Espoarte 88

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ANNO XVI | TRIMESTRE N.2 2015 | € 6,00

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Cover Artist Interview

NANDA VIGO ANDREA MASTROVITO

9 772035 977008

50088

00066

Trimestrale / Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale -70% NO / SAVONA MP-NO04659 / 2014 - Contiene I.P.

SILVIA CAMPORESI

Arte&Impresa GABRIELLA SCARPA PATRIZIA MOROSO LUIGI BONOTTO

Speciale Fotografia LETIZIA BATTAGLIA SHOBHA ANTONIO BIASIUCCI FRANCESCO JODICE



L. Carriello, G. Cattani, C. Costa, A. Ievolella, A. Paradiso, I. Sossella, A. Spoldi, Tarshito, E. Bertaglia, Bros, S. Cacciapaglia, D. Conte, G. De Siati, D. Fella, R. Garolla, A. Gianfreda, C. Gong, I. Dioli, I. Forlini, L. Renna, M. Marcenaro, E. Rubinacci, C. Sabbatella, F. Unia, N. Bacchiega, L. Fioranelli, A. Galli, C. Lupi, O. Mangiarini, S. Masetto, G. Milani, I. Mottini, L. Ovani, S. Somaini, V. Sonzogni, L. Zaffarano. A cura di Andrea B. del Guercio

VENEZIA 7 maggio - 30 giugno 2015

MILANO 20 maggio - 28 ottobre 2015

Asta Benefica battuta da 19 maggio 2015

Sponsor

Per informazioni: arte@bancasistema.it

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Painting as a mindfield

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HOLOGRAM Giacomo Failla

a cura di Anna Maria Ruta e Giacomo Fanale Palazzo Ziino | Palermo 20 marzo | 10 aprile 2015 KUNSTKONTOR Galerie N端rnberg 8 maggio | 31 luglio 2015 info: Arionte Arte Contemporanea tel. + 39 346 3851506 arionted@gmail.com giacomo.failla@alice.it


PASSAGGI Arte Contemporanea Galleria Project Space | Pisa | Italy www.passaggiartecontemporanea.it

Darren Harvey-Regan The Erratics 18 aprile - 27 giugno 2015


Elisa Cella Dal 30 Maggio 2015 ore 18 | al 30 Settembre 2015 presentazione Catalogo

E3 ARTE CONTEMPORANEA Via Trieste 30, Brescia +39 339 4822908 info@e3artecontemporanea.com www.e3artecontemporanea.com


Via L. Porro Lambertenghi, 6 – Milano Tel. +39 02 87246945 - www.galleriagiovannibonelli.it - info@galleriagiovannibonelli.it


eugenio tibaldi

a cura di adele cappelli

21 febbraio 24 aprile 2015

studio la cittĂ

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ETTORE FRANI L’A R I E T E artecontemporanea Info 348 9870574|BOLOGNA|www.galleriaariete.it


GIULIO CASSANELLI KAIROS 26 Marzo 2015 – 23 Aprile 2015

MUST GALLERY Via del Canvetto 6900 Lugano – Switzerland +41 91 970 21 84 info@mustgallery.ch www.mustgallery.ch



#88

L’IMMAGINE È SPIRITO, MATERIA, TEMPO, SPAZIO, OCCASIONE PER LO SGUARDO. TRACCE CHE SONO PROVE DI NOI STESSI E IL SEGNO DI UNA CULTURA CHE VIVE INCESSANTEMENTE I RITMI CHE REGGONO LA MEMORIA, LA STORIA, LE NORME DEL SAPERE * di LIVIA SAVORELLI

In un’epoca in cui si assiste ad un’incessante proliferazione delle immagini, resa possibile soprattutto grazie al digitale, ragionare sulla fotografia quale medium artistico al pari della pittura o della scultura non può prescindere da una considerazione sul “valore sociale” della fotografia genericamente intesa, che è sempre stata «figlia di un ragionamento, di un pensiero, di uno studio, di un sistema culturale», come ci ricorda Claudio De Polo, Presidente della Fratelli Alinari. L’importanza della conservazione della fotografia tradizionale, quale testimonianza del nostro passato, nell’esperienza riportata dagli Archivi Alinari di Firenze, passa attraverso l’importante imperativo Save our memory. Ma poiché passato e presente nella fotografia sono quanto mai legati, la conservazione del patrimonio fotografico nazionale ed europeo – nell’ottica di garantirne fruibilità ed accesso – deve passare per la strada della digitalizzazione. La fotografia d’arte, come ha efficacemente espresso l’“Uomo nuovo della Fotografia” Mario Giacomelli, inizia piegando la tecnica al perseguimento dell’idea che si vuole realizzare (la macchina fotografica come prolungamento dell’idea, appunto), diventando un meccanismo non per riprodurre il reale bensì per decostruirlo, per «dare respiro alle cose grazie a questo pretesto chiamato Fotografia». La fotografia, diventata oggi più che mai lingua condivisa grazie a Instagram, Facebook & Co., si fa appunto «quotidiano, presenza estesa del corpo-mente condiviso». E la rilettura dell’ormai onnipresente Selfie, in chiave barthesiana, proposta da Gianluigi Ricuperati, nelle pagine a seguire, è quanto mai affascinante. Continuando a tessere questo filo, che lega passato e presente, reale ed immaginario, abbiamo scelto di dedicare la cover di questo numero alla terza Venezia di Silvia Camporesi, giovane rappresentante di una nuova generazione di fotografi. La quotidianità lascia il campo alla memoria e al sogno e la fotografia diventa strumento per raccontare una realtà altra che non avrebbe senso esporre a parole... Perché, come afferma Ricuperati, «la fotografia è quella cosa che inizia quando è uscito dalla stanza chi pensa solo alla fotografia». *Mario Giacomelli

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espoarte #88

Silvia Camporesi, Quando comincia l’acqua (la porta scrostata), inkjet print, cm 80x100. in copertina, dettaglio. Courtesy: Photographica fine art Gallery, Lugano


SHADI GHADIRIAN The Others Me

a cura di Silvia Cirelli

23 APRILE - 21 GIUGNO, 2015

INAUGUR AZIONE: giovedì 23 aprile, ore 19.00

OFFICINE DELL’IMMAGINE

C O N T E M P O R A R Y

A R T

Via Atto Vannucci 13 - 20135 MILANO Tel. +39 02.91638758 info@officinedellimmagine.com www.officinedellimmagine.com


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indice #88

22 ANTINEUTRALE #13 | La Biennale che verrà | di Roberto Floreani 24 NEW MEDIA ART | Ed Atkins e l’iperrealtà virtuale dei corpi | di Chiara Canali 26 EPPUR SI MUOVE #9 | L’erba del vicino... | di Christian Ghisellini 28 PENSIERI ALBINI #21 | di Alberto Zanchetta 32 PARLARTI | Marco Campedelli: dalla scrittura alla gest-azione | di Simone Azzoni 36 TALKIN’ | Office for a Human Theatre. Per un teatro umano | intervista a Filippo Andreatta di Gabriele Salvaterra 38 NANDA VIGO | Un pensiero che comincia da Zero... | intervista di Matteo Galbiati

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104 MOROSO TRA DESIGN E ARTE. LA GIOVANE CREATIVITÀ ALLA RIBALTA | intervista a Patrizia Moroso di Matteo Galbiati 106 IL “CASO BONOTTO”. INTRECCIO TRA ARTE E INDUSTRIA | intervista a Luigi Bonotto di Francesca Di Giorgio 108 OPEN STUDIOS | VELASCO VITALI | I luoghi dell’immaginazione | intervista di Anna Lisa Ghirardi

47 - 91 Speciale Fotografia Giovani 92 BARBARA PRENKA | Quella lunga e meticolosa scoperta di se stessi | di Antonio D’Amico 94 GABRIELE GRONES | Ricercare se stesso nel volto degli altri | di Gabriele Salvaterra 96 MAURIZIO VICERÈ | Ludica.mente | di Marcella Ferro 98 SILVIA MEI | Pittura sciamanica | di Chiara Serri 100 MICHAEL GAMBINO | Un battito d’ali che cambia il mondo | di Matteo Galbiati

114 ANDREA MASTROVITO | Qui c’è ancora posto per sognare a occhi aperti | intervista di Antonio D’Amico 118 OMAGGIO A MARIA LAI | introduzione di Gaia Vettori; interviste a Maria Sofia Pisu, Barbara Casavecchia e Lorenzo Giusti a cura di Marcella Ferro 126 TALKIN’ | Alex Pinna. L’arte come gioco | intervista di Francesca Caputo

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Arte & Impresa 102 ACQUA DI PARMA E L’ARTE CONTEMPORANEA: UNA VISIONE PROIETTATA NEL FUTURO | intervista a Gabriella Scarpa di Livia Savorelli

ESPOARTE

#88 | Anno XVI | Trimestre n.2 2015 Registrazione del Tribunale di Savona n. 517 del 15 febbraio 2001

Espoarte è un periodico di arte e cultura contemporanea edito dall’Associazione Culturale Arteam. © Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l’autorizzazione scritta della Direzione e dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile alla redazione per la pubblicazione di articoli vanno inviati all’indirizzo di redazione. Tutti i materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti.

Editore Ass. Cult. Arteam Redazione via Traversa dei Ceramisti 8/b 17012 Albissola Marina (SV) Tel. +39 019 4004123 redazione@espoarte.net www.espoarte.net Redazione grafica – Traffico pubblicità villaggiodellacomunicazione® traffico@villcom.net 18 | ESPOARTE 88

Direttore editoriale Livia Savorelli

Stampato in Italia da Bandecchi & Vivaldi s.r.l. Via Papa Giovanni XXIII 54, 56025 Pontedera (PI)

Publisher Diego Santamaria Segreteria di redazione Francesca Di Giorgio Direttore web Matteo Galbiati Direttore responsabile Silvia Campese Art Director Elena Borneto Rubriche Simone Azzoni, Chiara Canali, Roberto Floreani, Christian Ghisellini, Alberto Zanchetta Hanno collaborato a questo numero Francesca Caputo, Luisa Castellini, Antonio D’Amico, Francesca Di Giorgio, Laura Francesca Di Trapani, Marcella Ferro, Matteo Galbiati, Anna Lisa Ghirardi, Gabriele Salvaterra, Livia Savorelli, Chiara Serri, Alessandro Trabucco, Gaia Vettori

Distribuzione edicole MEPE Distribuzione Editoriale Via Ettore Bugatti 15, 20142 Milano (MI)

Pubblicità - Direttore Commerciale Diego Santamaria Tel. 019 4500659 / Mob. 347 7782782 diego.santamaria@espoarte.net Abbonamenti Italia Annuale (4 numeri): 20 € Biennale (8 numeri): 36 € Triennale (12 numeri): 48 €

Numeri arretrati: euro 10 a copia (spedizione in piego libri inclusa). Versamento su C/C/P o bonifico anticipato. Oppure shop online su www.espoarte.net/shop

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Mart—Rovereto 0 4 /1 0 .1 4 — 2 0 / 0 9 .1 5

Mart Rovereto Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

Orari d’apertura Mar / Dom 10.00 / 18.00 Ven 10.00 / 21.00 Lunedì chiuso

Corso Bettini, 43 38068 Rovereto / TN +39 0464 438887

Info e prenotazioni 800 397760 info@mart.trento.it mart.trento.it/guerra twitter: @mart_museum

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antineutrale #1 3 di ROBERTO FLOREANI

LA BIENNALE CHE VERRÀ Da molti anni, le edizioni della Biennale di Venezia hanno tenuto, più o meno, lo stesso orientamento che le ha viste, nella scelta degli artisti, allineate con le indicazioni ottenute dalle grandi gallerie e dal trend curatoriale internazionale. Sono, ahinoi, distantissime nel tempo le edizioni coraggiose in cui si concedevano le sale dedicate da Filippo Tommaso Marinetti ai Futuristi, abbinandole anche alla retrospettiva del ritratto dell’800 e al Bianco e Nero, con acqueforti, acquarelli e disegni a matita. Da decine d’anni la situazione si è oggettivamente capovolta: la temperatura generale delle scelte segna “Avanguardia permanente e diffusa”, con consensi preventivi e concordi. Una sorta d’improbabile Avanguardia di consenso, in cui, a parte qualche inattaccabile eccezione nelle scelte, dedicata ai giganti affermatisi negli anni ’80, una rosa di 30 artisti internazionali si divide, rimpiazzandosi ogni 10 anni, la scena. E gli stessi Padiglioni nazionali “minori” si cimentano in spesso goffi tentativi di emulazione. Da qualche anno però sembrano emergere voci fuori dal coro. Non riguardano naturalmente le scelte principali, come l’attribuzione dei Leoni d’oro o la visibilità sui media mondiali, ancora appannaggio dei soliti noti, ma alcune significative analisi di addetti ai lavori, ormai logorati dalla moltiplicazione frattale delle proposte provenienti dalla cupola mondiale. E non si sta parlando solo di Jean Clair, del compianto Robert Hughes o dei Vittorio Sgarbi, Luca Beatrice e Angelo Crespi nazionali, da sempre impegnati in queste rilevazioni sulle anomalìe del sistema. Nel 2011 accade così che Charles Saatchi, artefice del miracolo Young British Art, decollato, nel dicembre ’97, con la mostra Sensation alla Royal Academy di Londra, prenda improvvisamente a ceffoni il collezionismo internazionale che lo aveva fin lì foraggiato, definendolo ignorante,

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volgare... di infimo livello masturbatorio. Robert Storr, già curatore dell’edizione veneziana del 2009, si applicherà poi nello smantellamento dell’invulnerabilità di sua maestà Damien Hirst, definendolo semplicemente un non-artista e Vincenzo Trione, prossimo curatore del Padiglione Italia alla Biennale, prende oggi posizione sul fatto che Saper fare non conta più. Conta solo esserci. Posizione questa rilevante e autentica, perché sostenuta ex-ante, rincarando la dose sull’avanguardia ridotta a slogan, lamentando la scomparsa del valore intrinseco dell’opera, ormai trattata come un’occasione, un pretesto. Rivendicando anche l’importanza per l’artista del saper fare: dàndosi solo la possibilità di difendere ciò che è inestimabile, citando un altro grande irregolare come Robert Hughes. Si deve quindi resistere a questa deriva finanziario-snobistica che si è impadronita del Sistema dell’Arte: cosa, per gli artisti che ci credono da sempre, più facile a farsi che a dirsi, essendo il primo pensiero che hanno entrando, mattina o sera che sia, nei loro studi.

Ritratto di Vincenzo Trione. Foto: Aurelio Amendola


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new media art di CHIARA CANALI

ED ATKINS E L’IPERREALTÀ VIRTUALE DEI CORPI «Stedelijk Museum ospita l’arte nuova e sperimentale». Con queste parole Beatrix Ruf, direttrice del museo di Amsterdam, ha accolto l’acquisizione di tre videoinstallazioni dell’artista britannico Ed Atkins (1982). Queste opere sono esposte nella prima personale in Olanda dell’artista, dal titolo Recent Ouija, che si svolge nella nuova ala al piano inferiore dello Stedelijk, trasformata in un ambiente immersivo con videoproiezioni monumentali, atmosfere sonore, collage e dipinti. Considerato uno dei più influenti artisti “nativi digitali” della sua generazione, Ed Atkins è già stato esposto alla Tate Britain (2011), al MoMA PS1 (2013), alla Kunsthalle di Zurigo e presso le Serpentine Galleries di Londra (2014). Punto di partenza di ogni sua videoinstallazione è la potenzialità espressa dalle ultime

tecnologie digitali che forniscono immagini ad alta definizione, molto pulite e senza imperfezioni tecniche, che contrastano invece con la densità e la carnalità fisica dei personaggi presentati. Le composizioni digitali di Atkins sono caratterizzate da colori ricchi e toni saturi, dissolvenze languide e repentini cambi di ritmo, con tempi ben studiati attraverso il sapiente montaggio. Il suo lavoro indaga le problematiche della cultura digitale odierna e le conseguenze che si riflettono nelle nostre vite corporee. Nei suoi video si alternano spesso teste parlanti, in alcuni casi segnate da scritte grafiche, e diverse parti del corpo. Con queste composizioni Atkins crea un mondo illusorio in cui i corpi non sono reali, ma sono degli avatar che incarnano fantasie digitali. L’iperreale mondo virtuale dell’artista ci mette a confronto con

temi esistenziali importanti che riguardano la mortalità, l’amore e le relazioni personali. L’effetto finale è quello di ribaltare la realtà in illusione e di ancorare, contemporaneamente, la virtualità del visivo ad una sfera fisica e materiale, quella delle vite incarnate. Un aspetto fondamentale della sua opera risiede nel coinvolgimento dell’emotività, della visceralità delle emozioni che un lavoro può scatenare nella percezione di chi guarda. Molte opere di Atkins possono essere considerate come delle vere e proprie performance generate a computer. Benché i movimenti e le voci che cantano e parlano sono quelle dell’artista stesso, le figure vengono spersonalizzate in avatar in modo da permettere una più totale adesione ed empatia con lo spettatore. www.stedelijk.nl

Ed Atkins, Ribbons, 2014. Courtesy: l’artista e Cabinet, London 24 | ESPOARTE 88



eppur si muove #9 di CHRISTIAN GHISELLINI

L’ERBA DEL VICINO… «Non dobbiamo veramente avere una storia con un inizio ed una fine o una trama. È più una serie di esperienze che costruiscono un climax. Io le chiamo esperienze cavalcate». Marc Fraser Davis1

Il nostro pianeta, vecchio di 4,5 miliardi di anni, ha continuato a evolversi seguendo il caso e la necessità, tra l’equilibrio e l’instabilità. La durata della storia umana è una minima frazione di questo tempo, ma dalla seconda metà del ventesimo secolo, l’uomo ha spinto pesantemente sull’acceleratore e amplificato gli squilibri. Uranio-238, amianto, metalli pesanti, biossido di carbonio, sono tutti elementi presenti in natura, hanno in gran parte preceduto la comparsa dell’uomo sulla Terra. È quest’ultimo che però ne ha rivelati gli effetti pericolosi. Nel suo ultimo film, uscito in Francia nel febbraio 2014, Jacques-Rémy Girerd2 riversa queste sue osservazioni e avverte di un mondo senza controllo. Il suo racconto ecologico ritrae le devastazioni di pesticidi e multinazionali, erigendo l’ecologia come l’ultimo ostacolo a una società ultra-liberista in cui le grandi imprese sono solo un’entità avida che vuole fagocitare la natura. Zia Hilda (Tante Hilda), questo il titolo dell’ultimo lungometraggio d’animazione 26 | ESPOARTE 88

dell’autore dell’amatissimo La profezia delle ranocchie, è un film falsamente ingenuo, dallo stile che si discosta dai cliché abituali e simpatici dei cartoni animati. I suoi personaggi sono più vicini ad un fantastico e poetico realismo che alla bellezza delle principesse Disney. Zia Hilda nella sua serra botanica è come una principessa nel suo palazzo, ma una principessa fisicamente atipica che evoca nelle forme, con il suo ciuffo di capelli rossi e il nome stridulo, lo stereotipo del malvagio disneyano. Anche dal punto di vista tecnico il film si pone sicuramente contro corrente, i disegni sono interamente realizzati a mano, lo stile di animazione scelto ha richiesto molto tempo perché si potesse evidenziare il segno, spingendo gli animatori a lavorare direttamente a penna e non a matita per mantenere l’immediatezza. In alcuni aspetti, il numero dei frame è volutamente ridotto a 6 per secondo (anziché 24) per accentuare il movimento e l’azione, ricordando in più di una scena la frenesia e il ritmo dell’animazione nipponica, in particolare le prime opere di Miyazaki.

Con sette anni di produzione, il film è un altro esempio dei singolari talenti del “made in France”, unendosi a Belleville, Kirikù, Ernest e Celestine e agli altri capolavori che non ci fanno rimpiangere i blockbuster hollywoodiani.

1. Marc Fraser Davis (Bakersfield, 30 marzo 1913 – Glendale, 12 gennaio 2000) è stato un importante artista e animatore americano, fa parte dei Disney's Nine Old Men, ovvero i nove creatori o registi dei più famosi film d'animazione Disney. 2. Jacques-Rémy Girerd (nato nel marzo del 1952 a La Loire) è uno scrittore, regista e produttore di film d'animazione francesi, fondatore dello studio d’animazione Folimage (1981).

Tante Hilda!, un film de Jacques-Rémy Girerd. © Folimage / Melusine Production / France 3 Cinema / Rhone-Alpes Cinema / Snd


LUCA MOSCARIELLO ALLEGRIA DI NAUFRAGI a cura di Chiara Canali

MASSIMO CACCIA CAOS a cura di Anna Lisa Ghirardi

fino al 23 aprile Colossi Arte Contemporanea Corsia del Gambero, 13 – 25121 Brescia - Tel. +39 030.3758583 - Cell. +39 338 9528261 www.colossiarte.it – info@colossiarte.it Orari: tutti i giorni 10-12 e 15-19 – Domenica e lunedì chiuso.

ASSOCIAZIONE NAZIONALE GALLERIE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA


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pensieri albini #21 PER UN LIBRO BIANCO di ALBERTO ZANCHETTA

«I

l pensare, il sentire è il fare». Correva l’anno 2001 quando incontrai Vasco Bendini all’Accademia di Bologna. A presentarci fu Concetto Pozzati, suo grande amico, e all’epoca mio professore di pittura. In quell’occasione Bendini inaugurava una mostra nell’aula che porta il nome di Virgilio Guidi (che in quella stessa accademia era stato tra i mentori di Bendini). Lui era un ex-allievo diventato un maestro, acclamato e ormai storicizzato, io invece ero ancora un timido studente che non seppe fare altro che stringergli la mano e congratularsi per l’esposizione. Da allora ho visto molte altre mostre di Bendini, imparando poco per volta a conoscere i suoi Segni segreti, le opere del ciclo Gesto e materia in cui il grumo di colore sembrava fremere con violenza sulla tela, le serie delle Memorie e del Tempo come creazione, fino all’Immagine accolta dove il murmure della pittura diventava equoreo come non mai, quasi fosse un’abluzione dell’anima. Scorrendo in rassegna le opere, dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, non v’era dubbio di trovarsi di fronte alla ricerca di uno dei protagonisti più audaci del secondo dopoguerra, e ora più che mai appare evidente la sua coerenza intellettuale, non priva di innovazioni e alchemiche sperimentazioni. Le commistioni pittoriche – in anni non sospetti – con le resine, le polveri metalliche, la lana di vetro o la paglia, sono la riprova di come l’artista non abbia mai voluto essere imbrigliato nei generi, né tantomeno nelle mode. Ad ogni mostra di Bendini si aveva la netta sensazione di assistere a una caparbia e longeva giovinezza che sapeva stupire e stupirsi di sé. Giorgio Cortenova l’aveva definito «notturno e insonne», lo era per davvero: un instancabile spirito diuturno il cui atteggiamento serotino attendeva, sempre e solo, il baluginare della creatività (che è vita eterna). Al maestro Bendini, scomparso nel gennaio di quest’anno a 93 anni, con oltre mezzo secolo di opere alle spalle, è difficile dire Adieu… ci sia allora permesso congedarci da lui con un À bientôt.

Vasco Bendini, 1 marzo 2011, olio su tela, cm 110x90 ESPOARTE 88 | 29




parlarti di SIMONE AZZONI

MARCO CAMPEDELLI:DALLA SCRITTURA ALLA GEST-AZIONE

È IL SEGNO CHE DIVENTA SIGNIFICANTE, CIOÈ LETTERA, O IL PROCESSO CREATIVO È INVERSO? Il segno che proviene dal gesto di scrittura diventa motivo di composizione ed espressione della mia energia. La lettera-parolafrase non mi interessa più se non per il suo dinamismo grafico. Il suo liberarsi nello spazio traccia l’emotività del primo pensiero che mi muove sul progetto che realizzo. Spesso è una musica a dettarmi l’inizio. Sulla meditazione di essa parte una scrittura destrutturata che non cerca più di appartenere al linguaggio. LA GRAFICA È SOLO UN PACK, L’ARTE È RIDOTTA A COMUNICAZIONE... E LA CALLIGRAFIA? La grafica è musica, ritmo, volume per come la concepisco anche sul piano della comunicazione. La calligrafia è una voce delle tante. Un giorno, tanto tempo fa, le lettere mi hanno rapito e con esse ho iniziato un percorso tortuoso. Mi interessano le vibrazioni emotive che arrivano allo spettatore così come le ho avute io nella “gest-azione” dell’opera. MODULI, GRIGLIE E RIGORE. LA CALLIGRAFIA, NELLA MISURA, RISCHIA IL DECORATIVISMO? O PROPONE UN’ESTETICA? La calligrafia si è evoluta e racconta di un tempo in mutazione. Quando il pensiero 32 | ESPOARTE 88

scorre più rapido del gesto, la scrittura si trasforma in qualcosa di più illeggibile ma oltremodo ritmato, graffiante e decisamente introspettivo. Mi interessa la spiritualità gestuale degli orientali. I tratti emergono da meditazioni. Il gesto può essere rapido o lento. Spesso è il foglio di carta a suggerirne la composizione. Le sottili increspature di superficie fermano la meditazione che, a volte, impiega giorni o settimane a manifestarsi su carta. Quando c’è scrittura, è una scrittura che non ha stile calligrafico. La struttura si rompe e talvolta si cancella. Uso inchiostro ferro gallico – secondo ricetta medioevale – esattamente come i monaci amanuensi ma oltremodo lo pongo in dialogo o contrasto con la candeggina, elemento chimico del

nostro tempo. Da sempre mi interessa il dialogo tra Vuoto e Pieno. L’ARTE PARLA ANCHE ALLA CALLIGRAFIA, AL DESIGN... MA SA ASCOLTARE? E COSA ASCOLTA? Penso che l’Arte rimanga in ascolto di nuove voci ma spesso non ha orecchie per accoglierle. Delle voci mi curo poco. Credo meglio negli occhi per guardare. L’arte va guardata e contemplata come dinanzi un’icona del Trecento. La funzione è diversa e ognuno la può trovare nel suo sentire interiore. Se c’è stata verità nel gesto tracciato, arriverà diretta allo spettatore che ne completa la visione con il proprio dialogo con l’artista. È una vera infatuazione. Capita anche a me e non è intenzionale.

Marco Campedelli, serie Untitled, 2011, inchiostro ferro gallico e candeggina su carta Arches, cm 56x76

Marco Campedelli è un grafico, sue numerose copertine di Einaudi, ma anche etichette di vini prestigiosi. È pure calligrafo, docente, scenografo e un artista che Art Verona ha ospitato recentemente con la performance Ordinary Lovers. “Parlarti” è uno sguardo dal confine tra calligrafia e arte, segno e disegno. Se mai ci fosse. Perché può essere solo una questione di funzione e intenzione comunicativa... «Non penso a nessun confine o limite bensì la mia storia di grafico costituisce il mio lessico compositivo ed è naturale che i rimandi alle composizioni strutturali di forze e direttrici visive siano i protagonisti nelle mie opere. Tutto ha connessioni. I segni sono in relazione tra loro in un continuo dialogo. L’occhio non deve stare fermo».





talkin’ di GABRIELE SALVATERRA

OFFICE FOR A HUMAN THEATRE. PER UN TEATRO UMANO INTERVISTA A FILIPPO ANDREATTA Office for a Human Theatre (OHT) è un ricco connubio di arti performative, happening e installazione che dà vita a progetti in bilico tra arte e teatro. Dopo la recente presentazione dello spettacolo Delirious New York al Teatro Litta di Milano, il collettivo torna al lavoro su nuovi progetti. Ne abbiamo parlato con il direttore artistico Filippo Andreatta.

OHT: UN PROGETTO CHE DAL 2009 COINVOLGE COMPETENZE E LINGUAGGI DIFFERENTI. QUAL È STATO IL VOSTRO PERCORSO FINO AD OGGI? Credo sia stato un percorso casuale perché la possibilità di fare risiede forse più nelle provocazioni altrui che nella volontà degli autori. Il lavoro dipende moltissimo dalle sue variabili come le istituzioni, i collaboratori, la realtà circostante e le reazioni del pubblico. Il rigore di un percorso artistico è forse una forma di autocensura, un tentativo di limitare il caos. Tuttavia mi pia-

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ce pensare all’artista come ad un maratoneta: solo nel lungo periodo è possibile comprendere l’esistenza di una direzione nel suo percorso.

tazione. Questo varia a seconda delle possibilità, può essere uno spettacolo con o senza performers ma può anche essere una mostra o un’installazione.

NELLE PRODUZIONI OHT L’UOMO È MOLTO PRESENTE MA È ANCHE VERO CHE SI NASCONDE, MUTA, SCOMPARE E RIEMERGE. CERCHI UNA RESA MEDIATA DEL CORPO DELL’ATTORE? Non per forza, dipende dal lavoro. Dopo aver studiato a fondo un determinato soggetto se ne dà una soluzione, un’interpre-

NEI RIFERIMENTI AD ALDO ROSSI E REM KOOLHAAS DELLE RECENTI PRODUZIONI OHT, SI PUÒ LEGGERE UN INTERESSE PARTICOLARE VERSO L’ARCHITETTURA? Io mi sono formato come architetto e nutro molto interesse verso l’architettura, credo però che per la propria ricerca sia impor-


tante considerare ogni disciplina senza alcuna esclusione. Su questo mi piace pensare a José Mourinho, l’allenatore del Chelsea, che diceva “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”. Credo valga lo stesso per le discipline artistiche: “chi sa solo di arte, non sa niente di arte”. CI VUOI PARLARE, INVECE, DELLA PRESENZA DI JOSEF ALBERS NELLO SPETTACOLO SQUARES DO NOT (NORMALLY) APPEAR IN NATURE? In questo spettacolo non ci sono performers, tuttavia la figura di Albers, tramite le sue idee e le sue creazioni, diventa protagonista. Mi sono reso conto che le opere di Albers, pur non mostrando la personalità dell’autore, non sono fredde. Quest’aspetto mi ha colpito molto e l’ho tradotto eliminando il corpo dell’attore al fine di realizzare uno spettacolo che avesse comunque umanità e che comunicasse un profondo amore per la capacità dell’arte di modificare la percezione della realtà. TROVI INTERESSANTE PARTIRE DA SPUNTI DELLA STORIA DELL’ARTE? C’È FORSE NEL LAVORO DI OHT UN INTENTO DI MEDIAZIONE RISPETTO

AD ALTRE ESPRESSIONI ARTISTICHE? La storia dell’arte è importantissima per comprendere che il lavoro dell’artista non consiste esclusivamente nella capacità di realizzare un’immagine. Quell’immagine, qualunque essa sia, ha un significato più profondo, un contesto preciso in cui si inserisce e da cui scaturisce. Senza il confronto con questo contesto l’immagine perderà valore in poco tempo. Se il contemporaneo è qualcosa che riesce a staccarsi dal suo tempo pur appartenendovi, il ruolo della storia è di rendere tangibile questo distacco. Ma questo non significa che il lavoro di OHT sia un tentativo di mediazione, non lo è, almeno non fra espressioni artistiche differenti. AL MOMENTO SU COSA SI TROVA IMPEGNATO OHT? Stiamo iniziando un nuovo progetto dal titolo Debolezze. Il titolo viene da una poesia di Bertolt Brecht e lo spettacolo verterà sulle debolezze come ragione per mantenere lo status quo ma anche come ragione per compiere una rivoluzione individuale.

