Tu che mi guardi. Tu che mi racconti. Vedere il presente attraverso gli occhi degli altri.

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Assessore

Bruno Simini Direttore Centrale

Antongiulio Bua

Progetto e Comunicazione

Producer

Direzione creativa

Workshop

Metaflow - Milano

Mario Flavio Benini Art Direction

Alessandro Boccardi

Elena Gemelli Stefano Boccalini, Paola Di Bello, Simonetta Fadda, Francesco Jodice, Armin Linke, Annamaria Martena, Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Roberto Lucca Taroni

Coordinamento organizzativo e progettuale

Francesca Zocchi

Regia

Giampaolo Galenda

Partnership

Carlotta Maria Paschetto

Operatori

Sarah Dominique Orlandi

Jurj Rossetti Riccardo Scurati Alejandro Lightowler von Stahlberg

Fotografie

Montaggio video

Consulenza di ricerca Realizzazione dei testi introduttivi delle sezioni: Generazioni, Lavoro, Espressività, Spazi, Stili e consumi e delle interviste per i documentari

Progetto allestimento

Consulenza didattica

Marcelo Soulè

Codici - Agenzia di ricerca sociale: Lorenzo Breveglieri, Daniele Cologna Massimo Conte, Stefano Laffi

Alejandro Lightowler von Stahlberg Branco

Strutture

Tenso 2000 Partner tecnici

Mai come in questi ultimi mesi si è dibattuto di questioni “interculturali” e si è sentita la necessità di definire la visione politica, attuale e futura, della società multiculturale milanese e italiana. Come Assessore all’Educazione e all’Infanzia mi sento in dovere di sottolineare con determinazione che, per evitare le ghettizzazioni e far emergere le diverse realtà, occorre dar vita a un dialogo che superi gli steccati delle varie identità. Non si tratta di agitare un polverone mediatico, ma di creare un democratico dibattito che porti al confronto e all’integrazione. Chi è lo straniero? Straniero è un bambino nato in Italia da una famiglia extracomunitaria o lo è solo un bambino arrivato dall’estero per ricongiungersi alla famiglia? E i bambini adottati da coppie italiane sono stranieri o italiani? Per la mia esperienza di già quattro anni vissuti nelle scuole, persino mangiando con i bambini e gli insegnanti, devo riconoscere che quest’istituzione svolge un ruolo basilare nell’integrazione delle diverse culture. La scuola è il primo momento di convivenza tra i bambini che scoprono le differenze e imparano che queste non sono un divieto al giocare assieme. Qui si costruisce l’integrazione duratura, quotidiana e faticosa che non fa notizia, ma costruisce la nuova società multietnica quale è quella di Milano. È sempre a scuola che, con il il contributo delle famiglie e del Comune di Milano, si difende il diritto di tutti i bambini all’istruzione e all’uguaglianza e che si formano i cittadini del domani. Nel mondo odierno che corre veloce, grazie anche alle nuove tecnologie, spesso siamo portati a guardare i nostri bambini come se fossero degli adulti in miniatura. Ci capita così di dimenticare le loro potenzialità sempre pronte ad emergere spontaneamente. Il Comune di Milano, con il Servizio Eventi, offre ai genitori luoghi, momenti, educatori preparati che favoriscono la crescita serena dei loro figli non solo nei giorni di scuola ma anche nei weekend. Un modo per i bambini di stare insieme alle proprie famiglie, ma anche agli altri bambini e alle loro rispettive famiglie. Integrazione, comprensione e condivisione sono gli ingredienti necessari affinché lo sforzo di tutti ottenga successo, ma occorre anche dare qualcosa di proprio nell’intento di far nascere i bambini come persone già inserite socialmente e farli restare tali anche da adulti. Bruno Simini Assessore Educazione e Infanzia


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Come fa osservare il sociologo algerino Abdelmalek Sayad, un tratto tipico delle “scienze delle migrazioniâ€? è l’assumere un punto di vista sostanzialmente etnocentrico, perchĂŠ focalizzato sui problemi che le ondate migratorie provocano nel paese di arrivo, senza tener conto del fatto che l’immigrazione sconvolge anche i paesi di partenza, per esempio, favorendo lo spopolamento di interi villaggi oppure spingendo un’intera comunitĂ a rischiare e investire tutto quello che ha – non solo in senso economico – su coloro che partono. Questo vale a maggior ragione per gli eventi traumatici che l’emigrare produce nella coscienza di coloro che partono per andare a vivere, a lavorare o a studiare in paesi lontani da quelli d’origine. L’immigrato non è mai lo stesso di prima, perchĂŠ è costretto a confrontarsi con una realtĂ che gli è completamente nuova, e nel silenzio della societĂ d’accoglienza la sua identitĂ subisce una trasformazione. L’identità è il tema centrale di ogni studio che osservi i movimenti migratori dal punto di vista dei protagonisti del viaggio, identitĂ duplice, modulata sul riďŹ uto o sull’accettazione della cultura d’appartenenza e della societĂ ospitante. Nel caso dei ďŹ gli degli immigrati di prima generazione, il tema si complica ulteriormente, come se ci trovassimo di fronte a una doppia capriola, a un viaggio capovolto, dal presente al passato, dal paese che ci ha adottato a quello d’origine. Gli “immigrati di seconda generazioneâ€?, infatti, riportano alla luce la complessitĂ e l’emergere dei conitti nati dalla scelta migratoria delle proprie famiglie. Si parla di bambini o di ragazzi ďŹ gli di immigrati e non di bambini o di ragazzi immigrati a sottolineare un passaggio in piĂš. Lo si capisce bene nel saggio di Daniele Cologna “Famiglie, ambienti e lavori delle popolazioni asiatiche a Milanoâ€?, (Collana AIM - Abitare Segesta Cataloghi, 2003) che descrive come tra i ďŹ gli degli immigrati cinesi a Milano convivono proďŹ li diversi, legati all’anzianitĂ della presenza in Italia dei genitori, alle loro condizioni economiche e sociali, alle cittĂ o ai paesi di provenienza, al livello d’istruzione, al tipo di lavoro. Ci sono giovani che hanno passato l’infanzia in Cina e una volta raggiunti i genitori in Italia, non riescono ad entrare nel loro modo di pensare e di lavorare. Spinti ďŹ n da piccoli a dedicare le proprie energie soprattutto agli studi, una volta arrivati in Italia, realizzano che è piĂš facile entrare nel mondo del lavoro italiano che in quello cinese. O che dopo aver vissuto in Cina un relativo benessere grazie alle rimesse dei genitori, in Italia si ritrovano a vivere con genitori quasi sconosciuti, in case-laboratori anguste e degradate. La delusione spesso si traduce nell’abbandono scolastico e in un forte disagio familiare ed esistenziale. In una stessa famiglia il ďŹ glio piĂš grande può sentirsi piĂš cinese che italiano e il piĂš piccolo piĂš italiano che cinese. C’è chi si dibatte tra il desiderio di assimilarsi e quello di differenziarsi, chi accetta di prendere in mano l’attivitĂ familiare e chi non vi si riconosce piĂš come il ragazzo che dice: “So che se sceglierò di diventare imprenditore lo farò e cercherò di essere felice, ma piĂš frequento la scuola, piĂš si allargano le mie possibilitĂ . Magari dopo mi piacerebbe andare all’universitĂ . PiĂš vado avanti, piĂš faccio fatica a gestire queste nuove opportunitĂ . Parlare di queste cose con i miei genitori è molto difďŹ cile perchĂŠ per loro io sono sempre quello di prima. Prima di iniziare il liceo, anch’io avevo le stesse idee dei cinesi adulti che vivono a Milano: diventare ricco, fare i soldi. Ora le cose sono un po’

cambiate. E poi mi manca proprio il vocabolario per esprimere queste mie nuove idee e sensazioni, non ci sono le frasi nel mio dialetto per dare forma a questo modo di pensare...â€? Perfettamente estraniati sia rispetto alla famiglia cinese che ai coetanei italiani: loro possono capire gli altri, ma gli altri non riescono a capire loro. “... Io mi sento cambiata da quando sono qui, sono stata molto inuenzata dalla cultura italiana. Penso che se non fossi venuta qui, se fossi rimasta in Cina, sarei sicuramente diversa da come sono adessoâ€? dice una ragazza cinese che vive a Milano. Non si è piĂš quelli di una volta e non si diventa mai piĂš quello che si sarebbe dovuti diventare, ma se non ci sono le parole per dirlo, se la propria esperienza non riesce a tradursi in racconto, resta inenarrata, implosa. Raccontare serve a ricomporre lo specchio frantumato della propria identitĂ , a controllare l’imprevisto, a dare ordine e a trovare ragione degli eventi traumatici, ad acquistare coscienza della propria storia e di quella delle proprie famiglie. Il racconto intreccia i tanti ďŹ li degli attaccamenti in un ordito, una trama riconoscibile anche dagli altri, dĂ forma alle continue morti, metamorfosi e rinascite a cui la migrazione costringe. “Ciascuno di noi – scrive Amin Maalouf ne “L’identitĂ â€? (Bompiani, 1999) – dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversitĂ , a concepire la propria identitĂ come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerraâ€?. Se il modello dell’immigrazione delle generazioni che partono per prime si fonda sul conitto binario della doppia identitĂ , per i loro ďŹ gli vale piuttosto il paradigma postmoderno e postcoloniale della diaspora, che deďŹ nisce una condizione piĂš uida di svincolamento dalla nazione, (di parte appartenenze e di combinazioni di elementi, che fa di ognuno un individuo unico. “Abb sembra di cavalcare tra due culture, altre volte ci pare di cascare tra due sedie... La parola traduzione deriva, etimologicamente, dal latino portare d nale si perda in una traduzione, insisto sul fatto che si possa anche guadagnare qualcosaâ€?. Maria Pace Ottieri Antropologa, giornalista, studiosa dei problemi dell’immigrazione. Scrittrice di libri di successo come “Quando sei nato non puoi piĂš nascondertiâ€? (Nottetempo 2003) da cui il regista Marco Tullio Giordana ha tratto ispirazione per il suo ultimo ďŹ lm.



Proviamo a pensarci catapultati in un mondo lontano: la Cina millenaria e trasformista; il Sudamerica spezzato dell’infinita colonizzazione; i Balcani dietro il sipario del dopo bufera. Proviamo a pensare come sarebbero differenti le nostre vite, le case, le strade in cui cammineremmo, i lavori che faremmo, probabilmente per tirare a campare...

