Mirino - Rivista di satira fotografica - n 02 Aprile 2016

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il falso fotografico


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TAVOLA

DEI C O N T E N U T I

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1200 dollari a servizio, più l'eventuale copertina, altri 600 dollari. L'equivalente di 2 milioni e 400 mila vecchie lire italiane, più un altro milione e due. Bene. Ora che la foto da rotocalco non esiste più, essendo morto lo stesso rotocalco, cosa si staglia nel panorama fotografico mondiale? Le varianti sono 3, e riguardano tutte i vecchi fotografi divenuti “moderni maestri”.


1. La foto patinata da calendario (che sia Pirelli o Lavazza, non fa differenza: zio Steve McCurry c'è sempre). 2. Il workshop a pagamento col maestro della foto da reportage di guerra (sempre il buon vecchio Steve, che prende 600 euro ad allievo, il quale in 3 giorni potrà assorbire i misteri dell'arte, avendo l'opportunità di rinascere a nuova vita, da novello Ansel Adams: sì, certo). 3. Il concorso fotografico a pagamento. Facile intuire dove stia la fregatura. Quando un mercato è andato a farsi benedire, tutti coloro che al mercato si sono avvicinati quando c'erano ormai solo le briciole, vengono assaliti da crisi di panico notturne. Ecco la pronta soluzione: il lancio acchiappa-polli. I fattori sono semplici: tu, fotografo frustrato alla vista dei like che la tua vicina casalinga attempata prende alla tua bella faccia (ma come! Ma se hai per giunta la reflex!), il sito web che negli anni è riuscito a ottenere una discreta notorietà, i tuoi soldi.


Avete mai sentito parlare di Lens Culture? Si tratta di un sito olandese che smercia roba di questo genere. Ma per partecipare bisogna pagare. Stessa cosa dicasi per l'International Photo Awards. Chi si cela dietro queste iniziative è presto detto: basta sapersi barcamenare all'interno dell'apposito sito. In genere si tratta di editor per testate di vario genere, curatori di mostre, fotografi free lance. Tutta gente che stenta a campare, in paesi in cui vige il libero mercato e il free lance è la norma. È molto difficile, infatti, il mestiere di curatore museale, quando la rete del supporto statale non c'è. Stessa cosa per chi cura impaginazione e grafica di una testata, mentre, per le vecchie glorie della fotografia da reportage, se vogliamo è ancora peggio.

Nessuno ti paga per mettere in mostra le tue foto. Anzi, è chi espone a dover sganciare i soldi per l'affitto della galleria. Ed ecco quindi il neonato business, che da qualche anno si è insediato nella già turbolenta vita del fotografo: la pseudo-agenzia online.


Come se già non bastasse la concorrenza dei cellulari. Perché la fotografia è una moda, e come ogni moda, per essere alimentata ha bisogno di sempre nuovi gadget. O incentivi a continuare, fate voi. Da qui, la “visibilità”, garantita, a sentire Lens Culture, Sony Awards e IPA (dove andrà a finire tutto quel pattume, a concorso terminato, chi lo sa). Loro ti garantiscono visibilità, ma tu devi pagare. Un circuito che si autoalimenta, insomma. Presidiato da loschi figuri, che con ottima probabilità escono dal blog per venire a giudicare voi, sempre in proporzione a quanto avete sganciato. Ma come? E la cultura visiva? E la ricerca? E l'impegno? Cose vecchie, cari miei, cose vecchie. Però la soluzione c'è. Non fare la fesseria di mettersi anche a pagare. Perché la fotografia è un piacere, e spesso un mestiere, non un obbligo. E perché per chi ha voglia di pagare, esistono le tasse.


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La temperatura colore, ma questi geni della fotografia non potevano inventare qualcosa di diverso? Che rottura. Non bastano i tempi, i diaframmi, gli ISO, ci dobbiamo preoccupare del colore della luce? Certo cari photographers, mentre i vostri amici con i loro mega corpi macchina da stipendi parlamentari si troveranno interdetti di fronte alla resa agli alti ISO, voi sarete avanti, ma cosĂŹ avanti che il loro frignare vi apparirĂ superato.


