sui lavoratori dipendenti e pensionati. Il rischio è che il decentramento si finanzi tutto con trasferimenti e compartecipazioni, cioè separando ulteriormente le responsabilità di spesa da quelle di entrata. Tutti questi temi (e altri) richiederebbero una riflessione adeguata.

Aprire a una ulteriore di erenziazione, anche sul fronte delle competenze, porterebbe solo ad aumentare il grado di confusione.

In tema di sanità pubblica, anticipare dove possa portare il ddl è esercizio relativamente semplice, anche perché i Lea in sanità (qui chiamati Lep) ci sono da tempo (e, almeno sulla carta, pure i fabbisogni e i costi standard ex decreto legislativo 68/2011). Basta osservare cosa è successo in questi anni: a fronte di un Mef capace di controllare la spesa tramite l’applicazione dei piani di rientro, si è contrapposto un Ministero della salute debole nell’affiancamento alle Regioni in difficoltà per le conseguenze in tema di tutela della salute. Con il risultato che, nonostante la fissazione degli standard a tutti i livelli (finanziamento, spesa, output), le Regioni continuano a esprimere performance differenti. È su queste performance differenti, pur in presenza dei Lep e di tutto il macchinario di standardizzazione, che occorrerebbe concentrare l’attenzione. Aprire a una ulteriore differenziazione, anche sul fronte delle competenze, porterebbe solo ad aumentare il grado di confusione. F

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L’autonomia differenziata non può essere una sorpresa.
Massimo Bordignon Dipartimento di economia e nanza Facoltà di Economia Osservatorio sui conti pubblici italiani Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano e Roma Gilberto Turati

Ricondurre la sanità pubblica al CENTR O

Con l’istituzione nel 1978 del Servizio sanitario nazionale si voleva uni care un servizio sanitario frammentato basato su numerosi “enti mutualistici” o “casse mutue” e con un’assistenza ospedaliera separata da quella territoriale.

A distanza di trent’anni, con la modi ca costituzionale dell’articolo 117 nel 2001, le Regioni hanno acquisito un potere della sanità molto pregnante e si sono delineati sistemi diversi anche per la di erente capacità amministrativa ed economica delle varie Regioni italiane. L’attuale proposta di legge Calderoli sulla autonomia di erenziata nasce dal referendum in Lombardia e in Veneto, e poi ripreso in parte dall’Emilia-Romagna, per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale senza considerare però che un tale cambiamento in sanità porterà nuovamente a una frammentazione dell’assistenza e un accentuarsi irragionevole delle disuguaglianze tra i cittadini non solo di serie A e B, come dichiarato dalla ministra Meloni, ma di serie A, B, C e così via.

La proposta Calderoli è stata presentata all’attuale Consiglio dei ministri con alcune modifiche procedurali rispetto alla prima edizione che, in una certa qual misura, garantiscono un maggiore controllo del Parlamento sull’evoluzione dell’autonomia differenziata. Ma tali accorgimenti, purtroppo, non cambiano la sostanza del problema, cioè quello di un’offerta sanitaria regionale disuguale nel territorio con cui già ci confrontiamo: da un lato il cittadino che si rivolge al privato laddove la risposta della sanità pubblica è meno tempestiva oppure i “viaggi della speranza” per curarsi fuori Regione, spostandosi dal sud al nord dove i servizi sono migliori, dall’altro le fragilità della sanità territoriale lombarda che la pandemia ha reso evidenti. Tutti segnali che le disparità non derivano unicamente dalla performance dei servizi pubblici misurabili in termini di spesa, di salute e indicatori ma anche dalla diversa organizzazione dei servizi. Pertanto nel nostro Paese i cittadini non sono uguali. Se davvero vogliamo garantire che i cittadini della Calabria abbiano la stessa as-

sistenza sociosanitaria dei cittadini di Firenze o di Milano, andrebbe intrapreso il processo inverso a quello dell’autonomia differenziata. Ovverossia, recuperare il tempo perduto con la modifica dell’articolo 117 della Costituzione e riportare al centro, cioè al Ministero della salute, un forte potere di controllo nazionale e di programmazione dei servizi. Senza di esso è impensabile riuscire a garantire un Servizio sanitario nazionale di prossimità ed equo. Su tre questioni – istruzione, giustizia e sanità –i cittadini sono uguali davvero se hanno le stesse possibilità, le stesse occasioni e le stesse opportunità di soluzioni ai loro problemi. Con le case di comunità previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si sta cercando di potenziare i presidi territoriali per avvicinare fisicamente la sanità ai cittadini e ai loro bisogni. Ma per salvaguardare una reale uguaglianza del diritto alla salute serve un

24,3% delle risorse assegnate alle Regioni in 10 anni non ha prodotto servizi

sistema sanitario a rete con una programmazione centrale. Non dovremmo ragionare solo sulla marcata differenza tra alcune Regioni del nord e del sud. Il servizio sanitario pubblico in Toscana, in Emilia-Romagna o nel Veneto, che vantano i migliori livelli essenziali di assistenza (Lea), è un servizio a rete in cui si cerca di fare in modo che un cittadino con un problema, che si trovi in un piccolo paesino o che si trovi in una città, abbia più o meno – nei limiti del possibile – la stessa possibilità di essere assistito. Anche la Lombardia ha un punteggio elevato di Lea ma ha un’organizzazione del servizio sanitario con dei centri di eccellenza, anche su scala nazionale, a discapito però della prossimità dei servizi e dell’equità: i cittadini di

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Dati Lea 2010-2019 | Report Osservatorio Gimbe 2/2020
t
Antonio Panti Medico di medicina generale Commissione deontologica nazionale della Fnomceo Comitato regionale di bioetica della Toscana
Il punto di vista del medico

40 %

alcune zone sono meno assistiti di quanto possano esserlo in altre zone all’interno della stessa Regione.

Se questo ragionamento è una situazione di fatto, come lo è, il regionalismo differenziato crea un aggravamento di una situazione che è già di disuguaglianza tra cittadini di serie A e di serie B nelle varie Regioni.

Assistenza versus prestazione

Un altro ragionamento andrebbe fatto sul passaggio dai Lea ai livelli essenziali di prestazione (Lep). I Lea sono i livelli complessivi con cui il servizio garantisce l’assistenza per una determinata situazione, sia essa una fragilità, una cronicità, una malattia oncologica o una situazione morbosa. L’assistenza a cui si riferiscono è quella sanitaria e anche quella sociale come enunciato da uno dei principi fondamentali su cui si basa il nostro Ssn: “È un dovere integrare l’assistenza sanitaria e quella sociale quando il cittadino richiede prestazioni sanitarie e, insieme, protezione sociale che deve garantire, anche per lunghi periodi, continuità tra cura e riabilitazione”.

Con i Lep si mette l’accento sulla singola prestazione perdendo di vista l’assistenza del singolo individuo nella sua peculiarità. L’assistenza sanitaria viene così trasformata in una somma di singole prestazioni, quando invece le ipotesi stesse del Pnrr sono quelle di una sanità territoriale volta ad alleggerire i piani di assistenza individuale. Quindi il rischio in questo sistema di conteggio all’americana è di spezzettare il servizio sanitario in mille prestazioni come fanno le assicurazioni: ma il sistema sanitario non è un sistema assicurativo, fatto di tabelle, è un sistema in cui si affrontano i problemi complessivi dell’individuo.

Se davvero vogliamo garantire che i cittadini siano tutti uguali, andrebbe intrapreso il processo inverso a quello dell’autonomia di erenziale.

Inoltre, con una sanità fondata sull’autonomia differenziata regionale, in una situazione di definanziamento della nostra sanità pubblica che pone l’Italia ultima tra i Paesi del G7 per spesa sanitaria e di iniziative come la flat tax con un conseguente calo delle entrate fiscali dello Stato, non potranno che accentuarsi le differenze regionali nell’erogazione dei servizi con l’attribuzione di maggiori finanziamenti pubblici in funzione all’adempimento sui Lep.

Un doppio errore

La preoccupazione di chi si occupa di sanità rispetto all’autonomia differenziata è che questo progetto faccia ulteriormente perdere la programmazione generale, vista anche la debolezza dell’apparato ministeriale, degli apparati governativi centrali italiani. Trasformando l’Italia in venti diversi sistemi sanitari tanti quanti sono le Regioni si andrà a creare una situazione incompatibile con quella della professione medica la cui deontologia fin dal tempo del giuramento di Ippocrate, cinque secoli prima di Cristo, è assistere tutte le persone, indipendentemente dalle loro condizioni sociali o dalla loro religione o dalla loro etnia. Le persone sono tutte uguali e hanno ugual diritto di assistenza sanitaria e sociale. Lo sforzo originario con l’istituzione del Ssn era proprio quello di garantire la salute del cittadino e della collettività in condizioni di eguaglianza. L’articolo 32 della Costituzione sancisce la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. E lo Stato ne è il responsabile. Sembra invece che l’attuale governo orientato alla destra sociale del “Dio patria famiglia” e al concetto di nazione stia cedendo all’atteggiamento regionalista del nord che – di fatto – non reca alcun vantaggio alla cittadinanza e alla popolazione nel suo complesso.

Con i Lep si mette l’accento sulla singola prestazione perdendo di vista l’assistenza del singolo individuo nella sua peculiarità.

In questo modo si peggiorerà ulteriormente la situazione che si è generata con la riforma del Titolo V che ha affidato la tutela della salute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Di fronte alla salute non possiamo pensare che l’assistenza erogata ed erogabile da un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico sia legata al ceto, all’istruzione e soprattutto alla posizione geografica di residenza. È inammissibile che il cittadino italiano nato in Lucania abbia una assistenza diversa dal cittadino italiano nato in Veneto. Percorrere la strada dell’autonomia differenziale sarebbe un errore valoriale ed etico oltre che politico. La sanità pubblica andrebbe riformata rispetto a quello che dovrebbe essere un servizio sanitario nazionale per come è stato istituito. F

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Dati 2018 Report Osservatorio Gimbe 1/2023
della mobilità sanitaria è verso la Lombardia e l’Emilia-Romagna
23%
della mobilità sanitaria è dal Lazio e dalla Campania
t

MURI che proteggono) MURI/che dividono

1949

India e Pakistan.

La linea di demarcazione militare che divide i due Stati è chiamata “linea di controllo”, si estende per oltre 3mila chilometri e divide la regione del Kashmir in due zone: quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pakistano.

1974

La linea verde di Cipro.

Un con ne segnato per lo più da lo spinato, sacchi di sabbia e pezzi di muratura che divide a metà l’isola, voluto dalle Nazioni Unite per stabilire una zona di cessate il fuoco tra la maggioranza turca e quella greca, le cui tensioni in quegli anni arrivarono a inasprirsi sempre più. Deve il suo nome alla matita verde con cui venne tracciata la linea sulla cartina della capitale che stabiliva, appunto, il con ne tra le due parti.

1953

Le due Coree.

Alla ne della guerra di Corea si de nisce un con ne tra la Corea del Nord e la Corea del Sud, la cosiddetta “linea di demarcazione militare” o la “linea dell’armistizio”. Si estende per oltre 250 chilometri ed è uno dei con ni più presidiati del mondo. Oggi la zona ai lati della linea, la “zona demilitarizzata”, è diventata un luogo turistico, come risultato di segni di apertura tra le due Coree.

1969

Le peace lines di Belfast.

Costruite durante i cosiddetti “troubles”, il periodo in cui lo scontro, in Irlanda del Nord, tra cattolici e protestanti fu più violento: una serie di barriere di cemento, mattoni e lo spinato con lo scopo di proteggere reciprocamente le comunità dal lancio di sassi o bottiglie incendiarie. Oggi sono un’attrazione turistica.

1985 La barriera di Lima.

Costruita dai gesuiti del collegio dell’Immacolata concezione con l’intento di impedire alla popolazione insediatasi nella capitale peruviana di avvicinarsi troppo all’istituto. Oggi, il muro si estende per circa dieci chilometri e separa la baraccopoli di Pamplona Alta dalla zona ricca, La Molina.

1989

Sudafrica e Berlino.

Il 14 settembre il nuovo presidente del Sudafrica, Frederik De Klerk, si pronuncia per l’abolizione dell’apartheid, qualche mese dopo incontrerà Nelson Mandela appena liberato dal carcere.

Il 9 novembre viene abbattuto il muro di Berlino, costruito nel 1961 e simbolo della guerra fredda che divise il mondo in due blocchi ideologici.

1990

Ceuta e Melilla. La Spagna prende provvedimenti per bloccare l’immigrazione irregolare dal Marocco nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, costruendo recinzioni anti-migranti e muri nell’unica zona di con ne terrestre tra Europa e Africa.

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2012

Il muro

Grecia-Turchia.

La Grecia inizia la costruzione di un con ne militarizzato: una barriera di fossati e doppio lo spinato, alta 4 metri, lungo le rive del ume Evros, al con ne con la Turchia. Ad oggi, si estende per 40 chilometri ed è lì anche per bloccare i possibili ussi migratori dall’Afghanistan.

2004

Cade il muro di Gorizia.

L’11 febbraio, a seguito dell’entrata della Slovenia nell’Unione europea, viene smantellata la recinzione che divideva a metà la città di Gorizia. Fu costruita nel 1947 dopo la rma del Trattato di Parigi, in cui si stabilì il nuovo con ne tra Jugoslavia e Italia.

2002

La barriera tra Israele e Cisgiordania.

È a tutti gli e etti un muro –in particolare nelle aree urbane, dove s ora i 9 metri di altezza con torri di guardia e telecamere, altrove invece è formato da recinzioni elettroniche, lo spinato e fossati – ma viene de nito in modi diversi a seconda che a farlo siano israeliani o palestinesi: “chiusura di sicurezza” per i primi, “muro dell’apartheid” per i secondi.

1993

Tra Stati Uniti e Messico.

2015 Il muro di Viktor Orbán.

Il primo ministro ungherese decide di costruire un muro lungo il con ne con Serbia e Croazia in seguito all’aumento del numero di migranti entrati illegalmente, per giusti care l’impossibilità della nazione di sostenere i costi dell’accoglienza.

2020

Cade il muro di Padova.

Si trattava di un con ne di lamiera lungo novanta metri eretto nel 2006 con lo scopo di isolare una parte della città, il ghetto di via Anelli: un complesso di sei palazzi nato per ospitare studenti che, nel giro di un paio di decadi, era diventato uno dei principali centri di spaccio del nordest italiano.

2021

Lettera aperta alla Commissione europea.

Dodici Stati membri chiedono di nanziare la costruzione di barriere siche per frenare la migrazione irregolare. La richiesta viene ri utata da Bruxelles.

Nel mondo si contano 63 muri secondo lo studio del Transnational institute che ha mappato la costruzione di barriere siche dal 1968 al 2018. Dal 1989 vi è stato un costante aumento, con picchi nel 2005 e nel 2015 (anno in cui ne sono stati costruiti 14).

2023

La fortezza europea.

Il 9 febbraio viene presentata nuovamente al Consiglio europeo la domanda di innalzare altri muri alle frontiere. Secondo un documento del Parlamento europeo, ai con ni dell’Unione europea in 12 Stati membri, si contavano 2048 chilometri di barriere, nel 2014 erano 315.

Il con ne è segnato da una serie di barriere non continue per impedire l’immigrazione illegale verso il Nordamerica. Le prime sezioni vennero edi cate sotto la presidenza di Bill Clinton con il ne di diminuire il tra co illegale di droga, ma il piano di costruzione delle recinzioni e rinforzo dei controlli continuò anche sotto le amministrazioni George W. Bush e Barack Obama. Donald Trump ne fece una delle sue più note promesse elettorali, Joe Biden invece ha bloccato i lavori.

)
“A walled world, towards a global apartheid”.
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CONFINI e FRONTIERE

Che la questione sia seria, lo confermarono i primi astronauti notando che l’unica opera umana visibile dallo spazio è la Grande Muraglia cinese: un manufatto che marcava un confine.

I Romani avevano parole e idee diverse per esprimere il concetto. I due più importanti erano limes, il confine come barriera, come ostacolo; e limen, la soglia della domus, quel bordo che viene continuamente superato da chi entra in casa. Che esiste per non esserci, per essere sempre travalicato. Vesta contro Mercurio. Esclusivo il limes, inclusivo il limen Quest’ultimo, permeabile anche all’estraneo, e ai timori che l’altro genera. Tracciando il solco, Romolo aveva circoscritto lo spazio politico, sottraendolo alla baraonda della violenza sopraffattrice. Soltanto all’interno di quello spazio determinato diveniva possibile godere dei privilegi della civitas e delle regole che la comunità sceglieva di darsi. Chi ne è al di fuori è un potenziale nemico – notava Carl Schmitt.

La necessità di frontiere statuali nasce dal dovere di tutelare

i cittadini: solo se il con ne è certo, lo Stato può farlo rispettare e chi ne è al di qua può dirsi al sicuro.

La storia dello Stato moderno ha confermato questa tendenza. Da Thomas Hobbes in poi, il suo compito è consistito nel proteggere i sudditi all’interno di confini certi, garantendo innanzitutto sicurezza. La necessità di frontiere statuali nasce proprio dal dovere di tutelare i cittadini: solo se il confine è certo, lo Stato può farlo rispettare e chi ne è al di qua può dirsi al sicuro. Lo Stato può esercitare la propria potestas proprio in virtù del fatto che è in grado d’intestarsi il monopolio della forza legittima su di un territorio determinato e sopra una popolazione definita, per quanto esposta a cambiamenti e fluttuazioni.

Questa costituisce il suo demos, il suo popolo. Il quale, proprio in virtù di queste delimitazioni che configurano uno spazio comune, può coralmente autodeterminarsi, qui da noi nelle forme proprie della democrazia contemporanea, liberale e sociale. Non sempre è stato così: per esempio, del demos ateniese non facevano parte le donne, gli schiavi, i minori e gli stranieri e bisognerebbe tener sempre a mente la lunga e travagliata storia che ha condotto al suffragio universale, specie oggi che le democrazie tendono a snobbarlo. Ovviamente, il demos non può essere confuso con l’ethnos: il popolo non può essere identificato in base all’etnia, la democrazia non è nata né può reggersi su fondamenta etniche.

Eppure, in molti Paesi del mondo ancora oggi i confini sono intesi solo come costrizioni, ciò che impedisce quella permeabilità in uscita che connota in primo luogo la liberalità di un regime. Troppi muri avevano e hanno la funzione che aveva il più famoso di loro, quello di Berlino, e vengono ancora eretti per non far scappare i propri cittadini, prima che per impedire l’entrata allo straniero.

Il rapporto tra comunità politica e territorialità è dunque questione

seria, anche abbracciando un’ottica cosmopolitica, almeno fintanto che la politica globale resterà organizzata nella forma di un sistema di Stati che si riconoscono reciprocamente sovrani, nonostante la forma-Stato sia ormai quasi universalmente considerata obsoleta, magari a vantaggio del ritorno degli Imperi, specie nella loro forma economica o virtuale.

Se lo scambio paura per sicurezza funziona poco o male, signi ca che lo Stato non espleta su cientemente uno dei suoi compiti essenziali.