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Sono le istantanee che ci vengono in mente quando cerchiamo di immaginare l’emigrazione. Ma c’è ancora una cosa a cui in genere non si pensa. Quando ci si confronta con il tema delle migrazioni internazionali e della presenza nelle nostre città di masse importanti di popolazioni straniere, che sia su un piano emozionale o puramente informativo, tutto ci si prefigura, ma alla dimensione familiare troppo spesso non si pensa. Meglio: la si considera solo in termini di lontananza, distacco, separazione, privazione. Non ci si sofferma invece a riflettere su come si modificano, si sfilacciano o si ridefiniscono i rapporti fra genitori e figli; sul senso di essere giovani o anziani; sul valore dell’infanzia, dell’adolescenza; la voglia di essere bambini o di non esserlo più; la difficoltà di essere padri, o madri, in un mondo che non si sente proprio e non si sa come insegnare a conoscere. Tutto questo come si innesta sulle dinamiche di una popolazione in emigrazione? E che contorni traccia nell’esperienza migratoria degli individui? Essere figli in un percorso di vita migrante significa in primo luogo affrontare un doppio ruolo, dover rispondere a doppie aspettative, spesso in contrasto. Da un lato una matrice, dei ricordi, diretti se non si è partiti troppo piccoli, o viceversa addirittura soltanto ricostruiti dal racconto, dalla testimonianza, dall’appartenenza a cui le famiglie, e non solo i genitori, costantemente ti richiamano. Dall’altro un futuro che a volte ci si nega tenacemente per lasciar spazio ad una prospettiva di ritorno, di ricostruzione della propria storia interrotta, oppure al quale ci si concede, al quale si aderisce con ancor più forza per sperare così di ridurre quella distanza che è un carattere apparentemente ineliminabile della propria storia. Da un lato, cioè, le strutture e le reti sociali articolate che si vanno via via sempre più consolidando all’interno dell’universo dell’immigrazione costituiscono anche una fonte di rafforzamento dell’identità dei migranti e un momento di elaborazione dell’esperienza migratoria, contribuendo grandemente a ridurre l’area dell’esclusione


sociale di queste popolazioni. Dall’altro le nuove generazioni, i giovani nati o cresciuti in Italia, pur legati alle culture dei paesi di provenienza dei genitori che tentano di ritrasmettere valori e tradizioni per non perdere anche l’ultimo possibile legame con la terra natia, sono però attratti molto piĂš dalla matrice culturale in cui stanno crescendo. Di conseguenza sono spesso sperimentatori di elementi di contraddizione, se non di frustrazione, che incidono profondamente sulla costruzione della loro identitĂ .

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Persino i ruoli si confondono, alla ďŹ ne. Quando ad esempio sono i ďŹ gli a costituire il veicolo tramite il quale i genitori si affacciano, sperimentano limitati ma utili contatti con una cultura estranea e distante. Quando un padre si porta appresso il ďŹ glio perchĂŠ possa fargli da interprete in un ufďŹ cio pubblico in cui deve affrontare la burocrazia italiana, si veriďŹ ca un’abdicazione, si scava un solco dentro il quale il genitore improvvisamente non ha piĂš nulla da mettere, anche perchĂŠ la velocitĂ con cui si allarga è da quell’istante impressionante. Può frenare la corsa un bisogno di sopravvivenza, la necessitĂ di compenetrare gli spazi e i tempi del lavoro con quelli della vita privata familiare. La partecipazione dei ďŹ gli, anche in etĂ assai giovane, al lavoro dei genitori, è spesso al contempo soluzione necessaria di sopravvi parte dell’immigrazione cinese che sopravvive ad una sorta di spietata concorrenza autarchica anche attraverso fenomeni di autosfruttamento, di rinuncia al proprio privato e di immersione totalizzante nel lavoro, e negli ambienti del lavoro. Nulla a che fare con i contorni sfumati dei fenomeni di sfruttamento vero e proprio: piuttosto qui i ďŹ gli crescono alternando nelle loro giornate ore scolastiche di totale adesione al modello culturale di arrivo ad ore casalinghe di inclusione esclusiva nel modello culturale familiare-lavorativo, dove ai genitori non resta che usare appunto il lavoro per comunicare coi ďŹ gli. Funziona? Si direbbe di sĂŹ, a giudicare dai successi spesso raggiunti dai giovani cinesi ad esempio nell’accesso all’istruzione superiore e quindi ai canali realmente piĂš efďŹ caci dell’integrazione: quelli del “successoâ€?. Ma a pagarne il prezzo saranno probabilmente i loro padri e le loro madri, in questo caso. A volte assistiamo a tentativi “disperatiâ€? di riprodurre in Italia le norme e i comportamenti sui quali nel paese e nella cultura di origine le famiglie avrebbero costruito il proprio modello educativo. Contro (in questi casi, sĂŹ, spesso anche contro) una societĂ che ha regole e norme incommensurabili, i ďŹ gli vengono a volte circondati da un ďŹ lo spinato di protezione, forse sperando cosĂŹ di poterli riportare un giorno in patria ancora “riconoscibiliâ€?, ancora sovrapponibili al proprio sogno. Ma proprio perchĂŠ, necessariamente, “spinataâ€?, questa protezione conigge prima o poi con una societĂ che è permeabile e che esige la permeabilitĂ . Conigge a livello di gruppo, e di istituzioni, ma prima o poi conigge anche a livello individuale, nel profondo dell’identitĂ di ognuno, ed è un conitto sociale, culturale e generazionale.

D’altronde la condizione familiare diventa sempre piĂš centrale, dal momento che il processo evolutivo dei ussi migratori in Italia si è ormai s zione familiare-comunitaria delle presenze nel paese. In altre parole l’immigrazione in Italia è sempre piĂš un’immigrazione di famiglie, o un’immigrazione di lavoratori che poi portano o costituiscono le loro famiglie in Italia. E se si vuol capire la portata di questo processo si dovrĂ cominciare a immettere anche questa componente nella riessione sul rapporto fra le generazioni, sui nuovi modelli familiari, sul ruolo del soggetto famiglia nella nostra societĂ , nel sistema del welfare, nel sistema previdenziale, nella stessa dimensione economica del sistema paese. I lavoratori immigrati oggi contribuiscono a sostenere le pensioni degli italiani ma, fra precariato, lavoro atipico e partite iva, quanta parte di beneďŹ cio ne trarranno nei prossimi decenni, approssimandosi all’etĂ anziana? E ai loro ďŹ gli allora, i giovani immigrati di oggi, come spiegheremo cos’è il “patto intergenerazionaleâ€?, concetto giĂ vacillante per comprensibilitĂ e accettabilitĂ nei giovani italiani?

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E inďŹ ne ci sono le generazioni che ancora devono nascere, o meglio che stanno frettolosamente nascendo in questi anni. I tassi di n esteranno cosĂŹ a lungo, probabilmente. Però oggi negli ospedali, nei reparti di maternitĂ , è sempre piĂš frequente incontrare gestanti straniere. Alcuni ospedali cittadini si attrezzano appositamente, con personale specializzato per le necessarie funzioni di mediazione culturale, e non solo linguistica. E per molti immigrati l’esperienza della permanenza in ospedale della madre e del piccolo neonato rappresenta la prima vera presenza, il primo “esserciâ€? nell’ambiente sociale non piĂš solo come “lavoratoreâ€? ma come famiglia, come genitore con le aspettative, e le responsabilitĂ , di ogni genitore di fronte alla comunitĂ e alle istituzioni. Individui, istituzioni, comunitĂ , italiani e stranieri, se ci soffermiamo a considerare l’immigrazione sotto tutte le sue innumerevoli sfaccettature, se proviamo a leggerne le complesse dinamiche nel solco dei processi di integrazione, che risposte siamo in grado di darci? Abbiamo ad esempio gli strumenti, culturali e affettivi, per comprendere e rispondere all’ovvio quanto difďŹ cile bisogno di sostenere il dialogo non solo fra le culture ma anche, e piĂš banalmente se si vuole, fra le generazioni? Lorenzo Breveglieri


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Zimu è nato in Cina e vive a Milano da 16 anni, da quando ne aveva 6. È laureato in Economia dei Mercati Finanziari in Bocconi, dove frequenta ora il primo anno di specializzazione. Spera poi di trovare uno stage e di iniziare subito a lavorare. Laura ha 19 anni, vive a Milano con i suoi genitori, studia ragioneria e pensa di continuare gli studi all’università. Il suo nome in cinese è Chen, che vuol dire “Mattina”... Maria “Lihui” (il suo nome in cinese significa “Bella e saggia”) è nata a Milano, ha quasi 22 anni, frequenta il terzo anno di psicologia della comunicazione in Bicocca. Vive da quando aveva 2 anni con una signora italiana, ma ha sempre visto regolarmente i suoi genitori. Anna ha 21 anni, è nata a Biella e quando aveva 3 anni si è trasferita a Roma con i suoi genitori. Finite le superiori è venuta da sola a Milano, dove ora frequenta la Bocconi.

Il videodocumentario racconta le storie di quattro ragazzi a cavallo tra due culture e due generazioni: uno sguardo sul loro presente per capire come sarà la nostra società del futuro.

“Da quando avevo due anni vivo con una signora italiana... i miei vivono a Milano assieme ai miei fratelli e alle mie sorelle e li vedo spesso”. “Ma tu lo sai il cinese?” “No io conosco il mio dialetto. Sono andata a corsi per imparare il cinese”. “ Io vivendo da sempre con una signora italiana non conosco neanche il mio dialetto”. “Negli ultimi anni la popolazione cinese di Milano si è concentrata quasi tutta nella zona di Paolo Sarpi, quindi i bambini cinesi hanno l’occasione di stare tra di loro, di vedere la televisione satellitare cinese e quindi di parlare il cinese. Io quando sono venuta a Milano, molti anni fa, non conoscevo molti bambini cinesi a parte i mie cugini che erano nella mia stessa situazione, quindi sono cresciuta parlando italiano”. “A scuola con tutti gli italiani non mi sembrava innaturale parlare l’italiano. Adesso crescendo e conoscendo altri ragazzi cinesi, ma poi vedendo anche il lavoro... mi pesa il fatto di non conoscere il cinese”.

Le immagini e le frasi di queste pagine sono tratte dal documentario “Come l’erba che cresce nel mezzo delle cose”.


“Il cinese non è poi così difficile... almeno la lingua parlata. Il cinese non ha i tempi verbali, non ha le coniugazioni, non ha il numero, non c’è niente”. “La grammatica è abbastanza facile, ma i caratteri ... in italiano i verbi sono difficilissimi. Infatti i cinesi parlano tutti all’infinito...”. “Io mi sento molto fortunata perché il cinese lo parlo e lo scrivo anche... Visto che sono avvantaggiata e parlo sia il cinese che l’italiano nel futuro mi piacerebbe trovare un lavoro tra la Cina e l’Italia... penso che tra cinquant’anni, o al massimo tra cento anni, le lingue che parleremo saranno solo: il cinese, lo spagnolo e l’inglese”. “I miei, in futuro vorrebbero tornare in Cina... ma io non vorrei andare a vivere lì. Mi sono abituata alla mentalità di qui... a me piacerebbe trovare un lavoro per stare sia qua che là”.