Office for a Human Theatre www.officeforahumantheatre.org Prossimi appuntamenti: Squares do not (normally) appear in nature | Centrale Fies, Residency program 6-12 aprile 2015 Weaknesses | Centrale Fies, Residency program, giugno 2015 Squares do not (normally) appear in nature - talk | Prague Quadriennal, 20 giugno 2015

OHT, Delirious New York, 2014. Courtesy: MAXXI Foundation, © OHT. Foto: Fabio Cella Nella pagina a fianco: OHT, Squares do not (normally) appear in nature, 2014. Courtesy MART museum, © OHT. Foto: Fabio Cella

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NANDA VIGO intervista di MATTEO GALBIATI

UN PENSIERO CHE COMINCIA DA ZERO… Poliedrica tanto negli interessi, quanto nella ricerca e nei mezzi espressivi, Vigo rappresenta appieno il fervore e l’intelligenza di certe riflessioni estetiche italiane dagli Anni ’60 in poi. Forte e determinata ha saputo inserirsi e affermarsi in un contesto che, per quanto dinamico e culturalmente impegnato, era spesso ostile e duro. A lei si deve riconoscere anche il merito – attraverso i legami con il Movimento Zero – di essere stata tra chi maggiormente ha contribuito a creare quelle connessioni che hanno portato l’arte italiana ad una dimensione internazionale. Attraverso le sue parole ripercorriamo le tappe, i contenuti e il pensiero della sua ricerca che, ancora oggi, sa essere propositiva e attuale. INIZIAMO DAI SUOI ESORDI: HA AVUTO LA FORTUNA DI LAVORARE CON FONTANA E PONTI, CHE RICORDI CONSERVA? Sono stati un’esperienza determinante soprattutto per la sicurezza che hanno trasmesso al credo filosofico della mia ricerca. Fontana – da ragazzina avevo letto il Manifesto Blanco e le sue dichiarazioni premonitive sull’evolversi dell’arte – confermava la direzione che avrei voluto intraprendere. Senza contare poi la forza della sua persona. Gio Ponti, con cortesia e gentilezza, deciso e preciso, credeva nell’integrazione delle arti: architettura, design e arte. I miei coetanei, artisti e architetti, culturalmente razzisti non l’avevano capito. Deridevano il mio interesse per il suo operare e lo definivano, in modo dispregiativo, come eclettico. A MILANO INCROCIA IL GRUPPO MILANESE AZIMUT E, POI, IN UN CONTESTO INTERNAZIONALE, IL MOVIMENTO ZERO (GRUPPO ZERO IN ITALIA). COME HANNO INFLUITO SUL SUO PENSIERO, SULLA SUA RIFLESSIONE E RICERCA? Non ho affatto incrociato Azimuth, era solo al mio fianco essendo allora la compagna di Manzoni. Lui mi proibì di svolgere qualsiasi attività artistica, benché stessi terminando la Zero House, o Casa Bianca, e già avevo progettato le Torri Cimiteriali per il Comune di

Nanda Vigo, Deep Space, 2013. Courtesy: Archivio Nanda Vigo, Milano. Foto: Emilio Tremolada Nella pagina a fianco: Nanda Vigo, Ambiente cronotopico, Palazzo delle Esposizioni, Torino, 1968. Courtesy: Archivio Nanda Vigo, Milano. Foto: Gabriele Tocchio – Alto Contrasto 38 | ESPOARTE 88


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Rozzano. In A.D. (After death, di Manzoni ndr) mi precipitai a ricontattare gli esponenti del Movimento Zero, a Düsseldorf, a cui ero già legata da amicizia e, peraltro, già indicatami da Fontana dal ’60. Il progetto filosofico Zero era perfettamente allineato al mio Dopotutto. Azimuth era solo una galleria durata un anno e una rivista di cui uscirono solamente due numeri. Tanto di cappello a quanto fatto, ma Zero è per sempre. C’è stata una mostra importante al Guggenheim di New York alla fine del 2014, e ci sarà a breve un nutrito festival Zero in diversi luoghi a Berlino. IL SUO LAVORO SI MUOVE IN CAMPI DIFFERENTI: ARCHITETTURA, DESIGN, ARTE. SONO DIVERSI? QUALI AFFINITÀ E QUALI DIFFERENZE? È il “continuum” indipendentemente dalla “tematologia” dei soggetti di espressione. Non c’è un limite. COME SI “CONTAMINANO” TRA LORO NEI SUOI PROGETTI? Appunto, come dicevo, nessuna contaminazione. ATTRAVERSO LA VARIETÀ DEI SUOI LAVORI QUALI SONO I PUNTI CENTRALI DELLA SUA POETICA? È tutto dichiarato nel Manifesto Cronotopico del 1964. Iniziai ad aprirmi alla mia ricerca a sette anni, quando, a Como, vidi la Casa del Fascio di Terragni. Rimasi folgorata dalla bellezza della luce che filtrava attraverso il vetrocemento della costruzione e che mutava la volumetria dell’edificio, in un gioco infinito nell’infinita varietà dei suoi cambiamenti. Dal micro al macro, in un’infinita variazione. La possibilità umana di comprensione è solo quella di conseguirne il flusso. Tale filosofia del mio lavoro può esprimersi più liberamente in campo artistico che non in quello, diciamo più pratico, del design, degli interni o dell’architettura. In tali campi, svolgo la Maya, o l’illusione prospettica, che dovrebbe indurre il fruitore a concentrarsi, al di là del reale, sulla sua personale poetica. QUALI MATERIALI ADOTTA PER LE SUE OPERE A SOTTOLINEARNE LE SOLUZIONI SPERIMENTALI CHE 40 | ESPOARTE 88

Nanda Vigo, Lights Forever, veduta della mostra, Galleria Allegra Ravizza, Lugano, 5 dicembre 2013 - 31 gennaio 2014. In collaborazione con Archivio Nanda Vigo e MAAB Gallery. Courtesy: Galleria Allegra Ravizza, Lugano


DETERMINANO ISTANZE VISIVO PERCETTIVE? I miei materiali preferiti sono l’alluminio, l’acciaio, il vetro, lo specchio… Tutti, comunque, di tipologia riflettente, compresi la luce, il neon, i fluo o i led. POSSIAMO RIASSUMERE I SUOI INTERVENTI PER “SERIE”, COME SI SCANDISCONO, SUSSEGUONO O RITORNANO NEL TEMPO? Non so cosa si vuole intendere per “serie”. Al di là del design che è, appunto, “serificato”, odio le “serie”, vorrei che tutto fosse personalizzato, per questo preferisco esprimermi in campo artistico, qui non devo sottostare a determinate richieste e sono libera da influenze “occulte”. La luce non ha dimensione, è libera nello spazio e nel tempo. Il denominatore del mio lavoro è sempre la Cronotopia in evoluzione nella forma espressiva nei vari periodi: negli Anni ’60 ho svolto la Cronotopia di base, negli Anni ’70 gli Alfabeti cosmogonici, negli Anni ’80 i Light Tree, negli Anni ’90 i Light progress, negli Anni 2000 i Deep Space. LE COMPONENTI IMPRESCINDIBILI SONO LUCE E SPAZIO, COME “CONTROLLA” ELEMENTI CHE SONO IMPREVEDIBILI E SFUGGENTI? Appunto, quale controllo? Ci sono molti tipi di tempo e molti di luce, impossibile arrestarli, è solo possibile fermare un “momento” e fermarlo in un’espressione formale. COME LO PENSA ALL’INTERNO DI UNA MOSTRA? Con lo stesso sistema del computer: s’inseriscono i dati a disposizione e arriva il risultato, come qualsiasi tipo di progetto che si definisce sugli elementi che si hanno in possesso.

Nanda Vigo. Mix Light, veduta della mostra, Ca’ di Fra’, Milano, 5 febbraio - 28 marzo 2015. Courtesy: Ca’ di Fra’, Milano. Foto: Emilio Tremolada

HA INIZIATO LA NUOVA STAGIONE ESPOSITIVA CON LA PERSONALE DA CA’ DI FRA’, CHE COSA HA PROPOSTO? La stagione 2015 l’ho inaugurata con Affinità elette, presso la galleria San Fedele a Milano, una mostra che mi ha particolarmente interessata perché riguarda i rapporti intercorsi ESPOARTE 88 | 41


nel tempo/lavoro con molti artisti con cui mi sono interfacciata e, comunque, con quelli che hanno avuto più incisività nel mio percorso come Ponti, Fontana e Manzoni. Quasi in contemporanea da Galleria Ca’ di Fra’ ha aperto, dal titolo esplicito, Mix Lights: una mini bibliografia di vari periodi dai Cronotopi degli Anni ’60 ai Light tree degli Anni ’80, fino al totem Goral del 2006.

Nanda Vigo è nata a Milano nel 1936. Vive e lavora a Milano. Eventi in corso:

GLI ANNI DEL SECONDO DOPOGUERRA HANNO SEGNATO UNA STAGIONE IRRIPETIBILE. OGGI IL COSIDETTO “SISTEMA” PARE CONDIZIONARE RICERCHE, PENSIERI, PROPOSTE. COSA MANCA OGGI RISPETTO AD ALLORA? Il sistema ha assorbito l’arte e pare proprio che chi dovrebbe rappresentare la nuova generazione faccia di tutto per esserne partecipe. Un’arte che produce solo mercato, più o meno meritato, difficile possa essere ARTE, oggi, infatti, non si vedono che brutte copie di quella proposta dalle generazioni precedenti. Il fatto più triste è che la maggior parte non sa neppure da chi ha copiato. CHE RUOLO SPETTA OGGI ALL’ARTE, MA ANCHE AL DESIGN E ALL’ARCHITETTURA? CHE RUOLO DEVONO AVERE I LORO CREATORI? L’arte è tale perché i veri artisti e architetti hanno sempre preceduto le epoche con le loro “visioni”, da Sen-Mut a Sant’Elia, da Piero della Francesca a Fontana. Il “global”, il livellamento determinato dalla macchina, dal computer e derivati, ha prodotto sì benessere, ma non generalizzato. Il 70% della popolazione del pianeta vive ancora in condizioni precarie. Design e arte sono stati assorbiti dal sistema e la produzione si sviluppa solo sui “desiderata” dei media. È ignoranza da televideo, il gusto è di basso livello. La sperimentazione inesistente. È un circolo chiuso, un sistema dentro il “sistema”. Esiste, però, un piccolo spiraglio costituito dai Makers, ma riguarda solo il design, studenti e laureati che si autoproducono. COSA CI DICE DEI GIOVANI TALENTI? Giovani talenti? Dove? Se s’ignora il passato è quasi impossibile andare oltre. Devo dire, però, che l’arte oggi produce un buon artigianato. Non male, in fondo, considerato che, anche di tale categoria, si sta perdendo la traccia. HA QUALCHE NOME DA SEGNALARCI? Sorry, no! A parte alcuni ragazzi che fanno cose divertenti, come i The Bounty Killart e altri, sono rimasta a quelli della generazione Anni ’80-’90 che considero artisti veri, come Jan Fabre o Takeshi Kitano.

Zero in the mirror1. Christian Megert / Nanda Vigo Allegra Ravizza, Lugano 11 marzo - 24 aprile 2015 www.allegraravizza.com Zero in the mirror Diehl Cube, Berlino 18 marzo - 18 aprile 2015 www.galerievolkerdiehl.com My Zero friends – Nanda Vigo Wegallery, Berlino 20 marzo - 4 maggio 2015 www.wegallery.de Zero. Die internationale Kunstbewegung der 50er und 60er Jahre Zero Foundation, Martin-Gropius-Bau, Berlino 20 marzo - 8 giugno 2015 Gallerie di riferimento: The Mayor Gallery, Londra www.mayorgallery.com Volker Diehl, Berlino / Mosca www.galerievolkerdiehl.com Allegra Ravizza, Lugano www.allegraravizza.com Maab Gallery, Milano / Padova www.artemaab.com Ca’ di Fra’, Milano

Nanda Vigo, Genesis, Galleria Voli/Calvi, Milano, 2007. Courtesy: Archivio Nanda Vigo, Milano. Foto: Gabriele Tocchio - Alto Contrasto 42 | ESPOARTE 88



ENZO FIORE Quando l’artista incontra le nuove generazioni

ENZO FIORE A CONFRONTO CON GLI STUDENTI DEL LICEO SCIENTIFICO I.I.S. RACCHETTI - DA VINCI DI CREMA L’arte dialoga con le nuove generazioni... Racchetti - Da Vinci di Crema, si è svolta una rilevante conferenza con protagonisti gli studenti e l’arte contemporanea. Organizzazione: Professoressa di Hanno partecipato: l’artista Enzo Fiore, che collabora con la Galleria Contini di Venezia e il critico d’arte Un’importante progetto, nel quale l’arte contemporanea non rimane al’interno degli ordinari luoghi ad essa deputati, ma dove essa assume il ruolo primario che le dovrebbe appartenere: rendersi ambasciatrice della comunicazione e del libero confronto. Gli studenti,

2008, cm 180

materiale utilizzato, non si sono dimostrati solo spettatori, ma anche testimoni partecipi ed attivi, intervenendo e dialogando con i relatori. In un momento come quello attuale in cui la scuola è spesso posta negativamente al centro dell’attenzione e dove la storia dell’arte viene relegata ai margini dell’insegnamento, questa iniziativa sottolinea come all’ardire e alla cultura non si debba mai rinunciare.

2013, cm 260x160


Maddalena Barletta ... quasi Umano tecnica stampa fotografica su plexiglass su base materica - cm 100x80 - anno 2015

riferimenti RezArte Contemporanea Reggio Emilia Pinacoteca Comunale di Gaeta

www.maddalenabarletta.it - mdbar@interfree.it


[INTERVALLO]

Lia Pasqualino, Emilio Isgrò, Roma 2013

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speciale

FOTOGRAFIA 48 ARCHIVI ALINARI, FIRENZE | intervista a Claudio De Polo di Matteo Galbiati 50 ARCHIVIO MARIO GIACOMELLI, SASSOFERRATO (AN) | intervista a Katiuscia Biondi Giacomelli di Matteo Galbiati 52 LETIZIA BATTAGLIA | Diario intimo di un incontro | di Laura Francesca Di Trapani 58 SHOBHA | La bellezza nel suo sguardo | intervista di Laura Francesca Di Trapani 62 ANTONIO BIASIUCCI | La fotografia che salva | intervista di Marcella Ferro 66 SILVIA CAMPORESI | Una realtà “altra” | intervista di Chiara Serri 70 FRANCESCO JODICE | La fotografia: una lingua condivisa dal forte impatto sociale | intervista di Alessandro Trabucco 75 MILANO A TUTTA FOTOGRAFIA | di Francesca Di Giorgio 76 BARTHES “INDISCIPLINATO”. “La Camera Chiara” ai tempi di fb & co. | intervista a Gianluigi Ricuperati di Luisa Castellini 78 FOTOGRAFIA: IL DIRITTO DI IMMAGINE E LA SUA TUTELA | intervista a Avv. Cristina Manasse di Livia Savorelli MIA – MILANO IMAGE ART FAIR: 81 La fotografia e il mercato: parola ai galleristi | a cura di Francesca Di Giorgio 90 Collezionismo 2.0 | La fotografia nell’ecommerce: l’esperienza di Artistocratic, Bologna | intervista a Tommaso Stefani di Francesca Di Giorgio 91 La fotografia e l’art rent: l’esperienza di Noema Gallery, Milano | intervista a Maria Cristina de Zuccato di Francesca Di Giorgio

Questo speciale è dedicato a Letizia Battaglia. SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 47


ARCHIVI ALINARI | FIRENZE Intervista a CLAUDIO DE POLO, PRESIDENTE DELLA FRATELLI ALINARI di MATTEO GALBIATI

CI RIASSUME BREVEMENTE LA STORIA DEGLI ARCHIVI ALINARI? Gli archivi nascono con la Fratelli Alinari nel 1852, siamo la più antica industria fotografica del mondo. Fin da subito, il lavoro dell’azienda ha voluto raccogliere la testimonianza della grande arte italiana, diffusa nel mondo attraverso le proprie fotografie. Gli Alinari furono sempre aperti alle innovazioni (ad esempio il parallasse) che permisero a Leopoldo & C. di essere in anticipo e all’avanguardia sui tempi e ne favorirono la grande abilità tecnica. Cominciarono dall’ar-

te toscana e poi si rivolsero ai numerosi capolavori della penisola e dell’Europa. La loro materia prima era la bellezza del nostro Paese: tra fine ‘800 e i primi del ‘900 avevano già uno dei maggiori archivi del mondo. Quando la Eastman Kodak Company produce, agli inizi del ‘900, la macchina fotografica per tutti, fu la dichiarazione di morte per tutti gli atelier fotografici. Tutti facevano fotografia. Vittorio Alinari, dopo la morte per spagnola del figlio Carlo, decide, nel 1920, di passare la mano. Fu il re Vittorio Emanuele III a raccogliere un gruppo di 98 finan-

ziatori che investirono nell’acquisto – fu una vera e propria OPA – della compagnia per l’astronomica cifra di 5.000.000 di lire oro di allora. Nessun singolo azionista deteneva più del 9% di azioni. Nacque Idea, l’Istituto di Edizioni Artistiche, che proseguì l’opera di Alinari che, tra il 1852 e il 1920, mise insieme un patrimonio di ben 120.000 lastre. Fu la prima public company del mondo e il più antico Istituto italiano: la De Agostini è del 1901, il Luce è del 1924, la Treccani del 1925. Alinari Idea non diffondeva più l’arte italiana per gli album di raccolte fotografiche, ma noleggiava le foto per l’editoria. Sono i libri, le monografie e i cataloghi a diventare il nuovo orizzonte degli Archivi. Nel 1934 Mattioli compra, per conto del Senatore Cini, il 99,90% delle azioni. Cini concentrò nelle sue mani, in un vero e proprio monopolio, i grandi archivi fotografici italiani: Brogi e Mannelli di Firenze, Anderson di Roma, Fiorentini di Padova e Chauffourier di Napoli. Cini portò tutto a Firenze, lasciando intatta la sede originale di Alinari. OGGI IL PATRIMONIO DEGLI ARCHIVI È CONSIDEREVOLE, QUALI SONO I SUOI CONTENUTI? QUALI SONO I SUOI NUMERI? Siamo uno dei cinque maggiori archivi del mondo. Contiamo su 5.035.000 fotografie tra cui 2.000.000 di arte, 1.250.000 sulla storia d’Italia (dai dagherrotipi sabaudi alle foto dell’archivio TEAM), 985.000 sulla storia dell’industria e dell’imprenditoria italiana che riguarda 7500 tra le aziende espressione dell’eccellenza italiana. Tutte le regioni d’Italia sono presenti. Abbiamo anche 900.000 foto “vintage” del XIX secolo (bromuri, albumine, …). Un patrimonio con pochi uguali al mondo.

C.Wulz, Marion e Wanda Wulz, 1920, stampa moderna al platino/palladio. Archivio Fratelli Alinari 48 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

COME GESTITE L’IMMENSO FONDO FOTOGRAFICO CHE CONSERVATE? COME LO VALORIZZATE? La gestione passa inevitabilmente per il noleggio del copyright, la stampa dei volumi di fotografia, arte e storia e la produzione di mostre. Stampiamo le vecchie foto con tecniche tradizionali e antiche, lavoriamo


con la collotipia nella riproduzione di opere d’arte. Il punto critico resta la valorizzazione. Abbiamo il dovere di far conoscere questo inestimabile patrimonio italiano nel mondo: abbiamo iniziato mettendo online – ad oggi – circa 300.000 foto riproducendole con un’altissima e raffinata risoluzione. Un procedimento accuratissimo che si avvale dei più aggiornati mezzi tecnologici per promuovere la loro conoscenza on demand. QUALI SONO LE PROBLEMATICHE RELATIVE ALLA CONSERVAZIONE DEI PATRIMONI STORICI? CHE DIFFICOLTÀ INCONTRATE E CHE NECESSITÀ AVETE? La difficoltà resta legata al rischio di vederli danneggiati, soprattutto le lastre di vetro, e quindi di perderli irreparabilmente. La soluzione e la strada per la salvaguardia passa attraverso, come dicevo pocanzi, la digitalizzazione degli archivi che deve essere accurata e di qualità ovviamente. Il problema connesso a questo impegnativo lavoro sono i nostri numeri: in prima battuta il tempo, per digitalizzare 1.000.000 di foto occorrono almeno sette-otto di anni di intensa attività, l’altro sono i costi. Una singola scansione in HD, dopo l’eventuale restauro della foto e la catalogazione con metadati in inglese e italiano, ha un prezzo di poco inferiore agli 8 Euro, se, però, questo lo moltiplichiamo per il nostro patrimonio, la cifra diventa di diversi milioni. Possiamo anche pensare di non eseguire l’operazione su tutte le fotografie, dato che molti scatti ripetono lo stesso soggetto, ma comunque le risorse economiche richieste sono consistenti. Il punto, quindi, riguarda la messa in sicurezza del patrimonio (Save our memory). Occorre trovare investitori e capitali. Noi intanto proseguiamo poco per volta, come abbiamo fatto fino ad ora, investendo di nostro, ma bisogna pensare in modo più sistematico e programmatico e puntare alla salvaguardia integrale di un patrimonio nazionale ed europeo.

punto si può operare in un regime di automantenimento. NELL’EPOCA DI IMMAGINI EFFIMERE E DIGITALI CHE RUOLO POTREBBE AVERE LA FOTOGRAFIA “TRADIZIONALE”? C’È SPAZIO PER IL SUO LINGUAGGIO E LA SUA MEMORIA? La foto resta sempre una fonte storica e artistica da cui tutto deriva, sia come possibilità di cultura, sia come mezzo di miglioramento dell’individuo. La fotografia “tradizionale” resta figlia di un ragionamento, di un pensiero, di uno studio. Di un sistema culturale. Erano poche, se ne facevano meno e si “sce-

glieva”, si prestava attenzione a quanto si riprendeva. Emergeva solo il meglio e, quelle più belle, sono tuttora valide. Oggi è tutto diverso. Tutti ne fanno, c’è un mare infinito di immagini che ci sommerge, ma sono pochissime quelle davvero interessanti e che lasciano e lasceranno il segno. www.alinari.it | www.alinariarchives.it Dall’alto: La terrazza per la stampa dello Stabilimento Fotografico Fratelli Alinari di via Nazionale, Firenze; Veduta dell’ingresso dello Stabilimento Fotografico Fratelli Alinari di Via Nazionale, ora Largo Alinari, a Firenze. 1899. Foto: Fratelli Alinari. Archivio Alinari, Firenze

QUALE FUTURO AUGURA ALL’ISTITUZIONE CHE PRESIEDE? Di restare presidio per la memoria dell’Italia e dell’Europa, visto che abbiamo esportato la nostra arte nel mondo. Il futuro, come ci siamo detti, passa inevitabilmente per la custodia della memoria. Serve trovare quella partnership che permetta di preservare e salvaguardare le foto. Bisogna considerare che, mettendolo in sicurezza, si rende fruibile e accessibile il patrimonio. A questo SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 49


ARCHIVIO MARIO GIACOMELLI | SASSOFERRATO (AN) Intervista a KATIUSCIA BIONDI GIACOMELLI, DIRETTORE ARTISTICO ARCHIVIO GIACOMELLI di MATTEO GALBIATI

L’ARCHIVIO MARIO GIACOMELLI-SASSOFERRATO SI OCCUPA DI UNO DEI PIÙ GRANDI E CONOSCIUTI MAESTRI INTERNAZIONALI DELLA FOTOGRAFIA, QUALI SONO LE VOSTRE ATTIVITÀ LEGATE ALLA SUA EREDITÀ E ALLA SUA FIGURA? L’attività dell’Archivio segue due filoni inscindibili: il primo è promuovere la sua opera fotografica e la sua concezione dell’arte, attraverso mostre, pubblicazioni, fiere, conferenze, etc.; il secondo è mettere ordine. Per Giacomelli creare era una necessità esistenziale, il suo unico interesse, quindi si teneva a distanza dai calcoli di mercato. Fortunatamente il suo impeto creativo seguiva un ordine preciso, e questo, oggi, ci permette di conservare e divulgare il corpus fotografico con criteri filologici, e accrescere, come merita, il valore della sua opera. COME PROMUOVETE E TUTELATE LA SUA RICERCA? Tenendo fede alla sua concezione della fotografia: cerchiamo di far emergere, in ogni nostra iniziativa, il percorso del suo slancio creativo. Di libri e mostre su Giacomelli ce ne sono stati a centinaia nel corso di questi sessant’anni, tutti seguendo l’impronta della monografia presentando quel che di Giacomelli era già riconosciuto come iconografico; il nostro intento ora è di promuovere progetti che prendano in esame il particolare, con analisi capillari, mostrando l’inedito, e ogni volta raccogliere meraviglia da parte del pubblico e della critica nello scoprire una coerenza strepitosa in quella continua spinta sperimentativa che contraddistingue la sua opera. COSA CARATTERIZZA LA POESIA DI MARIO GIACOMELLI? QUALI ASPETTI COMPONGONO IL SUO CARATTERE, IL SUO PENSIERO? QUALI SONO I TRATTI SALIENTI DELLA SUA ANIMA ARTISTICA E UMANA? Piegando la tecnica al perseguimento dell’idea che vuole raggiungere, considerando la macchina fotografica come parte 50 | ESPOARTE 88

del suo corpo (lui dice: come “prolungamento della mia idea”), Giacomelli applica la sua creatività a quelle che si potrebbero chiamare “vie di fuga dalla regola”, per arrivare a un utilizzo estremo della macchina fotografica, da lui modificata secondo precise esigenze, violata anche nell’uso, per cui essa diviene un meccanismo atto a decostruire il reale. La produzione fotografica ne risulta un sistema di continue mutazioni, un insieme

Mario Giacomelli, Motivo suggerito dal taglio dell’albero, 1967/69, Gelatin Silver Print. Courtesy: Archivio Mario Giacomelli-Sassoferrato


Dall’alto: Mario Giacomelli, autoritratto in Favola verso possibili significati interiori, 1983/84, Gelatin Silver Print. Courtesy: Archivio Mario Giacomelli-Sassoferrato Mario Giacomelli, Spoon River, 1968/73, Gelatin Silver Print. Courtesy: Archivio Mario Giacomelli-Sassoferrato

di parti intercomunicanti, un corpus vivo: ogni serie realizzata non è un capitolo chiuso, perché ogni foto è strettamente collegata alle altre per rimandi iconografici e simbolici, fuori dall’ancoraggio al reale in una fotografia non verista, per “dare respiro alle cose grazie a questo pretesto chiamato Fotografia” (Giacomelli, da un suo appunto degli anni ’90). GIACOMELLI AVEVA UN’ATTENZIONE PECULIARE VERSO GLI ALTRI SIA NEL SUO LAVORO ARTISTICO SIA NEL RAPPORTO UMANO? Sì è vero, Giacomelli era attento all’arte e agli artisti, sia del contesto marchigiano sia internazionale. Era molto informato. La sua vasta biblioteca di libri sull’arte contiene anche innumerevoli pubblicazioni di artisti che lo hanno omaggiato facendogli recapitare i loro cataloghi di mostre, con tanto di dedica e saluti. Conserviamo anche tutti i testi critici da lui scritti per molti artisti, e i relativi carteggi. In diversi casi Giacomelli sosteneva anche economicamente il loro lavoro. Per questa sua apertura al dialogo e allo scambio, la sua Tipografia Marchigiana di Senigallia era costantemente frequentata da personaggi dell’arte che si spostavano da tutte le parti del mondo per conoscerlo di persona.

nitivamente pianificati. Ma ve ne daremo notizia. In generale, i progetti nascono dalla costola della Progettualità: potremmo dire di seguire un unico percorso, i cui singoli progetti ne sono via via l’espressione particolare. L’intento è di comunicare al mondo che di Giacomelli c’è ancora molto da scoprire: pur essendo stato riconosciuto sin dagli esordi “l’Uomo Nuovo della Fotografia”, come lo nominò Mario Monti premiandolo al prestigioso Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto (1955), eppure di lui sono rimasti sconosciuti al grande pub-

blico aspetti fondamentali per coglierne la portata creativa; e mostrare, attraverso esposizioni e pubblicazioni mirate, conferenze e fiere d’arte, che il metodo con cui creava e la sua concezione della Fotografia, lo rendono un Artista che usa la Fotografia più che un fotografo. In cantiere abbiamo vari progetti aperti che seguono tale progettualità. Intanto, però, saremo presenti a questa edizione di MIA Fair 2015, in cui proporremo una selezione di opere vintage altamente rappresentative, molte di queste inedite. www.archiviomariogiacomelli.it

QUALI PROGETTI AVETE NELL’IMMEDIATO FUTURO? QUALI MOSTRE? Per correttezza non possiamo ancora svelare nei particolari i progetti in fieri (diversi e internazionali) perché ancora non defiESPOARTE 88 | 51


INSPIRED BY | ritratto

di una fotografa

LETIZIA BATTAGLIA di LAURA FRANCESCA DI TRAPANI

DIARIO INTIMO DI UN INCONTRO Letizia Battaglia è una donna senza età. Ha compiuto i suoi primi 80 anni da poco, ma la sua essenza l’ho sempre percepita come capace di migrare nello stesso istante da una stagione all’altra della vita. Ha attraversato fino ad oggi questa sua esistenza da leonessa e continuo a vedere nel suo volto una fierezza nello sguardo e una sincera voglia di battagliare per costruire, di “andare verso il mondo senza bloccarlo”. Nel suo cognome probabilmente un destino. Di battaglie Letizia ne ha condotte tante e oggi, dopo tre anni di attesa, la sua città – Palermo – le ha finalmente tributato il regalo più atteso e probabilmente più agognato: quel Centro Internazionale della Fotografia, di cui le ho sentito parlare in diverse occasioni e sempre con un profondo trasporto emotivo. Un luogo così necessario per questa città, piena di bravi artisti, ma priva di risorse, e spesso di cultura istituzionale tale da comprendere l’importanza di investire in loro, per loro e in realtà per l’intera cittadinanza. Tra un anno è stabilita la sua apertura ma nell’attesa – per iniziare a dare una forma ad un bellissimo sogno – Letizia, come regalo di genetliaco, ha desiderato che si iniziasse a dar vita alla prima collezione del museo, esposta al momento al Teatro Garibaldi di Palermo, luogo in cui la cittadinanza intera l’ha festeggiata. La fotografia come miracolo, a cui si avvicina “da grande”, che la allontana da un dolore interiore, conducendola verso quel profondo senso d’appartenenza. 52 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


Letizia Battaglia, Rielaborazioni, 2008 Nella pagina a fianco: Letizia Battaglia, Atri, 2010. Foto: Lia Pasqualino