Se lo scambio paura per sicurezza funziona poco o male, significa che lo Stato non espleta sufficientemente uno dei suoi compiti essenziali. L’insicurezza percepita dai cittadini può dipendere da minacce interne o esterne, quando lo Stato non riesce a far osservare i propri confini contro chi non solo li pressa, ma li varca e li infrange, sia esso il nemico o un’epidemia. Ma la frontiera della paura non coincide col confine statuale. Neppure quando lo si attrezzi e difenda con le misure più estreme e spettacolari, tangibili – come mari incontrollati per acuirne il pericolo, forme di embargo, muri e fossati – o immateriali, come le barriere di censo, lingua e cultura. La globalizzazione è in grado di travalicare qualsiasi spazio fobico costruito per difendersi dal fuori, dall’altro, riportando l’insicurezza nel cuore stesso della città. Nel secondo Novecento, gli sforzi della politica internazionale e i bisogni dei mercati hanno fatto sì che in alcune circoscritte zone del pianeta le linee di confine fossero meno marcate, che le frontiere fossero sostanzialmente superate, specie in Europa. Ma anche il più sprovveduto tra i cosmopoliti sa bene che il confine tra gli Stati potrebbe essere definitivamente abbattuto – e ciò accadrebbe in controtendenza rispetto alle propensioni più recenti – solo se il diritto s’incaricasse d’istituire un diverso spazio, stavolta sovranazionale, ma all’interno del quale i cittadini potessero esercitare la loro autodeterminazione politica. Stabilire i confini del proprio territorio e del proprio demos (di chi lo abita non per diritto etnico, di sangue, ma per scelta) è prerogativa di ciascuno Stato. Ne consegue forse che anche il diritto di regolare gli accessi e i flussi gli appartiene – per così dire – in forza della sua natura, o si tratta invece di un diritto questionabile? In che misura uno Stato è sovrano sui propri confini? Per stabilirlo, tenendo conto delle dinamiche della globalizzazione, delle spinte economiche mondialiste e della vocazione imperiale che pure continua a pungolare gli attori più potenti della scena internazionale, si avverte piuttosto l’urgenza di una sorta di “contratto globale” sovranazionale che possa essere accettato da prospettive diverse. Stati, imperi, internet e mercati infatti non sono i soli a invocare la signorìa sui confini. Oltre che delle macro entità, sempre più gelose dei loro diritti e delle loro sfere d’influenza politica ed economica, occorre tener conto delle esigenze dei popoli (a partire da quelli privi di un proprio Stato, come i Curdi o i Rohingya) e degli stessi singoli individui, portatori di istanze spesso diverse sia da quelle degli Stati che da quelle dei popoli e anche dei mercati e degli imperi.

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Voci di con ne, tra passato e presente

Una linea rossa scolorita divide a metà il cimitero di Merna e le sue lapidi. Situato nella frazione di MernaCastagnevizza, in Slovenia, tra il 1947 e il 1975 fu attraversato dal confine che separava l’Italia dalla Jugoslavia. Dove oggi c’è quella linea rossa, in passato correva il filo spinato che divideva nettamente non solo due Stati ma anche alcune salme, che riposavano con la testa in Italia e le gambe in Slovenia, tanto che per posare un fiore sulla tomba di un caro c’era bisogno di un permesso speciale.

Questo camposanto, che sorge a circa cinque chilometri da Gorizia, è solo una testimonianza della creazione artificiosa e illogica del confine orientale italiano dopo il 1947, anno in cui la cortina di ferro separò fisicamente l’Italia dalla Jugoslavia e divise il mondo in due blocchi: l’est comunista e l’ovest democratico.

Sulla rete di con ne

A tracciare il confine furono i soldati angloamericani che, tra il 15 e 16 settembre 1947, camminarono lungo la città muniti di cartina per innalzare la rete di frontiera. Molti cittadini cercarono di radunare i propri averi e lasciare le loro case per evitare di ritrovarsi in uno Stato a cui sentivano di non appartenere. Il confine, infatti, non teneva conto dell’identità delle persone e delle necessità di chi ci viveva: separava le abitazioni dai propri giardini, le fattorie dai campi, perfino le case, dove da una porta si entrava in Italia e dall’altra si usciva in Jugoslavia. Nei primi anni rimase invalicabile. I graniciari, le guardie di confine jugoslave, sorvegliavano la frontiera a ogni ora per evitare fughe. Con il tempo però, questa barriera fisica si fece più permeabile, e per attraversarla bastava mostrare un lasciapassare o propusniza

Il confine cadde definitivamente il 30 aprile 2004, con l’entrata della Slovenia nell’Unione europea. Quel giorno, le autorità italiane e slovene, insieme ai cittadini e ai giornalisti, si radunarono nella Piazza Transalpina, divisa in due tra Gorizia e Nova Gorica, simbolo

indiscusso di quel confine, per abbattere la rete e festeggiare la nuova stella dell’Europa. Alcuni si facevano timbrare per l’ultima volta la loro propusniza, come a testimoniare un momento storico. Tuttavia, si dovette aspettare fino al 2007, con l’entrata del Paese nella zona Schengen, perché le persone potessero circolare liberamente come oggi.

A riflettori spenti però, le cose non cambiarono del tutto. Quella separazione forzata durata cinquant’anni creò delle ferite insanabili nelle generazioni che l’hanno vissuta. Nadja Velušček, una regista slovena di Nova Gorica, ha dedicato parte della sua vita a realizzare documentari su questo confine. Ricorda ancora quando per andare al lavoro a Gorizia doveva mostrare la sua propusniza, che poteva utilizzare solo durante l’orario di lavoro. t

Il con ne non teneva conto dell’identità delle persone e delle necessità di chi ci viveva: separava le abitazioni dai propri giardini, le fattorie dai campi, per no le case.

La frontiera orientale italiana ha marcato intere generazioni e continua a esistere ancora oggi
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Per anni ha dovuto rinunciare a cene con i colleghi e amici perché gli agenti di frontiera rifiutavano il suo permesso. “Quando le cose succedono sulla tua pelle cominci a svegliarti”, diceva Velušček seduta a uno dei tavoli del bar della stazione Transalpina di Nova Gorica, nell’inverno del 2018. Dietro di lei, si scorge la rete metallica verde che segnava un confine che, fisicamente, non esiste più, ma che è rimasto nel dna delle due città. “Prima erano divise per delle memorie opposte: a Nova Gorica ci sono i monumenti alla seconda guerra mondiale, a Gorizia alla prima. Adesso sono divise dalla pace, o meglio dall’indifferenza. Non esiste più un conflitto ma questo allontanamento è divisione. Ci sono ragazzi che non hanno mai attraversato questa piazza perché qui è un altro mondo”.

Anja Medved, figlia di Nadja Velušček e come lei regista, ha vissuto solo gli ultimi anni del confine. Ricorda però la sensazione di libertà che ha provato quando l’ha attraversato per la prima volta. Oggi parla di nostalgia, perché quella linea divideva due mondi che parlavano lingue diverse, mangiavano cose diverse. “Peculiarità che sono andate perse. La globalizzazione ha colto alle spalle coloro che, temendo di perdere la propria identità, tenevano le armi puntate verso il confine. Era possibile vivere in due realtà contemporaneamente sapendo che erano entrambe vere, reali. Ora c’è un solo mondo, senza frontiere, che abbiamo tanto desiderato. Ma non è così libero come tutti si sarebbero aspettati”. Nel 2018 raccontava che sono ancora molti gli sloveni, anche tra i suoi familiari, che vivono in Italia e non vogliono parlare la loro lingua. “È pieno di queste assurdità che rappresentano gli aspetti contraddittori della natura del confine”.

I fantasmi del passato

Quella frontiera che tutti credevano abbattuta si è innalzata nuovamente a marzo del 2020, in piena pandemia, quando le restrizioni per evitare la diffusione del coronavirus hanno reso indispensabile richiudere i confini, compresa la piazza Transalpina, conosciuta anche come Trg Evrope (piazza Europa).

Una rete alta metallica tornò a separarla in due, dividendo la placca grigia circolare dove si legge “Italia, R. Slovenja”, testimonianza di un confine fisico che non c’è più.

L’innalzamento di quella rete, sebbene privo di qualsiasi significato politico, ha riportato indietro di molti anni l’orologio della storia. Gabrijel Fišer, chirurgo dell’ospedale transfrontaliero di Šemper-Vrtojba, vive a 50 metri dal valico del Rafut. Nella primavera del 2020 raccontava in una videochiamata la sua reazione dopo aver visto la nuova rete che divideva Gorizia e Nova Gorica. “Negli ultimi anni le due città hanno iniziato a respirare come una sola. Non mi sarei mai immaginato di rivedere questa frontiera chiusa”, spiegava. Per alleviare questa separazione forzata, Fišer chiese ad alcuni bambini di entrambe le città di realizzare dei disegni e di appenderli alla rete. “Queste nuove generazioni non hanno mai vissuto il confine. E in questi disegni, infatti, non ci sono frontiere: solo abbracci, fiori e amicizia”.

Adesso Nova Gorica e Gorizia sono divise dalla pace, o meglio dall’indi erenza. Non esiste più un con itto ma questo allontanamento è divisione. — Anja Medved

A distanza di quasi settant’anni dall’innalzamento del confine, Gorizia e Nova Gorica sono state nominate capitale della cultura nel 2025, insieme alla città tedesca di Chemnitz. Una candidatura transfrontaliera che le vedrà lavorare insieme per realizzare eventi e attività culturali e che le unirà mai come prima. Un risultato che fino a quindici anni fa sembrava impossibile anche solo da immaginare.

Il con ne nella testa

La cortina di ferro fu estesa all’intero confine orientale, anche sui piccoli paesi delle valli del Natisone. Topolò, uno di questi, è separato da un fitto bosco che lo divide da Livek, frazione di Caporetto, e prima città slovena oltreconfine. Contava quasi 400 abitanti all’inizio del secolo scorso, ma i due conflitti mondiali e la guerra fredda hanno marcato in modo indelebile questa località che ora conta solo una ventina di residenti fissi.

Moreno Miorelli, trentino di nascita ma cresciuto a Biella, è arrivato a Topolò nel 1989. Questo confine l’ha sempre affascinato. “Quando superi la sbarra vai su un altro pianeta, con altre storie, con altri gusti, con altri cibi, con un altro modo di pensare. È estremamente eccitante. È come fare un viaggio di centinaia o migliaia di chilometri quando invece devi farne solo venti”, spiegava Miorelli indicando le montagne che separano la piccola località italiana dalla Slovenia. Tuttavia, gli anni duri del confine, l’occupazione militare e il rigido divieto di parlare il nadiško, un dialetto sloveno tipico di queste valli, segnarono la popolazione del posto. “Il confine rimane purtroppo in molte teste. Per molti, di là ci sono i cattivi, e viceversa. Non tiri più fuori il passaporto ma il confine c’è e ci sarà sempre. Perché il di là è un mondo che per secoli è stato nemico”.

Un’Europa fatta di barriere

Quando si viaggia lungo il confine orientale ci si accorge di aver oltrepassato la frontiera grazie a un messaggio dell’operatore telefonico. “Benvenuto in Slovenia”, si legge. Con l’avvento dell’Unione europea e della moneta unica, si ha la sensazione di vivere in un mondo senza frontiere, che è stato il sogno di molte persone che il confine l’hanno vissuto davvero.

Si tratta però di un’illusione. Non ci sono mai state così tante frontiere come da quando abbiamo ipotizzato un mondo del tutto libero. I muri e le barriere fisiche sono cresciuti drammaticamente nell’ultimo decennio. L’Unione europea e l’area Schengen sono attualmente attraversate da 19 barriere di confine e di separazione che si estendono lungo più di duemila chilometri. “Tra il 2014 e il 2022 la lunghezza complessiva delle recinzioni alle frontiere esterne dell’Unione europea e all’interno dello spazio Schengen è passata da 315 chilometri a 2048”, secondo un rapporto pubblicato dall’European parliamentary research service lo scorso anno. Le principali ragioni che hanno spinto a innalzare questi muri sono la prevenzione all’immigrazione irregolare e la lotta contro il terrorismo.

Non tiri più fuori il passaporto ma il con ne c’è e ci sarà sempre. Perché il di là è un mondo che per secoli è stato nemico.

Oltrepassare i muri invisibili

Ma i confini non son solo fisici. Nell’estate del 2019, il ministro dell’interno Matteo Salvini e il governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, avevano lanciato l’idea di “sigillare” il confine orientale, intensificando i pattugliamenti al confine, per bloccare i flussi di migranti provenienti dalla rotta balcanica. Questa proposta ha fatto molto discutere, rievocando i ricordi di un passato non troppo lontano.

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t

Paese Ue che rilascia

visti Schengen

Paese Ue che non rilascia

visti Schengen

Paese terzo che rilascia

visti Schengen

Estonia 2018-2021 t Russia 104 km

Gran Bretagna

2015-2021 t Francia (Calais e Coquelle) 65 km

Slovenia 2015-2020 t Croazia 198,7 km

Austria

2015-2016 2016

Spagna

Polonia 2021 t Bielorussia 186 km

Norvegia 2016 t Russia (Storskog) 0,2 km

Lettonia

2015-in costruzione 2021-in costruzione t Russia t Bielorussia 93 km 36,9 km

Lituania

1999-2022 2017-2018

t Bielorussia t Russia (Kaliningrad) 502 km 45 km

Ungheria 2015 2015-2017 t Croazia t Serbia 131 km 158 km

Garibaldi fu ferito

Certo, l’eroe dei due mondi non deve aver preso bene la decisione assunta da Cavour di regalare Nizza alla Francia per convincerla a combattere la seconda guerra di indipendenza a anco dei piemontesi. I Bianchi diventano

Le Blanc e i De Ponti sono Du Pont dall’oggi al domani. Quelli che non cambiano mai nome, pur vivendo costantemente in luoghi di frontiera, sono i mercenari: loro e i monaci, spiega Mauro Suttora in “Con ni”, sono “gli unici global medievali senza con ni”.

t Slovenia (Spielfeld) t Italia (Brennero) 3,3 km 0,25 km

1993 1996

t Marocco (Ceuta) t Marocco (Melilla) 7,8 km 13 km

Infatti, quel confine abbattuto a inizio secolo continua a esistere, ma non per tutti. Nel 2021, circa 4829 migranti provenienti dalla rotta balcanica sono stati accolti a Trieste, secondo l’ultimo studio del Consorzio italiano di solidarietà. Tuttavia, Gianfranco Schiavone, presidente dell’associazione, spiega che queste cifre non rispecchiano la realtà ed eleva le stime a circa 10.000 arrivi nel 2021. Quella balcanica è stata la rotta migratoria più percorsa nel 2022: l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, ha registrato 145.600 attraversamenti irregolari lo scorso anno, il 136 per cento in più rispetto al 2021.

I migranti che attraversano questa frontiera si ritrovano di fronte a molteplici muri, abbattuti solo da reti di solidarietà cittadine, come quella di Linea d’Ombra a Trieste, gestita da Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, che ogni giorno curano le ferite dei migranti che arrivano stremati dopo anni di viaggio e, spesso, di maltrattamenti. Nel corso degli anni, l’associazione ha dovuto affrontare gli ostacoli dell’amministrazione locale e la diffidenza e ostilità di parte della cittadinanza. Un muro invisibile, una frontiera nella mente, che continua a esistere ancora oggi.

Macedonia 2015 t Grecia 37 km

Cipro* 1974 180 km

Bulgaria 2014-2017 t Turchia 235 km Grecia

2012; 2021 t Turchia 52,5 km

La mappa dei muri europei. L’Unione europea conta almeno duemila chilometri di muri alle frontiere interne ed esterne secondo il rapporto dell’European parliamentary research service del 2022. Per la maggior parte sono barriere contro l’immigrazione. Il muro di Calais è stato voluto dal governo Uk per impedire il passaggio dalla Francia alla Gran Bretagna. La Finlandia ne sta costruendo uno al con ne con la Russia. Quello storico di Cipro (*), invece, dal 1974 divide de facto l’isola in Cipro nord e Cipro sud. •

Annibale coi suoi elefanti sembra abbia passato le Alpi al colle delle Traversette del Monginevro, come D’Artagnan nel 1664. I con ni infatti sono legati ai monti. Ma non sempre: ogni regola esiste per essere disattesa così che la piccola val Cramariola contesa tra Italia e Svizzera fu assegnata alla prima da un imparziale giudice statunitense nel 1864, l’ambasciatore di Abraham Lincoln George Marsh: riconoscendo nella storia i diritti italiani, il territorio passò di mano senza alcun indennizzo né economico né geogra co.

Anche i umi sono con ni naturali, ma non sempre. Tra Italia e Svizzera il Gaggiolo diventa Clivio, poi Lanza e sfocia nell’Olona. E il Tresa è maschile in Italia e femminile in Svizzera.

A Gorizia, ma anche tra Turchia e Siria, la frontiera la fa una ferrovia. Tra Italia e Slovenia è stato per decenni il con ne più temperato della guerra fredda: oggi sul Collio sloveno verso l’Italia c’è un parco della Pace. Anche per non scordare i cinquantamila soldati italiani e trentacinquemila austriaci morti nell’agosto del 1916 per conquistare la città o per difenderla. Da parte italiana erano i sardi della Brigata Sassari, ragazzi circondati da un mare che non è mai un con ne.

Questo e molto altro è nel libro “Con ni. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora •

Con ni.

Storia e segreti delle nostre frontiere

Mauro Suttora

Vicenza: Neri Pozza, 2021.

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Un ristorante in un crocevia di popoli, tra innovazione e rispetto della tradizione

La cucina di con ne i con ni della cucina

Sappada è un piccolo Comune della Provincia di Udine situato tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Il confine tra le due Regioni è stato spostato nel 2017 per effetto di un referendum che nove anni prima aveva sancito la volontà dei sappadini di passare dal Veneto all’autonomo Friuli-Venezia Giulia. Poco più a nord del paese le Alpi carniche delimitano la frontiera italo-austriaca, che un centinaio di chilometri a est incrocia quella slovena nei pressi di Tarvisio, uno dei pochi Comuni al mondo ad avere ben quattro lingue ufficiali: l’italiano, l’austriaco, lo sloveno e il friulano. E non è tutto: le tipiche case di legno di Sappada, con le travi disposte in orizzontale e i balconi ornati di gerani e campanule, sono quasi tutte disposte su una via che corre parallela al Piave, fronte e confine tra l’Italia e l’Austria-Ungheria durante la prima guerra mondiale.

È proprio in una di queste storiche abitazioni di legno che si trova il ristorante Laite, venti coperti e una stella Michelin, il cui nome nel dialetto locale (un austriaco che ricorda i dialetti bavaro-tirolesi) significa “un prato al sole”. Proprio l’uso attento e bilanciato delle erbe di prato è uno dei tratti caratteristici della cucina della chef Fabrizia Meroi, cuoca dell’anno 2022 secondo la Guida de L’Espresso, e dei suoi collaboratori. Originaria di Cividale del Friuli – sul confine italo-sloveno – ma sappadina d’adozione, Meroi ha acquisito negli anni una crescente notorietà per la sua capacità di combinare tradizione e innovazione, integrando i sapori tipici dell’Alpe Adria (“l’affumicato, il dolce, il sapido”) con altri provenienti dal resto del mondo.

Quando le chiedo qual è il piatto che più di tutti le ricorda il concetto di con ne tra quelli proposti al Laite, mi risponde senza pensarci troppo: “Ci sono diversi piatti che potrebbero essere interpretati in questo senso. Il primo che mi viene in mente è ’merluzzo, finocchio e latte’, in cui il latte è il protagonista senza mai

Eleganti e profumati, i piatti sviluppati dalla chef e il suo team sembrano nati per risolvere una tensione tra prossimità e lontananza.

comparire. Ci sono diverse consistenze: dallo yogurt liofilizzato alla pelle di latte essiccata, dalla cialdina di latte in polvere alla crème fraîche. E poi c’è il merluzzo salato, che ci permette di portare il pesce in un’area dove prima non compariva mai, e un brodo vegetale in cui viene messa in infusione la crosta del formaggio Piave stravecchio. Quindi c’è anche l’argomento del fiume, teatro di molti scontri ed elemento fondante della cultura di questo territorio”.

Eleganti e profumati, i piatti sviluppati dalla chef e il suo team sembrano nati per risolvere una tensione tra prossimità e lontananza. Tra ciò che si colloca al di qua e al di là dei confini della percezione. I gnocchetti di rapa sappadina e il cheddar, il raviolo di saurnschotte (una ricotta acida tipica di Sappada) e il mandarino: la ricerca di nuovi ingredienti può cominciare a pochi metri dal ristorante o a migliaia di chilometri di distanza. “A me interessa innanzitutto la qualità del prodotto”, ci tiene a sottolineare la chef. “Se poi si conosce la storia del fornitore, la sua passione, ottenere certi risultati è più facile. Avere un dialogo con i produttori è fondamentale, ad esempio, quando si ha bisogno di un’opinione o si vuole creare un prodotto nuovo”.

