Mirino 04 - Settembre 2016

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c ' e r a u n a vo l t a i l paes aggi o


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TAVOLA

DEI C O N T E N U T I

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Parlare di fotografia senza parlare di ottica è come parlare di

calcio senza averci mai giocato. Esempio sbagliato, tutti parlano di calcio senza averci mai giocato, o quasi. I fautori della super-nitidezza, i maniaci della maschera di contrasto penseranno che sia inutile: tanto c’è Photoshop. Bravi, continuate così, siete quelli che mentre il professore spiegava la diffrazione giocavano a battaglia navale.


Non si può parlare di fotografia senza scomodare l’ottica: perché mai, vi domanderete. Una applicazione semplice, che tutti voi conoscerete, è quella dell’iperfocale. Per spiegare l’iperfocale bisogna partire da un po’ più lontano. Circolo di confusione, chi era costui? Nella fotografia, il circolo di confusione di un’immagine, è il diametro del più piccolo punto distinguibile ad occhio nudo ad una normale distanza di osservazione, è, ovviamente soggettiva, dipende dalla acuità visiva dell’osservatore e dalla distanza di osservazione. Varia, inoltre in base alla diagonale del formato di ripresa, vi evito le formule, basta sapere che tramite questo puntino possiamo calcolare la profondità di campo e, udite, udite, l’iperfocale.

L’iperfocale è quella distanza di messa a fuoco dalla metà (circa) della quale in poi tutti i punti sono a fuoco.


Detto così direte: a me che mi frega? Ovviamente non vi ci vedo con carta e penna a calcolare l’iperfocale, né con complicati calcoli mentali, sappiate però, che esistono delle App molto comode che la calcolano per noi.

I parametri sono tre: lunghezza focale (questa la conoscete), diaframma (idem) e distanza del soggetto (qui son cavoli). Gli obiettivi a fuoco manuale avevano una scala che ci permetteva di capire la distanza del soggetto, ma il bello dell’iperfocale è che possiamo individuare la nostra profondità di campo (P.d.C.).



Se voglio avere a fuoco poniamo da 5 metri a infinito, posso calcolare impostando diaframma e distanza, oltre ovviamente la lunghezza focale dell’obiettivo, dove porre l’iperfocale per ottenere questa P.d.C., provate, ne vale la pena. La tecnica fotografica occorre metterla in pratica per comprenderla meglio, con il digitale poi non si sprecano rullini.

L’iperfocale varia sulla base della lunghezza focale degli obiettivi: nei grandangolari la P.d.C. è molto estesa, mentre nei teleobiettivi è molto ridotta.

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Ora che abbiamo familiarizzato con l’iperfocale e la profondità di campo, possiamo dare un senso all’uso dei filtri N.D. (filtri a densità neutra), non servono soltanto a creare l’acqua lattiginosa, ci permettono di utilizzare dei diaframmi più aperti in giornate particolarmente luminose, sfruttando i diaframmi tra f8 e f11, che utilizzano le zone

centrali delle lenti, meno soggette ad aberrazioni. Un altro uso, che potrà apparire meno creativo è quello di regolare la P.d.C., aprendo il diaframma per ridurla e creare

un magico bokeh a pallini che tanto ci piace. Se qualcuno prova ad accennare allo sfocato di Photoshop, è, evidentemente un caso disperato.


Si può serenamente affermare che la fotografia sia nata con il

paesaggio. In effetti, cosa c'è di più disponibile per i nostri occhi, di ciò che ci circonda? Lunghi ed estenuanti tempi di posa (si pensi ai primi esperimenti di Fox Talbot, le cui calotipie richiedevano tempi di esposizione dai 10” a svariati minuti, siamo nel 1850) hanno solo facilitato la scelta, almeno in passato. Cosa rimane, oggi, del paesaggio?


