Kate Williams, "Il piacere degli uomini"

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

4 MM DI ABBONDANZ A PER L A PIEGA

4 M M D I A B B O N DA N Z A P E R L A P I EGA

Kate Williams ha studiato a Oxford e attualmente insegna alla Royal Holloway University di Londra. Tra i massimi esperti dell’epoca vittoriana, è autrice di alcune opere di argomento storico, consulente radiofonica e televisiva e collabora a programmi di approfondimento storico della BBC di grande successo.

Londra, 1840. Catherine Sorgeiul, una ragazza di diciannove anni, fragile e con un passato familiare misterioso, vive in totale isolamento e solitudine con uno zio eccentrico nel quartiere popolare e degradato di Spitalfields. Quando una serie di orribili delitti di giovani donne travolge l’East End, a due passi da casa sua, Catherine inizia a interessarsi in modo morboso a questa tragica vicenda. Spinta dalla sua fervida immaginazione, e sempre più prigioniera delle ossessioni che la tormentano sin da quando era bambina, inizia a indagare di nascosto sugli omicidi e sul loro autore, soprannominato dai giornali l’Uomo dei Corvi. È infatti convinta di avere la chiave per risolvere il mistero e scoprire l’identità del terribile assassino. Mentre le morti si susseguono secondo un macabro rituale e la città precipita nel panico, Catherine si rende conto che il cerchio intorno a lei si sta stringendo e l’Uomo dei Corvi è ormai vicinissimo. La sua presenza inquietante aleggia ovunque, trascinandola in una spirale di inganni e terrore che rischiano di travolgere lei e chi le è vicino... Il piacere degli uomini è un thriller gotico dall’atmosfera sinistra e allucinatoria, estremamente efficace nell’evocare la corruzione, il degrado e le ossessioni sessuali di cui è impregnata la società vittoriana. Kate Williams ha saputo creare un romanzo di grande impatto basato su una rigorosa ricostruzione storica, che affascinerà il lettore trascinandolo in una storia dai risvolti imprevedibili, alla scoperta del cuore oscuro e pulsante della Londra dell’Ottocento.

“Straordinariamente coinvolgente, con una trama che cattura e un’atmosfera da brivido.”

“Intenso e molto appassionante, questo libro segna l’ingresso di Kate Williams fra le regine della fiction contemporanea.”

FOTO © TONY COHEN

“Una magnifica ricostruzione dell’atmosfera dell’epoca e una narrazione davvero intrigante: questo è il romanzo che solo Kate Williams poteva scrivere.”

“Un romanzo entusiasmante e inquietante. Il piacere degli uomini rivela un talento in ascesa lasciato libero di esprimersi.”

U N RO M A N Z O

DI

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER: CRISTINA BA ZZONI

In sovraccoperta: Foto © Jill Battaglia/Arcangel Images

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DIMENSIONE: 145x223 mm - RIFILATO: 140x215 mm

PANTONE 719 C

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Kate Williams

Il piacere degli uomini Traduzione di Mariagiulia Castagnone

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ISBN 978-88-04-61159-2 Copyright © Kate Williams Ltd, 2012 © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale The Pleasures of Men I edizione agosto 2012

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Il piacere degli uomini

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I malati... quanto piÚ pensano alle cose dolorose che a quelle piacevoli. I fantasmi delle pene che li tormentano infestano i loro letti. Florence Nightingale, Cenni sull’assistenza ai malati

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PROLOGO

Londra, luglio 1840 La notte arriva tardi al mercato di Spitalfields, oltrepassando il fosso sul retro utilizzato dai commercianti per gettarvi gli scarti delle verdure e le ceste sfasciate. I venditori impacchettano le mele e i cavoli, raccolgono i pezzi di carne, le ostriche e i sacchi contenenti il pesce, le pentole ammaccate e i vestiti a buon mercato, tracannano l’ultimo fondo di birra e poi, sostenendosi l’un l’altro, intraprendono il breve percorso che li separa dalle luci del negozio di liquori di Lely, all’angolo. Io resto dietro, vicino al fosso, a guardare la massa luccicante di vermi che striscia fuori dai resti della carne. I primi che si precipitano ad arraffare i rifiuti sono gli uomini più giovani, soldati in congedo che si arrampicano a quattro zampe lungo le pareti del fosso. Poi le donne, con i figli piccoli aggrappati al petto, che strappano le teste delle trote e dei galletti e spolpano le ossa dei maiali. A questi seguono orde di bambini catarrosi, che mordono gli avanzi delle carote e i germogli delle patate, leccando vecchie scatole e sfregando i piedi negli ultimi residui del sangue colato dalla carne. E quando tutti se ne sono andati, ecco che arriva la vecchia, con un ghigno che le scopre i denti guasti, i seni inerti che ricadono come sudicie lune. Gira attorno al mucchio di rifiuti e ride, scuotendosi tutta. All’inizio, quando comincia a urlare, nessuno la sente tranne me. Non i marinai che se ne stanno fuori dal nego9