La prossimità può essere infatti funzionale alla creatività. Me lo spiega il sous-chef del Laite, Alex Iacoviello: “Ricordo un piatto del menù estivo del 2020: ’mammella, latticello, uova di trota, olivello spinoso e fieno’. Il latticello è il prodotto di scarto della lavorazione del burro, che di solito viene buttato. Noi ne abbiamo parlato con la latteria locale e abbiamo deciso di usarlo, facendone una spuma in cui abbiamo infuso il fieno: il nutrimento principale delle vacche nel periodo invernale. E prendevamo anche la mammella da un allevatore del posto, il quale ci ha parlato delle erbe che le sue vacche brucavano nelle stagioni più calde. Il trifoglio, l’achillea, i fiori di borragine e altre ancora. E così alla fine anche quelle erbe sono entrate nel piatto”.

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Innovazione a portata di mano, quindi. Allo stesso tempo però chi si occupa di alta ristorazione sente spesso la necessità di allontanarsi da tutto ciò che è vicino o familiare, per incontrare e conoscere culture e cucine diverse. “Viaggiare è fondamentale per capire chi siamo e favorisce la crescita personale e la curiosità”, spiega Meroi. “Nel nostro campo è la base: andare in un altro posto, conoscerne le materie prime e le tecniche e portarle a casa”. Quando la intervisto, ad esempio, la chef ha appena finito di preparare dei ravioli con pasta di patate e mela secca, farciti con un formaggio salato e conditi con burro di nocciola e semi di cipolla. “C’è questo mix tra il gusto intenso del formaggio e la dolcezza e l’acidità della pasta, mentre i semi di cipolla sono un ingrediente tipico del Medio Oriente e servono a dare un retrogusto un po’ tostato”.

È dello stesso parere anche Iacoviello, che nel corso della sua breve carriera ha già avuto modo di confrontarsi con culture culinarie molto diverse tra loro. Prima di arrivare al Laite, infatti, ha lavorato con altre due chef stellate dei confini friulani – Ana Roš del ristorante Hiša Franko a Kobarid e Antonia Klugmann del ristorante L’Argine a Vencò – con le quali ha partecipato a eventi in Russia, in Australia, negli Stati Uniti. Per allargare ancora i propri

Uno può anche imparare a memoria un libro di ricette ma a fare la di erenza saranno sempre le esperienze personali.

orizzonti, poi, il sous-chef ha passato anche quattro mesi in un ristorante indiano di Bangkok. “È la tecnica a fare un buon cuoco – mi spiega – non le ricette. Uno può anche imparare a memoria un libro di ricette, ma a fare la differenza saranno sempre le esperienze personali”.

Tra i piatti conosciuti a Bangkok, ad esempio, Iacoviello era rimasto particolarmente colpito dalla zuppa nazionale thailandese: il Tom Yam. “Si tratta di una zuppa acida a base di cocco, citronella e gamberi. L’ho portata qui, l’abbiamo rielaborata utilizzando ingredienti locali e ora è entrata nel menù del Laite. In questo periodo stiamo invece lavorando molto su delle tecniche giapponesi ed è nato un piatto che affianca un’anguilla dei nostri fiumi, cotta su delle speciali griglie giapponesi, a un teriyaki di larice. Da questo punto di vista i cuochi italiani sono avvantaggiati, perché quando tornano a casa possono applicare le tecniche imparate in giro per il mondo su ingredienti meravigliosi”.

Allargare o restringere il campo d’azione della propria curiosità, quindi, per trovare un equilibrio tra il bisogno di definire la propria identità e quello di innovarsi continuamente. Con un’attenzione particolare ai clienti. Al Laite è infatti possibile scegliere tra tre menù degustazione: l’“Asou”, basato sui piatti che meglio raccontano la vita e la carriera di Meroi, il “Plissn”, più orientato all’innovazione e in continuo rinnovamento e, infine, il “Verpai”, in cui si lascia al cliente la possibilità di costruirsi il proprio percorso. Una scelta per nulla scontata nel mondo dell’alta ristorazione, dove la tendenza è piuttosto quella di limitare la libertà dei clienti, per massimizzare i risultati e ridurre i costi. “Ci tengo molto – mi spiega Meroi – penso che sia molto importante comunicare con la clientela, così come coi collaboratori. Soprattutto in un ristorante come il nostro che funziona quasi come una piccola casa”.

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ci salveranno?

La prima cosa che mi è venuta in mente quando sono stato invitato a riflettere sul tema dei conflitti armati in relazione al concetto dei confini è la canzone “Games without frontiers” di Peter Gabriel contenuta nel suo terzo album, uscito nel 1980. Un disco del quale Gabriel realizzò anche una versione in lingua tedesca che ascoltavo all’epoca con l’ossessione tipica dell’adolescenza. Il ritornello della canzone recita “Krieg muss man schwänzen, Spiel ohne Grenzen”

(“La guerra va marinata, un gioco senza confini”)*.

La motivazione ufficiale di una guerra è spesso il ripristino di un ordine, della sicurezza, di diritti, o la difesa di un confine. Ma una volta scatenata, la guerra non rispetta più confini di nessun tipo. Non rispetta i limiti giuridici delle convenzioni e del diritto umanitario internazionale; e non conosce limiti temporali, con effetti deleteri per la salute pubblica e per l’ambiente che tipicamente si estendono molto oltre la durata dei combattimenti. Anche i confini della logica e del buon senso vengono superati con estrema facilità e senza destare troppo scandalo nell’opinione pubblica. Guerre di aggressione diventano “operazioni speciali” o missioni militari di “difesa preventiva”, tipicamente per proteggere l’umanità da un nuovo Hitler che, a seconda del momento storico e dei punti di vista, ha nuovi nomi e volti diversi: Saddam, Milošević, Zelensky, Putin.

Una volta scatenata, la guerra non rispetta più con ni di nessun tipo. E non conosce limiti temporali.

Nello stesso anno in cui uscì il disco di Peter Gabriel, l’esercito iracheno di Saddam Hussein, allora alleato degli Stati Uniti, oltrepassava il confine e invadeva il territorio iraniano. A distanza di poco tempo i due miei cugini iraniani, ancora minorenni, arrivano a stare da noi in Germania per non rischiare la confisca del loro passaporto. Difendere la patria contro l’aggressore, fino al martirio glorificato, era un obbligo nell’Iran di Khomeini, ma, fortunatamente, non è mai stato considerato tale nella mia famiglia. Nella loro nuova vita di migranti i miei cugini si sono trovati diversi confini da varcare: un nuovo Paese, una nuova città, una nuova famiglia (con gli zii al posto dei genitori), una nuova lingua, una nuova scuola (nella quale prendere brutti voti dopo anni

trascorsi da primi della classe), il tutto in una fase della vita in cui si passa anche il confine tra adolescenza ed età adulta. Come è facilmente intuibile ho dovuto ripensare molto a tutto questo dopo l’invasione russa dell’Ucraina e il conseguente arrivo dei profughi ucraini, spesso accolti da familiari già presenti in Italia.

Oltre alla questione dei profughi ci sono anche molte altre analogie tra le guerre maggiori degli ultimi decenni che confermano la loro natura sconfinata: tutto diventa un bersaglio, le infrastrutture di approvvigionamento elettrico, idrico e di smaltimento dei liquami, le strutture sanitarie, le industrie chimiche con conseguente rilascio di sostanze tossiche nell’ambiente, le industrie che garantiscono la produzione di merci essenziali, i campi destinati all’agricoltura, strade, ponti, la rete ferroviaria. Le armi utilizzate non hanno solo effetti immediati, ma provocano direttamente e indirettamente anche effetti a lunga latenza. A questi vanno aggiunti altri effetti più generici e trasversali come l’aumento delle disuguaglianze sociali, il caos generale, l’interruzione delle attività scolastiche, universitarie e culturali, la distruzione di posti di lavoro, l’emigrazione di massa. Da questo punto di vista, l’attuale conflitto in Ucraina non si distingue da quanto è stato documentato negli interventi di alleanze Onu (Golfo 1991) o della Nato (Repubblica federale di Jugoslavia, 1999), della coalizione angloamericana (Afghanistan 2002, Iraq 2003) o della Russia in Cecenia (1999) e in Siria (2015). La stessa condotta militare viene usata anche da Israele nelle sue “operazioni speciali” in Libano (2006) e a Gaza (2009 e anni successivi).

L’obiettivo finale è sempre quello di distruggere deliberatamente l’ambiente fisico e la fibra sociale di un intero Paese e del suo territorio. Sempre, l’esito è la devastazione e un trauma che raramente trova una sua ricomposizione. Scrive Sigmund Freud1: “Essa [la guerra] infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che si diceva il diritto delle genti, disconosce le prerogative del ferito e del medico, non distingue fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca e come se dopo di essa non dovesse più esservi avvenire e pace fra gli uomini. Spezza tutti i legami di comunità che possono ancora sussistere fra i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un tale rancore da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione”.

Pirous Fateh-Moghadam Responsabile Osservatorio epidemiologico Dipartimento di prevenzione Azienda provinciale per i servizi sanitari Provincia autonoma Trento 20 forward #29 — CONFINI — 1 / 2023

L’obiettivo nale è sempre quello di distruggere deliberatamente l’ambiente sico e la bra sociale di un intero Paese e del suo territorio.

Un ulteriore confine risulta particolarmente minacciato dall’attuale conflitto in Ucraina, quello del rispetto del tabù nucleare, dal quale dipende non tanto il futuro dell’umanità ma il fatto stesso se l’umanità avrà un futuro. Tutti in fondo lo sanno, afferma Hannah Arendt, che “il temuto evento casuale che potrebbe mandare a monte tutti i calcoli e finalità della deterrenza reciproca, è più probabile che avvenga laddove il modo di dire, al giorno d’oggi da ritenersi semplicemente idiota, del «non c’è alternativa alla vittoria» mantiene ancora un alto grado di plausibilità”2

Come non pensare all’Ucraina? Il presidente russo Putin ha già minacciato più volte di non fermarsi nemmeno davanti a questo, estremo, limite. Sono gli ordigni più “piccoli”, cosiddetti “tattici” e destinati a un impiego sul teatro di guerra, a destare particolare preoccupazione, in quanto abbassano la soglia d’uso e incrementano quindi il rischio di una rottura del tabù nucleare (già parzialmente compromesso dalle minacce), con conseguenze che solo degli incorreggibili ottimisti potranno definire imprevedibili. La successiva escalation in una guerra nucleare mondiale risulta infatti altamente probabile anche ai militari statunitensi esperti nel condurre simulazioni strategiche belliche: “It ends bad. And the bad meaning it ends with global nuclear war”3

Le armi nucleari superano anche un altro limite, quello del lessico e della immaginazione. La potenza delle armi nucleari è tale da collocarle su una dimensione completamente diversa rispetto a tutto quello che possiamo definire come “arma”. Per Günther Anders4 questo errore di classificazione è una delle cause alla base della nostra “cecità di fronte all’apocalisse” che ci impedisce di prendere coscienza e finalmente agire per eliminare questi dispositivi di sterminio.

Le armi nucleari superano anche il limite del lessico e della immaginazione. Per la loro potenza sono diverse da tutto quello possiamo de nire come “arma”.

Invece di agevolare questa presa di coscienza i media sono invasi dalla propaganda bellicista, con solo brevi interruzioni, per lo più domenicali. Così anche in Italia si è fatta larga la bizzarra convinzione che incrementare le spese militari e la quantità e la qualità delle armi da mandare nella zona del conflitto sia l’unica possibilità per esprimere il proprio amore per la pace. “War is peace” non solo nel celebre romanzo orwelliano ma, ormai, anche nella cultura egemone mediatica e politica italiana.

In conclusione, i mali che le guerre creano, anche quelle difensive, e i rischi che comportano sono sufficientemente gravi da ritenere che l’unica possibile “giusta causa” per ricorrere ad esse sia la prevenzione di mali ancora più grandi. Per chi non è un pacifista assoluto, occorre quindi procedere a un bilanciamento tra il male creato dalla guerra e il male evitato da essa5 prima di giungere a un giudizio a favore o contro. Se il primo supera il secondo, si oltrepassa un confine al di là del quale anche una guerra legittima diventa autolesiva e va prevenuta o fermata il prima possibile. Dopo 12 mesi di guerra in Ucraina è diventato davvero difficile negare che questo confine è stato da tempo superato (come era del resto prevedibile fin dall’inizio) e che occorre quindi mobilitarsi, a tutti i livelli e seriamente, per la pace, impiegando mezzi che non sono in contraddizione con il fine dichiarato.

Per chi non è un paci sta assoluto, occorre procedere a un bilanciamento tra il male creato dalla guerra e il male evitato da essa prima di giungere a un giudizio a favore o contro.

“L’idea dei confini e delle nazioni mi sembra assurda. L’unica cosa che può salvarci è essere cittadini del mondo”, rispose Jorge Luis Borges nel 1978 in un’intervista6 alla domanda sul suo cosmopolitismo e aggiunge: “Le racconterò un aneddoto personale. Da piccolo sono andato con mio padre a Montevideo. Avrò avuto forse nove anni. Mio padre mi ha detto: «Guarda bene le bandiere, le dogane, i militari e i preti, perché tutto questo scomparirà; e tu potrai raccontare ai tuoi figli di averlo visto». È accaduto il contrario. Oggi ci sono più confini e più bandiere che mai”. Da allora ulteriori confini e bandiere si sono aggiunti e i nazionalismi sembrano avanzare ovunque. Sarebbe tuttavia importante non farsi scoraggiare e recuperare almeno un po’ dell’ottimismo fantastico del padre di Borges, nonostante tutto. F

1. Freud S. Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915). In: Perché la guerra? (1932), pp. 20-21. Torino: Bollati Boringhieri, 1975.

2. Arendt H. Macht und Gewalt. Piper, 1970.

3. Il generale John Hyten, citato da Daryl G. Kimball. The 2022 Vienna Conference on the humanitarian impact of nuclear weapons, 20-22 giugno 2022.

4. Anders G. Die Antiquiertheit des Menschen, vol. 1, pp. 233-308. Munich: C.H. Beck, 1994.

5. Shue H. Last resort and proportionality. In: Seth Lazar, Helen Frowe (editors), The Oxford handbook of ethics of war, pp 260276. Oxford University Press, 2018.

6. Un entretien inédit avec Jorge Luis Borges. «L’idée de frontières et de nations me paraît absurde». Le Monde diplomatique, agosto 2001.

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* Peter Gabriel, “Spiel Ohne Grenzen” www.youtube.com/watch?v=49mdn20QsbM

DIRITTI La mappa dei

Iconfini, per quanto ideali nelle loro demarcazioni, rimandano a frontiere, spartiacque… diversità a seconda del contesto (internazionale, nazionale, locale) o della dimensione (politica, geografica, culturale, etnica, sociale, religiosa) di riferimento. I confini quindi non delimitano solo un territorio o uno spazio, ma anche le caratteristiche più profonde di chi lo occupa. La frontiera, fissata in vario modo da gruppi, comunità, tribù, etnie, popoli o Stati, indica isolamento, esclusione o semplicemente differenziazione. Difendere i confini è finalizzato a proteggere e garantire la qualità della vita del popolo e delle comunità “contenute”, a dare ordine e sicurezza alla loro vita. È questa la giustificazione dei conflitti armati conseguenti al tentativo di modificare i confini. Ma i confini, come le barriere e le frontiere, sono spesso imposti e subiti; sono linee di demarcazione di differenziazione e anche di detenzione. Possono quindi essere lo spartiacque tra il rispetto e la garanzia dei diritti umani e la loro negazione. La guerra è l’espressione più tragica della negazione dei diritti umani per imporre modifiche di confine.

Se si riscrivessero i confini usando linee, tratti, ombre, colori rappresentativi del rispetto dei diritti umani, le mappe geografiche sarebbero di difficile interpretazione.

Una topografia dei diritti umani ridisegnerebbe un planisfero: carte generali, corografiche e topografiche basate sulla presenza di muri (la barriera di separazione israeliana in Cisgiordania, il muro di Tijuana tra Stati Uniti e Messico, barriere elettrificate, fili spinati, pali per fermare l’ingresso dei migranti in Europa), sulla distribuzione di favelas, di campi profughi, di squallide periferie e, ovviamente, di guerre. Dove il futuro è incerto, mobile e precario i confini diventano espressione di aree di conflitto, guerra, linee di annessione, sottomissione, fasce di dipendenza, di migrazione: espressione di territori dove i diritti umani sono negati.

Dentro e fuori i con ni di Gaza

Il cielo è di tutti Qualcuno che la sa lunga mi spieghi questo mistero: il cielo è di tutti gli occhi di ogni occhio è il cielo intero. È mio, quando lo guardo. È del vecchio, del bambino, del re, dell’ortolano, del poeta, dello spazzino. Non c’è povero tanto povero che non ne sia il padrone. Il coniglio spaurito ne ha quanto il leone. Il cielo è di tutti gli occhi, ed ogni occhio, se vuole, si prende la luna intera, le stelle comete, il sole. Ogni occhio si prende ogni cosa e non manca mai niente: chi guarda il cielo per ultimo non lo trova meno splendente. Spiegatemi voi dunque, in prosa od in versetti, perché il cielo è uno solo e la terra è tutta a pezzetti.

La storia della restrizione della Palestina a partire dal 1947 è uno degli esempi più espliciti del mutamento dei confini non solo nella definizione dei territori, ma nel determinare la qualità della vita e dei diritti umani di gran parte delle persone che li abitano.

de in modo diretto dagli aiuti umanitari. È sempre più difficile per l’Autorità palestinese coprire le spese e gli investimenti economici essenziali con un deficit di bilancio di oltre un miliardo di dollari annui. Una realtà quotidianamente caratterizzata da estremismi e azioni unilaterali che minacciano di aumentare i rischi per i palestinesi, gli israeliani e per l’intera regione.

Crescere senza diritti

I bambini e gli adolescenti pagano il prezzo più alto della violenza. Nel solo mese di gennaio 2023, 7 minori palestinesi e uno israeliano sono stati uccisi; 2394 bambini palestinesi e 139 israeliani dal 2000. Trentacinque il totale delle vittime palestinesi nel corso di “operazioni di sicurezza” israeliane nel mese di gennaio 2023; nel 2022 furono 220 di cui 38 minori.

Unicef nel rapporto “Children in the State of Palestine” afferma che resta ancora molto da fare affinché ogni bambino palestinese realizzi pienamente il proprio potenziale. Ciò comporta affrontare i numerosi ostacoli che limitano a bambini e giovani, quando non impediscono, l’accesso ai servizi di base e l’adempimento dei propri diritti. Tali ostacoli sono dovuti a molti fattori, non ultimi gli altissimi livelli di violenza a cui sono esposti a scuola e nella comunità come conseguenza del perdurare del conflitto. Quasi un terzo dei palestinesi vive in famiglie al di sotto della soglia di povertà. I tassi di disoccupazione sono alti: 32,4 per cento in tutto lo Stato di Palestina, 53,7 per cento nella Striscia di Gaza, uno dei più alti al mondo. Alto è anche il tasso di abbandono scolastico, lavoro minorile, abuso di sostanze e di matrimoni precoci.

La Risoluzione 181 del mandato dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre del 1947, stabiliva la creazione di uno stato ebraico e di uno arabo. Sono trascorsi 75 anni, ma la nascita di uno Stato palestinese, dotato di indipendenza economica e continuità territoriale, sembra ancora lontana. In Cisgiordania gli abitanti devono convivere ogni giorno con un’occupazione militare e subire azioni di ostracismo messe in atto dai coloni, sono più di 280 insediamenti israeliani considerati illegali dal diritto internazionale che ospitano oltre 450mila persone. La continua crescita degli insediamenti israeliani restringe ogni anno l’area in cui ai palestinesi è permesso vivere, lavorare, giocare e muoversi in sicurezza. Mentre nella Striscia di Gaza, con quasi 2 milioni di persone costrette a vivere in 365 km², la sopravvivenza di più della metà della popolazione dipen-

La mortalità infantile in Palestina è tra le più alte della regione con 17 morti ogni 1000 nati (2,4 in Italia); ma resta ancora molto da fare per ridurre la mortalità neonatale, che rappresenta due terzi della mortalità infantile e la metà dei tassi di mortalità sotto i cinque anni. Restrizioni alla circolazione delle persone, sia da Gaza alla Cisgiordania sia all’interno della Cisgiordania, possono influenzare il rinvio a servizi sanitari adeguati delle madri e dei figli privandoli del diritto a ricevere le cure mediche di cui hanno bisogno. Nello Stato di Palestina, pochissimi bambini in età scolare sono esclusi dall’istruzione, ma all’età di 15 anni quasi il 25 per cento dei ragazzi e il 7 per cento delle ragazze abbandonano la scuola e quasi il 5 per cento dei ragazzi di 10-15 anni e un bambino di 6-9

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Istituto di Ricerche Mario Negri IRCSS, Milano

anni su tre con disabilità non va a scuola. Secondo le stime del Ministero dell’istruzione e dell’istruzione superiore palestinese, attualmente in Cisgiordania ci sono oltre 8000 bambini e 400 insegnanti che necessitano di una presenza protettiva per accedere in sicurezza alla scuola. A Hebron, i bambini palestinesi che vivono e/o studiano nelle scuole della città vecchia devono attraversare fino a quattro checkpoint militari israeliani solo per raggiungere la scuola.