“I miei non mi vorrebbero mai vedere sposata con un italiano. Loro pensano che noi abbiamo una mentalità diversa. Ad esempio: per noi cinesi curare i genitori quando diventano vecchi è un compito morale, per gli italiani no, vanno via di casa, pensano solo a loro”. “Forse è anche un problema di comunicazione... non riescono a comunicare bene con un italiano”. “Io evito di parlarne con i miei. Abbiamo un’altra mentalità, loro vedono cosa capita qua e cosa sta succedendo ai ragazzi in Cina e si preoccupano. Ma quando toccherà a noi sarà diverso”. “Noi abbiamo quasi tutti amici italiani. Ad esempio Gianluca, l’ho conosciuto in seconda elementare e siamo rimasti amici sino ad adesso... ci troviamo... viaggiamo sulla stessa frequenza d’onda”. “Io con alcuni italiani non mi trovo bene, perché non li capisco. Mentre con ragazzi che hanno avuto le mie stesse esperienze mi trovo meglio... comunque dipende sempre dal tipo di persone...”.


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Nell’esperienza della migrazione, tutto ruota attorno al lavoro. È la tensione che caratterizza la struttura del mercato del lavoro nelle società ad economia avanzata, con una polarizzazione crescente tra un segmento ad alta intensità di capitale e di conoscenze, il cui accesso è riservato a coloro che hanno potuto investire in alti livelli di istruzione e formazione professionale, ed un segmento ad altà intensità di lavoro, che necessita di contingenti sempre più ampi di lavoratori a bassa qualificazione, a rendere economicamente sostenibili – ed in buona misura ad alimentare – le migrazioni internazionali contemporanee. Tale carattere dualistico e segmentato del mercato del lavoro è particolarmente evidente nelle cosiddette “città globali”, i centri nevralgici di un sistema economicofinanziario globale in rapida e crescente integrazione.

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Nelle città globali contemporanee il lavoro degli immigrati innerva fittamente la riproduzione sociale della quotidianità: nelle famiglie, nei negozi, negli uffici, nelle botteghe e nelle fabbriche (le poche rimaste). Sono donne e uomini immigrati la maggior parte di coloro che accudiscono anziani e bambini; i pony express che sfrecciano nel traffico, consegnando pacchi, lettere e pasti veloci; i cuochi, camerieri e baristi che nutrono la città; buona parte degli operai dell’industria nei quartieri in cui resta viva una vocazione artigiana o agli estremi più bassi delle filiere produttive dell’industria leggera; i manovali che costruiscono le case, riparano le strade, sistemano impianti elettrici e idraulici, imbiancano, decorano, operano traslochi, occupano le guardiole dei condomini e li mantengono puliti e in ordine; molti servizi di quartiere, quelli che ancora resistono alla grande distribuzione, sono gestiti da immigrati; ma anche la grande distribuzione vive del lavoro degli immigrati che imballano, etichettano, smistano, trasportano e incassano. Nel grande organismo metropolitano, i migranti svolgono le indispensabili funzioni di manutenzione, ottemperando, ai livelli più bassi di qualificazione, a un deficit cronico di manodopera cui una forza lavoro autoctona sempre più sovraqualificata – o poco disposta ad accettare determinate condizioni di lavoro e di retribuzione – non è più in grado di colmare. L’ironia aspra di questo film che ogni giorno scorre sotto gli occhi distratti degli abitanti della metropoli, è che a svolgere questa miriade di lavori sottopagati, sottoqualificati, pesanti, talvolta pericolosi o nocivi, quasi sempre precari, sono persone per nulla “dequalificate”: protagonisti di un’epopea agli occhi di chi li ha visti partire, qui sono ridotti a umili figuranti, costretti a recitare


ruoli del tutto diversi da quelli ai quali la vita precedente all’emigrazione li aveva preparati. Emigrare è una scelta, ma spesso è una scelta imposta dagli eventi, una scelta sofferta e stigmatizzante, che si giustifica agli occhi del migrante solo con il conseguimento dei propri obiettivi di riscatto sociale.

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A Milano, l’immigrazione è però sempre meno riducibile al cliché delle “braccia” chiamate a colmare i fabbisogni della macchina produttiva locale: da tempo va rafforzandosi il carattere familiare dei progetti migratori e le popolazioni e la maggior parte dei migranti è ormai qui con un coniuge o con i figli. Così sul lavoro del migrante gravano aspettative ed esigenze di una pluralità di soggetti, sia “qui” che “là”. A questa maggiore complessità demografica corrisponde anche un acuirsi delle tensioni che le particolarità dell’inserimento lavorativo innesca all’interno delle famiglie, tanto che conciliare lavoro e vita familiare somiglia sempre più a un’acrobazia senza rete. Non sempre gli individui, le relazioni, reggono alle sollecitazioni violente cui sono sottoposti. Il lavoro subordinato all’interno del segmento secondario del mercato del lavoro, con il suo corollario inevitabile di compressione dei consumi e di lenta accumulazione del risparmio può rivelarsi insufficiente a sostenere progetti migratori a carattere familiare. È anche in risposta a queste esigenze che si va sviluppando rapidamente l’ambito del lavoro autonomo e l’imprenditoria degli immigrati, che, oltre a far sperare in un ritorno economico migliore, può anche ridurre l’impatto di condizioni di svantaggio come l’incapacità di parlare bene l’italiano o l’impossibilità di valorizzare sul mercato del lavoro subordinato la propria formazione professionale. Il lavoro autonomo e l’imprenditori proprio attorno alla vocazione imprenditoriale degli emigranti, com’è il caso per i cinesi o per gli egiziani di Milano. A Milano il lavoro è storicamente il pedaggio che si paga per essere considerati parte della città, l’etica del “fare” rappresenta una sorta di lingua franca, crea familiarità e contatto, apre spiragli di opportunità impensati, offre la possibilità di un incontro con la gente, i linguaggi, le idiosincrasie e le passioni della metropoli. Molti impieghi degli immigrati, soprattutto all’interno del settore dei servizi, sono caratterizzati da una densità di relazioni importante. Collaboratori domestici e badanti accedono al “dietro le quinte” della città, divengono i portinai si ritrovano al centro di relazioni di vicinato che possono rivelarsi foriere di opportunità inusitate. Ristoratori e, soprattutto, baristi, panettieri ed edicolanti diventano parte della quotidianità relazionale spicciola della città, accorciando le distanze e il senso di estraneità. Se l’imprenditoria degli immigrati può arrivare a connotare quartieri e strade in modo “spaesante” per gli autoctoni, specie quando si

concretizza in servizi prevalentemente rivolti a una clientela d’immigrati, gli sviluppi più rapidi e pervasivi del lavoro autonomo nel campo del commer locale. Si tratta forse di effetti inattesi del lavoro degli immigrati, ma le cui conseguenze per il corpo sociale della metropoli sono potenzialmente profonde e durature.

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In un’immigrazione a carattere familiare il ruolo dei figli è cruciale: mediatori e interpreti rispetto al contesto locale per gli adulti condizionati da barriere linguistiche pesanti, collaboratori “naturali” dell’impresa familiare o semplicemente fulcro delle aspirazioni di riuscita sociale degli adulti che fanno parte della cosiddetta “generazione del sacrificio”, su di loro gravano aspettative importanti. Il loro inserimento nei percorsi della scuola dell’obbligo li rende testimoni incontrovertibili di una realtà sociale ormai mutata: essi saranno protagonisti di una dialettica sociale nuova, non più ristretta alle retoriche del confronto tra autoctoni e stranieri, ma segnata dall’avvento di minoranze che asp sociale che politico. Daniele Cologna


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Michael ha 37 annni e da quando ne ha 15 ha lasciato lo Sri Lanka per viaggiare e studiare. Dopo anni passati su una nave greca, Michael è arrivato a Venezia e da allora, era il 1992, è rimasto in Italia dove ha svolto molti lavori, dal babysitter all’uomo delle pulizie, e attualmente gestisce con la sua famiglia la portineria di un palazzo del centro di Milano. La sua grande passione è il cricket e oltre a praticarlo organizza una squadra di giovani promesse. Dopo quindici anni vissuti in Italia, Michael pensa di non essere né srilankese né italiano, ma di appartenere alla comunità “internazionale”. Se per Michael la casa è ancora lo Sri Lanka, per suo figlio la casa è diventata l’Italia. Il documentario ci racconta come i sogni di un uomo talvolta debbano venire a patti con una realtà difficilmente inimmaginabile. Ma la difficoltà di reinventare la propria vita diventa il punto di partenza per dare ai figli la possibilità di scegliere.

“Sin da quando ero piccolo volevo partire dallo Sri Lanka, gli amici che viaggiavano sulle navi mi raccontavano storie bellissime, perciò ho sempre avuto il desiderio di vedere il mondo”. “Nel 1983, quando avevo 15 anni, nello Sri Lanka è scoppiata la guerra. Mia mamma mi ha mandato a Londra per studiare. Ci sono rimasto per due anni poi sono andato a Singapore. Li ho iniziato a lavorare come cadetto su una nave e a studiare. Sono diventato secondo ufficiale e per sei anni ho viaggiato per il mondo imbarcato su una nave greca”. “Appena arrivato in Italia nel 1992 ho chiamato alcuni amici che vivevano a Bologna e hanno cercato di convincermi a rimanere con loro in Italia. È stato lì che ho deciso di lasciare la nave... avevo solo un vestito e cento dollari in tasca...”. “A Bologna, tutti i miei amici lavoravano, guadagnavano bene, ma non avevano una casa... nessuno voleva affittargliela... dormivamo nelle strade e alla mattina andavamo a lavorare...”. “Mi sono spostato a Milano e ho lavorato prima due anni per una famiglia che aveva quattro figli, come babysitter fisso e poi altri due anni e mezzo in un’altra famiglia”. “Nel 1997 sono tornato nello Sri Lanka e ho sposato mia moglie. Siamo tornati insieme in Italia e abbiamo preso una casa”.

Le immagini e le frasi di queste pagine sono tratte dal documentario “La soglia del mondo”.


“Ho pensato che avrei potuto gestire da solo il lavoro, che avrei potuto avere una mia impresa. Così ho fatto. Sono sette anni che lavoro in portineria in Via Procaccini ... il vantaggio di lavorare in una portineria è che la casa è gratis, fare il portinaio mi ha permesso di conoscere tanta gente. Conoscere tanta gente vuol dire conoscere stranieri, ma soprattutto italiani”. “In questi quindici anni in Italia ho visto tanti cambiamenti. Penso che quando i nostri figli cresceranno tutto andrà bene”.

“Per noi è stata una strada dura, io non voglio questa strada per mio figlio... noi anche se siamo qualificati, non possiamo lavorare qui perché la nostra qualificazione non vale. Per i nostri figli sarà diverso, loro avranno un diploma italiano, una laurea italiana, potranno, in dieci anni, essere dottori, avvocati... scegliere un lavoro che vada bene per loro”. “Non possiamo dire di essere srilankesi, italiani, siamo internazionali”. “Dopo quindici anni penso che sia un diritto avere la cittadinanza, ma in realtà è un processo molto lungo... non possiamo chiedere sempre ferie per richiedere documenti, fare domande, avere documenti, è un processo molto lungo”. “Mi piacerebbe che mio figlio avesse le due cittadinanze, italiana e srilankese; in realtà deve decidere lui, ma a me piacerebbe... penso che non dobbiamo dimenticare le nostre origini... ogni anno porto mio figlio nello Sri Lanka”. “Quando dico a mio figlio andiamo a casa, lui dice in Italia. Quando lo dicono a me, io dico: in Sri Lanka.