Innanzitutto, sappiamo che chi vuole fare il fotografo è costretto a una scelta, e quella scelta risponde alla domanda “perché?”. A costo di ripetere il mantra, infatti, il pianeta è stato fotografato tutto, in lungo e in largo, più volte. E proprio il paesaggio è stato il primo genere fotografico a fare le spese di tale tendenza. Se fino agli anni '80 la foto paesaggistica testimoniava delle metamorfosi causate dalla presenza umana (antropizzazione), del cambiamento dei costumi intorno a noi, della diversità culturale (e climatica), adesso la vediamo tristemente ripiegata sia sulla foto di viaggio, sia su quel genere che negli anni ha perso di attrattiva: la cartolina. Il motivo è presto detto, il paesaggio ha smesso di raccontarci il mondo, dato che ormai il mondo è a portata di mano.


Ed è entrato nel nostro quotidiano proprio con la fotografia, prima su rotocalchi o riviste specializzate, poi con televisione e internet. Prendiamo per esempio la foto di viaggio, e con questa una destinazione a caso: la Francia. Chiunque digiti su un motore di ricerca la parola Parigi, cosa troverà, a parte la Tour Eiffel? Molto altro, sicuramente, proseguendo la ricerca. Ma in quanti, informandosi ad esempio sulla meta turistica in cui investire i propri risparmi, andranno a cercare l'Opera o anche solo la Sainte Chapelle? Già Notre Dame e Arco di Trionfo non sono così presenti, sul web. Parigi, quindi, è identificata con un simbolo. E dall'identificazione allo stereotipo, il passo è breve. Quando non si sa cosa fotografare e perché, per differenziarsi dagli altri rimane fare affidamento sullo “stile”. Ma dato che un paesaggio arcinoto è difficile da rendere in maniera originale, ci si butta, spesso, sul “così fan tutti”.


“Mi son portato dietro il cavalletto e sono sulla riva della Senna. Bene, filtro ND e posa lunga. Aspetto altre due ore: posa lunga e tramonto”. In genere è questo l'iter mentale del dilettante. Nel momento in cui tutto è già stato visto e detto e fotografato, proprio come nel paesaggio, il passo successivo

è imprimere carica emozionale a ciò che il nostro occhio riesce a catturare. Un procedimento semplice e veloce, col quale i nuovi talenti del web vanno formandosi alla vita fotografica. Ed ecco perché, all'occhio umano, la fotografia non basta più.


Stanco della solita gamma cromatica, chiede più saturazione, più nitidezza, più tutto. Chiede un'illustrazione, in cui il valore della tecnica e del punto di vista, rischiano di andare perduti, di diventare carta straccia, in favore di un preteso corredo emotivo. Solo che, dettaglio non trascurabile, senza padronanza tecnica è quasi impossibile esprimere un punto di vista. Avete notato che quando una foto non racconta nulla, spesso è visivamente molto accattivante?

Secondo voi, come mai? Come mai questo sbocciare di prati variamente mixati a Vie Lattee?


Oppure il proliferare di ritratti in stile seicentesco, o ancora tutte le pose lunghe che dobbiamo sorbirci, secondo voi, da cosa derivano? Cosa sta diventando la fotografia? Eppure, chi ha lasciato un segno dietro di sé, faceva a meno dell'ipersaturazione, si pensi alle ambientazioni spoglie di Ghirri, o al minimalismo di Giacometti. Una breve carrellata di capolavori paesaggistici via web sarà sufficiente a determinare la pochezza dei contenuti, per un esercito di fotografi che puntano solo ed esclusivamente sul facile effetto visivo, imitandosi a vicenda. Un peccato, se si pensa che ciò che ci circonda, conserva memoria della presenza dell'uomo, con le modificazioni cui l'umanità stessa ha sottoposto il proprio habitat.

Il valore documentaristico della foto di paesaggio è indubbio, ma con il proliferare di mari e tramonti a impatto cromatico debordante, questa rischia la retrocessione al ruolo di parente povera della fotografia professionale.