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zio di liquori a parlare di soldi o di ragazze, né le donne vestite con abiti rossi e scialli leggeri che aspettano agli angoli delle strade, né i bambini che hanno appena terminato la loro razzia e litigano in un angolo del mercato cercando di strapparsi il bottino a vicenda. A un tratto la vecchia inizia a gridare, un suono ininterrotto che si riverbera sui muri diffondendosi come un’eco. I bambini alzano gli occhi e anche le donne lo sentono, i marinai posano le bottiglie e subito dopo arrivano uomini dall’aria importante, responsabile, con lunghi cappotti neri e non un capello fuori posto, uomini che di solito non si curano affatto di chi lavora nel mercato né di chi razzola in mezzo agli avanzi. Guardano quella povera pazza che si rotola nel sangue e pensano che sia lei la moribonda. Poi scorgono il fagotto alle sue spalle. È una ragazza, il vestito azzurro strappato in tante strisce che le si avvolgono attorno alle gambe. È stata colpita da una ventina di coltellate, si direbbe, con un accanimento che le ha ridotto la pelle in frammenti simili a piume adagiate sulla carne viva che si sta già scurendo. Le braccia e le gambe sono ripiegate all’indietro, cosicché le si vede solo il torso, e le trecce bionde le sono state ficcate in bocca. Dai capelli pendono un nastro azzurro e un pettine decorato. Sul petto, l’assassino le ha inciso una stella. Sporgendosi, gli uomini vedono una moneta da un penny posata sulla convessità ancora calda del cuore. Abigail Greengrass esce da Davis, il negozio di modista, scuotendo la gonna spessa, poi batte il tessuto di lana come se, così facendo, potesse scacciare le brutture della giornata appena trascorsa. La porta sbatte alle sue spalle, ma lei non se ne cura. Odia la signora Davis e quelle smorfiose delle sue ragazze. Mentre si dirige verso Long Acre, l’umidità dell’acciottolato penetra attraverso le suole dei suoi stivali. Quattro muratori, in piedi davanti al negozio del panettiere, le rivolgono dei fischi ammirati a cui lei, nonostante la stanchezza, risponde gettando la testa all’indietro e rivolgendo un mezzo sorriso al giovane bruno che se ne sta davanti agli altri. Poi raggiunge Long Acre e la folla che si 10

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sta dirigendo verso casa, e la giornata le torna in mente: la schiena le fa male tanto è rimasta curva, l’occhio sinistro le pulsa e la pelle sotto un’unghia è trafitta da un dolore lancinante dove la signora Davis l’ha punta con l’ago, sicuramente di proposito. Quella vecchia strega. Nel corso delle ultime due settimane l’ha costretta a occuparsi di fodere e di rammendi, il che ha significato starsene seduta tutto il tempo nel retrobottega. Eppure lei se la cava benissimo anche nel merletto e nel ricamo, molto meglio di quella presuntuosa di Emily Warren, che è la cocca della signora Davis grazie ai folti capelli biondo dorato che piacciono tanto agli uomini e a quel visetto scialbo che non fa ingelosire le signore. Abigail oltrepassa i negozi risplendenti di luci senza vedere niente, né le bottiglie di vetro dalla forma arrotondata, blu, verdi e rosse, che ha osservato mille volte nella vetrina del farmacista, né i cumuli di mele e pere ammonticchiate sulla bancarella vicina alla cartoleria. Ignora il ragazzo che vende i giornali, che annuncia a voce spiegata l’ultimo scandalo sulle dame di compagnia della regina, e il lustrascarpe, con le unghie annerite in modo indelebile. Persino le tortine alla crema che tremolano dietro il vetro appannato della pasticceria, cosparse di un firmamento di uva passa, la lasciano indifferente. L’unica cosa che le interessa sono i pensieri che le affollano la mente. Mentre percorre Kingsway, diretta a High Holborn, non riesce a pensare ad altro che alla signora Davis. Le screpolature sui talloni sfregano contro le calze, ma lei prosegue imperturbabile. Non le dispiace quella sensazione di ruvidezza e il calore che procura, prima che le lesioni si aprano e comincino a farle male. Abigail attraversa la strada verso St Paul e prosegue lungo London Wall. Sollevando la gonna pesante per evitare una pozzanghera, svolta in Bishopsgate e raggiunge Shoreditch High Street, rimuginando su quello che le ha detto Lily, la commessa, e cioè che un cliente aveva chiesto espressamente di lei, Abigail, ma la signora Davis gli aveva risposto che era a casa malata, proponendogli di farlo servire da Emily. Pensa che un 11

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giorno anche lei avrà un negozio tutto suo, e quando la signora Davis ed Emily verranno a implorarla di assumerle lei si limiterà a dare loro dei lavoretti di cucito da fare a casa. “Mi dispiace, ma è tutto quello che posso fare” dirà. “Ho già dell’ottimo personale.” Con gli occhi della fantasia, si figura vetrine piene di cappelli e panche su cui siedono ordinatamente le ragazze che lavorano per lei: “Abigail Greengrass. Modisteria di eccellenza”. Si sfiora i capelli, poi la morbida seta azzurra del nastro. L’uomo era venuto un giorno con una signora (e che signora, aveva commentato Lily) per scegliere un cappello, poi era tornato un’ora dopo dicendo che, se la ragazza con gli occhi nocciola avesse accettato un nastro di qualsiasi tipo tra quelli che c’erano in negozio, sarebbe stato felice di aggiungerne il costo al suo conto. La signora Davis non c’era, così lei era uscita dal retrobottega. Le sopracciglia dell’uomo si assottigliavano alle estremità e lei aveva provato la tentazione di alzare una mano e lisciarle. Mentre lo ringraziava, Lily le aveva dato un colpetto di gomito e lei si era domandata se quello che era appena successo non fosse l’inizio della sua rovina. L’uomo sarebbe tornato e l’avrebbe convinta ad andare con lui a teatro, dove lei avrebbe indossato un cappello con dei grandi fiori e tutti avrebbero pensato che era una donna perduta. Aveva scelto un nastro azzurro e aveva aspettato, ma l’uomo non si era fatto più vedere e aveva mandato un cameriere a ritirare il suo cappello. “Gli uomini sono proprio indecifrabili” aveva commentato Lily, usando un aggettivo che piaceva a entrambe. Eppure, nonostante fossero passati mesi, Abigail continuava a chiedersi cosa fosse successo. Be’, quando si fosse deciso a comparire sarebbe stato troppo tardi, lei avrebbe avuto il suo negozio e, chissà, forse sarebbe stata già sposata. La ragazza dagli occhi nocciola. E da ieri aveva anche un pettine ornato di piume che aveva trovato per strada, vicino alla chiesa di St Magnus martire. Gira in Boundary Street. Le luci dei lampioni a gas si fanno più tenui e la strada più buia, ma lei non se ne accorge nemmeno, persa com’è nei suoi pensieri. 12