La prima donna europea a ricevere ex aequo con l’artista americana Donna Ferrato il Premio Eugene Smith nel 1985. Raccontandotelo nei suoi occhi si muove ancora un certo sentimento di stupore per i tributi ricevuti. Letizia oggi scrive una lettera al Presidente della Repubblica Mattarella, facendo riflettere sull’esclusione del pm Di Matteo, sulla sua bocciatura alla nomina di consigliere da designare alla Dna. La mia attenzione si sofferma su un passo in particolare: «Un suo gesto, una sua parola possono realmente contribuire a cambiare il corso della storia. I miei occhi hanno visto troppi morti ammazzati, troppe stragi, troppi funerali. Non voglio pensare che tutto questo possa ancora ripetersi perché significherebbe che abbiamo perduto, e che anche noi siamo stati complici. Non voglio altri eroi morti, voglio che Di Matteo possa continuare il suo lavoro da vivo e che anche lui possa vedere rinascere questa terra martoriata». Questa è oggi Letizia Battaglia, questa è la geografia sentimentale della sua vita, delle sue fotografie, in quelle più recenti, come il ciclo Gli Invincibili, e in quelle storiche

che trasudano ancora l’immenso dolore. Vivo la sua ricerca come un’archeologia dell’immagine, dove le svariate stratificazioni che corrispondono alle emozioni di una vita vissuta con passione, segnano il suo tempo intimo, rappresentando anche la storia di una società, di una intera città. Letizia è più che una fotografa, travalica ogni definizione, non si può chiuderla in ruoli. Chi ha respirato Palermo certamente lo percepisce in maniera viscerale, chi conosce il suo lavoro ha la possibilità di leggere una storia, quella di tutti noi. Ho raccontato il mio incontro con lei in questo lavoro editoriale – ESSENZA La vita come l’arte. Ritratti di donne in Sicilia, Dario Flaccovio Editore – di cui di seguito riportiamo alcuni stralci. Ho raccontato la donna che mi ha emozionata, la fotografa di un tempo impervio, che ama profondamente le donne riponendo in loro, nonostante tutto, grandi speranze. È un ritratto di Letizia Battaglia conosciuta attraverso i suoi pensieri, le sue speranze, le sue delusioni, i suoi affetti familiari. Ritratto di una donna che non si arrende mai, che non contempla la perdita, semmai inneggia ad andare avanti e a guardare oltre. Una SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 53


donna che incarna interamente le parole di Pina Bausch: «Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti!» Immagina di inoltrarti nei vicoli di una Palermo melanconicamente decadente, di una Palermo fatta di silenzi, nutrita da culture, intrisa di misteri. Una città in cui girando l’angolo di una stradina ti perdi in una sonorità che non è il tuo consueto idioma. Continuando a camminare, finisci – non sai neanche bene come – davanti a uno degli enigmi presenti in questa città: Il Trionfo della morte. Una morte che è rinascita? O che trionfa perché sibilla di un destino che si doveva realizzare? Oggi voglio vivere Palermo in maniera diversa, attraverso le immagini di chi l’ha amata, l’ha odiata, ha cercato di distaccarsene per poi cedere ancora una volta al suo fascino e farvi ritorno. Quando si parla di Palermo, il termine che Letizia Battaglia adotta è “malattia” e questo già fa inoltrare in meandri sentimentali molto forti nei confronti di questa terra. Sì, per lei è stata una malattia, e continua a esserlo, riconoscendo in questo la difficoltà a lasciarla per davvero. “Una città straordinaria, più eccitante di Parigi” dove per un paio d’anni (2003-2005) ha trovato rifugio, come quando si abbandona un grande amore che ti delude. L’unica alternativa alla sua Palermo, probabilmente, poteva essere Berlino, perché contiene in sé quello che da noi potrebbe essere, ma non riesce ad avverarsi. Restare in questa terra è un “dovere”, significa sentirsi utile per una causa. Riguardo a Letizia, tanto inchiostro è stato impiegato. Sarebbe riduttivo e retorico parlare di lei come della “fotografa della mafia”, sarebbe inutile ripetere le cose scritte e lette da tutti centinaia di volte, continuando a tenerla ancora imprigionata in questa etichetta. Preferisco raccontare del nostro meraviglioso scambio partendo da oggi, ritraendo una donna che ha vissuto tante vite in una sola, che si è rialzata ed è andata dritta verso i luoghi che era certa di voler respirare. Il primo aggettivo che mi viene in mente per raccontarla è, senza alcun dubbio, “generosa”. Letizia è generosa. Lo è nell’accoglierti nella sua casa, nel donarsi, nel consigliarti o anche semplicemente nella maniera in cui si apre all’esterno. [...] 54 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

[…] Torniamo a parlare di Palermo, della lotta che questa artista sta portando avanti, corrispondente al suo progetto di vita, che definisce “importante”: il Centro internazionale di fotografia. Mi dice che l’unica cosa che esiste al momento è una scritta che recita: “Lavori pubblici Palermo” e niente più. Il progetto è stato realizzato da un architetto “con molto gusto”, Iolanda Lima, e comprende una galleria per mostre temporanee, un piccolo museo della fotografia su Palermo, una libreria e uno spazio per i corsi. Anche la sede esiste: uno dei padiglioni dei Cantieri culturali

Letizia Battaglia, Palermo, 1978


Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, Palermo, Quartiere La Cala, 1980

della Zisa, ma senza l’ingresso del primo operaio, questo ambizioso piano non potrà vedere la luce. Il progetto racchiude l’anima di Letizia, il valore riconosciuto alla fotografia, e soprattutto il bisogno di creare uno spazio così importante in una città complessa come Palermo, ricca di talenti ma povera di luoghi e di iniziative interessanti. “Voglio avere il tempo di avviarlo e di affidarlo a persone valide”, mi spiega l’artista. “Tra poco porterò un lettino lì e farò occupazione”. E da questa frase emerge lo spirito da combattente che risiede in lei. […]

[...] Per Letizia, “usare la fotografia per cambiare le cose era un imperativo categorico”. Il fotografo deve saper raccontare, deve stare dentro la foto, abbandonando tutto il resto. Un verso del Canto 81 dei Canti Pisani di Ezra Pound racchiude questo sentimento nell’approcciare la fotografia. Recita così: “Strappa da te la vanità, ti dico strappala”. Non ha ceduto alla vanità, Letizia: ha vissuto persa nell’inseguire un sentimento di giustizia morale, quella bella giustizia che è alla ricerca del bene. [...] […] Quanta morte ha annusato per le strade, quanta sofferenza hanno scrutato i suoi occhi. È stata un’immersione in una ferocia seduttiva che questa città trasudava, intrisa di morte e di sete di giustizia, sentimenti che nelle sue immagini pulsavano fortemente, andando oltre il semplice ritratto di un corpo freddato con estrema violenza. Le chiedo oggi la sua relazione con la morte, una morte che negli anni trascorsi era per lei all’ordine del giorno, e alla quale provava quasi a fare l’abitudine per andare avanti, quella morte che “a Palermo va meditata e capita”. “Se mi avessi fatto questa domanda vent’anni fa, sarebbe stato diverso”: inizia così questa parentesi. “La morte violenta, procurata è terribile. È pesante incontrare queste cose e continuare a vivere, a mangiare, a vedere un film, ad avere una relazione”. La guardo negli occhi e sento che, nonostante siano trascorsi tanti anni da quella esistenza, la sofferenza e il dolore non si possono rimuovere. [...] […] Oggi Letizia non fotografa più i morti ammazzati, oggi non corre più con la sua Vespa per raggiungere quei luoghi di morte e di dolore, oggi racconta un’altra sé, come le sue belle ossessioni, tra le quali quella per James Joyce. Sottolinea di essere stata “una fotoreporter che ora gioca con la fotografia”. Così la ripetizione ossessiva del volto di Joyce è un elemento di un nuovo ciclo: Gli Invincibili. “Lui dentro di me è invincibile, non morirà mai”. Letizia mi racconta che nella sua casa cambia spessissimo la disposizione dei mobili, circa ogni mese. Ma deve avere sempre sott’occhio l’Ulisse di Joyce, che SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 55


le ha dato tanto. E come Joyce, ci sono Falcone, Borsellino, Pasolini, Freud, Che Guevara, Gesù: punti fermi che l’hanno accompagnata nell’arco della sua esistenza. Personaggi cui vuole tributare riconoscenza. Sono morti e sono eroi, e lei rende omaggio a tutti loro con la ripetizione dei volti. Mi parla delle influenze dell’arte di Bob Wilson e del teatro danza di Pina Bausch. [...] […] Donne fotografate, muse ispiratrici della sua vita, della sua arte. Donne di cui tanto si è discusso e che fanno sempre discutere una certa riluttante parte di opinione pubblica. Donne in cui, fotografandole, l’artista si è immersa, nei volti delle adulte e in quelli delle bambine, per

ritrovare qualcosa di se stessa nell’atto dell’indagare. Donne che negli ultimi anni ha immortalato seguendo una nuova esigenza emotiva, da cui sono nate le Rielaborazioni. Ha cercato la bellezza, la poesia, un certo lirismo femminile in un’azione teatrale, dove il fascino di un corpo nudo si stagliava su uno sfondo di sue vecchie e violente immagini di cronaca. Non sovrapposizioni, ma messe in scena, cortocircuiti veri e propri con quel mondo, per dare una nuova direzione sentimentale alla vita, esorcizzando quella morte e quella violenza.

(da ESSENZA La vita come l’arte. Ritratti di donne in Sicilia, 2014, Dario Flaccovio Editore)

Letizia Battaglia, Gli Invincibili - Pina Bausch, 2014 56 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA



SHOBHA intervista di LAURA FRANCESCA DI TRAPANI

LA BELLEZZA NEL SUO SGUARDO

Ritratto di Shobha, 2014, India. Foto: © Soraya Gullifa

Durante uno dei primi incontri avuti con Shobha, la riflessione che si è immediatamente saldata nella mia mente è stata il riscontrare quanto la vita e l’arte coincidessero. La fotografia è per lei esigenza allo stato puro, “è come un respiro” ed è per questo, aggiungo io, che le sue immagini ti arrivano con una forza dirompente, toccandoti le corde dell’anima in un forte tumulto di emozioni, anche dolorose, ma che ti fanno sentire vivo. Una dimensione meditativa, che corrisponde al suo attraversare questa esistenza con una macchina fotografica in tasca per narrarne la vita, il silenzio, il dolore, tutto quello che per lei rappresenta un miracolo. Shobha, fotografa di origini palermitane, da diversi anni vive in India, respira atmosfere decisamente distanti rispetto a quelle in cui noi occidentali siamo costantemente immersi. L’India arriva in una seconda fase della sua esistenza, facendo seguito a una ricerca – compiuta anche con sofferenza – di ritorno in Sicilia dopo anni vissuti nell’ashram di Osho, per comprendere da dove partiva e in giro in diversi luoghi del globo per conoscere nuove parti di sé. Una vita da romanzo, con un nome Shobha, “donatole” dallo stesso Osho, che indica saggezza, splendore. E chi la conosce è conscio di questa corrispondenza. Shobha emana luce, bellezza d’animo, spiritualità profonda, si muove nel suo ritmo interiore e riesce a coinvolgerti al suo interno. Ritrovi tutto questo nelle sue fotografie e nei suoi lavori video, “spazi di guarigione, di ascolto”, luoghi di narrazione al femminile, di meravigliose donne indiane, di donne nella sofferenza ma con una forza interiore, che Shobha attraversa con profonda empatia. «Il dolore del mondo è un potenziale di trasformazione – mi dice – La felicità è più momentanea, mentre il dolore è qualcosa che ti conduce dentro te. È come un parto, percepisci quella presenza così forte, da poterla trascendere e trasformare in energia pura». Il suo raccontare il dolore ha una bellezza intrinseca di profondo impatto: prima era il dolore delle donne siciliane, come la madre di uno dei ragazzi della scorta ucciso durante un attentato, poi è diventato raccontare le donne asiatiche, le donne sfregiate dall’acido o le Kumari, dee bambine in Nepal private della loro infanzia. Un passaggio di vita obbligatorio, quello di Shobha, da Osho a Palermo negli anni dell’antimafia, scendendo negli inferi più bassi per poi risalire, per raccontare il suo tempo. L’abbiamo raggiunta in India per approfondire alcuni aspetti della sua ricerca, della sua anima. C’È UN PROGETTO CUI SEI PIÙ LEGATA? Legata non è la parola giusta... I progetti sono creature che nascono e finiscono, generando cambiamenti e movimento. Il tempo è ciclico e la fine è un ritorno all’inizio. Il progetto stesso è la mia vita. Sto cercando di raccontare quel mondo che si è perso, l’essenzialità del vivere, dentro il miracolo della vita.

Nella pagina a fianco: Shobha, Women: portare cielo alla terra e poi restituire la luce al cielo. 2013, Goa, India. Progetto: Breathing dust - dee della polvere, foto e installazione video. 58 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

IL RAPPORTO CON TUA MADRE LETIZIA BATTAGLIA E QUANTO LA SUA PRESENZA SIA STATA INCISIVA NELLA TUA SCELTA DI ESSERE FOTOGRAFA. Lei, con la sua fotografia, è arrivata nel momento giusto nella mia vita, avevo vissuto in India per molti anni e poi in America, ero stata lontana dalla famiglia per molto tempo, tornare in Sicilia è stato molto difficile, un ritorno alle mie radici, che dovevo assolutamente conoscere. La fotografia è stata un’altra iniziazione; grazie a mia madre e al suo modo di farla è diventato il mio strumento di ricerca e di lavoro sino a oggi.


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Shobha, Women: portare cielo alla terra e poi restituire la luce al cielo, 2013, India (In treno per Mumbai)

IL TUO RELAZIONARTI CON IL DOLORE, COM’È STATO TRA L’EPOCA DELLE FOTOGRAFIE DI MAFIA E QUELLE DI OGGI IN CUI RACCONTI LE TUE DONNE? La mafia esiste con la mente corrotta dell’essere umano; l’ambizione, il potere e tutto il resto sono lontanissimi dalla mia natura ma non dalla cultura in cui sono nata e cresciuta. Nei primi anni ottanta, quando ho iniziato a fotografare, non conoscevo la mia terra e la fotografia è stata un modo profondo di darle ascolto. Ho fotografato l’anima della Sicilia attraverso storie di donne, di dolore e sconfitta, ma anche di ribellione e bellezza. Il mio percorso fotografico è iniziato con la consapevolezza che per conoscere e raccontare la mia terra, sarei dovuta passare attraverso tanto dolore, ma ero giovane e non avrei mai pensato a quei tempi che l’essere umano potesse essere così crudele e feroce. Dopo le stragi dei giudici Falcone e Borsellino, ho dovuto salvarmi e portami via per un bel po’ di tempo. Quest’anti-cultura fatta di arroganza, distruzione, ambizione e morte, l’ho vista crescere e aumentare in tutto il pianeta, non è facile accettare che c’è un mondo disonesto che rovina questa bellezza. Il percorso dell’essere umano ha frequenze e culture diverse; ci sono i poeti ispirati, i violenti e corrotti, ci sono quelli che non riflettono e vivono senza ideali, ci sono animali e vegetali, stelle e universi... Forse perché ho iniziato questo percorso di ricerca con la fotografia dal dolore, oggi nella mia ricerca di vita fotografica m’ispiro alla grandezza delle piccole cose e alla bellezza dell’essenzialità, poco rumore e molto silenzio, come se la vita volesse rinascere in me nella bellezza: preservare, proteggere e custodire in questi tempi oscuri dell’anima. Cerco di demolire le bugie che mi circondano senza rimpiazzarle con altre, ho bisogno di poco, più sono libera di perdermi in luoghi senza bugie, dove il ritmo della vita inizia dal punto zero dell’essenzialità, più sento l’arte esplodermi dentro. Le donne indiane che racconto in questi ultimi anni, nonostante siano spesso donne che soffrono e vivono condizioni non facili, rappresentano la continuità di una bellezza sempre antica e sempre nuova, mantenuta sempre di più da una minoranza di persone, come un filo d’oro che viene tramandato e preservato da generazioni in generazioni. COSA RAPPRESENTA PER TE OGGI L’ARTE E IL FARLA? L’arte è la creazione stessa, è l’esplosione del Big Bang, la trasformazione che si manifesta, una storia senza fine, ogni cellula sana vuole vivere, creare, espandersi, l’arte mi porta in dimensioni euforiche ma anche silenziose e misteriose, mi assorbe ogni attimo della vita… studio, analizzo, divento un canale e quando vivo l’arte, sono! Con la fotografia, in quel millesimo di secondo di scatto, accade qualcosa, non esiste più separazione, vivo la creazione e quell’immagine fotografica rimane come testimonianza di un tempo rivelatore, che mi sussurra sacralità. L’arte è quello sguardo di bellezza e compassione che glorifica la vita. 60 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

Shobha è nata a Palermo nel 1954. Attualmente vive tra l’India e l’Italia dove porta avanti il progetto Mother India School – progetti itineranti. www.shobha.it www.motherindiaschool.it Eventi in corso: Italia Inside Out. I fotografi italiani a cura di Giovanna Calvenzi Palazzo della Ragione Fotografia Piazza Mercanti 1, Milano 21 marzo - 21 giugno 2015 www.palazzodellaragionefotografia.it Gallerie di riferimento: Metis, Amsterdam www.metis-nl.com

Nella pagina a fianco: Shobha, Women: portare cielo alla terra e poi restituire la luce al cielo: 2013, India, Mumbai 2014, Palermo, Quartiere Borgo Vecchio


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ANTONIO BIASIUCCI intervista di MARCELLA FERRO

LA FOTOGRAFIA CHE SALVA Intervistare Antonio Biasiucci significa non soltanto cercare di capire la direzione presa dalla fotografia contemporanea ma soprattutto, attraverso le parole di chi ha reso questo linguaggio il proprio motivo esistenziale e di lavoro, provare a comprendere cosa ci sia dietro un artista. Quanto siano fondamentali il suo background, la formazione giovanile, le origini e finanche il caso nella scelta di un determinato mezzo espressivo.

Ritratto di Antonio Biasiucci. Foto: Augusto De Luca

Nella pagina a fianco: Antonio Biasiucci, Cranio n. 19 (dettaglio), 2013 62 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

NEL MESE DI APRILE È FINITA L’ESPERIENZA DEL LAB / PER UN LABORATORIO IRREGOLARE, ATTIVITÀ CHE L’HA VISTA IMPEGNATA COME DOCENTE O, MEGLIO, TUTOR DI ALCUNI GIOVANI FOTOGRAFI. EPPURE NEL SUO PERCORSO HA MOSSO I PRIMI PASSI DA SOLO, QUANDO CIOÈ VENTENNE HA INIZIATO A SCATTARE IMMAGINI CHE PERÒ LASCIARONO SUBITO INTUIRE IL FORTE LEGAME CON LE SUE RADICI. VISTA L’ATTUALE SOVRAPPRODUZIONE D’IMMAGINI, RITIENE CHE SIA PIÙ GIUSTO EDUCARE ALLA TECNICA O ALLA RICERCA DI UN PROPRIO LINGUAGGIO, DI UN ALFABETO PERSONALE E RICONOSCIBILE? I primi passi li ho mossi relativamente da solo. Mi spostai dall’entroterra campano a Napoli per l’università e, dopo un primo impatto complesso con la metropoli, posso tranquillamente dire che dalla città sono stato accolto. Sono cresciuto nell’ambito di una vera e propria comunità di artisti che avevano come riferimento Antonio Neiwiller e il suo teatro totale. Il mio maestro è stato proprio lui, con il suo modo di intendere il teatro, che è stato per me fondamentale per capire meglio cosa poteva diventare, essere, la fotografia. Il legame con le radici è stato fondamentale per non perdermi, smarrirmi; erano tanti gli stimoli nuovi, sconosciuti, che in quegli anni hanno formato il mio modo di pensare alla fotografia. Le mie radici, oltre ad essere un’esigenza di tipo esistenziale, erano una misura con la quale confrontare tutto il nuovo. Alla luce di tutto questo offrirmi, oggi, come tutore ad un gruppo di giovani fotografi è il tentativo di restituire quello che mi è stato dato. Non ha senso che sia solo io a salvarmi. Lo faccio con la consapevolezza che è opportuno che anch’io dia un contributo agli altri affinché il linguaggio della fotografia non sia effimero ma che perlomeno parli di un’autenticità. Il senso del Laboratorio mira a scoprire delle urgenze e assimilare metodi che semplificano la realizzazione di qualcosa che si avverte come necessario, importante. Preciso che nel mio laboratorio non s’insegna la tecnica e non si segue un percorso didattico comune. Quest’ultimo è alimentato da un sentire una necessità, la tecnica in qualche modo accompagnerà questa esigenza. CI PARLA DI SALVEZZA. LA FOTOGRAFIA PER LEI QUINDI È STATO UN ATTO DI SOPRAVVIVENZA? È FORSE UN PO’ COME SOSTIENE ROLAND BARTHES CHE LA FOTO AVVIENE, CI ANIMA E NOI LA ANIMIAMO. CONSCI CHE LA FOTO NON SIA PER NIENTE ANIMATA PERÒ HA IL POTERE DI ANIMARCI ED È QUESTO CIÒ DI CUI È CAPACE OGNI AVVENTURA. LA SUA AVVENTURA AVVIENE DURANTE LO SCATTO, PER STRADA O IN CAMERA OSCURA? Sono nato con la fotografia. Era di casa. Era dentro la casa. Mio padre era un fotografo di cerimonie e lo studio contaminava il resto della nostra abitazione senza un limite fisico. Da bambino non amavo la fotografia, non provavo nessun interesse per essa. Non ne conoscevo le potenzialità. Non mi serviva e non avevo nessuna dimestichezza con l’arte. Mi


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bastava il forte interesse per la musica. Suonavo male una chitarra. Iniziai a fotografare in un momento difficile della mia esistenza accorgendomi del suo potere taumaturgico. Le buone foto di mio padre erano il mio background visivo, la mia educazione all’immagine. Infatti, la mia prima necessità non è stata fare delle foto ben fatte, quelle le faceva mio padre. In principio volevo solo osare, cercando necessariamente altro. Mi accorsi di avere ricevuto il dono della fotografia come terapia per riscoprire la vita e darle un senso, preoccupandomi negli anni di custodire il dono senza contaminarlo con nulla che non fosse coerente col mio modo di intendere lei e le cose per me prioritarie. La vita che vivo è nella mia fotografia e non passa attraverso l’obiettivo. Non è importante fotografare qualcosa che ti emoziona, al contrario è meglio vivere profondamente ogni cosa, poi ritroverai quell’emozione nei soggetti che hai scelto di fotografare. La camera oscura è fonte d’ispirazione della maggior parte delle mie installazioni che hanno sempre un riferimento all’essenza della fotografia. Nello stesso tempo è un luogo importante in cui ripenso al lavoro svolto. IN QUASI TUTTE LE SUE ICONOGRAFIE E PENSO A PANI (2009-2011), MOLTI (2009), EX VOTO (2006) E ANDANDO PIÙ A RITROSO VICOLI (1987-1991) E VAPORI (1983-1987) LA SIMBOLOGIA PIÙ PALESE, SOTTOLINEATA DAL BIANCO E NERO, PARE FACCIA RIFERIMENTO AD UNA DIMENSIONE MAGICA PER DIRLA NEL SENSO ANTROPOLOGICO DI ERNESTO DE MARTINO. EPPURE NON SI PUÒ NON INTRAVEDERE ANCHE UNA DOCUMENTAZIONE DI QUELLE CHE SONO OGGI LE URGENZE DELLA MODERNITÀ E QUINDI DELL’UMANITÀ TUTTA. IN CHE DIREZIONE SI MUOVE OGGI IL SUO SGUARDO E DI COSA PARLANO I SUOI LAVORI PIÙ RECENTI? Come ti ho già detto il mio maestro è stato Neiwiller che è difficile descrivere nella sua complessità. Assistendo per anni ai suoi laboratori, ho cercato di applicare i suoi metodi alla fotografia rendendomi così consapevole della grandezza di quest’ultima come strumento senza limiti e della sua capacità di stare in linea con un tuo mondo interiore e la volontà immediata di cancellare il “genere fotografico” e pensare a una “fotografia totale” affinché potesse sempre prevalere una visione, una propria interiorità, un racconto libero. Il luogo è anche l’opera. Mi nutro dei luoghi nei quali vivo (la campagna dove sono nato, la città nella quale abito). Non potrei immaginare la mia fotografia altrove. Il bianco e il nero, il gioco di luci e ombre sono la mia quotidianità. La vita e la morte, le origini e la catastrofe sono le mie ossessioni; indago questi opposti con la fotografia affinché possa scoprirne il mistero. La mia utopia è riscrivere con la fotografia un alfabeto dell’umanità fotografando quei soggetti essenziali agli uomini tutti. Non mi basterà una vita per realizzarlo. Ancora oggi lavoro intorno a questa tematica.

Antonio Biasiucci è nato nel 1961 a Dragoni (CE). Vive e lavora a Napoli. www.antoniobiasiucci.it Eventi in corso: Italia Inside Out. I fotografi italiani a cura di Giovanna Calvenzi Palazzo della Ragione Fotografia Piazza Mercanti 1, Milano 21 marzo - 21 giugno 2015 www.palazzodellaragionefotografia.it Messa a fuoco. Lo sguardo di 4 fotografi per Città della Scienza Antonio Biasiucci, Fabio Donato, Mimmo Jodice e Raffaela Mariniello Padiglione Marie Curie, Città della Scienza, Napoli 4 marzo - 31 maggio 2015 www.cittadellascienza.it Gallerie di riferimento: Magazzino, Roma www.magazzinoartemoderna.com

Antonio Biasiucci, Latte n. 6, 2014 Nella pagina a fianco, dall’alto: Antonio Biasiucci, Pane n. 4 Antonio Biasiucci, Pani 64 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


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SILVIA CAMPORESI intervista di CHIARA SERRI

UNA REALTÀ “ALTRA” Per Silvia Camporesi la fotografia è un modo per raccontare una realtà “altra”, dove la quotidianità lascia il campo alla memoria e al sogno. Fotografia, certo, ma non solo. Prima di tutto un progetto, pensato, trascritto nel quaderno delle idee e sviluppato passo passo. Interventi – digitali o manuali – tesi a modificare il dato reale per farci vedere le cose così come l’artista vorrebbe che fossero. Dalla Venezia deserta esposta a Milano, alle opere della serie Atlas Italiae, presto oggetto di una pubblicazione monografica, fino ad un inedito Almanacco sentimentale.

Ritratto di Silvia Camporesi. Foto: Marco Garofalo 66 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

UNA TUA FOTOGRAFIA È STATA SCELTA COME MANIFESTO DELLA MOSTRA ITALIA INSIDE OUT CHE, IN OCCASIONE DELL’EXPO, PROPONE UN VIAGGIO IN ITALIA ATTRAVERSO LE OPERE DI GRANDI AUTORI ITALIANI ED INTERNAZIONALI… Sono onorata di fare parte, insieme a Ghirri, Basilico, Barbieri, Jodice e tanti altri, del gruppo di autori selezionati da Giovanna Calvenzi. La mostra parla soprattutto di città, quindi mi è stato chiesto di presentare alcune immagini tratte dalla serie dedicata a Venezia. Con questo progetto entro davvero in uno spazio museale, con tanto di magneti e merchandising. LA SERIE S’INTITOLA LA TERZA VENEZIA. QUAL È LA VENEZIA DI CUI PARLI? La terza Venezia nasce dall’unione tra la Venezia reale e la sua riproduzione nell’Italia in miniatura di Rimini. Prima della commissione di Photographica fine art Gallery di Lugano, non avevo mai trattato il tema del paesaggio, o meglio del paesaggio urbano, per quanto il paesaggio veneziano possa definirsi tale. Venezia è una città “pericolosa”, fotografata in lungo e in largo, perlopiù in chiave architettonica o “romantica”, nel peggior senso del termine. Era necessario trovare una nuova strada. Durante il soggiorno mi sono scontrata con i turisti, le gondole, i piccioni ed altri elementi di disturbo. Ho quindi pensato di recuperare a Rimini quanto non era possibile fotografare a Venezia, mescolando le immagini. Viene fuori una città che sta per essere sommersa dall’acqua, deserta, avvolta nella nebbia e nel mistero.

UN PROGETTO CHE TI HA PORTATO A RIFLETTERE SUL TEMA DEL PAESAGGIO? L’esperienza di Venezia è stata molto utile perché mi ha fatto capire di avere una certa predisposizione per il paesaggio. Dopo anni di stage photography, ho trovato interessante lavorare su qualcosa che già esiste, quindi il paesaggio, avvalendomi però della postproduzione per trasformare il luogo reale in luogo ideale. Almeno per me. IN QUESTO MOMENTO STAI LAVORANDO AL LIBRO ATLAS ITALIAE, UN PROGETTO CHE TI HA PORTATO A VIAGGIARE ATTRAVERSO LE REGIONI ITALIANE. A QUANDO LA PUBBLICAZIONE? Spero che il volume possa uscire prima dell’estate. Conterrà centocinquanta fotografie ed un testo di Marinella Paderni che ha presentato la prima parte del progetto a Reggio Emilia per Fotografia Europea 2014, con successive mostre a Bari, Roma e altre città. COME SI È SVILUPPATO IL PROGETTO? CON QUALI PROBLEMI TI SEI DOVUTA CONFRONTARE? Avevo in mente da anni di condurre una capillare ricognizione dei paesi fantasma in Italia. Grazie al sostegno di quindici collezionisti, che hanno creduto sulla carta al progetto, alla fine del 2013 ho iniziato il mio viaggio. Nonostante la ricerca preventiva e una fitta rete di “informatori” sul territorio, mi sono trovata a volte di fronte a luoghi che non corrispondevano alle mie aspettative. Cercavo tracce di vissuto, paesi come Apice, completamente intatto, con la tappezzeria alle pareti e molti arredi. Più visitavo questi luoghi, più provavo


Silvia Camporesi, Curon Venosta, serie Atlas Italiae, 2014-2015, inkjet print in bianco e nero su Archival matt paper, colorata a mano, cm 26x40. Ed. 5 + 1 a.p. Silvia Camporesi, La zona (Stalker), serie Souvenir Universo, 2014, inkjet print su Hahnemuhle photorag paper, cm 75x110. Ed. 3+1 a.p. Courtesy: Galleria Z2o, Roma SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 67


Silvia Camporesi, Romagnano al Monte, dettaglio, serie Atlas Italiae, 2014-2015, inkjet print in bianco e nero su Archival matt paper, colorata a mano, cm 26x40. Edit. 5 + 1 a.p.

Nella pagina a fianco: Silvia Camporesi, Fantasmi (lo squalo), inkjet print, cm 80x120. Courtesy: Photographica fine art Gallery, Lugano Silvia Camporesi, Yerevan, serie Journey to Armenia, 2013, inkjet print su Litho paper, cm 50x75. Ed. 5. Courtesy: Photographica fine art Gallery, Lugano

dipendenza per atmosfere insolite, legate al sogno e all’immaginazione. Un altro problema era dato dalla luce. Non amo il sole, non amo i contrasti, ma all’aria aperta bisogna prendere ciò che si ha a disposizione. Anziché lavorare in Photoshop, ho pensato di ricorrere ad una tecnica antica: ho stampato le fotografie in bianco e nero e le ho colorate a mano, come si faceva quando non esisteva il negativo a colori. Colorare a mano significa poter dosare la luce, togliendo quell’acidità tipica della fotografia digitale. Conosco ogni sfumatura, ogni crepa, ho quasi la sensazione di aver vissuto tra quelle pareti. Un metodo che ha cambiato il mio rapporto con la fotografia e con gli spazi. Non è fotografare e scappare, come si fa normalmente nella velocità dell’atto digitale, ma fotografare, guardare attentamente e vivere. IL VIAGGIO È FONDAMENTALE? Ho visto l’Italia di serie B, l’Italia ai lati di Ghirri, luoghi solitamente oscurati dalle bellezze delle città d’arte. Raggiungere quelle aree significa attraversare zone impervie. Un viaggio diverso, che non è solo partenza e arrivo, ma anche esplorazione. NELLE TUE OPERE IL TEMPO APPARE SOSPESO… La mia cifra stilistica si riduce sempre a sottrarre il tempo presente. C’è la ricerca di una realtà “altra”, di una sospensione. In fondo l’occhio vede tutto, la macchina fotografica può intervenire selezionando.

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LE TUE ULTIME PRODUZIONI PORTANO LA FOTOGRAFIA, PER SUA NATURA RIPRODUCIBILE, ALLA DIMENSIONE DEL PEZZO UNICO… Il digitale ha democratizzato la fotografia, oggi tutti sono fotografi. Flickr è pieno di bellissime immagini di autori sconosciuti. Come districarsi in questo groviglio? Nel mio caso, attraverso l’intervento manuale, che sia la coloritura, oppure la tecnica giapponese dei kirigami. Devo al pop up engineer Massimo Missiroli le nozioni tecniche, alla gallerista Sara Zanin l’idea delle cornici angolari. Mi piace ruotare intorno alla parola foto-grafia in vari modi. La fotografia è un pezzo, mai il tutto. NUOVI PROGETTI IN CANTIERE? Dopo tanti viaggi, sto lavorando ad un progetto più raccolto. Affascinata da storie curiose e misteri irrisolti, come le pietre rotolanti o la costruzione di Coral Castle, vorrei realizzare un Almanacco sentimentale con fotografie trovate su internet ed immagini inedite. MOSTRE IN PROGAMMA? Oltre ad Italia Inside Out e alla partecipazione ad un festival fotografico in Lussemburgo, ad ottobre sarò al Museo di Imola e, a novembre, da Maria Livia Brunelli a Ferrara con un progetto dedicato a De Chirico. CHE COS’È PER TE LA FOTOGRAFIA? Uno strumento per raccontare qualcosa che non avrebbe senso esporre a parole.