Ci fu un tempo in cui le fotografie erano un affare privato, vedere le fotografie con gli amici sembrava una cerimonia per iniziati. I fotografi quotati pubblicavano e venivano pagati per il loro lavoro e i dilettanti

spendevano tempo e denaro in nel loro hobby autarchico. Quel tempo non esiste piÚ. Il Web 2.0, la nuova frontiera, si ciba dei contenuti degli utenti, è alimentato dagli U.G.C. (user-generated content).


Ogni foto, significativa o meno, è un tassello di questo contenuto generato e condiviso, i social network sono delle scatole vuote, che gli utenti riempiono e consumano in cerca di altri contenuti. Coinvolgere attivamente il lettore non è una pratica recente, le riviste fotografiche cartacee hanno sempre avuto la pagina dei lettori, lo scopo era sempre lo stesso: aumentare le vendite coinvolgendo gli utenti. Oggi questa tecnica di marketing è diventata l’unica attività per i social: condividere i contenuti altrui, senza generarne di propri. Tutto lecito, alla luce del sole, ma, il dubbio è sempre dietro l’angolo, siamo sicuri che molti aspiranti maestri della fotografia lo abbiano capito? Le riviste di fotografia on-line hanno la loro pagina dei lettori: la foto del giorno, della settimana, del mese, queste foto hanno, ovviamente, il loro bel pulsante di condivisione per aumentare la popolarità del sito sul web.


Esser pubblicati su siti, anche internazionali, nella sezione la foto della settimana, non equivale a esser pubblicati su una rivista, sia chiaro. Per aprire gli occhi su un mondo, spesso sconosciuto, sebbene cosĂŹ affascinante, bisogna capire i meccanismi editoriali ed economici che sottendono queste politiche di marketing: non si paga uno sconosciuto, quando ci son migliaia di sconosciuti che fanno la fila per vedere la loro foto pubblicata sulla rivista, inoltre, ormai non si paga piĂš nessuno, davvero.


La speranza che la foto di uno sconosciuto possa essere notata da un editor di una rivista famosa è pari a zero, perché allora tanti giovani di belle speranze mettono nel loro curriculum la millantata “pubblicazione” sul sito X? Me lo son chiesto e spesso le risposte che ho trovato non sono molto carine. Per sgombrare il campo da ogni equivoco: intendo per pubblicata la foto che è stata pagata, non la foto che appare gratis sulla rivista, il lavoro è di norma, pagato, solo gli hobby si fanno gratis. Passiamo alle risposte, che mi son dato, in ordine sparso. La più delicata è che alcuni son soddisfatti nel vedere il loro nome su una rivista, tale soddisfazione è talmente grande che pagherebbero (e alcuni lo fanno) per vederlo. Un’altra risposta è l’ingenuità: se qualcuno sceglie la mia foto, vuol dire che è valida e che io valgo.

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L’altra faccia dell’ingenuità: mettere sul curriculum la pubblicazione come foto del mese potrà stupire la mamma e la nonna, non certo il direttore della rivista che vede il curriculum. C’è un apposito cestino che ospita questi curriculum con delle etichette con degli aggettivi non pronunciabili. Il fotografo U.G.C. non è altro che una cavia da laboratorio, alimenta un meccanismo che fa arricchire pochi e ha speranze, nulle direi, di poter trovare una strada per la professione. Il mercato, alimentato dalla disponibilità gratuita di milioni di fotografi, è drogato, chi pagherebbe per avere qualcosa che puoi avere gratis? Nessuno sarebbe disposto a pagare paesaggi o foto stereotipate che generano like, la nuova frontiera è farsi pagare dai fotografi. Ci si fa pagare per avere dei like in più, ci si fa pagare per partecipare ai concorsi: più spendi, migliori son le tue foto. Questa lotteria, nella quale vince sempre il banco, che chiamiamo web 2.0 è, come tutte le lotterie, alimentata dal miraggio di pochi che guadagnano e di una vasta platea di partecipanti che la nutrono di sogni, speranze e, spesso delusioni.