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Alle sue spalle sente un rumore di passi affrettati. Guarda davanti a sé, la via è vuota. Si vede solo il riflesso della luna sul selciato. Le fantasie sulla signora Davis ed Emily Warren spariscono per lasciare il posto alla realtà che la circonda. Ancora i passi, e poi il sibilo lieve di un respiro. Continuando a camminare, Abigail si dice che non è nulla. Quante volte ha pensato che qualcuno alle sue spalle fosse troppo vicino, per poi scoprire che quella vicinanza era del tutto casuale. Sente un colpo di tosse e i tacchi che risuonano sul selciato. Accelera l’andatura, ma chi la segue fa lo stesso. Mio Dio, aiutami. Ha deciso di non girarsi. Se lo facesse, sarebbe come riconoscere che chi le sta alle spalle esiste davvero, mentre se continua a camminare fingendo che non ci sia nessuno, l’inseguitore svanirà come neve al sole e lei sarà salva. Presto comparirà qualcuno, si dice, un uomo che torna dal lavoro con il suo fagotto, una donna vestita di stracci in compagnia di due bambini urlanti, e lei si avvicinerà a loro con un sorriso, poi li affiancherà e proseguirà verso casa scegliendo un percorso illuminato. Continua a camminare, e così anche chi è alle sue spalle. Sta’ calma, si dice. Manca poco per arrivare a casa. Non parla con Dio da quando era bambina e sua madre stava morendo. Ora lo supplica. Fammi tornare a casa e non ti trascurerò più. Andrò in chiesa ogni domenica. Farò in modo che Joseph mi sposi. Sarò obbediente e gentile con la signora Davis ed Emily Warren. La sua mente cerca di trattenere l’immagine di un uomo con la barba bianca e l’aria gentile, vestito di una sorta di tunica giallastra, simile a quella che indossava suo padre quando riparava qualcosa a casa loro, quand’era bambina. Accelera il passo, e l’uomo dietro di lei fa lo stesso. Smettila di lavorare di fantasia. Sta solo cercando di spaventarti. Gira a sinistra, sicura che lui la seguirà. La via è tranquilla. Qualche anno prima il municipio aveva deciso di abbattere le vecchie abitazioni per costruirne di nuove in cui artisti e artigiani potessero dedicarsi alle loro attività a favore della loro ricca clientela, ma quando gli edifici era13

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no stati completati la situazione era cambiata. Non c’erano più soldi e i locali, rimasti vuoti, ora erano invasi dai topi. Non ha alternative, deve proseguire per forza. Oltrepassa le case deserte con le finestre che luccicano come occhi spalancati, consapevole della presenza che incombe alle sue spalle. Non succederà niente. Sei una ragazza fortunata, non dimenticarlo. Ti è sempre andata bene. Si sposta verso il lato della strada e sente che lui fa lo stesso. Pensa a qualcosa di bello, si impone. Il giorno in cui era andata con Joseph a passeggiare sulla riva del Tamigi. Le volte in cui, quando era piccola, suo padre la sollevava sopra la testa, facendola dondolare. Ma l’unica cosa a cui riesce a pensare è la sua stanza, che ha lasciato nel caos quando è uscita di corsa quella mattina, il letto sfatto, la camicia da notte buttata a terra, la signora Wornley che si sporge dalla ringhiera con i capelli che le coprono la faccia, urlando: “Devi darmi i soldi del carbone, ragazza mia. Il tempo è scaduto. O mi paghi stasera, o finisce male”. Darebbe qualsiasi cosa per trovarsi nel suo letto, a respirare la puzza di cavolo stracotto e grasso di rognone, cercando di dormire mentre Nelly, al piano di sopra, si muove rumorosamente e Peter sale le scale sbatacchiando i secchi pieni d’acqua. Come ha odiato la sua stanzetta, mentre sognava di poter vivere in uno spazio meno angusto, in un quartiere meno degradato. Ora non desidera altro che aprire la porta, togliersi gli stivali, sedersi sulla sedia traballante che ha trovato per strada, vicino a Holborn, e sentirsi finalmente al sicuro. Ti metterai a ridere ripensando a tutta questa faccenda, e ti guarderai bene dal rifare un’altra volta la scorciatoia. Ancora pochi metri. La prima a sinistra e la seconda a destra. Poi le basterà imboccare il vicolo dietro la panetteria e sarà arrivata. Si avvicina all’imboccatura buia della stradina. Ha un attimo di esitazione, poi respira a fondo. Ha caldo, adesso. Pensa alla signora Wornley che le apre la porta e sbircia in strada, mentre la luce proveniente dall’interno si riversa fuori. Casa. Raddrizza la schiena, sorride fra sé e riprende a camminare.

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1 La città degli uomini

Accanto al nostro cancello ci sono due uomini con indosso un soprabito. Lo zio vorrebbe convincermi che si tratta di operai, che si sono presi un attimo di pausa prima di proseguire nel loro lavoro. Quello bruno l’ho già visto tre volte nel corso dell’ultima settimana. È così vicino che riesco a scorgere i ciuffi di peli neri alle estremità della sua barba. Mi immagino di tirarli e vedo la sua pelle ruvida e scura che prima oppone resistenza poi cede, diventando liscia come quella di un bambino. Fino all’inverno scorso vedevo un sacco di gente dalla finestra. Coppie che camminavano a braccetto, cameriere che portavano i secchi del latte, muratori che trasportavano ceste piene di mattoni, vecchie che camminavano trascinando i piedi. Ora la canicola di luglio infuoca l’aria e io non vedo altro che uomini, che gironzolano attorno alla casa e si fermano vicino al cancello. Quando passo in carrozza, si fermano a osservarmi. Appoggiati al muro, studiano i miei abiti e mi sfiorano il braccio. «Fai uno sforzo, Catherine. Almeno oggi pomeriggio.» Lo zio stava fingendo di raddrizzare l’incisione di Hogarth raffigurante Gin Lane con l’unico scopo di non dovermi guardare negli occhi. «Non è certo un dramma sorridere di tanto in tanto.» Mosse un passo indietro, scavalcando la statua proveniente dall’Africa orientale che era appoggiata al secchio del carbone. «Il signor Janisser è molto ricco.» 15