Silvia Camporesi è nata nel 1973 a Forlì, dove vive e lavora. www.silviacamporesi.it Eventi in corso: Italia Inside Out. I fotografi italiani a cura di Giovanna Calvenzi Palazzo della Ragione Fotografia Piazza Mercanti 1, Milano 21 marzo - 21 giugno 2015 www.palazzodellaragionefotografia.it Silvia Camporesi. Atlas Italiae A cura di Marinella Paderni Mois Europèen de la Photographie Abbaye de Neumünster, Chapelle Lussemburgo aprile 2015 www.europeanmonthofphotography.org Gallerie di riferimento: Z2O Gallery Sara Zanin, Roma www.z2ogalleria.it Photographica fine art Gallery, Lugano, Svizzera www.photographicafineart.com MLB Maria Livia Brunelli Home Gallery, Ferrara www.marialiviabrunelli.com


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FRANCESCO JODICE intervista di ALESSANDRO TRABUCCO

LA FOTOGRAFIA: UNA LINGUA CONDIVISA DAL FORTE IMPATTO SOCIALE

La ricerca di Francesco Jodice, nell’ambito dell’immagine tecnologica, si è nel tempo evoluta verso nuovi sviluppi ed inediti orizzonti che hanno toccato svariati linguaggi, da quello cinematografico a quello performativo, dalla scrittura alle mappature. Attualmente impegnato in numerosi eventi espositivi in Italia e all’estero, l’abbiamo incontrato per dialogare con lui sul ruolo della fotografia oggi. IL TUO INTERESSE È SEMPRE STATO CARATTERIZZATO DA UNA RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA NEI CONFRONTI DELLE TRASFORMAZIONI APPORTATE DALL’UOMO ALL’AMBIENTE NATURALE ED URBANO. Gran parte del mio lavoro inizia con l’attenzione rivolta all’antropologia urbana, in parte per i miei studi in urbanistica. Questo aspetto è, poi, evoluto progressivamente nell’indagare il sistema di relazioni tra il paesaggio urbano e il paesaggio umano. Questa caratteristica rimane più o meno centrale nel mio lavoro fino al 2001. Poi, dopo l’11 settembre, avviene uno spo70 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

stamento laterale della mia attenzione nei confronti della geopolitica. Inizia ad interessarmi il progressivo smottamento degli equilibri. Una parte dell’indagine si occupa della contrapposizione fra capitalismo e Paesi del Blocco Sovietico e, in un secondo momento, dell’opposizione tra capitalismo, liberismo e i neonascenti fenomeni legati al mondo arabo. Quello che cerco di fare in tutti questi progetti, non solo quelli fotografici ma anche nei filmmaking, nelle installazioni, nelle mappature e anche nella scrittura, è di capire in quale modo i procedimenti e le azioni dell’arte contemporanea possano da un lato restituire un report di quello che sta accadendo, ma di contro diventare anche una specie di azione pervasiva nella società. Usare l’arte come dispositivo di sommovimento culturale. Da un certo momento in poi, ho iniziato a chiedermi se la fotografia sia realmente una sorta di apparato inerte che noi possiamo solamente osservare e subire o se ci siano delle possibilità di trasformarla anch’essa in una sorta di azione performativa. Sono cresciuto in una stagione, quella degli anni Settanta, in cui l’arte era inconcepibile se non come un fenomeno di partecipazione tra l’artista e il pubblico. Da questo punto di vista, ho sempre avuto una certa difficoltà a pensare alla fotografia come ad un oggetto rettangolare da appendere ad una parete e, in qualche modo, muto e sordo a queste forme di partecipazione.

Francesco Jodice, Capri, The Diefenbach Chronicles, #012, 2013 A sinistra: Ritratto di Francesco Jodice. Foto: Sara Gentile


IN QUESTO SENSO CHE RUOLO PENSI SVOLGA LA FOTOGRAFIA OGGI? In questo momento secondo me si è creata una forma di felice frattura, nel senso che una parte della fotografia si è scollata dalla sua tradizione ed è poco interessata ad un rapporto di continuità con essa. Tanto per fare dei nomi, c’è una parte della fotografia che oggi ha molto successo e che vive all’interno della celebrazione di una forma tradizionale dell’immaginario culturale e del senso della fotografia, un autore tra questi per me è Alec Soth, molto celebrato ma per me stantio non solo formalmente ma anche nell’interpretazione del ruolo sociale che la fotografia potrebbe avere oggi. Ci sono altri autori, altrettanto noti e secondo me più interessanti, penso su tutti a Trevor Paglen, che in questo momento stanno rispondendo alle domande sul riposizionamento della fotografia, proprio chiedendosi quale sia il suo ruolo oggi. Dal mio punto di vista, da un lato penso che la fotografia stia vivendo un momento straordinario se la guardiamo dal punto di vista della sua democratizzazione, cioè del fatto che una serie di

fenomeni legati ai social network, all’utilizzo prima delle camere compatte e poi del miglioramento delle performance dei cellulari o dei Pad, hanno fatto sì che la fotografia in questi anni sia tornata ad essere una specie di lingua comune, un sistema di dialogo prescelto dalle persone, così come precedentemente lo sono stati il cinema o i videogiochi. D’altra parte, ci sono poi degli autori fotografi artisti che stanno facendo un lavoro importante sul senso che la fotografia d’arte ha rispetto alla società, e progetti come Limit Telephotography di Trevor Paglen secondo me sono abbastanza indicativi da questo punto di vista. COL PASSARE DEL TEMPO LA TUA RICERCA SI È EVOLUTA VERSO L’IMMAGINE IN MOVIMENTO, HAI SPESSO UTILIZZATO LA CINEMATOGRAFIA E LA TECNICA NARRATIVA. CI PUOI SPIEGARE LE RAGIONI DI QUESTA SCELTA? Ho iniziato ad usare il filmmaking più o meno nel 2003, in un momento in cui la fotografia, a differenza di quanto accade oggi, era in una condizione di depressione. Il cinema e il filmmaking erano diventa-

ti una sorta di lingua universale mentre la fotografia era come un codice dimenticato. Siccome io ho sempre pensato all’arte come ad una mina che deve deflagrare ed andare il più lontano possibile dal sistema, cioè partire da lì ma poi cadere nei territori, nelle strade, nelle case delle persone apparentemente disinteressate da quello che l’arte è e può fare, da quel momento mi sono interessato non al film making o al cinema in sé ma alla sua capacità di diventare una lingua condivisa. Per me l’apparato culturale del cinema era come un processo già avviato e di facile consuetudine per un pubblico più allargato. Quindi ho usato il codice cinematografico ma, come faccio con la fotografia, utilizzandolo da artista. Ci sono progetti, come la trilogia di film Citytellers, che hanno la forma di un film, i contenuti di un documentario e la natura di un’opera d’arte. Ho cercato di lavorare molto sull’ibridazione di questi tre codici. Questa operazione è andata avanti fin quando la fotografia non è ritornata dal 2012 ad essere, invece, al centro delle mie forme di dialogo.

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Dall’alto: Francesco Jodice, What We Want, Death Valley, T54, 2002 Francesco Jodice, What We Want, Mazara, R14, 2000 72 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


Francesco Jodice è nato nel 1967 a Napoli. Vive e lavora a Milano. www.francescojodice.com Eventi in corso: Francesco Jodice. Weird Tales Strane Storie a cura di Alfredo Cramerotti Galleria Michela Rizzo Giudecca 800q - Ex Birrificio Isola della Giudecca, Venezia 6 maggio - 31 luglio 2015 www.galleriamichelarizzo.net Italia Inside Out. I fotografi italiani a cura di Giovanna Calvenzi Palazzo della Ragione Fotografia Piazza Mercanti 1, Milano 21 marzo - 21 giugno 2015 www.palazzodellaragionefotografia.it

HAI DEI PARTICOLARI ARTISTI E FOTOGRAFI CONTEMPORANEI CUI FAI RIFERIMENTO O CHE REPUTI IMPORTANTI NELLO SVILUPPO DELLA RICERCA FOTOGRAFICA? Ci sono degli artisti italiani, a cavallo tra cinematografia, performance, fotografia, che stanno reinterpretando questi linguaggi, alcuni già piuttosto riconosciuti come Marinella Senatore e altri meno conosciuti, che io trovo straordinari come per esempio Alessandro Sambini. Mi interessa anche come ci sia stato un ritorno dell’editoria fotografica. Mentre il sistema dell’editoria tende a dissiparsi, paradossalmente c’è una forma di editoria di fotografia, in particolare di piccole case editrici, spesso dirette e condotte da artisti, che sta avendo molta visibilità. In Italia penso al rapporto tra un artista come Mirko Smerdel e la sua casa editrice Discipula o al lavoro di altri editori come blisterZine. A livello internazionale, io ho sempre avuto un rapporto

di mimesi con il lavoro narrativo e fotografico di alcuni registi, da John Carpenter, Michael Mann, Paul Thomas Anderson a Takashi Miike. Devo dirti, in generale, che ho trovato negli ultimi vent’anni più stimolante la ricerca fatta nel cinema, anche dal punto di vista formale e puramente fotografico, di quanto non sia accaduto nel campo della fotografia. Tranne sporadiche apparizioni, dopo la stagione dei nuovi topografi americani come Lewis Baltz, scomparso di recente e mio importante riferimento, difficilmente ci sono stati dei fenomeni fotografici riferiti a delle onde di autori che mi abbiano coinvolto. Nella stagione degli anni ‘80 trovo che ci siano dei personaggi straordinari come il già citato Lewis Baltz, Larry Sultan, John Divola. Negli anni successivi credo ci sia stato una sorta di rigurgito reazionario, una fotografia un po’ più classica che paradossalmente ha avuto la meglio.

Mountain Passion Noire Gallery, Torino 23 aprile - 30 giugno 2015 www.noiregallery.com Proportio a cura di Daniela Ferretti e Axel Vervoordt Palazzo Fortuny, Venezia 9 maggio - 22 novembre 2015 fortuny.visitmuve.it Gallerie di riferimento: Galerìa Marta Cervera, Madrid www.martacerveragallery.com Galleria Umberto di Marino, Napoli www.galleriaumbertodimarino.com Galleria Michela Rizzo, Venezia www.galleriamichelarizzo.net Podbielski Contemporary, Berlino www.podbielskicontemporary.com

Dall’alto: Francesco Jodice, Dubai Citytellers, film, HD, 57’, 2010, video still Francesco Jodice, What We Want, Sao Paulo, R34, 2006 SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 73


[INTERVALLO]

Jean Dieuzaide, Dali dans l’eau, Port Lligat, 1953 (Salvador Dali), vintage print, cm 30x40. Courtesy: Suite59 Gallery, Amsterdam 74 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


MILANO A TUTTA...

FOTOGRAFIA di FRANCESCA DI GIORGIO

Milano ama la fotografia e viceversa. Il fatto che, ormai da quasi un decennio, sia patria eletta di dibattito e approfondimento sui diversi linguaggi nati attorno alla “grande madre” fotografia è assodato. Parlano chiaro l’interesse di spazi pubblici e privati, forti di una sempre più evidente democratizzazione del mezzo, il riscontro trasversale del pubblico e, con esso, del mercato che coinvolge il collezionismo di vecchia e nuova generazione. Non a caso la prima fiera annuale dedicata alla fotografia d’autore, MIA – Milan Image Art Fair (11-13 aprile 2015), nasce nel capoluogo meneghino nel 2011 con la direzione di Fabio Castelli, dopo altri importanti appuntamenti come Photoshow la principale rassegna in Italia dedicata al mondo dell’Imaging da cui, nel 2007, è nato Photofestival, promosso da AIF - Associazione Italiana Foto & Digital Imaging, quest’anno alla nona edizione – in due fasi dal 20 aprile al 20 giugno e dal 15 settembre al 31 ottobre per coprire tutto l’arco temporale di Expo Milano 2015 (1 maggio - 31 ottobre) – e che mette ancora una volta al centro Milano con un programma di oltre 100 mostre fotografiche d’autore in altrettanti spazi, fra gallerie, musei e spazi espositivi pubblici e privati... Per tutti questi progetti il confronto con l’Expo quest’anno si rende necessario. In occasione del MIA gli spazi di The Mall hanno una sezione dedicata al tema guida di Expo 2015: il cibo. Tra l’altro si riconferma Lavazza come Main Sponsor della quinta edizione. È tempo anche di dibattiti attorno all’era delle immagini e alla loro diffusione sui social, tema che non viene trascurato dal programma culturale di MIA Fair. Abbiamo inviato Gianluigi Ricuperati a rispondere su come l’immagine venga recepita e vissuta nella contemporaneità in occasione del centesimo anniversario della nascita dell’intellettuale francese Roland Barthes. Tra l’altro si trovano interessanti punti di vista anche nelle parole di una selezione di galleristi da noi invitati a rispondere su questi ed altri aspetti interni al linguaggio fotografico. Ma, per quanto si tenda a trattarla come “arte giovane”, e per alcuni aspetti ne mantiene ancora le caratteristiche, non si può ignorare che il mezzo abbia già una sua storia e con artisti storicizzati entrati in archivio. L’approfondimento che abbiamo dedicato su questo numero, con la collaborazione di Archivio Alinari e Archivio Mario Giacomelli, vuole ricordare l’importanza della memoria e della conservazione delle immagini che per la fotografia assume un valore significativo. Una memoria che non dimentica quanto la fotografia abbia conquistato un’autonomia progressiva nello sviluppo delle arti. Pensiamo ad esempio a Pellizza da Volpedo (il suo Quarto stato è uno dei simboli di Expo 2015). Per un artista dell’Ottocento italiano la fotografia è stata prima di tutto strumento per la pittura: un aspetto di cui tiene conto la mostra-focus, all’interno del MIA, nell’ambito dell’edizione speciale del Premio Archivi. “Tempo ritrovato – fotografie da non perdere”. Come abbiamo citato prima, il fermento attorno alla fotografia coinvolgerà la città di Milano nella sua totalità e la mostra Italia Inside Out, a cura di Giovanna Calvenzi, a Palazzo della Ragione Fotografia è di fatto la più grande mostra di fotografia mai dedicata in Italia, suddivisa in due momenti distinti: i fotografi italiani (Inside dal 21 marzo al 21 giugno 2015) e i fotografi del mondo (Out dal 1 luglio al 27 settembre 2015). Nel qualificato bacino di Inside, sono presenti alcuni fotografi che avete già incontrato sfogliando le pagine di questo Speciale Fotografia: Letizia Battaglia e la figlia Shobha, Francesco Jodice, anch’egli figlio d’arte, Antonio Biasiucci e, last but not least, Silvia Camporesi, cui è dedicata la copertina di questo numero. www.miafair.it www.photofestival.it www.palazzodellaragionefotografia.it SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 75


BARTHES “INDISCIPLINATO”. “LA CAMERA CHIARA” AI TEMPI DI FB & CO. Intervista a GIANLUIGI RICUPERATI di LUISA CASTELLINI

È il testo più citato (e letto!) dagli amanti della fotografia. A cent’anni dalla nascita del suo autore, Roland Barthes, MIA Fair presenta tre serate a cura di Gianluigi Ricuperati per ripensare “La Camera Chiara” tra le parole e le immagini di ieri e di oggi. Punctum e Studium, quindi, ma anche Instagram e Selfie per ricordarci che la Fotografia di “disciplinato” non avrà mai nulla. CHE COSA RESTA DELLA LEZIONE DI BARTHES NELLA PRATICA ARTISTICA ODIERNA? La maggior parte dei concetti de La Camera Chiara sono attuali ancora oggi, nell’epoca in cui le istituzioni della fotografia (penso alle fiere, ma anche a nuove esperienze come “Camera” a Torino) non possono fare a meno di considerare che Instagram è per trecento milioni di individui “la fotografia”. Non solo “punctum” e“studium”: pensiamo per esempio all’idea di “effetti di realtà”. La fotografia tende a non farsi più esatto specchio della realtà, se non fosse per alcuni dettagli che ci riportano al “reale”. SU QUALI NODI DELLA FOTOGRAFIA SI SOFFERMEREBBE OGGI BARTHES? E COME RISPONDEREBBE ALLA PROLIFERAZIONE DI SELFIE? Mi piace pensare che tornerebbe ad approfondire il fenomeno contemporaneo del fotografare per ritenere memoria ed esprimere vanità: essere aggressivi e passivi, mercanti nel tempio dell’insicurezza altrui. Questo succede nelle foto delle celebrities, come Giammetti, su Instagram – ma anche nelle vite di tutti noi – ed è un limite che dobbiamo superare se vogliamo conservare quella carica di utopia che fa parte dell’eredità barthesiana. Oggi la fotografia si fa appunto quotidiano, presenza estesa del corpo-mente condiviso. È memoria immediata e ribattuta, ovviamente “idiota”, nel senso privata e stupida insieme, ma anche interessante. E sicuramente i selfie affascinerebbero Barthes in modo radicale. DIGITALE E POSTPRODUZIONE NON HANNO, PER ALCUNI VERSI, ANCORA INTACCATO IL NOEMA DELLA FOTOGRAFIA RICAMATO DA BARTHES NEL SUO “È STATO”, E IL FRUITORE MANTIENE UNA CERTA INNOCENZA VISIVA. QUALI ASPETTI RILEVATI DA BARTHES SI SONO PALESATI IN TUTTA LA LORO FORZA? La teoria di Barthes è ancora attuale, e la si ritrova potente nell’attenzione al punctum dell’immagine fotografica. La fotografia si fa urgenza e poesia. Il reale non ci interessa più, interessa soltanto ai fotoreporter di guerra, che vivono in una dimensione di delirio e paura che ha più a che fare con l’immaginario di Hunter Thompson che con la poetica del “testimone”. Tutti cerchiamo in un’immagine il contatto umano con chi l’ha presa – è una stagione nuova. E non dimentichiamo il senso di morte che emerge dalla maggior parte delle immagini sui social: sono graffiti già pronti per l’archeologia, monumenti teneri della mancanza di consapevolezza, corpi degradati e pose ridicole che però producono una strana forma di poesia. È certamente un modo molto meno colto di praticare la fotografia, rispetto a quello di Barthes, che per ragioni storiche e anagrafiche ne ha solo visto l’inizio. COME SI RICONFIGURANO LA NOSTALGIA E L’ANACRONISMO DELLE IMMAGINI? L’espansione sociale della fotografia è sempre stata legata al turismo e al lutto. Vacanze e cimiteri sono campi di battaglia per pensare alla fotografia e i social network, con le loro pose sgraziate e talvolta magnifiche, nelle quali l’ordine economico insieme si nega e si 76 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

Dall’alto: Ritratto di Gianluigi Ricuperati Roland Barthes, La chambre claire


conferma con ancora maggior potenza, sono colmi di voci rappresentate nella loro presenza fisica, che sembrano gridare, barthesianamente: siamo stati qui, ci siamo stati! COME SI ARTICOLANO GLI INCONTRI PROPOSTI AL MIA? Sono felice di rileggere Barthes con figure contemporanee, che sono alcuni fra i nipotini, e che oggi, se fosse ancora vivo, lo guarderebbero come un eroe da intervistare e venerare. “Le grain de la voix. Pensare a Roland Barthes nel XXI secolo” vede il critico e curatore Hans-Ulrich Obrist leggere alcuni passi da La camera chiara e Miti d’oggi insieme a Alice Rawsthorn, firma dell’International New York Times e uno degli amministratori della galleria Whitechapel di Londra. La serata “Nadar Radar Proust. Le intermittenze del cuore” è dedicata al rapporto tra Barthes e Proust con lo studioso Giuseppe Girimonti Greco e le proiezioni curate da Lucia Orsi. Il terzo evento sarà un atto rivoluzionario: con Marco Cendron di Galerie Pomo, Guido Costa e Giovanna Silva riattualizzeremo l’apparato iconografico del libro con fotografie di oggi. RIPRENDENDO UNO DEI TEMI DEGLI INCONTRI, A QUALI “EXEMPLA” POTREBBE RICORRERE BARTHES OGGI? Si soffermerebbe su quei piccoli dettagli che ci fanno credere di coincidere con noi stessi. Le pose o quel senso carnevalesco del cucirsi una maschera, un po’ come nell’episodio proustiano del mancato riconoscimento della nonna ritratta in una posa lontana dalla sua essenza. Vorrei pensare che riprenderebbe le riflessioni di Douglas Coupland sui selfie tridimensionali. E nella mia veste di autore letterario, direttore di scuola, curatore ossessionato dal dialogo tra discipline, non posso non credere fino in fondo che Barthes abbatterebbe tutte le pareti che confinano la fotografia in un “discorso” disciplinato, consolatorio. La fotografia è quella cosa che inizia quando è uscito dalla stanza chi pensa solo alla fotografia.

Ritratto di Hans-Ulrich Obrist. Foto: © Kalpesh Lathigra

Ritratto di Roland Barthes. Foto: © Ferdinando Scianna SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 77


FOTOGRAFIA: IL DIRITTO DI IMMAGINE E LA SUA TUTELA Intervista a AVV. CRISTINA MANASSE, avvocato specializzato in diritto dell’arte e diritto d’autore e Legal Advisor MIA Fair di LIVIA SAVORELLI

In uno speciale dedicato alla fotografia, riteniamo sia fondamentale considerare gli aspetti più tecnici legati alla tutela del diritto d’autore connesso all’immagine fotografica. Aspetti di primaria importanza, da considerare ed approfondire in un’epoca in cui la circolazione delle immagini avviene, molto spesso, tramite la rete e i social network. Mentre fervono i preparativi per MIA Fair, abbiamo così raggiunto Cristina Manasse, avvocato specializzato in diritto dell’arte e diritto d’autore e Legal Advisor MIA Fair. Oltre a tutti gli aspetti giuridici legati alla creazione ed organizzazione del progetto MIA e dell’evento fiera, l’Avv. Manasse si occupa del Legal Workshop, che per l’edizione 2015 la vede dialogare con Joe Baio, collezionista di fotografia e avvocato di New York, «che ha vittoriosamente difeso il fotografo Daniel Morel nella complicata vicenda che lo ha visto contrapposto a AFP e Getty Images per indebita appropriazione delle fotografie “postate” su Twitter». Il corpus integrale del suo approfondito intervento è pubblicato a puntate su espoarte.net.

LA FOTOGRAFIA, IN QUANTO OPERA DELL’INGEGNO, GODE DELLA TUTELA DEL DIRITTO D’AUTORE. CONCENTRANDOCI SULLA FOTOGRAFIA D’ARTE, PUÒ RIASSUMERE IN COSA CONSISTE QUESTA TUTELA E NEI CONFRONTI DI CHI PUÒ ESSERE FATTA VALERE? Le opere fotografiche, che si distinguono dalle riproduzioni fotografiche e semplici fotografie in quanto contengono un apprezzabile apporto creativo, sono protette dal diritto d’autore che riconosce al creatore dell’opera un insieme di diritti e facoltà, sia di natura morale sia economica. Il diritto morale, insieme di diritti a difesa della personalità dell’autore, si compone del diritto alla paternità dell’opera (e consiste nel diritto a vedersi riconosciuto come 78 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

autore) e del diritto all’integrità dell’opera (diritto di opporsi a qualsiasi deformazione, modificazione o mutilazione dell’opera o altro danno che pregiudichi l’onore o la reputazione dell’autore), del diritto al ritiro dell’opera (qualora concorrano gravi ragioni morali, l’autore può ritirare l’opera dal commercio), ed infine del diritto di pubblicare opere inedite. Il diritto alla paternità dell’opera permette all’autore di identificarsi (decidere se identificarsi con il suo nome, mantenere anonimato, usare uno pseudonimo), di rivendicare la paternità nei confronti di chiunque si qualifichi come autore dell’opera. Ciò vale anche nel caso in cui l’autore abbia realizzato un’opera su commissione. L’autore ha altresì i diritti di utilizzazione economica dell’opera in ogni forma e modo, secondo quanto previsto dalla legge sul diritto d’autore. Quest’ultima prevede tra l’altro il diritto di (prima) pubblicazione, il diritto di riproduzione, di esposizione al pubblico, di elaborazione e modificazione, di distribuzione, di prestito e noleggio. I diritti di utilizzazione economica dell’opera fotografica si estinguono dopo settanta anni dalla morte dell’autore (a decorrere dal primo gennaio successivo alla morte dello stesso). Tali diritti possono essere acquisiti, alienati o trasmessi nelle forme e modi consentiti dalla legge (donazione, licenza, cessione, etc); è importante sottolineare che la trasmissione di tali diritti deve essere provata per iscritto. In assenza di atto scritto, non sarà infatti possibile provare il trasferimento dei diritti patrimoniali di un’opera. In assenza di trasferimento, l’acquirente di un’opera acquista dall’autore solo la proprietà dell’opera ma non il complesso dei diritti di utilizzazione economica. L’atto scritto è dunque rilevante, ad esempio, quando in occasione di una vendita di un’opera fotografica, l’acquirente desideri inserire in una pubblicazione una ripro-

duzione fotografica dell’opera acquistata. O ad esempio, in occasione di una esposizione di un’opera fotografica, il prestito della stessa ai fini dell’esposizione non comporta, in assenza di uno specifico accordo, anche la trasmissione del diritto di utilizzazione dell’immagine per i prodotti di merchandising o editoriali del museo o dell’organismo che ospita l’esposizione. Da ciò si evince l’importanza di disciplinare, per iscritto, l’eventuale trasmissione di diritti di natura economica correlati all’opera fotografica, identificando specificatamente i diritti che si intendono trasmettere/licenziare e le varie modalità di utilizzo. Diritti che sono indipendenti l’uno dall’altro, nel senso che la trasmissione di uno non comporta la trasmissione di quelli non espressamente contemplati nell’accordo e che non siano necessariamente dipendenti dal diritto trasferito. Il diritto d’autore contempla un’eccezione a quanto sopra prevedendo che, qualora vi sia la cessione di un mezzo usato per riprodurre l’opera (il negativo, la diapositiva, il file elettronico, etc) la cessione comprenda, salvo patto contrario, la facoltà di riprodurre l’opera, sempreché tale facoltà spetti al cedente. Da ultimo, è importante evidenziare che seppur in presenza di una cessione dei diritti di utilizzazione economica, o di alcuni di essi, l’autore conserva sempre i diritti morali sopra indicati. In breve ciò significa che l’autore, anche dopo la cessione dell’opera e dei diritti patrimoniali sulla stessa, può rivendicarne la paternità ed opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione, modificazione che possa arrecare pregiudizio al suo onore e alla sua reputazione. La violazione dei diritti d’autore, come sopra identificati, può essere perpetrata da una controparte contrattuale (acquirente dell’opera, la galleria che la espone, il museo che ha organizzato la mostra, l’editore


Cristina Manasse con Mauro Fiorese e W.M. Hunt. Foto: Michele Tarantini

che ha ottenuto la licenza per la pubblicazione delle immagini su un catalogo, etc.) oppure da terzi i quali non hanno alcun vincolo contrattuale con l’autore (ad esempio, qualora un’opera venga divulgata da terzi senza la corretta indicazione di paternità dell’autore o si tratti di divulgazione di un’opera deformata). Quanto sopra per quanto riguarda gli aspetti sostanziali della tutela del diritto d’autore, brevemente si ricorda ora che il titolare del diritto leso può agire in giudizio per richiedere l’accertamento dei propri diritti patrimoniali e/o morali, la distruzione o rimozione dello stato di fatto da cui risulta la violazione e/o il risarcimento del danno. Il giudice, nelle ipotesi di violazione del diritto patrimoniale e/o morale, può quindi adottare provvedimenti di rimozione dello stato di fatto lesivo dei diritti, o imporre la distruzione del prodotto della violazione, ed in ogni caso liquidare un risarcimento. Anche per le opere fotografiche trovano peraltro applicazione i procedimenti speciali, quali il sequestro giudiziario. Nelle ipotesi di violazione del diritto alla paternità dell’opera, si applica la sanzione della distruzione solo quando la violazione non possa essere riparata mediante aggiunte o soppressioni sull’opera delle indicazioni che si riferiscono

alla paternità o con altri mezzi di pubblicità. Per completezza ricordo che la legge sul diritto d’autore disciplina anche gli aspetti penali individuando fattispecie di reato derivanti dalla violazione dei diritti d’autore (dalla messa in commercio di opera fotografica altrui, alla condotta di colui che riproduce un’opera in un numero maggiore rispetto a quello al quale aveva diritto, o alla commissione dei reati con la violazione dei diritti morali dell’autore, etc.). Da ultimo vorrei evidenziare che anche il Codice dei Beni Culturali si occupa delle fotografie quali “beni culturali” (se caratterizzate da alcuni requisiti quali la rarità o il pregio storico o artistico, e trattasi di opere fotografiche di autori non viventi o la cui realizzazione risalga ad oltre cinquant’anni) o come categoria speciale oggetto di specifiche disposizioni di tutela (fotografie la cui produzione risalga ad oltre 25 anni); entrambe le categorie sono soggette ad una particolare disciplina e tutela. LA LEGISLAZIONE INTERVIENE IN MANIERA DIVERSA NELL’AMBITO DELLA FOTOGRAFIA ANALOGICA RISPETTO ALLA FOTOGRAFIA DIGITALE? QUALI LE DIFFERENZE? Innanzitutto voglio ricordare che ai sensi del diritto d’autore, le opere fotografiche sono

protette quali opere dell’ingegno “qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”, e quindi anche quelle digitali. L’evoluzione tecnologica che ha rivoluzionato anche il mondo della fotografia – permettendo di poter fissare immagini su formato digitale, di scaricare e caricare immagini senza limiti e confini geografici, di creare opere prima inconcepibili, di digitalizzare immagini, di isolarne singole parti, e soprattutto di rendere possibile la riproduzione di un numero illimitato di copie identiche all’originale – impone al diritto di muoversi con rapidità e di tener conto in particolar modo del diritto morale dell’autore. Da un concetto di beni tangibili si è passati al concetto di “accesso” al file digitale, sino a giungere alla smaterializzazione del supporto tradizionale. ll mondo digitale ha innovato concetti e posto nuove sfide, imponendo agli interpreti sforzi interpretativi delle norme del diritto d’autore e al legislatore aggiornamenti, anche tramite il riferimento a norme e principi internazionali, mutuandone alcune definizioni. In questo senso, ad esempio, il concetto di “accesso” era presente nel Trattato sul copyright della Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (W.I.P.O.) ma non nelle legislazioni dei singoli paesi. Per quanto SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 79


concerne la protezione delle opere digitali, nel 2003 il legislatore italiano ha recepito la direttiva CE 2001/29, volta ad armonizzare alcuni aspetti del diritto d’autore e diritti connessi nella società dell’informazione e che prevede l’adozione di adeguate protezioni giuridiche contro le elusioni di misure tecnologiche applicate alla protezione del diritto d’autore. A seguito del recepimento della direttiva, la legge sul diritto d’autore conferisce ai titolari di diritti d’autore il potere di apporre sulle opere misure tecnologiche di protezione (tecnologie, dispositivi o componenti), tramite ad esempio l’applicazione di un dispositivo di accesso o di un procedimento di protezione (ad esempio la cifratura), o limitazione tramite un meccanismo di controllo delle copie realizzate. Tutto ciò, al fine di impedire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti, proteggendo l’accesso e impedendo copie non autorizzate. Il diritto d’autore permette inoltre agli autori l’inserimento di informazioni elettroniche sul regime dei diritti sulle opere, identificando l’opera, l’autore o altri titolari dei diritti, inserendo indicazioni circa i termini e condizioni d’uso (ad esempio, tramite contrassegni). Le misure tecnologiche di protezione sono quindi viste dal legislatore come un valido sistema di protezione per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale in una società tecnologica che, nella sua continua evoluzione, fornisce essa stessa agli utenti i mezzi per eludere i principi di tutela, ad esempio per riprodurre copie non autorizzate, per sca-

ricare immagini dalla rete quasi fossero di dominio pubblico anche se tali non sono. In generale dunque, alla protezione tipicamente garantita dal diritto d’autore per la quale lo sfruttamento dell’opera è subordinato all’autorizzazione del titolare dei relativi diritti, si è aggiunta la tutela tecnologica e la protezione legale delle misure tecnologiche, dato che le norme prevedono sanzioni a carico di chi elude tale protezione. IN UN’EPOCA COME QUELLA ATTUALE, IN CUI L’IMMAGINE CIRCOLA LIBERAMENTE ATTRAVERSO IL WEB E I SOCIAL NETWORK, COME SI PONE LA LEGGE TRA LIBERTÀ DI DIFFUSIONE DELLE IMMAGINI E NECESSARIA TUTELA DEL DIRITTO D’AUTORE? Contrariamente a quanto molti fruitori di internet pensano, la libera circolazione delle immagini su internet non sancisce la fine del diritto d’autore, come evidenziato anche poc’anzi in merito ai files digitali ed alle misure di protezione previste dalla normativa europea recepita dai diversi ordinamenti. Inoltre, come ribadito da alcune pronunce giurisprudenziali, “la gratuità dell’accesso alle immagini non snatura in alcun modo la tutela dell’opera pubblicata in rete”. Se è quindi vero che le immagini in formato digitale possono essere facilmente riproducibili, distorte e diffuse, non per questo sono sprovviste di tutela da parte del diritto d’autore. Un primo principio fondamentale di protezione previsto dalla legge riguarda le condizioni necessarie affinché l’autore di una

semplice fotografia possa accedere alle tutele, disponendo che gli esemplari delle fotografie devono sempre riportare alcuni dati, ossia il nome dell’autore (o del committente), la data di produzione, nome dell’autore dell’opera d’arte eventualmente ritratta. Il fotografo che indica quanto previsto dalle norme in materia, ha diritto ad un compenso per ogni riproduzione delle proprie immagini e potrà agire nei confronti dell’autore di riproduzioni non autorizzate. Le semplici fotografie rappresentano la maggior parte delle immagini che circolano su internet, e laddove gli esemplari non riportino tali indicazioni, la loro riproduzione non è considerata abusiva e non sono dovuti i compensi, a meno che l’autore non provi la malafede del riproduttore. Da un punto di vista tecnico, per la tutela delle immagini digitali pubblicate su internet, si può operare sul codice HTML, o utilizzare la crittografia. Ed ancora, per la difficoltà di reperire una difesa in grado di contrastare le violazioni del diritto d’autore alle quali sono esposte le opere fotografiche on line, è stato adottato il metodo di riproduzione di immagini a bassa risoluzione. Un altro strumento di tutela è il digital watermarking, la filigrana impressa sull’immagine, il c.d. marchio digitale, che può essere visibile (visivamente percettibile) o invisibile; con quest’ultimo, detto anche fingerprinting, si agisce sui pixel dell’immagine inserendo alcuni dati. Nel contempo, al fine di tutelare il principio della libera pubblicazione, il legislatore ha introdotto nel 2008 la possibilità di pubblicare liberamente attraverso la rete internet, immagini a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. La libertà di pubblicazione è quindi, in certa forma, garantita laddove la pubblicazione avvenga in forma gratuita, con determinate modalità e per taluni scopi. I limiti sono quindi la prova della necessità di contemperare diverse esigenze, la libertà di diffusione delle immagini da una parte e dell’altra il diritto d’autore. © Avv. Cristina Manasse 2015

