Una Finestra sulla Storia

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NICOLA MASCELLARO

UNA FINESTRA SULLA STORIA

1991 1995

EDISUD


Alla realizzazione di questo volume hanno contribuito: Revisione Angelo Zaccheo - Giovanni Lovecchio Progetto grafico e impaginazione Clara Specchia L e illustrazioni di questo volume fanno parte dell’Archivio storico de La Gazzetta del Mezzogiorno


Prefazione di Onofrio Pagone E’ spinoso aprire questa finestra su una storia così recente. Questa ricerca storiografica dimostra che il penultimo quinquennio del Novecento ha la stessa portata sociale, economica e culturale di altri periodi fondamentali del secolo, come la Grande Guerra o anche il secondo conflitto mondiale: rappresenta una svolta, una cesura col passato, una rivoluzione, l’inizio della fine di un’epoca, l’avvio di una trasformazione complessiva di un intero Paese. E’ un quinquennio – questo preso in esame da Nicola Mascellaro – di faticosa e dolorosa transizione, caratterizzato dalla crisi delle istituzioni e da un devastante degrado etico della gestione della vita pubblica i cui effetti sono visibili e vistosi nel tempo, ben oltre il giro di boa del nuovo millennio. Ci vuole coraggio per raccontare gli anni che vanno dal 1991 al 1995. E ce ne vuole ancor di più per ricostruirli attraverso un’unica fonte storiografica: le cronache quotidiane della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il giornale di Bari nel quale l’Autore ha lavorato per trent’anni come archivista e che ancora diligentemente frequenta per continuare la sua opera storiografica. “Lo storico altro non è che un cronista voltato all’indietro”, ripeteva il filosofo tedesco Karl Krauss, e questo volume è una dimostrazione concreta di come sia possibile una lettura in chiave storica degli eventi attraverso la loro narrazione quotidiana: l’onestà intellettuale con cui il più delle volte si fa cronaca, consente poi una serena ricostruzione degli avvenimenti anche in una prospettiva più ampia, meno legata all’oggi o ai singoli episodi raccontati. Una ricostruzione storicizzata, appunto. Questa finestra sulla storia recente pone subito, però, un interrogativo di fondo: quanto vicini sono quegli anni? Ovvero: quanto lontani sono ormai gli eventi di quegli anni, tanto da poter essere ricostruiti e narrati e analizzati con distacco critico e con obiettività storica? Quanto cioè è possibile esaminare con la necessaria serenità di giudizio gli scandali di Tangentopoli e i relativi suicidi, o il rogo del teatro Petruzzelli e le annose vicende giudiziarie che ne sono seguite, o ancora gli attentati di mafia con vittime illustri, o anche gli sbarchi sulle coste della Puglia di migliaia di disperati fuggiti in mutande dall’Albania con un bagaglio fatto solo di sogni e di fame? O ancora, quanto è possibile affrontare con opportuna equidistanza ideologica la fine dei partiti storici dell’Italia del dopoguerra e la nascita di nuove formazioni politiche, peraltro fortemente basate sull’ideologia mediatica? Quanto insomma si può affondare le mani in questa storia recente con la certezza di poterlo fare senza però andare fino in fondo? E questo non perché il fondo sia compromettente o vincolante, ma solo perché il fondo non c’è ancora, non è ancora circoscritto e quindi non è mai stato scritto neppure dalle cronache quotidiane. L’Autore non si sbilancia: resta fedele alla sua fonte storiografica, lavora con certosina passione intorno ai singoli eventi che prende in esame, ma in qualche modo mani- 3


festa la segreta consapevolezza di questo interrogativo sostanziale. La lascia impercettibile eppure definita, inconfessabile eppure articolata. Un esempio? Ci sono eventi di questo quinquennio, come l’incendio del Petruzzelli, il cui sviluppo sconfina negli anni ben oltre il ’95, e Mascellaro non aspetta certo la pubblicazione dei suoi prossimi volumi per fornire l’epilogo della vicenda: no, racconta tutto con precisione e nei minimi dettagli fino alla conclusione della storia, se conclusione c’è. Questo spiega perché questa “Finestra sulla storia” – la settima, aperta sul Novecento, di questo Autore – è soprattutto una sorta di almanacco, una ricostruzione guidata, ragionata, meticolosa, il più possibile fedele, della cronaca di quegli anni. Per ciascun anno preso in esame si spazia con abilità dalla politica allo spettacolo, dallo sport ai problemi internazionali, concatenando gli avvenimenti in maniera oculata e meditata. E’ così: anche il Festival di Sanremo è lo specchio del Paese, e come tale raccoglie gli echi di guerra nel Golfo, così come la vicenda di Maradona tossicodipendente riguarda il mondo sportivo ma anche quello giudiziario. E la Gazzetta – sottolinea con comprensibile orgoglio l’Autore – “rispecchia l’andamento lento del Paese”. Questa finestra affaccia sulla storia dell’Italia e del mondo ma – poiché lo fa attraverso le pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno” – inevitabilmente si dilunga sulla storia (anzi sulla cronaca) della Puglia e di Bari di quegli anni. Anche perché c’è molta Puglia e soprattutto c’è molta Bari nella storia del quinquennio in esame. La Puglia, regione-laboratorio, considerata come il contraltare politico ed economico della

4 Bari 27 ottobre 1991: il cratere vuoto e ancora fumante del teatro Petruzzelli.


Lombardia nel Mezzogiorno, dal ’91 al ’95 soffre per le continue crisi di giunta alla Regione e cambia cinque presidenti in cinque anni, così come Bari vanta quattro sindaci in tre anni e mezzo. La Tangentopoli milanese impazza e travolge tutto il sistema politico-affaristico nazionale, ma gli scandali pugliesi – dall’arresto del “re del grano” a Foggia alle manette per il “re della sanità” a Bari – non sono da meno per la portata economica e le ricadute occupazionali che il ciclone giudiziario comporta. Questa “finestra” affaccia peraltro sulla storia della stessa Gazzetta: il giornale barese non resta estraneo allo scandalo della sanità privata, subisce l’umiliazione delle manette al proprio vertice politico, reagisce con dignità e decoro, ma ci rimette in termini di immagine. L’onore restituito dalla Giustizia con una serie di sentenze assolutorie, si troverà negli anni a dover affrontare una crisi non più dovuta alla “finestra di fronte” (quella delle corruttele politiche disvelate da Tangentopoli) ma a un diverso assetto aziendale, un mutato cambiamento di interessi editoriali e quindi societari. I fatti di Bari assumono un rilievo preponderante nel volume: la ricostruzione delle vicende del Petruzzelli come della fine del “re Mida” della sanità e della intera “Operazione Speranza” è rigorosa e puntigliosa, esaltata persino da una diversa impostazione grafica di impaginazione del testo. Il “caso Bari” è una storia a sé ma non una storia a parte, fa capo allo stesso capitolo della italica Tangentopoli ma ha specificità e caratteristiche tutte sue per il presunto coinvolgimento della criminalità locale nel presunto sistema tangentizio. L’Autore incede in lunghe digressioni sulla storia locale, quella barese soprattutto, e cita documenti e cronisti, editorialisti e dichiarazioni alla stampa. Molteplici sono le incursioni negli atti giudiziari con valutazioni, spiegazioni, talvolta giustificazioni che tradiscono la sua scelta di posizione non certo giustizialista. Anzi. Non tanto per l’incendio del Petruzzelli quanto per la caduta dell’impero sanitario delle “Ccr”, la linea innocentista dell’Autore si spinge a descrivere questa inchiesta giudiziaria come una “drammatica fiction tutta barese” e come uno “sceneggiato”, un “grande spettacolo” allestito dai “giudici-produttori della Procura Antimafia barese” quello che si rivela comunque “il più devastante terremoto politico-amministrativo della storia di Bari”. I fatti della Gazzetta vengono raccontati di prima mano, con dovizia di particolari al di là delle cronache scritte e pubblicate, seppur con qualche volontaria omissione. I cambi di direzione, i trasferimenti azionari, le scelte editoriali sono perciò inquadrati in un contesto più ampio, nel quadro complessivo del sistema politico-economico meridionale da un lato ed editoriale dall’altro. All’Autore piace sottolineare che il giornale – nonostante qualche concessione e una certa piaggeria ostentata al potere politico nel breve periodo della direzione Spinosa – “si mobilita in difesa del territorio e della sua gente” e – insiste – con i direttori Giacovazzo prima e Gorjux dopo “sarà la spina più pungente e fastidiosa nel fianco” fino a riprendere posizione con Patruno – rileva ancora Mascellaro – contro la disamministrazione politica del territorio. Senza mai abbandonarsi a ridondanze letterarie o citazioni di troppo, con una prosa asciutta e immediata l’Autore descrive anni straordinari e disgraziati, anni di sconvolgimenti politici e sociali: “Tutto cambia – sottolinea – ma in peggio”. Anni disperanti, tanto che un capitolo relativo al 1995 è dedicato alle Madonne piangenti e alle lacrime che bagnano persino un busto marmoreo di Garibaldi nel Catanzarese. Questa è la cronaca: questa è la storia di un quinquennio che, per certi versi, non è ancora finito. 5


6 Dopo 15 anni, l’impegno sociale della Gazzetta è premiato: il Gargano diventa parco nazionale.


a Nico Zaccheo

… ma torniamo agli italiani, i quali, per non aver avuti i princìpi savi, non hanno preso alcun ordine buono… tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i prìncipi loro; i quali ne sono stati gastigati, e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene, perdendo ignominiosamente lo Stato… ma quello che è peggio, è che quelli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine. Niccolò Machiavelli, 1469-1527 L’arte della guerra Scritto nel 1514 e stampato a Firenze il 16 agosto 1521

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Non è la stessa guerra, ma è pur sempre guerra. Il 17 gennaio 1991 le forze di coalizione di 32 Paesi invadono

8 l’Iraq; il 23 maggio 1992 in Sicilia, la mafia uccide il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta.


La resa dei conti La disperazione più grave che possa impadronirsi della società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile. Corrado Alvaro Diciamo la verità, per quasi un decennio gli italiani, la classe politica e imprenditoriale si sono impegnati in sfrenatezze pubbliche e private come mai prima. Convinti che la ‘nuova’ Italia, uscita dagli opposti estremismi, dal terrorismo e dagli anni di piombo, potesse produrre un nuovo miracolo economico; sostenuti da governanti pregni di una vanagloria smisurata, ai limiti della follia, il ‘sistema’ si convince, e convince, di poter ampliare le proprie e le altrui aspettative ben oltre le più rosee possibilità facendo così perdere a tutti, il senso del reale, le vere capacità del Paese che invece erano incompatibili con le sue risorse. In breve, ci avevano detto che potevamo competere con qualunque grande potenza europea e mondiale, che eravamo la sesta e qualche volta la quinta potenza industriale del mondo, che eravamo ricchi di inventiva, intelligenti e creativi come nessuno; che potevamo perciò sederci al tavolo imbandito e opulento della società capitalistica abbuffandoci e spendendo più di quanto il Paese fosse in grado di produrre… sapevamo tutti l’esistenza della sporcizia che ci stava sommergendo – scrive Giuseppe Gorjux nel 1993 – ma ci siamo adagiati, sprofondando nei cuscini di un benessere immeritato, vivendo e lasciando vivere. E a quanti, pochi, ammonivano che così non si poteva continuare; a quanti ci facevano osservare che non si poteva spendere il doppio delle entrate, un ministro della Repubblica rispondeva che… lo Stato non può fare discorsi da bottegai. Bisogna cambiare, diceva il silente uomo sul Colle che improvvisamente aveva riacquistato la parola. La scuola dell’obbligo è finita; il Muro di Berlino è crollato e, con le dimissioni di Gorbaciov, si è spenta anche l’ultima speranza di conservare la fiammella del bipolarismo ideologico che aveva, col terrore, governato il mondo. E lo diceva a destra e a sinistra. Prima esternando e poi picconando. Ma era stato incompreso, ignorato, sbeffeggiato, dato per pazzo. Perfino quanti avevano partecipato al banchetto, accontentandosi di brandelli di carne attorno all’osso, rifiutarono di ascoltarlo… loro non cambiano, non vogliono cambiare, aveva detto Rosaria Schifani a Palermo davanti alla bara di suo marito Vito, trucidato dalla mafia con Giovanni Falcone. Poi, un giorno, un servitore di quello Stato che si stava dilapidando, Antonio Di Pietro, un ‘ignoto’ procuratore di uno sperduto paese del Molise, Montenero di Bisaccia, si presentò, in veste di oste, al lungo tavolo dei commensali e disse: Signori, la festa è finita, le libagioni pure, è tempo di saldare il conto. Comincia così la fine morale, politica e professionale di migliaia di persone; la fine dei partiti politici storici, la fine della prima Repubblica e, con la discesa in campo di un Cavaliere mediatico, di un’orda di ‘barbari’ secessionisti e di una nuova destra, iniziano gli anni della seconda Repubblica o… della restaurazione. 9



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Siamo al prologo. Siamo cioè all’orazione funebre, alla scena iniziale dell’ultimo periodo antecedente la definitiva sepoltura della prima Repubblica. Siamo all’inizio dell’ultimo stadio dell’imbarbarimento politico e finanziario del Paese; al prologo dei sogni egemonici di Saddam Hussein; all’inizio della fine delle speranze di Mikhail Gorbaciov di ‘salvare’, in Unione Sovietica, il comunismo e la nazione stessa dalla disgregazione. Siamo al prologo dell’Intervento straordinario nel Mezzogiorno; del Partito Comunista Italiano; della Federazione jugoslava, del Patto di Varsavia, della Nazionale azzurra di Azeglio Vicini e dell’era di Maradona. Siamo al prologo del Petruzzelli sul palcoscenico del teatro lirico mondiale e, soprattutto, al prologo, alle battute iniziali di Francesco Cossiga che, da silente, acquiescente Capo condomino del Palazzo, diventa Capomastro demolitore. Siamo, in una parola, all’inizio di una lunga serie di avvenimenti che porterà il Paese alla ‘decostruzione’, per usare un termine inventato dal sociologo Giuseppe De Rita nel suo annuale rapporto CENSIS. Polemico e a tratti perfino impietoso, il rapporto del Centro Studi Investimenti Sociali, descrive lucidamente ogni aspetto della società italica… malata e perennemente in crisi… dalle istituzioni all’economia, alla famiglia. E ora anche in preda del… male oscuro del non credere. Non crediamo più ai partiti, dai quali siamo stati profondamente delusi; non crediamo più nello Stato, consumatore vorace di risorse e iniquo dispensatore di servizi; non crediamo più nei grandi sistemi ideologici e siamo perfino dubbiosi sulle nostre singole capacità… condizionati dall’assenza di prospettive. Per crescere bisogna credere – afferma il CENSIS – e la nostra mancanza di fede non si manifesta come apatia, ma come ‘decostruzione’. Così… tendiamo a smontare tutto, a fare tabula rasa… confortati dalla moda del piccone e dalla lamentosa dissacrazione di questo

periodo che sembra trovare nel Paese numerosi sostenitori e imitatori. Con la decostruzione il Paese torna al solito… pasticcio all’italiana fatto di furbizia, di capacità di assalto, di quella componente arrangiatoria e strapaesana che fa scattare la spinta all’esproprio dei beni altrui, individuali e collettivi, dove aumenta il controllo privato, spesso malavitoso, del terrorismo, delle procedure d’appalto, dei centri finanziari, della ricchezza comune. Come uscirne? C’è un antidoto alla decostruzione? Sì, afferma il CENSIS… innanzitutto bisogna dire basta al basta… è necessario uno sforzo nuovo: sollecitare nella gente quelle ‘medie virtù’, quelle ‘virtù’ né troppo alte per risultare applicabili nel concreto, né troppo basse per essere ininfluenti sui problemi che ci circondano. Il rapporto del CENSIS è del 6 dicembre e se non fosse troppo poco per tornare indietro, per dire ‘basta al basta’, per sollecitare coscienze ormai troppo sopite, è troppo tardi per invertire il senso di marcia della decostruzione. Eppure, non era vero che la famiglia fosse ‘malata’, né era vero che la gente avesse alla fine gettato alle ortiche le sue ‘medie virtù’. Alle elezioni amministrative del 1990 gli italiani avevano rafforzato ovunque la coalizione di Governo. Ma avevano, allo stesso tempo, fatto crescere un nuovo soggetto politico: i leghisti. Era solo un segnale. Voleva essere un campanello d’allarme. Quanto bastava per scuotere il Sistema che – questo sì, ammalato, invasato dal virus del potere – non ne tenne alcun conto. Fu un errore, pura miopia politica che diventa cecità quando il 9 giugno di quest’anno 27 milioni di italiani votano SÌ all’abrogazione della preferenza plurima per la Camera dei deputati. E’ il primo referendum elettorale di Mario Segni e rappresenta la prima leva che, da lì a poco, avrebbe scardinato il Palazzo del potere. Ma ancora una volta gli abitanti del Palazzo non ne tennero alcun conto. Anzi, fecero di peggio. Alla vigilia del referendum 11


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Bettino Craxi, arbitro indiscusso della politica nazionale, invita gli italiani ad andare al mare; Ciriaco De Mita invece, a seguito del plebiscitario risultato, commenta… la sovranità popolare non è l’atto demagogico dell’urlo della folla. Parole dure, sprezzanti, che confermano quanto fosse irrilevante la considerazione che la classe politica nazionale aveva dei propri elettori: erano ‘folla demagogica’ quando chiedevano riforme; cittadini esemplari quando confermavano deleghe e Sistema. Erano così indisponenti ed inaccettabili che ben presto anche la cosiddetta ‘stampa amica’ finì per schierarsi con la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica palesemente indignata. Ormai nessuno riesce a toglierci questa sensazione di malessere, di sfascio e insieme di impotenza che da qualche tempo ci accompagna – scrive il vice direttore della Gazzetta Pietro Marino – c’è il contrasto fra il Paese che bene o male lavora e produce e uno Stato che affoga nei debiti, dalle amministrazioni centrali a quelle locali; c’è il rapporto per-

verso fra il Paese che cerca voce e la classe politica, i partiti e i loro apparati, che restano muti e che dopo aver occupato e invaso tutto il potere possibile e immaginabile, appaiono come prigionieri del loro stesso gioco, del sistema che hanno costruito e che ora li paralizza; e c’è, infine, l’insicurezza diffusa dalla violenza e dalla criminalità, grande e piccola, spesso connessa ad una rete di corruzione, ricatto, estorsione a tutti i livelli… cresce, certo, la convinzione che lo stato delle cose è ormai intollerabile… ma le reazioni sono convulse e non offrono soluzioni. Anzi, aggravano e accrescono i fattori di disgregazione del Paese… a parole tutti sono d’accordo – continua Marino – che la tela della Prima Repubblica si è smagliata, è finita e bisogna passare alla Seconda. Ma è soltanto uno slogan politichese se non si dà un valore, un contenuto al cambiamento. Che questo passi attraverso le riforme, è affermazione altrettanto ovvia. Ma totale è la confusione nei partiti, sino ai vertici dello Stato. Nessuno si sottrae al sospetto di voler solo le riforme che assicurino la propria

12 Mario Segni e Massimo Severo Giannini, promotori dei referendum per l’abolizione della preferenza plurima.


sopravvivenza o la presa di possesso di ulteriore potere. Che fare, dunque? Adagiarsi nella rassegnata denuncia? Non necessariamente… questo Paese ha gruppi e nuclei molteplici che esprimono valori di impegno intellettuale – conclude Marino – di vigore morale, di volontà solidaristica. Ed è questa Italia, sommersa e dispersa, che deve venire allo scoperto, ritrovarsi. E quell’Italia c’è. Solo che il Palazzo è ormai così fatiscente che nessuna opera di restauro avrebbe potuto farlo tornare al suo antico splendore. L’ultimo passo era stato compiuto dal Capo condomino del Palazzo, Francesco Cossiga, quando, nell’ottobre del 1990, fece il tentativo di consegnare i comunisti alla legittimità politica dello Stato… il crollo del Muro di Berlino è anche il crollo di un muro invisibile eretto in Italia… io credo che il PCI ha la possibilità di diventare una grande e democratica forza della sinistra socialista… esso ha anche l’occasione di fornire un notevole contributo alla costruzione di un’Italia più giusta e più moderna… il sistema democratico in Italia è stato bloccato nel punto più delicato possibile: quello dei sistemi di alternanza. Ma non è detto che non possa essere scardinato nel momento stesso in cui i partiti della sinistra decideranno di unire le loro forze poiché il processo di unificazione della sinistra è inevitabile. Prima o poi l’unità operativa della sinistra si realizzerà perché è a questo che conduce il vero meccanismo della democrazia matura… io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente… ma l’agglomerazione ideale, sociale e culturale che il mondo comunista personifica non è affatto crollata. Il comunismo – aveva detto Cossiga – è profondamente radicato nella società italiana: non è mai stato imposto con la forza; è diventato un partito ed ha preso slancio attraverso i voti. Non è un mistero dopotutto che il fascino del comunismo è sentito da larghe aree del mondo cattolico e da larghe parti della Democrazia Cristiana. Sbigottiti, i giornalisti gli chiesero: Presi-

dente questo significa che Lei sarebbe disposto a benedire un Governo che vede anche l’apporto del PCI per scongiurare elezioni politiche anticipate? Certo, dirà Cossiga… se si forma un Governo che non ha una maggioranza fittizia ma una maggioranza fatta per governare, il Capo dello Stato non può che appoggiare questa maggioranza. Era una legittimazione e un invito esplicito a tentare di salvare la classe politica e il Paese da un elettorato che si avviava per la strada del qualunquismo antipartitico. Ma era una prospettiva politica senza speranza. Intanto perché Craxi continuava a dimostrare un viscerale antagonismo sia con i ‘vecchi’ comunisti che per il costituendo PDS – che definiva sprezzantemente ‘la cosa’ – e, se non bastava, i rapporti, personale e politico, fra Craxi e Occhetto, erano anche peggio. E comunque, per Craxi, la questione era semplice: fallito il progetto ideologico del comunismo, l’unica seria alternativa di sinistra veniva ereditata dai socialisti che, alle prossime elezioni, contavano di diventare il secondo partito del Paese. Achille Occhetto, invece, credeva che sarebbe stato sufficiente cambiare ragione sociale per restare la forza politica egemone di sempre. Il PDS infatti, contava di accattivarsi nuove simpatie proprio in quella ‘larga area’ di elettorato cattolico, cui aveva fatto cenno Cossiga, e perfino nella sinistra socialista che mostrava chiari segni d’insofferenza allo strapotere di Craxi. Tuttavia, Craxi non era certo contrario all’unificazione della sinistra. Dopotutto era stato proprio il PSI a cambiare, per primo, il proprio simbolo: esattamente una settimana prima che Cossiga legittimasse i comunisti, il Partito Socialista era diventato Unità Socialista. Il messaggio era esplicito: l’unificazione della sinistra era fattibile a condizione che fossero i comunisti a confluire nel nuovo, vecchio PSI. L’uscita di Cossiga, dunque, spiazza Craxi che, per una volta, la prima e l’ultima, lo contesta. 13


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Per tutto il periodo in cui quel ‘cavallo imbizzarrito’ di Cossiga ha esternato e picconato politici, partiti e istituzioni, Bettino Craxi lo ha cavalcato meglio di un cow boy texano, ma questa non gliela perdona… la politica è spesso polemica, è responsabilità, e il Capo dello Stato non può consentirsi di fare queste affermazioni senza rischiare di porsi ai limiti della Costituzione. La polemica si stempera perché negli stessi giorni in cui Cossiga delinea la sua visione di un possibile, futuro scenario politico, Andreotti rivela in Parlamento una vecchia, strana storia risalente agli anni della ‘guerra fredda’. Nel 1951 la NATO decise di creare, nei Paesi dell’Alleanza, una organizzazione paramilitare segreta quale baluardo difensivo in caso d’invasione dell’Armata Rossa poiché, si diceva, anche i sovietici avevano in Europa una strutttura clandestina similare. Nome in codice del progetto NATO è ‘Stay Behind’; nome in codice della struttura segreta affidata ai ‘servizi’ italiani nel 1956 è ‘Gladio’. Tutori e custodi dell’organizzazione sono stati tutti i Ministri della Difesa dal ‘56 al ‘73, anno in cui la ‘rete’ segreta dei ‘gladiatori’ è smantellata. Cossiga venne a conoscenza della ‘Gladio’ nel 1966 quando, quale sottosegretario alla Difesa, gli sarà chiesto di rinnovare la struttura segreta nei mezzi e negli uomini. Andreotti dunque, ancorché ‘costretto’ a rivelare l’esistenza di ‘Gladio’ per un’indagine del procuratore di Venezia, Felice Casson, coglie l’occasione per screditare Cossiga agli occhi del PCI. Alcuni anni dopo questi avvenimenti, diversi politologi hanno sostenuto che Occhetto commise, in quel frangente, un grave errore di valutazione: l’iniziativa politica di Cossiga che, come Capo dello Stato, forniva ai comunisti il certificato di abilitazione a governare, andava sostenuta e sviluppata. Ma per miopia, per incapacità di analisi e necessità tattiche, il PCI di Occhetto, che si stava avviando fra grandi travagli a diventare la Quercia, scelse 14 la lotta politica. Ritenne che la rivelazione sul-

l’esistenza di Gladio fosse un’occasione insperata di ricompattare il futuro PDS e sferrare un colpo micidiale alla credibilità di Cossiga e dell’intera DC, facendoli passare per occultatori di stragi e golpisti. Sono, ovviamente, considerazioni che appartengono al senno di poi. La realtà, in quel momento, era che, imperante Craxi, l’unificazione della sinistra appariva lontana quanto una cometa. Tuttavia Cossiga ci credeva. E fu così deluso dalla reazione di Occhetto che lo bolla per… uno gnomo che dirige un partito di gnomi.

Il Picconatore Cossiga era passato dalla fase di ‘esternatore’ a quella di ‘picconatore’. Io sono un ribaldo. Lo sono sempre stato. Ho detto e dico cose fastidiose, ma cercando di farmi capire dalla gente. Sono un pompiere particolare che invece di spegnerlo sto mettendo incendio. Ho avuto un passato burra-


scoso, tra eversioni, colpi di Stato, trame e integralismo cattolico. Sono perciò rappresentativo di tutti i mali del Paese. Ma il Paese è cresciuto e l’abito che gli è stato fatto non va più bene. E’ tempo di rinnovare il guardaroba dunque, e Lui si propone di fare il sarto… basta con la dialettica politica, con l’occupazione del potere. Bisogna porre mano alle riforme istituzionali, amministrative ed elettorali. La Repubblica rischia l’asfissia. Bisogna affrontare i problemi congiunturali poiché la situazione dei conti pubblici rischia di travolgere quella sana economia che la laboriosità e la fantasia della gente comune ha creato… sono stufo di comportarmi come un passivo registratore magnetico… il nostro sistema parlamentare è finito in un assemblearismo senza che il Parlamento eserciti un controllo efficace… io non voglio passare alla storia come colui che nulla mosse per tentare di fermare il decadimento delle istituzioni. E Cossiga parte, aprendo, nel corso dell’anno, tutte le cateratte possibili di una diga colma di acque stagnanti. Ogni giorno chiama il direttore di Gr Uno, Livio Zanetti, e commenta, a modo suo, la lettura dei quotidiani che ha già fatto alle 6 del mattino. Ben presto stampa e televisione faranno a gara per assicurarsi le sue picconate. Che mazzate ragazzi. In pochi mesi inonda l’intera classe politica di un tale diluvio di pesante ironia da far apparire dei dilettanti anche i più incisivi disegnatori di satira. Non risparmia nessuno. Meno che mai i leader del suo stesso partito… c’è ormai, fra me e la DC, un solco incolmabile. Oggi come oggi, il grosso della DC esprime quel filone del cattolicesimo italiano che è storicamente responsabile del più gretto conservatorismo. E ancora… sono amareggiato e deluso dai massimi dirigenti della DC: non è piacevole essere compresi, nel bene e nel male, da tutti salvo da quelli che erano i propri compagni di partito. Non mi hanno capito… c’è, nel Paese, una lobby politico-finanziaria, un partito trasversale, che tenta di logorare e persino di ro-

vesciare il Capo dello Stato… non mi pare che i vertici DC abbiano un grande interesse istituzionale alla mia permanenza alla presidenza della Repubblica fino alla scadenza naturale. E’ colpa sua… sta facendo troppa confusione – commenta Giovanni Galloni, deputato DC a cui Cossiga toglierà la delega a rappresentarlo quale Presidente del CSM – in nessun Paese al mondo chi è ai vertici del potere è ai vertici della rivoluzione. Gli strali di Cossiga contro il Sistema non erano ‘incitazione’ alla rivoluzione, ma provocazioni per ‘Lor Signori’ che non volevano saperne di riformare le istituzioni. E allora Cossiga prende a togliersi dalle scarpe quelli che lui chiama ‘fastidiosi sassolini’. Ma sono macigni. I suoi maggiori detrattori sono Achille Occhetto, Eugenio Scalfari – il direttore del quotidiano Repubblica - Marco Pannella, Giorgio La Malfa, Massimo D’Alema e una bella fetta della DC con Ciriaco De Mita in testa. Occhetto e Scalfari sono, per Cossiga, i rappresentanti di quel ‘partito trasversale’ che lo vorrebbe dimissionario. Il suo più grande estimatore è, ovviamente, Bettino Craxi, se non altro perché condivide, nei confronti di Occhetto, Scalfari e De Mita, la stessa scarsa considerazione politica di Cossiga. Scalfari è il primo a chiedere le dimissioni del Capo dello Stato; Occhetto, dopo aver chiesto un dibattito in Parlamento sulle esternazioni di Cossiga, formalizza una richiesta di ‘stato d’accusa’; Pannella minaccia addirittura di denunciarlo per alto tradimento della Costituzione. Lo accusano di muoversi oltre i limiti della funzione di garante dello Stato, di non rappresentare più l’unità nazionale, di imbarbarire il confronto politico. Ma lui niente. Ormai è un carro armato in folle su una strada in discesa. Allora provano con le maniere forti: gli danno del megalomane, protettore di stragisti, protettore di poteri occulti, sovvertitore di ordinamenti, affetto da schizofrenia senile e perfino del pazzo. E lui ribatte, colpo su colpo. Ad Eu- 15


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genio Scalfari consiglia di occuparsi di finanza e giornalismo… sarebbe meglio per lui perché non farebbe cattive figure; il dibattito in Parlamento chiesto dal PDS viene definito… un fraudolento tentativo di aggirare, con uno scherzo da paglietta di pretura, il principio della responsabilità del Capo dello Stato. E ancora… io non sono matto, matti sono coloro che mi prendono per matto. La mia presunta e supposta pazzia è un elemento del gioco politico… esiste un partito secondo il quale io sarei da considerare matto come un cavallo, da ricoverare, da estromettere dal Quirinale… sono supposizioni che nascondono velleità di potere, complotti da cortile… ma la gente mi conosce, gli italiani sanno chi sono… la gente ama sentir parlare forte e chiaro ed io prometto che ci proverò sempre più, ma non posso promettere di riuscirci ogni volta. Siamo in una Repubblica parlamentare, ma secondo una certa eccezione di questa Repubblica sembrerebbe che il Presidente non esiste. Ma non è così. Infatti, Cossiga, non solo dimostrerà di esistere, ma farà in modo che se ne accorgano tutti. A partire dal 1948 tutti, o quasi tutti i Presidenti del Consiglio che l’Italia ha avuto, all’inizio di ogni anno si sono sempre trovati davanti a un rito obbligatorio che aveva tre prospettive: verifica della tenuta del Governo – una specie di anno nuovo vita nuova – subito dopo si adombrava la velata minaccia di una crisi e giù, in fondo, lo spettro delle elezioni anticipate. In tempi di ‘vacche grasse’ le motivazioni che portavano ai frequenti ‘chiarimenti’, alle ‘verifiche’, alle ‘crisi’ o all’interruzione della legislatura, sono sempre state ‘politiche’. In realtà, essendo l’Italia l’unico paese europeo ‘costretto’ a vivere in una ‘democrazia bloccata’, ogni crisi politica non era che un pretesto per un rimescolamento di equilibri di potere all’interno della ‘Balena Bianca’, la DC. Era, in parole povere, un semplice turn-over nelle stanze dei bottoni, un… levati tu che mi ci metto io. Innanzitutto fra i vari Leader della DC, poi fra 16 loro e gli alleati di turno, socialisti e laici.

In tempi di ‘vacche magre’, il gioco non cambia. Ma le crisi diventano via via sempre più articolate. Passano da politiche a politicoeconomiche e, da queste, a politico-economiche ed istituzionali. Il Palazzo insomma è, per dirla con De Rita, in ‘decostruzione’. Non funziona più nulla… il sistema non funziona più – scrive il direttore della Gazzetta, Giuseppe Gorjux – per quanto abili e impegnati possono essere gli addetti, il macchinario è vecchio e logoro, mentre sono profondamente cambiate le esigenze del… mercato. La gente lo ha capito da gran tempo. Il mondo politico continua a non capire. E Guglielmo Zucconi, sempre sulla Gazzetta, rincara la dose… la verità è che i partiti sono diventati strumenti d’invadenza e corruzione. Lo Stato è a pezzi. La colpa di Cossiga consiste nell’aver detto basta senza mezzi termini e le sue parole nuove e diverse sono la prima causa dello scandalo: il suo linguaggio ha offeso l’ipocrisia italiana.


In omaggio alla consuetudine dunque, all’inizio di gennaio di questo 1991, il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, è alle prese con l’ennesima ‘verifica’ – ma si parla apertamente di crisi e di nuove elezioni anticipate – quando esplode la crisi del Golfo Persico.

