Sinisgalli e Arcimboldo

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AUTUNNO – ARCIMBOLDO di Federico Giannini L'Arcimboldo è forse uno degli artisti più conosciuti ed amati al mondo perché è ironico, astuto, talvolta un burlone e, di fatto, capace di dare corpo a composizioni assolutamente bizzarre. Vi sono alcuni dipinti che addirittura possono essere letti anche al contrario (come un celebre canestro di frutta che, se osservato dal basso verso l'alto, prende le forme di un viso dai tratti comici e caricaturali). Le stramberie – è inutile sottolinearlo – hanno da sempre avuto un'eco fortissima sul grande pubblico. Di lui affascina il metamorfismo organico che opera su volti umani e nature morte compenetrando così un minuzioso studio fisiognomico con l'analisi minuziosa, chirurgica, delle cose del reale. Ma questo più di tanto non deve stupire se pensiamo che proprio a Milano Leonardo da Vinci aveva introdotto nel panorama artistico della fine del XV secolo lo studio dei volti rapportato ai moti dell'animo (la cosiddetta Fisiognomica o, come la intenderemmo noi, la Psicologia) e – sempre a Milano – nel 1591 Ambrogio Figino darà vita alla prima natura morta che la Storia dell'Arte conosca: una golosa composizione di pesche. Pochi anni dopo, nel 1602, la pittrice Fede Galizia, milanese anch'essa, ci stupirà con un'altra deliziosa natura morta con prugne lucidissime, gustosissime pere e una peonia (o, forse, una rosa). Il clima, insomma, era quello e l'Arcimboldo vi si inserisce perfettamente in mezzo. L'Autunno del Louvre (1573) fa parte di una serie di quattro opere tutte rimaneggiate in seguito da altri; risulta da subito evidente che ci troviamo di fronte ad un volto maschile i cui tratti vengono però assemblati tramite l'utilizzo di elementi vegetali caratterizzanti l'omonima stagione. Se una pera succosa ci dà l'impressione di essere un naso, la bocca diventa una castagna; i capelli sono invece grappoli d'uva dai riflessi ambrati, l'orecchio un fungo, l'orecchino un fico semiaperto, il mento una melagrana e una candida zucca viene ironicamente interpretata come un cappello. Concepire e realizzare un'opera del genere non è così facile come potrebbe sembrare. Per ottenerla è necessario infatti che l'artista conosca perfettamente la fisionomia e l'anatomia di un determinato volto (i muscoli, i segni d'espressione...) e, ovviamente, i vari elementi vegetali che ne vanno a definire i tratti essenziali. Basta confrontare una tavola anatomica che illustri i vari muscoli del volto e del collo e confrontarla con una delle Stagioni arcimboldesche per rendersene conto. Se agli occhi di un uomo del XXI secolo un'opera del genere può risultare burlesca se non assurda, un contemporaneo dell'artista non si sarebbe scandalizzato più di tanto: infatti, come hanno fatto notare alcuni studiosi, nel ciclo delle Stagioni sono ravvisabili anche riferimenti alle maschere carnevalesche o a quei pupazzi che venivano composti in occasione delle feste agricole e di piazza. Il fantoccio della Quaresima, per citarne uno, costruito con ortaggi e dolciumi e talvolta impreziosito con fichi secchi, castagne e addirittura pesci, veniva poi smembrato. Ancora oggi in alcune tradizioni contadine – soprattutto legate all'area della Pianura Padana – in occasione dell'ultimo dell'anno si costruisce uno strano fantoccio con legnetti, carta e cenci (chiamato “La Vècia”, la vecchia) a cui viene poi dato fuoco per scongiurare l'avvento di un anno ricco e fruttuoso. Un altro esempio che tutti conosciamo: la Calza della Befana che ancora oggi è un retaggio di queste tradizioni legate alle feste di piazza del passato. Dal 1562 l'Arcimboldo lavorerà alla corte di Massimiliano d'Austria dato che “il grido della sua fama volò sino nell'Alemagna, nella corte Imperiale” (Morigia). E, ancora oggi, effettivamente, è una superstar.


LEONARDO SINISGALLI, “Mi ricorderò di quest’autunno”

Mi ricorderò di questo autunno splendido e fuggitivo dalla luce migrante, curva al vento sul dorso delle canne. La piena dei canali è salita alla cintura e mi ci sono immerso disseccato dalla siccità. Quando sarò con gli amici nelle notti di città farò la storia di questi giorni di ventura, di mio padre che a pestar l'uva s'era fatti i piedi rossi, di mia madre timorosa che porta un uovo caldo nella mano ed è più felice d'una sposa. Mio padre parlava di quel ciliegio piantato il giorno delle nozze, mi diceva, quest'anno non ha avuto fioritura, e sognava di farne il letto nuziale a me primogenito. Il vento di tramontana apriva il cielo al quarto di luna. La luna coi corni rosei, appena spuntati, di una vitella! Domani si potrà seminare, diceva mio padre. Sul palmo aperto della mano guardavo i solchi chiari contro il fuoco, io sentivo scoppiare il seme nel suo cuore, io vedevo nei suoi occhi fiammeggiare la conca spigata.

Commento Il componimento è ispirato ad un breve soggiorno che Sinisgalli fece a Montemurro, quando già da tempo si era trasferito stabilmente a Milano. Ha superato la soglia dei cinquant’anni quando scrive questi versi: il tempo che sembra avere perso di valore è una fuga di giorni da togliere il fiato, è un arco che allontana la memoria, la buona memoria dell’infanzia e dell’adolescenza, della gioventù descritta nella poesia. Diventa amaro allora volgersi indietro, ritrovare quel torrente della Lucania che apriva la strada al sogno di bambini, che spalancava regni fiabeschi nelle campagne potentine. Ora il guado è un altro, altra è la frontiera da passare: quella di un viaggio verso un mondo ignoto.

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