Questa è la differenza ... io non mi sarei mai immaginato che la vita prendesse questa direzione. Quando avevo cinque sei anni, volevo essere un pilota, poi è cambiato, la mia vita è diventata la marina. Ma il mio sogno è sempre stato giocare a cricket in nazionale. Quando ero piccolo, giocavo, e andavo bene, ma poi con la guerra la mia vita è cambiata... poi quando sono arrivato in Italia la mia vita è cambiata ancora”. “In Italia ho conosciuto per caso un ragazzo che giocava a cricket che conosceva mio fratello perché aveva giocato con lui, per caso era il capitano della nazionale italiana, così ho potuto iniziare nuovamente a giocare”. “Quando torno in Sri Lanka il rapporto con gli amici non è cambiato, il rapporto con la nostra famiglia non è cambiato, probabilmente cambierà con nostro figlio, lui conosce solo noi”. “Quando con la famiglia andiamo in Sri Lanka, lui vuole tornare in Italia, anche se dopo un po’ si trova bene, ha spazio per giocare, per muoversi. L’unico problema che ha avuto con i suoi amici in Sri Lanka è legato alla lingua”. A volte penso di tornare in Sri Lanka, ma poi penso: cosa faccio? Se mi fanno un colloquio e mi dicono che esperienze hai fatto in Italia, che esperienze hai? Io cosa devo dire? Devo dire che ho fatto il lavapiatti? Il portinaio? Con la reputazione che ha la nostra famiglia là, io non posso fare questo tipo di lavori... allora devo cercare di creare la migliore situazione qua, per me, per mio figlio, per la mia famiglia... abbiamo lavorato tanto: una casa, un’impresa, una portineria, perciò dico siamo stati fortunati... sino adesso”.


Fuori dalla scuola, dopo il lavoro, lontano dall’occhio a volte attento e severo a volte addirittura assente dei padri e delle madri, i giovani immigrati fanno prove di autonomia, di ridefinizione di sé, di appropriazione di un’identità che necessariamente non può, e non deve, soprattutto a quest’età, transitare solo dalla normatività imposta dal datore e dai colleghi di lavoro, da un’istituzione scolastica, da una rete familiare, aperta o chiusa che sia.

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Sperimentano. Si sperimentano, come ogni adolescente, ogni giovane fa, in qualità di soggetti dotati di un’anima, sogni propri, aspettative e progetti in via di formazione. Si sperimentano nel campo complicato delle relazioni, della comunicazione con i pari e con la società, dell’espressione dei propri sentimenti ed emozioni. E si sperimentano in qualità di figli dell’immigrazione, di persone costantemente sottoposte all’obbligo di dichiararsi e rispondere al bisogno degli altri di classificare, di sentir raccontare, di riconoscere. Da dove vieni? Parlami del tuo paese, ecc. Mentre un giovane arrivato in Italia magari da dieci anni ha altre esigenze comunicative ed espressive. Soprattutto deve potersi costruire un linguaggio e un paniere di racconti che non sia sempre e solo legato all’essere migrante, che sia invece espressione di un futuro, di una prospettiva scelta e non costretta. Fuori dalla scuola, dopo il lavoro, un giovane immigrato a Milano ha però di fronte soprattutto strade in salita: uno sforzo di comprensione e adesione ai modelli comunicativi ed espressivi tipici dei suoi coetanei o in generale degli omologhi italiani; la costruzione di una socialità tra pari tutta dentro la rete di protezione della nazionalità, dove l’intera sovrastruttura dell’essere immigrato è data per scontata e può essere per così dire “tolta dall’ordine del giorno”; l’espansione del mondo protetto e segreto dentro la casa, la ricostruzione di riferimenti noti e rassicuranti fra le pareti private dell’abitazione, della famiglia; il palesamento dell’identità, quasi l’ostentazione, per sfidare l’ambiente circostante, o magari solo per non volersi sentire da esso obbligato. In questi percorsi si mescola anche una dimensione di integrazione, più libera e positiva ma si tratta sempre di percorsi faticosi, sia che la fatica si orienti a tentare apertamente il contatto e lo scambio, sia che miri invece a proteggere, preservare una specificità, un’alterità in verità scomoda.


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A dominare invece sembrano essere gli strumenti, i media, sui quali transitano le energie e le volontà espressive e comunicative delle persone, spesso in modo assolutamente trasversale. Il riferimento è per esempio alla rete dei videonoleggi, che fungono da vera biblioteca dell’immaginario del paese di origine. Non si tratta, però, solo di fruizione passiva, di aggiornamento su quanto orienta la cultura popolare d’origine. I migranti sono da sempre anche portatori e creatori di forme espressive: pensiamo ad esempio, e certamente in pri che agisce potentemente ad annullare, almeno apparentemente, almeno nel consumo, nelle scelte di ascolto, le distanze fra mondi culturali ed esp gruppo, rappresenta il mezzo principale col quale far transitare la comunicazione e scambiare pezzi di identità: in altre parole conoscersi e riconoscersi con i propri coetanei e omologhi. Ma la forza della musica ha anche una valenza partecipativa molto rilevante: la musica non solo si ascolta, la si può anche fare. Basti pensare a un evento come Extrafestival, festival musicale organizzato da Radio Popolare che vede sul palco ad esibirsi decine di immigrati, ovviamente non professionisti, per cogliere la portata del bisogno di affermazione espressiva che sale dal sottobosco, ai più sconosciuto, dei mondi dell’immigrazione in questa città. Oppure scoprire i karaoke seminascosti in città nei quali i giovani cinesi si misurano con una passione sorprendente con le loro star e la loro musica pop. E la si può anche danzare, la musica, come nel caso del Most Talented Pinoys che annualmente vede esibirsi gruppi di giovani filippini in spettacoli di danza dietro i quali c’è in genere un lavoro di mesi e mesi di prove. Per questi giovani, al di là del fatto artistico, spendere quasi tutto il tempo libero a disposizione per mesi e mesi incontrandosi per preparare l’esibizione, diventa un canale fondamentale di socializzazione con i propri connazionali, nonché un’occasione fenomenale per vivere pubblicamente la propria espressività. In questo caso passa attraverso il corpo, la danza appunto, una funzione cruciale di confronto e comunicazione a tutto tondo.

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Un altro ambito cruciale, intorno al quale si gioca una grande fetta della partita, è quello dello sport, che è sempre stato, ovunque, veicolo fondamentale di socializzazione, di integrazione, spazio protetto ed efficiente di formazione ed espressione dell’identità delle persone e dei gruppi. Singolare è che, al fianco delle modalità più tipiche e a tutti familiari, come le interminabili partite di pallone dei

sudamericani o dei nordafricani al parco, si esplichi anche tramite fenomeni per Milano e l’Italia del tutto inusitati, come lo sviluppo che sta prende grazione assume di nuovo non solo una funzione ludica, ma soprattutto una valenza di garanzia. Apre cioè ai migranti spazi altrimenti preclusi di partecipazione, di confronto, di scambio, a livello identitario sia individuale che di gruppo. E, cosa non sempre facile, garantendo anche un’efficace integrazione tra gruppi nazionali diversi.

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Sono sufficienti questi meccanismi? Certamente no, se consideriamo quanto comunque resti marginale nella quotidianità degli immigrati lo spazio della socialità, e soprattutto dell’espressività. Sono vite centrate in modo spasmodico sul lavoro che spesso offre poco o punto appiglio ai meccanismi dell’integrazione. Per alcune nazionalità, si pensi ad esempio ai cinesi, i tempi del loisir dopo la scuola e dopo il lavoro a volte semplicemente non ci sono, o restano comunque connotati dai contenuti dello studio e del lavoro. In questi casi sono forse più spesso le stesse funzioni collaterali al lavoro e allo studio a fungere da volani per la socialità: l’associazionismo fra studenti, che si ritrovano fra di loro la sera nei ristoranti a saracinesca abbassata per parlare e confrontarsi e che spesso instaurano anche processi di scambio e di crescita culturale gratificanti, ma che restano comunque legati a quella funzione, a quel ruolo, a quel “gruppo”; oppure il fiorire effervescente di iniziative editoriali etniche, i giornali cinesi, addirittura la TV cinese, attività a cavallo fra l’imprenditoria e l’attivismo sociale e culturale, che ricoprono una funzione tuttavia importante nel garantire ambiti di espressività e strumenti di costruzione delle identità. Fino ad arrivare a internet. Girate per la Chinatown di Milano, il quartiere Canonica-Sarpi, e oggi dietro molte vetrine opache e misteriose affacciate sulla strada troverete una saletta semibuia con 15 pc accesi e altrettanti ragazzi connessi alla rete. Mentre chi non riesce a superare la barriera della protezione familiare, delle mura domestiche, chi preferisce ridefinirsi dentro un universo privato e segreto, spesso apre una finestra proprio tramite internet: le chat, molto frequentate dai più giovani, soprattutto di quelle nazionalità che per ragioni religiose non favoriscono una socialità libera e articolata dei figli fuori dal rigido controllo parentale. La religione d’altronde è veicolo fortissimo di identità e di appartenenza, soprattutto per gli adulti. Ma a volte lo è anche per i giovani, soprattutto quando riesce ad associare proposte ricreative e culturali collaterali. Comunicazione, espressività, socialità, sono facce della stessa medaglia e inevitabilmente ci dobbiamo convincere che i processi di integrazione sociale degli immigrati sono guidati dalle opportunità di affermazione di sé, di espressione culturale e identitaria, oltre che dai noti, e comunque necessari, fattori materiali e normativi (risorse e diritti). Lorenzo Breveglieri


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Margherita, Gianna, Kathy, Edeadne Bryan, Leonard: cinque ragazzi filippini nati e cresciuti in Italia. Il denominatore comune che li unisce è la passione per il ballo, che si è concretizzata per anni in prove lunghe e impegnative per arrivare alla messa in scena di molti spettacoli: oltre all’emozione del palcoscenico e alla soddisfazione del “dopo-spettacolo”, i ragazzi hanno condiviso i tanti momenti intensi del back-stage, che li hanno uniti profondamente. Ora il tempo da dedicare al ballo è molto meno, lo studio e il lavoro li assorbono completamente. Per alcuni di loro l’esperienza lavorativa nasce da un’esigenza di libertà, per altri è una necessità economica o un’occasione per capire meglio cosa fare nella vita. Per tutti resta comunque fondamentale il legame e il confronto con la famiglia: l’importante è non deludere le aspettative dei genitori, che aspettano di vedere i loro sforzi concretizzarsi nella laurea dei figli.