Saddam Hussein Facciamo un passo indietro. Il 2 agosto 1990 le truppe irachene di Saddam Hussein avevano invaso il piccolo e ricchissimo Kuwait… ci rubava il petrolio – disse il Dittatore – e comunque il Kuwait è stato per secoli una provincia dell’Iraq… è tempo che torni a far parte della madrepatria. Immediate le reazioni del mondo occidentale e di molti paesi arabi che investono della questione l’ONU. E qui accade, per la prima volta, un evento storico: l’Unione Sovietica vota e approva, insieme agli Stati Uniti, la risoluzione 660 del Consiglio di Sicurezza che condanna l’invasione e chiede l’immediato e incondizionato ritiro delle armate di Bagdad dal Kuwait. Ma Saddam Hussein non sente ragioni, anzi. Il 28 agosto si annette il piccolo Stato e, collegando la sua azione alla questione palestinese, invita tutti gli stati arabi alla ‘jihad’, alla guerra santa. Per quattro mesi la diplomazia internazionale, compresa quella sovietica, tenta di evitare un nuovo conflitto nella regione più esplosiva del pianeta. Gli interessi in gioco sono immensi. L’Occidente rischia un nuovo collasso economico pari, se non superiore, a quello del 1973 quando, con la guerra del Kippur, l’intero apparato produttivo dei paesi industrializzati venne messo in ginocchio per i drastici tagli dei paesi arabi alle forniture di petrolio. Il 29 novembre del 1990, fallito ogni tentativo di mediazione, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva, ancora una volta con il consenso dell’Unione Sovietica, una nuova risoluzione. E’ un ultimatum: se entro il 15 gennaio 1991 l’Iraq non avrà lasciato il Kuwait, saranno usati tutti i mezzi necessari – com-

Saddam Hussein, il dittatore iracheno.

preso quindi l’uso delle armi – al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale nella regione del Golfo. Così, mentre l’ONU offre a Saddam Hussein un ulteriore ‘momento di riflessione’, gli Stati Uniti, che insieme ad altri 32 Paesi guidano la coalizione militare anti Iraq, ammassano in Arabia Saudita, in Turchia, nel Golfo Persico e nel Mediterraneo, una tale quantità di uomini e mezzi da formare la più ‘formidabile macchina da guerra’ che l’uomo abbia mai visto. E’ la prima volta, dopo l’umiliante fuga dal Vietnam, che gli americani hanno l’occasione di mostrare i loro ‘muscoli’. Saliti al rango di ‘gendarme unico del mondo libero’, gli Stati Uniti ci tengono a dimostrare di esserne all’altezza. Ma anche questa volta pagheranno un costo altissimo. Nessuno, proprio nessuno, avrebbe mai potuto immaginare che dieci anni dopo un certo Osama Bin Laden sarebbe risalito proprio a questa pacifica occupazione del sacro suolo islamico – gli americani non lasceranno più le loro basi in Arabia Saudita – per conce- 17


Una finestra sulla storia - 1991

pire, nella sua mente obnubilata dal fondamentalismo islamico, il più criminale atto terroristico della storia: l’attacco e la distruzione delle Twin Towers a New York, l’11 settembre 2001, con 2.801 vittime innocenti. Prima che scada l’ultimatum dell’ONU, l’Iraq è praticamente assediato: non può esportare il suo petrolio, non arrivano armi e medicinali, né tanto meno viveri. Le Nazioni Unite hanno imposto l’embargo totale. Ma Saddam Hussein non si lascia intimidire. Ribadisce che nessuno potrà togliergli il Kuwait… è ormai dell’Iraq per l’eternità e, nell’imminenza dell’attacco, si fa arrogante… questa sarà la madre di tutte le guerre… gli invasori nuoteranno nel loro stesso sangue. Mussolini fu meno torvo. Disse… moriranno sul bagnasciuga. All’alba del 17 gennaio le forze di coalizione scatenano l’operazione ‘Tempesta nel deserto’. Un fiume di uomini e mezzi inarrestabile, mentre l’intero territorio iracheno viene bombardato dal mare, dal cielo e dalle varie basi a terra. Il Dittatore tenta di tutto per fermarli. Minaccia di usare armi chimiche e batteriologiche; lancia decine di missili su Israele allo scopo di sollecitare la reazione degli israeliani e allargare così il conflitto; arriva perfino a minacciare di usare i prigionieri come scudi umani. Ma alla fine le sue truppe lasciano il Kuwait. Il 28 febbraio, dopo 42 giorni di guerra, la più sofisticata, pulita e intelligente di tutte le guerre, finisce come tutte le altre: un bagno di sangue fra militari e civili, distruzioni e la vendetta dei vinti contro i curdi e i palestinesi. L’ultimo scempio lo compiono gli iracheni, distruggendo e incendiando tutti i pozzi petroliferi che trovano sul loro cammino a ritroso, trasformando il Kuwait in un immenso braciere di fumo e fuoco. Si è poi calcolato che oltre al greggio distrutto dalle fiamme, altre 900mila tonnellate di petrolio finirono in mare provocando il più grave disastro ecologico del secolo. Cosa resta di questa guerra che avrebbe 18 potuto ‘sconvolgere il mondo’ eliminando un

serio pericolo di futuri incendi nel Golfo e dando, finalmente, una soluzione alla questione palestinese? Niente. Tanto che appena un anno dopo, Lino Patruno, sulla Gazzetta, si chiede: Chi l’ha vinta la guerra nel Golfo? Nessuno. Anzi, è finita nell’ufficio delle cose dimenticate. Le uniche cose rimaste nella nostra coscienza sono… il pacifismo delle mirabolanti arditezze intellettuali e le mistificanti bassezze strumentali… le notti davanti alla Tv, fra mille illuminanti commenti e le miserissime immagini sempre uguali, esemplificazione assoluta di come si possa tenere inchiodata l’umanità a qualcosa che sembra ma non c’è, di come un Grande Fratello possa disporre di noi con un ipnotico potere: la finzione. Restituito infatti il Kuwait alla propria indipendenza, tutto torna come prima. Gli Stati Uniti cioè tornano a ‘controllare’ le fonti energetiche del Golfo Persico; Saddam Hussein è ancora l’amato dittatore del popolo iracheno, nonostante le migliaia di vittime prodotte dal suo regime e dal perdurare dell’embargo; nel 2001 i palestinesi tornano a scatenare una nuova ‘intifada’ contro gli israeliani – una nuova ondata di atti terroristici repressi con carri armati, missili e mitragliatori – gli Stati Uniti tornano a minacciare un nuovo conflitto se Saddam Hussein non la smette di fare ancora il ‘cattivo’. Una cosa però è rimasta. Anzi due: la Tv, che da funzione mediatica è divenuta strumento e fonte di potere reale – tre anni dopo Silvio Berlusconi ce ne darà una eccezionale dimostrazione pratica: in pochi mesi ‘scende in campo’, fonda un partito, vince le elezioni e diventa Presidente del Consiglio – e la diffusione universale dei telefoni cellulari, ‘figli’ di quel telefono satellitare utilizzato per la prima volta da Peter Arnet, il corrispondente della CNN, l’unico autorizzato da Bagdad a ‘raccontare’ la guerra dall’interno dell’Iraq. L’Italia partecipa alla guerra del Golfo con 8 cacciabombardieri Tornado e varie navi appoggio nel Golfo Persico. Alla prima mis-


sione il Tornado pilotato da Maurizio Cocciolone e Gianmarco Bellini viene abbattuto. I due aviatori si salvano, vengono fatti prigionieri e, alquanto pesti, vengono liberati alla fine del conflittto. Ma questa disavventura, l’unica – gli italiani in definitiva si comportano con onore, sia pure senza gloria – consente, ai soliti denigratori delle italiche virtù guerresche, di ricamarci sopra. In una delle solite conferenze stampa del comando statunitense, un giornalista chiede: ma l’Italia continua a partecipare alle missioni? Il colonnello Neal – uno dei tanti ufficiali agli ordini del supersceriffo Norman Schwarzkopf – dopo un attimo di esitazione, risponde: sono felice di annunciarvi che l’Italia fa ancora parte della coalizione anche se, qualunque cosa avesse deciso, non avrebbe fatto alcuna differenza. A Roma fanno finta di niente. Ma qualche giorno dopo un giornalista inglese torna sull’argomento e afferma che… l’apporto italiano nel Golfo è stato ininfluente. E’ troppo, almeno per Cossiga che ormai, a torto o a ragione, ‘esterna’ su tutto… voi sapete la stima che ho per i giornalisti, ma gente che dica il falso per dispetto verso il nostro Paese ce ne può essere anche in Gran Bretagna… questo giornalista è un gran figlio di qualche cosa che, per rispetto a chi mi sente e per rispetto ad una delle più antiche professioni del mondo, io non dico, perché sarebbe come ingiuriare questa professione.

Muore il PCI, nasce il PDS Mentre la guerra è in corso il 31 gennaio si apre, a Rimini, il 20° Congresso del PCI… dopo settant’anni e dieci giorni – scrive l’inviato della Gazzetta, Giuseppe De Tomaso – oggi, Achille Occhetto, prima intonerà il de profundis del PCI, poi stilerà il certificato di nascita della nuova creatura: il PDS, Partito democratico della sinistra. Non è stato un travaglio facile, ma Occhetto, mamma e levatrice di questa nuova creatura, si è battuto come un leone per farla nascere… il PDS sarà un partito laico, democrati-

co, riformatore, unitario e pluralista. Sarà il simbolo di una nuova era per la sinistra italiana… e Occhetto intende crescerlo, nutrirlo, irrobustirlo, fargli da guida e renderlo forte abbastanza per tagliare quel traguardo inseguito per cinquant’anni: guidare il Paese. Come? Cercando di convincere l’elettorato cattolico della loro nuova verginità – Occhetto ha proposto la sospensione unilaterale temporanea dell’intervento militare italiano nella guerra del Golfo – e soprattutto attraverso l’unità della sinistra… non necessariamente partendo dall’unità organica per giungere all’alternativa, ma partendo dall’alternativa per compiere ulteriori passi di ricomposizione. Achille Occhetto convince tutti, compresi gli scettici Ingrao, Bassolino e Napolitano, ma non Cossutta, né la DC e, meno che mai, Bettino Craxi che boccia gran parte della relazione del Segretario con un commento lapidario… mi resta difficile capire cos’è il PDS… e abbandona il Congresso lasciando Formica e Signorile notoriamente più disponibili ad una futura alternativa di sinistra. Ma il commento di Craxi brucia e Occhetto si lascia prendere dalla foga polemica… Craxi è un uomo curioso. Ho dichiarato di essere favorevole a discutere l’unità socialista e lui ha detto no. Vuol dire che quando si aprono le porte dell’alternativa preferisce contrattare la sua forza con la DC, magari per avere ancora un giro come Presidente del Consiglio. Una frase infelice che non è utile al dialogo, dirà Formica che pure è un tessitore instancabile dell’alternativa. Mentre Signorile, che aveva già detto… ora si apre davvero un’ipotesi di sinistra di governo… commenta: Craxi è il segretario del partito con il quale, nel bene e nel male, il PDS dovrà misurarsi per una politica di alternativa, e nella sinistra. La reazione dei dirigenti del PCI non facilita il cammino unitario. Incidente chiuso? Macché. Il giorno dopo Massimo D’alema riaccende la platea congressuale… noi puntiamo all’alleanza con il PSI, testardamente. Ma sappiano i socialisti che potremmo prendere altre vie. 19



Questa volta l’allarme rosso scatta nella DC. Quali vie? Se è con noi – dirà un delegato DC – che questa nuova creatura intende fare un tratto di strada, ha fatto male i calcoli. Il pateracchio consociativo è morto e sepolto. Indietro non si torna. E il senatore DC, Giuseppe Giacovazzo, aggiunge… il PDS è, per ora, un’incognita politica… non basta coltivare un pacifismo strumentale per arrivare all’incontro con il mondo cattolico. Il 2 febbraio si consuma il dramma di Armando Cossutta… prendo atto che in questo nuovo partito non c’è spazio per noi… io non voglio scissioni, ma non potete impedirmi di restare comunista, di pensare e di agire da comunista, non potete impedirlo ai nostri figli. Impietosamente liquidato come un ‘residuo storico’ Cossutta abbandona il Congresso che il 3 febbraio vota per l’approvazione del simbolo e del nome. La nuova ‘ragione sociale’ ottiene 807 voti a favore su 1.259 delegati. E’ un successo inferiore all’attesa e Occhetto, nel

discorso di replica, commenta ironico… mi è andata anche bene. Dopo i presunti errori sul Golfo, unità socialista e riforme istituzionali, Craxi mi ha risparmiato un quarto capo d’imputazione: non aver chiesto a tutti voi di iscrivervi al PSI. Poi, di getto: ma chi è Craxi? Chi è che può avere il diritto di promuovere o bocciare? Basta con l’ossessione del PSI, basta con i toni sprezzanti, con il considerare aria fritta ciò che sono analisi, proposte… da oggi comincia una nuova appassionante avventura. L’assise esplode in un lungo, caloroso applauso… l’ultima frecciata contro il Leader socialista è stata sottolineata da un’ovazione di tre minuti… scrive l’altro inviato della Gazzetta, Domenico Russo Rossi. Ma appena ventiquattro ore dopo Occhetto viene colpito da una di quelle bordate da abbattere un toro. Il 4 febbraio si riunisce il Consiglio nazionale del PDS, l’ex Comitato Centrale del PCI. Si vota per eleggere il Segretario del neonato partito.

Rimini, 31 gennaio 1991: muore il PCI. Tre giorni dopo Achille Occhetto battezza la nuoca creatura: è nato il PDS.

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Una finestra sulla storia - 1991

Candidato unico: Achille Occhetto… e viene bocciato. Non ha raggiunto il ‘quorum’. Nel momento più delicato della sua mutazione – scrive Innocenzo Cruciani sulla Gazzetta – il PCI-PDS paga il pedaggio alla democrazia in presa diretta. Ora cercatevi un altro Segretario – sbotta amaro Occhetto – ma a Botteghe Oscure minimizzano… non facciamone un dramma. E’ stato un incidente tecnico dovuto alla stanchezza. Molti componenti il Consiglio Nazionale sono rimasti in piedi fino all’alba per lo statuto – che non sarà varato – e oggi non hanno potuto presenziare. Era vero. Ma in politica le motivazioni semplici non sono credibili. Come dice Andreotti? A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina. Tutti dunque a pensar male compreso, naturalmente, il Leader socialista che si limita ad un… avete visto? Dopotutto Craxi non è un fesso! Occhetto, comunque, si placa e, quattro giorni dopo, l’8 febbraio, ottiene l’investitura. L’ex ‘Akille’ divenuto, di volta in volta, il ‘trasformatore’, il ‘traghettatore’, ha vinto la sua battaglia. Sarà il primo baby-sitter della nuova creatura. Due settimane dopo, Craxi e Occhetto s’incontrano come due amiconi che hanno appena smesso di scambiarsi complimenti. L’invito è di Craxi. Ufficialmente l’occasione è la firma di un documento congiunto in cui viene chiesta l’immediata cessazione dei bombardamenti alleati sulle città irachene. Ufficiosamente… chissà. Una nuova strategia comune? Ma quale strategia – dirà Craxi – la politica è movimento, non un rito. E’ intervento nella realtà per costruire il corso delle cose. Quali cose? Non sarà una rivisitazione socialista della teoria andreottiana dei due forni? Il giorno dopo, il 16 febbraio, De Mita sollecita ad Andreotti la promessa verifica di Governo… Altrimenti è meglio fare le elezioni anticipate anziché tirare a campare per altri quindici mesi. Ora, si sa, del ‘Divo’ Giulio tutto si può dire, ma non che gli manchi il senso 22 dell’ironia o la capacità di lanciare frecce sot-

tilissime e letali. E dunque a De Mita risponde… io non vedo una ragione di crisi. Ma se con la verifica la sinistra DC – cioè la corrente che fa capo a De Mita – intende reintegrare nel Governo i suoi cinque ministri, si può discutere… questo Governo tira a campare? Non mi pare. Comunque, meglio tirare a campare che tirare le cuoia. C’è una presunta rivisitazione socialista della teoria dei due forni? Credo che l’alternativa di sinistra non sia un problema attuale. Ad ogni modo io non vedo cosa ci sia di male: basta che ci sia sempre molto pane per gli italiani. La politica – scrive Domenico Faivre, capo della redazione di Lecce della Gazzetta – è una vecchia signora rugosa e decrepita relegata davanti ad un muro del pianto. Non si muove foglia, non un alito di vento, non un vago accenno di pioggia. Niente. Nella terra del sole aleggia lo smog dell’indifferenza e della malavoglia tranne attivarsi davanti al miraggio di una poltrona, una qualunque, ed ecco le odiose folgorazioni sulle tortuose vie dell’opportunismo.

Politica e Mezzogiorno Avanti piano, dunque, con i soliti intrighi di Palazzo, facezie, dispettucci, battute ironiche di chi non ha un solo pensiero per la testa, chiacchiere da salotto e promesse, tante promesse specie per il Mezzogiorno. E’ un classico: quando la dialettica politica langue, ecco il Mezzogiorno. Un argomento sempre di moda, sempre attuale e così neutro, da non richiedere alcuna assunzione di responsabilità poiché l’irrealizzato è colpa dei governi precedenti – quando non è colpa delle Regioni o di altri Enti locali – e il realizzabile è sempre una promessa da mantenere. Un fatto è certo: i 120.000 miliardi dell’Intervento straordinario, stanziati nel 1987 – per gli anni ‘85-’93 – per l’ammodernamento del sistema produttivo e infrastrutturale del Mezzogiorno, sono finiti. Mangiati dagli oneri sociali e da mille e mille altri piccoli interventi a sostegno di tanti settori in crisi, specie agricol-


tura, industria, artigianato e turismo. Altrove, per non dire al Centro-Nord, le stesse categorie e industrie sono state sostenute dalla spesa ordinaria. Perché questo differente metro di distribuzione delle risorse? La risposta è nel piano nazionale delle Ferrovie dello Stato presentato dal commissario Lorenzo Necci: perché al Nord industrie e infrastrutture sono tutte produttive e strategiche, al Sud sono ‘prevalentemente sociali’. Ecco perché non si porta a termine il raddoppio e l’elettrificazione del tratto ferroviario Bari-Lecce – promesso fin dal 1956 – ecco perché non si completano le tratte BariTaranto, Foggia-Caserta, San Severo-Termoli e Taranto-Metaponto-Potenza. Ecco perché non si riesce a ‘sciogliere’ l’ormai ingarbugliato ‘nodo’ ferroviario di Bari: sono problemi di scarsa rilevanza produttiva e strategica… l’impresa è impresa – dirà Necci – i fondi riguardanti le opere strategiche sono certi e pronti, gli altri non sono nemmeno sulla carta. La Puglia protesta, si mobilitano i Sindacati, viene indetto uno sciopero regionale per l’8 febbraio, il presidente della Giunta regionale, Michele Bellomo, ottiene un colloquio con il ministro dei Trasporti, Carlo Bernini, che assicura… il raddoppio della ferrovia Bari-Lecce è in cima alla lista dei lavori di questo Governo – ma poi aggiunge – però la Regione Puglia è in notevole ritardo. Non ha ancora elaborato né tanto meno varato il piano dei trasporti regionale. E’ la solita solfa. Il solito palleggio di responsabilità. Sarà pure vero, ma è altrettanto drammaticamente vero che fra la già carente volontà politica e le nostre ‘solite’ inadempienze, si consolidano gli alibi per consumare il delitto perfetto: abbandonare il Mezzogiorno al suo destino lasciando una parvenza di ‘Intervento straordinario’ divenuto, in realtà, una sorta di ‘assegno sociale’, un modo per dire… state buoni, lasciateci lavorare. E lavorano, caspita se lavorano! Prendiamo la FIAT, per esempio. A tre mesi dalla decisione di aprire una nuova fabbrica d’automobili a

San Nicola di Melfi, in Basilicata, già bussa a denari: se lo Stato non sborsa al più presto i 3.600 miliardi di contributi concordati, non solo non apriamo i cantieri, ma ce ne andiamo in Portogallo. E pensare che all’annuncio della nuova fabbrica della FIAT nel Mezzogiorno, il 28 novembre 1990, l’Avvocato aveva detto… in questo momento difficile per tutti, bisogna dare prova di determinazione e fiducia. Alla faccia della fiducia! Ma si sa, gli affari sono affari e la FIAT non è certo l’ultima arrivata. Per un investimento di 5.000 miliardi divenuti, quattro mesi dopo, 7.000, la FIAT ne avrà 3.600 dallo Stato e 300 dagli Enti locali. Un buon affare, non c’è che dire. Anche se non si può negare che, in prospettiva, la ricaduta in termini economici e occupazionali – dopo il drammatico periodo degli anni ‘94-’96 – è a tutto vantaggio della Basilicata che nel 1999 – grazie all’indotto, allo sviluppo del terziario, alla modernizzazione, alla crescita esponenziale dell’industria dei salotti e soprattutto alla buona amministrazione degli Enti locali – diventerà la regione più ricca del Mezzogiorno. Eppure, ancora nel nuovo secolo, non tutta la Basilicata è servita dalle Ferrovie dello Stato; non ha un’adeguata rete viaria; non ha un aeroporto e soprattutto, benché ricca di dighe e invasi, non ha acqua sufficiente per le sue colture pregiate… non fatevi illusioni – dirà il ministro per il Mezzogiorno, Giovanni Morongiu, il 27 febbraio di quest’anno – la grande sete del Sud potrà essere sconfitta soltanto con massicci investimenti privati che porteranno il costo dell’acqua dalle attuali 400 a 1.700 lire il metro cubo. Pur con queste lacune, la piccola Basilicata ha un pregio che poche regioni meridionali possono vantare: è sana. Nonostante i suoi settantamila disoccupati su un territorio che conta 605mila abitanti spaventosamente provati da calamità naturali – terremoti e smottamenti sono una minaccia continua e costante – i ‘basilischi’ sembrano immuni ai richiami della malavita organizzata. La regione è priva di 23



organizzazioni malavitose e di microcriminalità. Scippi, racket dell’estorsione e prostituzione, contrabbando, spaccio e uso di stupefacenti, sono reati che si possono contare sulle dita di una mano. E’ gente dura, laboriosa, abituata ad affrontare drammi e miseria con coraggio e che ha trovato, nelle Giunte degli Enti locali, quasi tutte rigorosamente di centro-sinistra, amministratori capaci ed esperti. Anche i Sindacati territoriali – la conflittualità tra le parti sociali è quasi inesistente – hanno capito che l’obiettivo primario della Giunta regionale, guidata da Antonio Boccia, è uno solo: far uscire la Basilicata dal tunnel della recessione per imboccare la strada dello sviluppo utilizzando tutte le risorse messe a disposizione dall’Intervento straordinario e dalle leggi comunitarie. Con queste premesse, con l’aiuto e la collaborazione dell’altrettanto piccola Università, che sforna ricercatori altamente competitivi sia nel campo della chimica che dell’industria meccanica, e soprattutto con un efficiente assessorato alla programmazione regionale, una vera fucina di professionalità, affidato a Gerardo Coviello, la Basilicata diventa l’unica realtà del Mezzogiorno – la quarta in Italia – ad aver utilizzato anche la terza tranche dell’Intervento straordinario; la prima che sia riuscita ad impegnare tutte le risorse economiche comunitarie ottenendo, da Bruxelles, sia l’assegnazione dei fondi di riserva che il lusinghiero riconoscimento di aver elaborato… un modo nuovo e produttivo di gestione della spesa pubblica… varando, a livello locale, centinaia di provvedimenti per agevolare gli investimenti e mettendo in cantiere, a fine ottobre, perfino una legge-quadro per disciplinare gli appalti pubblici e consentire la massima trasparenza. Quattro mesi dopo, un certo Antonio Di Pietro, procuratore della Repubblica di Milano, inaugura la stagione di Tangentopoli e l’Italia, politica ed economica, si sgretola. Gli effetti di Mani Pulite saranno devastanti per le regioni più deboli, ma la Basilicata non subirà

le conseguenze della Puglia che nel periodo ‘92-’96 si vedrà raddoppiare – da 350.000 a 650.000 – il numero dei disoccupati. Punito non da Tangentopoli, ma dal blocco pressoché totale degli investimenti pubblici e privati, il sistema produttivo iniziale, lo zoccolo duro della Basilicata tiene e, ai primi cenni di ripresa, nel 1998, finisce col superare, in proporzione, la vicina Puglia in numero di imprese, produttività, occupazione e perfino in reddito pro capite. Le parti insomma si sono invertite. Per secoli la Basilicata ha guardato alla Puglia quale esempio di sviluppo economico e produttivo. Dal 1998 saranno i pugliesi a guardare il modello di sviluppo dei lucani. E’ solo imprenditorialità? No, è anche e soprattutto un problema di amministrazione pubblica. La Puglia ha pagato, in questi primi anni Novanta, anni di litigiosità e malgoverno, anni di inadempienze, di mancata progettualità e di disinteresse per il bene comune, a cominciare dalla Regione per finire all’ultimo Consiglio provinciale e comunale. Non c’è stata incuria, c’è stato abbandono e Bari, l’antica Regina di Puglia, centro mercantile, commerciale e amministrativo, è passata da città simbolo della operosità pugliese, a centro regionale di degrado, corruzione e inefficienza. Eppure, anche in Puglia, la Regione e i maggiori centri provinciali sono stati governati da Giunte di centro-sinistra. Dov’era dunque la differenza? Non nella politica. Ma negli ‘appetiti’ diversi della nostra classe politica. Appetiti di puro potere se si considera la perdita di un fiume di denaro dell’Intervento straordinario e comunitario per carenze di progetti. Così, in assenza di programmazione e progettazione, aumenta la disoccupazione e il territorio diventa preda delle organizzazioni criminali: la Sacra Corona Unita nel Salento; la Rosa nella provincia di Bari, la Camorra in Capitanata, la famiglia Modeo a Taranto e i clan di Montani, Diomede, Capriati, Manzari e Parisi a Bari. Questi ultimi, così rigorosamente indipendenti dalle tradizionali organiz- 25


Una finestra sulla storia - 1991

zazioni da allarmare l’Antimafia: c’è in Puglia un focolaio delinquenziale che si potrebbe definire ‘quarta mafia’. Di fronte ad un Paese che negli anni Ottanta ha avuto un nuovo grande risveglio economico – l’Italia era la quinta potenza più industrializzata del mondo – la Puglia, grazie ad un impasto di incapacità, affarismo, arroganza e prevaricazione da parte di tanti ‘boss’ politici, ha viaggiato in senso inverso. E’ riuscita, in un decennio, a mettere in piedi una tale macchina autolesionistica da lasciare allibite anche le pietre. E questo 1991 è l’anno dei record. Scippi, furti, rapine, estorsioni – con corollario di attentati e incendi contro chi non si piega al ‘pizzo’ – prostituzione, contrabbando di droga, un fiume di droga, di sigarette e faide fra bande rivali per il controllo del territorio. Una guerra, un rosario di morti ammazzati: 64 nel Barese; 55 nel Tarantino; 34 nel Leccese; 30 in Capitanata e 18 nella provincia di Brindisi. 201 morti in un anno. 54 in più del 1990. Poteva bastare? No, non bastava, perché a marzo comincia ad arrivare la zavorra albanese e l’opera di ‘decostruzione’ della Puglia è completa.

La Gazzetta contro il ‘sistema’ A questo punto la domanda è d’obbligo: ma la ‘voce’ autorevole della Puglia, l’organo di stampa più importante della regione che fa? Fa quello che non ha mai fatto in tutta la sua lunga storia. Si mobilita in difesa del territorio, della sua gente, della storia e della cultura di un popolo illuso, deluso e beffato da tutti coloro che nelle varie istituzioni pretendono di rappresentarli. A partire dal 1979 e per quasi tutto il 1993, la Gazzetta, diretta da Giuseppe Giacovazzo prima e da Giuseppe Gorjux poi, sarà la ‘spina’ più pungente e fastidiosa nel fianco della classe politica locale e nazionale. Sono gli anni in cui il rapporto del giornale con quello che giustamente viene definito il ‘Sistema’, diventa conflittuale. Sono gli anni in cui la Gazzetta rovescia il concetto di bastone e carota. Il ‘bastone’ diventa la norma, la carota l’eccezione. Inchieste giornalistiche, denunce, condanne, dure prese di posizione, commenti ed editoriali privi di retorica – il sistema politico è sclerotizzato, viziato. Non regge al cambiamento… viviamo in una socie-

26 Il Policlinico di Bari. A quasi 60 anni dalla sua nascita non ha mai goduto un giorno di ‘buona salute’.


tà che ha rotto gli argini dell’illecito… si sta uccidendo la fiducia nelle regole del vivere civile – sono all’ordine del giorno. Ma sono i ‘palazzi’ della politica locale a subire il trattamento peggiore. Colpevoli del depauperamento politico, sociale e culturale, le pagine di cronaca delle cinque province pugliesi sono zeppe di ogni sorta di denunce. E quando la dose giornaliera non basta – e nella città capoluogo della regione non basta mai – quei ‘ragazzacci’ della cronaca di Bari – sono tutti giovanissimi guidati dall’altrettanto giovane Dionisio Ciccarese – s’inventano ‘inserti speciali’ di denuncia che vanno dall’abbandono del patrimonio storico alle opere incompiute, al degrado della città e soprattutto allo stato di ‘indigenza’ in cui è ridotto il Policlinico, il più grande ospedale della regione… una vergogna – scrive il Direttore della Gazzetta ‘costretto’ a visitarlo in una sfortunata circostanza – piani di scale sudicie che hanno perduto ormai anche la memoria ancestrale della scopa, muri sporchi e scrostati, porte luride di vecchio legno deformato, ricoverati in anticamere squallide e sporche sistemati sulle sedie, infermieri che sembrano osti di campagna. Ci sono venuti in mente quelle immagini televisive del ‘terzo mondo’. Ma era oro al confronto. Che vergogna. Solite levate di scudi, discussioni, polemiche. Solito scaricabarile di responsabilità, dimissioni del Presidente del Policlinico e la solita farsa del ripensamento. Nuove promesse d’impegno e poi tutto torna come prima. E nel frattempo le cliniche private proliferano e si arricchiscono. Chi paga? Ma la Regione! Chi altri se no. Dopotutto, se le strutture pubbliche non funzionano, la gente deve pure farsi curare da qualche parte. E se il ‘Pierino’ di turno chiedeva: ma gli ospedali non funzionano per carenze proprie, oppure non si vuole che funzionino? Si veniva subito, come minimo, tacciati di malafede. Sono gli anni in cui la Gazzetta raggiunge un record diffusionale mai avuto prima. Sono

gli anni in cui, nelle stanze del ‘potere’, si tenta di screditarla… sono in cerca di una nuova verginità… è un ‘foglio’ dell’area di Governo scritto da giornalisti dell’opposizione. Non era del tutto vero. Nell’ultimo biennio la redazione della Gazzetta è stata ulteriormente potenziata e infoltita di un’altra dozzina di giovani professionisti, e i giovani, si sa, hanno poca dimestichezza con le sfumature di colore. E comunque, quello che stava accadendo nel Paese, e peggio ancora nel Mezzogiorno, in Puglia, era così evidente e sconfortante che semplicemente non si poteva chiudere gli occhi. La Regione Puglia è a un passo dalla bancarotta. Nessuno pare abbia la più pallida idea dell’ammontare del suo deficit – 2.000 miliardi per la maggioranza, 7.000 per l’opposizione – i cinque capoluoghi di provincia sono nelle stesse condizioni; sette Giunte di altrettanti comuni del Salento vengono sciolte dal Ministero degli Interni per sospetta collusione con la criminalità organizzata. Camion e interi convogli ferroviari, contenenti ogni sorta di rifiuti, provenienti dal ‘Paese industrializzato’, vengono scaricati in Puglia, specie nella provincia di Lecce, senza che nessuno muova un dito. La Regione e il Comune di Bari, entrambi con maggioranze ‘risicate’, sono paralizzati da ‘faide politiche’. Il presidente della Giunta regionale, Michele Bellomo, e il sindaco di Bari, Enrico Dalfino, sono ‘ostaggi’ delle loro stesse maggioranze nonché dell’opposizione. Il sindaco di Taranto, Alfengo Carducci, eletto a gennaio, a settembre getta la spugna pur godendo di una schiacciante maggioranza: è stato osteggiato in tutti i modi, da lotte personali e di corrente della stessa DC e, come non bastasse, quattro consiglieri, compreso Giancarlo Cito, sono sospettati di… contiguità con elementi della criminalità organizzata… parola dell’alto commissario Antimafia Domenico Sica. Ma è il sindaco di Bari, Enrico Dalfino, ad essere il più bersagliato. Erede di una barca disastrata, guidata per 9 anni da una ciurma litigiosa e piratesca, il professor Dalfino, un 27


Una finestra sulla storia - 1991

La sede, sempre provvisoria, del Consiglio regionale pugliese a Bari in via Capruzzi.

volenteroso galantuomo, uno stimato docente universitario prestato alla politica, ha una sola possibilità per riparare il vascello della città di San Nicola: mettere insieme un nuovo, affidabile equipaggio tale da consentirgli di restare sulla plancia di comando fino alla fine del mandato. I numeri ci sono. DC e PSI, da soli, rappresentano i tre quarti del Consiglio comunale. Ma la DC aveva deciso, all’indomani delle elezioni del ‘90, che questa volta, su quel vascello, e men che mai sul ponte di comando, i socialisti non dovevano salire. Non avevano tutti i torti anche se loro, i democristiani, non erano certo meno responsabili degli squarci prodotti allo scafo barese. Solo che, governare il Comune di Bari senza i socialisti, non in quanto socialisti ma perché questi rappresentano la seconda forza politica della città, è impossibile. E tuttavia, il tentativo viene fatto. L’11 agosto del ‘90, Dalfino è eletto sindaco di una Giunta la cui maggioranza è ‘risicata’. In altre parole, bastava che uno o due consiglieri aves28 sero il raffreddore perché la Giunta venisse

messa in minoranza. A ciò si aggiunge una continua, costante pressione della Gazzetta e una corposa frangia della DC che invoca un accordo con i socialisti. Morale, la Giunta Dalfino non è in grado di lavorare e, dopo una serie di articoli in cui il Direttore e il Capo cronista della Gazzetta definiscono Giunta e classe politica locale… inadempiente, inadeguata, immobile, fabbrica di sogni e illusioni che, attonita e incapace di reagire, tace… dopo l’‘invasione’ albanese e l’incendio del Petruzzelli, la DC si spacca. Quella parte che vuole l’accordo con i socialisti vince e, il 18 dicembre di questo 1991, Enrico Dalfino si dimette. Il giorno dopo, il direttore della Gazzetta, Giuseppe Gorjux, scrive… tutto, inesorabilmente arriva, l’amministrazione retta dal professor Dalfino ha semplicemente fatto un buco nell’acqua com’era stato previsto fin dalla sua nascita… un anno e mezzo ‘bruciato’ in progetti disattesi, in speranze alimentate e poi vanificate, in impegni traditi… ciò non per incapacità o cattiva volontà e pigrizia di uomini


come Dalfino – che abbiamo spesso ‘pizzicato’, ma al quale non abbiamo mai negato l’attestazione di personale stima – ma per l’obiettiva impossibilità di governare una città come Bari senza una maggioranza di ampio respiro. In osservanza alla nuova legge sulla ‘sfiducia costruttiva’ che impone agli Enti locali l’avvicendamento entro 60 giorni pena le elezioni anticipate, l’accordo è già stato raggiunto: la nuova Giunta sarà di centro-sinistra con Sindaco, ancora una volta, socialista. L’elezione del nuovo Sindaco è prevista per il 23 dicembre… Sindaco e Giunta – scrive ancora Gorjux – devono capire che essi raccolgono una selva di delusioni, ma anche un inestricabile quanto delicato e labile patrimonio di speranze. Già, le speranze. Tanto per cominciare la prima, quella cioè di vedere subito all’opera la nuova Giunta, è già svanita. Passa Natale, passa Capodanno, passa la Befana e, quando finalmente viene annunciato che il Consiglio comunale si riunirà, il 13 gennaio del 1992, Dionisio Ciccarese scrive… è bene si sappia che la città non può attendere a lungo. L’inversione dei processi di degrado e malcostume è tanto più efficace quanto meno rapida e incisiva è l’azione del governo cittadino. Giocare al rinvio è una pratica suicida che prima o poi travolge tutti. Piuttosto prima che poi. Come si vedrà presto.