Pensiero del giorno: l'esercizio di stile è per annoiati che

sanno il fatto loro. Vedere attraverso gli occhi di un grande fotografo, si può. Basta frequentare le sue mostre. Anche tentare di riprodurre quello sguardo, non è vietato. La differenza però, è evidente anche a un bambino. Tutto ciò che faremo imitando i grandi che ci hanno preceduto, sarà inferiore all'originale. Ultimamente, nella depressione mortale di paesaggi insulsi, ritratti sfocati e cibarie riprese dai bar delle periferie del mondo, alcuni social network mettono a disposizione la funzione anti-noia.


Si tratta di banali algoritmi che riproducono, a mò di filtro, tonalità cromatiche, grana e distorsioni degli stili fotografici in voga durante il periodo analogico. Il tutto nella vana illusione di rendere il piatto di lasagne meno rivoltante e piÚ artistico (un piatto di lasagne fotografato, ha infatti il subdolo potere di far perdere l'appetito).


E questo per il semplice fatto che l'utente medio fotografa il piatto di lasagne: più spesso del necessario. Quindi vai di lomo, bleach bypass, foro stenopeico (pinhole, letteralmente buco di spillo) e cross processing. L'abbiamo ripetuto fino alla nausea: il cromatismo non riduce l'insignificanza dello scatto. I più arguti tentano di croppare l'immagine. Il risultato è il ritaglio del banale. Anche se il re del viraggio moderno rimane il bianco e nero (al quale, generalmente si sottopongono scatti talmente brutti da far ribellare il sensore), prendiamo l'esempio del cross-processing: è come il panettone, nato da un errore, ma a differenza del dolce milanese non ha avuto fortuna. Negli anni '60 una serie di errori nei bagni di sviluppo, ci regalò cotanto prodigio estetico tornato recentemente alla ribalta. Colori pastello a contrasto elevato, stessa cosa per il filtro lomo, in cui però abbiamo la dominante verdognola.


Ma è come il fast-food: c'è a chi piace, tenteremo di farcene una ragione. Viene in mente un solo contesto in cui tutto questo pastello carico ci sembra accettabile: la foto di moda. Come noto, il genere fashion non riproduce alcuna realtà, bensì esalta un prodotto, e con esso lo status che evoca, la sua raggiungibilità o al contrario, la sua esclusività. Ma, appunto, è moda. Tutt'altro discorso va fatto per la fotografia pinhole. In effetti, qui siamo quasi alla replica dell'analogico. Scattare col forellino sul tappo del corpo macchina, non è roba per dilettanti. Innanzitutto perché il risultato è imprevedibile, e questo per l'ovvio allungamento (smisurato) dei tempi di esposizione. Poi perché la foto stenopeica deve piacere.


Quindi li perdoniamo, per ora, gli amanti del settore; almeno fino alla prossima invasione. Un paio di parole le merita il marchio Lensbaby. A noi non piace fare pubblicità , ma questa trovata è geniale. Si tratta di una serie di obiettivi basculanti (quindi orientabili fuori dall'asse), studiati appositamente per una messa a fuoco talmente selettiva da produrre immagini in cui nel fotogramma domina lo sfocato, tolta la sezione a fuoco, ovviamente.

Ci chiediamo il motivo di un investimento del genere, e come al solito, ci viene in aiuto la parolina del secolo: consumismo. Gli obiettivi basculanti derivano la loro esistenza dai vecchi banchi ottici: costruiti per correggere le linee cadenti della foto di paesaggio e architettonica.


Qui abbiamo la funzionalitĂ fuori asse al servizio dello scopo inverso: lo sfocato. Ma i risultati si fanno comunque apprezzare: un panning concentrico e fortemente grandangolare, con immagine decentrata a fuoco

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(o centrata, a seconda del basculamento). Ancora una volta abbiamo fatto la figura dei vecchi arnesi lamentosi, refrattari alle nuove “diavolerie� tecnologiche.