Cristina Manasse con Daniel Miller. Foto: Michele Tarantini 80 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


MIA – Milano Image Art Fair LA FOTOGRAFIA E IL MERCATO: PAROLA AI GALLERISTI a cura di FRANCESCA DI GIORGIO

Il successo e la diffusione del termine “immagine” rispetto a “foto” è sotto gli occhi di tutti. Non a caso la prima fiera italiana, nata nel 2011, e dedicata alla fotografia ha Image nel suo nome. Si chiama MIA Milano Image Art Fair e siamo partiti da qui per il nostro dibattito con una selezione di galleristi che conoscono, amano la fotografia e, in alcuni casi, la trattano in maniera esclusiva. Tra la crisi del fotografo come “mestiere” e la richiesta del collezionista di produzioni fine art... Quale il ruolo della galleria? Tra milioni di fotografie che viaggiano su Facebook e sugli altri social, come distinguerle? Cosa rende le immagini diverse tra loro e, soprattutto, come possiamo stabilirne il valore? Qual è il ruolo della fotografia nel mercato? Come resistere all’attuale crisi e grazie a quali caratteristiche? Chi hanno scelto di portare al MIA 2015? E, poi, qualcosa di più “personale”: qual è stata la prima fotografia ad entrare nella loro “collezione”?

fronte un fotografo, magari molto bravo ma non un artista; se sta parlando delle sue opere avremo di fronte uno pseudo artista; se sta parlando del tempo è un artista. Come diceva Ansel Adams: «La fotografia è come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene». Recentemente una fotografia è stata venduta alla cifra record di 6,5 milioni di dollari. Il soggetto era una veduta dell’Antelope Canyon in Arizona, uno dei soggetti più fotografati al mondo. Cosa aveva questa immagine, di così particolare, da raggiungere quel valore? Probabilmente nien-

te. Però se si approfondisce, scopriamo che la foto è stata venduta in una galleria di proprietà dello stesso fotografo, il quale possiede gallerie che espongono le sue opere nelle località più esclusive degli Stati Uniti. Chi ci dice che il prezzo sia reale e non un’operazione di marketing? Questa vendita non si può paragonare a quelle di veri artisti che hanno comunque raggiunto cifre a sei zeri ma attraverso passaggi in aste importanti e sono rappresentati da altrettanto importanti gallerie. In questo la fotografia non si differenzia molto dalle altre forme d’arte. Ha valore se esiste

IL PUNTO DI VISTA DELLE GALLERIE ITALIANE... ANNAMARIA SCHIAVON PH NEUTRO FOTOGRAFIA FINE ART, PIETRASANTA (LU) www.ph-neutro.com La distinzione tra fotografo e artista che opera attraverso la fotografia è la prima cosa che deve avere in mente il gallerista. Non necessariamente un grande artista dev’essere un grande esperto di tecnica fotografica. Nella mia esperienza di gallerista ho imparato a distinguere il bravo fotografo dal bravo artista-fotografo e quest’ultimo dallo pseudo artista. Se dopo cinque minuti di conversazione il mio interlocutore sta ancora parlando dell’ultimo obiettivo che ha acquistato avremo di

Kamil Vojnar, Baloons. Courtesy: PH NEUTRO Fotografia Fine Art SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 81


un sistema di critici, collezionisti e galleristi disposti a darle un valore economico. Oggi più che mai è il momento di investire in questa forma d’arte. Si possono ancora acquistare opere di grandi maestri a cifre per le quali in pittura si acquisterebbe la tela di uno semi-sconosciuto e dal futuro incerto. La prima fotografia ad entrare in galleria: Horseback, di Colleen Plumb Chi vediamo a MIA 2015: Kamil Vojnar nasce in Moravia, Repubblica Ceca, nel 1962 in piena Guerra Fredda. Studia presso la Scuola di Arti Grafiche di Praga. Dopo il completamento del servizio militare si trasferisce negli Stati Uniti, dove completa la sua formazione artistica presso l’Art Istitute di Philadelphia e l’Art Students League di New York. Per un periodo di circa dieci anni lavora presso uno studio di immagine e design, dove crea numerose copertine di libri e CD per importanti autori americani ed internazionali. La sua passione è, però, da sempre, quella di affermarsi come artista grazie al suo lavoro personale. Attualmente vive e lavora a St. Remy de Provence nel sud della Francia. SABRINA RAFFAGHELLO SABRINA RAFFAGHELLO ARTE CONTEMPORANEA, MILANO www.sabrinaraffaghello.com Il ruolo della galleria è un ruolo complesso, che unisce a una valenza culturale nella ricerca artistica quello di sele-

zione, promozione e valorizzazione del mercato. È un punto di unione tra la ricerca del collezionista e l’ideazione dell’artista che si fa garante dei processi di qualità, archiviazione, selezione, acquisizione e riconoscimento del mercato. Oggi viviamo in un mondo dove le immagini sono diventate uno strumento riconosciuto ed universalmente adoperato per comunicare, ma questa facilità di uso delle immagini e i progressi delle tecnologie non va confusa con la ricerca artistica. Un conto sono le immagini che circolano in rete o attraverso i nostri smartphone, un conto è il lavoro di ricerca degli artisti. Mi viene in mente una citazione di un pensiero di Franco Fontana che personalmente ritengo possa ben spiegare il fenomeno: «Una bella foto è come una bella parola su una pagina bianca, l’artista è quello che riesce a scrivere tante storie utilizzando l’intero vocabolario». La fotografia non è passata indenne attraverso la crisi, ma gode di un canale preferenziale, finalmente anche in Italia si può iniziare a parlare con cognizione di causa di mercato della fotografia, negli Stati Uniti, Germania e Francia questo esiste da decenni. Questo canale oltre ad essere quello di una raggiunta popolarità si compone di diversi aspetti, facilità e universalità del linguaggio, aumento degli operatori che si fanno promotori e garanti dell’autenticità, raggiungimento di un apprezzamento anche del mercato all’inter-

no del sistema dell’arte contemporanea e aumento degli autori e dei riconoscimenti istituzionali. Mi spiego meglio, la fotografia è un medium e sempre più artisti ne fanno uso decretandone il successo, ha varcato il confine della camera oscura diventando uno strumento essenziale e versatile per la produzione artistica. Ulteriore fattore è il range di valori che parte da basi sicuramente inferiori rispetto alla pittura o alla scultura garantendo in questo modo la possibilità ai giovani collezionisti di iniziare a costruire il loro percorso di collezione. La prima fotografia ad entrare in galleria: Furono due, una di Roni Horn, Pussy e una di Barbara La Ragione della serie Apparenze, nel 2003, l’anno della mia apertura. Chi vediamo a MIA 2015: Un progetto curatoriale Hungry che racconta attraverso le fotografie di Franco Fontana, Luciano Romano, Patrizia della Porta e Occhiomagico il bisogno primario di ricerca di bellezza, conoscenza, equilibrio e consapevolezza sempre più necessario ed attuale, perché non sempre le immagini, nell’era dell’immagine, colmano un vuoto lasciato a favore dello stupire attraverso il trash e il disequilibrio. C’è bisogno anche di ordine per affermare un ruolo che la fotografia ha nei confronti del mondo dell’arte e della cultura e la crisi si supera prima di tutto con i contenuti poi con il mercato.

Luciano Romano, serie Soglie Barcellona, 2014, cprint on diasec, cm 160x122, ed. 2/6. Courtesy: Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea 82 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


Aqua Aura, Learning to fly, 2014, stampa ai pigmenti su carta cotone, ed. 5 esemplari. Courtesy: Riccardo Costantini Contemporary

RICCARDO COSTANTINI RICCARDO COSTANTINI CONTEMPORARY, TORINO www.rccontemporary.com Ho sempre pensato alla fotografia come ad uno dei tanti mezzi espressivi per fare arte, niente di più e niente di meno. La storia del mercato italiano della fotografia è relativamente recente, soprattutto se paragoniamo la situazione ad altri Paesi decisamente più evoluti in questo senso, e il mondo della fotografia ha cercato meccanismi di sopravvivenza ed autodifesa che, alla lunga, hanno amplificato l’effetto “ghetto” intorno a questo mezzo espressivo. L’indiscutibile crisi del “mestiere” del fotografo ha scatenato una overdose di offerta nel cosiddetto mercato fine art. Credo che il mio compito sia quello di selezionare con attenzione il lavoro fra tutti quelli che mi vengono proposti da chi si sente artista, con cognizione di causa, e non semplicemente fotografo. Non credo, invece, sia mio compito stabilire ciò che vale da ciò che non vale. Nella contemporaneità siamo abituati a dare una grande importanza alla cronaca ed al suo giudizio mentre è solo la storia che, con tempi più lunghi, stabilisce il valore

delle cose. Di norma la fotografia, a parte rare eccezioni, permette di acquistare e collezionare a costi relativamente più bassi di altri mezzi espressivi. Inoltre, pur ricoprendo percentualmente non più del 10 % dell’intero volume d’affari del mercato dell’arte, l’interesse mediatico è altissimo; credo che ciò sia comprensibile: una pittura, per esempio, per essere pubblicata deve essere fotografata mentre la fotografia è diretta. Se poi stia resistendo o meno all’attuale crisi, non penso che vi siano peculiarità che la distinguano da altri mezzi espressivi. La prima fotografia ad entrare in galleria: Molti anni fa, quando lavoravo a Milano per la galleria di famiglia, la prima fotografia fu di Maurizio Galimberti. All’epoca era un artista bravo e creativo. Chi vediamo a MIA 2015: Tre progetti solo show, Julia Krahn, Aqua Aura e Piero Mollica ed un progetto di bi-personale, Roberto Caielli e Luigi Tazzari. ITALO BERGANTINI ROMBERG PHOTO, LATINA www.romberg.it Il ruolo della galleria rimane quello di un tempo, se pur con procedure di comuni-

cazione diverse e rinnovate. Continuiamo a selezionare le migliori proposte, in termini di coerenza e profondità della ricerca, e affidare loro un ruolo centrale nella condivisione e nella formazione di vecchi e nuovi collezionisti che diventano sempre più curiosi e informati, rendendo il nostro lavoro ancora più complesso e bello. Il parametro principale per muoversi in un mondo fluttuante di immagini come il nostro è l’onestà. Se un artista propone un lavoro onesto in linea con la sua vita, i suoi ideali, questo avrà un’aura diversa da qualsiasi altro lavoro fatto in velocità per cercare di ottenere qualche consenso o, peggio, qualche click. In galleria non si viene a mettere un “like”, si viene a condividere con la “C” maiuscola il percorso dell’artista che ha dedicato la sua esistenza all’arte e alla fotografia nello specifico e ne porta negli occhi e sulla pelle tutti i segni e le fatiche. Comprare una foto è condividere un percorso intero. La fotografia non ha un ruolo primario nel mercato secondario dell’arte, nelle grandi aste i veri numeri li fanno pittura e scultura, ma è solo una questione di tempo, la fotografia ha meno di 200 anni mentre la pittura risale alla preistoria. Sono convinto che comprare fotografia SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 83


Carlo D’Orta, Lione #11 (altravista 3), 2014, stampa Flatbed UV su Plexiglas e alluminio, cm 150x224, edizione di 3, © Carlo D’Orta. Courtesy: ROMBERG Photo

oggi – e avere il supporto di una buona galleria per imparare a capirla e conservarla al meglio – sia un ottimo investimento a medio-lungo termine. Resistere alla crisi poi è una questione di circostanze, quando una barca affonda non si salvano i più forti ma i più fortunati. Certo una buona strategia e una buona visione di insieme può aiutare a fare le giuste scelte ma non sveleremo di certo i segreti che ci tengono in prima linea da trent’anni! La prima fotografia ad entrare in galleria: Un’immagine di Luca Piovaccari, la ricordo ancora come se fosse ieri, un piccolo gioiello denso di atmosfera, provare a descriverla sarebbe un delitto. Chi vediamo a MIA 2015: Due solo show di Carlo D’Orta ed Eros De Finis, un group show, legato alle tematiche dell’Expo, con Marco Onofri, Gabriele Rossi e Jacek Ludwig Scarso. RICCARDO REDAELLI RBFINE ART, MILANO www.rbfineart.it La parola “Immagine” ha un senso lato, racchiude in sé una vasta quantità di sot84 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

to-categorie, tra queste vi è anche la fotografia, ma quest’ultima è caratterizzata da peculiarità estetiche e tecniche proprie: è un linguaggio autonomo. Il ruolo della galleria è quello di intercettare le nuove tendenze artistiche in ambito fotografico per valorizzare i progetti di ricerca e spingere il lavoro del fotografo come artista. La pratica di pubblicare le proprie foto su social network corrisponde, sotto alcuni punti di vista, alla vecchia usanza di raccogliere fotografie in album di famiglia o di viaggio: si tratta di una raccolta di ricordi, un tipo di fotografia amatoriale, personale e diaristica. Al di là della mera bellezza di una fotografia, quello che conta è il pensiero portante che sta dietro all’immagine stessa. Per giudicare quindi il valore artistico diventa fondamentale analizzare l’ossatura concettuale di un progetto, unita ad una ricerca estetica e tecnica adeguata. Il mercato della fotografia in Italia è ancora in fase di formazione e radicalizzazione e deve assolutamente trovare il suo spazio all’interno di un mercato già ben consolidato, come quello dell’arte

moderna e contemporanea. In realtà credo che, al di là della crisi, qui non si tratta di resistere ma, semplicemente, di creare qualcosa che prima, in Italia, al contrario di altri Paesi, quasi non esisteva. Per quanto mi riguarda cerco di proporre artisti giovani o cosiddetti “mid-career” con un progetto artistico ben definito e assolutamente di qualità, caratteristiche fondamentali per poter emergere ed attrarre gli sguardi dei collezionisti più attenti ed esigenti. La prima fotografia ad entrare in galleria: Da sempre colleziono opere per passione, una delle prime fotografie è stata un ritratto di Piero Manzoni eseguito da Ugo Mulas nel 1958. Ciò che mi ha colpito è stato l’espressione di ironica sfida che Mulas ha colto nel volto del Manzoni, da quel momento mi sono appassionato alla fotografia, una tecnica che riesce a cogliere e definire l’essenza di cose e persone. Chi vediamo a MIA 2015: Un progetto chiamato Terra in cui quattro differenti artisti contemporanei della galleria – Amelia Bauer, Andrea Boyer, Massimiliano Gatti e Takeshi Shika-


Amelia Bauer, Book of Shadows, For a Man to Attract a Woman He Desires, 2013, bacche di tamerici, foglie di alloro, radici nere di serpente (Ageratina altissima), cannella, geranio, zenzero, rosa, verbena. Archivial pigment print, ed. 12+2 a.p., cm 81x81. In collaborazione con Elizabeth Parks Kibbey. Courtesy: RBfine Art In basso: Olivier Roller, Arazzi. Courtesy: Spazio Nuovo Contemporary Art & Design

ma – diversi per origine, percorso ed età, interpretano lo stretto legame tra l’uomo e la terra attraverso la loro personale prospettiva. GUILLAUME MAITRE SPAZIO NUOVO CONTEMPORARY ART & DESIGN, ROMA www.spazionuovo.net Non è mai stato così importante il ruolo della galleria capace di essere un motore e un legame tra il lavoro di qualità di un artista e la richiesta sempre più importante da parte dei collezionisti d’arte e del grande pubblico per la fotografia d’arte. Importante la selezione dell’artista, il contenuto del suo lavoro abbinato alla sua tecnica, essenziale la qualità impeccabile della produzione, primordiale l’edizione e fondamentale la presentazione al pubblico largo o di nicchia in un contesto valorizzante e sostenuto dalla passione. La galleria ha molto lavoro da fare e niente va improvvisato. Nell’epoca digitale, dove la cultura dell’immagine è cresciuta toccando un pubblico sempre più largo, la bellezza di alcune immagini particolari, la loro capacità di

emergere non è mai stata più evidente. La diffusione di tanto materiale, spesso senza uno scopo artistico, permette alla potenza dell’arte di emergere ancora più significativamente. La fotografia è un medium vivace, che offre una lettura immediata ad un prezzo accessibile per un lavoro artistico spesso di grande contenuto. Grazie alla foto-

grafia siamo finalmente ritornati alla freschezza, alla semplicità, alla gioia dell’arte come negli anni ‘60, quando l’arte era solo al servizio delle emozioni del pubblico. È quest’immediatezza a rendere la fotografia così vincente. La prima fotografia ad entrare in galleria: The Bride, un’opera dell’artista messicana Daniela Edburg. Dimostrare che la fotografia è importante quando non è solo una fotografia. L’opera, con un notevole taglio contemporaneo, era arricchita dall’inserimento di un lavoro artigianale a maglia realizzato dall’artista stessa, con un approccio raffinato della scenografia oltre alla brillante tecnica fotografica. Chi vediamo a MIA 2015: Due artisti complementari. Camilla Borghese spiega la monumentalità in scatti di grande precisione realizzati con il banco ottico. Ogni scena, scattata a Roma, presenta uno sguardo colto e potente sulle regole dell’architettura nella particolare luce della città. Le opere di Olivier Roller, l’esperto parigino di ritrattistica contemporanea, sono inediti particolari fotografati a

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partire da famosi arazzi in luoghi di potere. È la prima volta che un artista s’interessa agli arazzi che sono, nel medioevo, il simbolo assoluto del potere. Platone stesso descrive la politica come l’arte degli arazzi o l’arte di tenere tra di loro, in un tutto omogeneo, delle correnti opposte come i fili verticali e orizzontali dell’arazzo. Il pixel si mescola con la trama dell’arazzo per creare un’opera del tutto inedita. Ci piace l’idea di presentare due artisti che contemplano il mondo classico nella loro ricerca contemporanea avendo cura di selezionare un lavoro analogico di impeccabile esecuzione, di grande formato e un lavoro brillante, originale e di grande effetto drammatico, in formati più contenuti, con la semplice tecnica digitale. MICHELE BELLA GALLERIA VALERIA BELLA, MILANO www.valeriabella.com La galleria, a mio avviso, rimane un luogo determinante nel mercato dell’arte, anche se internet e le fiere creano molte altre buone opportunità. Le fiere sono sempre di più e l’offerta sempre maggiore, ma la galleria rimane un luogo di conoscenza e di approfondimento, dove si crea un rapporto di fiducia tra cliente e gallerista. Certo le fiere sono fondamentali per allargare il proprio mercato e far circolare il proprio nome, ma in galleria il rapporto con il cliente va più in profondità.

Internet, i social network e la comparsa degli smartphone hanno democraticizzato la fotografia. Oggi chiunque è un fotografo, in linea di massima, e in rete si vedono anche tante belle foto fatte da “common people”. Ma i veri fotografi son ben altro, meglio non fare confusione. La fotografia d’autore è un’arte a tutti gli effetti, da prendere molto sul serio. Non ci si improvvisa fotografi, per esserlo bisogna avere una grande preparazione e una grande cultura. In Italia la fotografia ci ha messo un po’ ad affermarsi, ma ora il pubblico e i collezionisti sono più preparati e interessati. Secondo me la fotografia sta attraversando un momento positivo. Riscontra molto interesse e curiosità e un buon ritorno in termine di vendite. Certo la crisi rallenta tutto, ma bisogna saper guardare il bicchiere mezzo pieno. La fotografia, poi, è un’arte giovane, facile da capire, e che parla un linguaggio comprensibile a tutti. La prima fotografia ad entrare in galleria: Una foto di Ernst Haas, raffigurante un cowboy aggrappato alle redini di un cavallo impennato, scattata durante le riprese del film The Misfits con Marilyn Monroe e Clark Gable. L’avevo vista da ragazzo pubblicata su una rivista, e quando me la sono trovata davanti non ho saputo resistere alla tentazione di comprarla. L’ho anche rivenduta in poco tempo. Chi vediamo a MIA 2015:

Una personale di Marco Maria Zanin, che ha appena concluso un lavoro sitespecific in Sicilia commissionato da Galleria Valeria Bella. Marco è un giovane molto bravo e determinato, con le idee chiare. Siamo molto contenti di lavorare insieme, e siamo contenti di partecipare a MIA, una fiera di cui siamo sostenitori e che ritengo importantissima per tutto il movimento della fotografia in Italia. IL PUNTO DI VISTA DELLE GALLERIE ESTERE... MARIA ARES E GIANNI CREMONA MUST GALLERY, LUGANO www.mustgallery.com Innanzitutto noi nasciamo come collezionisti e in seguito galleristi, per questo ci sentiamo in obbligo di fare una scelta seria per la galleria e coinvolgere fotografi che sappiano fare il loro “mestiere”, così da poter consigliare ai nostri preparati collezionisti l’acquisto di un’opera di alto valore e qualità. Vogliamo, e dobbiamo, promuovere il vero mestiere di fotografo, un mestiere in cui molti si cimentano ma che solo pochi svolgono in modo idoneo. Il progetto di un fotografo è molto importante, come lo è tra l’altro la qualità di sviluppo e di realizzazione dell’opera. Una fotografia non va valutata come una semplice immagine, come se ne vedo-

Marco Maria Zanin, Ca’ Peraro, Padova. Courtesy: Galleria Valeria Bella 86 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA


Giulio Cassanelli, FIRSTVIEW, 2014, cm 100x100, ed. di 5. Courtesy: MUST Gallery

no migliaia in giro per i social. Una fotografia deve essere valutata visionandola di persona per capire la tecnica, come viene sviluppata, la carta utilizzata per la stampa, le dimensioni dell’immagine, l’incorniciatura, insomma, una serie di caratteristiche che rende la fotografia una vera e propria opera d’arte. Una cosa è certa, a priori noi non valutiamo immagini troppo “ritoccate” o manipolate in post produzione, non fa parte di quello che è la politica di scelta della galleria e, fino ad ora, si è dimostrata vincente. La fotografia non solo resiste alla crisi ma sta prendendo una fetta sempre più importante nel mondo dell’arte e del collezionismo. I grandi collezionisti d’arte si stanno avvicinando alla fotografia, ancora in modo un po’ timido, ma si stanno aprendo al suo immenso ed affascinante mondo. Proposta MIA 2015: Abbiamo deciso di partecipare anche quest’anno al MIA orientandoci verso la sezione Expo 2015, che è un’idea nuova, proposta dagli organizzatori della Fiera, e

creata appositamente per quest’edizione, approfittando del grande evento che sta per coinvolgere Milano, dove il tema delle opere fotografiche sarà l’alimentazione. Uno dei nostri artisti esposti, Giulio Cassanelli, presenta un meraviglioso lavoro fotografico artistico dedicato agli alimenti. PIERRE ANDRE PODBIELSKI PODBIELSKI CONTEMPORARY, BERLINO www.podbielskicontemporary.com Il collezionismo fine art è in pieno boom veicolato da tempo da numerose e qualificate case d’aste, da pubblicazioni di libri monografici sui grandi autori storici e da mostre qualificate in ogni parte del mondo, non ultima, quella vista di recente ad Amburgo sui 100 anni di Leica oppure a Berlino su Vivian Maier. Altra cosa invece è il collezionismo in senso lato di fotografia contemporanea, che non presuppone la dicitura fine art e che copre anch’esso un’ampia fascia di mercato. Per ovvi motivi: facile reperibilità, a volte, costo più accessibile e, in parte, anche la codificazione delle edizioni. Ma que-

sto è un altro argomento… La galleria, nello specifico una come Podbielski Contemporary, che tratta solo fotografia contemporanea, ha una missione divulgativa ad alto profilo culturale, produce mostre, partecipa a fiere internazionali dove far conoscere le proprie scelte in ambiti internazionali e, spesso con l’ausilio di curatori, valorizza il percorso ed il pensiero di un artista. Una cosa sono le immagini sui social network spesso magiche ed intriganti… fanno scoprire il mondo e le poetiche del momento, un’altra sono le immagine frutto di un progetto, di un confronto fra artista e gallerista. La fotografia esibita in ambito di galleria segue delle regole precise e ben codificate e consolidate da tempo. D’altronde se non fosse così, non si spiegherebbe la crescita costante del suo mercato né della quantità di gallerie e fiere che trattano l’argomento. Il valore lo stabilisce il mercato, le referenze dell’artista (è alle sua prima mostra? Ha mostre museali nel suo cv?...), il numero di edizioni di ogni singola immagine (di solito ed. SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 87


Agnese Purgatorio, Dalla clandestinità, 2014, stampa ink-jet su Canson Infinity Baryta, di-bond, cornice in legno, cm 109,5x140. Courtesy: Podbielski Contemporary In basso: Kacper Kowalski, China #6. Courtesy: Leica Gallery

di 5 oppure 8 + 2 prove d’artista) e ovviamente la fama e la serietà che la galleria si è guadagnata nel tempo. Che non va confuso con il valore d’asta che in tempi così volatili non è indice di valore reale. Il MIA è una buona occasione per una verifica sul campo. La fotografia pur essendo un mezzo così attuale (anche se con più di 150 anni di storia alle spalle), suscita ancora perplessità da parte dei non addetti ai lavori. Il nostro proposito è di educare e fare appassionare un nuovo collezionismo, giovane e più consapevole delle realtà del mondo odierno. In Germania dove ha sede la mia galleria, il mercato resta, anche se molto qualificato e consolidato, ancora in un segmento di nicchia. Questo rende la sfida più stimolante, per non dire eroica... Questo vale anche per il resto dell’Europa. Forse negli Stati Uniti, per altre logiche anche di natura fiscale, il mercato è senz’altro più florido. Proposta MIA 2015: La nostra proposta, fin dalla prima partecipazione nel 2011, è sempre stata improntata sulla sperimentazione e divulgazione. Nello specifico, proporre realtà a volte meno conosciute in Italia: artisti iraniani, israeliani, francesi, argentini, coreani e ovviamente anche italiani. Accomunati da progetti mirati nel narrare problematiche sociali, politiche e storiche, fuori da qualsiasi considerazione strettamente commerciale. La verifica sul campo d’altronde ci ha spesso premiato. 88 | ESPOARTE 88 | SPECIALE FOTOGRAFIA

Quest’anno essendo l’anno dell’Expo, abbiamo inoltre la possibilità di esporre opere legate a temi ambientali, nello specifico l’Acqua, oltre ad un progetto – con fotografie cariche di poesia e metafore dell’artista italiana Agnese Purgatorio – incentrato sulla tragedia armena, della quale, a breve, si celebra la ricorrenza del centenario. RAFAL LOCHOWSKI LEICA GALLERY, VARSAVIA (POLONIA) www.facebook.com/LeicaGalleryWarszawa Il direttore della Nikon in Polonia, circa dieci anni fa, mi disse che per lui la fotografia vale quanto la carta che usa per stampare. Ciò si può applicare per le immagini. Ven-

dere fotografia vuol dire occuparsi di un valore aggiunto, molto difficile da misurare. Una galleria che vende fotografia (non semplici immagini) non può agire come un negozio (come ad esempio fa YellowKorner. Società francese che propone fotografie ben confezionate firmate e certificate, a tiratura limitata ma generosa, 500 copie, dal formato diverso da quello usato per le stesse fotografie presentate precedentemente in galleria in tiratura molto più limitata, di fotografi abbastanza noti, ma a prezzi abbordabili, ndr). Una galleria deve costruire una rete di artisti e collezionisti d’arte. Per questo la programmazione delle mostre è fondamentale. Per il gallerista l’unico modo di ottenere fiducia è or-


ganizzare esposizioni e curare, allo stesso tempo, artisti e collezionisti. È facile fino a quando abbiamo a che fare con la fotografia classica, di “vecchi maestri”. Il suo valore è stato confermato attraverso anni sul mercato: si può facilmente confermare in cataloghi d’asta. Le cose si fanno più difficili se si parla di arte contemporanea. Parlando con i miei clienti e amici dico sempre: la fotografia non è solo scattare delle foto. Si tratta di emozioni e di avere una visione del mondo che l’artista cerca di condividere con il pubblico. Accade anche con un bel quadro visto su internet: provare ad immaginare cosa ha da dire l’autore con il suo sguardo. Ci sono un’infinità di immagini che “ci prendono” tutti i giorni, è ovvio, alcune sono straordinarie ma non tanto da costruirne un valore di mercato. Tutto richiede una visione e un seguito. Negli ultimi decenni il mercato della fotografia d’arte è in crescita, è fresco e contemporaneo, riflette immediatamente i cambiamenti sociali nel nostro mondo. Inoltre è molto flessibile e facile da presentare. Era il mezzo più importante nel XX secolo, quindi questa crescita è normale. Gli ultimi anni sono stati difficili per il mercato a causa della crisi economica, ma dallo scorso anno la situazione sta tornando alla normalità. Osserviamo che l’interesse per la fotografia è in crescita, anche in nuovi mercati, come da noi in Polonia. Il successo internazionale di artisti polacchi come Kacper Kowalski o Rafal Milach aiuta molto. Solo cinque anni fa era quasi impossibile vendere fotografia contemporanea in Polonia con il giusto valore: è stata trattata come arte decorativa. Oggi abbiamo i primi clienti che investono in fotografia, in maniera consapevole e questo è promettente. Tuttavia, i prezzi nei mercati emergenti (come il nostro) sono molto più bassi, in confronto a Parigi, Londra o New York. L’Italia è per me uno dei mercati più interessanti. Non è così maturo come in Francia o in Germania ma, anche grazie a questo, è ancora più emozionante! A Milano i prezzi restano bassi e quindi c’è meno spazio per gli artisti affermati. È per questo che ci si può aspettare qualcosa di nuovo. A Parigi o a New York è come una visita dal gioielliere nel centro commerciale: sappiamo esattamente cosa ci aspetta e c’è poca possibilità di “fare un affare”.