Andreotti raddoppia Intanto, il 14 marzo anche Craxi suona la campanella al Governo Andreotti. La lezione è finita. E’ ora di andare a casa… questo Governo è esausto… la prognosi di De Mita non dovrebbe valere per nessuno e certamente non può valere per noi. Ma se la legislatura dovesse tirare a campare, tanto vale che tiri le cuoia! A chi gli chiede: ma non doveva essere solo un chiarimento con eventuale rimpasto ministeriale? Craxi risponde secco… ma quale rimpasto d’Egitto! Insomma, i socialisti sentono puzza di bruciato. La verità – scrive De Tomaso – è che i

socialisti non hanno mai superato la ‘sindrome dell’accerchiamento’ in qualche modo convalidata da strani segnali cifrati fra DC e PDS. Craxi, infatti, è convinto che DC e PDS abbiano trovato un’intesa sulle riforme elettorali… unite dall’intento di distruggere il PSI. Del resto, Andreotti, non fa alcun mistero sulla ‘interscambiabilità’, della DC, fra socialisti e pidiessini. E’ sempre la teoria dei due forni. E allora? Si va verso la crisi e subito dopo alle elezioni anticipate? Per Craxi sarebbe l’ideale. Per il neonato partito di Occhetto, che teme un ravvicinato turno elettorale più delle piogge acide, sarebbe un salto nel buio. Il PDS non ha avuto il tempo di disegnarsi un percorso politico, non ha neppure uno statuto e molti dei suoi presunti elettori vorrebbero capire meglio quale futuro li attende, specie dopo lo strappo di Cossutta. Così, pur di tenere in piedi la legislatura Occhetto è perfino disposto… a mettere a disposizione i nostri voti. Mai visto un partito d’opposizione che si straccia le vesti per una crisi di Governo, commenta Craxi che ironico aggiunge… proposta effettivamente generosa, ma noi non 29


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tensioni sociali e, meglio ancora, senza lo spetsiamo disposti a lasciare. Meno che mai lo è Andreotti. Schiodarlo tro di una recessione economica in vista. Una da una delle più importanti poltrone del Paese, condizione socio-politica tranquilla ma condita specie dopo che un sondaggio giornalistico dai suoi piccoli e grandi scandali, dal gossip l’ha indicato quale successore ideale alla pre- politico, dalla satira, dalla cronaca nera, dallo sidenza della Repubblica, è un’impresa titani- spettacolo e, soprattutto, dagli avvenimenti ca. Il divo Giulio è un uomo di molte risorse – sportivi. Condizioni che, come si è visto, non scrive De Tomaso – il Presidente del Consi- ci sono. C’è la guerra, c’è lo spettro di una glio ha sempre un asso nella manica. Sbaglia- nuova crisi energetica, c’è un Paese con un’eto, ne ha cinque. Il 28 marzo convoca un in- conomia disastrata, c’è una regione, la Puglia, contro collegiale con i Segretari dei partiti di che con l’arrivo degli albanesi si vede ridurre Governo… e mette d’accordo tutti. Quando drasticamente il flusso turistico, subendo Andreotti esce dal summit è quasi raggiante… miliardi di danni, ci sono i primi bagliori di la crisi ci sarà, ma non le elezioni anticipate. una guerra fratricida nella vicina Jugoslavia e, Volete sapere se lascio? Sì, vado via, ma non in più, da quest’anno, c’è una nuova agguerrita concorrenza delle televisioni private, nella racilludetevi, torno subito. Tutto nelle migliori tradizioni colta della pubblicità, per effetto politiche del Paese dunque. L’endella legge Mammì che consente, nesima crisi di Governo si conin via sperimentale, alle emittenti suma nell’indifferenza generale. private nazionali, di trasmettere in C’è ben altro a solleticare la cudiretta. E’ la nascira del secondo riosità del grande pubblico. polo dell’informazione televisiva Il ‘torno subito’ di Andreotti è del Paese. Emilio Fede, su Rete 4, del 29 marzo, il primo aprile, Paè già pronto. Seguirà, a gennaio squetta, Diego Armando Mara‘92, il ‘Tg 5’, affidato ad Enrico dona, il ‘pibe de oro’ nonché Re Mentana e, subito dopo, verrà di Napoli, fugge in Argentina coEmilio Fede ‘Studio aperto’ su Italia 1. me un ladro di polli. Una manna Anche per l’informazione teleper la carta stampata che, fra scioperi – per il visiva valgono più o meno le stesse regole rinnovo del contratto dei giornalisti – e la della carta stampata. Anche i Tg hanno costi solita sgobba politica, cominciava a perdere proibitivi che solo in parte sono compensati colpi. dagli inserti pubblicitari. Ma un buon telegiorI quotidiani, in generale, hanno sempre nale funziona come uno specchietto per le ‘sofferto’ di un paradosso: quanto più aumen- allodole. Mira a fare audience e l’audience tano le vendite per eventi mondiali e nazionali agevola la raccolta pubblicitaria che, offerta a – guerre, sconvolgimenti politici e catastrofi costi ‘stracciati’, come avviene in questo naturali – tanto più diminuiscono gli inserzio- periodo, produrrà, a breve, il crollo del mercanisti pubblicitari. Autorevolezza, obiettività, to con danni immensi per la maggior parte dei completezza dell’informazione, larga diffusio- quotidiani, Gazzetta compresa. Sucne, sono la base di partenza, il pane da offrire cessivamente, gli esperti di marketing dial mercato pubblicitario che, se lo trova grade- versificheranno il mercato pubblicitario della vole, ci spalma sopra il burro e la marmellata carta stampata da quello della televisione, ma comprando spazi. Ed è questa, la pubblicità, i quotidiani c’impiegheranno anni per tornare che in definitiva paga i conti e spesso arricchi- a produrre bilanci attivi realizzati, anche, sia sce i quotidiani. L’ideale, per la carta stampata, con massicci investimenti tecnologici che con 30 è la ‘normalità’. Cioè un Paese senza grandi dolorose espulsioni.


Il cinema e la Tv Dunque, il Paese, non vive una fase di ‘normalità’. Tant’è che il Festival di Sanremo, per esempio, che senza la guerra quest’anno non avrebbe mai lasciato le prime pagine dei giornali, è quasi ignorato anche perché, ricco di polemiche, approssimazione e carenze organizzative, affidato, più che condotto, a due attori – Andrea Occhipinti e Edvige Fenech – provvisti di molta buona volontà ma privi dell’esperienza necessaria di un buon presentatore, questa 41ma edizione della più popolare manifestazione canora del Paese, si riscatta solo per la grande professionalità degli interpreti e per la bella melodia di Riccardo Cocciante che, con ‘Se stiamo insieme’, si aggiudica la ‘palma con il leone’ del vincitore. Per il resto, il Festival è a malapena rintracciabile nella memoria storica di Sanremo. Più o meno la stessa sorte tocca alla ‘Notte delle stelle’ che ha la sfortuna di essere celebrata lo stesso giorno in cui Craxi minaccia la fine della legislatura e Sofia Loren, premiata con l’Oscar alla carriera, non avrà le prime pagine dei giornali. E’ l’anno di ‘Balla coi lupi’ che si aggiudica 7 Oscar. Il film, prodotto, diretto e interpretato da Kevin Costner, premiato anche per la regia, è un magnifico affresco dell’America western, del paese dei grandi spazi, dominato dai bisonti, dagli indiani e dal ‘crudele’ uomo bianco, venuto dalla costa dell’Est, che provvede a sterminare i primi e ad emarginare i secondi. Costner, che ha sangue indiano nelle vene, ha voluto rendere onore alla sua gente e Hollywood, premiandolo, ha inteso pagare un debito verso un popolo sconfitto, riabilitando la loro storia e la loro cultura. Si dice che la rivisitazione del cinema western, il terzo film su ‘Il Padrino’ e il remake di qualche vecchia pellicola, siano segni evidenti di stanchezza creativa del cinema americano. E’ solo apparenza. Finita la guerra del Golfo, la gente torna a riempire le sale cinematografiche e Hollywood riprende a sfornare splendide pellicole.

Il primo, e anche il migliore dell’anno, arriva in Italia a marzo. ‘Il silenzio degli innocenti’ è la storia di un medico psicopatico che divora le sue vittime. Il film, dicono gli addetti ai lavori… praticamente reinventa l’idea di suspense… e l’interpretazione di Anthony Hopkins, nella parte di ‘Annibale il cannibale’, affiancato da una bravissima Jodie Foster, è semplicemente magistrale. E’ il primo psyco-thriller nella storia del cinema a ricevere, nel 1992, cinque degli Oscar più ambiti: miglior film, regia, sceneggiatura, attore e attrice protagonisti. Un’altra magnifica pellicola uscita quest’anno è ‘Thelma & Louise’ di Ridley Scott, ottimamente interpretato da Susan Sarandon e Geena Davis. Storia di ordinaria arroganza maschile in un’America in cui le enormi conquiste sociali delle donne non sono certo paragonabili alla condizione femminile della vecchia Europa. Poi c’è ‘Vita da cani’ di e con Mel Brooks; ‘Mamma ho perso l’aereo’ con l’attore in erba più pagato d’America, Macaulay Culkin ed il bravissimo Joe Pesci e, infine, ‘Nei panni di una bionda’ di Blake Edward. Certo, non saranno la migliore espressione di quella commedia americana sublimata da Billy Wilder, ma sempre meglio di quello che produce il cinema italiano con i volenterosi Christin De Sica, Massimo Boldi, Renato Pozzetto, Enrico Montesano e i pur bravi Massimo Troisi, Maurizio Nichetti e Roberto Benigni che quest’anno farà parlare di sé più per l’incursione in una puntata di Fantastico, ospite di Raffaella Carrà, che per il suo ‘Johnny Stecchino’, una parodia sulla mafia in cui riesce ad accattivarsi il pubblico, ma non il favore dei critici. Il miglior film italiano dell’anno, ma forse sarebbe più giusto definirlo il più controverso, è ‘Il portaborse’ di Daniele Luchetti con Nanni Moretti e Silvio Orlando. Non è, come si dice, il primo film di denuncia sul malcostume politico italiano, ma è certamente il più efficace ed esce nel momento giusto. Grande successo di pubblico e grandi strascichi polemici da parte degli interessati che, tutto sommato, 31


Raffaella Carrà e Roberto Benigni

Il silenzio degli innocenti

La televisione, il grande schermo e Sofia Loren ... Hoplà, ammaraggio riuscito. L’uragano Benigni irrompe nella trasmissione televisiva Fantastico gettando nel panico Raffaella Carrà. Due immagini fra le più belle pellicole di Hollywood di quest’anno, ‘Il silenzio degli innocenti’ - un thriller cannibalesco magistralmente interpretato da Anthony Hopkins e Jodie Foster e ‘Thelma & Luise’ di Ridley Scott dove la ricerca di libertà di due donne si conclude tragicamente. Riccardo Cocciante, vincitore del 41° Festival di Sanremo con la melodia ‘Se stiamo insieme’ e l’intramontabile Sofia Loren premiata dal cinema americano con un Oscar alla carriera.

Riccardo Cocciante

32 Sofia Loren


protestavano a ragione: ‘Il portaborse’ era un’anteprima, neppure ben fatta considerato il vero film che il regista Antonio Di Pietro avrebbe ‘girato’ di lì a qualche mese. Per la televisione… è stato l’anno dei bluff – scrive Paolo Catalano – si è tentato di ingannare gli utenti facendo credere ciò che non è. E’ stato l’anno delle cose già viste, dei programmi omologhi, delle ideuzze che hanno affollato i palinsesti senza illuminarli. Non è un’esagerazione considerato che lo showman più ammirato è stato Francesco Cossiga capace di raggiungere picchi di audience di oltre dieci milioni di telespettatori. Neppure i telegiornali si salvano. Il Tg3, diretto da Sandro Curzi, è così schierato da essere spregiativamente definito ‘Telekabul’, mentre il primo e secondo canale sono troppo impegnati ad ammorbidire, limare e minimizzare le esternazioni di Cossiga contro i partiti, i politici, il sistema. La verità è che, al di là delle interpretazioni in buona o in mala fede – scrive Gorjux – al di là di alcuni suoi oggettivi ‘sconfinamenti’ verbali, il Presidente della Repubblica si esterna con un linguaggio al quale non eravamo più abituati. Il ‘politichese’ non è più solo un modo di parlare, ma un’espressione diretta di quel bizantinismo concettuale che tanto di frequente diviene l’essenza stessa della politica italiana. Da qui probabilmente – oltre al disagio per il mutare di una lunga consuetudine di silenzio – lo sconcerto di gran parte del mondo politico per l’improvviso ‘new deal’ cossighiano: non solo il Capo dello Stato parla, ma parla ed argomenta in un modo che si credeva dimenticato. Il fatto è che Cossiga ha fatto suo il pensiero e il linguaggio della gente ed è su questo aspetto che i partiti dovrebbero riflettere. Ma il direttore del Tg1, Bruno Vespa, non ci sta e, in un editoriale del 6 maggio, in pratica accusa Cossiga di demagogia invitandolo ad andare in Calabria dove la presenza ‘forte’ dello Stato è necessaria… posso anche andarci – commenta ironico Cossiga – ma non facciamo ridere l’intero Paese con queste baggiana-

te. Sono più ben pagato del Direttore del Tg1, ma almeno non dico che sto esercitando una grande funzione a tutela della libertà di stampa solo perché dico sciocchezze pagate dal contribuente. E quando Bruno Vespa dedicherà un lungo servizio a Ciriaco De Mita, divenuto nel frattempo il maggior antagonista di Cossiga, questi sbotta… che non fosse un giornalista lo sapevo, che fosse di animo servile lo sapevo, ma non sapevo che il suo servilismo verso i padroni della DC arrivasse a questo. Così accade che, in un marasma deformante dell’informazione televisiva, finiscono col prevalere le trasmissioni di satira che adottano una formula tra lo spettacolo e l’informazione. E’ il caso di ‘Striscia la notizia’, ‘Blob’ e ‘Crème Caramel’ alle quali va aggiunto l’itinerante Vittorio Sgarbi inventore della ‘telerissa’: tutte quelle trasmissioni che hanno la ‘disgrazia’ di avere come ospite il grande critico d’arte, ma non meno grande provocatore, finiscono per degenerare fino alla rissa. Si dirà, ma perché allora lo invitano tutti? Il Vittorio nazionale fa audience, e tanto basta! Degni di nota, invece, i programmi di approfondimento dell’abbondante Giuliano Ferrara e dell’emergente Michele Santoro conduttori, rispettivamente de ‘l’Istruttoria’, su Italia 1, e di ‘Samarcanda’ su Telekabul.

Il ‘pibe de oro’ Mandatemi due ragazze e un po’ di roba. Il brigadiere dei Carabinieri che sta facendo una serie di intercettazioni telefoniche su presunti spacciatori di droga, sobbalza: sembra la voce di Diego Armando Maradona. Lo riascolta, porta la registrazione al Comando e… non c’è dubbio, è proprio la voce del ‘Re di Napoli’. Avviso di garanzia e primo confronto col Giudice… è una storia incredibile – sostiene Maradona – sono qui per chiarire… non nego di aver avuto rapporti occasionali con qualche ragazza, ma droga mai. La vicenda si sgonfia. I napoletani rifiutano di credere che il loro idolo abbia potuto far uso di droga. Si grida al solito complotto dei grandi club del Nord. 33



Il 18 febbraio il Napoli gioca a Pisa e Maradona compie uno di quei gesti sportivi che infiammano i cuori della tifoseria. Alemao, il centravanti del Napoli, non può giocare. Diego, senza esitare, indossa la maglia di Alemao, la numero 9, e consegna la sua, la mitica numero 10, a Gianfranco Zola… tieni, mettila tu oggi, la meriti. Per un mese, nessuno parla più dell’inchiesta giudiziaria su Maradona. Ma il Napoli, che appena nove mesi prima ha vinto il secondo scudetto della sua storia, è l’ombra di quella squadra che per anni ha conteso lo strapotere delle squadre settentrionali. Qualcosa non funziona più. Alberto Bigon, l’allenatore, ha già fatto sapere che a fine campionato lascerà. Il 17 marzo il Napoli ospita al San Paolo il Bari. Sul campo vincono gli azzurri di Bigon per uno a zero. I napoletani hanno giocato peggio dei baresi che… generosi come sempre… hanno pure sbagliato un rigore. Per la cronaca, la partita Napoli-Bari sarà la gara più lunga e sofferta nella storia del calcio partenopeo. Subito dopo l’incontro, il direttore generale del Napoli, Luciano Moggi, annuncia le sue immediate e irrevocabili dimissioni… ritengo che la mia esperienza qui sia finita – dirà ai giornalisti – il Napoli ha bisogno di nuovi uomini e di nuove idee. Minuti dopo, anche Maradona si concede ai cronisti… è segno di un ciclo che finisce… poi, inaspettatamente, aggiunge… anch’io me ne andrò a fine campionato. Ma la partita Napoli-Bari non è ancora finita. Dopo la gara, Maradona viene sottoposto a controllo antidoping e, il 28 marzo, mentre Andreotti assicura… vado via, ma torno… il ‘pibe de oro’ si appresta a lasciare per sempre il ‘regno’ di Napoli. Dopo analisi e contro analisi, il risultato dell’antidoping non cambia: Maradona aveva nelle urine tracce di cocaina. La notte di lunedì primo aprile, Diego Armando Maradona, uno dei più geniali calciatori del secolo, fugge in Argentina come un comune delinquente. Il 6 aprile la giustizia sportiva gli infligge

15 mesi di squalifica; il 27 è arrestato a Buenos Aires: lo hanno trovato in casa di un amico con mezzo chilo di cocaina. Il 27, si sa, è uno dei giorni migliori per la gente comune. Evidentemente non si addice alle ‘stelle’. Quella sera stessa, Laura Antonelli, ‘sex symbol’ degli anni Settanta, avviata sul viale del tramonto, è arrestata nella sua villa romana con 36 grammi di cocaina. Messa agli arresti domiciliari, il 9 maggio viene condannata a tre anni e mezzo di reclusione e a 24 milioni di multa. Ma ottiene la libertà provvisoria per aver collaborato e ammesso il possesso della droga per uso personale. Intanto, anche il Milan stellare di Silvio Berlusconi sembra avviarsi sul viale del tramonto. Il 20 marzo gioca a Marsiglia l’incontro di Coppa Campioni con l’Olimpique. Al 75’ i rossoneri perdono per uno a zero, ma a pochi minuti dalla fine della partita, salta un faro dell’illuminazione. L’arbitro sospende

Laura Antonelli in una sequenza del film ‘Malizia.

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L’allenatore del Foggia calcio, Zdenek Zeman, il ‘profeta della zona’ che riporta il Foggia in serie A.

momentaneamente la gara, si accerta che il guasto non pregiudica la visibilità e decide per il prosieguo. L’Amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, prima contesta la decisione dell’arbitro, poi ordina a Sacchi di portare la squadra negli spogliatoi. Una figuraccia. Sacchi, i calciatori e perfino Berlusconi avranno parole di biasimo per Galliani, ma niente salverà il Milan da una dura punizione: partita persa a tavolino, un anno di squalifica al Club da tutte le coppe europee e due anni di sospensione al ‘bravo’ Amministratore. Annata nera per gli squadroni. Anche la ‘Vecchia Signora’ è fuori dal grande giro europeo e nazionale. La Juve, nonostante la coppia Baggio-Schillaci, finisce il campionato con 14 punti di distacco dalla capolista. Un piazzamento quasi umiliante per l’Avvocato. Fallito dunque il ‘nuovo corso’, affidato a Luca Cordero di Montezemolo e a Gigi Maifredi, l’avvocato Agnelli torna all’antico richiamando la coppia vincente Boniperti-Trapattoni. Eppure è sempre in Italia che si gioca il miglior calcio del mondo. Interpreti e protagonisti quest’anno di un 36

‘nuovo’ calcio, sono due squadre prive di grandi blasoni: la Sampdoria di Boskov, in serie A, e il Foggia di Zeman in serie B. I ‘doriani’, grazie ai gemelli del gol, Vialli e Mancini, vincono il primo scudetto della loro storia con 5 punti di vantaggio sul Milan; i ‘diavoli’ del Foggia, grazie ad un’altra coppia di goleador, Baiano e Signori, ottengono la promozione in serie A – dopo 13 anni – con sei lunghezze di vantaggio sul Verona. Gianluca Vialli è il capo cannoniere della massima divisione; Ciccio Baiano dei cadetti. Il calcio espresso dalla Sampdoria è quello di un collettivo maturato in un ambiente privo di ‘veleni’, interpretato da professionisti di grande valore; quello del Foggia è calcio totale supportato da quell’ardore agonistico tipico dei giovani della serie B e da alcune genialità tattiche del ‘profeta della zona’ Zdenek Zeman. In una parola, il calcio dei Rossoneri foggiani è spettacolare. Non di meno, nonostante cioè l’Italia sia la sede della migliore scuola calcistica del mondo, nonostante la varietà e disponibilità di professionisti italiani di grande valore, il 5 giugno, la Nazionale italiana riesce nell’impresa di farsi eliminare dal Campionato europeo. Ad Oslo, contro i modesti norvegesi, gli Azzurri si giocano l’ultima speranza utile per la qualificazione… e perdono. La celebrata squadra Azzurra, piena di assi strapagati – scrive il cronista – ha perso 2 a 1 contro una formazione semi-dilettantistica. Una sconfitta avvilente, mortificante. L’immagine internazionale del nostro calcio esce dallo stadio di Oslo gravemente ridimensionata. Con questa partita finisce, in pratica, l’era di Azeglio Vicini che, tranne un misero terzo posto ai mondiali del ‘90, non ha mai vinto altro. Dopo un ulteriore squallido pareggio casalingo con la già disastrata Unione Sovietica, il presidente della FIGC, Antonio Matarrese, chiama alla guida della Nazionale Arrigo Sacchi che a fine stagione ha concluso il suo ciclo col Milan. Quest’anno è ‘Sua Emittenza’ che ha deciso di inaugurare un ‘nuovo corso’


affidando il Milan a Fabio Capello. E, come al solito – al Cavaliere riesce sempre tutto – ha fatto la scelta giusta. Sarà un trionfo. Capello darà al Milan tre scudetti consecutivi e nuove umiliazioni alla Juventus – seconda in due campionati – nonostante la ‘Vecchia Signora’ abbia la coppia più famosa del calcio italiano: Roberto Baggio e Gianluca Vialli soffiato, a giugno, alla Sampdoria.

Il Bari di Platt e Boniek La nuova stagione calcistica vede la Puglia presente in serie A con due squadre: il Bari, salvo dalla B per un pelo, e la neo promossa Foggia. Niente da fare per il Lecce di Boniek che torna in B e viene affidato ad Alberto Bigon. Il Foggia non ha grandi problemi di formazione. Zeman attende di vedere come risponde la sua collaudata squadra in serie A. Ma a stagione iniziata arrivano i due Igor nazionali sovietici, Shalimov e Kholyvanov.

Per il Bari, come sempre, è tutto da rifare. Quest’anno, Vincenzo Matarrese è determinato a costruire una grande squadra e dà l’avvio ad una stupenda telenovela. La sola trattativa per l’acquisto del nazionale inglese David Platt dall’Aston Villa, è un tormentone. Se ne parla dall’inizio di maggio con toni trionfalistici. Salvemini, l’allenatore, decide di restare al Bari perché… la Società punta in alto… e la Società annuncia che Platt… è l’uomo che ci porterà in Europa. Finalmente il 17 luglio la trattativa con l’Aston Villa è risolta. Naturalmente a vantaggio dell’Aston e di Platt. Solo il biondo albione costa, alle sempre magre casse del Bari, 19 miliardi. Considerata la spesa, viene messa in piedi una campagna pubblicitaria senza precedenti. Sembrava che il Bari avesse acquistato il più abile centravanti del mondo. Quando però inizia il campionato ’91-’92 ci si accorge che sì, c’è Platt, e poi? Chi forniva i necessari

Zibi Boniek: grande calciatore, pessimo allenatore. Quest’anno porta in serie B il Lecce; la prossima stagione il Bari.

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consecutivamente, sei sconfitte e un pareggio. Un mese dopo, nuovo colpo di scena: Matarrese richiama Salvemini. Ma calciatori e tifosi lo contestano e Boniek resta. La ‘piazza’ ha inventato una nuova massima: allenatore che perde non si cambia! Come finisce? Esattamente come i Lettori stanno immaginando. Il Bari prende l’ascensore per l’inferno della serie B e Boniek colleziona il secondo ‘insuccesso’ della sua breve esperienza da allenatore. Quanto è costato a Vincenzo Matarrese il sogno di costruire una grande squadra? Quaranta miliardi – scrive il cronista della Gazzetta, Vito Marino – quaranta miliardi bruciati in pochi mesi alla fiera dei sogni. Quaranta miliardi di illusioni e di veleni. Un colossale fallimento che ha pochi precedenti nella storia del calcio italiano. Per Bari e il Bari, il ’91 si chiude all’insegna dell’incredulità e della rassegnazione. Amen.

L’‘invasione’ albanese David Platt, l’inglese dell’Aston Villa, che insieme a Boniek doveva portare il Bari in Europa!

‘assist’ allo statuario inglese? Il Bari aveva finalmente un grande centravanti ma non una squadra, tant’è che dopo cinque gare i Biancorossi avevano realizzato due soli punti. Matarrese corre ai ripari. Il 30 settembre esonera, insieme, l’allenatore Salvemini e il direttore sportivo Franco Janich. Salvemini viene sostituito dal polacco Boniek mentre, per i rinforzi, il Presidente del Bari chiede aiuto a ‘Sua Emittenza’ che, generoso come sempre, invia a Bari, in prestito, prima il bravo centrocampista Angelo Carbone e, a novembre, il croato Zvonimir Boban a cui segue l’altro croato Roberto Jarni. I calciatori slavi sono praticamente in fuga dalla loro sventurata patria dilaniata da differenze etniche, sociali e religiose. La Jugoslavia è sull’orlo della guerra civile. Il 4 novembre un soddisfatto Boniek affer38 ma… questo Bari si salverà… e colleziona,

Il 7 marzo, mentre a Roma arrivano dall’Iraq i piloti italiani Bellini e Cocciolone, in Albania inizia l’esodo di migliaia di disperati verso i porti pugliesi. La prima città ad essere praticamente invasa dagli albanesi è Brindisi. Sono arrivati in 15mila, stipati su 3 carrette del mare che a malapena riescono a restare a galla. Boat People, si è detto subito, assimilandoli ai profughi vietnamiti in fuga dai Vietcong negli anni Settanta. Quantunque fosse… possibile – si chiede il Direttore della Gazzetta – che nessuno sapesse nulla? Governo, ambasciate, servizi segreti, altri poteri di ogni genere, possibile che non sapevano quel che si andava preparando in Albania? Non sapevano che il Governo di Tirana si accingeva a chiudere gli occhi sulla grande fuga? Forse lo sapevano, ma dopo il disfacimento dell’Impero del male, all’Occidente non pareva vero di poter continuare a demonizzare vecchi e nuovi comunisti, a dimostrare che, nonostante sigle e facciate nuove, la loro natu-



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L’arrivo degli albanesi a Bari l’8 agosto 1991.

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ra di fondo non era cambiata. Sono rifugiati politici, si disse. Fuggono dal nuovo regime comunista albanese di Ramiz Alia. Non ci volle molto a capire che, invece, è Alia che cerca di liberarsi di una zavorra: molti di loro sono delinquenti comuni, disertori di un esercito che il Governo albanese non voleva e non poteva neppure sfamare. Il problema ci è capitato sul tappeto del tutto improvvisamente – commenta sulla difensiva Andreotti – dobbiamo cercare di limitare questo fenomeno. Mi piacerebbe molto che avessimo risorse, terre, case, lavoro per poter ospitare tanta gente. Poi, con una leggerezza che ha dell’incredibile, aggiunge… se ognuna delle famiglie italiane che possono si assumesse l’onere per una famiglia albanese, il problema sarebbe risolto rapidamente. Gli albanesi devono averlo preso per un invito. L’Italia che loro conoscono è quella televisiva, quella cioè di un Paese, se non proprio ricco, quantomeno benestante. Accolti dunque senza troppe difficoltà a Brindisi, si arrischiano ad attraversare l’Adriatico, in decine di barche di fortuna, per sbarcare in porti e spiagge pugliesi. Poi, l’8 agosto, arrivano in massa. Alle 6 del mattino appare, all’imboccatura del porto di Bari, il mercantile ‘Vlora’ con a bordo oltre diecimila profughi ammassati co-

me bestie in ogni angolo della nave. Frenetiche consultazioni con Roma che ormai conscia che non si tratta di rifugiati politici, ordina… bisogna impedire in tutti i modi che il mercantile raggiunga il porto. Ma chi, e soprattutto, con quali mezzi? Alle 11 prima che il ‘Vlora’ ormeggi al porto di Bari, centinaia di giovani albanesi si lanciano in mare… una scena biblica – scrive Stefano Boccardi – sembrava un film, ma non era un film. Era una dura, cruda, inconcepibile realtà che accadeva in Italia alle soglie del Duemila. Era un esempio lampante di come una falsa immagine poteva illudere un popolo intero. Disperati che venivano in un Paese conosciuto solo attraverso la televisione. Mentre gli albanesi si ammassano sul molo, si torna a chiedere lumi a Roma… bisogna rimandarli indietro, è la risposta. E, di nuovo, ci si chiede: sì, ma come? Il Sindaco di Bari contesta la linea dura del Governo. In quel momento Dalfino vede solo l’aspetto

Ancora due immagini dell’invasione albanese.

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Francesco Cossiga, di ritorno dall’Albania, riceve in Prefettura il sindaco di Bari Enrico Dalfino.

umano, la solidarietà. Non era proprio possibile lasciare diecimila persone, fra cui donne e bambini, sui moli, sotto un sole implacabile, senz’acqua e senza viveri, in attesa di una soluzione che comunque avrebbe richiesto tempo. Perciò, a gruppi, i profughi vengono fatti salire su autobus dei trasporti urbani e portati nel vecchio stadio di Bari. Nel frattempo, sia lo stadio che il porto, vengono militarizzati. Ma radiofante deve aver diffuso che il Governo intende rimpatriarli e i profughi tentano in tutti i modi di fuggire… è l’inizio di una guerra che durerà altri sei giorni, scrive ancora Boccardi. L’11 agosto iniziano le operazioni di rimpatrio. Restano, fra lo stadio e il porto, duemila ‘irriducibili’, gente disposta a tutto pur di non tornare in Albania. Si muove intanto la diplomazia. Vanno in Albania diverse delegazioni governative fra cui anche il neo ministro per l’emigrazione Margherita Boniver che torna con una dichiarazione sconcertante… non illudetevi, torneranno in cinquantamila. Cosa 42 glielo fa pensare – commenta Gorjux – quali

accordi sono stati presi col Governo albanese? E perché non ne sappiamo nulla? Il 13 agosto anche il Capo dello Stato fa una visita lampo in Albania. Tornato nel pomeriggio, si intrattiene in Prefettura e, incontrando i giornalisti, coglie l’occasione per esternare il suo malumore contro il Sindaco di Bari reo di aver rilasciato un’intervista al Manifesto dove Dalfino esprimeva amarezza… per il trattamento incivile e indegno usato agli albanesi dal Governo. Dalfino è un cretino – dirà Cossiga agli allibiti giornalisti – le sue dichiarazioni sono semplicemente da irresponsabile… mi auguro che egli abbia la decenza di chiedere scusa all’autorità di governo, se no, sarà mia cura, come Capo dello Stato, chiedere al Governo la sua sospensione dalle funzioni ufficiali. Tre giorni dopo, il Sindaco di Bari chiede e ottiene udienza dal Capo dello Stato e l’incidente è chiuso con reciproca soddisfazione. Dalfino dirà a Cossiga che il Manifesto aveva travisato il senso delle sue parole – del resto, Dalfino era ben noto per la sua correttezza – il Capo dello Stato non manca di riconoscergli buona fede e attestazione di stima personale… Cossiga mi disse, in tutta sincerità – confiderà Dalfino qualche tempo dopo – che quell’aggettivo non era indirizzato a me ma a quanti, strumentalmente, avevano affrontato l’emergenza ‘soltanto’ in termini umanitari, mentre il problema era nazionale ed europeo. Il 16 agosto, gli ‘irriducibili’, asserragliati nel porto e allo stadio, vengono convinti a non opporre resistenza con la promessa di rimanere in Italia. E’ un inganno. Il 17, con un ‘blitz’ a sorpresa, saranno tutti caricati su autobus, portati all’aeroporto e rimpatriati. L’invasione è finita. Il bilancio non è stato tragico. Diversi feriti, nessuna vittima. Ma per Bari e per la Puglia, i danni sono enormi. Il porto, lo stadio pareva avessero subìto un bombardamento. L’industria turistica invece subirà danni economici immensi: le disdette, nei luoghi di villeggiatura, saranno migliaia. Dieci anni dopo, Onofrio Pagone, Capo cro-


nista della Gazzetta, raccoglie la testimonianza di Tahir Memiko, albanese di Fier, residente a Brindisi. E la storia di ‘quei giorni’ cambia… io c’ero su quella nave, e non eravamo in diecimila ma molti di più. Non fu un esodo senza vittime. Durante la traversata morirono almeno sei, sette persone e, nelle operazioni di ormeggio a Bari, un cavo d’acciaio per il tiraggio delle gru si spezzò e, frustando l’aria, falciò, accanto a me, altri quattro, cinque disperati. I cadaveri furono nascosti nelle stive in modo che la polizia italiana non li trovasse. Ma prima che il ‘Vlora’ fosse di nuovo a Durazzo, in Albania tutti sapevano che il mercantile stava tornando indietro con 12 morti.

Andreotti settimo Il 13 aprile Giulio Andreotti vara il settimo e ultimo Governo della sua carriera politica senza uno dei suoi alleati più fedeli: i repubblicani, delusi per l’esclusione di Oscar Mammì dal Dicastero delle Poste, decidono di starsene alla finestra. Cossiga e Craxi avevano chiesto un impegno per le riforme, ma… non si può, non c’è tempo. Non si possono fare cose pasticciate – dirà Andreotti - le riforme le vogliamo tutti da vent’anni, aspetteremo un altro anno ancora… la nuova legislatura è alle porte. Gli unici impegni che prende Andreotti sono: la lotta alla criminalità, il risanamento della finanza pubblica, le trattative per la nuova fase dell’unificazione europea per il 1993 e, per il Mezzogiorno, la promessa di rifinanziare la legge 64, promessa ovviamente non mantenuta. Un programma minimo, l’indispensabile. Del resto, si sa, fra qualche mese sarà già campagna elettorale. Cossiga e Craxi s’acquietano. Tutti esprimono giudizi tiepidi, tutti concordano che di più, l’anestesista Andreotti, non potrà fare. Tutti, meno Occhetto e Forlani. Il Segretario del PDS dirà… questo Governo è un mostriciattolo a quattro teste che crea nei cittadini smarrimento e disaffezione… senza tener conto che Andreotti, opponendosi a Craxi che voleva le elezioni anticipate, ha appena salvato

il PDS da un possibile naufragio, come accade il 16 giugno, alle elezioni regionali in Sicilia. All’opposto di Occhetto, il Segretario della DC, Forlani, ha il ‘coraggio’ di sostenere che… il programma di Governo è molto incisivo. E’ tutt’altro che sbiadito. La parte istituzionale è di grande importanza non solo per la prossima, ma anche per questa legislatura. La solita solfa degli opposti estremismi insomma.