La famigerata temperatura colore si esprime in gradi Kelvin, la luce solare è intorno ai 5600 gradi Kelvin, le lampade alogene ad incandescenza intorno ai 3200 K. Bene, a noi che ci frega. Nulla potrei rispondere, o tutto se avete voglia di capire. Se un corpo nero riscaldato ad altissime temperature inizia ad emettere luce e tale luce è cromaticamente simile alla luce emesse dalle lampade alogene (3200K) e luce solare (5600K) vi sembra tutto normale, oppure notate qualcosa di strano? Se poi tali radiazioni luminose passano dal rosso, al giallo, al bianco e infine all’azzurro i due neuroni che vi son rimasti che pensano? A queste domande esistenziali occorre dare risposte, vi assicuro che i dubbi amletici sulla vita, l’universo e tutto quanto son molto più escatologici. Il chip della nostra cara reflex ha uno splendido bilanciamento continuo del bianco, il nostro cervello lo fa da millenni e sbaglia di rado.


All’alba, a mezzogiorno e al tramonto, il bianco è bianco, anche se il colore della luce è differente: vi è mai capitato di entrare in un ambiente illuminato da luce artificiale dopo esser stati all’aperto con luce solare molto intensa? Avete notato che per qualche istante le luci artificiali sembrano più gialle del normale e poi non più? Si, bravi i miei osservatori, avete visto il colore della luce. Il nostro cervello adegua di continuo, odia le dominanti cromatiche, ma per il nostro splendido sensore da milioni di pixel non è così: quando abbiamo due dominanti cromatiche questo cerca di mediare, e qui nascono i problemi, per gli altri, ovviamente, non per noi che ne sappiamo troppo.


Quanti amici, fotografi di gnocca, non riescono a correggere le dominanti e allora utilizzano una bella tonalità azzurrina molto fashion? Tanti, credetemi. Il mondo della luce è un amico per chi lo rispetta e lo usa con criterio, sa di new age, lo so. Per quanto ci riguarda, noi appassionati di fotografia umilmente proviamo a capire la realtà circostante, non ci facciamo fotografare dalla reflex, ma usiamo la nostra reflex per far uscire quel poco di senso artistico che abbiamo, se c’è, altrimenti ci divertiamo con i nostri scatti. Che troviamo tutti orribili (perché abbiamo un po’ di cultura visiva) e lasciamo l’arte a chi non si pone domande sulla propria immensa bravura, mai riconosciuta abbastanza.

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Non chiederti cosa puoi fare tu, per la fotografia. Chiediti cosa la fotografia può fare per te. Non ci campi. Ti sei accorto troppo tardi che non ci campi e non ti sei ancora chiesto come mai. Il perché, te lo diciamo noi. Esistono due tipi di fotografi, quelli che i soldi li vedono, e quelli che i soldi non li vedono mai. Per essere tra i primi, si dovrebbe almeno essere consapevoli del punto di partenza.

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I fotografi che fanno soldi, sono i fotografi matrimoniali. Non c'è scampo. Anche la pubblicità su grossa scala, che sia magazine o cartellone 6X9, risente ormai di quella legge di mercato per la quale, se all'offerta non corrisponde domanda adeguata, meglio cambiare strada. E velocemente, anche.



E dato che a tutto c'è un limite, pure al brutto, vediamo di chiarire la questione. La maggiorparte dei disoccupati sul pianeta ha acquistato una reflex, negli ultimi 3 anni. Il solo fatto di possedere una reflex, però, non fa il fotografo. Quindi, il fotografo sfaccendato, che fa? Va in giro dicendo di non essere capìto. E credendoci, a 'sta balla. Purtroppo la linea di demarcazione, anche qui la fa l'ignoranza. Tutti o quasi i neofotografi da strapazzo che si vedono in giro, non guardano le proprie foto. O meglio: le vedono come i capolavori che non sono. Ed ecco: l'amica sciacquetta che si fa riprendere in pose discinte, struccata, col tono della

pelle giallastro, celluliti sbattute qua e là, paesaggi storti, disturbati da ingressi improvvisi nell'inquadratura o, peggio: la tanto detestata acqua setosa (non si vede altro, in giro, fateci caso). Ma, la cosa peggiore è che i sedicenti artisti dell'inquadratura, hanno tutti la stessa convinzione: che dalla foto “artistica”, o da “agenzia”, si campi bene, e che arrivare alla Magnum sia impresa per tutti. Dev'esserci stato qualche imbecille che, torturato dalla noia, ha messo a un certo punto in giro queste scemenze. Neanche la Magnum Photo assume più anima viva.