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I battiti del mio cuore accelerarono. «Me l’avete già detto.» Lo zio si pulì la manica impolverata, lanciandomi una rapida occhiata. «È il vestito più carino che hai, quello?» Ero cresciuta molto negli ultimi mesi, tanto che persino l’abito giallo chiaro, acquistato poco dopo il mio arrivo a Princes Street, era ormai diventato troppo corto e mi lasciava scoperte le caviglie. Il pizzo che lo bordava all’orlo sfiorava appena i miei stivaletti. «Resterò seduta. Non è il momento di andare a comprare abiti nuovi.» Lo zio scosse le spalle. «La vita continua, mia cara. Non possiamo restare prigionieri della paura. Non devi preoccuparti. Le vittime sono sempre persone povere. Bene, chiederò a Thomas di accompagnarti dalla sarta la prossima settimana.» Il suo tono mi fece apparire davanti agli occhi l’immagine di una donna in là con gli anni, che nessuno avrebbe più preso in moglie, chiusa nella sua stanzetta e vestita con gli abiti sbiaditi della sua gioventù. «Vuol dire che mi sforzerò di non crescere più.» «Saggia decisione.» La pendola scura che era alle sue spalle batté le ore e la figura dorata che la sovrastava cominciò a girare lentamente. «Se ti alzassi più presto, Jane avrebbe il tempo di acconciarti i capelli.» Nella calura incombente, il suo volto era privo d’espressione. «Dopo che avremo mangiato, voglio che torni in camera tua per farti pettinare e metterti qualcosa di più adatto.» Sollevò un sopracciglio. «L’abito lilla, per esempio. I nostri ospiti sono persone di rango.» Mentre si voltava, il mio sguardo si posò sulla grande macchia scura sulla sua guancia, simile a un morso che non sarebbe mai guarito. I capelli erano pettinati con cura all’indietro, così da lasciare la fronte scoperta, e il viso, segnato da un’infinità di rughe scavate dal sole, era esposto senza difese agli sguardi del mondo. Avrei voluto tornare nella mia stanza con Grace, le sue mani che giocavano con i miei capelli mentre imitava mio zio, facendomi ridere. 16

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«Ho già conosciuto i vostri amici.» «Ma questa volta si tratta di un’occasione speciale, mia cara.» Mosse la mano e l’anello con il sigillo baluginò sul suo mignolo. Avevo dovuto servire il tè all’uomo dal viso affilato che possedeva alcune miniere in Sudamerica, ma non ero stata costretta a indossare l’abito lilla per lui. «Il signor James Leith Janisser è fratello del nostro caro amico, il signor Belle-Smyth. Purtroppo non gode di ottima salute.» Non intendevo dargli la soddisfazione di una risposta. In quel momento il signor Kent, il nostro vicino, passò davanti alla finestra e salutò con la mano, il viso infantile lucido di sudore. Tornai a volgere lo sguardo su mio zio e notai l’espressione scaltra che gli illuminava la faccia. «Ho sentito dire che il giovane Janisser ha il dono di affascinare le signore.» E si diede un colpetto sulla mano, come per mettere fine alla conversazione. La nostra casa, che si ergeva su tre piani, era stata costruita più di cent’anni prima in Princes Street, nella parte orientale di Londra. Gli altri edifici della zona straripavano di famiglie, e in ognuno di essi abitavano fino a trenta, quaranta persone: sarti, falegnami, tessitori che parlavano un francese incomprensibile e tenevano le candele accese tutta la notte. Ero cresciuta a Richmond ed ero venuta in questo quartiere una sola volta, prima, ma allora la mia testa era un concentrato di sofferenza e non riuscivo a ricordare quasi nulla. Quando mi sono trasferita qui per vivere con lo zio, poco meno di un anno fa, dopo il lavaggio del cervello che avevo subito a Lavenderfields, non rammentavo di esserci mai stata. In quelle prime settimane non riuscivo ad abituarmi al rumore. Giorno e notte, senza interruzione, le grida degli uomini, il pianto dei bambini, l’ululare dei cani e un incessante fragore di metallo e legna. L’odore mi aggrediva le narici, un puzzo di liquami, di verdura in decomposizione, di corpi sudici e di cani filtrava nella mia stanza. Quando svol17

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tavo l’angolo del corridoio per entrare in camera, ero certa di vedere la nebbia giallastra proveniente dall’esterno depositarsi sul mio copriletto. A Lavenderfields, i suoni che si udivano erano quelli prodotti da chi viveva all’interno della struttura. Fuori c’erano quiete e tranquillità e l’unico odore era quello dell’erba. Il numero 17 di Princes Street, invece, era perennemente invaso dal mondo esterno. Quelle prime notti, quando mi coricavo, ero sicura che i piccioni sarebbero piombati giù per il camino per mettersi a svolazzare sopra il mio letto, portando con sé la sporcizia della strada. Eppure, dopo qualche mese, mi ero abituata a quella zona tanto che non mi faceva più alcun effetto, finché qualcuno non veniva a trovarci e io notavo il suo pallore e la sorpresa nel vedere che vivessimo in un posto che molti a Londra disprezzavano. Salii le scale sino alla mia cameretta, sognando Grace, immaginando che fosse già lì in attesa, i suoi capelli chiari splendenti nella semioscurità. “Dovete cambiarvi d’abito per oggi pomeriggio, mi pare di capire.” Nel sogno a occhi aperti mi girai e lei cominciò a sbottonarmi l’abito, sfiorandomi il collo con le dita mentre mi scostava i capelli. Mi lisciò il vestito sulle spalle e io provai l’impulso di appoggiarmi a lei e toccarla con le mani che solo un anno prima erano state legate con corde robuste. “Si è fissato con questa storia dei pretendenti.” Mi sedetti su una sedia davanti al tavolino. “Prima o poi dovrete ben sposarvi.” “Non se ne parla.” Voglio stare con te. “Vorrei che potessimo prendere una casa insieme.” “Piacerebbe anche a me.” Mi infilò la mano sotto i capelli e cominciò a spazzolarli. Con un sorriso mi appoggiai al suo petto e la mia pelle divenne di fuoco. Ma nella stanza buia non c’era nessuno a parte me, le maschere africane che mi fissavano dalle pareti e i due bambolotti vestiti da cacciatori. Cominciai a spazzolarmi i capelli, poi chiamai Jane perché me li acconciasse.