Sono proprio le voci di questi ragazzi (oltre a quella del padre di due di loro) a raccontare nel documentario le storie e le scelte che li indirizzano verso un futuro che mantiene ben salde le sue radici nei valori della tradizione.

Le immagini e le frasi di queste pagine sono tratte dal documentario “Ballando al suono antico del futuro”.


“Al temine dell’università mi sono preso un anno sabbatico ... L’anno sabbatico mi ha aiutato a scegliere cosa volevo fare... siccome sapevo già diverse lingue ho scelto il corso di lingue in università”. “Come volontario faccio l’educatore agli adolescenti... faccio catechismo, cerco di accogliere i nuovi arrivati”.

“I nostri genitori ci hanno influenzato molto nelle scelte scolastiche sino alla maturità”. “Per noi l’importante era continuare a studiare seguendo le nostre inclinazioni”. “L’università non ha cambiato le mie amicizie ... però se devo dire la verità, il gruppetto degli stranieri è sempre un po’ appartato ... può essere legato al fatto che alcuni non capiscono bene la lingua e ci si dà un aiuto reciproco”. “Per me con l’università è aumentata la relazione con gli italiani ... dopo poche settimane

ho conosciuto un sacco di persone. Mi fa piacere conoscere gente di qui, integrarmi nella comunità italiana”. “I miei genitori avrebbero voluto che rimanessi a casa a studiare e non hanno accolto bene il fatto che io sia andata anche a lavorare, preferivano pensassi solo allo studio... anche se poi si sono resi conto che un aiuto in casa può servire... siamo in tre figli e non è sempre facile”. “Per i filippini la famiglia è importante. Per noi filippini l’importante è non deludere i genitori”.

può essere legato alla lingua...”. “Hanno una diversa mentalità da noi che siamo cresciuti qui, ci divertiamo in modo diverso. Molti stanno sul sagrato del Duomo, non fanno nulla tutto il giorno... non li capisco... i loro genitori lavorano tutto il giorno per mantenerli”. “A casa abbiamo sempre parlato in italiano, i miei genitori tra di loro parlano sempre l’italiano. Gli amici sono quasi tutti italiani”. “Invece i miei genitori parlano sempre in tagalo a casa... per me è importante e anche per mio fratello più piccolo. Almeno non verrà preso in giro dai sui amici filippini”.

“Io mi sento libero di fare quello che voglio, anche se la mia famiglia un po’ mi condiziona... la famiglia è sempre presente sia direttamente che indirettamente nelle scelte presenti e anche in quelle future”.

“Ci vediamo meno spesso per i practices di ballo... adesso facciamo meno spettacoli... duravano troppo, io dovevo saltare corsi all’università mi portavano via troppo tempo”.

“Con i nuovi arrivati dalle Filippine che non parlano italiano non mi trovo bene... vanno sempre in giro in gruppo, fanno chiasso, tendono ad escluderti. Forse il problema

“A me dispiace che da un po’ di tempo facciamo meno prove, è bello stare assieme. Ci divertiamo a ballare, è bella l’agitazione che c’è prima dell’inizio dello spettacolo”.


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Viviamo in città i cui spazi sono rigidamente normati, per i quali c’è uno straordinario proliferare di vincoli e regolamenti; i cui spazi hanno come dimensione principale il loro essere funzionali alle esigenze programmate. Eppure i processi di governo non riescono a mantenere l’ordine assoluto. L’uomo, ogni uomo, ha lo straordinario bisogno di territorializzarsi e, contemporaneamente, di umanizzare il territorio. Ovvero di costruire le condizioni per la propria sopravvivenza sociale e culturale ambientandosi, prendendo possesso del proprio spazio vitale, apprendendo all’interno di un luogo che contribuisce a creare. Ecco, l’uomo per stare al mondo ha bisogno di fare mente locale (grazie a Franco La Cecla). Ovvero di riconoscere che il luogo non è solo funzione eteroattribuita, non è solo arte di governo, ma anche appropriazione e inversione. Come tutti i processi di inversione, anche il farsi proprio del luogo, ritagliarsi il proprio spazio, provoca attriti, resistenze, conflitti. Perché imporre la propria esistenza alla città governata non è sempre piacevole, non è sempre facile.

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Nel rapporto con la città i migranti fanno, come peraltro chiunque altro, esattamente questo: vivono in un luogo nell’unico modo possibile, appropriandosene. Fino a quando la città resta sconosciuta è nemica della sopravvivenza e l’uomo, per vivere, deve manipolare il proprio ambiente. La prima manipolazione è semantica: le strade, le piazze, i parchi cambiano nome. La toponomastica ufficiale vive di un immaginario che non può appartenere a chi viene da un posto molto lontano, parla un’altra lingua e ha altri eroi, poeti o santi a cui apporre una targa. La toponomastica cambia ed è riletta a partire dall’esperienza di uso dei luoghi. Non conta il nome ufficiale, conta che anche a uno appena arrivato sia chiaro come si chiama il parco dove troverà i propri connazionali. Allora cosa è più semplice che chiamare i luoghi con i nomi delle fermate della metropolitana, con i nomi del tram che bisogna prendere per arrivarci? Il nome diventa istruzione di viaggio, condizione per non perdersi nel labirinto metropolitano. Allora il nome diventa l’occasione per segnare i luoghi importanti per la vita da migrante, quelli dove andare per il permesso di soggiorno o recuperare un pranzo gratis. Ancora, come fare a chiamare i posti che ospitano uffici che fanno parte di un sistema dei servizi e di un apparato burocratico che non si riesce a comprendere?


La soluzione è associarli a un monumento che c’è vicino, anche se l’indicazione in sé è carica di ambiguità per un ascoltatore che non ha la stessa esperienza dei luoghi. Andare in Duomo per uno straniero può voler dire andare all’Anagrafe, come al Comando Vigili o al Pronto parla e sa che l’interlocutore capirà. Il nome, allora, diventa richiamo e rimando, codice di una lingua dell’esperienza che comprende solo chi l’ha vissuta. Ecco, lo stradario sembrava chiaro. Eppure il nome e la cosa hanno svelato che il loro rapporto non è semplice.

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La seconda manipolazione è la definizione del concetto di casa. Tutti gli uomini hanno bisogno di un luogo che dia la sensazione di essere sicuro, accogliente, un luogo in cui ripararsi quando si è maggiormente esposti al rischio. Quando piove, quando si devono chiudere gli occhi per riposare, quando si è malati. In questi anni c’è una proliferazione delle case. Una proliferazione che non è solo fatta di speculazioni edilizie e di febbre del mattone. È fatta anche della proliferazione delle tipologie di casa. Come molti che non possono misurarsi con il mercato ufficiale, ci sono migranti che fanno la propria casa nei tubi dei viadotti, sotto le arcate dei ponti, nelle macchine abbandonate. Ci sono persone che trasformano in casa le baracche degli attrezzi nei campi di periferia, le fatiscenti strutture di fabbriche in disuso, palazzine pericolanti nel centro della città. Altri diventano costruttori e fanno crescere le proprie case di lamiera e cartone in campi abbandonati o in terreni affittati dagli italiani, realizzano le proprie case di mattoni e cemento all’interno di un parco cittadino. Ecco le tipologie della marginalità, quando le condizioni di sopravvivenza costringono a chiudere gli occhi di fronte all’immondizia che si accumula e a far tacere i bisogni del corpo di fronte al freddo e all’umidità delle notti. Le case proliferano anche in una sola casa. Co famiglie trasformando gli spazi e facendo esplodere i tempi: la camera doppia si dilata fino ad accogliere otto persone, per l’uso della cucina e il diritto a dormire bisogna rispettare i turni. Il tempo biologico che detta i ritmi della fame, del sonno e dei bisogni del corpo è riscritto da una organizzazione che rimanda a gerarchie, a ruoli, a contrattazioni. Poi ci sono le case che sono la fine di un sogno, quelle che compri perché dopo tanti anni si è capito che la migrazione, è spesso un viaggio di sola andata. Sono case che hanno, quasi sempre, dei doppi a migliaia di chilometri; secondo la regola per cui la baracca costruita nel campo della periferia milanese si riflette nella casa nuova costruita nella città natale. A Guayaquil come a Ouled Youssef o a Craiova.

In ultimo ci sono le case che sono il coronamento di un sogno. Il punto di approdo per cui ci si può guardare all’indietro e essere soddisfatti, anche se bisogna nascondere la punta di amarezza per aver dovuto chiedere i soldi in prestito a tassi più alti, aver dovuto dare garanzie che sono costate tantissimo, aver smesso di mandare i soldi alla famiglia rimasta al paese, aver dovuto prendere anche il secondo o terzo lavoro.

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La terza riconosco come miei simili, che mi restituiscono la mia esistenza come persona capace di relazioni sociali. Contemporaneamente, la socialità consente di confermare quei legami che portano il lavoro e la casa, l’informazione cruciale sulle risorse a disposizione. Certo, una socialità che non sempre ha i colori della reciprocità e della solidarietà. A volte porta con sé la mercificazione della relazione di aiuto e del sostegno. Allora, guardiamoli questi luoghi in cui costruire relazioni che non possono essere accolte in case troppo piccole e sovraffollate o in locali troppo costosi. I luoghi sono tanti, diversi e dispersi. C’è la piazza della Stazione dove trovi tutto quello di cui c’è bisogno: il barbiere e la parrucchiera, i biglietti per il viaggio in Ucraina o in Bulgaria, le merci che arrivano da casa e gli spedizionieri che portano gli acquisti per la famiglia, i cibi da mangiare insieme e la birra da bere, i cd e i dvd delle classifiche rumene, i cellulari e le schede telefoniche. Una sola piazza che per l’italiano medio è la piazza del transito, degli arrivi e delle partenze, diventa un crocevia di relazioni sociali. Proviamo a guardare nei parchi cittadini dove la socialità esplode in partite di calcio e in tornei interminabili con scommesse, giocatori pagati in nero, tifo organizzato. Dove ogni campo da gioco è lo scenario intorno cui raccogliersi per incontrarsi, per guadagnarsi la giornata di lavoro vendendo il cibo, per negoziare un posto letto o delle ore a casa di un anziano. Dove bere perché c’è sempre un motivo per bere fino a ubriacarsi: perché si vince e perché si perde, perché non c’è il lavoro o il lavoro è troppo duro, perché i figli sono lontani o perché sono troppo vicini con i loro problemi, perché si ama o perché un amore è finito. Il viaggio nella città ci ha portato a visitare e scoprire luoghi che, apparentemente comuni, diventano qualcosa da decifrare e riconoscere. Luoghi in cui riconoscere l’uomo al lavoro per rendere proprio lo spazio in cui vive. Come tutti i processi di appropriazione, anche il farsi proprio del luogo, ritagliarsi il proprio spazio, provoca attriti, resistenze, conflitti. Perché garantire la propria esistenza nella città governata non è sempre piacevole, non è sempre facile. Massimo Conte


Quando giri la città ti accorgi delle differenze: vedrai spesso un giovane peruviano sfrecciare con lo scooter ma mai un marocchino fare altrettanto, vedrai un giovane filippino con il look di tendenza mentre il senegalese resta nel suo stile statuario fedele o indifferente ai propri abiti, vedrai sudamericani vagare con la birra per strada o cinesi mangiare cose che non sai nemmeno come si chiamano e se ci sono nel menu. Proviamo a esplorare il prologo, a renderci conto di quanto sta succedendo. Cosa c’è nella valigia del migrante? Non lo sappiamo, certamente c’è l’essenziale – l’essenziale per vivere, ma anche per ricordare, per evocare, cioè il materiale e il simbolico insieme – perché in questi viaggi non c’è posto per i bauli e i chili in più sono zavorra. Cosa c’è nell’armadio tempo dopo, e a maggior ragione in quello dei figli? Forse le stesse cose, certamente molte altre, perché il materiale si logora e va rinnovato, il simbolico si scambia e muta.