– Non mi pubblicano: che faccio? 1. Hai notato quant'è gialla la pelle della modella? 2. Quante volte hai già visto quella posa? 3. Ma l'acqua, ti pare che senza LSD l'occhio umano la veda setosa? 4. Quel reportage di che parla? Si capisce dove è stato scattato? E come mai? 5. Non provare a farla in bianco e nero, che tanto ti sgamano. 6. Non avrai un pelino esagerato con l'HDR? 7. Ancora il Colosseo?


Tutti i fotografi di agenzia vicini al pensionamento, saranno sostituiti da nessuno. Ecco perché in troppi sono insensatamente convinti che fotografare, prima o poi darà loro da mangiare. E naturalmente evitano l'unica fonte di reddito rimasta sul panorama fotografico: il matrimonio. E certo: il matrimonio significa stare al freddo-caldo per ore, senza mangiare, senza bere, ma soprattutto agli ordini del committente: la sposa. In breve, significa sbattersi, farsi il mazzo: tra milioni di modifiche di milioni

si scatti. Inoltre: non è per tutti. Il matrimonio, com'è noto, non lo puoi rifare. Stessa cosa per lo scambio delle fedi, il lancio del bouquet, le lacrime della suocera. Poi va stampato, e pure bene. Altro dettaglio non trascurabile: i matrimoni stanno nelle cornici di casa, non sui social network. Ecco: la soluzione è sotto i vostri occhi. Fate un matrimonio, di qualche amico la cui fidanzata non sia granché esigente, se sopravvivrete alla ferocia della sposa, avrete vinto: l' agenzia Magnum aspetta solo voi.

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Il falso fotografico: non di solo Capa vive il fotografo Mostra di Capa, Roma, 2013. Scorro estasiata gli scatti del maestro, li commento, con aria sofisticata: solo un genio poteva cogliere così lucidamente l'orrore del fronte. All'improvviso, un ragazzino di circa 9 anni, a voce alta: “papà, come mai dietro al carrarmato ci sono gli uomini che fumano e

leggono il giornale?”. Esatto. Quando la verginità degli occhi svela il misfatto. Beata ingenuità, quella di chi come noi crede ancora che Capa fosse al fronte per il fronte. A giudicare dai ritratti di Hemingway e "vippame" dell'epoca, forse Capa al fronte c'era per i fatti suoi. Per pubblicizzare il suo “brand”.


Esempio: questa foto non è stata scattata in guerra, bensì durante un rituale religioso che si tiene ogni anno in Italia: la notte dei fuochi di Sant'Antonio. Com'è facile falsificare un'immagine.

Sono americani, si potrebbe obiettare: la pubblicità non l'hanno inventata loro, ma l'hanno resa vitale e invasiva. Per non parlare di quel sistema di persuasione tanto in voga presso le varie dittature sparse nel globo: la propaganda.

dovrebbe tener a mente, per una buona resa finto-storica.

Che ci piaccia oppure no, i sistemi di falsificazione fotografica sono vecchi come il cucco. D'altronde, cos'è la foto se non un'interpretazione della realtà? Quindi, andiamo a elencare i tre metodi che ogni buon falsario (a partire da Capa)

2 – metodo Russia stalinista: alcuni elementi della foto vengono modificati (è il caso delle persone vaporizzate dalla vita politica e sociale sovietica, e quindi dalle immagini di riferimento). Vero, George Orwell?

1 – metodo spam di contenuto virale: le fotografie non sono ritoccate, ad essere falsi sono i titoli o le didascalie. Ogni giornalista sa a cosa ci riferiamo.


3 – la foto falsificata in ogni sua

parte. Quando, il mese scorso, inviai il mio misero portfolio a uno dei maestri indiscussi della ricerca iconografica (già editor del Guardian e del Times), lui mi rispose, col suo fare da galante 60enne: “gentile signorina, le sue foto sono abbastanza buone (per me, una consacrazione: nda), ma... il tempo della fotografia è finito. Adesso, i giornali puntano sull'illustrazione fotografica. Dia retta, prenda in mano photoshop, e butti via la realtà. Oppure, può sempre mettersi a dieta molto stretta. Io ho 65 anni, e la cosa non mi riguarda più”.

Che altro aggiungere? Ah, certo. Ad esempio, che uno degli adepti di quel trend che potremmo definire fotografia impegnato-patinata, Giovanni Troilo, è stato escluso di recente dal World Press Photo, edizione 2014. Il motivo? Aver prodotto falsi a ripetizione, scatenando le ire del sindaco di Charleroi, cittadina oggetto di un reportage presentato dal nostro al concorso. In cui, gli organizzatori della stessa competizione, imbarazzati dall'evidenza di foto “costruite” spacciate per reportage, furono costretti a ritirargli il premio già assegnato.