L’elevata crescita della popolazione e la debole gestione delle risorse, insieme alle restrizioni di accesso hanno contribuito a carenze sempre più gravi di acqua potabile sicura e di servizi igienico-sanitari. Nella Striscia di Gaza,

solo il 10 per cento delle famiglie ha accesso diretto a un ambiente pulito e sicuro. Il 97 per cento dell’acqua prelevata dalla falda acquifera costiera è inadatta al consumo umano, oltre ad essere inquinata. Il consumo per persona, con ampia variabilità, è di 79 litri al giorno rispetto ai 100 litri raccomandati dell’Oms per una salute pubblica ottimale. Solo il 38 per cento delle persone in Cisgiordania e l’82 per cento delle persone nella Striscia di Gaza vivono in contesti abitativi collegati alle reti fognarie.

I confini sono quindi contenitori e demarcatori di disuguaglianze… di una terra fatta a pezzetti, mentre il cielo (molto in alto) è uno solo. F

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I confini sono contenitori e demarcatori di disuguaglianze, di una terra fatta a pezzetti, mentre il cielo (molto in alto) è uno solo.

Racconigi, 2011. Questo corridoio è situato a anco di una sala operatoria, al primo piano della struttura manicomiale. Ricordo che rimasi rapito dalle geometrie, dai colori e dal silenzio che invade questi spazi. Negli anni successivi questo luogo è stato vittima di violenti atti di vandalismo che, insieme all’incuria e al passaggio del tempo, ne hanno compromesso la sua struttura, trasformando questo scatto in una delle ultime immagini visibili del manicomio di Racconigi.

Foto di Giacomo Doni

Un con ne uido in sanità?

Finanziare. Progettare. Costruire. Operare. Erogare. Mantenere. Non mancano i terreni su cui immaginare una collaborazione tra le istituzioni e le imprese. Tra pubblico e privato. I sistemi sanitari saranno sempre di più sollecitati a migliorare qualità ed e cienza delle strategie di prevenzione, tutela della salute e assistenza. Inoltre, c’è la grande s da della raccolta dati, del proteggerli e utilizzarli. Ancora, i sistemi sanitari dovranno aprirsi a un’integrazione con la componente sociale, rispondendo alle esigenze di assistenza lungo tutto l’arco della vita e utilizzando la tecnologia per migliorare l’erogazione delle prestazioni. La collaborazione è indispensabile. Da sette anni Forward è un esempio di come si possa stabilire uno spazio di confronto attivo, potenzialmente costruttivo, in cui le diverse parti siano disponibili a dialogare in modo aperto, dimenticando talvolta l’abito al quale sono più legate.

A cura di Rebecca De Fiore

Servono regole condivise per

P erchépubblico e privato dovrebbero collaborare e quali sono le opportunità di contaminazione?

Marina Davoli. Per prima cosa dobbiamo chiarire di quale privato parliamo. Innanzitutto c’è il privato nella gestione dei servizi sanitari che si divide in privato accreditato, che è di fatto una gestione privata di un servizio pubblico, e il privato out of pocket, che sappiamo essere in crescita anche a causa delle assicurazioni fornite dalle aziende ai dipendenti come benefit e per la possibilità di detrazione. Poi c’è la parte dell’industria del farmaco e dei dispositivi, che è un interlocutore sia del gestore pubblico sia del gestore privato. Comunque il pubblico e il privato dovrebbero collaborare, anche solo perché sono tutti attori di uno stesso sistema. A volte, però, non si riescono a identificare bene i confini: pensiamo, ad esempio, all’intramoenia per cui un medico dipendente del servizio pubblico può lavorare in un regime privato nella stessa struttura pubblica o anche in una struttura privata. O, ancora, pensiamo ai trial finanziati dall’industria che però utilizzano le risorse del pubblico sia in termini di personale che di struttura. Quindi è determinante stabilire delle regole per la collaborazione affinché questa sia fruttuosa e porti un vantaggio a tutto il sistema.

È determinante stabilire delle regole per la collaborazione a nché questa sia fruttuosa e porti un vantaggio a tutto il sistema. — Marina Davoli

Intervista a

Walter Ricciardi. Siamo nel mezzo di una tempesta perfetta: quello che sta succedendo è dettato da un lato dalle onde della domanda, ovvero un invecchiamento della popolazione e di conseguenza un aumento di malattie croniche, dall’altro dalle onde dell’offerta, ovvero una grande innovazione tecnologica e una differenziazione professionale con scarsità di professionisti. Tutto questo, se non gestito dal pubblico, determina un aumento delle disuguaglianze. Il pubblico dovrebbe attivarsi per evitarle scegliendo uno dei due modelli che oggi predominano: il servizio sanitario nazionale universalistico e il modello bismarckiano presente ormai nella maggior parte dei Paesi europei. E questo ruolo lo deve esercitare con competenza, professionalità, rigore, trasparenza. Dopodiché nel meccanismo di

di spesa sanitaria privata, circa ¼ della spesa totale

41mld €
forward #29 — CONFINI — 1 / 2023 26 PUBBLICO Fonte dati –dove non speci cato diversamente: Crea Sanità, 18° Rapporto Sanità.

tutelare il diritto alla salute

erogazione delle prestazioni ci deve essere una collaborazione tra pubblico e privato. In Italia il problema è che questo rapporto non è ben regolato ovunque: oscilliamo da realtà in cui il privato viene fortemente incoraggiato, come in Lombardia, a realtà in cui il privato viene sostanzialmente ignorato, fino a realtà in cui il privato deve colmare un vuoto, determinando grande eterogeneità tra Regioni. Dunque servirebbero regole chiare su tutto il territorio nazionale e collaborazioni trasparenti per l’erogazione delle prestazioni e incentrate sul diritto alla tutela della salute.

Quali invece i motivi di possibili con itti e come possono essere a rontati?

Marina Davoli. I conflitti possono nascere quando le regole non ci sono, oppure non sono chiare o non vengono rispettate. Torno a fare l’esempio dell’intramoenia: il cittadino si trova di fronte a un conflitto all’interno della stessa struttura di cui subisce solo gli effetti negativi. Se ci concentriamo sulla parte della gestione dei servizi il grande problema è che il privato ha spesso occupato un vuoto generato dalle carenze del pubblico, costruendo e organizzando strutture per fornire servizi che il pubblico non garantiva. Pensiamo alle residenze sanitarie assistenziali, alla riabilitazione, alla chirurgia ortopedica protesica. È mancata la capacità di committenza del pubblico e di far rispettare gli standard quantitativi e qualitativi. Il Decreto ministeriale 70 del 2015 è stato rivoluzionario perché ha fissato degli standard di qualità misurabili non solo per il privato ma anche per il pubblico. Oggi, a distanza di otto anni da quel decreto, si continuano a pagare con fondi pubblici strutture che non rispettano quegli standard. Questo per dire che non basta un atto regolatorio se non è seguito da azioni che facciano rispettare queste regole. Infine, i conflitti nascono quando le regole non sono uguali. Pensiamo alle regole di assunzione del personale, completamente diverse tra pubblico e privato: il pubblico non può scegliere i propri professionisti, mentre il privato sì.

Ci sono dei con ni che non andrebbero superati?

Walter Ricciardi. Sono quelli del ritiro del pubblico dalla tutela dei diritti e dalla tutela della salute: se il pubblico non investe adeguatamente e soprattutto non regola adeguatamente il sistema, i confini si spostano a vantaggio di un privato che, il più delle volte, non guarda all’equità ma al profitto. Ma nel

momento in cui cessa la tutela pubblica della salute si va incontro a una logica di puro mercato, che in sanità non funziona perché costringe gli operatori a rincorrere continuamente la produttività e quindi ad abbandonare le prestazioni essenziali, come quelle della prevenzione, della sanità pubblica, della tutela della salute mentale, di cui il privato non si può occupare perché nella stragrande maggioranza dei casi poco redditizie.

La delicatezza della gestione dei dati dei cittadini è una delle ragioni che rendono più di cile la collaborazione pubblicoprivato?

Marina Davoli. Una delle ragioni che rende difficile tutta la ricerca sanitaria e non solo la collaborazione pubblico-privato è l’interpretazione miope della normativa che regola la protezione dei dati individuali. In generale oggi rischiamo di perdere una grande occasione di crescita culturale e di lasciare al mercato il potere dei dati. Su questo sarebbe importante una contaminazione tra i due mondi scientifici che si occupano rispettivamente della metodologia della ricerca e di data analytics e intelligenza artificiale, per evitare che siano i dati e non la domanda di ricerca a comandare.

Nel momento in cui cessa la tutela pubblica della salute si va incontro a una logica di puro mercato, che in sanità non funziona. —

Quali sono gli ambiti, gli obiettivi possibili e le opportunità da cogliere per una ricerca collaborativa pubblico-privato nella sanità pubblica?

Walter Ricciardi. Penso sia necessaria una regolazione forte e trasparente da parte del pubblico, finalizzata alla tutela del diritto alla salute in maniera uniforme e omogenea su tutto il territorio nazionale. Una volta posta questa condizione, è possibile una collaborazione tra gli attori del pubblico e privato lasciando a ognuno gli spazi che merita in funzione della propria professionalità. Si tratta di collaborare insieme per capire come soddisfare la domanda che è legata alla tipologia degli interventi e alle strutture.

Marina Davoli. Alla base di una ricerca collaborativa virtuosa tra pubblico e privato deve esserci una definizione pubblica delle

priorità e dei quesiti della ricerca che non deve venire dal mercato ma dalle esigenze di conoscenza del nostro sistema sanitario per rispondere ai bisogni dei cittadini. Stessa cosa vale per la definizione di regole per il disegno di un protocollo valido scientificamente e la pubblicazione dei risultati anche se scomodi. A mio avviso gli ambiti di una ricerca collaborativa dovrebbero essere quelli di interesse pubblico. Non posso non ricordare l’esempio virtuoso della ricerca indipendente di Aifa, che partiva proprio da questo concetto. Quando un’industria conduce una serie di studi sperimentali e questi studi superano le prime fasi della ricerca, l’industria stessa per l’immissione sul mercato del farmaco si dovrebbe impegnare a co-finanziare una ricerca valutativa sperimentale o osservazionale. Dunque, la contaminazione tra pubblico e privato e quella tra ricerca e assistenza sono tutti elementi potenzialmente molto positivi. La ricerca nel nostro Paese, come sosteneva anche Alessandro Liberati più di dieci anni fa, non dovrebbe essere solo appannaggio degli Irccs ma di tutto il servizio sanitario. Su questo invece siamo tornati indietro.

Lavorando in un ente privato convenzionato, si sente comunque l’appartenenza al Servizio sanitario nazionale?

Walter Ricciardi. Assolutamente sì. Anche in questo caso bisognerebbe distinguere tra strutture accreditate non profit e strutture accreditate profit che hanno una diversa visione. Attualmente vengono spesso accomunate, ma è un errore grave perché si sottovaluta che la mission delle strutture non profit è svolgere un ruolo pubblico. Se si lavora all’interno di una istituzione non profit è chiaro che ci si sente parte di un servizio pubblico e di una missione addirittura più grande. F

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PRIVATO
3,3 prestazioni di specialistica ambulatoriale per abitante erogate dal Ssn
E

Logiche diverse ma obiettivi comuni

Quali possono essere considerati gli obiettivi comuni delle istituzioni e delle imprese che lavorano nell’ambito sanitario?

L’obiettivo comune è trovare soluzioni compatibili con il Servizio sanitario nazionale e sostenibili per rendere equamente disponibili ai pazienti i risultati della ricerca e sviluppo delle aziende. Questo obiettivo comune è tanto semplice quanto difficile. Per raggiungerlo è necessario trovare un equilibrio tra le aspettative di profitto delle aziende e i desideri di risparmio del sistema pubblico. In questo equilibrio si deve trovare una soluzione che possa funzionare per entrambi.

Qual è la zona di rispetto che chi lavora nelle istituzioni deve osservare nel rapportarsi con chi lavora nelle imprese e, viceversa, chi lavora nelle imprese dovrebbe rispettare per entrare in relazione con chi lavora nelle istituzioni?

Penso debba essere caratterizzata dalla trasparenza. Credo anche che ognuno debba avere sufficienti elementi e sufficiente potere per decidere “le cose che lo riguardano”. Faccio un esempio: trovo poco accettabile semplificare la questione della determinazione dei prezzi come il frutto di un calcolo in base ai fattori produttivi. Credo che la scelta del pricing debba essere considerata responsabilità e ambito esclusivo delle imprese. A queste deve essere chiesto che seguano le regole, che producano innovazione e definiscano un prezzo che per loro sia accettabile al fine di mantenere i profitti e investire in nuova innovazione. Ma, d’altra parte, è chiaro che un altro spazio invalicabile è il modo in cui il sistema vuole scegliere di investire le proprie risorse: se ne vuole spendere tante o poche per i farmaci o per l’organizzazione delle cure è chiaramente una sua responsabilità e scelta politica. Si tratta di un ambito nel quale le valutazioni delle istituzioni devono essere rispettate e nel quale chi lavora nell’industria ha voce solo come cittadino, ma non come azienda. Penso quindi che ci siano degli spazi riservati ed è giusto che funzionino con logiche diverse: la logica privata, che è quella del profitto, e la logica pubblica, che è quella del seguire gli obiettivi del sistema sanitario. In mezzo, però, c’è una grande area di contiguità in cui è utile darsi delle regole comuni e possibilmente obiettivi comuni così che ci si senta protetti e si sappia come comportarsi. La programmazione, la gestione delle aspettative, le regole chiare portano a scelte migliori e più durature, eliminano i contenziosi e producono complessivamente maggiore qualità nel sistema.

Programmazione, gestione delle aspettative e regole chiare portano a scelte migliori e più durature, eliminano i contenziosi e producono complessivamente maggiore qualità nel sistema.

Per stabilire queste regole di reciproco rispetto quanto è importante che si conosca il lavoro degli altri?

È molto importante, ma credo che a monte ci sia sempre bisogno di rispetto per il ruolo degli altri. Non possiamo conoscere tutto quello che fa un cardiochirurgo o un ingegnere o un funzionario del Ministero. Ci dobbiamo affidare alla loro competenza e professionalità. Parto dal presupposto del rispetto per il loro lavoro, qualsiasi esso sia all’interno dell’organizzazione. Poi, certamente, se lo conosco è più facile capirlo e valutarlo, mettersi nei panni degli altri, comprendere le difficoltà e cercare soluzioni. In ogni caso non si può pensare che se non si conosce il lavoro di qualcuno si possono ignorare le sue istanze!

Quali contaminazioni sono possibili e quali sono addirittura auspicabili nel lavorare insieme?

Una cosa che a me piace molto, che non esiste nel nostro contesto, è il fatto di poter passare da un ruolo all’altro, o meglio da una parte all’altra degli ambiti lavorativi (pubblico e privato, regolato e regolatore). Credo che il tema del conflitto di interesse ci abbia condizionato troppo e invece sarebbe importante poter “cambiare casacca” ogni tanto, sarebbe un segno di rispetto per il professionismo. Dietro la parola “professionismo” vedo tante cose molto importanti: il rispetto per ciò che fai, per il modo in cui lo fai, la deontologia, il valore della tua reputazione. Se ho passato una parte della mia vita a lavorare in un istituto di ricerca, una parte in un’azienda farmaceutica, una parte in una asl, una parte in una Regione mi sarà più facile capire come è fatta la realtà. Una realtà complessa in cui tutti i soggetti condividono una serie di elementi e si contaminano il più possibile come linguaggio, come competenze, come aspirazioni, come sistema di controllo. La prima contaminazione penso sia proprio frequentare posti diversi, anche semplicemente come luoghi. Molti convegni, ad esempio, sono le poche occasioni importanti in cui le persone si vedono, si parlano, ascoltano le ragioni reciproche.

In quale ruolo si vedrebbe se lavorasse nel pubblico?

Quando ero ragazza, neolaureata, volevo a tutti i costi lavorare nel pubblico per una questione di natura etica. Vengo da una famiglia dove nessuno aveva lavorato nell’industria. Ho grande rispetto per chi lavora nel pubblico, ne capisco la difficoltà perché si tratta di un terreno in cui le responsabilità nei confronti della società sono più dirette. Nelle aziende se fai male il tuo lavoro danneggi gli azionisti, nel pubblico penalizzi le risorse pubbliche. Pensando a dove mi vedrei, restando nel mio ambito, mi piacerebbe lavorare alla European medicines agency. Ma, se dovessi cambiare proprio tutto, alcune volte mi piace pensare di avere un ruolo “politico”, perché no anche in Parlamento, per scrivere leggi nuove che aiutino a costruire un futuro migliore F

6 strutture sanitarie pubbliche ogni 100mila abitanti
Francesca Patarnello VP Market access & Government a airs AstraZeneca Intervista a
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28 PUBBLICO

Quali sono gli obiettivi condivisi tra imprese e istituzioni che operano in campo sanitario?

L’obiettivo comune è dare ciascuno il proprio contributo alla società. Un’azienda lo fa mettendo a disposizione competenze e strumenti che purtroppo oggi, banalizzando, si considerano solo prodotti. Penso, infatti, che oggi un’azienda del farmaco svolga un ruolo centrale nel sistema salute fornendo soluzioni terapeutiche da un lato ma anche idee, risorse, punti di vista differenti e conoscenza del territorio. Le imprese, attraverso le loro istanze ed iniziative, forniscono una spinta rispetto all’inerzia che tende ad avere la pubblica amministrazione nel contesto attuale. Le aspettative per una collaborazione sono poi condizionate dai pregiudizi, dall’errore di “confinare” l’altro, dalla mancanza di ascolto reciproco e di chiarezza negli strumenti normativi che delimitano appunto “i confini”. L’aspettativa reale è quella di una partnership nel cui ambito ciascuno fornisce il proprio contributo di valore per raggiungere obiettivi comuni all’interno di un campo di gioco le cui regole sono definite in partenza, condivise e rispettate da entrambe le parti. Si ritiene spesso che solo le aziende siano mosse da interessi specifici, ma di fatto anche le istituzioni seguono le stesse dinamiche.

Si ritiene spesso che solo le aziende siano mosse da interessi speci ci. Ma anche le istituzioni seguono le stesse dinamiche.

Si è parlato delle imprese come fornitori di esperienza e di una speci ca cultura nei confronti delle istituzioni. Secondo lei qual è la conoscenza maggiore che potrebbe essere trasmessa dalle imprese private alle istituzioni pubbliche?

La conoscenza della realtà. La presenza sul territorio permette la raccolta continua di informazioni e di dati che possono fornire elementi importanti sull’implementazione delle decisioni assunte a livello istituzionale, sia nazionale che regionale. Uno sguardo limitato – “confinato” – solo sul proprio mondo non permette di leggere la realtà per quello che è. La condivisione delle informazioni potrebbe essere strategica per entrambe le parti. Eppure vi sono istituzioni che ancora non condividono i loro dati, condizionando le scelte e le decisioni di molti attori del sistema, senza valutare l’impatto sulla vita dei cittadini e delle aziende. Prenderei ad esempio quel che accade nel percorso di accesso ai farmaci. Nel momento in cui il farmaco viene autorizzato a livello nazionale si immagina che – sulla base del nostro

Intervista a sistema universalistico – tutti i pazienti possano usufruirne contemporaneamente in una dimensione di equità di accesso. Sappiamo invece che esistono 21 differenti realtà regionali che generano con i loro percorsi amministrativi grandi disparità. Se le aziende non avessero segnalato il problema, questa disparità non sarebbe stata tangibile. Altro esempio importante – molto correlato alla mancata condivisione di informazioni – è quello dell’aderenza. Le aziende ne hanno iniziato a parlare diversi anni fa sottolineando come avrebbe dovuto essere un tema di interesse anche per le istituzioni, senza riscontrare inizialmente molta attenzione. Ci sono voluti diversi anni prima che diventasse un argomento di rilevanza generale e lo stimolo è arrivato dal privato. Dunque, credo che un’azienda possa contribuire in maniera importante al processo di miglioramento continuo che deve necessariamente caratterizzare il settore della salute, stimolando la riflessione su alcuni temi importanti portando la propria esperienza, il proprio contributo, le proprie competenze e la propria visione sistemica.