Cossiga torna a picconare Chiusa, per la felicità di Forlani, quella che il Direttore della Gazzetta definisce… una crisi inutile, Ciriaco De Mita apre una nuova infuocata polemica con il Capo dello Stato. Da questo momento, 20 aprile, inizia la fase più lunga e più dura delle esternazioni di Cossiga contro De Mita, la DC e l’intero ‘fascio di stoppie’ della classe politica italiana. Ho rivolto al Capo dello Stato – dirà De Mita – alcuni appunti critici per affermare che aveva sbagliato nella conduzione di questa crisi perché prima l’ha aperta sulla questione istituzionale e poi l’ha lasciata cadere nel vuoto. Gli ho osservato che non si può dire che questa Repubblica non va più bene, addossare tutte le colpe al sistema attuale e poi non proporre che cosa si dovrebbe fare… dopotutto, mi sento la persona più responsabile per la sua elezione al Quirinale. Cossiga, prima minimizza… siamo in democrazia. Ci mancherebbe altro che un esponente intelligente e acuto non possa avere idee difformi da quelle del Capo dello Stato… poi, quando De Mita rinnova le sue critiche su Repubblica, Cossiga perde le staffe… le critiche dell’ex questo e dell’ex quello – tanto per chiarire le differenze di ruolo – sono infondate dal punto di vista costituzionale, umanamente dolorose e istituzionalmente irrilevanti. E subito convoca Forlani che, strigliato a dovere, è costretto ad ammettere pubblicamente… la correttezza costituzionale del Presidente della Repubblica, nel corso della crisi di Governo, non è in discussione. 43


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Poco più di un mese dopo, la situazione politica s’infiamma di nuovo. 9 giugno: referendum sulla riforma elettorale. Cossiga si pronuncia a favore dei riformatori… la volontà popolare va rispettata; 12 giugno: ennesimo scontro con il presidente del CSM, Giovanni Galloni. Cossiga gli revoca la delega a rappresentarlo; 13 giugno: Michele Santoro manda in onda nella sua ‘Samarcanda’ cinque minuti di uno speciale ‘Blob’ a dir poco ‘impertinente’ nei confronti del Capo dello Stato immediatamente censurato dallo stesso direttore della rete, Sandro Curzi… si è trattato di un grave incidente – dirà Curzi – respingo il tentativo di attribuire all’accaduto alcun significato politico… ma ormai è andata! 16 giugno: sconfitta del PDS e del MSI alle elezioni regionali in Sicilia. Pino Rauti si dimette. Il 6 luglio, Gianfranco Fini torna alla guida del Movimento Sociale; 16 giugno: Cossiga annuncia un suo messaggio alla Camera sul tema delle riforme istituzionali che, per norma, deve essere controfirmato dal Presidente del Consiglio. Andreotti nicchia e i giornalisti chiedono a Cossiga: Presidente che succede se Andreotti rifiuta? Semplice – risponde il Capo dello Stato – il Presidente del Consiglio va a casa. Apriti cielo! Il 19 giugno, mentre il PDS contesta l’atteggiamento del Capo dello Stato, anche il vice presidente della Camera, il democristiano Michele Zolla, dissente… il potere di scioglimento del Parlamento da parte del Presidente della Repubblica è incontestabile, ma solo quando il Parlamento non è in grado di funzionare, quando cioè non è in condizione di esprimere una maggioranza… diversamente sarebbe un arbitrio, direi quasi un colpo di Stato. Per Cossiga è troppo. Alle cinque del pomeriggio della stessa sera, Cossiga si piazza davanti alle telecamere e ne snocciola di tutti i colori. Comincia proprio dalla RAI… penso di avere il diritto di esternare la mia opinione, non perché voglio entrare con funzione censoria nei confronti 44 dell’attività della società concessionaria del

servizio pubblico, ma perché se ci trovassimo in una corte ordinaria di giustizia io dovrei essere sentito, direi, come parte lesa, ancora di più essendo stato, dico fra virgolette, offeso il Presidente della Repubblica. E badate, io sto parlando in difesa di ‘Samarcanda’ e di coloro i quali hanno realizzato la trasmissione… prendersela con dei comici mi sembrerebbe una cosa profondamente ingiusta… in questo Paese, il Presidente della Repubblica, non per lui persona ma per il nostro Paese, è stato assoggettato ad un umiliante procedimento di ‘impeachment’… quando il Presidente, anche se da un analfabeta di ritorno come il vice presidente della Camera, viene accusato di fare un colpo di Stato, quando il Segretario del PDS a Ragusa ha detto che io sono affetto da schizofrenia senile, quando è in corso un dibattito innescato fraudolentemente dal PDS tentando di aggirare con uno scherzo di paglietta da pretura il principio della responsabilità del Capo dello Stato, quando il PDS ha organizzato cortei nei quali sono riapparsi i funesti cartelli Cossiga con la K e le due esse per ‘assassino’, prendersela in un clima siffatto, senza apprezzabili reazioni da parte di ex comunisti del PDS non serve… non serve poiché non vedo come quei signori avrebbero la faccia tosta di dire alcunché nei confronti di ‘Blob’. Una voce nel buio… Presidente, non abbiamo capito quell’analfabeta di ritorno! No? Eppure è semplice – replica Cossiga – perché per tanti anni Zolla è stato al fianco di quella degnissima persona che è l’on. Oscar Luigi Scalfaro. Il 26 giugno viene letto, in Parlamento, il messaggio del Capo dello Stato. Giulio, la ‘volpe’, è riuscito a trovare un espediente per la controfirma del Governo: ha delegato il vice presidente del Consiglio Claudio Martelli. Una mossa intelligente. Lui, Andreotti, quel messaggio non lo condivide, ma sa che se il Governo non lo avesse controfirmato, l’alternativa sarebbe stata una crisi che avrebbe condotto direttamente alle elezioni anticipate, che


L’atteso intervento di Bettino Craxi al 46° Congresso del PSI svoltosi a Bari il 27 giugno...

non vuole. E che t’inventa? La delega a Martelli il quale, se non firma, si assume la responsabilità della crisi. Un capolavoro. Il messaggio di Cossiga è definito, più o meno da tutti, una spinta al rinnovamento delle istituzioni. De Mita, invece, lo giudica… sproporzionato, inutile e non necessario. Cossiga incassa, ma non lo dimenticherà.

Il Congresso del PSI Il 27 giugno si apre a Bari, alla Fiera del Levante, il 46° Congresso del PSI, il secondo Congresso straordinario socialista nella storia della Repubblica… anche per questo Congresso, Filippo Panseca, l’architetto del Partito, ha dato sfogo alla sua genialità – scrive Alberto Selvaggi sulla Gazzetta – tutto nei padiglioni della Fiera è smisurato, ciclopico, imponente, americano. Dalla grandiosa scenografia alle 70 graziosissime hostess, alle 4 navi noleggiate dal Partito e ormeggiate in porto per ospitare una parte dei 1.341 delegati, una delle quali, uno yacht di 30 metri, è riservata al ‘capo’ per incontri a quattr’occhi con importanti ospiti.

Tutti sono in attesa del discorso di apertura di Craxi poiché il tema del Congresso è l’unità della sinistra e l’alternativa. Ma il Leader ‘massimo’ delude tutti… la nostra prospettiva strategica è l’unità socialista che il PDS si è impegnato a promuovere a livello europeo… ciò, però, non significa confluenza dei due partiti: l’unità socialista è qualcosa di ben diverso da una indistinta unità della sinistra… non di meno, se i toni saranno ammorbiditi, si potrà anche prendere in considerazione il progetto occhettiano della sinistra… noi pensiamo seriamente all’alternativa ed è per questo che l’appuntamento non può essere per stasera o domattina, e forse neanche per la prossima settimana… a meno che, non sia la Democrazia Cristiana a provocarla elevando ostacoli e presentando chiusure di vario genere. Più chiaro di così! Craxi ha deluso, promesso, ammonito e, in fin dei conti, accontentato tutti. Ha accontentato la ‘base’ promettendo l’unità, ha ammonito la DC e ha deluso Occhetto e l’ala sinistra socialista che tuttavia provoca una bella scossa al Congresso barese con l’intervento del suo leader, Claudio Si- 45


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... ma sarà il discorso di Claudio Signorile a scuotere la platea del Congresso barese.

gnorile… bisogna cambiare. E per cambiare ci vuole fantasia e passione. E oggi non è così. Bisogna uscire dal Governo e bisogna smetterla di essere concorrenti col PDS perché si regala alla DC una grande rendita di posizione. Sul referendum per la riforma elettorale, Signorile afferma che è stato un grave errore di valutazione invitare la gente ad andare al mare… si può sbagliare dell’uno, del due, del tre per cento, ma quando dal 50 si va al 63 per cento, vuol dire che non siamo nella società! E ancora… è penetrata nel Partito la consapevolezza che sono cambiate le condizioni di fare politica, non possiamo più ragionare come se tutto fosse come qualche anno fa. L’alternativa… il passato è passato. Oggi è irrealistico tenere il PDS fuori dai confini della governabilità… se vogliamo essere protagonisti del ricambio politico è necessaria un’intesa federativa di tutte le forze che si richiamano al socialismo per formare il cuore di una sinistra di Governo. L’unità interna… è un valore che non è messo in discussione, ma l’unanimismo è la degenerazione dell’unità. E 46 io sono per l’unità.

E’ un trionfo che infastidisce non poco Craxi… 14 interruzioni – registra il cronista – e un lungo interminabile applauso scandito da Clau-dio, Clau-dio. Poi tocca a Rino Formica che De Tomaso ritiene… instancabile tessitore della trama a sinistra. Anche il Ministro delle Finanze chiede di uscire dal Governo se la DC non rivede il progetto di riforma elettorale che prevede il premio di maggioranza… l’appuntamento a sinistra è inevitabile – sostiene Formica – ma bisogna arrivarci a tappe e con prudenza. Ecco dunque la ‘differenza’ fra Signorile e Formica. Tutti e due vogliono arrivare all’alternativa: il primo subito… i tempi sono maturi; il secondo con i ‘tempi’ di Craxi. E la proposta di uscire dal Governo? Una cosa per la platea. Dopo il risultato del referendum e la lieve crescita elettorale in Sicilia – ci si attendava di più – neanche i socialisti vogliono più le elezioni anticipate. La replica di Craxi? Un discorso al cloroformio. Il solito ‘monito’ alla DC; la promessa di maggior attenzione alla sinistra interna e un caldo appello… a ricercare, difendere e conservare l’unità interna del Partito. Poi, tutti a casa. A curare le proprie poltrone o a cercare di acquisirne altre. Nei governi regionali sono in ‘distribuzione’ le nomine a Commissari straordinari nelle USL, voluti dalla riforma De Lorenzo, in sostituzione dei vecchi consigli di amministrazione. La ‘suddivisione’ dei nuovi incarichi è talmente scandalosa che non solo il PDS e il MSI rifiutano di prendervi parte, ma finisce per essere contestata anche dagli stessi partiti che l’hanno avallata… a noi era parso che lo scopo della nuova legge – scrive Gorjux – fosse quello di ‘spoliticizzare’, meglio ‘spartitizzare’ le USL, invece si è scatenata, fra partiti, correnti, gruppi e sottogruppi, una lotta furibonda e aggressiva che ancora quindici o vent’anni fa sarebbe apparsa a tutti invereconda. Perché? Non è una domanda oziosa. Il perché lo sappiamo, sono comunque centri di potere, ma ci domandiamo: era questo lo spirito della nuova legge? E in caso affermativo, a che cosa questa legge è servita?


Pochi giorni dopo il corsivetto del Direttore della Gazzetta, il Commissario di Governo blocca le nomine deliberate dalla Regione in tutte le 55 USL pugliesi, ne boccia 12 e chiede chiarimenti sui criteri seguiti. Il 6 luglio la Procura di Bari apre un’indagine. Su che cosa, non è dato sapere poiché tutti i Commissari restano al loro posto e tutto torna come prima: disfunzioni, sfascio ed episodi di malasanità continuano a verificarsi senza interruzione, mentre le cliniche private, a Bari, sono più numerose degli alberghi. La clinica oncologica Mater Dei, il nuovo gioiello di Francesco Cavallari… è un miracolo barese – afferma il prof. Umberto Veronesi durante una sua visita – degna di una clinica svizzera. Nessuno si chiedeva quanto costava alla Regione Puglia quella ‘clinica svizzera’ mentre il Policlinico era sull’orlo della bancarotta.

Cossiga a ruota libera Il 4 luglio intanto, il Capo dello Stato, torna sulle prime pagine dei quotidiani. Pare che negli ambienti di Bruxelles circoli un elenco di Nazioni che, per affidabilità economica, sono variamente classificati. L’Italia, si dice, risulta fra i Paesi di serie B: Non mi meraviglia – commenta Cossiga – oltre all’economia, le Forze Armate sono un disastro e gli armamenti di infima qualità. L’Italia merita la serie B. Tutto sommato però, siamo un Paese solido… un Paese che sopporta come ministro del Bilancio un analfabeta come Cirino Pomicino, uno psichiatra di scarsa fortuna, non deve avere paura di niente. Zolla era un analfabeta di ritorno, Pomicino è un analfabeta e basta. Qualcuno deve avergli parlato di Keynes e allora lui si ritiene un keynesiano perché spende tanto. Dovremmo regalargli una biografia di Keynes, ma prima dovremo fargliela tradurre in napoletano. Pomicino non raccoglie, ma De Mita dirà… non ascoltatelo, dopotutto è un Presidente di risulta! Cossiga ribatte… non gioco più a tressette, lo facevo da giovane. Ora mi piace il poker. E di colpo, si torna a parlare di

Paolo Cirino Pomicino.

elezioni anticipate… parlatene, parlatene – commenta serafico Andreotti con i giornalisti – ma non date troppo retta ai politici, ognuno deve fare il suo mestiere. A furia di parlare di elezioni anticipate si finisce per arrivare alla scadenza naturale della legislatura. Il 23 luglio si apre alla Camera il dibattito sul messaggio del Presidente della Repubblica e, forse per la prima volta nella sua vita, Arnaldo Forlani non farà il ‘pompiere’… accogliamo con grande favore il messaggio presidenziale, ma non siamo all’anno zero… al punto in cui siamo, il peggio sarebbe di continuare ad assistere passivamente ad una delegittimazione del nostro sistema… se le riforme nascessero sull’onda del catastrofismo declamatorio, sarebbero inutili e dannose. Cossiga era convinto del contrario. Otto anni dopo, sarà proprio il ‘servile’ Bruno Vespa, nel suo libro ‘Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia’, ad ammettere lealmente che… l’intera classe politica e quasi tutti noi giornalisti sottovalutammo il suo profetico messaggio alle Camere: furono le 82 cartelle più dirompenti dell’Italia repubblicana. Cossiga parlò di elezione diretta del Capo dello Stato, di sistema uninominale, di referendum propositivi, di riforme costituzionali. Denunciò la crisi dei partiti e dello Stato, provò a suggerirne la soluzione, anticipò di almeno cinque anni una fase costituente che la fine del secolo non ha ancora visto e compiuta. Ma i capi della DC lo presero ancora una volta per matto. 47


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Ciriaco De Mita.

Tutti, tranne Bettino Craxi e Gianfranco Fini, sostennero e confermarono la tesi di Arnaldo Forlani: il Sistema funziona. Le riforme si faranno a tempo debito. Cossiga non ha resistito – scrive Antonio Galdo sulla Gazzetta – si era imposto il silenzio fino a dopo il dibattito parlamentare. Ed invece ha esternato. A modo suo, secondo il copione degli ultimi tempi: tirando giù parole pesanti come pietre per poi correggere, modificare, fingere di abbassare il tiro, smentendo senza smentire. Una tattica sicuramente efficace, di fronte alla quale perfino la diabolicità andreottiana diventa un gioco da ragazzi. Il primo affondo è contro quello che Cossiga già chiama il mio ex partito… quando lascerò la presidenza non solo non mi iscriverò alla DC, ma non siederò neanche nel gruppo parlamentare democristiano… sono testardo, orgoglioso, puntiglioso, permaloso e sto cercando di affrettare la crisi di un sistema per sostituirlo con un altro più efficiente e democratico… io rappresento uno scandalo perché pretendo il cambio delle regole del gioco e, lo voglia o non lo voglia la nostra classe politica, è arrivato il momento nel quale il popolo sia chiamato a decidere. Esterno troppo? Non 48 posso fare altrimenti, così la gente capisce

che si tratta di cose concrete, non di dispute metafisiche. E le idee sono concrete quando appartengono a uomini veri. Cossiga è così incavolato che se la prende anche con chi non ha neanche parlato. A Ciriaco De Mita, che notoriamente ha costruito la sua immagine politica sul riformismo e che il Capo dello Stato sperava, almeno in questa occasione, di averlo alleato, dice… De Mita sarebbe un perfetto Gorbaciov, cioè l’uomo del sistema che cerca di modificarlo. Ma, detto affettuosamente, è un Gorbaciov di Nusco. E’ come se io, pensando a modo mio, fossi definito l’Eltsin di Chiaramonti! Eppure, sarà proprio De Mita a convincere Craxi – difensore d’ufficio di Cossiga – che non è il caso di aprire una nuova crisi politica. E’ appena entrato il mese in cui di solito in Italia si lascia libertà di circolazione anche a mosche e zanzare, che scoppia un altro putiferio. Il primo agosto, Renato Curcio – capo storico delle Brigate Rosse, in carcere dal 1976, condannato all’ergastolo per costituzione di banda armata e per una lunga serie di rapine e sequestri – scrive al ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, per chiedere un indulto, un provvedimento di clemenza che Cossiga si dice pronto a firmare se gli verrà sottoposto… come tutti i fenomeni politici – afferma Cossiga – anche per il terrorismo, chiusa una fase storica, i seguiti dovrebbero avere un termine… lo Stato non può coltivare la vendetta e uno Stato democratico oggi, può essere meno duro e più equo verso i terroristi senza minacciare o intaccare i beni imprescindibili dell’ordine civile… il caso Curcio va iscritto in questo quadro e va risolto all’interno di questo coraggioso, realistico, equo ed umano disegno giuridico e politico. Io, quale Presidente della Repubblica, sono pronto a fare la mia parte. Una bomba. La cui deflagrazione è mitigata soltanto dall’emergenza albanese. Ma la maggioranza degli italiani, questa volta, è apertamente contro la posizione del Capo dello Stato… questa volta no Presidente – scrive il Direttore della Gazzetta il 9 agosto – valga


quel che valga il nostro parere, il proposito di graziare e liberare Renato Curcio, non interpreta la volontà generale del Paese. Da sempre, e particolarmente in questi mesi, abbiamo testimoniato a Cossiga, la stima ed il rispetto che egli merita… ma questa volta il Presidente sembra non essersi preoccupato dei sentimenti degli italiani… Curcio, dice Cossiga, non ha ucciso nessuno… l’argomento non vale… non si tratta di coltivare la vendetta, ma di ristabilire l’equilibrio giuridico turbato, di confermare l’esistenza e la legittimità dell’ordinamento, di preservare la stabilità della ‘casa’ sociale. De Mita però, non sarà così diplomatico… la vicenda del terrorismo in Italia è un fenomeno complesso, costellato di tragiche, straordinarie vicende umane e merita una riflessione serena e approfondita… non possiamo riproporre la stessa sprovvedutezza che accompagnò l’inizio e l’incrudelirsi di questa dolorosa vicenda… di tutto ciò – aggiunge De Mita – si può e si deve parlare: non straparlare… raccogliamo le sollecitazioni del Capo dello Stato, ma trasferiamo nelle sedi istituzionali proprie l’occasione per riflessioni non improvvisate e per soluzioni non soltanto declamatorie. Cossiga, che è sui monti del Bellunese a… ossigenarsi il cervello… dicono le male lingue, va su tutte le furie. Improvvisamente il caso Curcio diventa secondario rispetto alla nuova, infuocata polemica fra il Presidente della DC e il Presidente della Repubblica… chiariamo subito una cosa: sono stato io e non l’on. De Mita ad aver avuto il coraggio di sollevare il problema di una revisione critica sul terrorismo e sulla tragedia di quel tempo per la semplice ragione che io ho avuto una qualche parte e lui nessuna… l’on. De Mita, colpevole della mia elezione a Presidente della Repubblica, dice che io straparlo. Il fatto è che fino a questo momento, straparlando, io ho posto all’attenzione del Paese due problemi: le riforme istituzionali e la chiusura della tragica epoca del terrorismo. Lui, di problemi, non ne ha posto nessuno e non ne ha fatto aprire nessuno. Ma lui è giovane,

avrà tempo di aprire e chiudere qualcosa a Nusco e a Salerno. Se lui mi lascerà in pace e la smetterà di fare il gradasso e di credere che tutta l’Italia sia Nusco, forse contribuirebbe a dare un’immagine migliore al partito del quale è Leader. L’Italia non è soltanto Nusco. De Mita tenga presente questo: io parlo di cose serie, pongo problemi seri, sono al centro di dibattiti seri che forse hanno un solo difetto, non riguardano Nusco. Forse non merito molte cose, ma perché sono il Presidente della Repubblica credo di meritare almeno questo: non essere costretto a polemizzare con De Mita.

Il capo dello Stato, Francesco Cossiga... in vacanza.

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Golpe a Mosca E’ il 19 agosto. Mentre gli italiani leggono, scuotendo la testa, l’ennesima esternazione di Cossiga, radio e Tv interrompono i programmi per annunciare una drammatica notizia: colpo di Stato in Unione Sovietica. All’alba, un sedicente ‘Comitato di Sicurezza’, composto da 8 membri – fra cui il Primo ministro e vice presidente dell’URSS – informa che… è entrato nell’esercizio delle sue funzioni per difendere il Paese dalla totale disgregazione… un pericolo mortale incombe sulla Patria. Mikhail Gorbaciov, che si trova in Crimea per un periodo di riposo, è agli arresti nella sua dacia. Ma Boris Eltsin è a Mosca. Il rivale politico più irriducibile di Gorbaciov, l’uomo che, di fatto, è già più potente di Gorbaciov, l’uomo che da mesi ‘invita’ Gorbaciov a dimettersi, è contro i golpisti. Eltsin, il Presidente della Russia – lo Stato federale più grande e più ricco della Repubblica – alle 6 del mattino è già sulla torretta di un carro armato, di fronte al Parlamento, ad incitare i moscoviti alla disubbidienza civile contro il Comitato di sicurezza… le loro decisioni sono incostituzionali e senza alcun vigore nel territorio della Russia… questo colpo di Stato equivale ad un crimine di Stato. In poche ore la situazione si capovolge. Migliaia di civili alzano barricate intorno al Parlamento dove si è già insediato Eltsin; i militari rifiutano di aprire il fuoco contro il loro Presidente. Intanto, la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, si schiera con Eltsin; Giulio Andreotti, in vacanza a Cortina, si lascia sfuggire un infelice… è un fatto interno di un Paese sovrano, per ora ne prendiamo atto… subito rimbeccato da George Bush… rifiutiamo la logica del non intervento… l’URSS dei golpisti è contro la comunità mondiale e minaccia la sicurezza di molte Nazioni. Nel frattempo, blindati di paracadutisti fedeli al Comitato affluiscono a Mosca. La tensione sale al massimo. Ma nella notte del 20 agosto, uno dopo l’altro, gli 8 componenti il Comitato, cominciano a rendersi irreperibili.

Boris Eltsin ha sconfitto i golpisti.

Alle 19 del 21 agosto, Boris Eltsin annuncia… i golpisti sono in fuga… il colpo di Stato è fallito… Gorbaciov sta tornando a Mosca. Il ‘Kamicaze della Perestroika’ ha vinto; il ‘golpe’ è durato due giorni e mezzo causando tre vittime civili; i golpisti sono stati arrestati; uno di loro, l’ex ministro dell’Interno, Boris Pugo, si è suicidato; Eltsin è diventato un eroe nazionale… abbiamo visto, ancora una volta – dirà ‘Corvo bianco’ – che la libertà è fragile e che la democrazia e la trasparenza sono ancora vulnerabili. Abbiamo visto che le riforme non sono irreversibili… questo golpe è stata una lezione per tutti noi, anche per il presidente Gorbaciov, ma prometto che lavorerò al suo fianco. Non era vero. 51



Il 23 agosto, mentre Gorbaciov legge, nel Parlamento russo, una drammatica relazione sugli avvenimenti, Eltsin si alza dal tavolo della presidenza, si avvicina al podio e porge a Gorbaciov un documento che gli impone di leggere. In quell’unico foglio di carta c’è scritto, fra l’altro, che… responsabile morale del colpo di Stato è il Partito Comunista dell’Unione Sovietica e che pertanto va sciolto. Gorbaciov fa un ultimo disperato tentativo… non tutti i comunisti sovietici hanno solidarizzato con i golpisti… non potete sciogliere il PCUS. L’ho già fatto, ribatte Eltsin, e gli mostra il decreto di sospensione dell’attività del Partito. Il 24 agosto Gorbaciov scioglie il Comitato Centrale del PCUS, chiude le cellule e si dimette da Segretario. Il 29, il PCUS viene dichiarato fuori legge in tutto il territorio nazionale. Eltsin ha vinto anche la sua battaglia politica… se Mikhail Gorbaciov bussasse alla

mia porta e mi chiedesse di riconciliarci, gli risponderei: è troppo tardi, il treno è già partito… la principale differenza tra me e Gorbaciov è che lui vuole mantenere il sistema, io voglio distruggerlo. Io sono per repubbliche forti, con un centro che abbia soltanto funzioni di coordinamento. Dovranno essere le direzioni delle singole repubbliche a portare a soluzione i loro problemi. Il primo novembre il Parlamento russo concede a Eltsin i pieni poteri. Il 21 dicembre, 11 delle 15 Repubbliche sovietiche costituiscono il CSI, Comunità degli Stati Indipendenti. L’URSS non esiste più. Se agosto è stato, per l’Unione Sovietica, uno dei mesi più ‘caldi’ della sua storia, per l’Italia è stato ‘infuocato’. Alle picconate di Cossiga e all’invasione degli albanesi, si è aggiunto il ‘risveglio’ della criminalità organizzata che ha ripreso ad attaccare istituzioni e paese civile.

Fallito il colpo di Stato, Boris Eltsin, il vincitore, impone le sue ‘regole’al presidente dell’URSS Mikhail Gorbaciov.

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Mafia, ndrangheta e camorra Dopo un’incredibile recrudescenza malavitosa che in dieci mesi ha causato 1.634 vittime, per lo più fra organizzazioni rivali per il controllo del territorio in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, ad agosto le organizzazioni criminali tornano a colpire lo Stato e la società civile. Il 9 agosto la ‘ndrangheta’ uccide, in un agguato a Villa San Giovanni, il Giudice Antonio Scopelliti da qualche anno presso la Procura generale della corte di Cassazione. Quella cioè presieduta dal giudice Corrado Carnevale, meglio noto come l’ammazzasentenze, che proprio quest’anno consolida la sua fama annullando sentenze a raffica, alcune delle quali Scopelliti non aveva condiviso. Chi ha ucciso Scopelliti non si saprà mai. Anni dopo, alcuni pentiti mafiosi diranno che l’assassinio fu commissionato dalla mafia siciliana alla ‘ndrangheta’ calabrese per eliminare un elemento di contrasto all’opera di Carnevale. Il teorema, che venne imbastito in seguito, era il seguente: i processi dei mafiosi venivano inficiati da Carnevale su sollecitazione di Giulio Andreotti imbeccato, a sua volta, da Salvo Lima referente, a Palermo, della mafia e di Andreotti. Per queste motivazioni, cioè per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ verranno poi incriminati e processati Giulio Andreotti e Corrado Carnevale. Ma torniamo all’assassinio del giudice Scopelliti. Vennero individuati 7 mandanti, fra cui il noto boss Bernardo Provenzano che, condannati all’ergastolo in primo grado, saranno assolti il 15 gennaio del 2000 in appello. Il 29 agosto, altro omicidio. E’ ucciso, a Palermo, Libero Grassi un imprenditore divenuto il simbolo di quella classe imprenditoriale che rifiuta di piegarsi alla mafia del ‘pizzo’ nonostante il 4 aprile, il giudice istruttore di Catania, Luigi Russo, avesse sancito, in una sentenza storica che… pagare la mafia, per l’incolumità personale o per proteggere la propria azienda, non è reato. Quando un Giudice stabilisce che in Sicilia

Palermo, l’assassinio di Libero Grassi.

non è reato pagare la mafia – aveva commentato Grassi all’indomani della sentenza – suggerisce agli imprenditori un modello di comportamento: obbedire ai mafiosi… io mi rifiuto di pagare… non ho paura per la mia persona. Ho paura che i miei figli debbano convivere con la mafia. E con la mafia non c’è futuro. Non era una ribellione. Era una sfida che la mafia non poteva consentirsi di perdere. Grassi è ucciso alle 7,36 del 29 agosto a Palermo mentre, come tutti i giorni, si recava al lavoro nella sua azienda tessile. I suoi assassini non sono mai stati identificati. L’omicidio di Libero Grassi però, diventa il pretesto di una ignobile campagna di stampa tendente a dimostrare un assunto incredibile: la criminalità non è uguale in ogni latitudine del Paese, quella del Sud è diversa da quella del Nord, anche se il ministro Vincenzo Scotti e il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, affermano il contrario durante un vertice al Viminale il 9 settembre… Milano è la capitale del crimine, il crocevia mondiale del traffico di stupefacenti e del riciclaggio del denaro sporco. 55



Sarà – commenta il senatore socialista Guido Gerosa – ma la criminalità che tenta di spadroneggiare a Milano non è del tipo meridionale con intrecci fra mafia e politica, ma è simile a quella delle società industriali avanzate, del tipo americano. Gli fa eco prima il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli… pur essendoci, nella nostra città, una criminalità preoccupante, non si può parlare di occupazione del territorio come avviene a Palermo e a Napoli… e poi il ministro della Giustizia, Claudio Martelli… che Milano sia una città che non vive tranquilla, è vero. Ma ha un tipo di criminalità, finanziaria o micro, che non sono gli epicentri della criminalità organizzata. Sono tutte sciocchezze – scrive, invece, il sociologo Giuseppe De Rita – rispetto all’inferno provinciale di Palermo, la provincia di Milano ha avuto il doppio degli omicidi volontari e il triplo dei tentati omicidi; ha visto sequestrare una quantità di droga quattordici volte superiore, ed ha visto morti per droga tredici volte superiori. Come differenza in peggio non c’è male. La polemica è troppo seria per abbandonarsi all’ironia. Ma ci è venuta in mente una scena del film ‘In nome del Papa Re’ di Luigi Magni. A pochi mesi da Porta Pia, un giudice ecclesiastico, Nino Manfredi, chiede al Parroco di un quartiere romano di fargli vedere questi giovani rivoluzionari che vogliono abbattere il potere temporale del Papa. Perciò, si appostano entrambi vicino ad un covo di Carbonari e, quando questi escono, il Parroco dice… vede Eminenza? Questi ragazzi ‘so angeli de fora e diavoli de dentro. Nun so come noi… e sua Eminenza… che semo diavoli de dentro e de fora’! Cinque mesi dopo, sarà proprio il procuratore di Milano, Borrelli, con il suo pool di Mani Pulite, a dimostrare che la borghesia politica e finanziaria della ‘Capitale morale’ dell’Italia, non aveva alcun titolo per sentirsi ‘estranea’ al comune sfascio del Paese. Erano diavoli anche loro e lo erano… ‘de dentro e de fora’.

Il passaggio poi, fra la polemica sulla ‘qualità’ del delinquere e quella più in generale sul Mezzogiorno, è scontato. Per giorni, buona parte della stampa settentrionale, si mobilita nel disegnare un’immagine rovinosa del Meridione tutto mafia, clientele e assistito. Non ci vuole molta fantasia per capire che l’obiettivo è impedire il rifinanziamento dell’Intervento straordinario sollecitato dal nuovo ministro per il Mezzogiorno, Calogero Mannino. La difesa del Direttore della Gazzetta e dei meridionalisti contro quanti vorrebbero mollare quella palla di piombo del Meridione dallo stivale d’Italia, è puntuale e appassionata. Ma restano voci nel buio… del resto – scrive Vittore Fiore – quando i Presidenti delle Giunte regionali di Abruzzo, Basilicata, Campania e Molise, riuniti in un convegno ritengono superata la politica di Intervento straordinario nel Mezzogiorno auspicando una non meglio identificata ‘autonomia regionale impositiva’, non resta che fare harakiri. Gorjux non molla – da tempo va denunciando la latitanza della classe politica meridionale tanto da far apparire il ‘suo’ giornale controcorrente – e alla fine ottiene le sollecitate risposte… dunque siamo al punto che il Mezzogiorno è ormai un mostro permanente sulle prime pagine dei giornali – scrive il senatore socialista Gennaro Acquaviva il 25 ottobre – siamo al punto in cui è stato persino proposto un referendum contro l’Intervento straordinario… e quel ch’è peggio è che nessuna protesta, nessuna voce, dal Mezzogiorno, si è fatta sentire. Dov’è finito il Mezzogiorno degli onesti, della gente che vuol lavorare e produrre, che ha speranza nel proprio futuro e vuole battersi per esso? So che c’è, ed è la grandissima maggioranza. Ma la sua voce, già fioca, sembra addirittura tacitata, letteralmente sommersa dal mare delle accuse, delle denunce, dei misfatti. E’ vero che nel Sud si consumano crimini efferati, ma né 16 comuni su oltre tremila, né cento delitti bastano per chiudere la bocca di un’intera popolazione. Allora perché si grida allo sfascio del 57


Una finestra sulla storia - 1991

L’AIDS - La peste del secolo Earvin ‘Magic’ Johnson, 32 anni, cestista, punta di diamante dei Los Angeles Lakers, una montagna di muscoli scattanti e così bravo da essere definito ‘Magic’, non ha mai creduto che l’HIV fosse più diffuso nella comunità di colore che in altre comunità; ha sempre rifiutato di credere che il virus potesse colpire gli eterosessuali e i non consumatori di droghe. Finché, un giorno, il medico sociale dei Lakers gli conferma la terribile diagnosi: lui, ‘Magic’, è risultato positivo al test dell’HIV; ha il killer che provoca l’AIDS, ma non ha la malattia. Quel giorno il mondo mi è crollato addosso... mi dissero che si poteva combatterlo ed io decisi di accettare la sfida. Il 7 novembre 1991 ‘Magic’ Johnson annuncia coraggiosamente l’abbandono dell’attività agonistica... a causa del virus HIV, ma non mi arrenderò per favorire l’insorgere dell’AIDS. Cinque anni dopo ‘Magic’ torna in squadra: ha vinto la sua battaglia contro il virus; al test dell’HIV è risultato negativo. A due setimane di distanza dall’annuncio di ‘Magic’, il 22 novembre del 1991, anche Freddie Mercury dichiara di essere affetto dal terribile virus dell’HIV. Ma per lui è troppo tardi, l’AIDS lo ha già consumato, distrutto ogni difesa e tre giorni dopo, il 25 novembre, Freddie Mercury, 45 anni, muore. Cantante solista dei ‘Queen’, un gruppo rock inglese noto in tutto il mondo per il suo ‘sound’ innovativo, Mercury, dotato di un talento musicale puro e di una grande personalità, era il suo leader. I concerti dei ‘Queen’, grazie all’istrionica figura di Freddie, sono leggendari, così come senza tempo sono alcune melodie del loro repertorio, da ‘Bohemian Rapsody’ a ‘We are the champion’ e da ‘Under pressure’ alla bellissima ‘Barcellona’. I ‘Queen’ hanno venduto, fino all’86, oltre cento milioni di dischi e Freddie Mercury ha lasciato, per testamento, l’equivalente di 60 miliardi di vecchie lire per la ricerca sulla malattia che lo ha 58 portato alla morte.


Mezzogiorno? Perché si è persa la capacità dei partiti e della classe politica meridionale di alimentare il senso di una coscienza nazionale: perché insieme a quelli che mal fanno, ci sono soprattutto coloro che non reagiscono, che continuano nei loro giochi, nelle loro polemiche, nelle loro contrapposizioni, nel loro assenteismo, nel loro immobilismo, come se la necessità di spazzare la grande bufera addensatasi sul Mezzogiorno fosse compito di altri. C’è una classe dirigente che nemmeno immagina possa esserci qualche cosa di più importante del proprio interesse particolare o elettorale; che guarda solo al vantaggio di gruppo, che ha perso l’abitudine di vagliare la bontà o meno di un progetto prima di decidere, perché il solo vero nodo da sciogliere è capire a chi giova. Due giorni dopo, il 27 ottobre, la Gazzetta ospita una lettera del prof. De Rita in cui, fra l’altro, scrive: Anch’io da tempo non ne posso più della drammatizzazione e della colpevolizzazione del nostro Mezzogiorno, non ne posso più della demonizzazione indiscriminata di intere regioni, non ne posso più della spocchiosa propensione a vedere dappertutto nel Sud parassitismo ed assistenzialismo, non ne posso più dell’indifferenza verso tanti fenomeni di vitalità e trasformazione che caratterizzano tante zone del Mezzogiorno, non ne posso più della continua degenerazione di fiducia e speranza alla gente meridionale. Scossa dalla passione altrui – Acquaviva e De Rita sono romani – la classe politica meridionale, pochi per la verità, partecipa al dibattito provocatorio. L’ordine è sparso e il succo è: il meridionalismo non è morto, la crisi coincide con quella istituzionale e dello Stato. E poi, giù dichiarazioni di fede, di impegno, di propositi e progetti, ma nessuno si fa carico di coordinare un intervento parlamentare, un movimento d’opinione comune che contrasti quanti continuano ad affermare che il Sud ha divorato, e per di più senza produrre risultati positivi, ingenti risorse finanziarie. Tant’è che Acquaviva, nel concludere il dibattito, scri-

ve… siamo d’accordo che esiste un Mezzogiorno degli onesti, dei capaci, degli efficienti, dei competitivi… insomma c’è, ma non batte colpi, non dà segni auspicabili di rivolta civile, non s’indigna: l’assenza di un orgoglio collettivo è sicuramente la carenza più grave. Quest’ultima, amara considerazione di Acquaviva, aveva già trovato conferma pochi giorni prima. All’alba del 28 ottobre, mani che potrebbero definirsi ‘assassine’, per l’enormità del gesto, incendiano il teatro Petruzzelli privando, baresi e pugliesi, dell’ultimo simbolo che ancora ci rendeva orgogliosi.