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La visita si svolse esattamente come mi aspettavo. Constantine Janisser, smilzo e scialbo, teneva le gambe distese davanti a sé, che parevano due lunghi tubi, mentre la madre lo guardava adorante e il padre gli stava troppo addosso, come per incoraggiarlo. «Nostro figlio ha ottenuto ottimi risultati a scuola.» Mio zio annuì. «Anche Catherine ha sempre ricevuto eccellenti voti dalle sue istitutrici.» Oh, che conversazione garbata! Lo zio e il signor Janisser cominciarono a scambiarsi domande sugli affari e la famiglia (due figlie più piccole che stavano completando la loro educazione a Bath e una nipote che viveva con loro, diciottenne e già fidanzata), poi passarono a parlare della salute dei Belle-Smyth, parenti dei Janisser. La signora Janisser si sforzò di dire qualcosa di carino su quell’accozzaglia di oggetti strani che era il nostro salotto. Io versai il tè con aria impacciata e offrii i pasticcini preparati dalla signora Graves, disposti sui piatti fioriti del nostro servizio migliore. Continuai a sorridere per tutto il tempo. Un sorriso fisso, quasi inchiodato. Mi scoprii a desiderare di avere una zia, una presenza materna che travolgesse di chiacchiere i nostri ospiti, cosa di cui io ero totalmente incapace. Me la immaginai mentre animava la stanza con i suoi discorsi, liberandoci dei lunghi silenzi che incombevano sulle nostre teste come ghiaccioli. Poi pensai che la zia Cross non era né gentile né rassicurante, e che se mio zio fosse stato sposato sua moglie non sarebbe stata diversa. Grace si sarebbe complimentata con me per il mio aspetto. Ma quest’uomo e la sua famiglia se la sarebbero data a gambe, ne ero certa, e io non sopportavo che potessero prendere una decisione del genere. Avevo il naso piccolo di mia madre e gli occhi verdi che, secondo un amico di mio padre, erano simili a quelli di molti ritratti rinascimentali. E persino quando mi avevano incatenato alla parete con i capelli tagliati corti, c’era sempre qualcuno che diceva: “Oddio, come sono belli! Così scuri! Non avrà per caso del sangue indiano?”. I miei capelli erano neri come l’ala di un corvo 19

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e da quando ero venuta a vivere con lo zio erano cresciuti fino alla vita. Il problema non era il mio aspetto, ma il mio comportamento. Chiunque si sarebbe accorto che lì in mezzo ero come un pesce fuor d’acqua, che nulla in me, né nel corpo né nella mente, era in armonia con l’ambiente. “Perché mi presentate come una possibile moglie?” avrei voluto chiedere a mio zio. “Un padre attento potrebbe fare domande sul mio passato.” Voltai il capo e vidi il lacchè accanto alla carrozza dei Janisser, tirata a lucido. Se ne stava dritto, con il corpo rigido, quasi a dimostrare il suo risentimento verso il luogo in cui si trovava, dove cani macilenti si grattavano agli angoli delle case e un rigagnolo scuro scorreva al centro della strada. Alzai gli occhi a guardare la piccola faccia incisa sul muro dell’edificio di fronte e lasciai che i suoi lineamenti – occhi, naso, bocca – mi si fissassero nella mente. Visto che ogni strada nella parte orientale della città era controllata da una banda, mio zio sosteneva che eravamo fortunati ad abitare in Princes Street, che era sotto il dominio dei malesi. Due volte al mese un esattore si presentava alla nostra porta, incassava il dovuto, e da quel momento non dovevamo temere più niente. La signora Janisser allungò le dita ceree per afferrare un biscotto e si avventurò ad affermare che i muri della casa dovevano essere molto robusti. Lo zio guardò verso il soffitto poi, come se la sua voce fosse stata liberata all’improvviso dalla bottiglia in cui era stata imprigionata, cominciò a parlare di getto. «Ho comprato questa casa vent’anni fa» spiegò. «Da allora il suo valore è aumentato molto, ma io non avevo intenzione di speculare. No, ero affascinato dalla sua storia.» Poi, allargando le braccia, continuò: «Appena entrato, ho sentito che aveva un passato. Non fa anche a voi quest’impressione?». La signora Janisser mordicchiò il pasticcino. Mio zio si voltò per aprire un cassetto. «Questi li ho trovati scavando in giardino» disse, mostrando alcuni pezzi di terracotta. «Sono di epoca medievale, più o meno del Tredicesimo secolo. Pensate alla famiglia che ha usato questi 20