MART ENGELEN SUITE59 GALLERY, AMSTERDAM www.suite59.nl Non amo la parola “immagine”. Dubito che lo scatto con il cellulare, nuova forma di comunicazione nella nostra società, possa avere un valore duraturo. Al contrario, una fotografia per me indica che il produttore ha intenzione e ama comunicare con un valore che forse può ritenersi artistico. Il vero fotografo non dovrebbe mai prendere in considerazione il suo lavoro come tale. Deve concentrarsi sempre sulla qualità dello stesso che, raggiunto un certo livello, potrà creare attorno a sé un mercato. Il ruolo della galleria è quello di promuovere il lavoro dell’artista in modo sincero. Farlo conoscere davvero ai collezionisti richiede molto tempo. Purtroppo, oggi, molti galleristi non dedicano abba-

stanza tempo a quest’aspetto. Non sono interessato allo scopo delle immagini che circolano sui social, non hanno nulla a che fare con l’arte o il valore artistico. A molti piace, attraverso un’immagine, ottenere cinque minuti di celebrità, ma creare davvero qualcosa di bello con la fotografia è un’altra cosa e bisogna lavorare molto per riuscirci. Oggi la fotografia ha un mercato in crescita ed è ancora possibile acquistare una bella foto ad un prezzo ragionevole. Ho ancora pochi collezionisti in Italia e quella del MIA per Suite59 è la prima volta ad una fiera italiana.

Mart Engelen, Willem Dafoe, Amsterdam, 2012, cm 84x108, ed. 1/5 / cm 40x50, ed. 7. Courtesy: Suite59 Gallery

SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 89


MIA – MILAN IMAGE ART FAIR 2015 > NUOVE VISIONI

COLLEZIONISMO 2.0 | LA FOTOGRAFIA NELL’E-COMMERCE L’ESPERIENZA DI ARTISTOCRATIC, BOLOGNA | www.artistocratic.com Intervista a TOMMASO STEFANI di FRANCESCA DI GIORGIO Artistocratic ha aperto nel 2009 con l’idea di comunicare e proporre la fotografia d’arte in modo innovativo, evitando di seguire schemi predefiniti. «Per fare questo abbiamo organizzato un modello di business flessibile pronto ad adattarsi al momento storico e a cogliere le opportunità offerte dal mercato. In questa fase la nostra “libertà” ci consente di organizzare mostre all’interno di spazi diversi e partecipare a fiere in Italia e all’estero» racconta Tommaso Stefani, socio fondatore e Art Director di Artistocratic. Imprenditore appassionato di fotografia, con oltre dieci anni di esperienza come consulente di direzione aziendale. Ha lavorato in A.T. Kearney, società multinazionale di consulenza strategica, in Europa, Nord America e Asia e ha contribuito allo sviluppo di start-up in vari settori... IL MERCATO DELL’ARTE ONLINE È ORMAI CONSOLIDATO. IL VALORE AGGIUNTO DI ACQUISTARE OGGI UN’OPERA TRAMITE WEB? Il web ha moltiplicato le occasioni di “consumo” dell’oggetto culturale: dopo libri e musica, adesso è il turno delle arti visive. La tecnologia consente di poter godere delle immagini in modo sempre più appagante, in particolare per la fotografia. La qualità della sua fruizione digitale ha consentito al web di diventare un potente strumento

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di diffusione e conoscenza della fotografia d’autore e ai collezionisti e agli appassionati di servirsi di uno strumento efficiente e ricco di informazioni per acquistare opere d’arte tramite la rete. Un trend in forte crescita in particolare per gli artisti più noti e per le opere meno costose, dove la maggior familiarità con le opere da un lato e il minor impatto economico della scelta dall’altro, rendono l’e-commerce un canale maturo. AVETE UN’ANIMA “ON” E UNA “OFF” LINE... Nasciamo come galleria online, ma in realtà la nostra vita offline è stata fin dall’inizio molto attiva. Abbiamo esposto a Parigi, Milano, Bologna, Venezia, Verona, Palermo, Roma. Non importa se sia il web o l’evento fisico il primo punto di contatto con i collezionisti. Le due anime di Artistocratic si parlano tra loro e realizzano una sinergia che consente una più completa articolazione e una maggior continuità di fruizione dei contenuti. Tale combinazione è stata un fattore di successo sia in termini di comunicazione e promozione sia di vendita. IL TARGET DI ARTISTOCRATIC. I VOSTRI ARTISTI E I VOSTRI CLIENTI... Artistocratic è un canale innovativo per giovani e per esperti collezionisti che vogliono arricchire la loro ricerca di opportunità di investimento nel mondo della fotografia

d’arte con uno strumento efficiente e ricco di contenuti. È una “piccola casa della fotografia d’autore” dove convivono diverse anime di questo mondo affascinante: dai fotografi storicizzati agli artisti contemporanei fino ai lavori degli autori emergenti. Dal Novecento con le opere di Gian Paolo Barbieri, Mario Giacomelli, Nino Migliori, Ferdinando Scianna al contemporaneo con Michele Alassio, Davide Bramante, Maurizio Galimberti, Ronald Martinez. PERCHÉ AVETE SCELTO, SIN DALL’INIZIO, DI PUNTARE SULLA FOTOGRAFIA? La scelta nasce inizialmente da una mia passione. La fotografia si presta meglio di altre arti visive, come ad esempio la pittura o la scultura, ad essere comunicata sui new media. Inoltre è un mezzo che oggi ha molto riscontro nel mercato dell’arte. Lo dimostrano le fiere dedicate alla fotografia, nate in questi ultimi anni all’estero, ma anche in Italia, come MIA a Milano e la sua collaborazione con Arte Fiera Bologna, giunta quest’anno alla seconda edizione. PROPOSTA MIA 2015 Michele Alassio, Ronald Martinez, Davide Bramante

Michele Alassio, Villa Pisani, 2008. Courtesy: Artistocratic


MIA – MILAN IMAGE ART FAIR 2015 > NUOVE VISIONI

LA FOTOGRAFIA E L’ART RENT L’ESPERIENZA DI NOEMA GALLERY, MILANO | www.noemagallery.com Intervista a MARIA CRISTINA DE ZUCCATO di FRANCESCA DI GIORGIO In Italia la formula dell’Art Rent non è diffusa. Il noleggio è un servizio aggiuntivo all’interno dell’attività “classica” di galleria oppure da ricercare su web... Abbiamo chiesto a Maria Cristina de Zuccato – co-fondatrice e owner di Noema Gallery, che nel marzo 2014 ha aperto a Milano, insieme al fotografo ed architetto professionista Aldo Sardoni, una galleria specializzata in noleggio di fotografia d’autore – il suo punto di vista in un ambito così particolare... PERCHÉ APRIRE UNA GALLERIA SPECIALIZZATA IN QUESTO SETTORE? E PERCHÉ PUNTARE PROPRIO SULLA FOTOGRAFIA? Noema nasce con l’intento di diffondere la cultura della fotografia d’autore, promuovendo progetti artistici di raffinati autori italiani ed europei, qualcuno ancora non particolarmente conosciuto. In un mondo in cui ormai si è abituati a fruire di informazioni e servizi che “arrivano” invece che andarli a cercare, le gallerie tradizionali tendono a restare luoghi per lo più vuoti, animati davvero soltanto nel giorno della vernice. Il noleggio è, secondo noi, un modo per “portare” quotidianamente la fotografia d’autore al pubblico, nel luogo che per lo più frequenta (ambiente di lavoro, studio professionale, ristorante, centro estetico…), moltiplicando, quindi, all’ennesima potenza le mura degli spazi espositivi della nostra innovativa galleria. Il noleggio, rivolto quindi ad un target soprattutto professionale, è costituito da vari tipi di abbonamento (trimestrale, semestrale, annuale…) che danno diritto a noleggiare un certo numero di fotografie ed eventualmente cambiarle nel corso del periodo. PREGI, LIMITI E PREGIUDIZI DA SFATARE SUL CONCETTO DI ART RENT? Direi che ci sono solo pregi a patto di organizzare bene tutto il “meccanismo” del rent perché altrimenti diventa molto difficile poterlo fare in sicurezza. Bisogna cioè pensare ad organizzare i trasporti delle opere in sicurezza, dare le opere con una copertura assicurativa nel caso

Marco Lanza, Velatura #09, stampa lambda su Dbond, ed. 7 + 2PA

subissero anche piccoli danni involontari, consegnare le opere incorniciate a regola d’arte, per garantirne la durata museale, risolvere cioè un insieme di problemi che certamente non si incontrano quando ci si limita alla sola vendita. IL TARGET DI NOEMA. I VOSTRI ARTISTI E I VOSTRI CLIENTI... I nostri potenziali clienti sono tutti coloro che amano o pensano di potere amare la fotografia contemporanea, che si emozionano davanti ad un’immagine premiando più il concetto del “dividendo estetico” dell’opera acquistata rispetto al dividendo economico. Le nostre opere non richiedono infatti forti investimenti di denaro, ma sono alla portata di un pubblico sensibile molto “trasversale”, a maggior ragione potendole anche noleggiare e non solo acquistare. I nostri artisti sono tutti europei, in quanto crediamo che chi è nato e vissuto in un continente che contiene più dell’80% del patrimonio artistico mondiale, abbia un “occhio” diverso da chiunque altro. Cerchiamo autori che creano progetti fotografici con una propria particolare cifra stilistica

che li rendono riconoscibili e riconducibili in questo senso al nostro gruppo. AD UN ANNO DALL’APERTURA DI NOEMA GALLERY. UN PRIMO BILANCIO? Il progetto di Noema Gallery sta riscuotendo molto interesse soprattutto per l’idea, decisamente nuova nel mondo della fotografia in Italia. Certamente in Italia è anche vero che è molto radicato il concetto di “possesso” di un bene piuttosto che quello del suo “utilizzo” anche se ormai la cosiddetta “sharing economy” sta iniziando a prendere campo anche da noi (car sharing, bike sharing…). In tutti i casi il “rent” è un buon biglietto da visita nelle aziende e spesso diventa occasione di vendita più tradizionale. Il nostro punto di forza è poi l’agilità della struttura di galleria, e l’apertura verso le esigenze del nostro potenziale cliente, cercando di non arroccarci su posizioni difficili da raggiungere, come talvolta succede nel mondo del collezionismo. PROPOSTA MIA 2015 Marco Lanza SPECIALE FOTOGRAFIA | ESPOARTE 88 | 91


BARBARA PRENKA

Giovani

QUELLA LUNGA E METICOLOSA SCOPERTA DI SE STESSI di ANTONIO D’AMICO Silenziosa e taciturna, Barbara Prenka è dotata di quella genuina riflessione sulla realtà che soltanto i giovani possiedono e, in particolare, quelli avvezzi a soffermarsi sui dettagli per farne tesoro nella lunga e meticolosa scoperta di se stessi e della propria identità. La raggiungo al telefono, perché in questi giorni è impegnata a Palermo per un’esperienza che l’accomuna ad altri giovani artisti apparentati dal gusto per l’astrazione e, del resto, Barbara sembra completamente immersa in un mondo in cui regna la sintesi estrema, quasi ossessiva nel gesto ripetitivo che sovrasta le sue opere recenti. Mi racconta dei suoi progetti futuri e mi spiega i titoli delle sue opere, così capisco che il suo è un lavoro diretto alla persona, che racconta il perenne desiderio, tipico dei giovani, della curiosità, di trovare una propria dimensione nel mondo, sabotando, in qualche modo, il già conosciuto, il già precostituito e il referenziale. Partendo dalla realtà che la circonda, indagandola nella sua intima

Barbara Prenka, Scorcio per un punto di riferimento, 2014, collage di carta cancellata, cm 180x150. Courtesy: l’artista e Galleria Massimodeluca 92 | ESPOARTE 88


essenza, la giovane artista, che ha trovato il suo vivace mentore in Marina Bastianello della Galleria Massimodeluca, sente il bisogno estremo di scovare qualcosa di nuovo, di andare oltre, di denudare le sue referenze, distruggendo le immagini omologate che rintraccia nelle riviste, per creare le sue forme e dare vita ad un alfabeto segreto. Così facendo cerca ed esprime se stessa. Questa operazione di annullamento delle immagini già note, per ricreare segni e forme personali, sottende una rivalsa di libertà, che è alla base dell’opera che ha vinto il Premio Euromobil under 30 conferito dal pubblico, alla scorsa edizione di Arte Fiera Bologna: Scorcio per un punto di riferimento. In realtà, il punto di riferimento non esiste per Barbara, lo ha tumultuosamente cancellato generandone uno tutto suo. Adesso esiste solo l’io con le sue incertezze o con le deboli certezze del quotidiano esistere. Infatti, nel suo ancora breve ma denso percorso, Barbara Prenka ripete fino allo sfinimento un Punto fisso, come immagine microscopica dell’io, reiterando un gesto meccanico che le dà sicurezza, un gesto di uniformità che diviene azione conoscitiva e psicosensoriale. I suoi dipinti ostendono un racconto la cui trama cela visioni interiori, in cui l’artista immagina un lento svelamento, come Dietro la tenda si tende a essere visti; altro titolo di un’opera che presenta al pubblico completamente destrutturata, senza telaio, come una vera e propria tenda da cui guardare, dalla quale filtrare il mondo e scegliere ciò che le appartiene e la fa stare a suo agio. Le forme che Barbara Prenka pazientemente realizza, generate attraverso persistenti pennellate liquide o ripetuti puntini, sono accumuli di pensieri, di sguardi sul mondo, sono tentativi di fissare nella memoria un ricordo, di cui farà tesoro quando, da grande, spierà i suoi lavori di questi teneri e sinceri anni giovanili.

Barbara Prenka è nata nel 1990 a Gjakova (Kosovo). Vive e lavora a Venezia. Eventi in corso: PROGETTO ITALIANO N. 3. Avere fame di vento a cura di Pietro Di Lecce The Workbench via Vespri Siciliani 16/4, Milano 26 marzo - 14 aprile 2015 www.theworkbench.it LE STANZE D’ARAGONA. Pratiche pittoriche in Italia all’alba del nuovo millennio. Cap. I a cura di Andrea Bruciati e Helga Marsala RizzutoGallery Via Monte Cuccio 30, Palermo 12 marzo - 2 maggio 2015 www.rizzutogallery.com Galleria di riferimento: Galleria Massimodeluca, Mestre (VE) www.massimodeluca.it

Barbara Prenka, Dietro la tenda si tende a essere visti, 2014, acrilico su tela, cm 180x140. Courtesy: l’artista e Galleria Massimodeluca ESPOARTE 88 | 93


Gabriele Grones

Giovani

RICERCARE SE STESSO NEL VOLTO DEGLI ALTRI di GABRIELE SALVATERRA “Vero più vero del vero”. Così Filiberto Menna commentava ne La linea analitica dell’arte moderna quelli che definiva “i paradossi iconici dell’iperrealismo”. Una pittura che nel momento in cui prova a restituire la realtà e ripeterla con la maggiore fedeltà possibile non fa che scontrarsi con l’impossibilità utopica di una trasposizione piena del mondo che ci circonda. Cosa c’è infatti di più irreale di una tela

magistralmente dipinta? Tutta la vita è perfettamente presente ma non possiamo relazionarci con essa, non possiamo viverla. Ecco così che si ripropone in modo implicito il paradosso magrittiano di Questa non è una pipa: questo non è l’oggetto o la persona che conosciamo, ma la sua restituzione artistica. Cosa spinge quindi Gabriele Grones a sostenere questa sfida impari con la realtà?

Una lotta persa in partenza, tutta giocata nel meticoloso stendersi delle velature in un paziente lavorio in punta di pennello di sintesi e ricomposizione dell’immagine. Non certo un’ingenua illusione di poter avere un’autentica presa sul reale quanto piuttosto la certezza che questa realtà non esista obiettivamente al di là dei nostri sensi ma che si presenti unicamente filtrata da essi nelle immagini del mondo che ciascuno di noi si costruisce. A questo punto le strade sono due: si può rinunciare oppure rilanciare, facendosi carico di una restituzione sincera della nostra percezione. Grones sceglie ancora un confronto con l’immagine, dove la tecnica tradizionale e la fedeltà all’apparenza delle cose forniscono solidi argini alla propria pratica. Il genere tradizionale del ritratto consente di approfondire i temi cari della personalità, in cui l’individuo e il carattere assumono

Gabriele Grones, Elisa, 2013, olio su tela, cm 40x30 94 | ESPOARTE 88


toni misteriosi, in volti enigmatici illuminati da fredde luci al neon. Nella pratica di Grones, prima della pittura, c’è uno studio attento della persona e molti scatti fotografici da cui viene poi distillata un’immagine rappresentativa dell’individuo, frutto quindi di un attento lavoro di sintesi e compromesso tra immagini diverse. È evidente come il volto che osserviamo non nasca da una trasposizione passiva e pedissequa del reale ma costituisca una restituzione personale, una delle tante possibili, non certo l’unica, dogmatica e definitiva. È così che da questi volti misteriosi, presi dallo stupore di un’epifania a cui non possiamo assistere ma che ci viene restituita dal loro sguardo, emerge la problematicità della rappresentazione dell’uomo, o in generale della rappresentazione in sé. Ciò che si può dare è solo uno sguardo

parziale sulle innumerevoli parti di cui ogni individuo è fatto. Di fronte al senso di vertigine che lo scavo in una personalità determina non si può che tremare attaccandosi con più rigore possibile alla propria tecnica e alla sincerità del proprio operare. Ma in questo sforzo si vede anche una sincera esigenza a raddoppiare il reale e l’individuo per poterlo meglio comprendere, per poterlo in qualche modo fare proprio. Accostandosi ai suoi soggetti, spesso amici e famigliari, si riconosce in Grones un autentico interesse per i propri simili, un impulso a entrare in contatto con loro. Forse, infine, questo lavoro sulla personalità altrui altro non è se non un ricercare se stesso nel volto degli altri in un’identità che risulta suddivisa – polverizzata – nel riflesso degli occhi di tutte le persone che ci stanno attorno.

Gabriele Grones è nato nel 1983 ad Arabba (BL). Vive e lavora tra Arabba e Rovigo. www.gabrielegrones.com Eventi in corso: Gabriele Grones, new paintings. Personale Bernarducci Meisel Gallery, New York (USA) 1 - 30 maggio 2015 Afterselfie, collettiva a cura di Carolina Bortolotti Palazzo Trentini, Trento 15 - 31 maggio 2015 Gallerie di riferimento: Bernarducci Meisel Gallery, New York, USA www.bernarduccimeisel.com Galerie MZ, Augsburg, Germania www.galerie-mz.de Galerie Van Campen & Rochtus, Anversa, Belgio www.galerievcr.be Galleria Alessandro Ghiotto, Vicenza www.ghiottoarte.com

Gabriele Grones, Roberto, 2015, olio su tela, cm 40x30 ESPOARTE 88 | 95


Maurizio Vicerè

Giovani

LUDICA.MENTE di MARCELLA FERRO Interazione è la parola “chiave” per la lettura delle opere di Maurizio Vicerè, in arte Vice. Giovane artista nato in provincia di Teramo, nel 2015 vincitore a Bologna del premio SetUp come migliore artista under 35 con Prayer. Bisogna osservare la sua produzione come se si entrasse in una chiesa, in una sinagoga, in una moschea o qualunque altro luogo spirituale, si deve fare in punta di sguardo, rispettosi della sacralità degli spazi ma lasciandosi andare al trasporto emotivo, alla riflessione più elevata. L’ironia di Vice è sottile come anche il ragionamento e la progettazione celati dietro lavori quali Ufficio dell’artista o Trapeizodal bell, ribaltando il significato di quel terzo regime dell’arte e dell’esperienza estetica, ciò che Benjamin (fra i pensatori più studiati e amati dall’artista) meglio definì come il sex appeal dell’inorganico, facendo sì che non sia più l’artista divenuto ‘marca’ a garantire il valore della merce artistica, quanto in realtà lo stesso pubblico a divenire garanzia di qualità. In sostanza le opere di Vice sono progettate non per una mera contemplazione e questo perché gli sta alquanto stretto il concetto di Museo come luogo tradizionale di conoscenza. La sua visione futurista prevede un contenitore eternamente plasmabile per il quale nutrire una profonda considerazione ma cui accostarsi con la curiosità infantile di chi crede che l’arte possa davvero innescare meccanismi rivoluzionari nella mente umana. Dietro le sue opere però oltre all’esigenza di rendere vivo a tutti gli effetti ciò che mette in mostra, attraverso la presenza e l’azione/reazione di chi vi si accosta, c’è di fondo un gran

Maurizio Vicerè, Prayer, 2014, fede nuziale ridotta in polvere, vetro, legno, cm 35x35x6 96 | ESPOARTE 88


Maurizio Vicerè, Reminder, 2015, Pen Marker su foglio di nylon, cm 178x180x5

Maurizio Vicerè, in arte Vice, è nato nel 1985 ad Atri (TE). Vive e lavora a Pescara. www.inartevice.yolasite.com Eventi in corso: Maurizio Vicerè. Il Numero dei Centri Galleria ZAK Project Space in Tour c/o UnTubo, vicolo del luparello 2, Siena 14 marzo - 14 maggio 2015 Gallerie di riferimento: Galleria ZAK, Siena www.galleriazak.com Ultrastudio, Pescara www.ultrastudio.sexy

senso di appartenenza alla Storia in quanto uomo e artefice del proprio destino. Egli stesso narra di un tempo preciso, di uno spazio concreto. Tuttavia non si tratta di opere sociali o politiche anche se spesso si rintraccia in esse una sorta di J’accuse non tanto rivolto alle istituzioni quanto all’Uomo quale cittadino del suo tempo ma ormai incapace a gestire le emozioni e completamente privo di quella compassione che dovrebbe spingerlo non solo a sentirsi investito dal dolore altrui ma volendo, di fatto, alleviarne le pene. Certo non manca la visione, per certi versi nichilista, di chi è conscio che questo stesso uomo moderno sia spesso bloccato dall’enormità delle imprese che dovrebbe affrontare se aspirasse realmente a concetti, ormai del tutto utopici, come la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto. Resta tuttavia, per Vice, l’azione, l’unica risposta all’apparente irrealizzabilità del sogno utopistico. Un’azione che deve partire dal pensiero, dallo svelamento della verità e dalla comprensione di quest’ultima. Deve passare per l’accettazione a voler abbandonare il ruolo di spettatori per un più impegnativo ruolo di attori e concludersi con la risposta tradotta nel movimento del corpo sempre in equilibrio con l’oggetto cui ci mettiamo in relazione. Per finire, ritorno all’opera Prayer, e mi ritrovo incantata davanti ad un pannello di vetro che illuminato da una lampada ci appare come un cielo stellato, giacché su di esso è stata sparsa una polvere d’oro ricavata da fedi nuziali. Domande e promesse frammentate e lanciate in un piccolo universo racchiuso in una teca. Direbbe Erri De Luca: “Sulla felicità non si costruisce una polis e nemmeno una stanza, solo si possono produrre scintille brevi e irripetibili. Una felicità prolungata è una narcosi”.

Maurizio Vicerè, Universal Balance, 2014, legno, vetro, cm 100x100x100 ESPOARTE 88 | 97


SILVIA MEI

Giovani

PITTURA SCIAMANICA di CHIARA SERRI Regressione ferina e metamorfosi zoomorfa. Nelle opere di Silvia Mei, recentemente presentate alla Galleria Interno18 di Cremona, la figura nasce col segno e col colore, attraverso il recupero di una dimensione infantile, primitiva e rituale. Al centro del suo lavoro, singoli individui, coppie o gruppi di persone, nelle quali si fondono tratti maschili e femminili, elementi umani ed animali. Momenti pittorici che nascono da momenti di vita quotidiana, riversati sulla carta con grande potenza immaginativa e capacità d’astrazione. Le mani si allungano, i piedi si ramificano

(Autoritratto con Irene, 2014), il volto diventa una maschera con occhi piccoli e naso pronunciato, probabilmente riferibile alle origini sarde dell’artista e alla tradizione carnascialesca isolana, dai Mamuthones di Mamoiada ai Boes di Ottana. L’esuberanza cromatica ed il gusto per l’ornamento vanno di pari passo con la rappresentazione del lato oscuro della natura umana, personificato dai corvi neri che l’artista disegna sin da bambina (Dopo il buio, 2014), così come dagli scarafaggi con testa d’uomo, da poco entrati nel suo vocabolario (Scarafaggi, 2014).

A bilanciare la scena, l’elemento naturale, che assume sempre una valenza positiva, spesso con funzione salvifica e catartica. Scene dense di pensieri che affiorano improvvisamente dal fondo sotto forma di teste ovali (Autoritratto con Irene, dieci anni, 2014) o semplicemente di sguardi, condensati all’interno di una stessa figura per moltiplicarne i punti di vista. Materiale d’elezione: la carta, impiegata anche per opere di grandi e grandissime dimensioni. Nessun disegno preliminare, nessuno studio o bozzetto, semplicemente uno spunto visivo che viene veicolato sul supporto attraverso un gesto istintivo, a volte violento, ma capace di ricreare atmosfere vaporose e sottili piumaggi. Dipinti a tecnica mista nei quali si riconosce l’uso prevalente del colore acrilico, sebbene siano presenti

Silvia Mei, Autoritratto con Irene, dieci anni, 2014, tecnica mista su carta. Foto: Zeno Zotti 98 | ESPOARTE 88


Silvia Mei, Scarafaggi, 2014, tecnica mista su carta su tela, cm139,5x149,5. Foto: Zeno Zotti

Silvia Mei è nata nel 1985 a Cagliari. Vive e lavora a Milano. Eventi in corso: Young Artist in Milan Almaty, Kazakistan Aprile 2015 Gallerie di riferimento: Studio d’arte Cannaviello, Milano www.cannaviello.net Galleria Interno18, Cremona www.galleriainterno18.it L.E.M. Laboratorio Estetica Moderna, Sassari www.gallerialem.com Gallery Molly Krom, New York www.gallerykrom.com Robert Kananaj Gallery, Toronto www.robertkananajgallery.com

anche alcuni interventi a tempera, matita, spray e pennarello, ai quali di recente si è aggiunto l’uso dell’olio e dei pastelli. Alla sovrapposizione delle tecniche corrisponde una stratificazione della materia pittorica, arricchita da frammenti di carta, pizzo o stoffa, ma anche fili, capelli e residui di tè, ovvero tracce di un vissuto personale che trova eco nel sentire collettivo. In posa di fronte ad un ipotetico obiettivo fotografico, come nei ritratti di gruppo

del secondo Ottocento, le figure non sono protagoniste di un’azione o personaggi di un racconto, in quanto da parte di Silvia Mei non esiste alcun intento narrativo, semmai la volontà di congelare definitivamente un attimo. Come istantanee di un album di famiglia, esse ci rivelano, tuttavia, qualcosa dell’artista e della sua storia, di un percorso di crescita personale intimamente legato alla ricerca artistica, ai progetti e alle mostre.

Silvia Mei, Dopo il buio, 2014, acrilico, olio, foglia oro e tecnica mista su carta, cm 90x120 ESPOARTE 88 | 99


Michael Gambino

Giovani

UN BATTITO D’ALI CHE CAMBIA IL MONDO di MATTEO GALBIATI

Non occorre cercare necessariamente, nella ricerca di un giovane artista, quegli apparentamenti formali e quelle citazioni che ne possano intercettare facili – e spesso solo approssimati – alunnati. La ricorrenza di talune visioni e di certe immagini, in quei temperamenti capaci, sensibili e attenti, non deve essere certo ascritta ad una filiazione di ipotetiche conseguenze logiche e ad accostamenti per similitudini e affinità che si limitano solamente ad aspetti ed assetti superficiali. L’opera, pur nella consonanza visiva, deve essere valutata per le sue specifiche attitudini e il suo individuale carattere. Certo i sentori del proprio tempo avvicinano e intercettano comuni e condivisi sentimenti che pervengono dall’epoca in cui si vive e questo porta ad osservare strette reciprocità che non sono, quindi, del tutto casuali. Michael Gambino ci presenta un mondo popolato d’insetti, di piccole creature che riportano all’occhio, nella loro assiepata moltitudine colorata, una proliferazione di presenze che rendono mobile e vibrante la forma entro cui si dispongono. O sembrano in procinto di farlo. Emblemi di forza e fragilità. Non bisogna allora scomodare Hirst & C. per agganciare la ricerca di Gambino al contesto contemporaneo, osservando e sfogliando il repertorio delle sue creazioni s’intuisce che, fatto salvo il materiale di partenza, l’uso di piccole creature per ottenere un’opera d’arte, accede ad un’individuale visione, si comprende quanto diversa sia la poesia e l’intenzione e, altrettanto differente, sia il desiderio di rendere tali osservazioni attuali. Il giovane artista lascia trasparire subito una sensibilità attenta e delicata nel parlare della natura con il suo linguaggio diretto, le scelte che attua s’indirizzano sempre nel portare allo scoperto la fragilità degli equilibri naturali che l’uomo sta, colpevolmente, minando. Ma tutto il suo lavoro non può – e non deve – riassumersi nella solita, trita e ritrita, 100 | ESPOARTE 88

Michael Gambino, A tu per tu con le stelle, 2014, cm 82x74, visione diurna e notturna Nella pagina a fianco: Michael Gambino, Mutamenti, 2015, cm 100x100


Michael Gambino è nato nel 1988 a New York (U.S.A.). Vive e lavora tra Como e New York. Gallerie di riferimento: Colossi Arte Contemporanea, Brescia www.colossiarte.it Galleria Russo, Roma www.galleriarusso.it

parabola ecologista, che oggi pare essere indispensabile per sentirsi acclamati dalla cronaca, bisogna puntare a leggere qualcosa di più profondo e denso nel suo lavoro che è l’idea della bellezza. Questo il tema che vuole essere rilevante: la bellezza. La celebrazione di quella bellezza, spirituale, sottesa alle “cose” della natura, ai suoi equilibri e alla sua complessità. Le farfalle, presenze frequenti nelle sue opere, diventano il paradigma di una metafora di grazia esistenziale, di libertà conquistata e di fiera immaginazione nella consapevolezza dell’essere. La farfalla, dopo la fatica degli stadi iniziali, arriva alla sua affermazione attraverso sofferte e radicali trasformazioni prima di librarsi in alto nel cielo e volare via libera. Alla sopraggiunta ammirazione della libera bellezza, però, fa immediato seguito l’effimera sua durata. Come le trasformazioni in atto nel mondo, che frantumano la stabilità delle cose, sottraggono certezze, la farfalla vive poco tempo. La sua resta una vanitas deperibile, fragile e cagionevole. Se da una parte Gambino ci porta il fascino disincantato della favola, dietro non possiamo non scontare la presenza, tragica (?), di una morale a scadenza.

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arte & impresa

ACQUA DI PARMA E L’ARTE CONTEMPORANEA: UNA VISIONE PROIETTATA NEL FUTURO Intervista a GABRIELLA SCARPA, PRESIDENTE ACQUA DI PARMA di LIVIA SAVORELLI PER LA PRIMA VOLTA ACQUA DI PARMA RIVOLGE IL PROPRIO SGUARDO ALL’ARTE CONTEMPORANEA PRODUCENDO LA MOSTRA I’LL BE THERE FOREVER – THE SENSE OF CLASSIC, CHE SARÀ OSPITATA A MILANO (PALAZZO CUSANI, DAL 15 MAGGIO AL 4 GIUGNO 2015). L’AZIENDA PERÒ DA ANNI SOSTIENE LE ARTI, SPAZIANDO DALLA DANZA ALLA MUSICA FINO AL TEATRO. COSA HA SPINTO IL BRAND AD INVESTIRE NELL’ARTE CONTEMPORANEA? E SU QUALI PRESUPPOSTI È STATO IDEATO IL CONCEPT DELLA MOSTRA? La valorizzazione del patrimonio artistico e culturale italiano è un’attitudine intrinseca ad Acqua di Parma, una sensibilità che abbiamo saputo sviluppare e coltivare nel corso degli anni fino ad arrivare ad iniziative di respiro internazionale. Sponsorizzazioni e collaborazioni con alcuni tra i più grandi artisti contemporanei, come Uto Ughi nel campo della musica e Roberto Bolle nella danza classica.