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È intuitivo, l’analogia con la comune esperienza del viaggio ce lo fa capire, torniamo sempre carichi e un po’ diversi se è stato un vero viaggio. Ma qui non si tratta di souvenir, la situazione è quasi capovolta, l’emigrazione è il contrario del turismo: il regime di scambio ha sollecitazioni fortissime, il migrante rischia di esser lui il souvenir di se stesso, la società che lo ospita può esercitare pressioni molto dure nella scelta di cosa buttare da quella valigia, oppure giocare con le sue tradizioni e fingere che nella cucina etnica ci sia la prova esaustiva di come si può convivere in allegria. La soluzione non è facile né univoca, la storia dei rapporti fra minoranze e maggioranze ce lo ricorda: prendiamo proprio i consumi e lo stile di vita, guardiamo agli Stati Uniti per avere un ricco campionario, troveremo neri americani in tutto identici ai bianchi anglosassoni per abbigliamento, simboli di status e aspirazioni, indiani d’America chiusi nelle loro enclave e radicalmente distanti da quel modello, comunità bianche Amish in grado di vivere in quel paese senza automobile, radio, televisione e persino corrente elettrica. Guardiamo all’Italia, a Milano, e troveremo comunque una gamma vasta delle possibilità di scambio, che qualcuno chiama assimilazione o integrazione quando l’armadio – materiale, simbolico, valoriale... – è in gran parte rinnovato, ma che pare opportuno vedere piuttosto come fatto di diversi comparti (il grado di scambio con la cultura locale dei diversi membri della famiglia non è lo stesso), di diversi cassetti (alcune tradizioni non si toccano, alcune abitudini si acquisiscono subito), e continuamente aperto e chiuso. Rinunciamo anche a graduatorie

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per nazion parla italiano, lavora in fabbrica e cura relazioni sindacali, ma è indifferente ai nostri gadget e sempre immerso nei riti di incontro coi propri connazionali, oppure l’imprenditore cinese che non parla italiano e veste uno strano completo abbondante identico d’estate e d’inverno, ma gestisce un ristorante frequentato da centinaia di italiani, guida una BMW e ha il cellulare di ultima generazione?

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In tempo gloriďŹ cato a diritto fondamentale, in una cittĂ attentissima alle tendenze, in un’età – quella dei piĂš giovani – in cui si è disperatamente alla ricerca del proprio simile. Quello che scegliamo, quello che abbiamo, quello che facciamo dice di noi e noi lo sappiamo, il simbolico riette. I consumi parlano per noi e hanno un pregio formidabile: inscenano il tribunale del presente, tagliano le code del passato e del futuro e mettono nel “qui ed oraâ€? il campo d’azione in cui tutto si decide. I consumi ci allineano, sono un fotogramma in cui si può apparire tutti simili, prima che scorra il ďŹ lm e si scopra chi sa parlare, chi sa muoversi, chi sa gestire le relazioni... Allora immaginiamo di aver problemi con la lingua, di esser ragazzi e ragazze senza istanze rivendicative e senza l’ossequio della tradizione – perchĂŠ la sentiamo poco ed è anzi la zavorra che ci toglie agilitĂ nelle relazioni, perchĂŠ è l’oggetto di tensioni coi genitori, ecc. – oppure di parlare benissimo l’italiano ma di essere stanchi di quel gioco che piace agli italiani di farci raccontare costumi e colori del nostro paese, di non sentirci diversi dai pari etĂ ed anzi voler disinnescare il pesante rituale del rendere conto del nostro passato... ovvero immaginiamo di voler stare semplicemente in mezzo agli amici e sentirci parte del gruppo, senza conitti, dibattiti, contrapposizioni speciali: cosa c’è di meglio dei jeans a vita bassa o di una suoneria che scateni la curiositĂ e l’invidia degli altri?

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La provocazione è ormai chiara, il campo in cui si gioca l’omologazione piĂš rischiosa delle nuove generazioni rivela chance sorprendenti di accoglienza dei nuovi giovani migranti: il consumo – ben riconoscibile, facile, muto, continuamente aggiornabile... – consente di accreditarsi come “contemporaneiâ€? in tempi rapidissimi, abbassa o annulla la difďŹ denza verso la propria diversitĂ , sconta la fatica di qualunque spiegazione, precipita nel gruppo senza il sudore del viaggio. L’autobiograďŹ a per oggetti è inďŹ nitamente piĂš comoda e manipolabile di quella per luoghi, lingua e affetti: perchĂŠ non giocarci un po’, trovare lĂŹ il varco di scambio?

Certo, non basta. Il consumo allenta la presa della coscienza, immette un registro diverso e leggero in biograďŹ e di grandi fatiche e grossi scontri – sicuramente fra genitori e ďŹ gli – crea occasioni di fusione nel gruppo dei pari, ma non risolve i conitti e non dĂ l’esperienza della convivenza, se mai abbassa la soglia di ingresso. Vale per tutti, italiani compresi: quante volte abbiamo cercato di indovinare il regalo giusto, l’abbigliamento adeguato, il segnale piĂš esplicito di appartenenza in quella foresta di simboli che è la contemporaneitĂ ? E un attimo dopo ci siamo accorti di aver sbagliato, che non bastava, che non sapevamo cosa dirci sopra o dopo... Riecco la scena iniziale, i gradi e i modi diversi di immersione simbolica e commerciale, l’invenzione di combinazioni sorprendenti: qualcuno si esenta dal gioco e resta indifferente al varco del consumo per mimetizzarsi, qualcuno preferisce giocare in casa ricreando il proprio habitat, altri si tuffano negli stili locali e combinano liberamente i consumi, facendo di un negozio la propria biblioteca, la propria fonte di rigenerazione culturale. Una cosa è certa: ogni esperimento, dall’orgogliosa resistenza al vortice delle mode ďŹ no alla pura immersione nel usso, genera un risultato comunque diverso dal punto di partenza, che merita attenzione. Ricordiamoci che, nel frattempo, siamo cambiati anche noi. Stefano LafďŹ



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Proviamo a volare con la mente: multicultura, conoscenze, lingue, tradizioni, valori. Estraneità, familiarità, appartenenza. Camuffarsi, annullarsi, ritrovarsi. Diverso, uguale, simile, compatibile. Integrazione, adattamento. La multiculturalità è un bacino immenso di contenuti. Come riuscire ad avvicinarsi ad essa senza sminuirne la complessità e la ricchezza? “Come è difficile vedere ciò che ho sotto gli occhi”. L.J. Wittgenstein

Per poter vedere quello che abbiamo davanti, mimetizzato nella quotidianità dalle solite cose, dobbiamo cambiare il punto di vista, l’approccio, il punto di accesso. Se guardiamo un oggetto, osservandolo da lontano ne avremo delle impressioni, ma se ci avviciniamo, lo guardiamo da davanti, da sotto e di lato, lo tocchiamo, lo annusiamo, lo smontiamo e lo rimontiamo, il bagaglio di informazioni ottenute diventa molto più articolato e complesso. Un atteggiamento da adottare per riflettere sulla multiculturalità è quindi osservare, per poi arrivare ad osservarsi osservare. Osservando e promuovendo un’autoriflessione coerente sul nostro comportamento e sulle esperienze ad esso associate possiamo arrivare a maturare un punto di vista non conformistico. Se parlando di multiculturalità ci limitiamo a discutere di dati cadremo facilmente nella formulazione di frasi retoriche e scontate. Una diversa possibilità di lavoro (soprattutto per chi fa didattica a scuola) può essere quella di partire dall’opera di alcuni artisti per individuare percorsi espressivi che ci aiutino a trovare un personale punto di vista. Attraverso la mediazione del lavoro dell’artista e lo studio delle opere creative si può venire infatti a creare uno spazio di lavoro interessante, un corridoio di libertà, in cui il pensiero originale dei ragazzi possa emergere.

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Riflessione, creazione e realizzazione di un’opera sono tutt’uno. Per questo motivo abbiamo invitato degli artisti a realizzare una serie di workshop con i ragazzi delle scuole: Stefano Boccalini, Paola Di Bello, Simonetta Fadda, Francesco Jodice, Armin Linke, Annamaria Martena, Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Roberto Lucca Taroni.

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Osservare gli artisti al lavoro è affascinante: sono l’essenza di una mente trasformativa; affrontano le tematiche cercando una soluzione diversa, mettendo in risalto sfumature che sfaccettano il contenuto. I temi proposti dai documentari realizzati per questo progetto sono: la relazione fra le generazioni, la reinvenzione nell’uso dei luoghi cittadini, il potenziale creativo ed espressivo nella multiculturalità, il lavoro, gli stili di vita, i consumi. A partire dai contenuti dei filmati, i workshop coinvolgono gli artisti e i ragazzi non nella ricerca di soluzioni, ma con un invito a pensare altrimenti, ad attivare un percorso di lavoro, a rielaborare. Il contatto diretto con un artista – un professionista capace di servirsi di tutti gli strumenti tecnici, corporei e plastici per rendere al meglio un’idea – diventa un’occasione unica per osservare concretamente il pensiero creativo. Questo modo di reinterpretare il proprio punto di vista avvicina la creatività dell’artista alla quotidianità dello straniero, capace anch’esso di reinventare se stesso in una comunità che gli appartiene solo in parte. Ribadiamo un punto per noi centrale: coinvolgere i ragazzi in attività creative permette di parlare di multiculturalità senza rischiare di cadere in commenti scontati e senza cercare scorciatoie. Alcune classi delle scuole di Milano sono state coinvolte direttamente nei workshop, altre possono vederli su www.multi-culturalismo.it: uno spazio nuovo e in continua evoluzione, dove è possibile rivivere i progetti degli artisti, guardare i documentari e conoscere nuove proposte per la realizzazione di altri laboratori. Nella Giornata Mondiale dell’Infanzia possiamo provare come adulti ad osservare i ragazzi pensare. Sarah Dominique Orlandi


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Stefano Boccalini è nato a Milano nel 1963. Vive e lavora a Milano. Nel 1987 si diploma in scultura presso la NABA, dove dal 1988 è docente e dal 2000 è titolare di cattedra del corso di Public Art. Lavora con istituzioni pubbliche e gallerie private in Italia e all’estero. La strategia del suo lavoro cambia a seconda del luogo in cui si realizza: quando ha a che fare con gli spazi deputati all’arte, Boccalini innesca una serie di funzioni in attesa di essere esercitate, mentre quando lavora sul territorio, diventa per lui indispensabile la partecipazione attiva di chi abita tali luoghi. Il lavoro non nasce piĂš come una condizione autonoma in attesa di essere vissuta, ma diventa un processo in cui la collaborazione degli altri è fondamentale per la costruzione del lavoro stesso.