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oggetti per cucinare, intimorita dal pensiero degli invasori, o a quella che si è installata dopo qualche secolo in una casa bianca e nera costruita su questo terreno, quando la regina Elisabetta ha fatto il suo ingresso a Londra, o a un’altra ancora, che ha visto i suoi possedimenti andare a fuoco nel grande incendio della città.» La signora Janisser stava fissando le maschere mortuarie africane appese alla parete dietro la testa di mio zio. «Questa casa fu ricostruita interamente nel 1720. Mi immagino il maestro tessitore che esce dalla sua porta nuova di zecca e prende una portantina per farsi condurre a Covent Garden a bere un caffè.» Feci scorrere un dito sulla tazza da tè, desiderando di stringerla così forte da frantumarla. Pensai che i Janisser dovessero essere nauseati dall’odore di incenso. Lo zio mandava Jane a comprare i bastoncini sulle bancarelle vicino al porto, nella speranza che mascherassero il tanfo di umidità. Io c’ero abituata, ma non si poteva dire altrettanto dei nostri ospiti. Non riuscivo a capire come un uomo affermato come il signor Janisser avesse potuto entrare in rapporti con mio zio. Lo stesso valeva per il signor Belle-Smyth, che aveva cominciato a incontrare regolarmente. Non capivo che cosa avessero da spartire con lui, anche se fosse stato ricco come ritenevano. «A volte» stava dicendo adesso «non riesco nemmeno a concentrarmi sul lavoro, tale è il peso della storia qui dentro. Preferisco restare seduto e lasciare che il passato si impadronisca di me.» Si appoggiò allo schienale con aria soddisfatta. «La stoffa del vostro vestito è davvero pregevole, signora. È seta di Spitalfields?» Ero consapevole di quanto dovessimo sembrare ridicoli agli occhi dei nostri ospiti, due creature stravaganti in una casa buia, con le pareti rivestite in legno, in una zona di Londra dove nessuno voleva abitare. Li vedevo strizzare gli occhi davanti alle stampe di Hogarth che riempivano le pareti, al divano sbilenco comprato in un mercatino, alle maschere mortuarie e al tavolo intarsiato di segni astrologici. Le loro case bianche, a St James, erano abbellite con porcellane di Sèvres invece che con frammenti di fregi ba21

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bilonesi, candelieri indiani, bambole mortuarie provenienti dalla Malesia e antichi vasi cinesi. Le donne erano vestite all’ultima moda, mentre io dovevo accontentarmi di quel vecchio abito lilla e possedevo solo una collana egizia fatta di perline verdi e blu che mio zio mi aveva permesso di staccare dal chiodo a cui era appesa. Anche il suo completo nero bordato di velluto non era quello che un gentiluomo di rango avrebbe indossato. «Dev’essere un problema spolverare una collezione come la vostra» azzardò la signora Janisser, con gli occhi fissi sul guerriero di Damasco accanto al camino. «Ah, signora, quando si acquistano oggetti di simile bellezza, non si pensa certo al lavoro domestico che possono comportare. Guardate questo secchio per il carbone proveniente dalla Siberia. Legno di mogano e pelle di tigre, molto elaborato. Il negoziante avrebbe preferito vendermi suo figlio, ma io ho insistito molto.» Lanciai un’occhiata alla signora Janisser. Se avessi sposato suo figlio, avrei indossato abiti con il collo alto simili ai suoi e avrei passato il mio tempo dalle sarte. Avrei trascorso la mattina a sfogliare cataloghi e il pomeriggio sdraiata sul divano, tormentata da un lieve mal di testa, finché non fosse arrivato il momento di consumare una cena troppo cotta in una stanza sfolgorante di luci. Avrei avuto un bambino e avrei valutato all’infinito i menu della giornata, senza provare più alcun interesse per ciò che era importante o bello nella vita. Non volevo nemmeno sentirne parlare. Una cosa del genere non mi poteva succedere. «Il camino mi rende particolarmente orgoglioso» stava dicendo lo zio. «Faceva parte della struttura originaria e funziona egregiamente. Non sempre il nuovo corrisponde al meglio.» Naturalmente lo zio non poteva confessare che dal tetto filtrava l’acqua, che la servitù aveva stipendi da favola per evitare che se ne andasse e che i nostri vicini erano tutt’altro che rispettabili. I tessitori più ricchi si erano trasferiti in campagna e le case venivano vendute per niente. Il signor Horace, nella casa accanto, viveva qui perché non riusciva 22

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a trovare un’altra casa da affittare dopo che era stato in prigione per debiti. I Kent, madre e figlio, venivano da Chatham. La scusa ufficiale era che così il figlio avrebbe potuto studiare pittura, ma Jane mi aveva detto che, a quanto aveva saputo, il figlio maggiore era stato impiccato. Eppure lo zio era indifferente a tutto questo, tale era il suo amore per la storia. «Non potrei vivere senza gli scaffali» disse la signora Janisser. Noi non ne avevamo, perché non potevamo certo fissarli ai pannelli di legno che ricoprivano le pareti. «E questa casa non vi sembra un po’ troppo buia?» All’inizio i nostri ospiti erano incuriositi dall’ambiente, ma dopo una mezz’ora la loro condiscendenza cominciava a venire meno come l’acqua di una sorgente otturata dalle foglie. E i Janisser non facevano eccezione. Erano loro gli esploratori, non noi, e rientrando a casa avrebbero avuto la conferma di aver fatto le scelte migliori. Ma la signora Janisser non aveva alcuna intenzione di desistere. “Qui dentro manca l’aria!” stava pensando chiaramente. Una ragazza giovane chiusa in una casa buia e circondata da anticaglie. Non era normale. «Vi piace stare all’aria aperta, signorina Sorgeiul?» La fissai, fermando lo sguardo su quel suo costoso vestito rosa con le rifiniture blu, che doveva farla sentire come il figurino di una rivista di moda. Avrei voluto farle capire che ero come una barra d’argento su cui i suoi pensieri scivolavano via senza trovare un appiglio a cui aggrapparsi. Non sopporto nemmeno queste stanze!, avrei voluto gridare. Ero seduta in casa e sentivo la storia filtrare dentro di me, tentando di infilarsi sotto i miei vestiti, densa e bollente come zucchero fuso. Percepivo le persone che avevano vissuto fra quelle mura farmi pressione nel buio, e sapevo che volevano appropriarsi dei miei pensieri. Guardai la signora Janisser, suo marito e Constantine: non avevano niente di straordinario, se non il fatto che provenivano dalla terra dei vivi, dove l’esistenza era piena di sole e di colori e ricca di infinite possibilità di scelta. Mio zio mentiva! Non era il fascino delle vite passate ad attirarlo, ma il peso inesorabile della morte. La nostra casa 23