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immagine tratta dalla serie "Guerra Civile Spagnola" ad opera di Robert Capa, pare che il miliziano morente, sia una delle tante contraffazioni a firma di uno degli iniziatori del reportage fotografico di stampo classico. In Shadows of Photography, José Manuel Susperregui, docente di Comunicazione all'Università dei Paesi Baschi, spiega, assieme al Centro Internazionale per la fotografia, con sede a Manhattan: "per posizione, modalità e didascalie pervenuteci, trattasi di clamoroso falso".

Eppure c'è chi continua a chiamarlo fotogiornalismo. Ma queste, sono tutte eventualità che scatenano la nostra solidarietà. Al di là dell'etica, che pur sempre deve rimanere il principio guida del giornalista, è dura, la vita del fotografo. Darsi da fare per accaparrarsi le ultime briciole di quello che è sempre stato un piatto abbondante e gustoso, beccandosi i fischi di rito. Voi, in tutta onestà, lo fareste?


Impara l'arte. Magritte e il ruggito dell'uomo qualunque: Golconde,1953

“Che significa quello che ha dipinto, Signor Magritte? Tutti quegli uomini che cadono dal cielo?�


“E lo domanda a me, mentre sono in fila alle poste? Non so risponderle. D'altronde, sono solo l'autore del quadro. Tuttavia: a lei sembra che stiano cadendo? Interessante”. René Magritte rispondeva così, a chi gli chiedeva lumi sulla sua opera, e il bello è che non mentiva. Surreale. Un neologismo tagliato su un autore che meglio di ogni contemporaneo ha saputo interpretare tale corrente. Un rivoluzionario, travestito da uomo invisibile. Perché Magritte era sostanza, tradotta in forma perfetta: l'accademia a qualcosa serve. E perché nessuno,

in Belgio, in Europa forse, aveva all'epoca sembianze più ordinarie del nostro. Giacca, cravatta e spirito ribelle: dopo i primi successi evita ogni omaggio che committenti borghesi e monarchia gli tributano. Prova ne sia che nessuno, ad oggi, ha saputo leggere o interpretare l'opera di Magritte. René però, non denuncia nessuno. Le istanze sociali lo annoiano. Quello che tenta di fare, è vedere al di là del proprio naso e delle strutture collettive in cui, il primo ostacolo da abbattere è il linguaggio.


Il lessico a suo parere, crea il luogo comune. Il secondo ostacolo che Magritte ci svela è l'appartenenza. “L'arte non può essere belga, così come non può essere vegetariana”: e qui, l'autore, almeno riguardo la collocazione geografica, sbagliava. Chi ha avuto la possibilità di trascorrere qualche giorno nella capitale belga, infatti, sa che Bruxelles "è" ogni dipinto di Magritte. E non per il fatto che vi sia raffigurata, ma per l'atmosfera, i colori, gli spazi. E' rimasta intatta, nel tempo, come René l'ha immortalata. Una cosa però è certa del riservatissimo autore: detestava bassezza e volgarità della vita moderna. Ed eccoci allo scatto che abbiamo scelto, che ritrae la tipica coda di turisti per il Mont-Saint Michel. Sito francese di grande importanza storica, ha ospitato diversi ordini monastici, e con la sua abbazia del X secolo, è da sempre meta di pellegrinaggio. Cosa c'è di più surreale di una fila di persone intente a perlustrare, fotografare e abbuffarsi di tutto quanto il guardabile? I pellegrinaggi di un tempo, ammettiamolo, avevano poco a che fare con il turismo guardone


cui siamo abituati oggi. Erano tragitti dell'anima, spesso affrontati per un ormai incomprensibile bisogno di espiazione. Cosa ha a che fare un luogo di culto con la cultura popolare? Molto si dice ed è stato scritto sul guardare e l'essere guardati, un gioco delle parti alquanto abusato. Non vogliamo ripetere le analisi di McLuhan su mezzo e significato, ci chiediamo solo: esiste al mondo qualcosa di più volgare di una massa indistinta di volti, sospinta per le rive del Canale della Manica in attesa di ingurgitare nozioni che verranno dimenticate il minuto dopo? Non lo sappiamo.