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“Voglio una cittĂ dove la mia professione contribuisca a tutto questo, dove la pianiďŹ cazione della cittĂ sia una guerra di liberazione combattuta sia contro gli spazi pubblici muti, anonimi sia contro le molteplici forme di oppressione e dominio e sfruttamento e violenza; dove i cittadini strappino allo spazio nuove possibilitĂ e si immergano nelle loro culture, nel contempo rispettando quelle dei loro vicini e forgiando collettivamente nuove culture e spazi ibridiâ€?. L. Sandercock, “Verso cosmopolis. CittĂ multiculturali e pianiďŹ cazione urbanaâ€?, edizioni Dedalo, Bari 2004

Da questa citazione, si possono individuare due problematiche che riguardano la vita sociale nelle cittĂ : l’utilizzo dello spazio pubblico e la coabitazione tra culture diverse. Queste due problematiche (che possono diventare due facce della stessa medaglia) sono il punto di partenza del workshop, che intende analizzare rispetto al quartiere di provenienza dei ragazzi, quei luoghi che per loro natura sono deputati all’incontro tra culture diverse (scuole, spazi per il gioco, ecc.), quegli spazi che vengono riutilizzati perchĂŠ “mutiâ€? e quelli che possono essere trasformati secondo i desideri di ognuno e ripensati con nuove funzioni. SehenswĂźrdigkeiten, con Nika Radic, Galerie im Kunsthaus Essen, Essen (Germania), 2000.


Tutto questo diventa una mappa del quartiere, ricostruita attraverso le indicazioni e i desideri dei ragazzi. Materiali: - fotocopie della mappa del quartiere di provenienza dei ragazzi su cui disegnare - matite, pennarelli, gessetti - ritagli di giornali - colla - macchine fotograďŹ che digitali - un computer per scaricare le immagini - una stampante

Wild Island, Isola Art Project 4, Parco di via Confalonieri, Milano, 2002.

Random Map, opera permanente, a cura di A. von FĂźrstenberg (Art for the World), John Kirakossian School,Yerevan, Armenia 2003.


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Paola Di Bello è nata a Napoli nel 1961. Vive e lavora a Milano. Utilizza la macchina fotograďŹ ca o la videocamera per sondare la facoltĂ di presa dell’occhio rispetto alla realtĂ . Ăˆ interessata ad esplorare l’ambito stesso della percezione: ciò che vediamo e come lo vediamo o, piĂš spesso, ciò che non vediamo, perchĂŠ ci sfugge o perchĂŠ, adattandoci all’esistente, smettiamo di guardarlo. Senza rinunciare ad un aspetto poetico, il suo lavoro si applica direttamente alla sostanza della visione, al suo oggetto, per interrogare la conoscibilitĂ delle cose. Animata da spirito indiziario, convinta che valga sempre la pena di sperimentare punti di vista molteplici, Di Bello compie questo esercizio quotidianamente, con atteggiamento concreto ed essenziale, con immediatezza e naturalezza, convinta che il fatto di smascherare le visioni precostituite e rinnovare lo sguardo possa innescare fecondi processi di elaborazione e di consapevolezza rispetto al contesto in questione.

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Paola Di Bello conduce il workshop insieme ad Armin Linke (vedi a pag. 61). A partire dal celebre “Supplemento al dizionario italianoâ€? di Bruno Munari, il progetto di workshop intende focalizzare l’attenzione sul linguaggio gestuale. L’idea è quella di ricreare con i ragazzi dei piccoli set fotograďŹ ci che mettano in scena gesti a loro noti e familiari e di tentare di tradurli nella gestualitĂ di altre lingue con l’aiuto dei ragazzi di nazionalitĂ diverse. A conclusione del workshop le fotograďŹ e scattate verranno stampate e visionate da tutti i ragazzi.

“Supplemento Video Rom, 1998. al dizionario italiano� di Bruno Munari

Materiali: - un videoproiettore per la presentazione delle tavole di Munari - macchine fotograďŹ che digitali - un computer per scaricare le immagini - una stampante - carta fotograďŹ ca


Il grande piccolo, 2004.

Video Rom, 1998.


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Simonetta Fadda è nata a Savona. Vive e lavora a Milano. Espone i suoi primi lavori col video in gallerie e spazi pubblici sul finire degli anni Ottanta, con una serie di installazioni a circuito chiuso basate su sistemi di video sorveglianza, al cui interno “lo spettatore è attivo ed essenziale (...) e la cui costante è (...) l’osservazione e il controllo di uno spettatore osservato più che osservante. Vi è una decisa impronta foucaultiana, del Foucault di “Sorvegliare e punire. La nascita della prigione” (Einaudi, Torino 1976), citato in Giulio Ciavoliello, “Dagli anni ‘80 in poi: il mondo dell’arte contemporanea in Italia”, (Artshow Edizioni Milano - Juliet Editrice Trieste 2005). Nello stesso periodo, si dedica allo studio della filosofia e avvia l’attività di traduzione di saggistica artistico/filosofica. La sua ricerca artistica sul video subisce una svolta nel 1992, quando inizia a lavorare al progetto delle “telecronache, utilizzando la videocamera per riprendere accadimenti marginali o poco visibili del territorio urbano. (...) Attraverso il video, Simonetta Fadda dà visibilità ai rituali individuali e collettivi di utilizzo sociale del territorio (...). Tra forme di convivenza e riti urbani, l’artista porta allo scoperto le trame dei comportamenti collettivi come espressione di gerarchie di valori insiti nella struttura sociale. L’attenzione sociologica è strettamente connessa ai problemi relativi alla messa in scena di tali questioni.” (Alessandra Pioselli, “Simonetta Fadda, Reality Show”, catalogo della mostra presso Careof – La Fabbrica del Vapore, 11/10 – 5/11/2005, Milano) A fianco dell’attività di artista, Simonetta Fadda si dedica all’analisi teorica sul video: nel 1999 esce il suo saggio “Definizione zero. Origini della videoarte tra politica e comunicazione”, per le edizioni Costa & Nolan (ristampato nel 2005), uno studio degli eventi e delle idee che negli anni Settanta contribuirono all’affermazione del video come mezzo artistico, mentre nel 2001 è invitata dal FRAC-Corse per una residenza d’artista in Corsica, alla quale fa seguito un seminario con l’Unité Pédagogique del Palais de Tokyo di Parigi. Nel 2002 Simonetta Fadda è nuovamente invitata a Parigi per la Biennale d’Enghien les Bains e per progettare e realizzare un semestre di workshop sul paesaggio con le scuole della Banlieu Nord di Parigi, un’importante esperienza di confronto con realtà e problematiche di disagio ed emarginazione. Inoltre, dal 2003 si dedica alla didattica dell’arte progettando laboratori in collaborazione con scuole e musei, tra i quali, il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova e il Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo-Milano.

Vernissage, still da video, 2004.


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Il workshop propone una riessione in chiave ludica sulle differenze e somiglianze culturali tra persone di diversa nazionalitĂ , a partire dal cibo. I ragazzi partecipanti utilizzano personalmente la telecamera per intervistarsi a vicenda rispetto ai propri gusti e ai piatti esotici e/o abituali che è capitato loro di assaggiare. La telecamera è collegata a un grande monitor di controllo che permette ai bambini di visionare in tempo reale il video che stanno realizzando. A conclusione del laboratorio, il video viene proiettato nello spazio in cui si svolge la manifestazione. Materiali: - videocamere digitali - un monitor

Points de vue, still da video, 2001.

Stargate, still da video, 2003.


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Francesco Jodice è nato a Napoli nel 1967. Vive e lavora a Milano. Nel 1995 inizia a lavorare con la fotograďŹ a, il video, la scrittura e la creazione di mappe. Nel 1996 si laurea in architettura. Nel 2000 è uno dei membri fondatori di Multiplicity, network internazionale di architetti ed artisti. Nel 2004 è uno dei fondatori di Zapruder, collettivo i cui membri sono ricercatori in diversi campi, dall’arte, alle relazioni internazionali, dall’informatica, al ďŹ lm-making, al giornalismo. Dal 2004 è docente di Teoria e Pratica dell’immagine tecnologica, facoltĂ di Design e Arte, UniversitĂ di Bolzano. La sua ricerca investiga i cambiamenti nel comportamento sociale di individui qualsiasi o di intere comunitĂ in diversi ambiti urbani e geograďŹ ci.

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Crossing è un confronto all’americana tra individui qualsiasi. Sono fotograďŹ e di persone inconsapevoli, ritratte nell’atto di venirci incontro. I ragazzi “spianoâ€?, quindi, attraverso l’occhio di alcune macchine fotograďŹ che digitali, le persone che incrociano casualmente per strada. Le foto di questo improvvisato campionario umano vengono poi afďŹ ancate l’una all’altra, ricostruendo un’ illusione di contiguitĂ tra la gente e lo spazio nel quale si muovono. Nel loro involontario confronto le ďŹ gure pongono quesiti sulla propria identitĂ e sul senso di appartenenza ai luoghi che attraversano. Materiali: - macchine fotograďŹ che digitali - un computer per scaricare le immagini - una stampante - carta fotograďŹ ca

Hikikomori. Film, 22 min., still da video, 2004.


Hikikomori. Film, 22 min., still da video, 2004.

Hikikomori. Film, 22 min., still da video, 2004.


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Armin Linke è nato a Milano nel 1966. Vive e lavora a Milano. Come fotografo e ďŹ lmmaker sta lavorando a un archivio a crescita progressiva sulle diverse attivitĂ umane e sui nuovi paesaggi naturali e artiďŹ ciali, cercando di documentare situazioni in cui i conďŹ ni tra ďŹ nzione e realtĂ si assottigliano e diventano invisibili.

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Armin Linke conduce il workshop insieme a Paola Di Bello: per il progetto vedi a pag. 49.

Fans at concert in shopping centre. Hong Kong China, 2001.


Favela Paraisopolis. Sao Paulo Brazil, 2001.

Maha Kumbh Mela Allahabad. India, 2001.