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era piena di simboli mortuari: le maschere, i teschi riposti nell’armadio, le spade che avevano mozzato teste in India, tutti gli oggetti appartenuti a gente che era da un pezzo nella tomba. Lui era il signore di quel reame, il dominatore che non se ne andava. Io non potevo fuggire e quindi dovevo trasformare le maschere in una presenza consolante. Mi incoraggiavano a pensare che la vita, pur non essendo indolore, era comunque rapida, anche se, prese una per una, le giornate mi parevano interminabili, una serie infinita di ore passate ad aspettare. Ma non potevo certo dare voce ai miei pensieri. L’allegria del signor Janisser sarebbe sparita, sua moglie avrebbe fatto qualche colpetto di tosse e il figlio forse sarebbe scoppiato a ridere. E durante una visita ad amici, in una sala con le pareti bianche e il soffitto alto, tra il tintinnio delle tazze da tè avrebbero detto: “Be’, siamo stati a trovare il signor Crenaban e la signorina Sorgeiul, ma è così strana”. E qualcuno un bel giorno avrebbe associato il mio nome a un pettegolezzo che gli era stato riportato, e in un baleno la mia storia sarebbe diventata nota a tutti e io non avrei avuto più scampo. Così, con un sorriso forzato le dissi: «Mio zio mi permette di uscire quando voglio. Desiderate un’altra tazza di tè, signora?». Il signor Janisser tastò il suo pasticcino e lanciò alla moglie una rapida occhiata, poi riprese a lodare suo figlio, descrivendone le eccezionali qualità. Apprendemmo così che Constantine Janisser era dotato di una straordinaria intelligenza, coltivata alla Westminster School e al Magdalen College di Oxford, di cui dava prova nel suo lavoro quotidiano presso l’agenzia di investimenti Janisser & Smyth. Poche settimane dopo il suo arrivo aveva scoperto una serie di conti che erano stati lasciati inattivi e, dopo aver contattato i clienti, li aveva rinnovati tutti. Non solo, ma uno di loro aveva persino portato in agenzia altre duecento sterline da investire. «Be’» commentai. «Davvero un gran risultato.» «Eh, sì.» Quell’uomo non riusciva a smettere di parlare, 24

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destreggiandosi tra le virtù del suo primogenito come un giovane cervo lanciato in una corsa a perdifiato. Lasciai che la straordinaria capacità di Constantine di cogliere i dettagli mi entrasse da un orecchio e mi uscisse dall’altro. Da quando erano arrivati, mi ero sforzata di non pensare al sogno che avevo fatto la notte precedente. Se mi fossi lasciata sopraffare dalle immagini in quel momento, gli altri l’avrebbero certamente intuito. Ma un commento sulle “prospettive” di Constantine fece crollare le mie difese e io mi arresi. Avevo sognato che ero fuori di casa, sola in strada a mezzanotte passata, e, proprio come aveva detto lo zio, una pianta rampicante dai vistosi fiori viola era sbucata dalle fessure del marciapiede, allungandosi fino a coprire la facciata della nostra casa e delle due vicine. Soffiava un vento caldo, un fiore si era staccato e i petali erano volati verso di me. Ebbi l’impressione di essere di nuovo là fuori e sentii il cuore in fiamme. Mi guardai le mani e le vidi grattare i mattoni del muro esterno, mentre le unghie si riempivano di polvere. «Catherine.» Alzai gli occhi su quattro visi in attesa. «Che cosa ne pensi? Sei d’accordo anche tu?» «Ma certo» dichiarai con un sorriso. «I successi del signor Janisser sono davvero notevoli.» Lo zio strinse gli occhi, mentre a Constantine sfuggiva una risatina. «Catherine» ripeté lo zio «stavamo parlando della recente ondata di criminalità. Il signor Janisser ci ha detto che ci sono state quattro rapine vicino al suo ufficio. I rapinatori hanno mandato in frantumi le vetrine di un gioielliere e hanno forzato la cassaforte.» A questo punto mio zio abbassò la voce, in segno di rispetto nei confronti del denaro. «Il poveretto ha perso seicento sterline.» «Ma c’è un particolare molto inquietante» continuò il signor Janisser con espressione seria. «I colpevoli hanno imbrattato i muri con disegni di animali e piante.» A questo punto Constantine si raddrizzò, allarmato. «È così» si precipitò a dire, una ciocca di capelli neri che fremeva sulla guancia sinistra. «Quei disegni mi hanno vera25