Quali contaminazioni di valori o di esperienze sarebbero auspicabili tra pubblico e privato?

Penso sia necessario prevedere dei momenti di confronto in cui l’azienda possa condividere le informazioni raccolte, anche per assicurarsi che le decisioni che ne scaturiscono siano assunte in maniera intellettualmente onesta. Questo partendo dalla premessa che l’interesse di tutte le parti sia la salute dei cittadini e che qualsiasi scelta sia compiuta dopo una valutazione equa del valore di ciascuna proposta ricevuta. Servirebbero, come avviene in altri Paesi, momenti strutturali per ascoltare e riconoscere l’interesse dell’altro, stabilendo un confine che sia un punto di contatto e qualcosa che sottolinei la distanza. Parlando del percorso decisionale, se ci fossero più trasparenza e momenti di condivisione probabilmente molte cose si risolverebbero. Un altro aspetto riguarda la contaminazione delle idee, e il progetto Forward ne è un esempio: diversi professionisti, ciascuno con la propria esperienza e la propria visione, mettono in comune le proprie idee. Credo purtroppo che manchino luoghi e circostanze in cui farlo e dovrebbero essere favoriti dalle istituzioni. Non vorrei sembrare nostalgica, ma in passato c’erano più occasioni per confrontarsi in modo costruttivo… si passava una giornata a riflettere, a cercare di venirsi incontro, trovare delle soluzioni condivise nel rispetto degli interessi delle singole parti, sempre con la logica di collaborare per la salute dei cittadini. Oggi questo approccio si è un po’ perso e non vorrei che questo sia dovuto al timore di un confronto aperto e costruttivo. F

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9 strutture sanitarie private accreditate ogni 100mila abitanti E PRIVATO
Contatti al confine, con l’ascolto reciproco

Il contesto sanitario complesso richiede sempre più collaborazione e competenze multidisciplinari. Per esempio, nell’ambito della comunicazione hanno sempre maggiore importanza le gure che sono in grado di “interagire” con i software di intelligenza arti ciale. Cosa sta succedendo nel vostro settore a questo riguardo?

Gestire la complessità significa fare in modo che l’innovazione diventi un’opportunità anziché un problema: penso ai nuovi trattamenti, alla possibilità di combinare farmaci con soluzioni digitali, alle opportunità per accompagnare il paziente in tutto il percorso diagnosticoassistenziale. Per massimizzare i benefici che l’innovazione può portare, è necessaria una collaborazione tra figure differenti, in alcuni casi anche nuove figure professionali come i data scientist. Personalmente mi occupo di ricerca e mai come negli ultimi anni ho lavorato con informatici, ingegneri, esperti di digitale; questo richiede non solo di acquisire nuove competenze ma anche di saper dialogare con qualcuno che fa un mestiere diverso dal proprio trovando un lessico comune che superi il confine della propria competenza individuale. Bisogna avere voglia di lasciarsi reciprocamente contaminare nella logica di imparare qualcosa di più.

Nel confronto tra pubblico e privato molte barriere cadono nel momento in cui si porta valore al tavolo della discussione, perché spesso gli obiettivi sono comuni e le competenze complementari.

Il “governo intelligente” dei dati è un aspetto chiave sia per le istituzioni sia per le aziende della comunicazione e del farmaco. La condivisione dei dati della ricerca è stata molto discussa negli anni passati: oggi la situazione sembra essere migliore. La vostra azienda ha da tempo de nito nuove policy che hanno sottolineato una discontinuità rispetto al passato: quali sono i punti chiave su cui agire per superare i con ni tra pubblico e privato?

Anche in questo caso non si può non parlare di competenze perché alcune volte è la paura del non sapere esattamente come affrontare un problema a diventare una barriera che impedisce di fare un passo avanti. Ma la chiave penso stia nel superare il conflitto di interessi e i confini

e di valori

Intervista a

di ruolo, identificando obiettivi comuni di sistema e sostenendoli in sinergia: rendere l’Italia più attrattiva come Paese in cui investire in ricerca, migliorare il contesto tecnico e normativo per l’utilizzo dei big data in sanità, ad esempio. Noi, come azienda, rispetto al data sharing abbiamo un approccio molto rigoroso e nel contempo molto aperto alla condivisione: da anni mettiamo a disposizione dei ricercatori i dati dei nostri studi. Al contrario, non è altrettanto facile accedere ai dati del servizio sanitario per noi utili al fine di rispondere a domande che possono anche migliorare la pratica clinica. Dunque, a proposito di confini, l’Italia dovrebbe abbracciare un approccio su cui già l’Unione europea spinge e posizionarsi fra i Paesi più innovativi e più aperti.

A proposito di con itti di interesse, qualche anno fa il New England Journal of Medicine promosse una serie di contributi che sottolineavano il bisogno di ripensare la questione sostenendo la “convergenza di interessi” tra la ricerca istituzionale e quella promossa dalle industrie. È sicuramente vero che l’obiettivo condiviso è il benessere dei cittadini e la cura dei pazienti. Arriviamo a un altro tema chiave: noi – come aziende editoriali – e voi – l’industria farmaceutica – siamo accusati di conseguire utili troppo elevati al punto da rendere di cile la sostenibilità del sistema sanitario. Come possiamo ridurre i motivi di con itto legati a questi argomenti?

Penso che si dovrebbero focalizzare le riflessioni sul valore che le soluzioni da noi offerte portano alle persone e al sistema. Inoltre, andrebbe tenuto in considerazione che lavorare con rigore, qualità ed eticità richiede significativi investimenti, tanto nei singoli progetti quanto nel capitale umano. Una quota non irrilevante degli utili, fra l’altro, viene nuovamente investita in ricerca e in formazione, oltre che nel garantire la sostenibilità economica. Occorre trovare un bilanciamento tra questi elementi e probabilmente occorre spiegarli e raccontarli ancora, per guadagnare credibilità e fiducia, anche da parte dei cittadini. Abbiamo visto come la percezione del lavoro di un’azienda farmaceutica cambi nel momento in cui ci si rende conto che la maggior parte delle soluzioni terapeutiche viene sviluppata grazie alla ricerca privata. Credo che di base ci sia una superficialità nella conoscenza del settore che può essere superata solo attraverso la comunicazione: spiegando più nel dettaglio come il lavoro viene svolto, facendo conoscere le persone che ci sono dietro e che contribuiscono ad arrivare a dei risultati con competenza, impegno e passione. Nella mia esperienza, nel confronto tra pubblico e privato molte barriere cadono nel momento in cui si porta valore al tavolo della discus-

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30 PUBBLICO
Convergenze di interessi

40% domande di autorizzazione all’Ema con incluse le real world evidence

sione perché tante volte, appunto, gli obiettivi sono comuni e le competenze complementari. Tra pubblico e privato penso sia importante il dialogo, scambiarsi prospettive, perché si è esposti a esperienze diverse.

La disponibilità di grandi volumi di dati, potenzialmente in tempo reale, rende possibile disegnare e condurre ricerche impensabili no a pochi anni fa.

La ricerca osservazionale sta traendo enorme bene cio da queste opportunità: come pensa che l’utilizzo dei real world data possa integrare la conduzione di studi controllati randomizzati?

Occorre fare una premessa: nonostante si parli di dati in sanità ormai da qualche anno, abbiamo ancora diverse barriere da superare in termini di disponibilità e governance dei dati. Finalmente riscontriamo la concreta volontà politica nell’investire in infrastrutture e regole specifiche, e speriamo che con il Pnrr e le numerose iniziative in corso a livello europeo si facciano rapidamente i necessari passi in avanti.

Lo studio controllato randomizzato metodologicamente rimane il gold standard per valutare l’effetto di un intervento, ma dobbiamo considerare due cose: non sempre, a seconda dell’area di patologia presa in esame, lo possiamo condurre; non a tutte le domande, anche per ragioni di tempo e sostenibilità, si può rispondere con le metodiche tradizionali. I dati di pratica clinica, che sono la “traccia” che ogni paziente lascia nel sistema sanitario durante il suo percorso assistenziale, diventano una fonte preziosa di informazioni complementari alla ricerca clinica, non sostituendola ma integrandola, rispondendo a domande aggiuntive. Sono convinta, quindi, che le sfide

che ci troviamo a gestire richiedano di superare il confine tra i disegni tradizionali (studi clinici randomizzati controllati) e le metodiche nuove (valorizzazione del digitale e dei big data) per rispondere a quesiti rilevanti per la sanità, sia clinici che umanistici ed economico-organizzativi.

Anche in sanità i con ni geogra ci sono importanti. Nonostante l’impegno di molti Paesi, l’Unione europea non riesce a garantire ai cittadini delle diverse nazioni un accesso omogeneo ai medicinali condizionandone in modo radicale la salute. Quali sono gli obiettivi da raggiungere?

I confini vengono purtroppo percepiti in tutti gli ambiti, non solo in quello sanitario ma anche in ambito sociale, economico, culturale. L’Europa stessa si dimostra in questo senso molto frammentata. In Italia, inoltre, abbiamo anche una serie di disuguaglianze legate ai confini regionali. Il confine come ricchezza ed eterogeneità delle varie realtà mi piace, tuttavia in alcuni ambiti diventa inevitabilmente barriera al pieno, rapido ed efficace sviluppo di approcci nuovi.

A livello europeo, anche in ambito sanitario, esistono iniziative e strategie comuni che segnano la direzione. Il problema è come e quando i singoli Paesi si adeguano e le adottano. Probabilmente, per quanto riguarda i dati sanitari e la ricerca, vedremo i benefici anche nel breve termine. Dal punto di vista dell’azienda per la quale lavoro, il fatto di avere una visione che superi i confini nazionali è sicuramente auspicato. A livello interno, anche come ricerca clinica, abbiamo un’organizzazione che sempre più non lavora entro i confini di un Paese, ma in un network diffuso, che favorisce la condivisione, la contaminazione, l’efficienza. Speriamo di assistere a un’evoluzione positiva in questo senso anche dal punto di vista della ricerca, con i nuovi regolamenti che stimolino una circolazione più libera delle informazioni, delle risorse, delle competenze e un allineamento maggiore tra i diversi Paesi. F

La s da è superare il con ne tra i disegni tradizionali e le metodiche nuove per rispondere a quesiti rilevanti per la sanità, sia clinici che umanistici ed economico-organizzativi.

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Fonte: Ema, dati riferiti al 2018-2019.
E PRIVATO

Senza conflitti per la sicurezza dei farmaci in Europa

Un codice di condotta per una ricerca di qualità, trasparente e indipendente

Nell’Unione europea l’autorizzazione al commercio dei farmaci si basa sui risultati di studi clinici randomizzati presentati alle autorità regolatorie dalle aziende produttrici. Nella maggioranza dei casi, la procedura è centralizzata e passa attraverso l’Agenzia europea del farmaco (European medicines agency, Ema). Se da un lato gli studi clinici consentono di chiarire la dimensione dell’efficacia del farmaco, dall’altro non sono in grado di fornire prove definitive sulla sua sicurezza non avendo la potenza sufficiente a investigare eventi avversi rari. Questi ultimi, se sufficientemente gravi, possono modificare la decisione dei regolatori sul profilo rischiobeneficio. Proprio per tale ragione l’indagine sulla sicurezza dei farmaci deve proseguire anche dopo la loro approvazione.

Fino al 2005 l’approccio alla sicurezza post-marketing era in massima parte affidato al sistema di segnalazione spontanea. Successivamente, a questa “attesa passiva” il regolatore ha affiancato una iniziativa “proattiva” con l’introduzione di un piano di gestione del rischio che contiene una lista di azioni tese a identificare precocemente i rischi del farmaco e a limitarne l’impatto clinico1. Tra queste azioni sono spesso previsti specifici studi osservazionali con cui all’azienda produttrice viene richiesto di presentare attivamente prove sulla sicurezza: i quesiti si concentrano su potenziali eventi avversi rilevati nel corso del trial clinico o si focalizzano su sottopopolazioni escluse dagli studi stessi (per esempio, donne in gravidanza) oppure possono indagare il successo delle misure di minimizzazione dell’impatto clinico di rischi già noti.

La rete ENCePP e il codice di condotta

L’Ema ha risorse limitate per commissionare studi diretti che sono quindi ristretti ai quesiti che pongono a confronto prodotti diversi. Questa mission è stata rilanciata recentemente con l’infrastruttura Darwin (Data analysis and real world interrogation network) la quale però non partecipa all’attuazione dei piani di gestione del rischio. Non sfugge quindi la complessità insita in un’architettura del sistema in cui le evidenze sulla sicurezza di un farmaco vengono presentate dall’azienda stessa che lo commercia, la quale però si trova in una situazione di conflitto di interessi.

Il sistema aveva quindi bisogno di un contrappeso, che rinforzasse la capacità di condurre studi indipendenti e di qualità in Europa. L’intenzione era di indirizzare le aziende ad affidare la generazione delle evidenze richieste a centri di ricerca qualificati, disegnando strumenti che ne garantissero l’indipendenza.

Nel 2006, Ema ha contattato più di novanta istituzioni scientifiche europee identificate, tramite la International society for pharmacoepidemiology (Ispe) e le autorità regolatorie nazionali, che a distanza di un anno hanno dato origine alla rete European network of centres for pharmacoepidemiology and pharmacovigilance (ENCePP). ENCePP si basa sui principi di trasparenza, indipendenza scientifica e standard di qualità. Ha una struttura democratica, con uno steering group i cui membri eletti si riuniscono periodicamente insieme a rappresentanti dei regolatori. I gruppi di lavoro di ENCePP producono linee guida metodologiche che sostanziano gli standard di qualità2

Inoltre, ENCePP ha sviluppato un codice di condotta, alla sua quarta revisione con l’aggiornamento di pochi anni fa3. Il codice fonda la sua efficacia su due meccanismi: da un lato, l’esercizio della trasparenza, con l’obbligo di pubblicare su un registro online, gestito da Ema e pubblicamente accessibile, il protocollo dello studio prima del suo inizio e i risultati dopo la sua conclusione; dall’altro l’imposizione di confini precisi al ruolo dello sponsor, ai cui dipendenti è precluso il ruolo di principal investigator e di scientific advisor. L’indipendenza scientifica si sostanzia nel fatto che la responsabilità finale di ogni scelta rimane nelle mani del principal investigator.

Il codice di condotta fonda la sua e cacia su due meccanismi: l’esercizio della trasparenza e l’imposizione di con ni precisi al ruolo dello sponsor.

Criticità e opportunità

L’applicazione del codice di condotta negli studi post-autorizzativi richiesti è raccomandato dalle linee guida di buone pratiche pubblicate dall’Ema4. Tuttavia queste linee guida non sono vincolanti: l’adesione al codice è una condizione che molti ricercatori impongono alle case farmaceutiche per impegnarsi negli studi, ma in questa negoziazione la posizione dei ricercatori rischia di rivelarsi debole. La ricerca è tanto più forte quanto più i ricercatori si sostengono a vicenda; a questo scopo molti centri di ricerca ENCePP formano consorzi per la conduzione di studi in aree specifiche: due importanti esempi sono l’associazione VAccine monitoring collaboration for Europe (www.vac4eu.org) e il consorzio Sigma (www.sigmaconsortium.eu).

Un supporto indispensabile viene però dalla più ampia comunità scientifica che – se consapevole e se valorizza le evidenze generate da studi aderenti al codice – rinforza nei fatti l’importanza della trasparenza e dell’indipendenza scientifica. F

1. European commission. Implementing regulation (EU) No 520/2012 of 19 June 2012 on the performance of pharmacovigilance activities provided for in Regulation (EC) No 726/2004 of the European Parliament and of the Council and Directive 2001/83/EC of the European Parliament and of the Council. Disponibile a questo indirizzo: https://eur-lex.europa. eu/eli/reg_impl/2012/520/oj

2. Kurz X, Perez-Gutthann S; ENCePP steering group. Strengthening standards, transparency, and collaboration to support medicine evaluation: ten years of the European network of centres for pharmacoepidemiology and pharmacovigilance (ENCePP). Pharmacoepidemiol Drug Saf 2018;27:245-52.

3. Gini R, Fournie X, Dolk H, et al. The ENCePP code of conduct: a best practise for scienti c independence and transparency in noninterventional postauthorisation studies. Pharmacoepidemiol Drug Saf 2019;28:422-33.

4. European medicines agency. Guideline on good pharmacovigilance practices (GVP) – Module VIII – Post authorisation safety studies (Rev 3). 9 october 2017.

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Rosa Gini Responsabile farmacoepidemiologia Ars Toscana

LA BUROCRAZIA

UN ITER FONDAMENTALE PER GARANTIRE SICUREZZA E QUALITÀ DELL’ASSISTENZA SANITARIA

L’iter che un medico straniero deve percorrere per poter esercitare in Italia, lungi dall’essere inutile burocrazia, costituisce un sistema di controlli e di garanzia per la sicurezza delle cure e per la qualità dell’assistenza. Il riconoscimento dei titoli e, in generale, le modalità ordinarie di esercizio della professione medica sono infatti strumenti che consentono un controllo preventivo sulla preparazione, sulla formazione e sulla qualificazione di medici provenienti dall’estero, tutti controlli ai quali un medico italiano è sottoposto senza eccezioni.

Cosa dice la legge

La procedura ordinaria, tuttora vigente, distingue tra Paesi comunitari ed extra Ue. Il riconoscimento dei titoli avviene, per i Paesi comunitari, ai sensi della Direttiva comunitaria 2005/36, e viene sancito dalla Conferenza dei servizi (composta dal Miur, dal Ministero della salute e dalla Fnomceo), che controlla che i titoli siano conformi. Nella pratica, un sanitario che desidera gli venga riconosciuto il titolo deve inviare il titolo stesso tradotto in italiano – da un perito giurato o dall’ambasciata – al Ministero della salute. Se ha già esercitato nel Paese estero deve allegare anche un certificato di “good standing”. Occorre anche dimostrare di saper parlare l’italiano: la verifica spetta all’Ordine che può effettuarla tramite colloquio o prove attitudinali. Diversa è la situazione se la laurea è stata conseguita in un Paese extracomunitario: il controllo, in questo caso, è molto più incisivo e stringente, prevede la presentazione di una documentazione analitica e può concludersi, oltre che con il diniego, anche con l’obbligo di fare un tirocinio presso una struttura pubblica oppure con il superamento di una prova attitudinale.

Deroghe e disuguaglianze

Ora la normativa prevede, sino al 31 dicembre 2025, la possibilità per le Regioni di impiegare medici extracomunitari in deroga al normale iter di riconoscimento dei titoli. Il professionista dovrà comunicare all’Ordine competente l’ottenimento del riconoscimento in deroga da parte della Regione e il nominativo della struttura presso la quale presta attività. Non si tratta in ogni caso di una vera e propria iscrizione, non c’è dunque il controllo deontologico del professionista da parte dell’Ordine.

Per facilitare l’iter si può e si deve agire ra orzando gli u ci preposti del Ministero, investendo maggiori risorse umane ed economiche.