De Mita, lepido di Nusco Ma agosto non è ancora finito. Il 25 Cossiga si ferma a Rimini per salutare i ‘ciellini’, il movimento popolare di Comunione e Liberazione e, riferendosi agli avvenimenti sovietici, dice… credo che la DC debba trarre insegnamento da quanto è accaduto in Unione Sovietica… non vorrei che Forlani diventasse una specie di Gorbaciov italiano… la DC non ha più l’alibi della difesa dal comunismo… sarebbe ora di fondare un nuovo partito… non vorrei che a Forlani gli venisse meno come è venuto meno a Gorbaciov. Poi si sofferma sulle prospettive dei cattolici… il loro impegno politico non è più ristretto ad un solo partito… oggi i democristiani hanno diritto di trovare la propria libertà altrove poiché sono venuti meno i motivi per l’unità dei cattolici in un solo partito… un partito di cristiani ha senso nel nostro Paese solo se non si pone più come apparato di gestione del potere, ma come momento di servizio al Paese. Detto terra terra, commenta il cronista, significa che si può essere cristiani anche senza essere iscritti alla DC. Basta solo essere battezzati. Forlani non raccoglie. O, quanto meno, minimizza… la DC non è il PCUS… da tempo il suo collante non è l’anticomunismo. Ma De Mita, durante un convegno DC a Lavarone il 1° settembre, dice… è vero, il Sistema è in profonda crisi, non parla più alla gente e a 59


Una finestra sulla storia - 1991

testimoniare che la DC è in crisi, sono i fatti, non Cossiga. Il giorno prima, Mino Martinazzoli aveva detto ironizzando... sì, trascorriamo le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche. E tuttavia – dirà ancora De Mita – non è in crisi l’idea della DC… ma mettere sullo stesso piano il PCUS e la crisi della DC significa non conoscere la storia. E poi giù la stoccata finale… è vero, lo dicevano anche i nostri antenati Sturzo, De Gasperi e Moro che si può essere cristiani senza essere iscritti alla DC, ma qualche volta basta essere un DC per diventare Presidente della Repubblica… gli atti del Presidente non sono le discussioni sull’ideologia dei partiti, le sue riflessioni non sono decreti legge. Cossiga non può pretendere di imporre la sua lettura della storia. Ventiquattro ore dopo arriva, puntuale, la replica di Cossiga… la storia non basta leggerla, bisogna capirla e, ad essere più preparato di De Mita, ci vuole pochissimo… non contento di avermi dato dello squilibrato mentale, di essersi erto a giudice delle mie condizioni psicofisiche, di aver avuto l’educazione proveniente da una straordinaria arroganza del potere, vuole apparire anche spiritoso… De Mita non può più essere definito neppure intellettuale della Magna Grecia ma solo ‘lepido di Nusco’, un piccolo boss di provincia al quale è bastato essere iscritto alla DC per diventare Segretario del partito e Presidente del Consiglio, ma che sta dando chiara dimostrazione di come non basti essere democristiano per tornare alla guida del Paese, o anche del Partito, per apparire uomo di Stato… io ho chiesto alla DC una nuova avventura, la sfida dell’immaginazione. Certo, è un rischio, si rischia di perdere in termini di potere ed egemonia. Il 6 settembre, Cossiga lascia il suo rifugio estivo di Pian Del Cansiglio. Chi aveva immaginato che stando lontano dai veleni dei palazzi romani lo avesse reso più riflessivo, meno intransigente nelle sue esternazioni, s’era sba60 gliato. Al contrario. Sembra, invece, che le

lunghe passeggiate, i grandi spazi, l’aria pulita, lo abbiano rinvigorito fino al punto da acuire la sua capacità di critica e di decostruzione del Sistema… ormai ci hanno rotto le scatole – dirà il Presidente ai giornalisti nell’ultima conferenza stampa da Pian Del Cansiglio – io sono profondamente convinto delle mie esternazioni perché sono convinto che questo Paese abbia bisogno di una profonda rivoluzione: una rivoluzione morale, politica, istituzionale… ci sono problemi, come quelli della criminalità e delle riforme, su cui quello che si deve fare lo sanno tutti e, o si ha il coraggio di farle, o no… mi metto dalla parte della gente comune: ormai ci hanno rotto le scatole. Il Palazzo parla da dieci anni di riforme e non fa niente. Ci meravigliamo poi se ci sono tante persone che si disaffezionano… penso di aver rotto la cattiva abitudine di usare un linguag-

De Mita... in polemica continua con Cossiga.


gio politichese, di aver gridato di fronte a questa pseudo cultura che ancora in parte domina la Tv e i giornali. Se sono riuscito a far capire tutto questo alla gente, allora mi prendo volentieri anche l’accusa che sono un po’ matto, che prendo eccitanti, che sono uno strambo… mi dispiace solo che, a differenza del PCI, la funzione del PDS si sta immiserendo in tante sciocchezze, mentre avrebbe dovuto compiere la grande opera di riportare finalmente nell’alveo democratico del nostro Paese, come forza vitale, tanti milioni di persone. Queste persone oggi si trovano probabilmente in uno stato di grande angoscia, poiché vedono i simboli della loro utopia infranti senza che il partito nel quale militano li sappia sostituire. Poi, tornato a Roma, esorta gli italiani… ad essere coraggiosi, che abbiano ancora fiducia in se stessi e siano pronti ad un cambiamento politico, sociale e morale. E’ cominciata la campagna elettorale per le elezioni politiche del ’92 e, soprattutto, quella ancora più devastante della raccolta delle firme per i 9 referendum proposti da Mario Segni, dai radicali di Marco Pannella e dall’ex ministro delle Funzione Pubblica, Massimo Severo Giannini, che vorrebbe l’abolizione dell’Intervento straordinario, del Ministero delle Partecipazioni Statali e la revoca, al Ministero del Tesoro, delle nomine ai massimi vertici delle Casse di Risparmio. La vittoria dei SI a questi tre ultimi referendum significherebbe togliere dalle mani dei governanti il sistema degli appalti infrastrutturali nel Sud, il controllo sulle numerose aziende a partecipazione statale e quello sull’economia attraverso le banche. Un potere clientelare, politico ed economico così enorme che Arnaldo Forlani, ‘giustamente’, si allarma… vedo il rischio di una proliferazione anarchica dei referendum che finiranno per essere un patto disgregante, disarticolante, corrosivo della razionalità del sistema democratico. Sembra che solo il Segretario della DC non avesse ancora afferrato dove paravano le esternazioni di Cossiga, dei referendum e per-

sino di Mino Martinazzoli ormai in aperto dissenso con la propria segreteria… i problemi posti da Giannini – afferma Martinazzoli – sono di straordinaria importanza perché credo che nella vita pubblica ci sia un momento patologico quando c’è il contatto fra l’interesse e la politica… a differenza di Cossiga, io non ho mai detto che la DC è insopportabile. Ho sostenuto che tutto il sistema politico ormai è insopportabile. E Cossiga insiste. La DC deve cambiare. Dopo la caduta del comunismo rischia di diventare un partito egemone che fa dei suoi dirigenti una nomenklatura paragonabile a quella del liquidato PCUS considerato il modo in cui sono aggrappati al potere e alla salvaguardia del Sistema… il crollo dell’utopia comunista è stata una rivoluzione innanzitutto morale e il nostro Paese deve capire che questo vento di libertà, questa rivoluzione morale non riguarda soltanto l’Unione Sovietica o i paesi dell’Est, ma anche i popoli occidentali ed il nostro Paese. Questi avvenimenti epocali non possono rimanere senza conseguenze politiche e gli italiani e la nostra classe politi- 61



ca non possono fare da semplici spettatori. Cambiare la DC? Ma non scherziamo – commenta sbrigativamente Andreotti – il Partito resterà così com’è per altri trent’anni almeno. Più caustico Forlani… quanti, riferendosi allo sfacelo della ideologia comunista, ipotizzano esperienze parallele alla DC, sono iettatori, corvi del malaugurio. Sottilmente ironico De Mita… l’idea di una nuova DC è immotivata. Nei confronti di chi l’ha proposta sono ‘montanelliano’. Indro Montanelli infatti, si era chiesto se non fosse giunto il momento di ‘staccare la spina’ a Cossiga. Eppure, nonostante gli interventi di Andreotti e Forlani fossero stati più duri rispetto a quello di De Mita, è proprio con quest’ultimo che Cossiga va oltre la civile polemica… De Mita dice cose miserabili, pur non essendo lui un miserabile. Questa sua astiosità, secondo me, dipende dalla lunga astinenza dal potere. Lo inasprisce e lo fa apparire come un poveraccio. Comunque, sia per il Partito che per il Paese, è meglio che l’astinenza di De Mita continui. Soffro d’insonnia? E’ vero. Ma meglio aver perso il sonno per aver vissuto le tragedie degli anni ’70 e ’80 che per la gestione della ricostruzione dell’Irpinia. Qui è doveroso fermarsi un attimo. Non vorremmo ingenerare il sospetto di provare compiacimento nell’aver insistito su questa polemica fra il Capo dello Stato e la classe politica. L’intento era ed è un altro. L’intento è quello di dimostrare che la ‘società’ politica nazionale era giunta ormai ad un punto di non ritorno. Aveva cioè percorso tutta la strada che c’era da fare. Nel bene e nel male erano tutti al capolinea: s’era perso il senso della morale pubblica, s’era perso il rispetto delle istituzioni e per le istituzioni, s’era persa la capacità d’indignarsi e soprattutto s’era perso il senso dello Stato, il rispetto degli altri e di se stessi. Quello che Cossiga fece finta di ignorare era che le sue esternazioni arrivavano fuori tempo massimo. Anzi, forse celavano un calcolo: quello di non essere accomunato nella responsabilità dello sfascio. Cossiga sapeva benissimo che la

matassa del sistema politico e di potere era ormai così aggrovigliata che cercare di sbrogliarla senza romperla, era impossibile. Ma a chi l’iniziativa di rompere quella matassa? Cossiga vuole che sia la DC a farlo; plaude alle iniziative referendarie di Segni, ma Andreotti taglia corto… siamo matti? Lo strumento referendario così utilizzato scardina e indebolisce il sistema politico… in queste condizioni – conferma Rino Formica in una intervista a Giuseppe De Tomaso – anch’io sono assolutamente contrario ai referendum di Segni perché avvalorano la tesi della distruzione delle forze politiche. Una cosa è il rinnovamento, un’altra la disgregazione. Chi punta alla disgregazione dà per certo che le forze politiche non possono rinnovarsi. Così, seduto davanti allo specchio – scrive Innocenzo Cruciani sulla Gazzetta – il sistema politico osserva immobile la propria decadenza… da quasi cinquant’anni si tende fatalisticamente a consegnare a domani quel che non si può e non si vuole fare oggi. In questo 1991 – osserva l’economista Paolo Andreoli – si avverte l’ala pesante della tristezza: qualcosa sta per finire; c’è quel tipo di rassegnazione che segna la fine inevitabile di un periodo storico, di un lungo, positivo ciclo economico. L’Italia – scrive infine il Direttore della Gazzetta – ha bisogno di un rapido recupero di valori ideali, di fiducie ragionevoli: e ciò può realizzarsi solo se un partito forte e radicato, come la DC, saprà compiere quegli atti di civile coraggio che indirizzano il cammino e segnano la sorte di un popolo. E per capire se la DC può compiere quegli ‘atti di civile coraggio’, il Direttore della Gazzetta invia a Brescia, per le elezioni amministrative, il suo editorialista Giuseppe De Tomaso. La città lombarda sta vivendo il periodo più delicato della sua storia politica. Una delle città più ricche del Paese, da sempre simbolo del buon governo democristiano, è in crisi… dopo oltre 16 mesi di tira e molla, di sindaci 63


Stan Getz

Frank Capra

Miles Davis

Scompaiono, in questo 1991, artisti e personaggi ‘simbolo’del Novecento in ogni forma d’arte e di espressione. Muore, a 64 anni, Stan Getz, considerato il più grande sassofonista ‘bianco’ nella storia del jazz. Un anno in più aveva Miles Davis, tromba mitica del jazz, quando muore per una polmonite a settembre. Scompare, a 94 anni, il grande regista Frank Capra, capostipite della commedia americana. Era nato a Bisaquino, in Sicilia. Sempre in California si spegne l’attore di origine polacca Klaus Kinsky: grande talento ma personaggio ‘difficile e inquieto’. Infine, il 21 febbraio, muore Margot Fontaine, la più grande danzatrice classica del Novecento. Aveva 72 anni. Nella foto, l’ultima sua esibizione al Petruzzelli, il 16 febbraio del 1981, con l’altro mito: Rudolf Nureyev.

Klaus Kinsky

Margot Fontaine


Comincia dai comuni del Nord la scalata dei leghisti verso l’odiata ‘Roma ladrona’.

materasso, di crisi permanenti – scrive De Tomaso – il Consiglio comunale della Leonessa d’Italia è stato sciolto. Motivo: le faide interne alle due anime della DC a cui si aggiunge il PSI… che spettacolo d’impotenza da parte dei signori di Palazzo della Loggia. Tutti contro tutti nella maggioranza. S’indigna la gente comune, per le strade, nei bar, in casa. Gongolano i seguaci di Bossi. Si vota il 24 novembre. Il confronto-scontro non è fra i partiti di governo e l’opposizione, ma fra Mino Martinazzoli, della sinistra DC, e Gianni Prandini, forlaniano. Entrambi ministri del Governo Andreotti. E, come recita il proverbio: fra i due litiganti il terzo gode. Vince la Lega di Umberto Bossi che diventa il maggior partito di Brescia a scapito della DC, del PSI e del PDS. Il venticello della Lega – scrive De Tomaso – ha trascinato la crisi del sistema politico italiano ad una nuova Caporetto. Il 26 novembre, un esultante Bossi chiede, per la Lega, il Sindaco… altrimenti me ne starò a

guardare. Senza di noi Brescia non potrà avere un governo cittadino degno di considerazione. Quella stessa sera, la Giunta multicolore di Milano, con la DC all’opposizione, si dimette. Il 20 dicembre anche il Sindaco, Paolo Pillitteri, getta la spugna. La Lega, a Brescia, non avrà il Sindaco. Il Consiglio comunale di Milano non sarà sciolto. Tutte e due le città lombarde formeranno giunte multicolori e striminzite e, come a Bari, Taranto e Lecce, saranno governate ma ingovernabili. Da Nord a Sud dunque, tutti intenti a ‘decostruire’ a sfasciare. I socialisti, troppo ingordi, non riescono più a formare giunte con gli alleati di sempre; la DC perde i suoi feudi – a Brescia come a Lecce – e il nuovo PDS continua ad avere emorragie. Il segnale è chiaro: è la fine, i partiti tradizionali sono in rotta e l’imminente bufera di Tangentopoli darà solo l’ultima spallata. Ma chi ci credeva? Tutti tranne quelli che vivevano all’interno delle segreterie politi- 65


Luigi Zampa

Vasco Pratolini

Scomparsi nel ‘91

Mario Tobino

Mario Tobino, 81 anni, poeta e scrittore viareggino, muore ad Agrigento, dove aveva appena ricevuto il Premio Pirandello, l’11 dicembre; Vasco Pratolini, 78 anni, si spegne a Roma il 12 gennaio: era un prolifico autore e sceneggiatore di opere sul moralismo; cinque giorni dopo muore Giacomo Manzù, uno dei massimi esponenti della scultura contemporanea; a Roma, il 16 agosto, si spegne il regista Luigi Zampa, autore di satira e denuncia di costume e, ancora a Roma, il 13 maggio, scompare l’economista Pasquale Saraceno: il più impegnato e convinto meridionalista del Nord. Saraceno era nato a Sondrio nel 1903. Infine, il 9 settembre, muore a Siracusa Concetto Lobello: per un ventennio il più noto arbitro di calcio nazionale e internazionale. Pasquale Saraceno

Giacomo Manzù

Concetto Lobello


che… è tutto il mondo dei partiti che rifiuta tenacemente di rendersi conto della inevitabilità di un profondo cambiamento dei partiti stessi – scrive Gorjux il 20 novembre – i partiti sono strumenti indispensabili alla vita della democrazia, ma della democrazia possono diventare i sicari se la vetustà e l’obsolescenza li rende inadeguati. E purtroppo i partiti italiani sembrano mossi da un’oscura, inspiegabile spinta all’autoannientamento. Ma tanto non serve, non ascolta più nessuno. Siamo ormai in piena campagna elettorale e tutto prende a muoversi come se Brescia non fosse mai esistita. In Italia – si legge in un documento dei Vescovi – sta affiorando l’immagine di un risorgente neo feudalesimo in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto delle leggi, lavorano per il proprio tornaconto… la legalità è fortemente degradata… c’è un’inquietante nuova criminalità detta ‘dei colletti bianchi’ che impone tangenti e realizza collusioni con gruppi di potere occulti. E’ vero – dirà Cossiga che ha iniziato la sua personale campagna elettorale – i ladri ci sono sempre stati e ci saranno sempre, ma il sistema dell’alternanza se non altro fa vivere la paura di essere scoperti e sostituiti. E ancora, il 15 novembre: sollecito gli elettori a demolire il Sistema. Non è contro la storia mandare la DC all’opposizione, come non lo è affatto che il PDS, tra cinque, dieci anni, non solo vada al Governo, ma lo guidi. Per tutta risposta, una settimana dopo, a seguito dell’ennesimo contrasto fra Cossiga e il CSM, il PDS annuncia di aver preparato una denuncia per la messa in stato di accusa del Capo dello Stato… mai nella storia della Repubblica – afferma Occhetto – eravamo giunti a tal punto. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto ci possiamo attendere il peggio; nelle prossime ore ci può accadere di tutto… ci fermeremo soltanto se Cossiga si dimette. Il primo a dichiararsi contrario alla denuncia contro Cossiga, è il leader dell’ala miglio-

rista del PDS, Giorgio Napolitano. Poi, via via, lo schieramento si amplia: è vero, diranno i maggior esponenti dei partiti di Governo, ne sta combinando di tutti i colori, ma da questo alla messa sotto accusa, ne passa. Occhetto insiste, mette ai voti nel PDS la denuncia di stato d’accusa contro Cossiga che è approvata a maggioranza, ma Napolitano conferma il suo dissenso… non vedo che successo potrebbe esserci di fronte all’isolamento del Partito. Ma prima che la denuncia venga presentata in Parlamento, scoppia un’altra grana. Il 4 dicembre, il COCER, l’organismo sindacale che rappresenta i Carabinieri, diffonde un documento di solidarietà al Capo dello Stato… per la campagna denigratoria di cui è oggetto. Interpretando i suoi interventi demolitori quali autorevoli contributi per realizzare la moralizzazione delle istituzioni… i Carabinieri sono avvezzi al sacrificio, al silenzio e alla fedeltà alle istituzioni… ma della loro pazienza non è morale abusare.

Achille Occhetto chiede lo stato d’accusa per Cossiga.

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Una finestra sulla storia - 1991

Il documento del COCER, un vero ‘pronunciamento’, è clamoroso, senza precedenti. Ma sarà lo stesso Cossiga ad esprimere la sua … sofferta ma ferma e incondizionata condanna… la natura politica del comunicato è incompatibile con le leggi generali dello Stato… è mio dovere rivolgere un deciso e fermo rimprovero e richiamo ai Carabinieri del COCER. E non di meno, il 6 dicembre, il PDS formalizza la richiesta di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato. Secondo gli esperti, un simile procedimento, richiederebbe una discussione preliminare di almeno sei mesi… perciò – dirà Cossiga – l’intento non è quello di processarmi, ma di farmi dimettere – e non lo farò – in modo da ipotecare, con questo Parlamento, l’elezione del Capo dello Stato poiché, nelle prossime elezioni, una parte della sinistra DC con una parte del PDS non sarà più in grado di determinare il mio successore. Almeno per quanto riguarda l’Impeachment, Cossiga aveva ragione: dimessosi 20 giorni dopo le elezioni politiche del 6 aprile ’92, il PDS lascerà cadere la denuncia… ormai il ‘picconatore’ non c’è più. Ormai il Paese ‘politico’ picconato da Cossiga, non c’era più. Tranne Rifondazione Comunista e il PDS presto, tutti gli altri partiti che hanno governato la Prima Repubblica, non ci saranno più. Per almeno un decennio l’Italia non sarà più la stessa. Gli italiani, un’altra generazione di italiani, sperimenteranno, sulla propria pelle, il significato di vecchie parole come: recessione, disoccupazione, stragi, confusione sociale e politica; lacerazioni morali che lasceranno nella gente un profondo, avvilente senso di impotenza. Il bilancio politico e sociale di questo ’91? Eccolo: si parla di elezioni da sei mesi e si va alle elezioni in ordine sparso. Tutti contro tutti mentre si farà finta che la Lega di Bossi ‘non esiste’ e si continuerà colpevolmente ad ignorarla anche dopo le elezioni del 6 aprile ‘92 quando diventa il quarto partito del Paese; il 68 Nord e il Sud, ancorché lontani socialmente

Il Capo dello Stato ai Carabinieri... state calmi.

ed economicamente, sono diventati territori di caccia di lobbies politico-finanziarie al Nord e criminale al Sud e, per le stesse ragioni, l’industria del sole, la più grande del Belpaese, è in crisi; il deficit dello Stato ha raggiunto i 1.500 milioni di miliardi; The Economist ci ha retrocessi al 12° posto tra le potenze più industrializzate del mondo; al 6° posto – eravamo al 3° – fra i Paesi più ricchi d’Europa; l’inflazione ha preso a risalire – ha superato di 2 punti quella programmata – la disoccupazione aumenta al Nord e galoppa al Sud; il 10 dicembre le parti sociali firmano l’atto di morte della Scala Mobile, il meccanismo che adegua i salari all’inflazione, la Contingenza insomma. Dopo l’accordo, che darà l’avvio ad una riforma complessiva della struttura del salario, gli Imprenditori, unilateralmente, si sono affrettati a congelare anche la contrattazione aziendale; l’11 dicembre viene firmato a Maastricht, in Olanda, il certificato di nascita dell’Europa del futuro che prevede, entro il 1999, la moneta unica; difesa, politica estera e legislazione comune; libera circolazione delle merci, armonizzazione dei criteri fiscali e, in particolare, una minore rigidità nel mercato del lavoro.


All’Italia è stato dato un consiglio gratuito e disinteressato: o vi date una regolata o ve ne state fuori! Il ministro del Tesoro, Guido Carli, che è riuscito ad imporre ad un oppositore come Craxi, almeno a livello di principio, la necessità di dare avvio alle privatizzazioni, si dice ottimista… saranno anni di lacrime e sangue, ma ce la faremo. Dello stesso avviso è l’economista Renato Ruggiero… ci vorranno sacrifici durissimi, ma alla fine, sono certo, ci saremo. Avranno ragione entrambi, ma… Gesù, quanto c’è costato. Si dirà, possibile che proprio non si è riusciti a realizzare nulla nelle nostre regioni? In Basilicata, come si è già accennato, molto. La piccola Regione ha saputo sfruttare al meglio sia i fondi dell’Intervento straordinario che le risorse della Comunità Europea. E’ ripresa la ricostruzione nelle zone terremotate nel 1980; sono stati attivati incentivi e agevolazioni per nuovi insediamenti produttivi; la FIAT, a San Nicola di Melfi, comincia a prendere forma; i salottifici, nel Materano, Natuzzi in testa, sono in piena espansione; Matera ha ottenuto, dal Demanio, la concessione dei Sassi per 99 anni ed iniziano, finalmente, i primi interventi di restauro per quello che diventerà patrimonio universale dell’UNESCO e, ad aprile, viene istituito il Parco Nazionale del Pollino. Poi arriva Tangentopoli, il blocco degli appalti dei lavori pubblici, la recessione, la disoccupazione e la Basilicata torna a sprofondare. In Puglia, invece, a causa delle difficoltà finanziarie della Regione e dei cinque capoluoghi di provincia – tutti oberati da deficit stratosferici – c’è poco da scialare. Tuttavia, qualcosa si muove. A Bari iniziano i lavori per il sottovia Brigata Bari – se n’è parlato per trent’anni e ce ne vorranno altri sette prima che venga inaugurato – a maggio il presidente della FIGC, Antonio Matarrese, porta allo stadio San Nicola la prima – e ultima – finale di Coppa dei Campioni; s’inaugura, a giugno, il Teatroteam; a settembre, dopo

vent’anni dalla progettazione, apre i battenti il Palazzetto dello Sport; nasce, nell’ex Facoltà d’ingegneria, il Politecnico, primo Campus universitario della scienza e della tecnica nel Mezzogiorno; a Taranto, l’Università di Bari istituisce il primo corso di laurea in scienze ambientali, un sogno della città jonica inseguito per quarant’anni; a novembre, si realizza il ‘sogno’ della Gazzetta: proposto fin dal 1979 e sostenuto con insistenza, il Gargano diventa Parco Nazionale. E la Gazzetta? Rispecchia l’andamento lento del Paese. Nonostante gli sforzi di modernizzazione, la stampa a colori, l’arricchito notiziario, l’aumento delle pagine provinciali e il conseguente ampliamento del corpo redazionale, comincia a perdere colpi. E’ un classico: ai primi cenni di recessione, le famiglie italiane, cominciano a risparmiare proprio dai quotidiani.

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Il sipario bruciato

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n teatro, un grande teatro, è l’immagine riflessa del pubblico che lo frequenta. Il gusto, l’eleganza, la ricchezza delle sue decorazioni, lo splendore conservato nel tempo, la qualità delle sue rappresentazioni, esprimono la ricchezza interiore di un popolo. Un teatro, la vita di un grande teatro, sono il frutto dell’intelligenza, creatività e imprenditorialità della sua gente, allo stesso modo in cui incuria, abbandono e distruzione, diventano sintomi della sua decadenza morale e sociale. Il teatro è l’unico luogo al mondo che compie la magia di annullare le differenze sociali. Il teatro accomuna tutti, ricchi e poveri, in passioni e desideri universali. Il teatro, in tutte le sue forme espressive, arricchisce l’anima, lo spirito divenendo parte della vita stessa del suo pubblico. Non sembri irriverente, dunque, se raccontiamo la storia del Petruzzelli come fosse una creatura ‘viva’, poiché questo ‘nostro’ teatro ha attraversato un secolo condividendo le stesse esperienze che hanno scandito la vita di tre, quattro generazioni di pugliesi. Nato dall’amore per il melodramma, il Petruzzelli compie i suoi primi passi con quella ‘madre’ passionale che è la musica lirica. Prosegue il suo cammino con le ‘follie’ della gioventù: cinema, teatro, rivista e perfino avanspettacolo; subisce i traumi delle lunghe stagioni di ‘miseria’ del primo e secondo conflitto mondiale e, nello splendore della maturità, torna alla vita civile con le grandi stagioni liriche degli anni Sessanta e Settanta e con l’epopea degli anni Ottanta. Poi, un agguato brigantesco, quasi mortale, in una fosca notte d’autunno, all’inizio degli anni Novanta, interrompe una lunga serie di successi e di gloria. Sembrava la fine, così come sembrava mortificato e indifferente il pubblico che lo frequentava: erano gli anni in cui il racket, le associazioni malavitose, il degrado della vita politica e sociale parevano inarrestabili. Ma le mura del Petruzzelli erano ancora solide e solido ed integro è rimasto l’amore dei pugliesi per il ‘suo’ Teatro. E, finalmente, dopo una lunga, tormentata convalescenza, seguita con ansia crescente dall’opinione pubblica, il 22 novembre 2002, l’annuncio della guarigione, della ricostruzione: entro quattro anni il Petruzzelli tornerà a vivere. Ce ne vorranno, purtroppo, altri sette. Ecco, dunque, la sua storia così com’è stata vissuta e raccontata dal Corriere delle Puglie, dalla Gazzetta di Puglia e dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Ovvero: nascita, vita, splendore, declino e rinascita di un simbolo secolare della gente di Puglia. Si alza il sipario Quando il Petruzzelli venne ‘concepito’, nel 1877, Bari contava poco più di 50mila abitanti. Non era la Capitale della Puglia, costituita, all’epoca, dalle sole province di Bari, Foggia, e Brindisi, Lecce e Taranto insieme che formavano la provincia Salentina, ma ne aveva la vocazione. Dal giorno in cui Re Gioacchino Murat venne a Bari, nel 1813, per farla uscire dalla sua dimensione di ‘borgo’… ne faremo una grande e bella città, disse il giovane e ardimentoso Re,

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Bari non ha mai smesso di perseguire l’obiettivo di diventare, un giorno, città regione. In pochi anni, il ‘nuovo borgo’ si sviluppa su tre arterie: corso Ferdinandeo, attuale corso Vittorio Emanuele, via Sparano e via Bianchi Dottula, divenuta corso Cavour dopo l’unificazione. Nel 1854, anno dell’inaugurazione del Teatro Piccinni, Bari è già il centro finanziario, mercantile e culturale delle tre province pugliesi. E’ a Bari che risiedevano i grandi latifondisti dell’epoca, e Bari, insieme a Lecce, cominciava ad imporsi anche come centro commerciale, amministrativo e culturale. A Bari sorgono costruzioni che per la loro dimensione e importanza ipotecano la sua futura vocazione. Il palazzo dell’Intendenza (1830), odierna Prefettura; il grande mercato coperto del pesce in piazza del Ferrarese (1840); il Reale Liceo (1885), odierno palazzo dell’Ateneo; la Camera di Commercio (1889) Autunno 1900. Il Petruzzelli in costruzione. e poi il ‘gran porto’ (1865), il Tribunale (1863), la Ferrovia Adriatica (1865) e, al centro di un grande slargo in corso Cavour, l’enorme Mercato generale in ferro - costruito nel 1880 e abbattuto nel 1924 - utilizzato, all’occorrenza, come centro fieristico di prodotti agricoli e bestiame, bivacco per truppe, deposito di carbone, caserma di vigili e pompieri e sede della Società ginnastica Angiulli. Tutte realizzazioni che, a voler usare un termine molto in voga negli anni Sessanta, potrebbero definirsi ‘cattedrali nel deserto’ rispetto al nulla che li circondava. Ma erano espressioni di un popolo di una cittadinanza attiva e laboriosa che stava costruendosi il proprio futuro. E più fioriva il commercio, maggiore era l’affluenza della ricca borghesia pugliese che a Bari trovava nutrimento culturale nei ‘gran caffè’ e nell’unico teatro stabile allora esistente, il Piccinni, che alimentava la passione per il melodramma, la prosa e i primi grandi interpreti della ‘commedia dell’arte’ napoletana, all’epoca parte integrante della cultura pugliese. A leggere le cronache dei numerosi settimanali pubblicati a Bari nella seconda metà dell’Ottocento, sembrerebbe che i baresi avessero una vera e propria mania per il teatro: nascevano come funghi ed improvvisamente sparivano allo stesso modo in cui erano apparsi. Erano in legno, in legno e tufi, coperti con teloni di fortuna ed anche scoperti, ma sempre affollati da un pubblico d’ogni ceto sociale. Era evidente che il Teatro Piccinni non bastava più. Così, il 16 maggio 1887 - il primo novembre dello stesso anno nasce il Corriere delle Puglie, ‘nonno’ della Gazzetta del Mezzogiorno - il sindaco Sebastiano Carrassi, con l’approvazione del Consiglio comunale, istituisce un premio di 12mila lire e la concessione di un suolo, a titolo gratuito, da assegnare a qualunque impresa disposta a costruire un nuovo Politeama. Era il primo seme che darà vita al Teatro Petruzzelli. Arrivarono diverse proposte con diversi progetti, ma soltanto nel 1895 l’Amministrazione 72 comunale concede ad Onofrio e Antonio Petruzzelli il ‘premio’, aumentato nel frattempo a


40mila lire, e il piazzale di via Conte di Cavour per la costruzione del Politeama che si sarebbe dovuto chiamare ‘De Giosa’. La firma del contratto di concessione del suolo avviene il 29 gennaio 1896 e, nel corso dello stesso anno, i Petruzzelli presentano un nuovo progetto firmato dal cognato Angelo Messeni Nemagna che, approvato nel 1898, definiva l’area di costruzione, i tempi di costruzione - tre anni e mezzo - e un nuovo nome: Politeama Petruzzelli. La prima pietra è posta il 23 maggio del 1898. Nonostante l’impegno assiduo di centinaia di muratori, carpentieri, falegnami, decoratori, stuccatori e valorosi artisti, il Politeama Petruzzelli è ultimato nel gennaio del 1903 ed inaugurato il 14 febbraio. Ieri sera un folto pubblico, abbigliato per le grandi occasioni, faceva ressa davanti al botteghino del nostro nuovo grande Politeama – scrive il Corriere delle Puglie – ma quando il pubblico, il gran pubblico, il pubblico aristocratico e democratico, borghese e lavoratore ha visto schiuso innanzi a sé il meraviglioso ambiente, è rimasto colpito dalle onde di luce di quattromila lampadine, dal fulgore dell’oro, dai colori smaglianti, dai quadri rivelatori di tutto un superiore criterio d’arte, ha avuto come un’esplosione di gioia, di meraviglia e riconoscenza verso chi ha dato a Bari uno dei teatri più belli d’Italia, un’opera monumentale e, in piedi, con entusiasmo delirante, il pubblico orgoglioso e felice, ha rivolto un’ovazione interminabile ai fratelli Petruzzelli e all’ingegnere Messeni. Un’ovazione dovuta alla loro abnegazione, alla loro fede, all’adorazione per l’arte e all’incarnazione del bello. Costoro hanno consacrato una pagina generosa e nobile nella storia della città nostra. L’ultima premonitrice rappresentazione: la Norma Sabato 26 ottobre 1991. Giornata splendida. Sole tiepido ed abbagliante, cielo terso, aria frizzante. Una giornata d’autunno come tante per i pugliesi, incredibilmente bella per centinaia di agenti di cambio e dirigenti di banche giunti a Bari per il 34° convegno del Forex organizzato, per la prima volta, nel capoluogo pugliese. Ospite d’onore: Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia. Per l’occasione, gli organizzatori hanno fatto le cose in grande: relazioni, dibattito e pranzo nel nuovo, lussuoso Sheraton-Nicolaus Hotel e gran serata al teatro Petruzzelli per una rappresentazione esclusiva della ‘Norma’ sponsorizzata dalla Cassa di Risparmio di Puglia. Alle 19 gli invitati cominciano a riempire lo splendido foyer e il salottino belle époque del Teatro dove Franco Passaro, presidente della Caripuglia, fa gli onori di casa. Nelle stesse ore, nel salone del Circolo Unione, le cui finestre affacciano in via Cognetti e corso Cavour per l’intero secondo piano del Petruzzelli, è in corso un ricevimento nuziale. Alle 19,30 la prima ‘chiamata’. Le luci si affievoliscono e gli ospiti, nel prendere posto, si guardano intorno, incantati dalla bellezza del Teatro barese. Stucchi dorati e affreschi, restaurati di recente, brillano ancora di più nella luce soffusa. Il colpo d’occhio è spettacolare. Nessuna meraviglia se questo ‘gioiello’ pugliese è ormai famoso in tutto il mondo. Tutto sembra unico. Dall’occhio centrale di cristallo dell’immensa e spettacolare cupola, alle decorazioni, allo stupendo telone realizzato, novant’anni prima, dal pittore barese Raffaele Armenise. Alle 20, l’enorme telone raffigurante l’ingresso a Bari del doge Orseolo II nel 1002, si alza; si alza il sipario di velluto rosso e, nel silenzio più assoluto, le prime note del capolavoro di Vincenzo Bellini cominciano a diffondersi tra i velluti dei palchi e della platea. La profusione di pregiato abete di Carinzia, utilizzato nella costruzione per assorbire le onde sonore, fa del Petruzzelli un modello di perfezione acustica. Alle 22,15 una telefonata anonima al 113 segnala la presenza di una bomba nel Teatro. Vengono fatti discreti controlli per non allarmare gli ospiti, ma senza esito. Del resto lo spetta-