Finora abbiamo investito in arti “classiche”, ribadendo così la nostra passione e il nostro legame con la Tradizione e con una cultura del bello tutta italiana. Ma Acqua di Parma, oltre ad essere tradizione, è contemporaneità. Un brand attento quindi al presente e pronto a proiettarsi nel futuro. Investire in arte contemporanea è la naturale conseguenza di questo atteggiamento. L’arte contemporanea si distingue, infatti, per la sua capacità di dialogo con il presente, di interpretazione critica dei fenomeni odierni e quindi di sensibilizzazione del pubblico. Ed è per tutti questi motivi che Acqua di Parma decide di sostenerne le potenzialità attraverso la produzione della mostra I’ll Be There Forever – The Sense of Classic. L’idea iniziale era quella di trovare un tema d’attualità, di rilevanza internazionale e, allo stesso tempo, attinente ai valori intrinseci del brand. Ed è così che è emerso con decisione il classico, come valore guida del brand ma anche come una costante della storia dell’arte. Da qui nasce I’ll Be There Forever – The Sense of Classic, una mostra che intende scandagliare il tema del classico nell’arte contemporanea attraverso le opere di alcuni tra gli artisti italiani più interessanti nel panorama internazionale. Temi, interessi, fascinazioni degli artisti in mostra appartengono al repertorio classico ma declinato al contemporaneo in ritratti, paesaggi, architetture, materiali, tecniche antiche e tecnologie contemporanee. Nello specifico saranno Rosa Barba, Massimo Bartolini, Simone Berti, Alberto Garutti, Armin Linke, Diego Perrone e Paola Pivi a realizzare opere site-specific, appositamente prodotte per le stanze e le corti del prestigioso Palazzo Cusani.

Acqua di Parma - Colonia. Courtesy: Acqua di Parma In alto: Ritratto di Gabriella Scarpa, Presidente Acqua di Parma 102 | ESPOARTE 88

L’INVESTIMENTO IN CULTURA COSA RAPPRESENTA PER L’AZIENDA? COME LEGATE IL MES-

SAGGIO ALLA VOSTRA IDENTITY AZIENDALE? L’arte e la cultura da sempre contraddistinguono l’identità di Acqua di Parma, brand icona dello stile italiano. Sostenere l’arte nelle sue diverse espressioni è per il marchio un’attitudine naturale, un modo per valorizzare l’eccellenza italiana nel mondo e per condividere un patrimonio di valori con un pubblico attento e consapevole. Credo che investire nella Cultura significhi in primis dimostrare concretamente una maggiore sensibilità e attenzione alla creatività dell’uomo. La creatività è un valore troppo spesso monopolizzato o negato nella quotidianità. Supportare questo ambito significa, a livello del singolo individuo, rispondere ad un’esigenza di stimolo intellettuale e, a livello collettivo, lasciare un segno ed una testimonianza di maggior spessore e significato per il futuro. Investire in cultura è forse la modalità più premiante di rapportarsi con il proprio pubblico in maniera disinteressata.


Le modalità con cui un’azienda può investire in cultura sono molteplici a seconda del grado di coinvolgimento che desidera ottenere. In questo caso Acqua di Parma è vero e proprio produttore di una mostra di arte contemporanea. Sostenere e affiancare alcuni tra i migliori artisti italiani della scena attuale è un modo e un’opportunità per riaffermare l’impegno di Acqua di Parma nel promuovere la bellezza e le potenzialità del nostro Paese nei confronti di un pubblico internazionale. Il classico, tema centrale della mostra, è un concetto che appartiene in modo particolare all’identità italiana, un’identità di cui Acqua di Parma è portavoce nel mondo. I’ll Be There Forever – The Sense of Classic è senz’altro il culmine ad oggi di un percorso di impegno e di valorizzazione del patrimonio artistico italiano e di un’identità che in quasi un secolo di esistenza è sempre stata votata alla diffusione della cultura. L’EVENTO SI SITUA IN UN PERIODO “STRATEGICO”, COLLOCANDOSI SUBITO DOPO L’OPENING DI EXPO 2015 E L’APERTURA DELLA BIENNALE DI VENEZIA. QUALI SONO LE ASPETTATIVE DELLA VOSTRA AZIENDA RIGUARDO IL PUBBLICO

INTERNAZIONALE CHE SI PREVEDE GIUNGERÀ IN ITALIA PER PARTECIPARE AI GRANDI EVENTI DI QUESTO 2015? L’idea di inaugurare la mostra tra la Biennale di Venezia e l’opening di EXPO 2015 è frutto di una scelta strategica ben ponderata. La Biennale di Venezia rappresenta senza dubbio l’evento più significativo in Italia per l’arte, in grado di convogliare nel nostro Paese un pubblico specializzato e altamente interessato al tipo di iniziativa che abbiamo sviluppato. Dall’altra parte, EXPO 2015 rappresenta un’eccezionale occasione di visibilità internazionale per il nostro Paese e per Milano: 6 mesi di eventi, manifestazioni e attività che si stima porteranno quasi 20 milioni di visitatori. La concomitanza di queste due occasioni rende perciò il mese di maggio il momento ideale per mostrare e dimostrare l’impegno di Acqua di Parma nel campo dell’arte e della cultura ad un pubblico internazionale specializzato e non, un pubblico estremamente open-minded, interessato e anche impegnato. Per la mostra nello specifico, che sarà aperta al pubblico dal 15 maggio al 4 giugno, abbiamo grandi aspettative.

A PROPOSITO DI EXPO 2015, QUALE È IL SUO PENSIERO SULL’EVENTO SIA A LIVELLO DI IMMAGINE PER IL NOSTRO PAESE SIA IN TERMINI DI OPPORTUNITÀ PER LE AZIENDE? EXPO 2015 è senz’altro un’opportunità preziosa di visibilità per il nostro Paese. Milano, principale centro economico, e l’Italia intera, saranno al centro della scena internazionale. Un’occasione imperdibile per mostrare al mondo le nostre bellezze e potenzialità. La dimensione globale dell’evento è poi un incredibile volano per l’indotto turistico e in definitiva per quello economico. Sono tuttavia convinta che il progetto EXPO, al di là degli obiettivi di crescita economica, produrrà un fermento estremamente positivo anche a livello culturale e sociale. L’Italia saprà valorizzare le doti di creatività e intraprendenza che da sempre la contraddistinguono nel mondo. www.acquadiparma.com I’ll Be There Forever - The Sense of Classic, veduta della mostra. Diego Perrone, La fusione della campana, 2007, resina epossidica, ferro, polistirolo, cm 500x800x350. Courtesy: Massimo De Carlo, Milano/Londra. Foto: Manuele Biondi ESPOARTE 88 | 103


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MOROSO TRA DESIGN E ARTE. LA GIOVANE CREATIVITÀ ALLA RIBALTA Intervista a PATRIZIA MOROSO, ART DIRECTOR MOROSO di MATTEO GALBIATI LA SUA IMPRESA SI DEDICA AL SOSTEGNO E ALLA PROMOZIONE DELL’ARTE CONTEMPORANEA, DA DOVE DERIVA QUESTO INTERESSE? Una domanda complessa! È un interesse che deriva da lontano, legandosi a diverse personalità che, negli anni, hanno contribuito a farlo nascere e crescere. Avevo studiato al DAMS di Bologna negli anni ’80, in un clima culturale fertile e stimolante. L’arte è sempre stata una mia passione, non mi sono mai scostata da un interesse culturale verso l’espressione creativa. Dopo gli studi in Design, sono entrata in azienda e ho portato con me queste mie passioni, cercando di restituire gli aspetti della creatività nelle sue differenti sfaccettature. Non faccio distinzioni tra design, arte, foto, architettura, credo nelle persone e negli stimoli che riescono a dare attraverso le loro attività. Non ha senso, per me, pensare nei termini di una gerarchia delle arti. L’attrazione fatale per l’arte l’ho definita anche occupandomi – avendola introdotta nell’azienda e facendone un suo tratto distintivo – della ricerca delle nuove

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avanguardie, cerco il linguaggio degli sconosciuti, dei giovani. Sono aspetti che mi piacciono. Questo fronte di ricerca ha portato a quella felice contaminazione che all’arte si accompagna. La vita è una contaminazione e se ne nutre. La svolta significativa è del 2003 quando partecipammo per la prima volta al Fuori Salone: non avendo le idee chiare su cosa presentare, scelsi il giovane artista cinese Michael Lin, che avevo ammirato in una grandiosa mostra al Palais de Tokyo di Parigi. Chi lavora riproponendo in chiave pop i disegni di fiori dei tessuti tradizionali orientali che rende monumentali installazioni fuori scala. Per Spring 2003 si ispirò ai tappeti di guerra afghani degli anni ’70 e ne ripropose uno da 12x8 metri su cui dispose i suoi fiori, segni di pace e speranza. Fu una premonizione: negli stessi giorni di apertura del Salone, scoppiò la seconda guerra in Iraq. Esempio della superiorità della bellezza che deve vincere odio e bruttezza. Abbiamo poi sponsorizzato situazioni legate all’arte come mostre e convegni e,

Patrizia Moroso ritratta con: Poltrona Patrizia by Anna Galtarossa e Daniel Gonzalez; quadri by Abdu Salam Gaye; tavolo Oval table design by Tord Boontje. Foto: Alessandro Paderni


Andrea Mastrovito, vincitore Premio Moroso, New York, 2012 In basso: Martino Gamper, installazione La Metamorfosi, Hangar Bicocca, Milano, 2011 Foto: Alessandro Paderni

in modo particolare, abbiamo sostenuto la Galleria di Monfalcone che dirigeva Andrea Bruciati, lì si facevano cose in grande e, soprattutto, molto si faceva per i giovani artisti. Cosa che era in perfetta sintonia con la linea della nostra azienda. MOROSO PROMUOVE IL MOROSO CONCEPT PER L’ARTE CONTEMPORANEA, COME NASCE E A CHI SI RIVOLGE? Andrea Bruciati lavora al Premio nel segno di una continuità con la promozione dell’arte e dei nuovi talenti emergenti. La Galleria di Monfalcone, che ad un certo punto ha sofferto l’assenza di finanziamenti, ha potuto proseguire la propria attività grazie a questo premio, un modo per sostenere la vita di uno spazio pubblico che ha sempre promosso la creatività dei giovani. Una cosa questa per me fondamentale, è la mission della nostra azienda. Si deve creare un terreno fertile per il futuro, questo era il modo che abbiamo trovato per alimentarlo. Quando la Galleria ha definitivamente chiuso, il Premio è diventato autonomo

e indipendente, legandosi e appoggiandosi in toto all’azienda. Abbiamo, poi, scelto di renderlo Biennale per migliorarne la struttura; la cadenza annuale ci costringeva a tempi serrati e, senza l’appoggio dello spazio istituzionale, diventava per noi complesso da gestire. Siamo alla quarta edizione e constato con gioia che gli artisti che hanno vinto sono andati in giro per il mondo, hanno diffuso il loro messaggio, hanno espresso la loro arte in contesti più ampi ed allargati. Il Premio Moroso deve essere l’opportunità per far compiere ai giovani un passo decisivo, una svolta, alle loro ricerche. COSA CI DICE DELL’EDIZIONE 2015? È ancora sotto sorveglianza! Siamo, al momento, in attesa dei risultati della giuria, quindi, non sono in grado di fare pronunciamenti. Posso dire che la preselezione è stata fatta da importanti gallerie che hanno individuato e nominato giovani artisti per merito e che non sono della loro scuderia. Dei 36 artisti scelti l’artista selezionatore – Marina Abramović – con Andrea Bruciati ha ristretto a 12 il numero di giovani talenti da sottoporre alla giuria. Questa è composta da esperti del settore di altissimo livello e di fama internazionale e annovera critici, direttori di musei, architetti, un designer e un art director. Tutte persone che, comunque, sono correlate con l’artista selezionatore, questo per creare un insieme coerentemente attento. QUALI SONO I PRODOTTI CHE CARATTERIZZANO LA VOSTRA AZIENDA?

L’azienda si occupa essenzialmente della produzione di oggetti imbottiti e qualche complemento. Puntiamo sulla qualità, sul design e, come dicevo, sulla ricerca e la sperimentazione che, spesso, si pone in una linea non propriamente commerciale. In questo senso, molti dei nostri prodotti vogliono portare un progetto d’avanguardia a trasformarsi in un prodotto commerciale. EXPO MILANO 2015 È PROSSIMO ALL’APERTURA: PUÒ ESSERE UN’OCCASIONE PER L’IMPRENDITORIA ITALIANA? COSA PENSA DI QUESTA MANIFESTAZIONE E COSA PUÒ ESSERE PER LA SUA AZIENDA? Può essere un’occasione se s’intende il cibo non solo nel senso materiale e alimentare, ma anche culturale, capendo che quello immateriale ci fa vivere bene. Per questo Expo è occasione per tutti: l’Italia è cibo, ma anche cultura, arte, natura, paesaggio. Dobbiamo farci conoscere per le migliori nostre capacità, quelle che hanno portato il Made in Italy ad essere celebrato, e invidiato, in tutto il mondo. Noi italiani non possiamo concepire un prodotto mediocre o di base come fanno in altri paesi, questo non ci appartiene. Siamo quasi destinati per legge a produrre prodotti di altissimo livello. Siamo legati al nostro saper fare e fare bene, una cosa che si radica nei secoli. Questo ci premia, l’eccellenza. Dobbiamo rimanere questo. Ed Expo può essere la giusta vetrina per rinnovare l’unicità del nostro primato. www.moroso.it ESPOARTE 88 | 105


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IL “CASO BONOTTO”. INTRECCIO TRA ARTE E INDUSTRIA Intervista a LUIGI BONOTTO, FONDATORE E MEMBRO DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DI BONOTTO S.P.A. di FRANCESCA DI GIORGIO QUANDO SI PARLA DI ARTE E IMPRESA L’ATTENZIONE È ASSORBITA DA CIÒ CHE L’AZIENDA FA IN AMBITO CULTURALE. RIBALTO LA PROSPETTIVA E LE CHIEDO, INVECE, COSA HA FATTO L’ARTE PER LA SUA AZIENDA... Gli uomini di cultura che hanno frequentato Casa Bonotto hanno permesso alla mia famiglia di approcciarsi alla produzione e alla gestione stessa dell’azienda con idee innovative, in cui la cultura della ricerca e della sperimentazione sono centrali. E questo sia a livello di prodotto, sia di investimenti produttivi e commerciali e anche in termini di sviluppo dei rapporti personali all’interno e all’esterno dell’azienda. L’influenza concettuale esercitata dagli artisti è talmente profonda che è molto difficile da definire. Certamente la cosa più importante è la disposizione a mettere ogni giorno in discussione quanto fatto. COLLEZIONISTA D’ARTE ED IMPRENDITORE. SI RICORDA IL MOMENTO CHE HA PORTATO

ALL’UNIONE DELLE DUE ANIME? È stato un processo naturale e progressivo. All’inizio non c’era nessuna intenzione di fare il collezionista. A un dato momento mi sono reso conto che i doni ricevuti dai miei amici artisti occupavano tutta la casa, impedendomi di muovermi. A quel punto, mi sono reso conto di avere una collezione ed è nata in me l’idea di valorizzarla e completarla ricercando documenti e opere mancanti per ricostruire una stagione culturale che ho avuto la fortuna di vivere anche da protagonista (Fondazione Bonotto nasce nel 2013 per promuovere la Collezione Luigi Bonotto che dai primi anni ‘70 ad oggi ha raccolto numerosissime testimonianze tra opere, documentazioni audio, video, manifesti, libri, riviste ed edizioni di artisti Fluxus e delle ricerche verbo-visuali internazionali sviluppatesi alla fine degli anni ‘50. È al momento in corso, alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, la mostra Fluxbooks. From the

Sixties to the Future Artists’ books from the Luigi Bonotto Collection, n.d.r.). Ciò che mi ha spinto è stata la volontà di preservarne la memoria. Per questo ho reso liberamente accessibile online tutta la collezione. Spero che questa mia azione sproni ad una rivalutazione di tutti questi pensieri racchiusi nelle creazioni artistiche (purtroppo non ancora adeguatamente riconosciuti a livello storico) e stimoli la produzione di nuova cultura e nuova arte. Dall’altra parte l’azienda, grazie a questi continui stimoli, che hanno formato anche i miei figli che ora ne sono al comando con competenza, è cresciuta ed ha avuto la forza o l’intuizione di percorrere strade considerate all’epoca stravaganti ma che si sono rivelate centrali. Da una lato la conservazione delle caratteristiche del prodotto italiano, mettendo in primo piano la sapienza creativa artigianale senza rincorrere la chimera dei costi di produzione ridotti. Dall’altro lato, lo stimolo a perseguire una

Luigi Bonotto, ritratto nella Biblioteca di Fondazione Bonotto, Molvena (VI) 106 | ESPOARTE 88


Veduta di un telaio alla Bonotto S.p.a. In basso: Veduta della mostra Fluxbooks. From the Sixties to the Future Artists’ books from the Luigi Bonotto Collection, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia; George Maciunas, FluxPack 3

continua ricerca innovativa, sia sul piano degli aspetti tecnici del prodotto (utilizzo di nuove fibre, sviluppo di performances tattili e di vestibilità, ecc...), sia sul piano estetico. TRA I TANTI PUNTI FERMI DELLA FONDAZIONE BONOTTO QUELLO DI “SVILUPPARE IL RAPPORTO TRA IL MONDO DELLA PRODUZIONE ARTIGIANALE E INDUSTRIALE E IL SISTEMA DELL’ARTE” È FORSE IL PIÙ ARTICOLATO. COME SI PERSEGUE OGNI GIORNO QUESTO OBIETTIVO? Sinceramente non lo so spiegare. Per me, come dicevo, è stato un processo naturale e non ne conosco bene le dinamiche. Forse per questo è nata l’idea di istituire una fondazione che studi e sviluppi questo concetto. Certamente non è l’acquisto di un’opera d’arte, che spesso diviene l’immagine della propria azienda, che crea un rapporto produttivo e profondo. I concetti espressi nell’opera sono molto più importanti dell’opera stessa. Di conseguenza è più forte l’atteggiamento di curiosità e apertura verso le motivazioni che stanno alla base della creazione artistica contemporanea che non il possesso dell’oggetto stesso. Voglio dire che il rapporto arte e industria può esistere anche senza una collezione.

amministratori pubblici e privati. Questo dovuto in gran parte al disinteresse della politica. Purtroppo non esistono attualmente strumenti legislativi e fiscali a sostegno delle iniziative culturali. Probabilmente perché investire in cultura e in arte contemporanea non ha un ritorno immediato di immagine a livello mediatico, come può averlo un investimento per il recupero di un bene storico largamente conosciuto. Salve rare eccezioni. Comunque l’intervento privato a sostegno dell’arte contemporanea è dato di fatto storico. Da sempre i privati hanno sostenuto, attraverso le loro collezioni, lo sviluppo dell’arte ad essi contemporanea. Il privato

è stuzzicato ad investire più in opere visibili e conosciute (anche contemporanee) che a svolgere un vero lavoro di mecenatismo. In buona sostanza si è più attenti al ritorno di immagine, sempre più plasmato dai media stessi, che alla reale importanza dell’opera e dei concetti espressi. A PROPOSITO DI AZIENDE... UNA BATTUTA SULL’EXPO 2015? Le iniziative nell’ambito artistico a cui sono stato invitato a partecipare mi hanno sorpreso per la loro mediocrità e banalità. www.bonotto.com www.fondazionebonotto.org

I TESSUTI BONOTTO ENTRANO NELLE PIÙ GRANDI MAISON DI MODA INTERNAZIONALI. OGGI MOLTI DI QUEI BRAND SONO DIVENTATI GRANDI INVESTITORI PRIVATI IN AMBITO CULTURALE CON PARTICOLARE ATTENZIONE AI BENI STORICO-ARCHITETTONICI DEL NOSTRO PAESE. COME VEDE GLI INTERVENTI PRIVATI IN CULTURA E NELLO SPECIFICO NELL’ARTE CONTEMPORANEA? Purtroppo viviamo in un periodo in cui l’arte e la cultura contemporanea non godono di interesse ed attenzione da parte degli ESPOARTE 88 | 107


open studios di ANNA LISA GHIRARDI

VELASCO VITALI I LUOGHI DELL’IMMAGINAZIONE Visitiamo, nel quartiere di Dergano a Milano, lo studio di Velasco Vitali: uno spazioso edificio industriale dipinto di bianco con copertura a shed dalla quale scende luce zenitale. Il chiaro involucro è animato da molteplici opere: sculture, dipinti, fotografie, installazioni. Come l’artista ci racconta siamo in un luogo di scoperta, di ricerca e di distruzione. NEL TUO INTERVENTO DEDICATO A MEDARDO ROSSO, SUL CORRIERE DELLA SERA DEL 25 FEBBRAIO, HAI AFFERMATO CHE LO STUDIO DELL’ARTISTA «È LUOGO DI SCOPERTA, DI RICERCA E DI DISTRUZIONE. [...] È LUOGO DELL’INATTESO. È IL VUOTO. È LA POLVERE CHE PRENDE VITA. È UN SET CINEMATOGRAFICO. È

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L’ANGOLO DELLA MESSINSCENA. A VOLTE NON HA NEPPURE UNA FORMA FISICA O ARCHITETTONICA, SOLO SPAZIO CEREBRALE». COSA INTENDI PER LUOGO DELLA DISTRUZIONE? Nel 2012, nello studio di Milano, è successa una cosa insolita che mi ha portato a rileggere l’accaduto in termini metaforici, anziché tragici. A fianco allo studio hanno costruito un grattacielo e hanno realizzato addossato alla parete un garage, utilizzando il muro di confine come paratia di cassero, quella parete però non ha retto ed è crollata. Con Francesco Clerici, il regista del film Il gesto delle mani, abbiamo messo una telecamera fissa di fronte al crollo mentre i pompieri toglievano i quadri dalle macerie e dal calcestruzzo. Nei giorni

Studio di Velasco Vitali, Milano Nella pagina a fianco: Velasco Vitali nel suo studio di Milano. Foto: Francesco Clerici


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successivi Francesco ha montato il film e quando e quando l’abbiamo pubblicato in molti si sono complimentati per l’installazione. Il titolo che ho dato a questo breve film è quello di una città abbandonata che fu ricoperta dalle sabbie del deserto, Kolmanskop. Mi è parso che l’analogia fosse perfetta per raccontare un evento che sembrava inventato. È un tentativo di applicare alle cose che ci appaiono eccessivamente tragiche, uno sguardo diverso, più ironico. Del resto il compito dell’arte è quello di cercare di spostare il punto di vista. La notte del crollo ho dormito lì, la mattina alle 6 ho sentito delle voci e visto due muratori affacciati allo squarcio, che commentavano l’accaduto chiedendosi cosa fosse questo luogo. Lo studio dell’artista non è uno spazio facilmente identificabile, riconosciamo immediatamente officine, farmacie ma se qui venisse una persona comune si chiederebbe per quale ragione ho bisogno di tutti questi metri quadrati per metterci dentro cose che non hanno senso nella vita. Lo studio quindi non è luogo di distruzione dell’anima, all’artista infatti non va portato rispetto in quanto tormentato, i tormenti della vita stanno altrove, noi artisti dovremmo averne coscienza. HAI DUE STUDI, UNO A BELLANO – DOVE VIVI – E UNO A MILANO, REALIZZI IN ESSI DIVERSE TIPOLOGIE DI OPERE? A Milano, data l’ampiezza dello spazio, posso dipingere quadri di grande e grandissima dimensione, nello studio di Bellano farei più fatica, ma non considero il 110 | ESPOARTE 88

luogo un eventuale ostacolo al lavoro. A Bellano ho un’officina attrezzata per la lavorazione del ferro, saldature e patine le faccio esclusivamente là. In realtà non ho mai sentito il bisogno di differenziare gli studi in funzione delle lavorazioni che mi servono, fonderie, carpenterie e falegnamerie suppliscono a questo scopo... Non sento per nulla l’influenza degli ambienti, ho lavorato ovunque e tuttora mi capita di lavorare in giardino o in salotto. ESISTE SECONDO TE UNA CITTÀ IDEALE? In Triennale, quando ho presentato il progetto delle città fantasma, ho preso ad esempio Campomaggiore Vecchia, chiamata anche “città dell’utopia”, un luogo dove tutto era a misura d’uomo, ma poi è stata distrutta da una frana. Da un punto di vista teorico e progettuale la città ideale esiste, da un punto di vista pratico forse no. Il progetto fallisce in relazione alle esigenze e agli egoismi degli abitanti. Questa riflessione è in apparenza fin troppo scontata, ma ho visto di recente la mostra sulla Grande Guerra al Mart, c’è un bellissimo quadro di Orlan, che risolve con un ribaltamento d’immagine questo concetto. L’artista ripete il quadro di Courbet, L’origine del mondo, sostituendo al sesso femminile quello maschile (in erezione) e lo intitola L’origine della guerra. L’ho trovato di una correttezza didascalica perfetta. ALLA XXV BERLINALE, NELLA SEZIONE FORUM, IL DOCUMENTARIO IL GESTO DELLE MANI DEL REGISTA FRANCESCO CLERICI SI È AGGIUDICA-

Frame da Il gesto delle mani, un film di Francesco Clerici, 2015


Studio di Velasco Vitali, Milano

TO IL PREMIO FIPRESCI. IL LUNGOMETRAGGIO SEGUE IL PROCESSO DI CREAZIONE DI UNA TUA SCULTURA PRESSO LA FONDERIA ARTISTICA BATTAGLIA DI MILANO. COME AFFERMI, LA MANUALITÀ TI OSSESSIONA E IL TITOLO DEL FILM RIPRENDE UN PENSIERO DI GIACOMO MANZÙ: «LA SCULTURA NON È UN CONCETTO. LA SCULTURA È IL GESTO DELLE MANI […]». CHE VALORE HA PER TE QUESTO DOCUMENTARIO NELL’AMBITO DELL’ARTE CONTEMPORANEA, CHE SEMPRE PIÙ SI STA ALLONTANANDO DALLA NECESSITÀ DEL FARE? La tecnica è un processo sul quale ho investito molto, rischiando per questo di essere considerato fuori luogo e fuori tempo, ma mi dà delle certezze ed è un linguaggio e un metodo che tutt’ora mi appartiene. Anche questo argomento invade i temi del contemporaneo, l’artista deve avere coscienza di quello che fa, anche se in fondo l’arte non è poi così necessaria. La tecnica è per me fondamentale, impone sapienza ed esperienza, ed è anche linguaggio. Lavoro in maniera emotiva, diretta sulla materia, ma in realtà tutto ci che faccio non ha nulla di casuale. Cerco di prevedere il punto di arrivo e tutto il processo di realizzazione deve diventare una pratica quotidiana, ovvia, un’azione semplice

come chiamare l’idraulico per aggiustare il rubinetto. NEL FILM HAI SCELTO DI MOSTRARE LA CREAZIONE DI UNO DEI TUOI CANI, È PER UN’ESIGENZA PURAMENTE FORMALE O ANCHE PER UNA VALENZA SIMBOLICA? È una scultura non un cane; è come la Pipa di Magritte. Posso assegnare alla mia opera tutti i significati che voglio, ma preferisco siano gli altri ad attribuirli. Preferisco chiamarla scultura, modellarla, metterle delle bende o delle correzioni, senza considerare che è un cane. Vorrei essere un “asino scolastico” come lo era Arturo Martini che ha ripetuto per cinque anni la prima e la seconda elementare, come lo era Manzù. Ho l’orgoglio di appartenere a questo mondo di “capre”, come direbbe Sgarbi, e delegare tutta la conoscenza all’abilità manuale. Nel film s’è voluto raccontare quel processo tecnico attraverso una scultura che nel mio lavoro è diventata un simbolo, lo si capisce in un breve, ma fondamentale, accenno finale. Il regista non cerca mai i significati e le metafore dell’opera, ma lavora per sottrazione. Io stesso sono volutamente assente nel film. Importante sembra essere lo scenario, la fonderia e chi ci lavora. ESPOARTE 88 | 111


Velasco Vitali nato a Bellano sul Lago di Como nel 1960. Vive a Bellano e lavora tra Bellano e Milano. www.velascovitali.com

DIREI CHE IN QUALITÀ DI ARTISTA SEI NELLA TUA OPERA... Questo lo decide chi guarda il film. Pochissimi artisti riescono a farsi carico del progetto dell’opera e del linguaaggio che utilizzano. È un’altra delle mie ossessioni, sono convinto di ciò che sto facendo e delle ragioni che generano un’idea. La cosa straordinaria dell’arte è che tra l’opera finita e le intenzioni di chi l’ha progettata c’è uno scarto, è lo spazio per nuovi significati. L’arte deve dare una possibilità di fuga, una nuova via per la percezione, collocandola su un livello diverso dalla quotidianità. Per questo l’arte si vende. Chi l’acquista credo che lo faccia per avvertire uno spostamento o una suggestione diversa... Ed è incredibile come, al contrario, non costi nulla eseguirla. Metà di queste cose che

vedi in studio sono fatte con lo scarto, i primi cani sono stati fatti con lo smontaggio di parte del ferro dell’allestimento della mia mostra a Palazzo della Ragione, era lo zoccolo di lamiera che avevo creato per coprire i fan coil del riscaldamento. IN QUANTO PRODUTTORE, CON IL REGISTA HAI VOLUTO E PENSATO QUESTO FILM. QUALE È, SECONDO TE, LA SUA FORZA? Il senso di questo film è tutto assegnato al sonoro e all’immagine. La forza sta nel mistero della storia. Per quale ragione ti tiene inchiodato 77 minuti? Perché c’è un tizio che sta facendo un’opera (ed abbiamo già detto perché siamo interessati all’opera d’arte)? O perchè quest’opera ad un certo punto sparisce tra le mani di altri o nascosta da qualche parte? Che sia ter-

ra refrattaria, forni, fornace... Insomma a ben guardare non la si vede mai, si sta ad aspettare che venga fuori qualcosa. Infine te la trovi bella e fatta, senza conoscerne realmente il processo, vedi il ‘bronzo di Riace’ finito! Quella è la parte che più ci appassiona. Come nell’arte, te la trovi fatta, finita e non capisci da dove arriva. Questo motivo resterà eterno. Se ce la fai a narrarlo in un film, hai raccontato cosa significa un’opera d’arte. C’è forse un’analogia con un fazione teatrale che Robert Rauschenberg eseguì nel 1961. Salì sul palco con una tela bianca, un microfono e una sveglia, questa serviva a determinare la fine dell’azione. Teneva il quadro girato in modo che non lo si vedesse, il pubblico poteva solo sentire il fruscio delle pennellate amplificato dalla vicinanza del microfono alla tela e assisteva in silenzio, quasi rapito dall’evento, nell’attesa di vedere cosa succedesse. Alla fine Rauschenberg con il suo assistente portarono via il dipinto senza farlo vedere. Forse l’arte in sintesi è questa scena. Quello che riesci a far immaginare, lasciando nelle mani dello spettatore la parte di racconto da terminare. È una grande possibilità.