Una scelta che, motivata inizialmente dallo stato pandemico sanitario e mirata ad affrontare un’emergenza del calibro della covid-19, desta notevoli perplessità se applicata in altre circostanze, visto che attenua le garanzie poste in via ordinaria a presidio della sicurezza delle cure in favore del cittadino. La comparazione tra i due interessi giuridici, e cioè la sicurezza delle cure e il ricorso a mezzi straordinari di reclutamento del personale, non appare giustificare la deroga al sistema di garanzia, specie se questa è determinata da esigenze che, pur impattando sull’assistenza, sono tutt’altro che improvvise e non altrimenti gestibili con strumenti ordinari. Ma perché questa legge? Si tratta di una “toppa” voluta dalle Regioni per porre rimedio a una situazione che loro stesse hanno contribuito a creare. Al nostro Servizio sanitario nazionale mancano, infatti, tra ospedale e territorio, più di 20mila medici. La situazione peggiorerà nei prossimi cinque anni, quando andranno in pensione 50mila medici del Servizio sanitario nazionale, tra specialisti e medici di medicina generale. Inoltre, molti medici lasciano la sanità pubblica per le condizioni difficili di lavoro, i turni infiniti, lo stress, le aggressioni, la scarsa soddisfazione, la burocrazia. E, per un’errata programmazione, le Regioni non hanno formato, in passato, abbastanza specialisti per sostituirli. Di qui il ricorso ai medici stranieri in deroga al riconoscimento dei titoli: saltando cioè il passaggio fondamentale con il quale il Ministero certifica che le competenze di un medico laureato o specializzato all’estero siano uguali a quelle di chi si è formato in Italia. Un passaggio che non è solo formale, ma sostanziale: garantisce, infatti, che tutti i medici e i professionisti che operano nel Servizio sanitario nazionale abbiano competenze uniformi e qualificate per svolgere le loro funzioni. Bypassarlo crea disparità con i medici italiani, che per esercitare devono formarsi per nove/undici anni, acquisendo competenze determinate per legge, e poi iscriversi agli Ordini. Crea disparità rispetto a quei professionisti che sinora hanno seguito e seguono il normale iter. E, cosa più importante, crea disuguaglianze nell’accesso alle cure, perché i cittadini, a seconda della Regione in cui vivono, vengono affidati a professionisti con competenze e vincoli deontologici non uniformi. I medici stranieri chiamati in deroga, infatti, non sono sottoposti nemmeno al controllo deontologico da parte degli Ordini, che non possono verificare, oltretutto, la conoscenza della lingua italiana, importante perché, come dice la legge, la comunicazione è tempo di cura.

In conclusione, i colleghi stranieri sono i benvenuti, ma a condizione che siano verificati i loro titoli. Per facilitare l’iter si può e si deve agire rafforzando gli uffici preposti del Ministero, investendo maggiori risorse umane ed economiche. F

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Filippo Anelli Presidente Federazione nazionale ordini dei medici chirurghi e odontoiatri

BUROCRAZIA

UNA BARRIERA PER I MEDICI STRANIERI CHE VOGLIONO LAVORARE IN ITALIA

L’esercito dei professionisti della sanità di origine straniera che lavora in Italia è fatto di 22mila medici, 38mila infermieri, più di 11mila tra farmacisti, fisioterapisti, odontoiatri, psicologi e altre specializzazioni. In totale sono oltre 77.500, molti arrivati in Italia a cavallo degli anni ’70 e ’90 per studiare, altri durante la seconda fase di immigrazione, avvenuta dopo la caduta del muro di Berlino, altri ancora all’inizio delle Primavere arabe. Secondo le statistiche dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) e dell’Unione medica Euromediterranea (Umem), in Europa ci sono 650mila medici di origine straniera di cui 150mila in continua mobilità.

L’anamnesi

Di tutti i professionisti di origine straniera che lavorano nella sanità italiana, il 65 per cento non ha la cittadinanza; l’80 per cento lavora nel privato, il restante 20 per cento nel pubblico o come medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. La maggioranza di chi lavora nel pubblico fa parte di quella prima categoria di medici laureati in Italia 40 anni fa che ha ottenuto nel tempo la cittadinanza, visto che per accedere ai concorsi pubblici è necessaria. Questo è un problema ancora in essere e che abbiamo sollevato oltre venti anni fa, quando nacque l’Amsi, avviando un dialogo con il governo, con il Ministero della salute, con gli albi professionali e con la Fnomceo, con cui collaboriamo dal 2000. La nostra associazione ha proposto che chi lavora in Italia regolarmente da cinque anni, conosce bene la lingua e la cultura italiane, la cultura e l’educazione sanitarie, tutti gli aspetti connessi alla medicina legale e difensiva abbia la possibilità di accedere ai concorsi pubblici senza l’obbligo della cittadinanza. Perché? Per cercare di risolvere ciò che denunciamo da anni, ovvero la carenza di medici, specialisti, infermieri e fisioterapisti in Italia, come testimoniano i numeri: negli ultimi sei anni abbiamo ricevuto più di 9mila richieste di medici specialisti da tutte le strutture, pubbliche e private. Una tappa fondamentale è stata quella del decreto-legge “Cura Italia” del 17 marzo 2020 che ha permesso ai medici di origine straniera di lavorare senza l’obbligo del riconoscimento del titolo, per via dell’emergenza pandemica. Proprio in quel periodo abbiamo visto arrivare medici cubani, egiziani, russi, ucraini

In Italia per ottenere il riconoscimento del titolo di laurea ci vuole almeno un anno e mezzo di tempo.

e da molti altri Paesi. Ultimamente invece le aziende sanitarie si avvalgono delle manifestazioni di interesse, ovvero un modo per reclutare medici – senza un concorso pubblico – in base alle carenze e alle necessità, accessibile anche ai medici di origine straniera senza cittadinanza. Le più note tra queste sono state fatte con la Regione Lazio e l’ultima in ordine cronologico con l’Asp di Trapani, che richiedeva medici di pronto soccorso, cardiologi e altri specialisti. Oltre alle regioni che richiedono medici stranieri, e sono sempre di più, ce ne sono alcune che si rivolgono direttamente all’estero, come ha fatto la Regione Calabria.

Deserti sanitari

Il problema che riguarda i cosiddetti deserti sanitari non è soltanto italiano o europeo, bensì mondiale, ma l’Italia, rispetto ad altri Paesi, ha lacune molto importanti dal punto di vista burocratico. Per ottenere il riconoscimento del titolo ci vuole almeno un anno e mezzo di tempo. Un medico, con la carenza di professionisti sanitari a livello mondiale, non aspetta un anno e mezzo per ricevere una risposta e si sposta altrove, dove l’iter è molto più veloce. Altro problema sono i salari, più bassi rispetto ad altri Paesi, ma anche la medicina difensiva e le denunce. Inoltre, negli ultimi quindici anni, la parola programmazione in sanità non è stata mai citata, tantomeno applicata. Per questo ci troviamo in questa emergenza, marcata dalla pandemia. Le statistiche parlano chiaro, abbiamo un aumento del 35 per cento dei medici italiani che vogliono andare all’estero. Alcuni medici stranieri invece tornano nei Paesi di origine perché la situazione lì è migliorata: al primo posto Polonia, Albania, Romania, i cui medici, dopo la caduta del muro di Berlino, erano tra i più numerosi ad arrivare in Italia. Un’altra questione riguarda la concorrenza a livello europeo: la carenza di medici è molto marcata anche in Germania, Francia e Inghilterra che, il giorno dopo la Brexit, ha perso più di 4mila specialisti in pediatria, medici di pronto soccorso e anestesisti perché non potevano più esercitare. La Francia manca di 15mila farmacisti, stessa cosa per la Germania, con l’unica differenza che loro si sono mossi molto prima dell’Italia, favorendo l’ingresso di professionisti stranieri. Da due anni circa, in Inghilterra, hanno iniziato a esercitare 20mila professionisti della sanità: di questi solo il 37 per cento è di origine britannica, il resto è di origine straniera, primariamente indiani, pakistani ed egiziani.

Sono questi i deserti sanitari, zone senza copertura sanitaria, senza assistenza per i cittadini. Queste dinamiche hanno avuto conseguenze anche altrove: in India mancano 600mila medici, in Pakistan ne mancano 200mila, in Siria il 70 per cento dei medici ha lasciato il Paese e lo stiamo vedendo con l’assistenza per il terremoto. In Egitto negli ultimi anni sono andati all’estero 11mila medici, dal Marocco più di 14mila. Qual è la sintesi? La sintesi è che esistono deserti sanitari mondiali, non solo italiani o europei. Manca la programmazione. La pandemia ha solo ulteriormente accorciato la coperta, che è corta per tutti. Chi si è mosso prima sta meglio, ma non è garantito sia così nei prossimi anni. F

Esistono deserti sanitari mondiali, non solo italiani o europei. La pandemia ha solo ulteriormente accorciato la coperta, che è corta per tutti.

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Aodi Foad Presidente Amsi e Umem

VALORE SOGLIA e tra normalità e

Durante gli ultimi anni molti test diagnostici e biomarker sono stati sviluppati e implementati nella pratica clinica. Si tratta di un campo di ricerca molto interessante nel contesto della medicina personalizzata. Il requisito fondamentale di un test diagnostico è l’accuratezza, cioè la capacità del test di discriminare correttamente il “non malato” dal “malato”. Questo potere discriminante o predittivo di un test dello stato di salute può essere quantificato con diverse misure tra cui la sensibilità, la specificità, il valore predittivo positivo e l’overall diagnostic accuracy

Le misure di accuratezza stimano la probabilità con cui il test è capace di identificare i “veri malati” (qual è la probabilità di essere malato essendo il test positivo) e distinguerli dai “veri non malati” (qual è la probabilità di essere “non malato” se il test risulta negativo). Esse stimano, di conseguenza, quanto è il margine di errore in termini di “falsi positivi” e “falsi negativi”1. Come tutte le misure, hanno limiti di incertezza che vengono quantificati di solito con i cosiddetti limiti di confidenza, in genere al 95 per cento. L’interpretazione di tali misure non è sempre facile e, inoltre, varia in base a molti fattori tra cui il disegno dello studio e la prevalenza della condizione. I test diagnostici possono essere utilizzati sia in setting clinici sia in contesti di screening di popolazione. Quando si applica un test diagnostico, in sintesi, ci si serve di valori soglia per distinguere il “non malato” dal “malato”. È chiaro quindi che la potenziale misclassificazione tra “non malati” e “malati” – dovuta alle caratteristiche del test diagnostico – può avere importanti ripercussioni sia nella pratica clinica sia in termini di sanità pubblica e di costi sanitari.

Assenza o presenza di bpco?

Un esempio interessante è rappresentato dall’uso del rapporto fev1/fvc per fare diagnosi di broncopneumopatia cronica ostruttiva (bpco), che si ottiene dall’esame funzionale respiratorio attraverso la spirometria e definisce l’ostruzione delle vie aeree. Per molto tempo un valore di fev1/fvc inferiore del 70 per cento (dopo test di broncodilatazione) è stato utilizzato come discriminante tra assenza e presenza di bpco ed è stato raccomandato dalle linee guida internazionali Gold. Un grande dibattito è nato nella comunità scientifica sulle implicazioni dell’uso del valore “fisso” di questo rapporto2. È stato dimostrato in diversi studi, infatti, che questo valore produce un problema rilevante di misclassificazione in dipendenza dell’età del soggetto. Studi su popolazione sana non fumatrice hanno dimostrato che il rapporto fev1/fvc diminuisce all’aumentare dell’età e pertanto un valore fisso del rapporto per la diagnosi di bpco conduce a errori di sottonotifica nella popolazione giovane e sovranotifica nella popolazione

anziana. Qual è il rischio per l’individuo? Un giovane con valore di fev1/fvc pari al 75 per cento potrebbe essere considerato sano sulla base di questo cut-off, mentre meriterebbe un’attenta valutazione e monitoraggio nel tempo. Viceversa, a molte persone anziane viene diagnosticata la bpco con un valore del fev1/fvc al di sotto del 70 per cento, che riflette invece la riduzione fisiologica della funzione polmonare. Questa sovradiagnosi nell’età anziana può avere come conseguenza un uso inappropriato o non necessario di trattamenti farmacologici.

La proposta di diversi ricercatori esperti di bpco, critici verso le raccomandazioni Gold, è quella di sostituire il valore fisso di fev1/fvc inferiore al 70 per cento con un’altra misura da usare come discriminante: il quinto percentile più basso della distribuzione normale del rapporto stesso in relazione all’età. Un altro punto critico nella scelta del valore soglia e soprattutto nella sua interpretazione per distinguere il “non malato” dal “malato” è il valore di riferimento con cui esso viene confrontato. Nella bpco i valori di riferimento della funzione respiratoria, che sono fortemente legati ad

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Nera Agabiti Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio Asl Roma
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VALORE LIMITE, patologia

Sappiamo quanto le stime di prevalenza a livello di popolazione siano importanti per la programmazione sanitaria; sulla base di tali stime, infatti, si definiscono le risorse da impegnare con i relativi costi e si elaborano strumenti di misura della qualità dell’assistenza, ad esempio indicatori di appropriatezza d’uso di terapie farmacologiche. Anche in questo caso, quindi, emerge l’importanza della validità del test diagnostico e della scelta del cut-off. In generale, nelle diverse discipline mediche, i valori soglia dei test diagnostici sono stabiliti sulla base di evidenze scientifiche che ne testano la validità. Va tenuto presente che il significato dei valori soglia può variare in diverse categorie di età, tra generi, e in presenza di condizioni patologiche concomitanti. È tuttavia ben condivisa dalla comunità scientifica e medica la necessità di conoscere i limiti dei test utilizzati in quanto un unico test diagnostico – sia esso un esame di laboratorio, sia una misura derivata da un test funzionale con specifica apparecchiatura, sia una valutazione della sintomatologia su base qualitativa (per esempio, questionari standardizzati) – non è sufficiente per fare diagnosi e impostare il trattamento. La diagnosi è frutto, infatti, di un uso integrato di informazioni (storia del paziente), valutazione clinica (esame obiettivo) e misure diagnostiche il più possibile tailored sulla problematica in studio.

Il tema dell’ottimale cut-off point di un test diagnostico è, infine, particolarmente rilevante in contesti di screening di popolazione. A seconda del tipo di screening, vanno valutate attentamente le conseguenze del compromesso tra avere un maggior numero di “falsi positivi” contro un maggior numero di “falsi negativi”. Un esempio ci viene da studi sull’uso dell’emoglobina glicata per la diagnosi di diabete mellito. Come discusso in una recente revisione sistematica3, il valore considerato ottimale nell’ambito delle cure primarie è 6,5 per cento, sulla base dell’alto valore di specificità, ovvero della bassa probabilità di classificare erroneamente come “diabetici” i “non diabetici”. D’altro canto, secondo gli autori, abbassare il limite a 6,02 per cento potrebbe essere una valida soluzione nel caso di screening di popolazione, in quanto si aumenterebbe la “sensibilità”, ovvero la capacità dei test di identificare precocemente i nuovi casi di diabete. F

È ben condivisa dalla comunità scienti ca e medica la necessità di conoscere i limiti dei test utilizzati, in quanto un unico test diagnostico non è su ciente per fare diagnosi e impostare il trattamento.

altezza e peso dell’individuo, utilizzati per la diagnosi e la stima della prevalenza, sono stati per molto tempo quelli misurati su popolazioni statunitensi, quindi potenzialmente diverse per caratteristiche fisiche e biometriche da popolazioni di Paesi diversi.

Riconoscere i limiti dei limiti

Quali sono le ripercussioni della misclassificazione prodotta dai test diagnostici dal punto di vista epidemiologico e di sanità pubblica?

Sempre in tema di bpco, è stato osservato come studi di popolazione basati sul cut-off fisso fev1/fvc inferiore del 70 per cento hanno portato a stime di prevalenza molto alte e diversificate tra Paesi.

1. Vali Y, Yang B, Olsen M, et al. Reporting of test comparisons in diagnostic accuracy studies: a literature review. Res Synth Methods 2021;12:357-67.

2. Enright P, Brusasco V. Counterpoint: should we abandon fev1/fvc < 0,70 to detect airway obstruction? Yes. Chest 2010;138:1040-2, discussion 1042-4.

3. Kaur G, Lakshmi PVM, Rastogi A, et al. Diagnostic accuracy of tests for type 2 diabetes and prediabetes: a systematic review and meta-analysis. PLoS One 2020;15:e0242415.

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Arginare il DOLORE

Le scelte del medico, i bisogni del paziente

Il dolore cronico è considerato una delle patologie più debilitanti e con maggior impatto sui sistemi sanitari dei Paesi occidentali, nonché sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette. In Europa un’indagine condotta da Brevick nel 2006 ha stimato che il 19 per cento degli adulti sia affetto da dolore cronico, collocando l’Italia tra i primi posti, dove ne soffre il 26 per cento della popolazione1. Oltre a essere una delle principali cause di disabilità, il dolore si ripercuote sulla produttività delle persone, influenzando quindi direttamente i sistemi di welfare. In Europa si stima che il costo totale delle sue conseguenze ammonti a circa 300 miliardi di euro2

L’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali (OsMed) descrive le tendenze su scala italiana della prescrizione dei farmaci antidolorifici rimborsate dal Servizio sanitario nazionale. Nell’arco del 2021 ha rilevato un incremento nelle prescrizioni di questi farmaci in termini di variazione del rapporto della defined daily dose (ddd per mille abitanti), che passa dal 6,9 del 2014 al 7,7 del 2021. Il rapporto mette inoltre in evidenza una variabilità geografica: si registrano maggiori prescrizioni al nord (8,9 ddd/1000 abitanti) rispetto al sud (6,0 ddd/1000 abitanti)3 Tuttavia questo incremento complessivo nelle prescrizioni degli oppioidi maggiori sembra essere modesto rispetto ad altri Paesi europei, come per esempio la Svizzera.

Ciononostante, particolare attenzione va riservata a questa classe di farmaci, nella quale rientrano il fentanil, il pregabalin e il tapentadolo, alla luce di quanto è successo negli Stati Uniti e in Canada dove si è parlato di una epidemia di persone dipendenti dai cosiddetti farmaci pain killer.

La prescrizione di oppioidi

L’uso degli oppioidi è ampiamente condiviso e accettato nel caso di malattia neoplastica avanzata, proprio perché il sollievo dal dolore ottenuto giustifica pienamente il rapporto rischio/beneficio della terapia a lungo termine con questa classe di farmaci. Diversamente, per altre condizioni cliniche, sia acute che croniche, quali ad esempio artrite, mal di schiena, dolore postoperatorio, dolore dentale, il loro uso è ancor oggi oggetto di controversie, così come anche l’impego della cannabis per fini terapeutici.

In Italia con la legge 8 febbraio 2001, numero 12, “Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore”, sono state introdotte modifiche so-

Antonella Camposeragna Dipartimento di epidemiologia

Servizio sanitario regionale del Lazio

Asl Roma 1

Varcare il con ne della sola scienza per avvicinarsi di più al paziente, anzi alla persona, dovrebbe essere non solo auspicabile ma concretamente messo in atto.

stanziali alla precedente normativa, al fine di garantire un più efficace trattamento del dolore nei malati terminali ma anche nei pazienti affetti da dolore severo cronico. Il provvedimento si rese necessario in quanto i medici non prescrivevano con facilità gli analgesici stupefacenti, stante la eccessiva rigidità di compilazione della ricetta e la previsione di sanzioni anche penali in caso di errori nella prescrizione. Ciononostante i dati forniti dall’Agenzia italiana del farmaco confermano una cautela nella prescrizione di questi farmaci, proprio per il temuto confine labile tra effetto antalgico e dipendenza.

Per ciò che riguarda la cannabis, che non è un oppiaceo e sulla quale non vi sono evidenze robuste di dipendenza, almeno dal punto di vista fisico, si sottolinea che in Italia dal 2006 è possibile prescriverne preparazioni magistrali secondo le modalità previste dalla legge 94 del 1998. Con il decreto ministeriale del 9 novembre 20154 sono state stabilite una lista di patologie per le quali è consentito l’uso medico della cannabis, in modo da favorirne un utilizzo omogeneo su tutto il territorio nazionale. La prescrizione di cannabis terapeutica è possibile e a carico del Servizio sanitario nazionale per il dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla, oltre che a lesioni del midollo spinale; alla nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per hiv; come stimolante per l’appetito nella cachessia, in pazienti oncologici o affetti da aids e nell’anoressia nervosa; per l’effetto ipotensivo nel glaucoma; per la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette. I dati del Ministero della salute mostrano, anche in questo caso, una grande variabilità geografica, per cui ad esempio in Emilia-Romagna si concentrano il 25 per cento delle prescrizioni di cannabis terapeutica registrate tra il 2017 e il 2021 a fronte di valori inferiori al 3 per cento in Calabria e altre Regioni.