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Annamaria Martena è nata a San Cesario di Lecce (LE). Vive e lavora a Milano. Lavora con il video. I suoi lavori sono stati presentati in mostre, rassegne video e ďŹ lmfestival in Italia e all’estero. I suoi video parlano delle relazioni e lo fanno creando oppure alterando corrispondenze, nessi, analogie e dipendenze. “Nello sguardo esercitato dai suoi video, c’è qualcosa che ricorda l’attenzione dell’antropologo, di chi, cioè, osserva le relazioni tra persone, il linguaggio, i movimenti, gli oggetti, volendo conservare un distacco che alla ďŹ ne gli risulta impossibileâ€? (da un’intervista con Mimmo Papa, in “Verbisâ€?, 2003). Il suo lavoro è una presa di posizione per assonanza e dissonanza insieme. Interpreta la presa di posizione di un dubbio, ma il dubbio, per questa artista, ha la stessa durezza del sĂŹ e del no, del dentro e del fuori e, a suo modo, diventa assertivo. I suoi video sono delle risposte aperte, nel senso di accessibili e non conclusive e ripongono nel rischio la parte piĂš vitalizzante della comunicazione. A volte la comunicazione riesce e a volte no, il fallimento può avvenire per colpa di chi dice ma anche di chi ascolta. In ogni caso, il fallimento non è necessariamente un segnale di riďŹ uto.

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Il titolo del workshop è ripreso dal termine “voice overâ€?, ovvero una delle tecniche del doppiaggio parlato che nel suo nome condensa, col rimando ad una voce sopra, l’idea del progetto. Il doppiaggio ha varie funzioni ma la piĂš diffusa, almeno in Italia, è la traduzione interlinguistica: una voce sostituisce quella in lingua straniera, rendendo comprensibile un dialogo. Il suo scopo è chiaramente quello di togliere allo spettatore il problema della traduzione e di guidarlo, comodamente, dentro ai contenuti pronunciati. Ma, se il doppiaggio usasse la stessa lingua e parole identiche, a cosa potrebbe servire dire le frasi di un altro sul suo stesso volto? Cosa potrebbe produrre il dare voce a un’immagine che non è la propria? Ăˆ evidente che lo scopo non può piĂš essere la traduzione e la comprensione del testo e, dunque, la sua utilitĂ va ricercata in altri campi della comunicazione. Voice over è un video che sarĂ sviluppato e realizzato nel corso del workshop, in cui i ragazzi saranno a turno attori e doppiatori l’uno dell’altro. Materiali: - videocamere digitali - un monitor Unosono, frame da video, 2003.


Unosono, frame da video, 2003.

Unosono, frame da video, 2003.


"MFTTBOESP /ĶTTJSJ 5BCŞC[BEFI Alessandro Nassiri Tabibzadeh è nato a Milano nel 1975. Vive e lavora a Milano.

È molto difficile parlare del proprio lavoro. Forse dovrei farlo in terza persona, per dare più importanza. Forse invece se uso un linguaggio informale sembro snob all’incontrario. Posso allora raccontare solo i fatti. Senza interpretazione. Così da non provocare commenti. Finito il liceo ho iniziato a lavorare nella fotografia, come assistente, casualmente, solo perché avevo conosciuto un fotografo. Nello stesso momento mi sono iscritto all’università, dove ho studiato lettere, con indirizzo storico artistico. Nel 2001 sono stato invitato alla prima mostra. Ho presentato un lavoro fotografico, in bianco e nero. Ora, nel 2005 ho fatto qualche mostra in più (ma non sono più di 20) e ho utilizzato diverse tecniche, dal video, al sito internet, a un risciò a pedali. Ho sentito persone che parlavano del mio lavoro (anche a me) avvicinandomi all’arte che si occupa di politica, di immigrazione. Una volta mi hanno presentato come un “relazionista”. Io ho sorriso, ma non ho capito bene. Io non sono neanche convinto di fare arte, ma tutte le volte che lo dico mi criticano, e allora ora dico solo che non è il mio compito stabilire cosa sia arte o meno. So che quello che faccio sento di farlo e se non lo faccio sto peggio. Inoltre mi sento sempre stupido a scrivere i curricula e oggi

Alice ha preso 4 nel compito di mate ma non lo dirà ai suoi, 2004.

Arturo quando guarda negli occhi la gente si immagina la loro vita, 2004.


ancora di piĂš. Ogni volta sono tentato di ďŹ nire con una citazione dal ďŹ lm ecce bombo, e questa è la volta buona. “Io faccio cose e vedo genteâ€? che poi è la veritĂ .

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Milano è sempre stata una cittĂ centro di migrazioni, come ogni grande cittĂ , un luogo in cui coesistono diverse culture, non sempre facilmente. La convivenza di realtĂ differenti e di una “cultura italianaâ€? (che non può essere ridotta a una sola) si può osservare nei bambini che spesso crescono in una realtĂ diversa da quella in cui sono nati i loro genitori. La mia storia personale è proprio quella di ďŹ glio di un uomo straniero e di una donna italiana. Quando ero alle elementari gli “stranieriâ€? a Milano erano molto meno di ora e io ero sempre individuato in un certo senso come diverso. Non mi sono mai sentito discriminato, però spesso mi chiedevano da dove venissi, a causa del mio cognome. Non provavo disagio, ma spesso non avevo voglia di raccontare tutta la mia storia. Il mio rapporto con il paese di mio padre non è mai stato troppo facile, non conosco bene la lingua, non ci sono quasi mai stato e la mia famiglia è anche scappata da quella realtĂ . In Italia, però, molte persone mi associano alle mie origini paterne, e la cosa interessante è che anche lĂ sarei visto come uno straniero. L’idea del workshop è quella di cercare di capire come un ragazzo che frequenta la scuola italiana a Milano nel 2005 percepisca il problema delle sue origini, qualsiasi esse siano, di indagare su cosa i ragazzi sanno del luogo (inteso nei piĂš diversi modi, come cittĂ , regione o stato) di nascita dei loro genitori. Anche molti abitanti italiani di Milano sono nati altrove: risulta interessante cercare di capire quanto il problema della provenienza geograďŹ ca e culturale dei genitori incida nel percorso educativo di ognuno. Il progetto non ha una struttura ben identiďŹ cata per consentire ai ragazzi di intervenire e modiďŹ carne il risultato, raccontando la propria origine o quella che percepiscono come tale.

Materiali: - videocamere digitali - macchine fotograďŹ che digitali - un monitor - un computer per scaricare le immagini - una stampante - carta fotograďŹ ca Di certo non l’ultima, 2004.


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Roberto Lucca Taroni vive e lavora a Milano. Vive, esperisce, sbaglia da tanti (forse troppi) anni poichĂŠ in tutti e tre questi casi è un suo diritto. Ăˆ recidivo. Ha sempre sviluppato un progetto, unitario nella frammentarietĂ , che utilizza i diversi linguaggi delle cosidd in giro per il mondo, attivitĂ e chimere che impongono riessioni sullo spazio e sul tempo. Se le norme glielo impongono elenca diligentemente queste discipline: arti visive, teatro, architettura, design, musica e cinema. Pensando che la quantitĂ sia, letteralmente, maggiore della qualitĂ , aspira all’opera totale attraversando una moltitudine di opere parziali.

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Vedere il presente è inscindibile dal pensare un futuro. Egoisticamente vorrei anch’io conoscere quel “tuâ€? che “mi guarda e mi raccontaâ€?. Gli “occhi degli altriâ€? debbono aprire anche i miei. Per questo e per altro ancora intendo attribuire a quei “tuâ€? e a quegli “altriâ€? i volti dei ragazzi che parteciperanno al workshop con me. Per questo voglio utilizzare queste poche ore per conoscerli un pochino e imparare. Per tutto questo vorrei che loro singolarmente pensassero al nome, al simbolo, al programma, agli slogan e alle parole-chiave di un ipotetico gruppo / formazione /associazione che ponga, se non “il futuroâ€?, almeno un futuro come proprio obiettivo. E ciò considerando i rapporti generazionali, i luoghi della cittĂ , il tempo libero, il lavoro e l’espressione personale. Poi tutti insieme una mattina, accelerando e comprimendo i progetti di tutti, daremo corpo a questa formazione, scegliendo e scartando, disegnando il simbolo su t-shirt e cappellini, scrivendo slogan e parole-chiave su striscioni e stampando il programma su volantini. E come farfalle voleremo per un attimo all’esterno ponendoci all’attenzione di altri in un luogo pubblico, con un gazebo che ospiti i propositi e il frutto di questa nostra breve ma intensa conoscenza. Materiali: - T-shirt, cappellini, bandiere, striscioni di tessuto, colori per tessuto - un gazebo per esterni - videocamere digitali, macchine fotograďŹ che digitali - un computer per scaricare le immagini - una stampante, carta, etichette adesive Passato, presente, prospettive, installazione, 1995, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Termoli. L’installazione è nata da un lungo workshop con gli studenti del 1° anno dell’Istituto artistico di Termoli.


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Identità singolari-plurali

Maria Pace Ottieri Generazioni

Lorenzo Breveglieri

4 8

Workshop. Il giro del mondo in un piatto

Simonetta Fadda

Workshop. Crossing

Francesco Jodice

12

Workshop. Il linguaggio dei gesti

Daniele Cologna

16

Workshop. Voice over

La soglia del mondo

20

Come l’erba che cresce nel mezzo delle cose Lavoro

Espressività

Lorenzo Breveglieri

24

Ballando al suono antico del futuro

28

Spazi

Massimo Conte

Armin Linke

Annamaria Martena Workshop. Percorsi generazionali

Alessandro Nassiri Tabibzadeh Workshop. I ragazzi della via Secam

Roberto Lucca Taroni

52 56 60 64 68 72

32

Stili e consumi Stefano Laffi del limite/retro ovvero la direzione della cura), lightbox 36 bifacciale timerizzato, installazione permanente Il destino e la fragilità (avanti ovvero la questione all’interno dei Giardini di Via Ippocrate, Milano, 2005. L’intervento è stato il frutto di un workshop con 3 ex-degenti dell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini. La multiculturalità è creazione

CPA, stampa lambda su plexiglas, 2000.


*OEJDF

Identità singolari-plurali

Maria Pace Ottieri Generazioni

Lorenzo Breveglieri

4 8

Workshop. Il giro del mondo in un piatto

Simonetta Fadda

Workshop. Crossing

Francesco Jodice

12

Workshop. Il linguaggio dei gesti

Daniele Cologna

16

Workshop. Voice over

La soglia del mondo

20

Come l’erba che cresce nel mezzo delle cose Lavoro

Espressività

Lorenzo Breveglieri

24

Ballando al suono antico del futuro

28

Spazi

Massimo Conte Stili e consumi

Stefano Laffi

La multiculturalità è creazione

Sarah Dominique Orlandi

Workshop. Autoproduzione del quotidiano

Stefano Boccalini

Workshop. Il linguaggio dei gesti

Paola Di Bello

32 36 42 44 48

Armin Linke

Annamaria Martena Workshop. Percorsi generazionali

Alessandro Nassiri Tabibzadeh Workshop. I ragazzi della via Secam

Roberto Lucca Taroni

52 56 60 64 68 72


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