Dall’alto: Studio di Velasco Vitali, Bellano. Foto: Alessia Perego Velasco Vitali nel suo studio di Bellano 112 | ESPOARTE 88


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ANDREA MASTROVITO intervista di ANTONIO D’AMICO

QUI C’È ANCORA POSTO PER SOGNARE A OCCHI APERTI Nell’ultima produzione di Andrea Mastrovito si assiste a qualcosa di inversamente proporzionale rispetto al desiderio da sempre perseguito dagli artisti. Con un uso sapiente e calligrafico della matita, Andrea disegna su sculture bianche di gesso e, pur cercando la tridimensionalità del segno nella forma, la annulla. Il risultato è avvincente e l’illusione è assicurata. Bergamasco d’origine ma newyorkese d’adozione, lo inseguo al telefono tra un evento e l’altro, tra un appuntamento in galleria a Chelsea e il fuso orario, e scopro una personalità dai valori che hanno il retrogusto di antichi e genuini sapori. FINO AL 17 MAGGIO È DI SCENA UNA TUA PERSONALE A ROMA AL MUSEO ANDERSEN, DAL TITOLO HERE THE DREAMERS SLEEP, CHE IN ITALIANO SUONA COME, QUI DORMONO I SOGNATORI E UNO DI QUESTI È MARAT, RIPRESO IN CONTROPARTE, DAL DIPINTO DI JACQUES-LOUIS DAVID. NON È UN RECUPERO DELL’ARTE ANTICA, BENSÌ UN DIALOGO CON LA STORIA? La mostra è tutta incentrata sul crollo del sogno e la vittoria della realtà su di esso, ed è ricca di tanti riferimenti alla storia e alla storia dell’arte, dal David di Michelangelo a Goya a Duchamp. La figura di Marat rappresenta il crollo degli ideali della rivoluzione e l’inizio del terrore con tutte le conseguenze per la Francia. Infatti Marat è rappresentato come se dormisse e di fronte a lui ho voluto inserire Fraternité, uno degli otto collage esposti in mostra, ripreso esattamente da un quadro di Andreas Andersen, il fratello di Hendrik Christian, in cui si vede lo scultore addormentato a letto durante il risveglio, dipinto nella stessa posizione di Marat. Nelle varie sale della mostra, poi, le quattro statue che sono riprese dall’arte antica ma in una versione più kitsch di statuaria da giardino, man mano crollano, come in un giro di valzer e raffigurano i componenti della famiglia Andersen: Andreas, morto giovane, Hendrik, Olivia ed Helen. L’idea fondamentale è di far vedere la potenza del disegno eseguito sulle sculture, che è capace di cancellare il supporto tridimensionale. Passando dalla terza dimensione alla seconda, semplifico i concetti, anche perché, la questione dei diversi piani di lettura, nel mio lavoro, è essenziale e penso che il disegno sulle sculture si colleghi bene all’idea di collage che porto avanti da tanto tempo. L’idea originaria è nata difatti da una lettura del mio lavoro fatta insieme a Marco Bazzini ed Eugenio Viola, i due curatori della mostra che è stata realizzata col supporto di Boxart, Verona, la galleria che ha seguito in ogni fase il mio progetto con grande attenzione e professionalità. LA TUA ARTE PARLA DELL’UOMO E ALL’UOMO CONTEMPORANEO CERCANDO DI TOCCARE ALCUNE CORDE PARTICOLARMENTE SIGNIFICATIVE DELLA VITA. RECENTEMENTE SEI STATO INVITATO A CONFRONTARTI CON LA DECORAZIONE DI UNA CHIESA, AFFRONTANDO UN SOGGETTO CHE 114 | ESPOARTE 88

Andrea Mastrovito, Here the dreamers sleep, vedute della mostra, Museo H.C. Andersen, 2015. Foto: Giorgio Benni. Courtesy: Boxart, Verona In basso: Andrea Mastrovito, Dreamers 1, 2015, grafite su statue in cemento, dimensioni variabili. Foto: Giorgio Benni. Courtesy: Boxart, Verona


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DIFFICILMENTE È AMATO DAGLI ARTISTI DI OGGI. CHE TIPO DI ESPERIENZA È STATA? QUAL È IL TUO RAPPORTO COL SACRO? Devo senz’altro ammettere che il mio intervento è stato facilitato da due fattori determinanti. Da un lato, la struttura stessa della Chiesa, progettata dallo studio Traversi: un white cube illuminato da un lucernario che corre lungo tutto il perimetro del tetto. Una struttura quasi intonsa pronta ad essere modellata dall’intervento artistico, così come nelle gallerie (e così come succedeva nelle vecchie commissioni ecclesiastiche da Cimabue e Giotto in poi...). Dall’altro, il lavoro di Stefano Arienti sulle pareti laterali e su quella d’ingresso: un giardino sovradimensionato scavato direttamente nel calcestruzzo, accennato in grigio su bianco. L’intervento di Stefano, delicatissimo e potente al contempo, ha fatto da cornice naturale al mio lavoro, permettendomi di realizzare qualcosa di unico nel suo genere: l’idea delle vetrate, sagomate e sovrapposte su decine di livelli per tutti i dieci metri d’altezza dell’abside centrale, è stata realizzata grazie all’intervento di un maestro vetraio unico al mondo, Lino Reduzzi, col quale ho collaborato per tre anni di lavoro intensissimo e con risultati sempre incerti. Al contempo la tecnica della grisaille si è dimostrata efficace ma difficilissima da apprendere. A tutto ciò va aggiunto questo pensiero che mi ha accompagnato per tutto il tempo di realizzazione dell’opera: questa è la Chiesa di un ospedale, e davanti a queste figure, a questo Cristo, a questa Madonna, migliaia di persone ogni anno metteranno in gioco la propria vita, pregando, sperando, credendo, o disperandosi. Avevo affrontato spesso, nel mio lavoro, il sacro e la religione, dalla serie dei Martyres del 2011 al libercolo Gesù di Bergamo, sino ad altri disegni e collages sulla figura di Cristo. Ma non avevo mai avuto tanta responsabilità. Ho risolto il tutto cercando di rendere al massimo l’umanità dei personaggi, e facendo sì che splendessero di luce propria, utilizzando sia il vetro sia il fondo d’oro, in maniera tale che risultassero umani e divini al contempo, creando una sorta di finestra atemporale sul sacro – più che sul religioso in sé – dove tutto il dolore della passione del Cristo si raccoglie nello sguardo inerme della Vergine sotto la croce e la luce che pervade la scena risulti una promessa di redenzione già nel momento del dolore più estremo, come nella versione Giovannea del racconto della Crocifissione. 116 | ESPOARTE 88

Andrea Mastrovito, veduta dell’installazione permanente nella Chiesa di San Giovanni XXIII, Bergamo, 2011-2014. Grisaille su multistrato di vetro sagomato, acciaio, foglia d’oro, m 12x10x2. Foto: Maria Zanchi Nella pagina a fianco: Andrea Mastrovito, Sans titre, 2014, acrilico e collage su tela foderata con carta, cm 45x61. Courtesy: Art Bärtschi & Cie, Ginevra. Foto: Maria Zanchi


DA QUESTA RISPOSTA DEDUCO CHE SEI CREDENTE. SECONDO TE COME MAI GLI ARTISTI CONTEMPORANEI SI AVVICINANO ALL’ARTE “SACRA” CON SEMPRE PIÙ RISERBO E, A VOLTE, DISTACCO? Sì, in effetti ho un rapporto molto intimo con la religione, anche se la fede è qualcosa di estremamente difficile e miracoloso... Perché gli artisti si avvicinano all’arte sacra con riserbo e distacco? Direi piuttosto che è il contrario, è stata la Chiesa per cento e passa anni ad allontanarsi con riserbo e (sempre maggior) distacco dagli artisti e, spesso, dalla vita reale. Anche se non mancano, nel Novecento e negli anni Duemila, interventi magistrali di grandi artisti nelle chiese: da Rouault a Matisse, da Dan Flavin a Bill Viola, da Chia a Gerard Richter fino a, restando in Italia, Cingolani, Arienti ed Airò, negli ultimissimi anni. Siamo in buona compagnia, dai. QUANDO E COME MAI HAI SCELTO DI VIVERE A NEW YORK? Ero piccolino e stavo guardando Highlander. Giusto perché la colonna sonora era dei Queen e io li adoravo. Ad un certo punto un pezzo sconosciuto, durante la folle corsa in taxi contromano: la voce di Freddie Mercury che canta “If I can make it there I’ll make it everywhere, it’s up to you, New York, New York...”. Non c’era ancora internet all’epoca, niente file rubati e quindi questa versione, accennata, di New York New York di Freddie Mercury rimase per anni una sorta di sacro graal nella mia testa. E mi rimase impressa quella frase: se puoi farlo a NY, puoi farlo dappertutto. E tanti anni dopo, eccomi qui. Ci provo!

Andrea Mastrovito è nato nel 1978 a Bergamo. Vive e lavora a New York. www.andreamastrovito.com Eventi in corso (IN ITALIA): Andrea Mastrovito. Here the dreamers sleep Museo Hendrik Christian Andersen Via Pasquale Stanislao Mancini 20, Roma 20 febbraio - 17 maggio 2015 www.museoandersen.beniculturali.it Inside the matter, collettiva Fondazione Rivoli2, Milano 17 aprile - 23 maggio 2015 Gallerie di riferimento: Galleria Giuseppe Pero, Milano www.giuseppepero.net Art Bärtschi & Cie, Ginevra www.bartschi.ch

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Omaggio a

MARIA LAI LEGGERA COME UNA FARFALLA, PROFONDA COME UN ABISSO: UNA JANA DI NOME MARIA Introduzione di Gaia Vettori Interviste a MARIA SOFIA PISU, BARBARA CASAVECCHIA e LORENZO GIUSTI a cura di MARCELLA FERRO

Martedì 3 marzo 2015, nella cornice del Museo del Tessuto di Prato, è avvenuto un piccolo miracolo: centinaia di persone si sono riunite per celebrare la soave grandezza di una delle più importanti artiste italiane: Maria Lai. L’occasione è stata la presentazione del catalogo della mostra Ricucire il Mondo (11 luglio - 12 ottobre 2014, ndr), retrospettiva dedicata all’artista sarda. L’Ordine degli Architetti della Provincia di Prato ha ospitato Lorenzo Giusti, Direttore del Museo MAN di Nuoro e curatore – insieme a Barbara Casavecchia – della mostra, e Antonio Marras, celebre stilista nonché amico intimo di Maria Lai. Nata ad Ulassai (OG) nel 1919 e scomparsa 94 anni dopo, durante la sua lunga vita

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Maria Lai ha prodotto centinaia di opere: dai più piccoli oggetti da lei creati e spesso donati ai propri amici, passando per i libri cuciti, i telai, i pani, fino ad arrivare, dagli anni Ottanta in poi, ad imponenti interventi di arte pubblica ed ambientale, anticipazioni inconsapevoli di quella che, nel decennio successivo, verrà definita Public Art. L’incontro, dal carattere informale, è stato un’occasione non solo per presentare parte del percorso della mostra Ricucire il mondo – divisa su tre sedi, Cagliari, Nuoro ed Ulassai – ma anche l’opportunità per conoscere in modo più approfondito la Maria Lai artista e donna, jana (fata in sardo) delicata ed operosa, come definita dall’amico Marras. Grazie alla sinergia degli interventi di Giusti

e Marras, ne è emerso un ritratto che ha rievocato la dolce armonia dell’artista sarda, il cui leggiadro canto squarcia il nostro essere e riempie quel vuoto di una certa dose di completezza universale che altrimenti ci sfuggirebbe. La sua arte affonda le radici nelle brulle terre sarde, nei silenzi e nei racconti del luogo, nelle tradizioni laboriose e artigianali, sublimandoli in suggestioni dal carattere collettivo: l’artista, seppur inequivocabilmente influenzata dal genius loci sardo, ha però la capacità di intonare un canto universale, le note del quale sono come varchi attraverso cui il “grande mondo” entra nel nostro piccolo universo di “formiche brulicanti”, come soleva dire Maria. La sintesi di questa poetica è rappresentata


da uno dei suoi più importanti interventi: l’opera comunitaria Legarsi alla montagna del 1981, anno nel quale l’artista riuscì a coinvolgere il suo intero paese natio, Ulassai, e – con ben 26 chilometri di nastro azzurro – tracciò il profilo relazionale della comunità, le cui case vennero via via legate tra di loro fino a che la striscia di tessuto color cielo venne portata su per la montagna minacciosa che sovrasta la cittadina. Basata su di un racconto locale, Legarsi alla Montagna – opera alla quale è stato non a caso dedicato largo spazio durante l’incontro – assurge a metafora di arte che può offrire la salvezza perché capace di unire e legare gli individui e di parlare una lingua universale le cui radici filologiche si perdono nella notte dei tempi e, quindi, in un’origine uguale per tutti. Leggera come una farfalla e profonda come un abisso, Maria danza nel cielo disegnando percorsi di vita e di armonia, invitandoci a seguirla, nella speranza che possa esserle finalmente tributato il giusto riconoscimento nella storia dell’arte contemporanea. Ripercorriamo ora insieme la vita e l’arte di Maria Lai attraverso le testimonianze di chi ha conosciuto la donna e l’artista e di chi contribuisce a diffondere la sua voce, portando alla luce il suo ricco ed intenso percorso creativo.

Maria Lai nel suo studio a Cardedu, 2004. Foto: © Daniela Zedda In basso e nella pagina a fianco: Maria Lai, Legarsi alla montagna, 1981. Collezione Privata. Courtesy: Galerie Isabella Bortolozzi, Berlino

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IL PENSIERO DI UNA VITA, LA VITA DI UN PENSIERO Intervista a MARIA SOFIA PISU, nipote di Maria Lai di MARCELLA FERRO Maria Sofia Pisu non è solo la nipote di Maria Lai. Ne ha condiviso idee, progetti e silenzi. Posando per lei sin da bambina e condividendo gli spazi dei suoi studi. Era come un’altra mamma con un filo continuo di dialogo, gioco e mutua presenza. Depositaria degli ultimi respiri di un’artista ricamata sulla roccia. IN TUTTE LE OPERE DI MARIA LAI SI LEGGONO CHIARI I SIMBOLI DELLA SUA TERRA, LE

JANAS, LA CAPRETTA, LA ROCCIA, IL CIELO INFINITO E BUIO, IL FILO. QUESTO COSTANTE RITORNO ALL’ISOLA ERA PER LEI UNA QUESTIONE NOSTALGICA, DI RIBELLIONE ALL’ABBANDONO ISTITUZIONALE DEL TERRITORIO O L’ESIGENZA DI RITROVARE NELLE PROPRIE RADICI IL VALORE DELL’UNIVERSALITÀ DEL PENSIERO? Maria non ha mai parlato di nostalgie. Era una persona che viveva intensamente il suo presente, ed era sempre volta ad un futuro, che non riguardava solo se stessa ma l’umanità. Cercava tra i libri dei filosofi e degli scienziati le risposte per esplorare, sempre più a fondo, i misteri dell’animo e dell’universo. Anche quando era a Roma, e continuava ad esercitarsi nel disegno e rappresentava paesaggi astratti, se le si faceva notare che attingeva alla sua terra, lei argomentava che la Sardegna era un luogo privilegiato per l’arte perché ancora custodiva la preistoria. Questo non significava che si sentisse solo interprete del mondo isolano. Dalla preistoria traeva i fili conduttori per comprendere e disegnare un mondo moderno, attuale. Si rifiutava di partecipare a mostre che coinvolgessero solo artisti sardi, così come ha resistito a lungo a negarsi per mostre di sole donne. Sosteneva che l’artista è in sé uomo e donna, non può essere limitato ad un genere e ad un luogo.

Maria Lai, Ritratto di Maria Sofia, 1952, gesso e cera, cm 20x28. Collezione privata 120 | ESPOARTE 88

“L’ARTE DEVE DEPOSITARSI PER PRODURRE INTERATTIVITÀ”, QUESTE ALCUNE FRA LE SUE PAROLE PIÙ INDICATIVE. CHE COSA INTENDEVA PRECISAMENTE? Questo era un argomento chiave, ricorrente, nei suoi dialoghi e appunti. Riteneva che l’artista non sa quello che fa, nel senso che non è del tutto consapevole della sua traiettoria, le opere parlano da sole, ma solo se l’artista è stato capace di estraniarsi. Per questo è necessario il silenzio e la solitudine (non l’isolamento), il tempo. L’opera è valida solo se suscita letture, approfondimenti, dialoghi interiori, crescite. Con il termine “interattività”, si può intendere anche un altro aspetto del mondo dell’arte, cioè il fatto che l’artista è sempre un “ladro”. Asseriva questo, scandalizzando i più, per dire che ogni artista capta e riprende argomenti proposti da altri artisti, percorre vie già tracciate da altri per poi trovare proprie strade e nuovi linguaggi. UNA DOMANDA PERSONALE. AVENDO LAVORATO GOMITO A GOMITO CON LEI NON POTETE NON ESSERVI EDUCATE A VICENDA. LE SUE OPERE TI STUPISCONO ANCORA? Sì, questa è una scoperta che mi stupisce ogni giorno. Lei non è più fisicamente qui ma la sento in realtà ancora più vicina, scopro sempre aspetti nuovi della sua vita interiore, delle sue opere. Prima il piacere di starle accanto e i dialoghi che risuonavano nelle mie orecchie, in qualche maniera mi tenevano legata. Ora, più che mai, ogni opera, ogni volta, mi appare rinnovata, sempre più ricca di significati, intuizioni, messaggi, una sorgente di poesia. Una poesia che lei ha tessuto tenacemente per tutta la sua vita. Mi sono resa conto che le opere d’arte, non solo comunicano in maniera diversa davanti allo sguardo di ogni singolo lettore ma hanno anche la peculiarità di comunicare in maniera differente alla stessa persona ogni qual volta, nel tempo, si accosti ad essa.


Maria Lai, Cagliari, 1992. Foto: Š Daniela Zedda Sotto: Maria Lai nello Studio a Roma. Foto eredi

Maria Lai, Donna che setaccia la farina, 1955, acquarello su carta, cm 84,5x90. Collezione privata

Maria Lai, Il mare ha bisogno di fichi, 1996, stoffa e filo. Foto: Pierluigi DessĂŹ - Studio Confinivisivi. Collezione privata ESPOARTE 88 | 121


UNA, NESSUNA, CENTOMILA MARIA LAI Intervista a BARBARA CASAVECCHIA, curatrice con Lorenzo Giusti della mostra Ricucire il mondo | Museo MAN di Nuoro | 11 luglio - 12 ottobre 2014 di MARCELLA FERRO

QUALI OBIETTIVI VI SIETE POSTI NELL’IDEARE IL PERCORSO ESPOSITIVO ALLESTITO NEL MUSEO MAN PER LA MOSTRA MARIA LAI. RICUCIRE IL MONDO DI CUI È STATA LA CURATRICE CON LORENZO GIUSTI? PIÙ PRECISAMENTE QUALI ASPETTI DELL’ARTICOLATO ED ETEROGENEO LINGUAGGIO DELLA LAI AVETE VOLUTO RILEVARE E PERCHÉ? La mostra di Maria Lai al MAN partiva da un momento cruciale della carriera dell’artista, l’azione Legarsi alla montagna del 1981, un’opera determinante perché segnala il passaggio di Lai da una dimensione privata di lavoro, raccolta e molto schiva, aliena ai rituali del circuito dell’arte, a una dimensione collettiva e performativa, con la quale l’artista si fa portatrice di un linguaggio pubblico, capace di coinvolgere un’intera comunità e di spingerla ad individuarsi tramite un rito condiviso. È come se Lai stessa utilizzasse Legarsi per ricucire il proprio rapporto con il mondo, con le proprie radici e la propria cultura d’origine, dopo aver vissuto a Roma per molti anni. Il filo che utilizza in questa azione, come in tanti altri lavori, è sempre il racconto, la leggenda, la fiaba tramandata di voce in voce. Non a caso, uno dei suoi punti di riferimento costanti è l’amico

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poeta e romanziere Salvatore Cambosu, l’autore di Miele Amaro. In mostra, abbiamo cercato di ricostruire alcuni nuclei di opere di Maria Lai, organizzandoli per temi, in modo da far emergere aspetti della sua pratica, a nostro avviso ancora poco conosciuti: le azioni che, dopo Legarsi alla montagna, Lai ha realizzato in diversi paesi della Sardegna, sino al 2008, oltre alle numerose opere ambientali che l’artista ha realizzato in vari punti del tessuto urbano di Ulassai, lasciandole in eredità ai propri concittadini; il legame con il teatro (e in particolare con la Cooperativa “Fueddu e Gestu”) e la sperimentazione didattica all’interno delle scuole di tutta Italia, ai quali ha dedicato molti lavori e molta energia; la dimensione formativa del gioco, inteso come esercizio di libertà e fantasia che aiuta gli individui a crescere e a sviluppare la propria intelligenza, da piccoli come da grandi – è per gli adulti, per esempio, che concepisce il mazzo di carte I luoghi dell’arte a portata di mano (2002), privo di regole d’uso prestabilite, per interrogarsi liberamente sul significato dell’arte; l’incontro con la musica, attraverso l’amicizia con la soprano Ille Strazza che interpreta le sue

“scritture” e la cantante e autrice Marisa Sannia, con la quale collabora alla stesure di alcuni brani. NELLA RICERCA FATTA PER IDEARE LA MOSTRA A NUORO CHE CONCLUSIONI HA TRATTO RIGUARDO AL RAPPORTO CHE LA LAI AVEVA CON IL PUBBLICO, CON CHI INSOMMA DOVEVA PARTECIPARE ALLA VITA DELLE SUE OPERE? Lai oscilla sempre tra apertura e chiusura. Entrando al museo, i visitatori si trovavano di fronte a tante lenzuola sospese, coperte di poesie, le stesse che Lai aveva chiesto agli abitanti di Siliqua di appendere ai propri davanzali nel 1997, per l’azione itinerante L’Albero del miele amaro. Nella prima sala, si parava loro di fronte la piramide di teche di Reperto (1982), un progetto col quale Lai aveva invitato i bambini di Villasimius a giocare con il tempo, trasformando moderni oggetti di scarto, rotolati nella sabbia della spiaggia, in reperti archeologici del futuro. Nell’ultima sala, erano appesi i cappelli da Re Magi che aveva chiesto d’indossare ai partecipanti della sua mostra/performance Col ciel la terra alla Galleria Tommaseo di Trieste, aperta tra la fine di dicembre e i primi di gennaio del 1986, trasformandoli in attori di una sacra rappresentazione. Ma in mostra c’erano anche le Lavagne, la serie Autobiografia, dove per la prima volta Lai usa il filo per “scrivere” la propria vita e metterla in cornice, e poi tanti libri cuciti, dove Lai sostituisce il ricamo e la cucitura alle lettere – opere nelle quali l’orizzonte è decisamente più intimo. Mi piace ricordare anche l’installazione Come piccole api operaie (Nuoro), 2014, realizzata a quattro mani da Claudia Losi e Antonio Marras: una wunderkammer che accoglieva le centinaia di piccole opere, lettere, oggetti, abiti ricamati, bambole e sculture regalate da Lai ad amici, parenti, bambini, semplici conoscenti, critici d’arte, collaboratori occasionali nel corso della propria vita, disseminando il proprio lavoro con grandissima generosità.


Dall’alto: Maria Lai, Autobiografia, 1979-82. Collezione privata Maria Lai, Ricucire il mondo, veduta della mostra, Museo MAN di Nuoro. Foto: Pierluigi Dessì/confinivisivi Nella pagina a fianco: Claudia Losi e Antonio Marras, Come piccole api operaie I, Nuoro, 2014. Foto: Pierluigi Dessì/confinivisivi ESPOARTE 88 | 123


MOVIMENTI DI UNA DANZA COSMICA Intervista a LORENZO GIUSTI, Direttore Artistico MAN Nuoro e curatore con Barbara Casavecchia della mostra Ricucire il mondo | Museo MAN, Nuoro | 11 luglio - 12 ottobre 2014 di MARCELLA FERRO

RICUCIRE IL MONDO HA VISTO CONFRONTARSI TRE SITI DI GRANDE RILIEVO QUALI IL MUSEO MAN DI NUORO, DI CUI LEI È DIRETTORE, PALAZZO DI CITTÀ DI CAGLIARI E LA STAZIONE DELL’ARTE DI ULASSAI. QUALI ERANO LE LINEE GUIDA DELL’INTERO PERCORSO IDEATO? QUALI SONO STATE LE DIFFICOLTÀ INCONTRATE PER MANTENERE UNA TALE SINERGIA, PER TENERE INSIEME TUTTI QUESTI FILI SU UN UNICO TELAIO? La mostra vera e propria è stata suddivisa in due parti, quella di Cagliari, dove sono state presentate le opere dagli anni Quaranta agli anni Ottanta e quella di Nuoro, con i progetti realizzati a partire dal 1981, l’anno della performance collettiva Legarsi alla Montagna, che nella nostra idea di percorso espositivo ha rappresentato una sorta di elemento unificante, tant’è che, in

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forme diverse, questo lavoro, questa azione collettiva, era presente in tutte le sedi: a Cagliari con il video Legare collegare, realizzato dall’artista Tonino Casula, a Nuoro con le fotografie di Piero Berengo Gardin, colorate da Maria Lai, e a Ulassai, il paese natale di Maria Lai, dove l’azione è stata compiuta, come memoria collettiva, nei ricordi e nelle testimonianze di chi ha vissuto l’esperienza in prima persona. A Nuoro, in particolare, ci siamo concentrati sulla fase più matura della produzione della Lai, analizzando la trama di relazioni che l’artista ha tessuto col mondo al di fuori del proprio studio, gli interventi ambientali, le azioni, le scritture teatrali, i laboratori, i giochi, le fiabe cucite, i racconti. Nel progetto generale, la Stazione dell’arte di Ulassai – che per l’occasione ha

riproposto l’allestimento originale, concepito nel 2006 dalla stessa Maria Lai, oltre al restauro di alcuni interventi urbani e una nuova segnaletica a indicare i diversi percorsi di visita – ha rappresentato una sorta di satellite, una tappa necessaria per la conoscenza dei luoghi che più hanno ispirato il lavoro dell’artista e per la scoperta del suo “museo diffuso”. Le difficoltà maggiori in Sardegna sono costituite dalle distanze e dalla mancanza di collegamenti adeguati, ma questo per certi versi ha anche accresciuto il fascino dell’esplorazione. Gli altopiani della Barbagia, i monti del Gennargentu, i tacchi di Ulassai, le marine dell’Ogliastra, sono tutti luoghi che vivono nell’opera dell’artista. Conoscerli aiuta a comprendere quest’opera così originale.


Dall’alto: Maria Lai, Ricucire il mondo, veduta della mostra, Museo MAN di Nuoro. Foto: Pierluigi Dessì/confinivisivi Maria Lai, Ricucire il mondo, veduta della mostra, Stazione dell’Arte, Ulassai. Foto: Pierluigi Dessì/confinivisivi

DI RECENTE PRESENTAZIONE IL VOLUME MARIA LAI. RICUCIRE IL MONDO (SILVANA EDITORIALE, 2015), SINTESI DI QUESTA ENORME RASSEGNA. SI È PARLATO DI UN OMAGGIO AL SUO LAVORO. EPPURE QUESTA PAROLA MI FA PENSARE A QUALCOSA DI CONCLUSO, DI ESAURITO. CREDE CHE IL LAVORO DI QUEST’ARTISTA SIA OGGI QUALCOSA ESCLUSIVAMENTE DA CONTEMPLARE PERCHÉ BLOCCATO NELLA SCOMPARSA DELLA STESSA LAI O CHE INVECE CONTINUI A MUTARE DI SENSO COL PASSARE DEL TEMPO? Il catalogo che abbiamo pubblicato è importante perché è il primo a dare un’idea generale del lavoro di Maria Lai, nonché il primo bilingue. Il discorso ovviamente non è chiuso, il volume non è che la prima tappa di un lavoro che oggi inizia e che dovrà necessariamente trovare sviluppo. Serve un catalogo generale, servono progetti che indaghino in profondità aspetti specifici dell’opera dell’artista, serve inserire lavori di Maria Lai dentro mostre e collezioni

importanti, serve fare conoscere l’opera dell’artista fuori dai confini nazionali e serve una gestione responsabile e strategica del patrimonio. Quanto al “senso” della sua opera, come sempre accade, si può dire che sia già cambiato nel corso degli anni e sicuramente continuerà a mutare in relazione al contesto in cui verrà inserito, agli sviluppi della ricerca storiografica, al variare degli interessi e delle tendenze. Maria Lai era consapevole di questa prospettiva. Il suo era un pensiero sistemico, che tendeva a concepire la totalità – l’universale – come qualcosa di non indipendente dal particolare, dalla specificità dei singoli elementi e, allo stesso tempo, come un’entità con caratteristiche comunque proprie. Sapeva che tutto si muove come all’interno di una “danza cosmica” e che i processi dell’opera sono simili ai processi vitali. In termini intuitivi credo che avesse capito molte cose.

Titolo: Maria Lai. Ricucire il mondo. Edizione: bilingue italiano/inglese Editore: Silvana Editoriale Anno: 2015 Pagine: 288

Nella pagina a fianco: Maria Lai, Ricucire il mondo, veduta della mostra, Palazzo di Città, Cagliari. Foto: Pierluigi Dessì/confinivisivi ESPOARTE 88 | 125


talkin’ di FRANCESCA CAPUTO

ALEX PINNA. L’ARTE COME GIOCO Alla vorace accelerazione superficiale del panorama odierno, il lavoro di Alex Pinna non fornisce codici per decifrare ma suggerisce possibili emozioni, predisponendo chi guarda a sondare in profondità. Ha scelto la scultura come medium privilegiato, per il suo linguaggio magico, essenziale. Un immaginario composto di presenze: dai piccoli feti alle figure umane stilizzate, dalle figure fiabesche agli elementi della natura. Forme esili, deformate, con i tratti del volto appena accennati,

gli arti esasperatamente allungati, fragili e inquietanti, precari e instabili, ironici e malinconici. Sono sempre colte nell’atto di compiere qualcosa e, proprio attraverso un movimento, un atteggiamento fisico, esprimono un sentimento, in un’atmosfera di riflessione, meditazione. Sempre in bilico, sempre in tensione, nella necessità di dover stare in equilibrio. Attraversando la metafora del gioco, del ludus, sonda la condizione umana, il ter-

ritorio dell’identità. Permane un senso di delicatezza evocativa. Ne abbiamo parlato con l’artista, in occasione della mostra Think Thin alla Galleria Punto sull’Arte di Varese. QUALE È IL TEMA CENTRALE DELLA MOSTRA THINK THIN E QUALI OPERE LA CARATTERIZZANO? Le opere della mostra più legate alla mia ultima ricerca sono le sculture con le foglie, un percorso che è in lavorazione da circa quattro anni e che finalmente sta per venire presentato al pubblico, speriamo bene. OSSERVANDO LE TUE SCULTURE – IN CORDA, VETRO O BRONZO – I PERSONAGGI SONO SEMPRE IN BILICO TRA IRONIA E DRAMMATICITÀ, ENTRO UN FRAGILE EQUILIBRIO INSTABILE… La ricerca dell’equilibrio continua, spostare il peso da un piede all’altro è per me la vera fatica e la vera abilità dell’uomo contemporaneo. E più si cresce più questo equilibrio è instabile, contrariamente a quello che pensano i piccoli, ai cui occhi gli adulti “sembrano” stabili. I CODICI DELL’INCOGNITO, DEL TEMPO, DELLA SFERA DEL GIOCO, DELLA CULTURA INFANTILE CHE RUOLO HANNO NEL PROCESSO CREATIVO? Questi temi sono la scintilla da cui scaturiscono le idee per la trasformazione tri e bidimensionale, sono temi delicati che cerco di trattare con il massimo rispetto cercando di non essere didascalico né affermati-

Alex Pinna, Lost, found and lost, 2014, bronzo patinato, ed. 6+1, cm 20x30x20 126 | ESPOARTE 88


vo. In fondo non penso di avere verità da raccontare, semmai tante domande. DOPO CIRCA DUE DECADI ALL’INTERNO DEL MONDO DELL’ARTE, COSA PENSI DI QUESTO MECCANISMO E COME SI È EVOLUTO IL TUO PERCORSO? Ho visto e creduto in tantissime meteore create dal sistema arte, per cui non posso che prenderne un po’ le distanze, soprat-

tutto perché amo profondamente questo lavoro e spero di potermi permettere di farlo ancora per altri vent’anni almeno. QUALI I TUOI IMPEGNI FUTURI? A breve sarà allestita una mia grande installazione del ‘96 nel nuovo Museo M.A.C.I.S.T di Biella, poi sto già lavorando ad una personale che terrò in autunno presso la galleria PRAC di Napoli.

Alex Pinna è nato nel 1967 a Imperia. Vive e lavora a Milano. www.alexpinna.org Eventi in corso: Alex Pinna. Think Thin a cura di Alessandra Redaelli Punto sull’Arte Viale Sant’Antonio 59/61, Varese 22 marzo - 2 maggio 2015 www.puntosullarte.it Gallerie di riferimento: Punto sull’Arte, Varese www.puntosullarte.it PRAC Piero Renna Arte Contemporanea, Napoli www.galleriarenna.com

Alex Pinna, Heroes M, 2015, bronzo patinato, ed. 6+1, cm 40x210x115 ESPOARTE 88 | 127


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