La soglia del dolore

Quale è quindi il confine che il medico stabilisce tra il sollievo della sofferenza e la prescrizione di farmaci, quali oppioidi e derivati della cannabis, che nell’immaginario collettivo sono solo droghe? Qual è il bilancio tra gli effetti positivi e i potenziali eventi avversi delle sostanze stupefacenti nel trattamento del dolore cronico non oncologico? Il problema forse sta nella soglia di accettazione di quanto dolore deve, nonostante tutto, sopportare chi ne è affetto. Tuttavia, il dolore che avverte il malato non è facilmente quantificabile e non esiste un valore soglia, un confine definibile per tutti. Se per prescrivere un farmaco a un paziente diabetico è sufficiente avere un valore soglia della glicemia, qual è il valore soglia per prescrivere un farmaco stupefacente con effetto antalgico? Per definire il valore soglia del dolore, il medico in genere si basa su una valutazione soggettiva del paziente, ovvero chiedendo direttamente al paziente di “quantificare” il dolore avvertito su una scala da 1 a 10.

Questa soglia, questo confine tra la necessità di prescrivere un farmaco stupefacente e la sofferenza, meriterebbe da parte di alcuni medici una maggiore attenzione, cercando di avere una visione più olistica della persona, sconfinando nella vita delle persone che non vanno quindi viste solo come pazienti.

Il dolore e la sofferenza che ne deriva impattano notevolmente sulla qualità della vita delle persone, riducendo la quantità ma soprattutto la qualità del sonno, aumentando l’ansia e talvolta inducendo sintomi depressivi, e non ultimo incidendo fortemente sulla vita attiva delle persone. Varcare quindi il confine della sola scienza per avvicinarsi di più al paziente, anzi alla persona, dovrebbe essere non solo auspicabile ma concretamente messo in atto. F

1. Breivik H, Collett B, Ventafridda V, et al. Survey of chronic pain in Europe: prevalence, impact on daily life, and treatment. Eur J Pain 2006;10:287-333.

2. Pain proposal: Improving the current and future management of chronic pain. A European consensus report 2010. Disponibile online: https://bit. ly/3YHMrHH

3. Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali. L’uso dei farmaci in Italia –Rapporto nazionale 2021. Roma: Aifa, 2022. Disponibile online: https://bit. ly/3Ij2TqQ

4. Ministero della salute. La distribuzione della cannabis ad uso medico. Disponibile online: https://bit. ly/3xIAO7w

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Gli innegabili progressi della medicina hanno permesso passi in avanti sia nel campo della diagnosi che della terapia ma questo, paradossalmente, ha portato a una relazione tra medico e paziente sempre più fredda e impersonale, di tipo prevalentemente tecnicistico. L’approccio è sostanzialmente orientato alla disease, intesa come malattia oggettiva. L’idea che vi sia un’entità astratta che colpisce il corpo o una parte di esso (e che quindi necessita di essere individuata e sconfitta) finisce con il separare la malattia dal paziente come fossero due soggetti a sé stanti che quasi non si influenzano a vicenda.

Quando il paziente non condivide IL PARERE DEL MEDICO

Tuttavia si tratta di una visione riduzionistica della realtà perché ignora la soggettività del malato. Non basta fare una diagnosi e impostare una corretta terapia, il paziente è alla ricerca di qualcosa di più. Non esiste la malattia in sé, esistono i malati con emozioni, pensieri, valori diversi e variabili da persona a persona.

È necessario quindi affiancare all’approccio disease oriented quello illness oriented, dove per illness si intende l’esperienza della malattia così come la vive il paziente, il suo vissuto personale fatto di priorità, scelte, speranze, aspettative, timori, voglia o stanchezza di vivere. Se è vero che il medico è l’esperto della malattia, il paziente è l’esperto di sé stesso. Solo una visione più ampia può restituire un senso alle esperienze che il malato sta in quel momento vivendo. Esperienze che sono fatte di ansia, paura (della disabilità, della sofferenza, della morte, diffidenza, sfiducia nella medicina, rifiuto della malattia), di desideri, emozioni e sentimenti molto personali. Il malato cerca competenze tecniche ma anche comprensione ed empatia.

Per il medico le cose essenziali sono cercare di identificare la causa dei sintomi lamentati e trovare una soluzione terapeutica valida, indipendentemente dalla soggettività del paziente-oggetto. Invece l’agenda della persona-paziente contiene aspetti fondamentali come le emozioni, le idee, le interpretazioni, le aspettative, il contesto.

Investigare e capire questi sentimenti aiuta a instaurare una relazione di tipo empatico che faciliterà il prosieguo della visita migliorando anche la comprensione del quadro clinico.

Consideriamo i due seguenti casi clinici.

Renato Luigi Rossi Medico di famiglia

Primo caso clinico. Un uomo di 79 anni presenta da tempo una strana astenia associata a perdita di peso non intenzionale. Si reca a visita dal medico curante. Costui rileva un pallore sospetto delle mucose visibili e quindi richiede alcuni esami ematochimici che dimostrano la presenza di una discreta anemia normocitica, un aumento delle transaminasi, degli indici di colestasi e della ves. Un’ecografia addominale mostra la presenza di un fegato aumentato di volume con una formazione nodulare di circa 3 centimetri al lobo epatico sinistro. Si sospetta una neoplasia del fegato: dopo l’esecuzione di una risonanza magnetica il paziente esegue una biopsia epatica che purtroppo conferma l’ipotesi diagnostica. Viene quindi ricoverato e il chirurgo propone una resezione del tumore. Il medico curante va in ospedale a trovare il paziente e costui confessa di essere molto in dubbio se effettuare l’intervento, nonostante l’ottimismo del chirurgo che gli ha assicurato buone possibilità di riuscita. Il medico conviene con il chirurgo e afferma che l’intervento è necessario. Il paziente però obietta che ha un’età avanzata, che a parte l’astenia non ha altri disturbi e chiede perché si dovrebbe sottoporre a un intervento che comunque è gravato da un certo rischio. Il medico sa che la moglie del paziente è malata e non è in grado di uscire di casa. Il paziente chiede: “Cosa farebbe se dovessi mancare?”. I figli sono sposati e lontani, ognuno ha la sua famiglia e i suoi problemi sa come vanno queste cose.

FCome gestire situazioni del genere? Insistere affinché il paziente si operi? Accettare la sua decisione? Anche se a prima vista la scelta di non operarsi può apparire irrazionale, tale non è se la si guarda dal punto di vista del paziente. Il medico potrà spiegare che le probabilità di successo dell’intervento sono buone, ma dovrà ammettere che un certo rischio operatorio è sempre presente e che non è possibile prevedere come evolverà la situazione. In un caso del genere è necessario spiegare chiaramente i pro e i contro delle varie scelte ma poi accettare quella del paziente che vede la situazione da un’altra angolazione. • t

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DOLORE

Secondo caso clinico. Una donna di 45 anni lamenta da qualche giorno una sindrome lombalgica che la disturba e spesso le impedisce di recarsi al lavoro. Il medico curante la visita ed esclude una patologia organica. Indaga lo stato d’animo della donna: sta attraversando un periodo di stress in famiglia a causa di dissapori con il marito e di difficoltà con la figlia di 17 anni che frequenta compagnie poco raccomandabili. Il medico spiega che si tratta di una lombalgia non specifica che probabilmente è aggravata da uno stato depressivo e prescrive una terapia con un inibitore selettivo della serotonina. La paziente però è molto preoccupata circa la sua salute, recentemente una sua amica è stata ricoverata per leucemia. Lei teme che il mal di schiena possa dipendere da una neoplasia ossea e chiede la prescrizione di una risonanza magnetica. Il medico non è d’accordo, ritiene che l’esame sia del tutto inutile, cita le indicazioni delle linee guida e quindi nega la prescrizione.

FChe cosa è importante per questa paziente? Un medico rigido che obbedisce ai freddi dettami della sua scienza oppure di un curante che, oltre a possedere competenze tecniche, sia anche in grado di farsi carico delle preoccupazioni e del vissuto dei suoi assistiti? È più utile tenere un comportamento formalmente corretto ma poco empatico oppure privilegiare il mantenimento della relazione e considerare anche i timori della paziente e accettare la sua richiesta? Anche se è vero che in un caso simile le linee guida prevedono la prescrizione di un accertamento radiologico solo in presenza di determinate condizioni cliniche che qui non ricorrono va considerato che il rapporto tra un medico di famiglia e un assistito dura a lungo, qualche volta per tutta la vita. Sono state scritte linee guida che valgano per tutta la vita? Non è forse preferibile prescrivere per una volta un esame inutile ma salvare la relazione che altrimenti verrebbe irreversibilmente compromessa? •

La cura senza giudizio

Questo non significa cedere a tutte le richieste, anche le più immotivate e assurde. In alcuni casi bisognerà essere fermi e difendere le proprie convinzioni. Per esempio se un paziente chiedesse una certificazione falsa non si dovrà mai accondiscendere, anche a costo di rompere la relazione. Di fronte ad alcuni comportamenti manipolatori si dovranno fissare dei paletti oltre i quali non si può andare. Però anche in questi casi ci si dovrà comportare con professionalità, evitando risposte francamente sgarbate che porterebbero ad aggravare ulteriormente il conflitto.

L’incontro tra un medico e il suo paziente in medicina di famiglia è un evento negoziale, per molti versi sconosciuto nella medicina ospedaliera e specialistica.

Tuttavia bisogna considerare che l’incontro tra un medico e il suo paziente in medicina di famiglia è un evento negoziale, per molti versi sconosciuto nella medicina ospedaliera e specialistica. Anche la migliore linea guida rimane lettera morta se non compresa e condivisa.

Ci troviamo, insomma, in una sorta di zona di confine o se si vuole di terra di nessuno dove medico e paziente possono essere in contrasto tra loro, e la pura clinica è costretta a entrare in contatto e contaminarsi con la vita e le sue contraddizioni. Può essere necessario accettare dei compromessi se questo significa essere di aiuto al malato. È necessario esercitare l’empatia, una soft skill essenziale che ci permette di capire meglio e di identificarci con l’altro. Il malato si sentirà compreso e ci permetterà di entrare nel suo mondo interiore.

Ci troviamo in una sorta di zona di con ne dove medico e paziente possono essere in contrasto tra loro, e la pura clinica è costretta a entrare in contatto e contaminarsi con la vita e le sue contraddizioni.

L’empatia consente di non esprimere giudizi e di capire punti di vista diversi senza rinunciare ai nostri. Essa, oltre che giovare alla relazione, permette di instaurare un rapporto basato sulla fiducia reciproca, migliora la compliance ai trattamenti e riduce il rischio di ritorsioni medico-legali in caso di errori. Bisogna recuperare questa abilità che era una delle poche armi a disposizione dei medici dei secoli scorsi e che, con il progredire delle conoscenze, si è sempre più persa a favore di un approccio ipertecnologico che tende ad allontanare le persone. F

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OLTRE IL CONFINE

Squilla il telefono. Carla è una persona di famiglia e lascia stare che è un filo ipocondriaca. L’ultima è che ha delle dita della mano che vanno per conto loro, così mi dice. La medica di medicina generale ha fatto presto e come spesso accade le ha consigliato di “farsi vedere da un reumatologo”. Carla ha provato a prenotare una visita col Servizio sanitario nazionale (Ssn): prima data possibile, sei mesi. “Ma li mortacci loro”: dalle torto. È una donna elegante nei suoi settant’anni e passa, e parla un italiano sincero. La disponibilità ci sarebbe, ma “nel privato”: “La signorina al telefono mi ha detto che la visita costa 350 euro. Se voglio la fattura”.

Così costa il confine tra il pubblico e privato. Come minimo. Sul medio e lungo periodo costa molto di più, se è vero che la spesa sanitaria complessiva è sostenuta per il 40 per cento direttamente dai cittadini. Il confine tra il pubblico e il privato lo percepisce quasi esclusivamente il ceto medio italiano: non quel due o tre per cento più ricco che paga di tasca propria qualsiasi prestazione (più di frequente le inutili che quelle salvavita), né la maggioranza delle persone che sopravvivono con un reddito molto basso, che non permette nulla più che il ticket o il biglietto del bus per l’ospedale.

In Italia il con ne tra sanità pubblica e privata è una linea immaginaria: solo chi ha una buona dose di testardaggine si ostina ancora a percepirla.

Di fatto, in Italia il confine tra sanità pubblica e privata è una linea immaginaria: solo chi ha una buona dose di testardaggine si ostina ancora a percepirla. Ha detto bene Carlo Saitto – medico con una lunga e sofferta esperienza di sanità pubblica – in un incontro coi cittadini di un quartiere romano: il Ssn non funziona soprattutto perché la catena decisionale che dovrebbe guidare la persona-paziente si interrompe a ogni passaggio di consegne tra la medicina di base, i laboratori di analisi, gli ambulatori specialistici, i reparti ospedalieri.

L’insieme delle storie personali restituisce senso ai principi fondativi del sistema sanitario e alla dimensione umana della cura.

Metà Italia vive una situazione di sostanziale privazione del servizio sanitario pubblico, con un’assistenza ospedaliera che riesce a ovviare in emergenza alle carenze della medicina territoriale. Allora i cittadini si organizzano in autonomia e nascono luoghi che cercano di offrire quel supporto sanitario, psicologico e relazionale che il Ssn non garantisce più da tempo. L’incontro tra Saitto e i cittadini alla Casa di quartiere del Quarticciolo in occasione della presentazione del suo ultimo libro (guarda il video) è stato illuminante: ha svelato tutto il disincanto di persone a cui è stato sottratto il diritto alla salute e la lucidità del loro sguardo, quello di chi ha visto poco a poco disgregarsi la sanità pubblica. In quegli occhi, in quei volti, in quelle discussioni si cancella l’ultimo segno del confine che teoricamente divide la medicina di comunità e la medicina della persona. In questi spazi di oltre confine dove si coltiva la consapevolezza dei diritti individuali alla salute, l’insieme delle storie personali restituisce senso ai principi fondativi del sistema sanitario e alla dimensione umana della cura. F

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Guarda il video di cui si parla in questo articolo www.youtube.com/watch?v=X5ADPVxVWiIM

La vita di provincia

Margini” racconta la storia di tre ragazzi di Grosseto, che cercano di uscire dai con ni della provincia attraverso la musica punk. Il titolo richiama la canzone all’interno del lm, ma è denso di signi cato e senza dubbio di impatto. Come lo avete scelto?

Il nostro rapporto col titolo è stato come una di quelle storie d’amore che ti fanno soffrire. Abbiamo avuto momenti in cui la percezione del titolo ci arrivava diversa, ma poi con i Manetti Bros e Fandango abbiamo deciso di confermarlo. Col senno di poi, anche raccogliendo la percezione del pubblico, ci sembra che la scelta sia stata felice perché vuole parlare di come si sta sul margine, come si sta nella provincia che ha una marginalità tutta sua, ben diversa dalla periferia. Demograficamente l’Italia ha una forte presenza di popolazione nelle piccole città, tuttavia tende a raccontarsi come un Paese di metropoli. Ed è qualcosa in cui facciamo cortocircuito, perché quando smettiamo di chiederci come si sta in alcuni posti è come se ci fosse un vuoto. La conferma che il titolo sia quello giusto, insomma, viene da questo percorso e dall’ascolto della gente.

Il tema del riscatto della provincia è molto importante e lo è anche dal punto di vista sociale, della sanità e non solo. Voi avete detto che la domanda che vi siete fatti è stata un po’ “come stanno i ragazzi in provincia?”. E allora le chiedo, per quella che è la sua esperienza, come stanno davvero? Quali di erenze – tra pro e contro – ritrova, avendo adesso il confronto con una metropoli come Roma?

E non solo i ragazzi, anche le fasce più fragili come quelli che sono appunto più ai margini della società.

È una domanda enorme. Io ero follemente innamorato di Roma e della libertà che avrei trovato. Ero felicissimo. All’inizio puoi goderti un po’ di quell’anonimato delle metropoli, ma poi ti accorgi che questo viene da una indifferenza generale, perché in città i rapporti sono più rarefatti, tra le persone è più difficile stringere relazioni. Roma in particolare ha subìto un periodo duro, ha sofferto tanto negli ultimi anni, è stata un po’ incapace di stare al passo coi cambiamenti che ci sono stati intorno e ha subìto il peso della sua storia in confronto a una modernità impietosa. Non riesce a sostenere il paragone con grandi città europee come Berlino o Londra e ho visto una sorta di declino, di crisi, di decentrificazione, ma anche un lento abbandono delle periferie: è una città di cui sembra quasi che nessuno si stia prendendo cura.

Per tanti motivi in provincia questo non accade, perché i rapporti sono densi, succedono meno cose, meno eventi e i volumi dei conflitti interni sono ridotti e messi in una bolla. A livello sociale credo che ci sia sempre una grande confusione nella testa dei giovani, che è fisiologica, ma ritengo che i percorsi del vecchio mondo siano finiti e non portino da nessuna parte. Chi ha gli strumenti per fare qualcosa può farlo solo individualmente e questo è anche il messaggio che tende a passare, cioè “lascia stare gli altri e salvati”, ma questo è un problema trasversale.

Intervista a

Quanto possono aiutare la musica e l’arte in genere per uscire dai con ni e magari da alcuni dei limiti che può avere l’ambiente più ristretto della provincia?

Il discorso è complesso. C’è qualcosa che dobbiamo riaggiustare, perché ci stiamo raccontando che il nostro è un mondo che non ha bisogno di arte o cultura, siccome passiamo tempi difficili e questi sono dei suppellettili. Dopodomani guarderemo a cosa ci è successo negli ultimi anni, ma c’è uno scollamento che ha portato il mondo umanistico a perdere potere e centralità nella vita quotidiana. C’è un calo verso il cinema e la lettura, il teatro è stato spazzato via; e poi c’è il problema degli autori che non si accorgono del mondo in cui vivono e spesso fanno una comunicazione autoreferenziale. E se questo vale nelle metropoli e nelle città, figuriamoci in provincia. D’altronde è più raro che la provincia ti porti da qualche parte. Se parti da Grosseto la strada è più difficile, ma lo sai, e forse lo fai più per te stesso che per altro.

Uscire dai con ni è importante per andare ad aiutare le persone che vivono ai margini della società e hanno magari più di coltà nell’accesso ai servizi, al sistema sanitario o molto altro. Pensa che in chiave metaforica il suo lm possa abbracciare anche questo signi cato?

Non lo so, ma perché un film in generale non so se abbia il potere di farlo. Anche i film più inquadrati del nostro. Si dà spesso un mandato educativo all’arte che l’arte non può avere, altrimenti diventa ipocrita, né può fingere che un mondo non esista o di essere effettivamente la vita. Chiaramente l’arte è incisiva, alcune opere hanno cambiato la storia, ma credo che “Margini” abbia altri scopi. Tuttavia dove c’è occasione di incontro – e il film può esserlo – c’è sempre la possibilità di uscire dai confini ed essere d’aiuto. Fandango ci ha suggerito di andare nei centri sociali, nei paesi e nelle cittadine per distribuire “Margini”, perché è nella natura del nostro film renderlo accessibile anche in contesti in cui il film di solito non arriva.

Nel lm emerge l’importanza del provare a realizzare un sogno, indipendentemente dal risultato che si consegue. E i vostri protagonisti sono dei tipi che non si arrendono e cercano di andare oltre i con ni che vedono davanti a sé. La società, le istituzioni e i decisori dovrebbero prendere spunto da questa forza di volontà?

Da quella forza di volontà dovrebbero prendere spunto tutti. Forse i nostri protagonisti non sono il miglior modello, ma in generale si dovrebbero ascoltare le esigenze di chi è adolescente. Nell’apertura di spazi o nell’organizzazione degli eventi la bussola te la dovrebbe dare chi vive in quei luoghi. È un po’ più facile in provincia e quindi è lì che devi creare canali di ascolto, perché c’è una semplicità maggiore, e quando questo non avviene ti arrabbi un po’. Se ci fosse un po’ di ascolto, e anziché dire ai giovani di restare nei propri confini e di fare quello che diciamo noi, gli chiedessimo cosa vogliono fare o se provassimo a fare qualcosa insieme a loro, tutto potrebbe andare meglio.