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mente colpito. Non riesco a credere che siano opera di una mente inferiore.» Non potevo distogliere lo sguardo da lui. «Avreste dovuto vederli, signorina Sorgeiul, anzi, vi consiglio di andare a dare un’occhiata.» Udii un tintinnio di porcellana provenire dalla parte del tavolo dov’era seduto mio zio. «Naturalmente se il signor Crenaban ve lo permetterà.» Lo zio ricambiò il suo sguardo. «La signorina Sorgeiul è una ragazza di buona famiglia. Non va in giro dalle parti della Banca d’Inghilterra in cerca di dipinti sui muri.» L’atmosfera si era un po’ raffreddata, poi il signor Janisser intervenne: «No, certo. Mio figlio non sa quello che dice». Sembrava ansioso di scusarsi e io mi sorpresi. Forse eravamo più appetibili di quanto pensassi. «Avevano previsto che, in seguito alla crisi finanziaria, ci sarebbe stata un’esplosione di criminalità» si affrettò a dire la moglie. «Sono convinto che i dipinti siano connessi con i crimini.» Il giovane Janisser fissò mio zio come se si aspettasse una risposta. Ci fu un momento di silenzio. Il vecchio orologio a cucù, nell’angolo, batté le ore. Era arrivato il momento del congedo e, a quanto pareva, tutti e cinque sembravamo sollevati all’idea. Jane si presentò con i mantelli e si avvicinò alla signora Janisser, mentre gli uomini attendevano impacciati. «Comunque» dichiarò il signor Janisser con aria conciliante «questa zona è piuttosto comoda se uno deve recarsi alla City.» «Ma le strade devono pullulare di criminali» intervenne la signora Janisser. «Già, soprattutto adesso» commentò Constantine, con gli occhi bassi e sottovoce. «Dopo ciò che è successo a quella ragazza.» Sentii una stretta al cuore. «Che cosa intendete dire?» La signora Janisser si avvolse nel mantello e con un gesto rapido mi prese la mano. «Sono felice che non ve ne andiate in giro da sola, signorina Sorgeiul. In caso contrario, sarei preoccupata.» 26

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«Tutta colpa della regina» disse il signor Janisser. «È troppo giovane e non ha la fermezza necessaria a controllare la situazione.» Mio zio si spostò. «Questa zona è assolutamente sicura.» «Non sapevate niente, signorina?» mi domandò Constantine. «In questo ultimo periodo abbiamo avuto qualche problema a ricevere i giornali» risposi fissandolo, nella speranza che mi dicesse di più. «Meglio che non facciate aspettare il cocchiere» intervenne lo zio con un gesto di commiato. Era molto alto e, mentre accompagnava i suoi ospiti fuori dalla porta, fui colpita da quanto li sovrastasse. I Janisser salutarono, ci invitarono a ricambiare la visita e finalmente la porta scura si chiuse alle loro spalle. Lo zio vi inserì una sbarra di ferro, poi tirò le catene che servivano a garantire la nostra sicurezza. «Prova a immaginarti il loro salotto» disse. «La stessa combinazione di tende e cuscini verde e oro di tutte le altre case della via, copiata da qualche rivista, per non parlare del resto.» «A quali crimini si riferivano?» gli chiesi «I mobili, poi. Tutta roba moderna» disse tra sé. «La signora Janisser sembrava spaventata.» «Le donne si preoccupano per niente. E ora devo lasciarti ai tuoi pensieri. Le mie carte mi chiamano.» Lo guardai e vidi la noia e il fastidio cadere dal suo viso come polvere. Si era fatto più colorito, animato com’era dal desiderio di correre al piano di sopra, nel suo studio, dove si rifugiava ogni giorno e spesso anche per parte della notte, lasciandomi in completa solitudine.

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DIR. EDITORIALE

ART DIRECTOR

EDITOR

GRAFICO

REDAZIONE

UFF. TECNICO

4 MM DI ABBONDANZ A PER L A PIEGA

4 M M D I A B B O N DA N Z A P E R L A P I EGA

Kate Williams ha studiato a Oxford e attualmente insegna alla Royal Holloway University di Londra. Tra i massimi esperti dell’epoca vittoriana, è autrice di alcune opere di argomento storico, consulente radiofonica e televisiva e collabora a programmi di approfondimento storico della BBC di grande successo.

Londra, 1840. Catherine Sorgeiul, una ragazza di diciannove anni, fragile e con un passato familiare misterioso, vive in totale isolamento e solitudine con uno zio eccentrico nel quartiere popolare e degradato di Spitalfields. Quando una serie di orribili delitti di giovani donne travolge l’East End, a due passi da casa sua, Catherine inizia a interessarsi in modo morboso a questa tragica vicenda. Spinta dalla sua fervida immaginazione, e sempre più prigioniera delle ossessioni che la tormentano sin da quando era bambina, inizia a indagare di nascosto sugli omicidi e sul loro autore, soprannominato dai giornali l’Uomo dei Corvi. È infatti convinta di avere la chiave per risolvere il mistero e scoprire l’identità del terribile assassino. Mentre le morti si susseguono secondo un macabro rituale e la città precipita nel panico, Catherine si rende conto che il cerchio intorno a lei si sta stringendo e l’Uomo dei Corvi è ormai vicinissimo. La sua presenza inquietante aleggia ovunque, trascinandola in una spirale di inganni e terrore che rischiano di travolgere lei e chi le è vicino... Il piacere degli uomini è un thriller gotico dall’atmosfera sinistra e allucinatoria, estremamente efficace nell’evocare la corruzione, il degrado e le ossessioni sessuali di cui è impregnata la società vittoriana. Kate Williams ha saputo creare un romanzo di grande impatto basato su una rigorosa ricostruzione storica, che affascinerà il lettore trascinandolo in una storia dai risvolti imprevedibili, alla scoperta del cuore oscuro e pulsante della Londra dell’Ottocento.

“Straordinariamente coinvolgente, con una trama che cattura e un’atmosfera da brivido.”

“Intenso e molto appassionante, questo libro segna l’ingresso di Kate Williams fra le regine della fiction contemporanea.”

FOTO © TONY COHEN

“Una magnifica ricostruzione dell’atmosfera dell’epoca e una narrazione davvero intrigante: questo è il romanzo che solo Kate Williams poteva scrivere.”

“Un romanzo entusiasmante e inquietante. Il piacere degli uomini rivela un talento in ascesa lasciato libero di esprimersi.”

U N RO M A N Z O

DI

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER: CRISTINA BA ZZONI

In sovraccoperta: Foto © Jill Battaglia/Arcangel Images

16,00

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DIMENSIONE: 145x223 mm - RIFILATO: 140x215 mm

PANTONE 719 C

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