Eppure, qualcosa accomuna la quotidianità umana che piove dai cieli di Magritte, a degli scatti ricchi di significato, come quelli pubblicati in questa rubrica. In cui, forse, non è da ricercarsi il surreale nel reale, ma viceversa. E' il reale, l'ordinario, il campo di ricerca del surrealismo. Perché l'artista, il grande artista, come Magritte ha saputo essere, non è bardato di orecchini e

tatuaggi: non corrisponde allo stereotipo bohemien di ragazzotto alternativo (a cosa?) e dannato. Il grande artista è l'uomo in fila alle poste di fronte a noi, che trova il semplice coraggio di chiedersi perché i gargoiles di Notre Dame della gita a Parigi, stessero fissando proprio lui.

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Sto guardando le stelle, sono cosĂŹ distanti... E la loro luce impiega tanto per raggiungerci... Tutto quello che vediamo delle stelle, sono solo vecchie fotografie. - Dottor Manhattan, dal film Watchmen. Che c’entra un supereroe con un articolo di che parla di fotografia? Niente, ovviamente. Pensavo alla via lattea, il soggetto preferito da tanti photographers planetari e mi sono imbattuto in questa frase. Doc Manhattan, nella sua azzurra sapienza ha inquadrato la questione meglio del sottoscritto. Aprile 2016 ­

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Scordatevi romantici fotografi che passano la notte al freddo: le vie lattee che vediamo fotografate dagli adepti del genere+ sono scaricate dal web, gugolate un po’. PerchĂŠ prendere freddo quando qualche appassionato di astronomia si gela i polpastrelli al nostro posto? Il soggetto in primo piano lo mettiamo noi, crepi l’avarizia, rigorosamente fotografato di giorno, che diamine, la notte abbiamo altro da fare. I fotografi veramente appassionati, che sfidano il freddo e la notte per immortalare una via lattea, sono da ammirare. Cercare un luogo adatto, con un soggetto interessante e che, possibilmente, dia le spalle al sud è difficile, assai.


Per questa ragione si ricorre all’inganno; vediamo fari che fanno da quinta a spettacolari vie lattee, peccato che la timida milky way odi la luce. Per vederla ad occhio nudo occorrebbe un buio ancestrale, un faro che ritmicamente dilati la nostra pupilla ci creerebbe seri problemi. Immagino che qualcuno di voi esclamerà: ma figurati, perché dovrebbero farlo.

Perché? Qualcuno ha vinto dei premi (e prova a camparci sopra) con una foto del genere, nessun moralismo: basta dirlo. Tutte le lune e vie lattee che giganteggiano nel web e nei social son fotomontaggi, alcuni accattivanti, ma sono falsi. Quello che impedisce di realizzare senza trucchi,questo genere di foto è uno dei limiti della fotografia, sia analogica che digitale. Oddio, ora parte con il pistolotto tecnico. Chi ha parlato? Sento le voci, ma non sono in odore di santità, è più facile che sia il vino.

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Per chi ha voglia di levarsi il ciuccio dalla bocca e iniziare a vedere la fotografia come un artificio per imitare la realtà , può continuare a leggere, altrimenti: pillola rossa o pillola blu? Siete rimasti in parecchi, ok. La pellicola e il sensore hanno una gamma limitata di valori di esposizione (coppie tempo/diaframma), un tempo ogni fotografo che si rispetti, parlava di latitudine di posa, ovvero la capacità della pellicola di incassare i diversi valori di esposizione.


Ma a quell’epoca il culto esoterico della fotografia imponeva di esprimersi in un linguaggio da iniziati. Semplificando, se il nostro soggetto in primo piano richiede un’esposizione di 30” a f8 a 100 ISO e la via lattea un tempo di 30” (massimo) a tutta apertura a 1600/2400 ISO, pensate che tutto ciò sia fattibile, per quel poco che ne capite di fotografia? Io penso che la risposta sia dentro di voi, però è sbagliata! Non è fattibile, è un artificio tecnico per imitare la visione umana. Non è un reato, basta dirlo. E voi ignavi aspiranti photographers da migliaia di like, toglietevi l’amo dalla bocca, gridate il Re è nudo. Non abboccate a millantatori senza talento, premiate l’onestà, ora sapete che non è una questione di abilità o di esperienza fotografica, ma è un semplice fotomontaggio, gradevole, d’impatto, in alcuni casi esteticamente interessante, ma un semplice esercizio fine a stesso. La fotografia è un’altra cosa.





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