E poi in generale si tende a non dare fiducia ai giovani. Se chiedi uno spazio da gestire non te lo danno, ma sarebbe importante fare le cose da protagonisti e non solo da comparse.

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Niccolò

Il confine è dove capisci che le cose son legate

Invitai la scrittrice norvegese Hanne Ørstavik a presentare il suo libro

“Ti amo” alla Fondazione Sasso Corbaro di Bellinzona, nel dicembre del 2021. Dopo quell’evento nacque, un po’ per caso, una profonda amicizia tra di noi. Da alcuni anni Hanne vive in Italia, a Milano. In una tiepida e soleggiata domenica di fine inverno, al parco Sempione, abbiamo registrato questa nostra chiacchierata sulla parola “confine”. Con Hanne, si è volutamente deciso d’intervenire il meno possibile sulla trascrizione della traccia audio. Volevamo

provare a portare i lettori e le lettrici con noi, con due amici, nati in posti diversi e divisi da una lingua, che per lei – come capirete dal testo –resta una seconda lingua imparata da autodidatta vivendo in Italia.

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Hanne, che cosa ti evoca la parola con ne?

La parola con ne per me è dove qualcosa viene accentuato, perché è distinto da qualcos’altro, un con ne è dove nasce o dove viene visibile o palpabile quello che distingue una cosa da un’altra, il con ne è la premessa per l’incontro.

Tu vivi principalmente a Milano. Tuttavia, in Norvegia, a Oslo, hai una casa e molti legami: i tuoi anziani genitori, tua glia, molti amici, il tuo storico editore Oktober. Per questa ragione passi spesso il con ne tra questi due Paesi, Italia e Norvegia, così diversi. Questo in uisce in qualche modo su di te?

Si può facilmente perdersi nel concetto convenzionale del con ne di un Paese. Invece, penso che il con ne tra vivere in due posti e due Paesi così distinti sia la lingua. Per venire in Italia, per vivere qui, ho dovuto imparare l’italiano, che è una lingua latina, e invece il norvegese è germanico. Non solo questa lingua con le sue origini, ma soprattutto la lingua come cosa sica. Ma non è solo questo… è la luce, è il silenzio che è diverso, è il freddo che è diverso. Anche stamattina siamo usciti tu e io, siamo usciti tutti e due presto e faceva freddo a Milano, ma è un freddo diverso da quello che c’è a Oslo, cioè è qualcosa nell’odore, cioè essere un corpo a Milano è diverso dall’essere un corpo a Oslo.

Mi chiedo se adesso che il tuo italiano è uente – lo parli più del norvegese se pensiamo alla quantità di tempo che trascorri in Italia – sia cambiato qualcosa nella tua scrittura?

Io penso che non potrei mai scrivere in un’altra lingua, in italiano, per esempio (Hanne scrive tutti i suoi libri in norvegese, nda). Ma, no, non credo, perché scrivere per me è proprio una cosa molto corporale, quando scrivo è come muovermi, e questo movimento deve venire senza testa, cioè io scrivo molto visualmente, vedo qualcosa, e scrivere è come se mi avvicinassi a quello che vedo, e questo avvicinarmi succede come movimento e non come pensiero. E questo movimento lo devo sentire come ritmo, come tono, anche come livello di linguaggio, cioè ci sono parole che sono troppo cerebrali e che tolgono il contatto diretto, e a volte devi usarle per qualche ragione e a volte no, ma queste cose sono scelte che sono fatte nel movimento e non nella testa.

Parlando del tuo mestiere di scrittrice e volendo un po’ generalizzare, mi stavo chiedendo: qual è il con ne di una scrittrice? Pensando al mio mestiere, il medico, direi che il con ne in medicina potrebbe essere quello tra il medico e il paziente o anche tra la malattia e la salute.

Io penso che per una scrittrice il con ne è lo scritto in sé. Quando ho iniziato a scrivere il mio libro “Ti amo” , per esempio, ho aperto un le sul computer e ho pensato: “Questo devo scrivere!”. L’ho iniziato e per me era un testo che pensavo: “Adesso se non scrivo questo esplodo, devo entrare qua”. Così ho scritto le tre prime righe, e sapevo che stavo scrivendo, e non lo sapevo quando ho iniziato ma quando ho sentito cosa avevo scritto, sapevo che adesso scrivevo, adesso ero entrata in un testo che è un testo letterario, che non è più mio, adesso siamo in questo posto quasi magico – o forse magico sembra troppo… no, è più un posto dove il mio io non è più il mio, dove il mio io è sottomesso a qualcosa di più grande, è sottomesso a uno sguardo che non è più solo il mio, che è lo sguardo del testo che inizia quando scrivo, e questo sguardo è uno sguardo di anco e assieme al mio, e quindi è uno sguardo che ho solo quando scrivo, che è qualcosa di più, che si vede nel testo e che io posso in qualche modo anche appoggiarmi su questo sguardo quando scrivo, quel piccolo io quando scrivo veramente posso darmi perché non sono sola, c’è quell’altro sguardo che sta con me e posso darmi, e posso andare e lasciare e venire le cose, perché siamo noi due.

Più sono stata vicina alla sua morte progressiva, più si apriva la vita, con il dolore si apriva la ricchezza dell’amore.

In “Ti Amo” racconti il periodo che hai trascorso accanto a tuo marito Luigi Spagnol, da quando si è ammalato di tumore pancreatico no alla sua morte. Tu, in quei giorni, insieme a Luigi, ti sei trovata davanti a molti con ni. Ogni giorno diventava un con ne da passare, n quando si è arrivati al con ne ultimo, il più tremendo, quello tra la vita e la morte.

Più tu ti avvicini a qualcosa, quella cosa si apre, diventa più complessa; più sono stata vicina alla sua morte progressiva, più si apriva la vita, con il dolore si apriva la ricchezza dell’amore. Penso che il con ne è anche il punto dove si capisce che le cose sono legate, perché se c’è un con ne, c’è un con ne tra due cose che si legano, sono legate proprio dal con ne, sono una da un lato e l’altra dall’altro e sono fortemente legate, e io penso che vivere il nostro amore andando verso la morte con Luigi è stato entrare in un posto dove la parola “con ne” non era più la parola più signi cativa. Certo, alla ne è morto, e quindi questo con ne non possiamo che accettarlo, ma prima era come se tutto era dentro tutto, si mescolava sempre di più, e forse no, forse non è neanche vero, ma è di cile dire; è così facile ritornare a qualcosa di convenzionale vicino alla morte, cioè tutto diventa diverso, per esempio si può pensare che in uno che sta per morire c’è tanto corpo che va via, che si degrada, che sta per dissolversi. Si può pensare che c’è tanto corpo ma per me è anche stata una grande mancanza del corpo, un grande rimpianto, la nostra vicinanza sica che non potevamo più avere perché lui aveva forti dolori e aveva un port-acath nel petto. Prima che lui si ammalasse, ogni giorno iniziava che mi mettevo sopra di lui nel letto, in pigiama tutti e due e stavamo così almeno per cinque minuti, io sopra di lui, sentendo i corpi, eravamo come due scimmie, legati, e poi o si faceva sesso o ci si alzava. Questa cosa la si faceva ogni giorno, ma questo di aver sentito questa vicinanza che è altro, che quando lui si era ammalato non era più, questo è anche un con ne. C’è tanto corpo nella malattia, ma il corpo è diverso, e si vive la corporalità della vicinanza in modi diversi, perché mi sono sentita molto vicina a lui, da ammalato, eravamo legatissimi, era come se lo sentissi dentro al mio corpo, ma non lo sentivo più.

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Per me scrivere è una cosa molto corporale, avvicinarsi a quello che vedo come movimento e non come pensiero.
Nicolò S. Centemero Medico Ente ospedaliero Cantonale Bellinzona, Canton Ticino (Svizzera) Conversazione tra Hanne Ørstavik Scrittrice

Purtroppo la malattia del compagno o della compagna ci mette di fronte all’evidenza che noi, come caregiver, non possiamo occuparci di tutto. Ci costringe, volenti o nolenti, a confrontarci con altre persone, i medici e gli infermieri ad esempio. Come hai vissuto il rapporto con il personale curante in quel momento?

Io ero abbastanza nuova, lui si è ammalato un anno e mezzo dopo che sono venuta in Italia, non parlavo così bene la lingua all’inizio ed ero anche diversa. Sono molto più socievole e aperta adesso di come ero quando sono arrivata, e anche adesso sono quattro anni, quasi cinque anni fa, e quindi io sono cambiata ma quello che mi mancava di più, perché mi mancava molto, era il contatto, il contatto emotivo, che non ci vorrebbe molto, ci vorrebbe qualcuno che mi avesse dato uno sguardo, perché io ero sempre in ospedale con lui, andavamo insieme e siccome io lavoro in maniera indipendente, potevo portare il computer, i miei libri, e potevo fare le mie cose ovunque. Quindi ero sempre con lui, anche perché a me piaceva stare insieme, era bello, era bello anche in quei giorni, ma questo rispetto, questo troppo rispetto di non entrare, non so come la pensavano tutti questi, il personale dell’ospedale, ma era come se avessero paura di diventare troppo personali. Però, cosa può essere più personale di qualcuno che sta per morire, qualcuno che sta lì con il dramma più grande della sua vita, e siamo esseri viventi insieme, siamo anche corpi celesti ma siamo anche vivi insieme… Pensa che quello che mi dava di più il contatto era l’egiziano che veniva con il cibo, era lui che aveva un sorriso, che aveva un qualcosa di presente, di emotivo, anche se era solo uno sguardo, ma era qualcosa che non si ritirava, che non dava distanza. Quindi questo sguardo mi è mancato molto, e soprattutto che loro mi trattavano come se non ci fossi, io ero di anco a mio marito, al mio amore, e tutto si rivolgeva a lui, ma io in qualche modo, come stavo io, come era essere io di anco a lui, nessuno me lo chiedeva mai: “Ma come stai tu? Com’è questo per te?”, mai, era come se il malato era solo lui… ecco il con ne, di nuovo.

L’amore che resta

Un taccuino dei sentimenti e dell’evolversi della malattia del compagno con cui la scrittrice Hanne Ørstavik ha scelto di vivere in Italia. Una storia vera di una coppia e dell’amore, in quella terra di mezzo tra la vita e la morte. Come si può dire addio al proprio compagno?

Ti amo. Ce lo diciamo tutto il tempo. Ce lo diciamo, invece di dire altro. Cosa sarebbe questo altro? Tu: Sto per morire.

In questa tua testimonianza nel ruolo di caregiver, il con ne mi sembra sia diventato un muro…

Esatto, sì, e ancora di più perché lui stava per morire e io lo sapevo, sapevamo tutti che lui non voleva saperlo, non voleva a rontarla come una cosa così decisa e loro erano molto sensibili per questo, e la loro scelta era di seguirlo, di assecondarlo, ma io dovevo vivere, io dovevo continuare la mia vita e io avevo bisogno di altre informazioni di quelle che aveva bisogno lui, e quindi alla ne io ho dovuto a rontarli, io ho dovuto a rontare i medici da sola, da parte, perché in qualche modo non hanno mai detto “adesso facciamo un incontro con te” in u cio, che per me sarebbe stato anche sentirmi vista e che si prenderebbero cura del totale Luigi, perché io facevo parte in qualche modo di lui. Fin qui, ci siamo rivolti al passato. L’ultima domanda che vorrei farti, però, guarda al futuro. Se pensi a un tuo con ne nei prossimi giorni, mesi, anni… quale sarà?

Io penso sempre che il con ne più grande è quello tra il mondo interiore e il mondo esteriore, e penso a come vivere questo. Però, per entrare in questa cosa dell’interiorità e dell’esteriorità, io penso che a me serva l’arte. L’arte è tutte le cose, tutte le cose che esperiamo, che viviamo, che non sono per un obiettivo preciso, ma che viviamo per vivere, per esplorare, per allargare la vita, per fare esperienze, per conoscere chi siamo e come siamo. Questo lo viviamo tutti dentro di noi e per condividerlo c’è quel punto di condivisione che può essere un con ne ma è anche il ponte, e questo mi interessa più di ogni altra cosa. F

Noi: Non lasciarmi. Io: Non so cosa fare. Prima: Non so cosa fare senza di te. Quando tu non ci sarai più. Ora: Non so cosa fare di tutti questi giorni, di questo tempo, in cui la morte è la cosa più visibile che c’è. Ti amo. Tu lo dici nella notte quando ti svegli coi dolori o tra due sogni e mi cerchi con il braccio. Te lo dico quando trovo la tua testa diventata piccola e tonda nella mia mano adesso che i capelli quasi non ci sono più, quando ti carezzo un po’ per farti girare e smettere di russare. Ti amo. C’era un tempo quando ti cercavo con la mano e sentivo la tua pelle, tendevo il dorso della mano contro le tue spalle, lo stomaco, le cosce, da qualche parte, durante la notte, ed era stabilire un collegamento, avere un contatto, con una parte piccola e senza linguaggio e forse molto giovane in me, una parte neonata, che avrebbe potuto provare pelle e calore e scendere, trovare il fondo nella notte, rincasare, arrivare. Ti amo. Non sei più nel tuo corpo, non so dove sei, ondeggi nella mor na, entri ed esci dal sonno o dal torpore e non parliamo della morte, invece mi dici Ti amo, e stendi la mano dal letto dove sei sdraiato durante le giornate, vestito e scrivi sul cellulare, scrivi un romanzo sul piccolo schermo, due tre righe prima di uttuare nel sonno di nuovo, e io lascio lo stipite e vado verso te e ti prendo la mano e ti guardo e ti dico, anche io, ti amo. (...) •

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Cosa può essere più personale di qualcuno che sta per morire, qualcuno che sta lì con il dramma più grande della sua vita.
Ti amo Hanne Ørstavik Milano: Ponte alle Grazie, 2021.

Con ni: luogo di contraddizioni

Da un lato possono essere zone di conflitto, dall’altro zone di contaminazioni, spazi di confronto: tra le professioni, tra sanità pubblica e sanità privata, tra nazioni.

“La necessità di frontiere statuali nasce dal dovere di tutelare i cittadini, solo se il confine è certo chi è al di qua può dirsi al sicuro”. E se chi è al di là non è al sicuro? Pensa sia comunque giusto innalzare barriere?

3% Non saprei

7% Sì, perché il problema delle migrazioni va in qualche modo governato

6% Sì, i con ni sono anche espressione dell’identità di un popolo

39% No, i muri non riescono a proteggere un territorio

45% No, innalzare barriere va contro il mio sentire morale

“Il confine tra pubblico e privato lo percepisce quasi esclusivamente il ceto medio italiano: non quel due o tre per cento più ricco che paga di tasca propria, né la maggioranza delle persone che sopravvivono con un reddito molto basso, che non permette nulla più che il ticket”. Quali sono secondo lei le strategie prioritarie per cercare di dare risposte adeguate ai problemi di salute dei cittadini?

6% Non saprei

6% Adottare il sistema “Opting in”, esternalizzando alcune assistenze, sulla base del modello tedesco

9% Costruire il cosiddetto “secondo pilastro sanitario” aperto a tutti i cittadini senza distinzioni

Gianni Tognoni scrive su Forward che l’espressione “senza confini” è la parola dei diritti umani, “sarebbe molto importante se la dignità delle persone prevalesse su tutte le altre interpretazioni”. È d’accordo con questa affermazione?

2% Non saprei 2% Non sono d’accordo, perché la libertà di scegliere dove vivere non può condizionare la libertà di chi in questo modo perde il lavoro

62% Sì, assolutamente

34% In linea teorica sì, ma la realtà va governata

È favorevole al riconoscimento di forme di maggiore autonomia ad alcune Regioni a statuto ordinario?

4% Non saprei

28% No, la legge viola i principi di solidarietà sociale ed economica

47% No, la legge inasprirebbe le disuguaglianze tra i cittadini di Regioni diverse

6% Sì, è giusto che i cittadini di alcune Regioni abbiano bene ci dal produrre maggiore reddito

15%

Sì, i Livelli essenziali di prestazioni possono comunque garantire equità nei diritti dei cittadini

Cosa considera prioritario per un bilanciamento positivo tra centro e periferia per la sanità pubblica?

40%

Assicurare il ruolo dello Stato quale garante della universalità del Ssn

17% Realizzare un’intesa dello Stato con tutte le Regioni nel rispetto del principio di leale collaborazione

37% Fissare e monitorare livelli di riferimento che devono essere garantiti uniformemente sul territorio nazionale

6% Separare le competenze che spettano agli organi centrali e quelle alle Regioni

66% Orientare diversamente i nanziamenti, favorendo la sanità pubblica

13% Contrattare la concessione di convenzioni verso un’o erta di prestazioni adeguate

Tra le priorità per la sanità pubblica definite dall’Ocse vi è quella della qualificazione della spesa e della lotta agli sprechi. Quali soluzioni ritiene siano più efficaci?

28% Evitare la richiesta di esami che non in uenzano le scelte terapeutiche 14% Ricondurre visite specialistiche di routine alla medicina generale

In una situazione di conflitto con il proprio paziente, cosa dovrebbe fare il medico?

22%

Dare al paziente un ruolo più attivo nella relazione

26% Spiegare al paziente cosa dicono le evidenze e le linee guida

1% Accettare le richieste del paziente

31% Coinvolgere cittadini e medici a livello capillare in prevenzione, diagnosi e cura

21% Contrastare la medicina difensiva

6% Permettere a farmacisti e infermieri di fornire prestazioni riservate ai medici

21% Spostare l’attenzione dalla malattia (disease) alla percezione soggettiva della malattia (illness)

4% Mantenere la propria posizione perché basata sulle evidenze

26% Investigare e capire le emozioni del paziente

Il questionario è stato inviato tramite newsletter. Hanno risposto 327 persone, per la maggior parte dirigenti sanitari, epidemiologi, medici, infermieri e ricercatori. Età media 55 anni. Leggi tutti i risultati della survey su: www.forward.recentiprogressi.it

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L’ULTIMA PAROLA

Ancestrale

Separare congiungere spargere all’aria racchiudere nel pugno

trattenere

fra le labbra il sapore dividere i secondi dai minuti

discernere nel cadere

della sera

questa sera da ieri da domani

Goliarda Sapienza

Ancestrale

Milano: La Vita Felice, 2013

Antonio Addis

Camilla Alderighi

Laura Amato

Massimo Andreoni

Giancarlo Bausano

Davide Bennato

Maurizio Bonati

Stefano Cagliano

Mike Clarke

Giampaolo Collecchia

Giuseppe Curigliano

Marina Davoli

Silvio Garattini

Simona Giampaoli

Ra aele Giusti

Giuseppe Gristina

Tom Je erson

Maurizio Koch

Elisa Liberati

Nicola Magrini

Federico Marchetti

Nello Martini

Luigi Naldi

Francesco Perrone

Luigi Presenti

Insieme al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma 1 e al Pensiero Scienti co Editore partecipano al progetto Forward

Ra aele Rasoini

Emilio Romanini

Mirella Ruggeri

Rodolfo Saracci

Stefano Savonitto

Holger Schünemann

Rosa Sicari

Giuseppe Traversa

Francesco Trotta

Paolo Vercellini

Advisory Board I componenti dell’Advisory Board, il Direttore responsabile e l’Associate Editor non percepiscono compensi per le attività svolte nell’ambito del progetto Forward. Le opinioni espresse dagli autori e dalle persone intervistate sono personali e non impegnano gli enti e le aziende di appartenenza. Supplemento a Recenti Progressi in Medicina — Vol. 114, numero 4, aprile 2023 — © 2023 Il Pensiero Scienti co Editore Stampa Ti Printing Via delle Case Rosse 23 00131 Roma marzo 2023 La policy di Forward è descritta in dettaglio sul sito del progetto. Direttore responsabile Luca De Fiore Associate Editor Antonio Addis Redazione Marialidia Rossi Laura Tonon Rebecca De Fiore Giada Savini Relazioni esterne Luciano De Fiore Maria Nardoianni Gra ca Antonella Mion Fotogra e Giacomo Doni Il Pensiero Scienti co Editore Via San Giovanni Valdarno 8 00138 Roma T. +39 06 862 82 335 F. +39 06 862 82 250 info@recentiprogressi.it
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