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colo si avvia al termine. Si decide quindi per un controllo più accurato a Teatro vuoto. Non si trova nulla e, appena dopo la mezzanotte il custode, Giuseppe Tisci, che alloggia con la sorella nello stesso Teatro, inizia il suo consueto lavoro di smontaggio delle scenografie e controllo delle luci. Alle 2,30 il custode farà l’ultimo, accurato giro d’ispezione resosi necessario dalla segnalazione anonima e da un’altra incredibile coincidenza. La ‘Norma’ si conclude con un grande incendio: il rogo del sacrificio di Norma e Pollione. Tisci darà agli inquirenti tre versioni dei suoi movimenti fra la mezzanotte del 26 e le due e trenta del mattino di domenica 27 ottobre. Tutte concordanti in un solo punto: fino alle tre, tre e mezza, il Teatro era ancora integro. La circostanza è confermata anche dai camerieri dei Circolo Unione… gli ultimi invitati al ricevimento nuziale hanno lasciato il Circolo alle due e un quarto - sostiene Gennaro Folieri - noi, come il solito, siamo rimasti a riordinare sala e cucina… poi abbiamo sentito un sibilo assordante e subito dopo un boato… mi sono precipitato sul balcone che affaccia su via Cognetti pensando ad un terremoto e, non vedendo nulla di strano, mi sono tranquillizzato. Stavo rientrando quando, alzando gli occhi sul palazzo di fronte, ho visto nei vetri i riflessi rossastri di un incendio. Folieri non sapeva che ora fosse, ma alla caserma dei Vigili del fuoco la sua telefonata… correte, il Petruzzelli sta bruciando… è stata registrata alle 4,46. Dunque, nel giro di un’ora e mezza, due, una struttura di quelle dimensioni, sia pure abbondante di legno, tendaggi e altro materiale infiammabile, è stata assalita dalle fiamme in modo così devastante da raggiungere e fondere le strutture di ferro della cupola alta 26 metri. Alle 4,49 la prima squadra di pompieri, distaccata al porto, è già sul posto. Il loro primo intervento è per il custode Tisci e la sorella Enza intrappolati nel piccolo appartamento sul lato di via Cognetti: faranno appena in tempo a farli salire su una scala appoggiata alla finestra sfondata. Subito dopo, le fiamme avvolgono la stanza. Poi, qualcuno ricorda che nel Teatro abita anche la famiglia del titolare del bar in corso Cavour: salvati anche loro dalla prontezza di spirito di un Carabiniere che riesce a svegliarli solo a colpi di pistola sparati in aria. Alle 5, la città è attraversata dalle laceranti sirene delle pattuglie della Polizia, dei Carabinieri e dalle altre squadre di pompieri. E saranno queste a svegliare il giornalista Pasquale Tempesta - che abita in via De Nicolò - che si veste alla meglio, scende in strada, si affaccia in via De Giosa e vede, in fondo alla strada, il cielo arrossato da alti bagliori. Mentre si avvia verso via Cognetti, Tempesta pensa che a bruciare siano le impalcature che circondano l’Acquedotto Pugliese in restauro. Qualche passo ancora e si rende conto dell’enorme disastro che di lì a poco avrà davanti agli occhi: il Petruzzelli è in fiamme. Quella che una volta era la cupola, ora erutta fumo, fiamme e tizzoni ardenti come fosse un vulcano… ho sùbito l’impressione che si tratta di un incendio indomabile. Il cuore mi si stringe. Il Petruzzelli è perduto mi dico e, con le lacrime agli occhi, corro alla prima cabina telefonica… per allertare il giornale che poche ore dopo esce in edizione straordinaria. Non sarà il solo ad avere le lacrime agli occhi, ad esprimere rabbia e stupore per l’impressionante rogo. La cupola implode Alle 5,10, quando la cupola implode nel guscio già devastato della platea, migliaia di cittadini in corso Cavour, via Cognetti, via XXIV Maggio, dai balconi e sulle terrazze dei palazzi che si affacciano sul Petruzzelli, osservano la scena increduli, ammutoliti… per molti si tratta di un 74 silenzio rotto solo dai singhiozzi. C’è chi si abbraccia con sgomento – scrive Gaetano Campione


Carlo Vitale, ha gestito il Petruzzelli per 25 anni.

Memorabile concerto di Herbert von Karajan nel 1958.

– chi ha gli occhi lucidi, chi si rifiuta di credere a quello che sta accadendo. Intanto, arrivano Ferdinando Pinto, il gestore, e i proprietari del Teatro, le sorelle Vittoria e Teresa Messeni Nemagna. Pinto, che abita proprio di fronte al Petruzzelli, viene svegliato dal suono insistente al suo citofono da un conoscente; le proprietarie sono state avvertite telefonicamente da un amico. A tutti è stato fatto lo stesso appello… correte, il Petruzzelli sta bruciando. Nessuno di loro, però, riesce minimamente ad immaginare la reale proporzione dell’incendio. Pinto è stravolto, ha gli occhi lucidi, abbraccia e stringe mani di conoscenti a amici che gli esprimono solidarietà. In disparte, i meno conosciuti Eredi del Teatro guardano, allibiti e sconcertati, lo scempio, l’immane disastro. In meno di due ore è andato in fumo uno degli ultimi ‘gioielli’ storici della città di Bari. Il primo, più grande tempio regionale della musica lirica e classica divenuto, negli ultimi dieci anni, il più importante Teatro di tutto il Mezzogiorno; il sogno lungimirante dei fratelli Antonio e Onofrio Petruzzelli che lo avevano fatto realizzare nel 1903 dal cognato, ing. Angelo Messeni, è un cumulo di cenere. Tre ore dopo l’intervento dei pompieri, la platea è ‘affogata’ da mezzo metro di schiumogeno. Le tre file di palchi sembrano tante piccole caverne annerite dai fuochi di antichi abitatori. La città è in lutto La città è in lutto - scrive il direttore della Gazzetta, Giuseppe Gorjux, il 29 ottobre - la città soffre. Le è stato strappato un pezzo di carne, è come se le fiamme le avessero sfigurato il volto, le avessero ridotto in fin di vita un padre, un fratello, un figlio. Come se, nella vecchia casa, fosse andato distrutto uno fra i pochi ambienti dei quali ancora andar fieri, ancora testimoni di una tradizione antica di intraprendenza e di lavoro, ma anche di passione musicale, di arte, di cultura… bisogna reagire furiosamente contro un’infamia che non può, non deve essere accettata.

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Non è retorica giornalistica. Il sentimento è comune a centinaia di migliaia di pugliesi, ma per la Gazzetta, e per la famiglia Gorjux in particolare, quell’incendio ferisce profondamente il suo impegno professionale e culturale al servizio della città, della Puglia intera: Gazzetta e Petruzzelli sono stati da sempre promotori di ogni forma di manifestazione per la formazione culturale e artistica di una regione e di una città dominata da una società mercantile, commerciale e burocratica. Dall’inizio del secolo scorso e fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, il Corriere delle Puglie di Martino Cassano prima e la Gazzetta di Raffaele Gorjux poi, hanno sempre sostenuto con passione, spesso anche con rigore critico, le iniziative del Petruzzelli. Non era raro, fra gli anni Venti e Quaranta, che fosse lo stesso don Raffaele a intercedere presso artisti di ‘grido’ alquanto riluttanti ad esibirsi in uno ‘sconosciuto’ Teatro del profondo Sud. Poi accadeva che, di fronte alla fastosità del Petruzzelli e dell’appassionato pubblico, fossero gli stessi artisti a rendersi disponibili per future stagioni liriche e teatrali. Dopo il secondo conflitto mondiale, sarà ancora il binomio Gazzetta-Petruzzelli a cercare di ridare alla Puglia gli stimoli per il ritorno alla vita sociale, a sollecitare e sensibilizzare i pugliesi all’arte, alla cultura, allo spettacolo. E, con i primi segni di ripresa economica, una nuova generazioni di spettatori torna ad affollare, apprezzare e godere del suo Teatro. Gli anni di Carlo Vitale Sarà il Maestro Carlo Vitale, gestore e direttore artistico del Petruzzelli dal 1954 al 1979, a ridare al Teatro barese il prestigio appannatosi negli ‘anni bui’; a mantenere viva la fiammella della passione per il melodramma nella lunga stagione della contestazione e del terrorismo. Il Petruzzelli sarà uno dei pochi teatri meridionali ad essere inserito nel circuito nazionale delle grandi compagnie di rivista, prosa, operetta, dei concerti - indimenticabile quello diretto da Herbert von Karajan il 1° maggio del 1958 - e naturalmente della lirica. Il Petruzzelli tornava così a coprire quel vuoto culturale che, insieme allo spirito d’iniziativa imprenditoriale, dava alla città di Bari, alla Puglia, una visione diversa da quella che solitamente veniva accreditata al Mezzogiorno: terra di emigranti rozzi, pigri, assistiti e poveri d’ingegno. Erano gli anni in cui Bari diveniva la Milano del Sud e la Puglia, con le sue ‘cattedrali nel deserto’, la Lombardia del Meridione. Carlo Vitale lascia la gestione del Petruzzelli per assumere la direzione artistica del Politeama Greco di Lecce e la realizzazione della stagione lirica del 1980 - dal 16 febbraio, 1° aprile - è affidata agli Enti locali, Comune e Provincia, che inaugurano la loro prima e unica stagione con la Norma di Bellini. Una premonizione o pura fatalità? Undici anni dopo, il 17 ottobre del 1991, Ferdinando Pinto inaugura la sua ultima stagione lirica al Petruzzelli con lo stesso capolavoro di Bellini. L’esperimento gestionale degli Enti locali finisce in un diluvio di polemiche e contestazioni e, fra la primavera e l’estate del 1980 gli eredi di Antonio e Onofrio Petruzzelli affidano la gestione del Teatro ad un giovane trentenne, Ferdinando Pinto, appartenente ad una famiglia di distributori di pellicole cinematografiche. Lo scetticismo per aver affidato un compito così impegnativo ad un ‘giovane’, sia pure non privo di qualche esperienza nel mondo dello spettacolo, è appena accennato. Inutile avventurarsi in giudizi affrettati. I pugliesi, i baresi soprattutto, sono persone pratiche… pochi, maledetti e sùbito… è il motto di questa città commerciale e burocratica dove, più e prima delle parole, contano i fatti, le opere concrete. E il giovane Ferdinando Pinto, che non ha preso il treno per il Nord, lo sa perfettamente. Così, prima fa i fatti, le opere; poi comincia ad attrezzarsi per i miracoli.

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L’epopea di Ferdinando Pinto Il primo atto concreto di Pinto è dirompente e straordinario. Annuncia un evento artistico eccezionale. Il Petruzzelli ospiterà il più grande danzatore di tutti i tempi: Rudolph Nureyev. E’ la prima volta in un teatro del Sud. La sera del 6 dicembre 1980 il Petruzzelli offre ai baresi un degno omaggio al suo Santo protettore: un Teatro gremito e sfavillante accoglie il grande ballerino con un’entusiastica ovazione. Nureyev è così colpito dal calore del pubblico che chiederà di tornare a Bari. Tornerà due mesi dopo, nel febbraio del 1981, prima con Carla Fracci, per una memorabile esecuzione di ‘Giselle’, poi, nell’ottobre dello stesso anno, con l’altrettanto mitica Margot Fonteyn. Il ‘gelo’, lo scetticismo del pubblico pugliese nelle capacità organizzative del giovane Ferdinando, è sciolto. A Nureyev seguiranno altri grandi artisti, altri grandi spettacoli, altre grandi stagioni liriche e, all’improvviso, il teatro Petruzzelli non è più ‘un teatro in una città del Meridione’, ma ‘Il Teatro’ di Bari nella industriosa Puglia. Improvvisamente, la stampa specializzata e le cronache teatrali di tutti i quotidiani d’Italia, scoprono che il Petruzzelli è il quarto tempio lirico del Paese, il primo d’Europa per capienza, un centro polivalente di arte e cultura capace di competere con i più grandi teatri del mondo. Dal 1984 tutto ciò che accade sul palcoscenico del Petruzzelli assume una risonanza nazionale. Ma a Pinto non basta e lancia una nuova sfida: se è vero che il Petruzzelli e Bari hanno capacità e potenzialità per organizzare spettacoli di alto livello artistico e culturale, perché non produrli? Detto fatto. Pinto non solo li produce - a cominciare dal meno noto Barbiere di Siviglia del tarantino Giovanni Paisiello alla monumentale Aida portata al Cairo nel 1997 - ma li esporta: in Norvegia, Francia, Russia, Egitto, Spagna, Brasile e perfino in Australia. E, naturalmente, dove arriva il Petruzzelli, arriva Bari e la Puglia, arrivano i critici teatrali della Gazzetta che, pur consapevoli dell’enorme arricchimento culturale che il Teatro consegna alla regione, ai meridionali, non cessano di essere recensori severi, obiettivi e al tempo stesso sostenitori appassionati delle iniziative del Petruzzelli. Le produzioni, l’impegno profuso da tecnici, maestranze e orchestrali, costituiscono un valore aggiunto all’impegno civile e sociale che la Gazzetta svolge, da oltre un secolo, in Puglia e Basilicata. C’è, insomma, fra la Gazzetta e il Petruzzelli, come c’è sempre stato fra il giornale e la Fiera del Levante, un ‘legame’ ideale, un’unità d’intenti, dove ognuno contribuisce, per la propria parte, alla realizzazione di un’opera corale: l’emancipazione socio economica e culturale del Mezzogiorno e della Puglia in particolare. Questo ‘legame’ è così universalmente noto che fin da subito è alla Gazzetta che migliaia di cittadini e associazioni di varie categorie si rivolgono per sapere in che modo è possibile contribuire alla ricostruzione del Petruzzelli. E’ questo ‘legame’ che fa mobilitare sul giornale, critici, storici, sociologi ed esperti, per cercare di capire cos’è accaduto quella disgraziata notte, com’è accaduto, perché è accaduto e cosa si può fare per risanare il corpo martoriato del Petruzzelli. E’ questo ‘legame’ che, alle parole di Pinto… il Petruzzelli continua. Il suo cuore continuerà a pulsare più forte di prima… si aggrappa la ferma, genuina aspirazione della gente, condivisa dalla Gazzetta: restituire il Petruzzelli alla città lì dov’era e com’era. Le indagini Già dal 28 ottobre, la Gazzetta apre la prima pagina del giornale ipotizzando il dolo: Sì, forse il racket è il titolo che campeggia a tutta pagina. Un titolo che il procuratore capo della Repubblica, Michele De Marinis, contesta definendolo… piuttosto impegnativo a poche ore di distanza dal fatto.

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Ma ci sono troppe cose che non quadrano. Innanzi tutto l’estrema violenza dell’incendio: un mozzicone di sigaretta o un corto circuito non avrebbero potuto fare quel disastro in meno di due ore. Poi la telefonata della bomba la sera del 26 e un’altra, ancora di ignoti, alle 11 del mattino del 27 che rivendicavano la paternità dell’incendio. Inoltre, alcune porte frangifuoco sono state trovate aperte; la porta d’uscita degli artisti, in via Cognetti, che il custode Tisci affermava di aver chiuso alle 2,30 del mattino del 27, è stata trovata forzata e aperta. E ancora, ci si chiede: com’è che non ha funzionato né il sistema di allarme né quello antincendio? E soprattutto, come mai Tisci e la sorella, che non solo abitano all’interno del Petruzzelli, ma addirittura sul ballatoio prospiciente il palcoscenico, proprio sul maggior volume di legno di tutto il Teatro, hanno sentito l’odore di bruciato soltanto all’ultimo momento? Il 29 ottobre la Gazzetta insiste: racket o no, il dolo c’è… si tratta di capire chi c’è nel mirino dell’incendiario. Ferdinando Pinto tace. Cos’è allora un ricatto, una dimostrazione di forza contro la città? Ci sono voluti undici anni di indagini e processi per avere qualche risposta. Due arrivano subito: non c’era alcun sistema d’allarme né tantomeno c’era quel sofisticato sistema antincendio ipotizzato il giorno prima. I cronisti della Gazzetta avevano capito male: il sistema antincendio era stato progettato e persino varato già nell’89, ma costava troppo ed era stato accantonato. Si scelse quindi di lasciare gli impianti manuali e di ridurre la capienza del Teatro a poco più di mille posti dei suoi potenziali 3mila. Mentre si avviano indagini e perizie, le Istituzioni, tutte in ordine sparso, cominciano ad assicurare interventi, contributi e finanziamenti. Erano gli stessi Enti locali che fino il giorno prima li avevano negati. Non ne avevano. Regione, Comune e Provincia navigavano in un mare di debiti. Persino il Ministro per il Mezzogiorno dirà al Presidente della Giunta regionale… forse possiamo attivare l’Intervento Straordinario, vedremo. Era meno di una promessa. Il ministro Calogero Mannino sapeva bene che nelle casse dell’Intervento Straordinario non c’era una lira. Da mesi chiedeva il rifinanziamento della Legge 64 senza ottenerlo, figuriamoci se poteva distrarre fondi per la ricostruzione del Petruzzelli. Al Ministro, poi, sfuggiva un particolare essenziale: il Teatro era ed è proprietà privata. La pioggia di iniziative e dichiarazioni – scrive la Gazzetta il 30 ottobre – è tale da riempire il cuore di gioia… ma il timore è di trovarsi di fronte ad una risposta emotiva, confortante nella sua coralità, ma sostanzialmente scoordinata, superficiale e, in ultima analisi, fine a se stessa… i problemi da affrontare sono ardui e complessi. Lo sarebbero anche nell’ipotetico caso il denaro necessario fosse già disponibile… ma se a tali difficoltà se ne dovessero aggiungere altre, determinate da azioni politiche o peggio, monopolizzate da questo o quel partito per accreditarsi il merito dell’opera di ripristino, Bari potrebbe essere certa di essersi guadagnato… un altro Margherita, da decenni abbandonato alla fatiscenza e al degrado delle amministrazioni comunali. Dunque, i timori espressi dalla Gazzetta già nell’ottobre del 1991, si sono puntualmente concretati. Infatti, i primi ad esprimere riserve sulla ‘folla’ di interventi e proposte di finanziamenti, sono i proprietari del Petruzzelli… il Teatro è assicurato. Tutto ciò che avremo dall’assicurazione sarà immediatamente impegnato per la ricostruzione. Qualora la somma non bastasse chiederemo un anticipo alla città con il preciso impegno di restituire quanto ci verrà dato. Il Teatro è nostro, è a noi che l’assicurazione riconosce il risarcimento anche se l’onere della polizza era a carico del Gestore. Spetta a noi ricostruirlo e quindi non riusciamo a capire perché eventuali contributi debbano essere destinati al Gestore e non ai proprietari. Perché - sostiene Ferdinando Pinto - qualora l’assicurazione fosse stata inadempiente, io ero obbligato, per contratto, a ripristinare il teatro danneggiato.

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Teatro pubblico o privato? Comincia la grande querelle: c’è o non c’è nel complesso dell’opera una parte pubblica e una privata? E se c’è, qual è il rapporto? Questo è il nodo che bisogna sciogliere… e comunque suggerisce la segreteria provinciale di Rifondazione Comunista - va chiesta la disposizione immediata di vincolo da parte della Soprintendenza dei Beni Culturali. Il rapporto di ‘dipendenza’ fra le parti c’è. E’ inserito nell’articolo 5 del contratto di cessione del suolo redatto presso il Comune di Bari, il 29 gennaio 1896, dove si legge: nel caso che l’edificio crollasse per terremoto, per incendio o per qualsiasi altra causa, il concessionario ed i suoi aventi causa avranno il diritto di rimettere il Teatro nello stato primitivo purché i lavori siano intrapresi fra un anno e siano completati fra tre anni a contare dal giorno in cui il crollamento sia avvenuto. Diversamente, il suolo dovrà essere restituito al Comune. Ma la maggior parte dei cittadini, associazioni, aziende, Enti pubblici e privati vanno oltre la questione di merito: il Petruzzelli, sostengono, appartiene al patrimonio storico-culturale della città e noi vogliamo fare tutto il possibile per ridarlo alla città in tempi brevi. La cosa assurda è che anche chi avrebbe dovuto agire con maggior cautela, come Enti pubblici, istituti di credito e associazioni imprenditoriali, sposano la stessa logica popolare aprendo sottoscrizioni e conti correnti bancari. Si è nel bel mezzo di questa immensa gara di solidarietà, quando arriva la prima doccia fredda: la polizza assicurativa del Teatro non è totale. E’ una polizza obbligatoria, comune a tutti i teatri, e copre un danno non superiore ai quattro miliardi e mezzo. Questa autentica ‘miseria’, per un danno già sommariamente valutato in 40-45 miliardi, è un colpo tremendo ai propositi di ricostruzione dei proprietari. A soli 4 giorni dal disastro, il cielo sopra al Petruzzelli è passato dal rosso dell’incendio alle speranze rosee di un sollecito intervento, al pessimismo più nero. Dove, e soprattutto come, reperire quell’enorme somma? Peggio, alle notizie provenienti dalla Società assicuratrice si aggiungono ‘strane voci’ sul conto di Ferdinando Pinto che, in una lettera alla Gazzetta, il primo novembre afferma… checché sia stato detto o riferito, non ho la più lontana idea sul perché o su chi possa aver causato il disastro o avervi avuto interesse… in quanto ai debiti non ho motivo di nascondere che, grazie anche all’assoluto disinteresse degli enti locali, essi erano arrivati a 5 miliardi consolidati, con rimborso a medio termine… altri debiti, l’Ente Teatro Petruzzelli ed io, non abbiamo. Secondo gli inquirenti non era vero. Nel corso delle successive indagini avrebbero accertato che la situazione debitoria di Pinto era disastrosa… egli aveva accumulato debiti per oltre 9 miliardi sia con istituti di credito sia con usurai. Nel frattempo, anche i rapporti fra Pinto e i Messeni Nemagna, si complicano… ci sembra doveroso – scrive la Gazzetta il 2 novembre – distinguere, la pur rilevante vicenda privata fra gestore e proprietà, dai problemi che, attraverso la distruzione del Teatro, investono la città nel suo complesso: sopravvivenza del Petruzzelli quale entità produttrice di cultura; restituzione alla cittadinanza della sua sede storica ricostruendo tutto quanto è andato distrutto. Una Fondazione? Con questo spirito, e continuamente sollecitati da una valanga di lettere e testimonianze, si fa strada, al giornale, l’idea di costituire una Fondazione, un Ente morale e di grande visibilità amministrativa. Il primo a parlarne pubblicamente è l’editorialista della Gazzetta, Giuseppe De Tomaso, in un’intervista al ministro delle Finanze, Rino Formica, il 3 novembre… i baresi devono dare una 82 prova d’orgoglio – sostiene Formica – il Petruzzelli era il simbolo dell’autonomia, dell’autosuf-


ficienza e della laboriosità dei baresi. E tale deve rimanere. Io darò un mese del mio stipendio per la ricostruzione. Ognuno faccia quello che deve fare, poi vedremo la formula. Bisogna coinvolgere tutti, a cominciare dai proprietari. Che ne dice allora di una Fondazione, chiede De Tomaso al Ministro… è un’idea assai rispettabile, da perseguire. Una Fondazione per il Teatro sarebbe utile… potrebbe comprendere non solo il Petruzzelli, ma anche più attività culturali. Ci sono risorse che possono essere destinati ad una forte ripresa dell’iniziativa culturale di Bari. Io sono pronto a sostenere questo diritto… la ferita perpetrata alla città dev’essere rimarginata. I baresi devono ricostruire il loro Teatro e devono farlo nel tempo massimo utilizzato per costruire lo stadio di San Nicola. Si trovi un compromesso, subito, con i proprietari e si agisca. Il giorno dopo, la Gazzetta, riprende l’intervista al ministro Formica e scrive: l’idea di una Fondazione che incontra l’approvazione del Ministro delle Finanze non è poco. E’ un’idea su cui riflettere approfonditamente sùbito e da valutare, ovviamente, nel rispetto di tutti i legittimi interessi pubblici e privati. Ma bisogna ‘restare uniti’: l’impresa è dura e difficile, non consente indulgenze ai velleitarismi, all’acquisizione di ‘meriti politici’, ai pettegolezzi. Il 9 novembre, mentre il procuratore della Repubblica, Michele De Marinis, riferisce che… dalle prime indagini possiamo dedurre che la natura dell’incendio è ‘verosimilmente’ dolosa… la Gazzetta annuncia la costituzione di un Comitato promotore per dar vita ad una ‘Fondazione per la ricostruzione del Teatro Petruzzelli’… il Comitato apre la raccolta di fondi presso la Gazzetta e si fa garante dell’impiego degli stessi per la ricostruzione del Teatro. Ma neppure Pinto se n’è stato con le mani in mano. Ha chiesto e ottenuto dal Comune la disponibilità del Teatro Piccinni per la prosecuzione della stagione lirica e ha preso contatti con

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le Forze Armate e con Divier Togni per utilizzare il ‘Teatro tenda’ del loro circo da installare, provvisoriamente, nella Caserma Rossani. E’ il progetto ‘Città di Federico’ che Pinto riuscirà ad affossare facendovi costruire, intorno alla tenda, opere murarie abusive. Intanto, a quattro giorni dalla semplice proposta di costituire una Fondazione, si comincia a lapidarla. La prima pietra la lancia Massimo D’Alema giunto a Bari per una riunione del Comitato provinciale… è comprensibile che le forze economiche e finanziarie si mobilitano per ricostruire il Petruzzelli - sostiene l’ormai numero 2 del neonato PDS al cronista Gianfranco Summo – ma è necessario capire cosa sarà questa Fondazione, quali forze dovrebbe rappresentare, in quali rapporti dovrebbe essere con chi ha gestito il Teatro fino ad oggi. Trovo un tantino curioso che si raccolgono fondi senza sapere bene a chi devono essere dati e per fare che cosa… il Teatro ha ancora dei proprietari e bisogna chiarire il rapporto tra intervento pubblico e privato, e la proprietà. Poi, con una punta di malignità, aggiunge… so bene che esiste un comitato d’affari in questa città, e magari ce ne sarà più d’uno, un gruppo inter partitico che fu protagonista, negli anni Ottanta, di grandi scandali alla Provincia e alla Regione. E’ evidente che l’on. D’Alema - scrive la Gazzetta - non ha avuto il tempo di seguire la vicenda di cui parla e di bene informarsi prima di parlare. La Fondazione non rappresenterà ‘forze’ di alcun genere; rapporti con l’attuale gestore semplicemente non esistono ed è chiaro che la definizione dei rapporti con i proprietari è fondamentale ai fini del conseguimento dello scopo che la Fondazione si propone. Contrariamente il denaro versato sarà restituito. Ma il sasso è stato lanciato e la ‘caccia’ contro il Comitato promotore per la Fondazione, è aperta. Improvvisamente, anche quotidiani nazionali, come La Stampa e il Corriere della Sera, solitamente cauti nell’esprimere giudizi, arrivano perfino ad ipotizzare un ‘keynesismo mafioso’ dove si teorizza l’esistenza di ‘gruppi affaristici’ dediti alla distruzione al solo scopo di accaparrarsi appalti per lucrare sulla ricostruzione… follie cui si aggiungono – scrive il Direttore della Gazzetta – le solite chiacchiere e pettegolezzi nostrani, invidie senza senso che alimentano il minestrone dei soliti disfattisti… c’è un solo modo di commentare queste speculazioni: vergogna. Morale, il 23 dicembre, il Comitato promotore della Fondazione, si scioglie… gli eredi del Petruzzelli, la famiglia Messeni Nemagna, hanno rifiutato di cedere per 20 miliardi i loro diritti sul suolo comunale – scrive la Gazzetta – in queste condizioni la costituzione di una Fondazione diventa inutile. Intanto il sindaco Enrico Dalfino si è dimesso e quel contributo di un miliardo, deliberato a caldo dalla sua Giunta per i primi interventi, è sfumato: il Consiglio comunale non si è più riunito per approvarlo. E il Teatro? Resta un catino a cielo aperto esposto alle intemperie. Ora tutto si sposta sul piano investigativo, amministrativo e giudiziario. Nasce l’Ente artistico Teatro di Bari Il 14 gennaio 1992 il sindaco di Bari, Daniela Mazzucca, appena eletta affronta la questione del Petruzzelli… abbiamo il più profondo rispetto per il lavoro dei Magistrati e delle Forze dell’Ordine, ma avvertiamo il dovere di segnalare che se da un lato la nostra città ha bisogno di riprendersi dal duro colpo subito, dall’altro occorre che si conoscano subito autori, mandanti e motivazioni… intendo riaffermare - prosegue il Sindaco - che la questione del Petruzzelli e della sua rinascita non è ne potrà essere un ‘affare di famiglia’, ma è un’inderogabile esigenza della città di Bari, dell’universo culturale, ma anche della coscienza democratica e della volontà del popolo di Bari, di reagire ad ogni ulteriore tentativo di imbarbarimento della vita della città. Belle parole, ma di contributi, del ‘vil denaro’, alla cultura in generale e al Petruzzelli in par84 ticolare, non se ne parla neppure. Anzi, quelli maturati nel 1991, sono marciti sull’albero delle


promesse, sono cioè irrimediabilmente persi. Il 21 marzo 1992, il sostituto procuratore di Bari, Vincenzo Maria Bisceglia, compie il primo atto liberatorio: ordina il dissequestro del Petruzzelli. Il lavoro dei periti è finito. Ma resta un problema. A chi va restituito il Teatro? Al gestore o ai proprietari? Il nodo è sciolto il 7 maggio. A seguito di un provvedimento d’urgenza chiesto dagli Eredi del Petruzzelli, il Giudice civile del Tribunale di Bari ordina a Ferdinando Pinto di riconsegnare immediatamente il Teatro alla famiglia Messeni Nemagna ritenendo che esistano i presupposti per la risoluzione anticipata del contratto di gestione, scadente il 3 ottobre 1993, e vieta a Pinto di fare uso del marchio ‘Teatro Petruzzelli’. Nel frattempo, il 24 aprile i quattro esperti incaricati di stabilire le cause dell’incendio, avevano consegnato i risultati della perizia: l’incendio è doloso. E’ stato portato a termine da specialisti con fini di totale distruzione poiché la tecnica e la qualità di combustibile usato sarebbero stati tali da travolgere anche il più moderno e attrezzato sistema di sicurezza. Anche gli Eredi hanno fatto effettuare una perizia tecnica per una valutazione dei danni: sono quantificabili in 60 miliardi. Dunque ora resta da sapere chi ha incendiato il Petruzzelli e perché. Ma sul fronte delle indagini regna la calma piatta. Non c’è un indizio, un sospetto. Gli inquirenti navigano in un buio così fitto che il 21 aprile 1993 il giudice Pietro Sabatelli, su richiesta del Procuratore Capo, ordina l’archiviazione dell’inchiesta penale per incendio doloso perché gli autori sono rimasti ignoti. Apparentemente indifferente alle indagini, alle conseguenze e alla sorte del Petruzzelli, Ferdinando Pinto va avanti con i suoi progetti. Intraprendenza e spirito d’iniziativa non gli fanno certo difetto. Ma la sorte non gli è più amica e la ruota ha preso a girare in senso inverso per lui. E non solo per lui. E’ esplosa Tangentopoli. Il ‘pool’ di Mani Pulite della Procura di Milano ha contagiato di una febbre giustizialista tutte le procure del Paese e quando arriva in Puglia, circa un anno dopo la prima inchiesta milanese, Pinto, insieme ad altri, è lì pronto a fare da bersaglio. La città di Federico Appena due settimane dopo il divieto di fare uso del marchio ‘Teatro Petruzzelli’, Pinto ha già fondato l’Ente Artistico Teatro di Bari allo scopo di gestire la stagione teatrale, in programma per l’autunno-inverno 1992/93, nel nascente Teatro tenda ‘Città di Federico’ che si sta allestendo nella Caserma Rossani. L’appuntamento per la ripresa delle attività professionali e artistiche del nuovo Ente, è per il 15 dicembre 1992. La ‘Città di Federico’, si annuncia, sarà inaugurata dall’avvenimento teatrale più importante degli ultimi tempi. Il grande Vittorio Gassman presenterà ‘Ulisse e la balena bianca’ un lavoro ciclopico che si avvale dell’allestimento scenico dell’architetto Renzo Piano. Segue, poi, un lungo elenco di spettacoli - danza, musica, varietà e prosa - con testi di Goldoni, Oscar Wilde e Bertold Brecht in una struttura considerata una vera e propria cittadella dello spettacolo dove l’unica cosa mobile è la grande tenda capace di 2.200 posti. Il resto, cioè bar, botteghe, un piccolo teatro all’aperto, una sala per il teatro sperimentale e per il cinema, camerini, servizi, un teatro delle marionette, una serie di box, strade e parcheggi sono tutte opere fisse, realizzate in muratura. L’annuncio del programma di attività dell’Ente Artistico Teatro di Bari e di quanto Pinto va realizzando nella Caserma Rossani, è dato il 26 ottobre, alla vigilia del primo anniversario dell’incendio del Petruzzelli… una delittuosa tragedia - scrive la Gazzetta - che da alveo di comune ansia di verità è diventato uno fra i tanti vasi di Pandora che avvelenano il Mezzogiorno… abbiamo seguito gli sviluppi della vicenda, ma abbiamo rifiutato, e rifiutiamo, di lasciarci coin-