Prendiamo la questione da un diverso punto di vista, quello creativo. Il creativo può essere aiutato dall'aggeggio costoso, ma la tecnologia non può tutto. La creatività, inutile dirlo forse, ma raepetita juvant, non si insegna e non ce la fornisce,

bella e pronta, il corpo macchina. Si trova forse nella non riproducibilità e di sicuro nell'unicità del linguaggio. Quanti creativi sono arrivati al cuore del mondo con solo un foglio e una penna a disposizione?



uno dei presupposti che stanno alla base del cinema o della letteratura fantastica: la sospensione del dubbio e l’immedesimazione nelle vicende narrate o rappresentate sullo schermo. Che c’entra con la fotografia? Bella domanda. Apparentemente nulla, ma come vorrei evidenziare la sospensione dell’incredulità sta alla base della fotografia moderna, che è sempre più frutto di post-produzione.

32 ­ Settembre 2016


Questa non è una campagna per la moralizzazione della fotografia o per il ritorno ai bei tempi andati, la fotografia è sempre stata ritoccata, per motivi estetici o per motivi ideologici. Il ritocco fotografico oggi non è più finalizzato a “migliorare” o eliminare elementi di disturbo nell’inquadratura, attualmente sempre più photographers demandano alla post produzione la correzione degli errori, grossolani, della ripresa. La fotografia come forma espressiva, o perché no, come forma d’arte, non può essere limitata alla sola verosimiglianza tra soggetto e la sua riproduzione, non lo affermo, né lo penso, trovo stucchevole, altresì, che il significante sia slegato dal significato.


Molte delle immagini che hanno fatto la storia sono costruite a tavolino, non sono vere, ma verosimili. Quello che rende simboliche queste fotografie non è la realtà intrinseca, ma l’unione tra significante e significato, il segno, il simbolo, quello che rappresentano nella cultura visiva occidentale. Carl Gustav Jung affermava: le origini dell’opera d’arte simbolica non sono da ricercarsi nel subconscio personale dell’autore, ma in quella sfera della mitologia inconscia le cui “immagini primordiali sono proprietà comune dell’umanità”. Ok, adesso obietterete, ma quelli erano altri tempi, il pubblico era ingenuo. Forse, ma mi domando: nella nostra straripante cultura visiva contemporanea, siamo il grado di discernere quello che è reale da quello che non lo è?


Paesaggi affascinanti, modelli o attori bellissimi: corrispondono al loro reale aspetto, o rappresentano un ideale proposto e/o imposto che accettiamo senza alcun dubbio, senza l’incredulità necessaria, ovvero sospendiamo l’incredulità? Sono riflessioni pedanti, le mie? Oppure siamo di fronte ad un arretramento della coscienza, del senso critico, siamo diventati così ingenui da accettare qualsiasi immagine come plausibilmente vera? Domande senza risposta. Il paesaggio come opera del divino poteva suscitare un estasiato stupore, ma era concepito in un’epoca in cui l’unico paesaggio che si poteva ammirare era quello davanti ai propri occhi.


Il Giudizio Universale di Michelangelo è stato partorito dalle visioni di un uomo geniale, possiamo avere lo stesso stupore nelle immagini che ci circondano, nelle elaborazioni slegate dal significato che costellano la nostra quotidiana esistenza? La risposta è no, poiché abbiamo perso il senso di stupore, l’inflazione di immagini che ci circonda produce stereotipi senza anima, il colore saturato o desaturato è un artificio tecnico, l’immagine che arriva al cuore attraverso i nostri occhi non esiste più, è stata soppiantata da un manierismo senza profondità che dona una gratificazione immediata, ma è immediatamente sostituibile. Manca, scusate se esagero, l’anima.





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