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volgere, e di coinvolgere il pubblico, nei ‘minestroni’ periodicamente riscaldati, di chiacchiere, fatti scontati, supposizioni, invenzioni di complotti, fantasmagorie di oscure lotte, ad uso degli incolti e non incliti pettegolezzi da caffè. Non sappiamo chi ha incendiato il Teatro. Ma crediamo di sapere che tutta la storia dei cinque, dieci, venti punti di fuoco individuati dai periti non esiste: fu semplicemente gettata benzina in platea e furono appiccate le fiamme. Il 30 luglio 1992, intanto, il Soprintendente ai Beni Culturali - che ha il Petruzzelli in tutela fin dal 12 gennaio 1951 quale bene architettonico, storico e artistico - notifica agli eredi Messeni Nemagna un’ordinanza di avvio dei lavori di restauro e completamento, fino alla ricostituzione e alla funzionalità del Teatro, entro i tre anni prescritti dal contratto originale. Cioè, dall’8 agosto 1992 al 7 agosto 1995. Naturalmente, i Messeni Nemagna possono sempre impugnare l’ordinanza della Soprintendenza… ma qualora i lavori prescritti - si legge nella notifica - non saranno iniziati e condotti a termine entro i termini stabiliti, la Soprintendenza provvederà all’esecuzione degli stessi in sostituzione, con l’obbligo da parte della proprietà di rimborsare allo Stato le spese sostenute per la conservazione dell’immobile. Questo è un giorno storico per la città di Bari - aggiunge euforico il Soprintendente, architetto Roberto Di Paola - perché si da avvio alla ricostruzione del Petruzzelli. Pochi, anzi nessuno comprende la dichiarazione e l’entusiasmo del Soprintendente. Forse egli pensava ai 29 miliardi, stanziati con un decreto del ministro Formica nel febbraio precedente. Ma il finanziamento veniva concesso al Comune di Bari che avrebbe fatto da tramite, con la Proprietà, per la ricostruzione del Teatro. Un’operazione complessa che non si presentava semplice, senza contare gli intoppi che avrebbe potuto avere il decreto ministeriale prima di diventare legge. Intanto i lavori non iniziano ed è perciò pacifico che i Messeni Nemagna abbiano impugnato l’ordinanza del Soprintendente. Ma torniamo alla ‘Città di Federico’. Due settimane dopo la pubblicazione dell’ampio programma di spettacoli del nuovo Ente teatrale, Ferdinando Pinto torna in scena con una lunga lettera apparsa sulla Gazzetta del 12 novembre 1992. Oggi - scrive Pinto - l’Ente Artistico Teatro di Bari inaugura al teatro Piccinni la stagione lirica ’92… mantenendo così l’impegno assunto all’indomani dell’incendio del Petruzzelli. Poi, senza apparente motivo, Pinto passa dall’orgoglio per aver mantenuto l’impegno, ad una serie di amare considerazioni… mentre sta per alzarsi il sipario – scrive infatti Pinto – sento il bisogno di esprimere il mio disappunto per le controversie e le difficoltà che hanno puntualmente ostacolato il nostro lavoro… chiedere uno spazio dove rappresentare manifestazioni artistiche attese dagli spettatori e che appartengono alla tradizione della città, 86 così come investire le proprie risorse per allestire un teatro - la ‘Città di Federico’ - da mettere


a disposizione della comunità, rischiano di essere considerati atti inconsulti, da frenare ad ogni costo… non so cosa stia accadendo a Bari in questo ultimo periodo - continua Pinto - non c’è comunque da stare sereni e senza dubbio occorre vigilare con molta attenzione. Più che deluso e amareggiato sono preoccupato per l’impressionante caduta di valori che si sta verificando nella realtà che ci circonda… è sotto gli occhi di tutti il degrado in cui la città sta precipitando e tale processo di imbarbarimento, che ormai avanza a lunghi passi, potrebbe soffocare i sentimenti migliori e più sani che pur sopravvivono in tantissime persone. Tutto vero, sacrosanto. Siamo in piena Tangentopoli. Ma Pinto non ha alcun motivo per essere così amareggiato. Nel giro di un anno ha fondato un nuovo Ente teatrale, ha quasi finito di allestire, nella Caserma Rossani, una piccola cittadella dello spettacolo, ha programmato una grande stagione di prosa, musica e danza, è riuscito a mettere in piedi la stagione lirica al Piccinni ottenendo perfino un contributo di 3 miliardi dal Ministero dello Spettacolo stanziati a favore del Petruzzelli e trasferiti… fortunosamente fra non pochi intoppi burocratici e amministrativi - scrive la Gazzetta - al suo Ente. Pinto, insomma, si conferma imprenditore capace e di successo. Invece, alla fine della sua lettera, annuncia perfino le dimissioni quale Presidente dell’Ente artistico Teatro di Bari. Perché? Perché tanto pessimismo? Perché, verosimilmente, Pinto sa quello che sta per piovergli addosso. Tangentopoli Il 13 novembre, appena 24 ore dopo la lettera di Pinto alla Gazzetta, il giudice Giandonato Napoletano autorizza la famiglia Messeni Nemagna a procedere al sequestro cautelativo dei beni mobili ed immobili di Ferdinando Pinto fino al raggiungimento dell’importo di 25 miliardi. Il 16 novembre, il sostituto procuratore della Repubblica, Giovanni Colangelo, ordina il sequestro della ‘Città di Federico’ e firma 42 informazioni di garanzia con le ipotesi di reato per violazione edilizia, abuso d’ufficio e falso… la realizzazione della ‘Città di Federico’ - sostiene il procuratore capo Michele De Marinis - è frutto di una serie continuata di atteggiamenti illegittimi e di atti illeciti. Il 19 novembre la famiglia Messeni Nemagna torna dal Giudice per impedire a Pinto di ottenere la sovvenzione dei tre miliardi destinati al Petruzzelli e trasferiti al suo nuovo Ente, perché solo il Petruzzelli è considerato ‘Teatro di tradizione’ e quindi legittimato al finanziamento. La richiesta è accolta con sentenza del 19 maggio 1993 e il Giudice, oltre a ritenere il contributo illecito… fa divieto all’Ente artistico Teatro di Bari di esercitare ogni attività diretta a ingenerare confusione circa la titolarità delle prerogative del Petruzzelli. Cioè lo svolgimento annuale della stagione lirica. Infine, il 23 novembre, sempre in relazione al sequestro della ‘Città di Federico’, l’assessore all’urbanistica Mimmo Magistro e il geometra Michelangelo Spilotros del Comune di Bari, sono arrestati per abuso d’ufficio, sospesi dalle loro cariche e posti agli arresti domiciliari. Magistro e Spilotros torneranno liberi l’11 dicembre, ma per la giunta di Daniela Mazzucca, che già da tempo si trascina stancamente, è la fine. Ma c’è di peggio. C’è l’addio definitivo alle prospettive di una sollecita ricostruzione del Petruzzelli. Il 2 dicembre 1992 la Corte dei Conti boccia il decreto Formica perché… il finanziamento, finalizzato alla ricostruzione del teatro Petruzzelli, si risolve, tranne per i profili di carattere sociale e culturale, in esclusivo vantaggio dei proprietari che, com’è noto, sono soggetti privati. Amen. Bye-bye Petruzzelli.

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1993: anno nuovo intoppi vecchi Qualche mese dopo, addio anche alla ‘Città di Federico’: il Comune delibera l’abbattimento delle opere abusive e lo smantellamento del ‘teatro tenda’. Così, l’ultimo sogno di Pinto è svanito. Ma Ferdinando Pinto non demorde e, negli stessi giorni, si offre di acquistare il Teatro distrutto… nelle condizioni di fatto in cui versa. Gli Eredi non solo rifiutano l’offerta ma, ancora una volta, lo chiamano in Tribunale per il risarcimento dei danni. Il 9 giugno 1993 la famiglia Messeni Nemagna invia al Comune di Bari e alla Soprintendenza ai beni culturali il progetto per il consolidamento, restauro e parziale ricostruzione del Petruzzelli. Il giorno dopo, il giudice Alberto Maritati, componente la Direzione Nazionale Antimafia, viene inviato a Bari con l’incarico di affiancare i colleghi Carlo Maria Capristo e Giuseppe Chieco alla Direzione Distrettuale Antimafia. La prima cosa che Maritati chiede al procuratore capo De Marinis è il fascicolo sul Petruzzelli. Il 12 giugno l’inchiesta è ufficialmente riaperta e affidata ai giudici Capristo e Chieco. Quest’ultimo, chiamato ad altro incarico, sarà successivamente sostituito dai giudici Francesco Giannella e Leonardo Rinella. Per capire fino a che punto il ‘condizionatore’ messo in moto da Mani Pulite abbia cambiato l’aria nelle Procure di tutto il Paese, basta sfogliare le collezioni dei quotidiani del ’92 e ’93. Quanto e fino a che punto l’aria alla Procura di Bari fosse stagnante, lo rivela lo stesso Maritati, il 9 aprile del 1998, al capo cronista della Gazzetta, Domenico Castellaneta… quando esercitai l’impulso teso a sviluppare le indagini sul Petruzzelli e portai i risultati dei colloqui investigatitivi con un pentito – afferma Maritati – pochi giorni dopo il Procuratore capo della Repubblica dell’epoca si presentò davanti al Gip e chiese l’archiviazione. Ma era il dr. De Marinis, dirà Castellaneta… esatto, e non è male ricordarlo - prosegue Maritati - la svolta nella giustizia barese la si deve a un Tribunale indipendente e coraggioso come quello istituito dall’Antimafia. A mio avviso il pentito era attendibile. La Procura nazionale antimafia diede elementi fondamentali alla Procura della Repubblica di Bari, ma le indagini stentarono a partire, la dirigenza dell’epoca non intese seguire quelle indicazioni perché in loco l’istituzione-giustizia era fortemente compromessa. Dunque Maritati aveva informazioni circostanziate sull’incendio già prima che De Marinis chiedesse l’archiviazione dell’inchiesta. Ma chi è il ‘pentito’ menzionato da Maritati? Il ‘boss’ dagli occhi di ghiaccio Si chiama Salvatore Annacondia, 34 anni, di Trani, ed è il capo indiscusso della comunità malavitosa del Nord barese dal 1983… gli ordini li davo io - dirà ai Giudici - al massimo accettavo qualche consiglio. Ma l’ultima parola spettava a me. Annacondia, che si fa notare per una menomazione alla mano destra e per l’intenso splendore degli occhi blu mare, gestisce il traffico degli stupefacenti che, proveniente dalla Calabria, smercia nel Nord barese e in Lombardia. E’ un boss spietato che non accetta concorrenza. Chiunque tenti di interferire nei suoi traffici viene semplicemente eliminato. E’ quanto accade a Nicola Corda ucciso, nell’agosto del 1991, in un bar del borgo antico a Trani. Questa volta però Annacondia ha commesso un delitto di troppo. La vedova di Corda non accetta la consegna del silenzio e, qualche giorno dopo l’omicidio del marito, si presenta dai Carabinieri, denuncia Annacondia quale mandante e rivela una tale serie di informazioni sulla sua organizzazione malavitosa che il 4 ottobre del 1991 il ‘boss’ di Trani è arrestato. Annacondia però è allergico al carcere. Le accuse della vedova Corda sono numerose e schiac88 cianti, rischia lunghi anni di detenzione. Perciò, dietro la promessa della libertà e protezione per


Liza Minnelli al Teatroteam il 9 novembre 1991 porta in scena lo spettacolo che doveva tenere al Petruzzelli

lui e per la sua famiglia, Annacondia decide di collaborare con la giustizia. Comincia a cantare. E canta più e meglio di un canarino. Si auto accusa di decine di delitti, molti dei quali, particolarmente efferati e cruenti, erano stati classificati di ‘lupara bianca’- gente che era semplicemente svanita nel nulla - e quando alla fine decide di parlare anche del Petruzzelli, ha già contribuito allo smantellamento di diverse organizzazioni criminose e consentito l’arresto di 200 malavitosi fra Milano, Taranto e Lecce. Annacondia racconta ai Magistrati della Direzione Nazionale Antimafia di aver saputo dell’incendio del Petruzzelli direttamente da Savino Parisi e Antonio Capriati fra l’ottobre e il dicembre del 1992 durante un periodo di detenzione comune nel carcere di Trani. Ma prima di iniziare, Annacondia premette: dottore, deve pensare che il Petruzzelli scotta moltissimo. Parlando del Petruzzelli una persona può dire, io mi sto condannando a morte. E tuttavia parla. Cosa dissero dunque, Capriati e Parisi, al ‘boss’ tranese dagli occhi blu? In sintesi dissero: Ferdinando Pinto era oberato di debiti sia con gli istituti di credito che con loro stessi che gli avrebbero fatto un prestito di 800 milioni consegnati dal loro cassiere e riciclatore Vito Martiradonna. Per venirne fuori, Pinto avrebbe concordato col Martiradonna - che avrebbe provveduto ad ingaggiare la manovalanza necessaria - un ‘limitato’ incendio del Teatro allo scopo di incassare sia i soldi dell’assicurazione che eventuali contributi pubblici per la riparazione dei danni e la rimessa in funzione del Petruzzelli. Sfortunatamente gli incendiari fecero un disastro e quindi i piani di Pinto andarono in fumo insieme al Teatro. Entra in scena l’Antimafia La sera del 7 luglio 1993, gli inquirenti della Direzione Nazionale e Distrettuale dell’Antimafia sottopongono l’impianto accusatorio, siglato addirittura dal Capo dell’Antimafia, Bruno Siclari, al Gip Pietro Sabatelli che firma gli ordini di custodia cautelare per Ferdinando

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Il gestore del Petruzzelli, Ferdinando Pinto all’uscita dal carcere di Turi il 24 luglio 1993.

Pinto, Giuseppe Tisci, Vito Martiradonna, Savino Parisi, e Antonio Capriati. L’accusa è incendio doloso e associazione a delinquere di stampo mafioso. Pinto e Tisci vengono arrestati la notte fra il 7 e l’8 luglio; Parisi e Capriati ricevono l’ordine in carcere; Vito Martiradonna si rende latitante. Il mattino dell’8 luglio, quasi a sottolineare l’importanza dell’operazione, sarà lo stesso Capo della DNA, Bruno Siclari, ad aprire a Bari la conferenza stampa… per la prima volta si è arrivati ad accertare delle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale barese… non è una consolazione essere arrivati a scoprire le cause e gli autori dell’incendio del Petruzzelli… Bari è una città particolarmente difficile che ha raggiunto livelli criminali preoccupanti, ma la magistratura inquirente sta ottenendo successi. L’impianto accusatorio dei Magistrati è, parola più, parola meno, l’esatta versione dei fatti riferiti da Annacondia. Vi hanno solamente aggiunto il custode Tisci che, secondo i giudici, avrebbe avuto il ruolo del basista. All’ipotesi di un più ampio quadro criminoso… un piano concordato tra la malavita organizzata e una classe imprenditoriale-affaristica che avrebbe lucrato sui futuri contributi per la ricostruzione… la mala locale avrebbe avuto in cambio vantaggi giudiziari. Ma la Gazzetta non ci crede. Non vuole crederci e, sotto il titolo Sconvolgente scrive: Ieri alla notizia dell’arresto - si poteva restare interdetti. Oggi - dopo la conferenza stampa - si resta sgomenti. Il complesso accusatorio costruito sulla base delle dichiarazioni di un pentito delinea una vicenda moralmente traumatizzante… c’è da rimanere attoniti. Che dietro alla vicenda del Petruzzelli ci fosse il racket, siamo stati noi a dirlo per primi. Abbiamo anche sostenuto l’ipotesi dell’avviso malavitoso a fronte di debiti non pagati e che Pinto non poteva ‘confessare’ temendo per l’incolumità sua e dei famigliari… ma non avevamo mai osato supporre, e tuttora stentiamo a credere, che Ferdinando Pinto potesse essere addirittura partecipe di impresa tanto criminosa. Forse le accuse tendono solo a farlo ‘parlare’. Pinto potrebbe essere imputato di 90 favoreggiamento… sarebbe colpevole di imperdonabile leggerezza, di inammissibile temerarietà


per aver accettato certi finanziamenti, ma non dell’assassinio di quella che, ferma restando la proprietà degli Eredi, considera ormai come sua prediletta creatura. Quindici giorni dopo, nuovo colpo di scena. Il 23 luglio, i Giudici del Tribunale della libertà annullano le cinque ordinanze di custodia cautelare e ordinano l’immediata scarcerazione di Pinto - che è rinchiuso nel carcere di Turi - e del custode Giuseppe Tisci… le accuse risultano destituite di credibilità. Il mistero è ora più fitto di prima - commenta la Gazzetta - la storia che era già brutta, diventa paurosa. La verità deve essere ricostruita pezzo per pezzo. Non si possono enunciare teoremi se non si è in grado di dimostrarli con matematica certezza specie quando è in gioco la libertà fisica del cittadino. Il 24 luglio 1993, il capo cronista della Gazzetta, Dionisio Ciccarese, intervista Pinto… certo che di cose se ne sono dette sul suo conto. Legato alla mala, protetto dai politici, garante di coperture giudiziarie, rappresentante di comitati politico-affaristici che volevano impossessarsi del Teatro. Insomma, sono tutte menzogne? E’ il classico pattume confezionato ad arte - risponde Pinto - in questa vicenda si narra la storia di una persona onesta che vede un passaggio a livello aperto, passa e gli piomba addosso un carico di immondizia. Qualche giorno dopo, il cronista della Gazzetta, Carlo Stragapede, gli chiede dei debiti… è vero - dirà Pinto - l’Ente artistico Teatro Petruzzelli aveva accumulato sette miliardi e mezzo di debiti perché erano venuti meno i contributi degli anni ’89 e ’90, ma non ho mai avuto debiti personali con nessuno. I Giudici della DDA però, non si arrendono. Ricorrono in appello e il 28 ottobre 1993, la Cassazione conferma l’annullamento delle ordinanze… non esistono gravi indizi per le accuse mosse… i pentiti sono persone che non hanno una patente assoluta di credibilità. Nonostante questa doppia smentita, gli inquirenti vanno avanti, alla ricerca di nuove prove, soprattutto degli incendiari. Nello stesso mese di ottobre, intanto, la famiglia Messeni Nemagna dà inizio ai lavori di presidio e consolidamento statico del Petruzzelli. Il 7 novembre 1993, Vito Martiradonna, presunto cassiere dei clan Capriati e Parisi, nonché presunto regista del rogo del Teatro, è arrestato mentre pranza, tranquillamente, con alcuni amici, in un ristorante di Trani. Il Martiradonna era stato colpito da un nuovo ordine di custodia cautelare con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. A dicembre inizia la causa civile intentata dagli Eredi del Petruzzelli contro Pinto per il risarcimento dei danni. 1994: le fiaccolate Il 6 ottobre 1994 i Giudici della seconda sezione civile del Tribunale di Bari condannano Ferdinando Pinto al pagamento di 57 miliardi di lire… perché nella perizia penale - si legge nella sentenza dell’8 ottobre - risulta che l’incendio, ancorché di origine sicuramente doloso, fu agevolato, direttamente o indirettamente, nel suo sviluppo e nella sua propagazione, da una serie impressionante di carenze e inadempienze del Gestore concernenti le misure di prevenzione e protezione contro gli incendi. Me l’aspettavo - commenta Pinto - del Petruzzelli si parla sempre guardando indietro, sempre in termini di contenziosi legali, di tribunali, e mai in termini di vita futura, di prospettive. La vicenda si sta trasformando in una telenovela che sta perdendo interesse presso la gente. Non era vero. A tre anni dall’incendio, quell’enorme buco nero al centro del ‘Teatro Rosso’, costituiva ancora una ferita aperta e purulenta nella carne dei baresi. Anzi, con l’infuriare di

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Tangentopoli, la vicenda del Petruzzelli diventa una specie di clava strumentale nelle mani di politicanti e amministratori che se ne servono per accelerare crisi di giunte, sempre instabili, con avvicendamenti che si susseguono al ritmo di una ogni nove, dieci mesi. A loro, ai politici locali, si aggiungono decine di organizzazioni culturali - pilotate e non - che con fiaccolate, dimostrazioni, tavole rotonde, dibattiti, comunicati e lettere, fanno in modo che giornali e Istituzioni continuino a tenere desta l’attenzione pubblica. Tant’è che, nell’estate del 1994, il Governo presieduto da Silvio Berlusconi si fa carico del sentimento popolare e delibera un finanziamento di 4 miliardi per la ricostruzione della cupola del Teatro. Ma, imperante Tangentopoli, è posta la condizione che i lavori abbiano termine entro il 30 settembre del 1997 pena la perdita del finanziamento. Infine, i giudici dell’Antimafia non mollano: il 6 ottobre del ’94 riescono a identificare i presunti incendiari. 1995: i ‘fuochisti’ Qui è opportuno un passo indietro. Verso la metà degli anni Ottanta, commercianti e piccoli imprenditori meridionali, cominciano a subire una dura offensiva da parte del racket delle estorsioni. L’equazione è semplice: a chi rifiuta di pagare il ‘pizzo’ il meno che possa capitare è l’incendio del proprio esercizio. Di solito il primo ‘avviso’ è sufficiente. Altrimenti si ricorre a mezzi coercitivi più pesanti: dalle bombe alla eliminazione fisica, come accadde a Libero Grassi, in Sicilia, il 29 agosto 1991. Per compiere gli attentati, specie incendiari, le organizzazioni malavitose che si contendevano il territorio, formarono ‘squadre’ di veri e propri specialisti. Due di questi ‘incendiari’, operanti a Bari, si chiamano Francesco Lepore e Giuseppe Mesto. Messi sotto sorveglianza con intercettazioni ambientali i due ‘specialisti’ finiscono col pronunciare la parola chiave: Petruzzelli. Il 12 luglio 1995, i Magistrati inquirenti dell’Antimafia tornano dal Gip Pietro Sabatelli, gli presentano una memoria di 70 cartelle e chiedono il rinvio a giudizio, oltre che per gli incendiari Lepore e Mesto, anche per la moglie di Ferdinando Pinto, Anna Genchi, accusata di violazione fiscale. L’impianto accusatorio è sostanzialmente identico a quello presentato nel ’93, esteso ed ampliato di nuovi particolari. Secondo i pubblici ministeri - scrivono Carmela Formicola e Carlo Stragapede sulla Gazzetta - l’ex Gestore del Petruzzelli…‘instaurando rapporti finanziari con soggetti rappresentativi delle associazioni di stampo mafioso… avrebbe deciso consapevolmente, per il tramite di Vito Martiradonna, di aderire all’organizzazione del pregiudicato Antonio Capriati con il quale ideava e realizzava, previo assenso del noto boss Savino Parisi, la consumazione dell’incendio doloso affidato, per l’esecuzione materiale, a Giuseppe Mesto e Francesco Lepore’. In cambio… ‘Pinto avrebbe garantito ai clan coperture e protezioni in qualificati ambienti politicoamministrativo e giudiziari aprendo loro nuove prospettive di interessi economico-affaristici e creando, per se stesso e le sue società, aspettative economiche con attività speculative inerenti la ricostruzione del Teatro e la conseguente gestione dei fondi che sarebbero stati stanziati per proseguire l’attività artistica del Petruzzelli’. Il 23 settembre del 1995, il giudice Sabatelli accoglie la richiesta dei giudici dell’Antimafia e fissa l’inizio del processo per il 14 febbraio del 1996. Chissà se il giudice Sabatelli abbia scelto quella data consapevolmente: il Petruzzelli era stato inaugurato la sera di sabato 14 febbraio 1903 con la rappresentazione de Gli Ugonotti di Giacomo Mayerbeer e, senza l’incendio, il giorno dell’inizio del processo il teatro avrebbe compiuto 93 anni di ininterrotta attività. Mentre si sta ricostruendo la cupola del Teatro, nelle istituzioni locali si tenta di capire come

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accedere ad ulteriori fondi per portare a termine l’opera completa di ricostruzione del Petruzzelli. In teoria, i Messeni Nemagna, proprietari del Teatro, sarebbero esclusi da contributi pubblici, ma c’è un’alternativa: la creazione di una società mista fra gli Eredi e il Comune di Bari consentirebbe alle parti di ottenere fondi pubblici. Si apre così una nuova telenovela che dopo anni di rappresentazioni si conclude senza costrutto. 1996: i processi, le condanne, gli appelli Il 14 febbraio inizia, davanti alla terza sezione del Tribunale di Bari, il processo per l’incendio del Petruzzelli a carico di 20 imputati. E, dopo due anni, due mesi e 125 udienze dibattimentali, l’8 aprile 1998 il presidente del Tribunale, Michele Cristiano, legge il dispositivo di condanna: 7 anni e 8 mesi di reclusione a Ferdinando Pinto; 7 anni ad Antonio Capriati e Vito Martiradonna; 4 anni e sei mesi a Giuseppe Mesto; 3 anni al custode Giuseppe Tisci; pene lievi per due altri imputati, assolti tutti gli altri, compresa la moglie di Pinto, Anna Genchi. Otto mesi dopo, il 26 gennaio del 1999, la Corte d’Appello civile di Bari conferma la sentenza che condannava Pinto a risarcire gli Eredi del Petruzzelli danni per 57 miliardi passati, successivamente, in giudicato per mancato ricorso in Cassazione. Il 7 giugno del 1999, in un volume di 2.662 pagine, vengono rese note le motivazioni delle condanne. E l’altro ‘fuochista’? La posizione di Francesco Lepore è stata stralciata dal processo principale: deve rispondere in due giudizi. Uno quale esecutore materiale dell’incendio, l’altro per l’omicidio di Giovanni Lopiano, un benzinaio ucciso il 28 gennaio 1997 in complicità con Giovanni De Frenza. Il Lopiano era un testimone scomodo. Avrebbe fornito la micidiale miscela per incendiare il Petruzzelli e avrebbe rivelato ai Carabinieri di aver saputo da Vito Martiradonna di un prestito usurario di 600 milioni erogato a Ferdinando Pinto. La testimonianza venne messa a verbale ma Lopiano rifiutò di firmarla… equivale ad una condanna a morte. Condanna puntualmente eseguita. Il processo per l’uccisione di Giovanni Lopiano si conclude il 22 marzo del 2001. Lepore e De Frenza sono riconosciuti colpevoli e condannati a 30 anni di reclusione. Intanto, dopo la prima sentenza di condanna per il rogo del Petruzzelli, Ferdinando Pinto dichiara… non sono affatto sorpreso… nessun colpo di scena, tutto secondo il solito copione già scritto: la macabra farsa messa in scena anni fa si conclude, per ora, esattamente come era iniziata. Un vero calcio in faccia alla speranza di veder trionfare la verità e la giustizia. L’amarezza di oggi è pari alla consapevolezza di essere certo che prestissimo mi verrà restituito tutto quello che mi hanno tolto. Il ricorso in appello, dunque, è scontato. Il secondo processo inizia il 31 ottobre del 2000 e finisce il 30 marzo del 2001. Il 6 aprile successivo, il Presidente della terza sezione penale della Corte di Appello, legge la nuova sentenza: 5 anni e otto mesi di reclusione a Ferdinando Pinto pena, dunque, ridotta di due anni rispetto alla prima sentenza - perché i Giudici di Appello hanno escluso che l’ex Gestore del Petruzzelli abbia favorito, col rogo, un’associazione a delinquere di stampo mafioso; sei anni ciascuno, invece di sette, ad Antonio Capriati e Vito Martiradonna - perché il reato di usura si è prescritto -; uno sconto di 16 mesi ha avuto Giuseppe Tisci - 3 anni in primo grado - e conferma, 4 anni e mezzo, a Giuseppe Mesto, uno dei presunti esecutori materiale dell’incendio. Savinuccio Parisi è assolto. Il suo presunto assenso all’incendio non è stato provato. Il 30 ottobre 2001 si conclude anche il processo stralcio a carico Francesco Lepore quale ese94 cutore materiale dell’incendio. Lepore è condannato in primo grado, in Appello e in Cassazione


a sei anni e mezzo di reclusione. Due anni in più del suo complice Giuseppe Mesto. Subito dopo, Lepore insieme al De Frenza sono chiamati al processo di Appello per l’omicidio del benzinaio Giovanni Lopiano e… colpo di scena… salta fuori un’altra storia. Non Lepore e De Frenza avrebbero ucciso il benzinaio, ma lo avrebbero commissionato al ‘boss’ Nicola Ranieri che a sua volta avrebbe incaricato alla bisogna Ignazio Petrosillo e Francesco Rossini. Un classico dei migliori thriller. Il 15 luglio 2002 la Corte d’Appello condanna a 14 anni di reclusione Lepore e a 12 anni De Frenza. Ignazio Petrosillo, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio Lopiano, patteggia 11 anni; 10 anni, invece, vengono inflitti a Rossini che nel frattempo si era pentito. Nel processo di Appello manca il ‘boss’ Nicola Ranieri ucciso come Giovanni Lopiano. Stessa sorte tocca al ‘boss’ messinese Antonello Lazzarotto, un trafficante di droga che, in procinto di pentirsi, aveva chiesto di essere ascoltato dagli inquirenti della Dda perché a conoscenza di scottanti segreti sul rogo del Petruzzelli. Lazzarotto muore nel carcere 8 aprile ‘98, Ferdinando Pinto è condannato, in primo grado, a 7 anni e 8 mesi di recluscione. di Bari nel marzo del 1992 per un infarto fulminate, secondo tre inchieste della Dda, per un cocktail a base di droga secondo alcuni pentiti. Sul fronte giudiziario sta per calare il sipario quand’ecco un nuovo colpo di scena: il 9 maggio 2002 il procuratore generale della Cassazione, Antonio Frasso, ha chiesto al presidente della Suprema Corte, Carlo Casini, di rifare il processo di secondo grado per il rogo del Petruzzelli per… illogicità e difetto di motivazione… e l’annullamento, senza rinvio, del reato di falso in bilancio, contestato a Ferdinando Pinto, perché il reato è stato depenalizzato da una nuova legge, varata dal governo Berlusconi, proprio all’inizio del 2002. Il 28 maggio, il Presidente della quinta sezione penale, emana il verdetto finale… annullamento del processo e delle condanne di appello con rinvio ad un nuovo processo in accoglimento dei ricorsi della difesa e del procuratore generale di Cassazione. Punto e a capo. La Cassazione ha disposto che il processo di Appello debba rifarsi a Bari, ma sono passati undici anni da quella notte maledetta. Quattro anni ancora, un lampo, e anche il reato di incendio doloso cadrà in prescrizione. Riuscirà la giustizia italiana a stabilire chi, come e perché è stato bruciato il Petruzzelli? Ferdinando Pinto si dice fiducioso; Giuseppe Mesto, presunto incendiario, afferma… non so niente, non c’entro con l’incendio del Teatro, io faccio l’arredatore; Vito Martiradonna, presunto cassiere della mala barese… sono tutte bugie, è stato un complotto. Del Petruzzelli non ho mai saputo niente. Antonio Capriati è ospite delle patrie galere per altri reati e se le dichiarazioni dei pentiti venissero messe in discussione potrebbe essere assolto. Non resta che Francesco Lepore, condannato quale esecutore materiale dell’incendio e in carcere per l’omicidio di

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Lopiano. Ma se il processo di Appello non si conclude prima che cada in prescrizione il reato di incendio doloso, Lepore godrà di un ‘buono sconto’ di sei anni e mezzo. Come finirà? Non resta che aspettare e, nel frattempo, Pinto continua ad accumulare accuse e condanne. Cinque mesi dopo il dispositivo della Cassazione, il 10 ottobre del 2002, la nona sezione del Tribunale di Roma condanna Ferdinando Pinto a 2 anni di reclusione e cinquemila Euro di provvisionale per calunnia. I fatti risalgono al 1996 quando l’ex gestore del Petruzzelli dichiarò, spontaneamente, ai magistrati dell’Antimafia Lembo e Maritati che a suo avviso Carlo Maria Capristo e Giacomo Antonucci, all’epoca rispettivamente sostituto procuratore e presidente del Tribunale di Bari, avrebbero commesso abusi nel corso dell’inchiesta sul rogo del Petruzzelli. Il verbale delle dichiarazioni di Pinto fu inviato alla Procura di Potenza che non solo scagionò Capristo e Antonucci chiedendo l’archiviazione… non è stata ravvisata alcuna ipotesi di abuso… ma, nel trasmettere gli atti alla Procura di Roma, suggerisce l’ipotesi del reato di calunnia poiché Pinto avrebbe tentato… a vari livelli, politici e giornalistici, di delegittimare l’operato dell’accusa nel processo dell’incendio del Petruzzelli. Da qui, la richiesta, da parte della Procura di Roma, di rinvio a giudizio per calunnia, il processo e la nuova condanna. 2001: il ciclone Sgarbi Il primo passo concreto verso l’opera di ricostruzione del Petruzzelli lo compie il nuovo sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi… uno che di beni culturali se ne intende - scrive Giuseppe Giacovazzo sulla Gazzetta - ma Sgarbi sa che non è questa la virtù decisiva che lo fa demiurgo in questa intricata vicenda. Antipolitico, insofferente alla disciplina parlamentare, provocatore impenitente, nemico giurato delle burocrazie, Sgarbi dà il meglio di sé quando s’indigna e s’appassiona ad una causa ardita. Allora diviene persuasore irresistibile, ragionatore impudico e travolgente. Sgarbi ama le sfide impossibili e questa vicenda del Petruzzelli è la migliore delle sfide possibili. Ma non è il solo. Anche il soprintendente ai Beni Culturali, Mario De Cunzo, non ha mai mollato. E’ stato lui a mettere sotto pressione il nuovo Sottosegretario che, l’8 agosto del 2001, convoca a Roma i rappresentanti della Regione, Provincia e Comune di Bari unitamente agli Eredi di Antonio e Onofrio Petruzzelli, la famiglia Messeni Nemagna. Il solo fatto di aver riunito attorno ad un tavolo tutti i soggetti interessati, è un successo poiché anche gli Eredi degli antichi mecenati baresi, dopo dieci anni di incredibili polemiche, avevano trovato il modo per dividersi contribuendo ad abortire ogni ipotesi ed iniziativa di ricostruzione del ‘Teatro Rosso’. La famiglia Messeni Nemagna, tutta insieme, ha sempre sostenuto, per anni, una sola tesi: non siamo stati noi ad incendiare il Teatro, ma questa società rozza e violenta. Il Teatro è sotto la tutela della Soprintendenza quale bene architettonico e l’intera popolazione pugliese considera il Petruzzelli patrimonio culturale della regione. Dunque la questione è semplice: tocca allo Stato e agli Enti pubblici provvedere al reperimento dei fondi per la ricostruzione. Tesi quantomeno ardita perché da una parte ci si appella ad un aleatorio patrimonio della comunità, dall’altra lo stesso patrimonio resta privato insieme ai proventi del canone di locazione. La questione rimane in questi termini per molto tempo. Ma quando il Comune, visto l’attendismo degli Eredi, minaccia di voler applicare la clausola dell’articolo 5 del contratto originale, 96 gli Eredi gridano al ricatto dimenticando inoltre le loro precise responsabilità nell’affidamento


gestionale: non si sono mai preoccupati di sapere se il Teatro fosse adeguatamente assicurato, né quanto meno quale fosse il livello di sicurezza degli impianti antincendio. Per anni hanno solo incassato canoni demandando e fidandosi del Gestore di turno. Constatata così la sordità dello Stato e degli Enti pubblici a recepire le loro istanze, la famiglia Messeni Nemagna si divide. Una parte, la maggioranza, conserva la versione iniziale: lo Stato paghi i danni attraverso un ‘intervento straordinario’, gli Eredi conservano proprietà, gestione e utilizzo del marchio; l’altra parte, la cosiddetta ‘minoranza’ guidata dalla combattiva Vittoria Messeni Nemagna, propende per l’accesso alle ‘risorse ordinarie’… giacché io credo fermamente che gli interessi privati e gli interessi pubblici al recupero del Petruzzelli possono e debbano realizzarsi insieme. E’ chiaro che la Signora Vittoria è dotata di maggior pragmatismo poiché si rende conto che se fosse lo Stato a sobbarcarsi l’intera spesa, qualcosa bisognerà pur dare in cambio. E guarda caso, sarà la prima cosa che Vittorio Il sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi. Sgarbi dirà, senza troppi giri di parole, a Maria Messeni Nemagna che, con la maggioranza, sostiene la tesi della ‘ricostruzione senza vincoli’… non si danno le chiavi in mano di un’opera ricostruita dallo Stato per fare ciò che vogliono capricciosamente i proprietari. In definitiva però, gli Eredi perseguono lo stesso obiettivo: conservare il tutto come se nulla fosse accaduto. Una proposta alternativa, una proposta che dicesse… ecco, questo è quello che vogliamo fare noi, questo è il nostro contributo per ricostruire il Petruzzelli… non è mai stata fatta. Tant’è che quando Michele Mirabella, con il suo solito garbo, scrive sulla Gazzetta di aver avuto una ‘confidenza’ dal suo ‘fantasma del Petruzzelli’… una sola famiglia di uomini e donne impedisce per beghe e conflitti di avidità contrapposte di riaprire il Teatro… Donna Vittoria insorge... il suo fantasma, professor Mirabella è male informato… non meritiamo di essere definiti avidi. Se il suo fantasma provasse a leggere meglio nel nostro animo, scoprirebbe cose diverse da quello che i malvagi dicono. Troverebbe tanto dolore, tanto amore, tanta fermezza e desiderio grande di verità e di trasparenza. Tutti a Roma L’incontro romano dell’8 agosto 2001 è chiaramente interlocutorio. Tuttavia, Sgarbi, ha tracciato un’ipotesi di lavoro: Stato e Regione contribuiscono al finanziamento per la ricostruzione, che sarà sotto la diretta responsabilità del Soprintendente ai Beni Culturali della Puglia, e si costituirà una società mista finalizzata al restauro. La proprietà, invece, gestirà o indicherà chi dovrà gestire il Teatro insieme agli Enti locali con cui siglerà una convenzione. L’Ente gestore, naturalmente, dovrà pagare un canone ai proprietari. La ricostruzione del Petruzzelli - sottoli-

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nea Sgarbi - dovrà essere completata entro la fine della legislatura. La riunione romana si scioglie con un’intesa di massima. Sgarbi affida al soprintendente De Cunzo la stesura dell’accordo ed invita tutti ad un nuovo incontro, a Bari, per il 26 e 27 ottobre, nel decimo anniversario dell’incendio. Mario De Cunzo intanto, comincia ad elaborare un progetto che garantisca gli interessi di tutte le parti in causa e configura una ‘Onlus’ - organizzazione non lucrativa di utilità sociale - i cui soggetti sono: Stato, Regione e Provincia in quanto investitori; il Comune, in quanto proprietario del suolo e la famiglia Messeni Nemagna quali proprietari dell’immobile e del marchio. Nella ‘Onlus’, gli Enti pubblici s’impegnerebbero al restauro dell’immobile e alla stipula di una convenzione con gli Eredi dei Petruzzelli che, a fronte di un canone di locazione, cederebbero, per la durata della convenzione, l’uso esclusivo del Teatro e del marchio. Alla scadenza della convenzione gli Eredi tornerebbero, a pieno titolo, a disporre della proprietà, della gestione e del marchio. Il 26 ottobre Sgarbi arriva a Bari salutato quasi come un novello salvatore della Patria. Ma gli Eredi, dopo l’informale assenso, sono tornati a dividersi. Suona quasi come un’offesa il tono celebrativo e trionfalistico di questi giorni del decimo anniversario dell’incendio del Petruzzelli - scrive il capocronista della Gazzetta, Onofrio Pagone - dieci anni di contenzioso giudiziario, di chiacchiere, denunce, reclami, appelli e veti incrociati sono serviti soltanto a soffiare sul fuoco, a insidiare anche la speranza della ricostruzione. Noi sappiamo dov’è il peccato originale - commenta Giuseppe Giacovazzo - è in quel maledetto imbroglio di pubblico e privato che nessuno finora è riuscito a dipanare. Il pubblico che manca di coraggio. Il privato di umiltà: l’umiltà di riconoscere che quel Teatro è un dono fatto ai baresi, non solo agli Eredi. Il coraggio istituzionale di salvaguardare lo spirito autentico dei donatori. Pubblico e privato invece si sono smarriti tra burocrati e azzeccagarbugli. Ma se c’è qualcosa che all’istrionico Sottosegretario non manca è proprio il coraggio. Appena messo piede nel Teatro, Sgarbi ammonisce: bisogna smetterla con i particolarismi… la ricostruzione del Petruzzelli è affare nostro, dello Stato, che si sostituisce ad un privato che non può o non vuole o non deve. Ma il privato ha il dovere di aprire quel bene perché è pubblico. Poi, lascia tutti nel guscio vuoto del ‘Teatro Rosso’ e va all’incontro con le parti. Quando si dice le coincidenze storiche. Sgarbi ha iniziato la trattativa più o meno alla stessa ora dell’ultimo spettacolo di 10 anni prima e l’ha conclusa più o meno alla stessa ora in cui il Petruzzelli veniva distrutto dall’incendio. Era necessario un decisionista come Sgarbi per mettere le cose a posto in una città levantina, praticona e bizantina… scrive ancora Pagone il 28 ottobre che, contagiato dalla capacità di mediazione e risolutezza dimostrata dal Sottosegretario, nel corso della lunga trattativa, è passato dal pessimismo di due giorni prima al moderato ottimismo di questa nuova alba storica… l’indomabile Sgarbi ha un caratteraccio, è un adorabile antipatico, ma ne sa una più del diavolo. Sgarbi infatti, non solo conferma l’ipotesi di accordo illustrato da De Cunzo, ma ha rilanciato, proponendo l’istituzione di un Ente lirico - allo scopo di accedere ai finanziamenti dello Stato previsti per gli Enti lirici - che coinvolga, oltre al Petruzzelli, anche il Piccinni e il Margherita, che entrerebbero così in un circuito nazionale di spettacoli tali da fare di Bari un polo artistico senza precedenti. Non mancano ovviamente gli scettici. Ma Sgarbi ha una risposta per tutti. I soldi? Li troveremo. La convenzione fra il Comune e gli Eredi? Si farà. La famiglia Messeni Nemagna? Firmerà… io non mollo. Il Teatro sarà ricostruito a prescindere dai proprietari. Se sarà necessario sarò io stesso a fare il muratore perché il Petruzzelli appartiene a tutti noi. L’assise barese si conclude con un ‘patto d’onore’, una stretta di mano. Sgarbi ha ancora una 98


Ferdinando Pinto e Luciano Pavarotti a Bari nel febbraio del 1984. Pinto è stato il gestore del Teatro ‘rosso’ barese dal 1980 al 1991 e, nonostante il drammatico epilogo dell’incendio, il teatro Petruzzelli non ha mai avuto nella sua lunga storia, un periodo più fecondo ed esaltante. Per oltre un decennio il binomio Petruzzelli-Bari è stato sinonimo di arte e cultura in tutto il mondo.

volta demandato a De Cunzo e all’assessore comunale, avvocato Emilio Toma, il compito di scrivere le intese con le parti… ci vediamo il 19 novembre a Roma per firmare l’accordo. Il ‘settembre nero’ del mondo occidentale Ma già il giorno dopo, il 29 ottobre, sorgono i primi dubbi: sull’Ente lirico, sulla convenzione con il Comune, sulla divisione degli Eredi, sulla gestione, sulla ricostruzione e via di seguito. Fra l’altro, serpeggia un dato nuovo, una parola appena sussurrata. Su tutti i dubbi, sui già tanti se, ora aleggia una parola nuova: esproprio. L’incontro a Roma non ci sarà. A partire dall’11 settembre l’intero mondo occidentale ha preso a girare in modo diverso. L’ecatombe scatenata dai terroristi islamici sulle Torri Gemelle di New York ha impresso una svolta nella politica sociale ed economica di tutto l’Occidente. Lo scempio delle ‘Twin Towers’ ha minato la sicurezza dell’America e dell’Europa. Ha sbriciolato certezze e speranze. Ha cambiato il modo di vivere della gente. Dall’11 settembre 2001 niente è più come prima. Impegnati dunque a fronteggiare la nuova emergenza, specie nel Paese con il maggior numero di opere d’arte al mondo, Sgarbi non è riuscito a mantenere l’impegno assunto. Torna invece a Bari il 4 dicembre insieme ad Alberto Sordi che è venuto a vedere quel che resta del ‘magnifico teatro’ in cui, quasi trent’anni prima, aveva girato il film ‘Polvere di stelle’ insieme a Monica Vitti. Sordi è sbigottito, Sgarbi ha un diavolo per capello. Il giorno prima la Gazzetta aveva espresso qualche riserva sulle promesse del Sottosegretario, e lui non aveva gradito… Sgarbi deve rendersi conto che i baresi aspettano da dieci anni il loro Teatro - scrive Pagone - e finora hanno avuto solo promesse, rimbrotti fra le parti in causa e una lista infinita di Vip nel libro d’onore del Petruzzelli. I baresi vogliono il Teatro, non un sacrario!

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Sgarbi prima si ‘accende’ ed inveisce, poi conciliante, dice… comprendo l’ansia dei baresi, ma devono capire che non ci può essere ogni volta un colpo di scena. Le cose stanno andando come devono andare. L’accordo per la ricostruzione l’ho qui con me, in tasca. E di nuovo parte lasciando all’avvocato Emilio Toma l’incarico di ‘cucire’ le posizioni tra pubblico e privato nell’elaborazione della convenzione sulla futura gestione. Il protocollo d’intesa Intanto, alcuni protagonisti cambiano. Al soprintendente De Cunzo è subentrato, per normale avvicendamento, l’architetto Ugo Soragni a cui si è aggiunto anche il soprintendente Nunzio Tomaiolo che coordina i numerosi progettisti. La prima svolta per la ricostruzione del Petruzzelli è datata 30 gennaio 2002: la bozza del progetto definitivo, elaborato dagli architetti della Sovrintendenza, ottiene il consenso e la firma delle due ‘anime’ degli Eredi. Ma bisognerà attendere ancora tre mesi e mezzo perché quelle ‘firme’ siano depositate in un formale protocollo d’intesa. Il 12 maggio 2002, Sgarbi torna a Bari per firmare, con la famiglia Messeni Nemagna, il protocollo definitivo per la parziale ricostruzione del Petruzzelli: consolidamento statico, ripristino strutturale e predisposizione degli impianti di climatizzazione, elettrici, idrici, antincendio e restauro del foyer. Sono a disposizione circa 21 miliardi: 16 già stanziati dalla finanziaria del ’99 con la legge 444 del ’98; 4 miliardi provengono dalla legge che utilizza i proventi del Lotto e 627 milioni dalla lotteria europea. Una buona fetta di questi finanziamenti però, sono già stati spesi per opere di progettazione. Dunque mancano ancora un bel po’ di miliardi, almeno 40, per rendere il Petruzzelli totalmente funzionale e fruibile. Chi aprirà la borsa dei denari? Dieci miliardi sono stati promessi dalla Regione - sostiene Sgarbi - sette sono già stati deliberati dalla Provincia, per il resto mi impegno personalmente. Ma resta il problema dei problemi: chi dovrà gestire sia il finanziamento statale che il Teatro dopo il restauro? La famosa ‘Onlus’ non è stata neppure abbozzata e la convenzione per la gestione è già alla terza stesura per le numerose eccezioni poste dagli Eredi. Ed ecco che Sgarbi, ancora una volta, estrae dal suo cilindro un altro coniglio: una Fondazione. Una Fondazione fra pubblico e privato che gestisca sia le risorse economiche che la gestione stessa del Teatro dopo il completamento della ricostruzione. Questo è l’unico scenario possibile sostiene anche il soprintendente Ugo Soragni. Diciamolo. E’ una bella soddisfazione, per la Gazzetta, constatare che erano tutti in ritardo di 10 anni. La stessa proposta il giornale l’aveva fatta il 3 novembre del 1991 ed era stata subito boicottata perché da più parti s’immaginarono ‘oscuri interessi di comitati d’affari’ presunti protagonisti, negli anni Ottanta, di grandi scandali. La differenza, fra la proposta della Gazzetta e quella di Sgarbi, è che lì si trattava di istituire una Fondazione fra soggetti privati. Qui si parla di una Fondazione mista fra pubblico e privato. Erano i tempi in cui il ‘privato’ era sospetto e il ‘pubblico’ era ancora bello. Salvo affermare il contrario, appena un anno dopo, quando l’allora presidente del Consiglio, Giuliano Amato, convince anche i fautori del ‘pubblico è bello’ che il ‘privato è meglio’. Ma questa è un’altra storia. 2002: esce Sgarbi, entra Bono Il progetto per il recupero architettonico e funzionale del Petruzzelli, che ha già ottenuto l’entusiastica approvazione di Sgarbi e della famiglia Messeni Nemagna, viene illustrato il 24 maggio. Ma la conferenza stampa di presentazione del progetto non è ancora finita che l’avvocato Michele Costantino, legale di Vittoria Messeni Nemagna, presenta un ‘atto formale non 100 ultimativo’, prima di dare inizio all’avvio dei lavori, in cui è chiesto il reperimento di tutti i


Una ‘prima’ al Petruzzelli verso la fine degli anni Ottanta.

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finanziamenti necessari per assicurare la totale fruibilità del Teatro, la convenzione con il Comune e l’intesa sulla gestione. Punto e a capo dunque? No, noi andiamo avanti - afferma il Soprintendente - poi si vedrà. Venti giorni dopo, il 12 giugno, una notizia clamorosa mette in allarme l’intero apparato organizzativo pubblico e privato impegnato da anni lavora alla ricostruzione del Petruzzelli: Sgarbi si è dimesso. Il ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, gli ha revocato la delega. E ora? Calma - dirà Sgarbi - non cambia niente. Non ho più deleghe ma resto al mio posto… le sorti del Petruzzelli, è noto a tutti, mi stanno a cuore. Continuerò a indicare, sollecitare e realizzare. Tuttavia, la preoccupazione che si allunghino i tempi diventa concreta soprattutto quando, il 21 giugno, si apprende che il Governo ha deciso di fare a meno di Sgarbi. Doveva finire così - scrive Giuseppe Giacovazzo - una carica che comincia con ‘sotto’ già gli dava fastidio. E lui, che nel suo campo professionale si ritiene un dio, non poteva essere sotto a nessuno. Di Sgarbi, ha lamentato il Ministro, si conosce genio e sregolatezza, ma io ho sperimentato solo la sua sregolatezza. C’è da chiedergli - continua Giacovazzo - come mai ci abbia messo tanto a capirlo. Mettere in riga un irregolare come Sgarbi è impossibile. A pensarci bene - scrive invece Giuseppe De Tomaso - la vera notizia non è il burrascoso divorzio fra Urbani e Sgarbi, ma il fatto che il Sottosegretario sia rimasto in carica addirittura un anno. Il 22 giugno l’ormai ex Sottosegretario è di nuovo a Bari per la festa delle Fiamme Gialle e, naturalmente, si sfoga… ho restituito le deleghe perché erano finte, ma la revoca del mio incarico è un secondo incendio per il Petruzzelli. La ricostruzione del Teatro era per me un fatto personale perché io amo questo Teatro come tutte le opere d’arte. Urbani non ha la mia stessa passione, non vive con la mia stessa intensità le battaglie per tutelare il patrimonio artistico nazionale. Senza di me dubito che riavrete mai il teatro funzionante. La rabbia di Sgarbi non è inferiore a quella dei baresi che, naturalmente, chiedono lumi al ministro ai Beni Culturali Giuliano Urbani… non è cambiato proprio nulla… progetti e trattative vanno avanti come stabilito dallo stesso Sgarbi che, è bene ricordarlo, non lavorava a titolo personale, ma per conto del Governo. Sarà vero? E’ vero. Il 15 luglio, il nuovo sottosegretario ai Beni Culturali, Nicola Bono, viene a Bari e conferma le parole del Ministro… non siete rimasti orfani… il teatro Petruzzelli è una priorità del Governo… ripartiamo dal lavoro di Sgarbi… ma si cambia. Primo: bisogna reperire i fondi mancanti, 40 miliardi di vecchie lire; secondo: è necessario costituire un soggetto giuridico; terzo: bisogna stabilire chi e come gestirà il Teatro. Dunque aveva ragione Donna Vittoria: era un errore fare accordi parziali. Occorre definire le competenze di ciascuno dei soggetti interessati. Pausa estiva e di riflessione per tutti poi, il 12 settembre, vertice a Roma con gli Enti pubblici. Regione, Provincia, Comune e Soprintendenza… dobbiamo innanzitutto stabilire una linea comune fra noi – dirà Nicola Bono – solo così potremo confrontarci apertamente con la Proprietà. La Fondazione regionale Ecco allora, in sintesi, il nuovo scenario: non c’è un’alternativa alla Fondazione che si sta costituendo e che, in linea di principio, è già condivisa da tutti gli Enti pubblici. I fondi: dopo la Regione e la Provincia, ora anche il Comune di Bari è disponibile a fare la sua parte. Tuttavia, non bastano. La famiglia Messeni Nemagna potrebbe partecipare alla Fondazione oppure, deci102 dere di starne fuori e incassare un canone annuale. Nella seconda ipotesi la gestione del


L’immensa spettacolare cupola decorata dal pittore barese Raffaele Armenise.

Petruzzelli, Piccinni, Margherita e, altra novità, Auditorium ‘Nino Rota’, resterebbero appannaggio della Fondazione e quindi dei soli Enti pubblici regionali. Dunque, tre le novità di rilievo: il Comune, dopo anni di tentennamenti, aderisce alla Fondazione con una propria quota; gli Eredi sono invitati a fare una scelta e, la novità più importante, l’inserimento dell’Auditorium, abbandonato da un decennio, che tornerebbe a vivere grazie all’ingresso nella Fondazione. A prima vista sembra che, nel cambio, la causa del Petruzzelli ci abbia guadagnato. Il nuovo Sottosegretario è l’opposto di Sgarbi. Espressione franca, signorile, cortese, disponibile ad ascoltare e, soprattutto, non incline all’aggressione nelle risposte. Le sue sono repliche ferme, espresse con parole e concetti così chiari che non lasciano alcun dubbio nei suoi interlocutori. Sgarbi era passionale, determinato, irruento e non di rado così ‘indisponente’ da indurre al contraddittorio per il semplice gusto di farlo. Bono è freddo, concreto e molto più determinato del suo predecessore. Tant’è che il 14 settembre 2002 il ministro Giuliano Urbani, in visita alla Fiera del Levante, commenta sornione… avete visto? I vostri timori li stiamo fugando. Ora non

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solo ci sono i fondi, e sono cospicui, ma mi sembra che siamo vicini al momento in cui i cantieri del Petruzzelli si potranno aprire. Adesso si tratta di mettere insieme le volontà. Noi siamo un popolo di individualisti e a volte non è facile, ma stiamo lavorando alacremente. L’appuntamento, per illustrare alla Proprietà i termini definitivi delle intese, è fissato per sabato 21 settembre nella sede della Soprintendenza a Bari. L’incontro dura quindici minuti e… quando Nicola Bono parla - scrive Carmela Formicola capisci che non è un tipo che scherza. Sono qui per dare alla città di Bari una serie di certezze - esordisce Bono - daremo luogo ad una Fondazione per la ricostruzione e la gestione del Petruzzelli con il compito di gestire anche i teatri Margherita, Piccinni e Auditorium per realizzare quel polo lirico-sinfonico che dovrebbe, finalmente, qualificare l’offerta culturale della città. Abbiamo a disposizione 50 miliardi di vecchie lire. Venti sono già stati finanziati dallo Stato; dieci ciascuno saranno versati da Regione, Provincia e Comune. Mancano all’appello 10 miliardi che, per rispettare la filosofia che ispira la stessa Fondazione, dovranno venire da investimenti privati. Due le alternative: o quei ‘privati’ si identificano con gli Eredi, oppure cominceremo a cercare l’imprenditore o la cordata di forze economiche che potrà finanziare l’operazione Petruzzelli. Poi, nel silenzio più assoluto, Nicola Bono, scandisce: questa proposta è conclusiva e definitiva. Qualora la famiglia Messeni Nemagna avesse ancora dubbi, comunque si andrà fino in fondo per tutelare l’interesse pubblico, che è quello della riapertura del teatro, ricorrendo a strumenti che la legge ci offre. Mi riferisco agli articoli di legge che prevedono l’esproprio. La parola ‘esproprio’ cade nella sala come una granata. Bono non si scompone poi, più conciliante, aggiunge… parliamo dell’estrema ratio. Ma ho l’impressione che il clima disteso della trattativa non dovrebbe portare a provvedimenti drastici. E ancora, d’improvviso, conclude… la famiglia Messeni Nemagna ha dieci giorni di tempo per decidere. Improvvisamente il ‘clima disteso’ è svanito. Donna Vittoria commenta con un amaro… dopo tutti questi anni. Sono stanca… ma il suo legale, l’avvocato Costantino, è furioso… verificare e definire preventivamente le condizioni di fruibilità del Teatro funzionante significa porre fine al sistematico rifiuto di confrontare le proprie opinioni. Ponendo, invece, ultimatum o riferirsi a leggi che prevedono l’esproprio… è un costume che non ha nulla a che fare con la democrazia, con le istituzioni, con le professioni e con i doveri inderogabili dei cittadini. Denota, invece, l’intento di realizzare desideri innominabili e favorisce quegli inquinamenti, distorsioni, occultamenti di informazioni che hanno caratterizzato la vicenda del completamento del recupero, ritardando in modo intollerabile la conclusione. Ci si chiede: ma non era l’avvocato Costantino che subito dopo la firma sul progetto di ricostruzione aveva subordinato l’inizio dei lavori alla raccolta dei finanziamenti e alla definizione della fruibilità e gestione del Teatro? Perché, ora che le posizioni sono chiare, parla di antidemocraticità, desideri innominabili, inquinamenti, distorsioni e addirittura di occultamenti d’informazioni? Ma è tempo di decidere. Il 30 settembre la famiglia Messeni Nemagna comunica che, tutti insieme questa volta, sono d’accordo ad entrare nella Fondazione regionale ma, allo stesso tempo, manifestano l’intenzione di voler dare in affitto l’azienda teatrale in termini ancora da negoziare. A tal fine, Donna Vittoria, che fra le due ‘anime’ della Famiglia rappresenta la minoranza, chiede un incontro tecnico per esaminare, una per una, tutte le clausole di un qualsiasi contratto di convenzione e l’atto costitutivo della Fondazione; la maggioranza, invece, ha consegnato un promemoria in cui si chiede soltanto di conoscere, in merito al canone di locazione, il pensiero del Ministero. Decisioni rinviate dunque. 104


Venerdì 11 ottobre 2002 Nuova sceneggiata. La famiglia Messeni Nemagna, che per anni è stata divisa in maggioranza e minoranza, si è compattata: ora sono metà e metà. Entrambe le parti hanno consegnato al soprintendente Ugo Soragni due distinte bozze di accordo. In una si propone la cessione dei diritti di ‘palco’ legati alla lirica - in sostanza i posti a sedere - agli Enti pubblici per 30 miliardi di vecchie lire. Con quel denaro i proponenti si assumerebbero l’incarico di gestire l’appalto per la ricostruzione. Al completamento il Teatro verrebbe consegnato alla Fondazione che lo gestirebbe a fronte di un canone ‘simbolico’ per la durata della convenzione. La bozza d’accordo dell’altra metà della Famiglia propone, invece, l’ingresso nella Fondazione a titolo onorario e contratto d’affitto a canone variabile. Cioè 250 milioni di vecchie lire l’anno, per i primi tre anni, e 1 miliardo e 300 milioni, sempre annuali, a partire dal quarto anno. Fermo restando, ovviamente, la proprietà del Teatro e dei locali siti nell’immobile. Soragni prende atto, ma fa notare che il Sottosegretario… ha chiesto una proposta unitaria. Voi ne presentate due. Almeno indicate le integrazioni possibili fra i due testi. Sabato 19 ottobre… improvvisamente è cambiato in maniera radicale lo scenario relativo al tormentone Petruzzelli - scrive Onofrio Pagone sulla Gazzetta - adesso gli Enti pubblici calcano la mano a favore dell’esproprio. Entra in scena il governatore della Regione Puglia Raffaele Fitto… ora basta con i rinvii e i traccheggiamenti. La partita è finita - tuona Fitto - le risorse per ricostruire il Petruzzelli ci sono e sono disposto ad aumentarle, ma a condizione che si proceda all’esproprio del teatro. Non vedo altre soluzioni. Credo che tutti i baresi siano stufi della discussione sul Petruzzelli. Bari e la Puglia pagano un prezzo inaudito in termini d’immagine a undici anni dall’incendio. Chiedo perciò al Ministro di procedere. L’esproprio è ora l’unica soluzione possibile, giacché ci troviamo ancora una volta di fronte a due posizioni, molto diverse e molto articolate, della Famiglia. Questa nuova, dura presa di posizione del governatore Fitto, che nel merito della trattativa non è mai intervenuto, spiazza le due ‘anime’ della famiglia Messeni Nemagna, ma non li sposta di un millimetro… voi inviate le nostre proposte al Sottosegretario, tocca a lui darci delle risposte. Ormai è chiaro. La Famiglia, unita o divisa, non ha la benché minima intenzione di tirare fuori i 10 miliardi di vecchie lire occorrenti per far parte della Fondazione regionale. Dunque non resta che concordare i termini del contratto di locazione. Nicola Bono il ‘bulldozer’ Ed è esattamente quello che fa il sottosegretario Bono in un nuovo vertice romano il 13 novembre. Due paginette dattiloscritte - commenta Onofrio Pagone, inviato a Roma dalla Gazzetta, per l’occasione - undici anni di veleni, contenziosi e vertenze legali, risolti in due paginette. L’accordo per la ricostruzione e la successiva gestione del Petruzzelli, non è più negoziabile. Alla famiglia Messeni Nemagna è stato offerto un canone di affitto pari a 2 miliardi e mezzo di vecchie lire l’anno, a partire dal quarto anno dalla data della firma dell’accordo, per la durata di 40 anni. Di quella somma la Famiglia riceverà solo un miliardo netto l’anno, il resto sarà trattenuto quale quota di ammortamento per la ricostruzione. Il Comune di Bari, per parte sua, conferma il rinnovo della convenzione per la concessione del suolo. Questa proposta - ha aggiunto il Sottosegretario - è ultimativa: prendere o lasciare. Vi prego pertanto di comunicare le vostre decisioni al soprintendente Ugo Soragni entro lunedì 18 novembre. Ma nella stessa serata del 13, una nota del Ministero informa che l’accordo è stato raggiunto… si, siamo soddisfatti - diranno invece gli Eredi - ma abbiamo firmato solo una bozza, lunedì faremo sapere. Intanto lo stesso Pagone, il giorno dopo, in un corsivetto di prima pagina della Gazzetta,

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16 giugno 1987. Il concerto di Frank Sinatra, ‘the Voice’, al Petruzzelli.

pone un problema… come si fa a sostenere che la ricostruzione del Petruzzelli è a carico della Fondazione regionale se la quota di ammortamento trattenuta agli Eredi per questo fine è pari al costo stimato della ricostruzione? Non c’è in questa clausola la possibilità che si apra, in futuro, un nuovo contenzioso? A Pagone risponde il vicesindaco di Bari, Egidio Pani… no, non c’è, perché solo la Fondazione può ottenere il riconoscimento di ‘Ente lirico’ e solo la Fondazione può garantire allo Stato l’effettiva utilizzazione e fruibilità del Teatro che necessita di onerosi impegni finanziari che l’Ente lirico richiede. Mai, nessun proprietario o gestore di teatro, può consentirsi di investire somme ingenti per conservare l’immagine del proprio teatro. Dunque anche con la ‘trattenuta’ della quota di ammortamento… la Famiglia fa un buon affare - sostiene ancora Pagone - se non accetta rischia l’esproprio di un rudere; se invece accetta, incassa comunque un canone netto annuo di un miliardo di vecchie lire. E chi mai pagherebbe tanto per un teatro? E la Famiglia accetta. Anzi, accetta e rilancia… per restituire il Teatro funzionante alla collettività - si legge in una nota consegnata al sovrintendente Ugo Soragni firmata, per la prima volta, da tutti e sette gli Eredi - siamo pronti a venderlo agli Enti pubblici ad un corrispettivo non inferiore a quello propostoci per l’uso quarantennale. Cioè, per 40 miliardi di vecchie lire… chiediamo di poter dialogare alla pari con la parte pubblica senza sentir risuonare, ad opera della medesima, la periodica minaccia dell’esproprio, che costituisce una procedura legale, ma non può diventare uno strumento di coercizione della volontà o pressione negoziale. E giù altre richieste di integrazione alla bozza di accordo. Punto e a capo? 106


Martedì 19 novembre 2002 Una nota del Ministero informa di aver respinto le integrazioni proposte dagli Eredi… le loro richieste sono inammissibili poiché la proposta, nel protocollo di accordo, è sicuramente equilibrata e rispettosa dei diritti e degli interessi della parte privata e, concordata con tutte le parti pubbliche, è da accettare o respingere in blocco… la Famiglia - prosegue la nota - è pertanto libera di accettare o rifiutare, ma non certo di continuare ad oltranza la snervante trattativa che per undici anni ha impedito la ricostruzione del Petruzzelli. Poi, l’invito… le parti sono convocate a Roma per giovedì 21 novembre per le non più rinviabili firme. Se la Proprietà non si presenta verrebbe sancita la definitiva rinuncia ad ogni possibile accordo e, conseguentemente, si prospetta la necessita per tutti gli Enti pubblici di percorrere altre strade. Non è necessario specificare quali potrebbero essere le ‘altre strade’. Altro che Sgarbi. Bono è peggio di un bulldozer. Giovedì 21 novembre 2002: l’accordo Alle 16,30 del pomeriggio di giovedì 21 novembre 2002, dopo sei ore di trattative in cui si è sfiorato più volte la rottura, l’accordo viene firmato. Il primo a mettere la firma su un documento atteso 11 anni, è Mario Carrieri, delegato del governatore della Regione Puglia, Raffaele Fitto. Poi tutti gli altri, felici e sollevati per aver posto l’ultimo tassello a quello che sembrava un incredibile e irrisolvibile puzzle. Due le eccezioni accolte nelle diverse bozze di modifica presentate dagli Eredi: il riconoscimento dei diritti di quattro palchi di seconda fila, da sempre occupati dalla Famiglia, e la data certa di decorrenza del canone di locazione: dal 21 novembre del 2006. A dodici mesi di distanza dall’inizio della trattativa - commenta, soddisfatto, il sovrintendente Ugo Soragni - è stato completato un percorso che ha dello straordinario grazie alla tenacia e alla pazienza del sottosegretario Nicola Bono… è l’inizio di una nuova storia per il Petruzzelli… dirà l’avvocato Costantino, legale di Donna Vittoria. Anche il ministro Urbani è palesemente felice… è un evento storico, una pietra miliare per la valorizzazione del patrimonio culturale del Meridione. Per troppi anni Bari è stata privata di uno dei suoi gioielli. Nei prossimi giorni chiederò al Parlamento un provvedimento che preveda la costituzione della quattordicesima Fondazione lirico-sinfonica d’Italia. E la quota mancante? Non c’è problema - dirà Nicola Bono - la troveremo da soci privati. 2003: il primo appalto Il bando per l’appalto della prima tranche dei lavori, di rilevanza europea, è pubblicato il 30 novembre 2002. Le offerte dovranno pervenire alla Sovrintendenza entro l’8 gennaio 2003. Il ‘massetto’ di una lunga strada è stato steso e compattato. Ora bisogna asfaltarla. Naturalmente i disfattisti non mancano. C’è chi assicura che sarà difficile per il Petruzzelli entrare nel giro delle ‘Fondazioni’ e chi rileva che manca ancora una buona parte dei finanziamenti. Ma la Sovrintendenza va avanti e nel febbraio del 2003 assegna al Consorzio Recupero Patrimoni Artistici, vincitrice dell’appalto - un pool di nove imprese perlopiù baresi e già impegnate nei lavori di consolidamento statico e della ricostruzione della cupola - i lavori per le opere di ripristino della platea, del foyer e di varie altre strutture che dovranno essere ultimate entro 600 giorni. Il 7 maggio del 2003 il sottosegretario ai Beni Culturali, Nicola Bono firma, con il presidente del Consorzio, Antonio Resta, il formale atto dell’assegnazione dei lavori e fissa la data dell’inizio: il 13 maggio alla presenza del Presidente del Consiglio. Il grande giorno è arrivato - scrive Onofrio Pagone sulla Gazzetta - i contenziosi non sono

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Tre mesi dopo il concerto di Sinatra, nell’ottobre del 1987, il Petruzzelli ospita un’altra grande cantante americana: Liza Minnelli. Marcel Marceau, invece, l’impareggiabile mimo francese, viene a Bari ogni anno.

finiti, i finanziamenti non sono tutti certi, le procedure parlamentari per la costituzione della Fondazione non sono ancora completate, ma la prima parte dei lavori di ricostruzione del Teatro, finalmente comincia. Comincia, appunto, con l’arrivo del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del ministro per i Beni Culturali, Giuliano Urbani, nel teatro distrutto e addobbato da tappeti rossi. Il Presidente e il Ministro, insieme, prima fugano le giuste perplessità… il Teatro sarà ricostruito nei tempi previsti… la legge per la Fondazione è a buon punto… poi, con strette di mano e sorrisi, Berlusconi ‘incolla’ un mattone di un vecchio palco su una tavoletta, consegna le chiave del Teatro al Consorzio edile, si prenota per la ‘prima’ e, seguito dal sottofondo musicale della ‘Norma’ di Bellini - l’ultima opera rappresentata al Petruzzelli prima dell’incendio - saluta tutti e se ne va. Era opportuna la scelta di un brano della ‘Norma’ che, guarda caso, termina proprio con un rogo? E’, ancora una volta, un cattivo presagio? Non per Berlusconi che quella sera stessa sugli spalti di San Siro assiste al più emozionante derby della storia calcistica meneghina: Inter-Milan valevole per accedere alla finalissima della Coppa Campioni. Il pareggio qualifica il Milan e per la prima volta nella storia del calcio europeo, l’ambita Coppa Campioni sarà contesa da due squadre italiane: Milan - Juventus. Chi vince? Ma il Milan, naturalmente. 108


Il concerto del maestro Riccardo Muti, al Petruzzelli, l’11 dicembre 1989.

Nasce la 14ma Fondazione Lirico-Sinfonica Dodici anni e due giorni dopo l’incendio del Petruzzelli il Governo Berlusconi vince un’altra scommessa a dispetto degli scettici e degli uccelli del malaugurio. Il 29 ottobre 2003, la Camera approva definitivamente - con 428 voti favorevoli e 2 contrari - il decreto convertito in legge che istituisce la Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e teatri di Bari. Lo stesso giorno si celebra a Bari il processo di appello bis contro i presunti esecutori e mandanti dello sciagurato incendio. Il vero lavoro comincia ora - scrive Oscar Iarussi il 30 ottobre sulla Gazzetta - la Fondazione godrà dal 2004 del contributo del Fondo Unico per lo Spettacolo, cui andranno aggiunti i finanziamenti previsti dagli Enti locali… ma soprattutto, la Fondazione dovrebbe esprimere nettamente, ben oltre le finalità statutarie, quali programmi, scelte operative, strutture funzionali, valenze simboliche intende attribuire ai singoli teatri - Petruzzelli, Piccinni, Margherita, Auditorium - e quali al sistema che andrà a creare, tenendo conto che - in particolare per la lirica - si tratta di ricostruire un pubblico. In altre parole, ricostruiti e completati i contenitori, sarebbe utile, da sùbito, pensare ai contenuti. L’amore di un popolo per il bello, l’arte, la cultura, non si può spegnere con una fiammata. Con l’istituzione della 14ma Fondazione lo scenario e il futuro del Teatro ‘rosso’ barese cambiano. Il 7 dicembre del 2004, il sottosegretario ai Beni Culturali, Nicola Bono, torna a Bari per chiarire con i rappresentanti della Regione, Provincia e Comune tutti gli aspetti derivanti dal-

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l’approvazione della legge… tutti i nodi sono stati sciolti - esordisce Bono - siamo alla soluzione finale per il Petruzzelli… la data per la conclusione dei lavori di ricostruzione del Teatro e il taglio del nastro inaugurale è fissata per dicembre 2007… questa è una punta d’onore per noi e anche un obiettivo economicamente necessario perché dal 2008 scatta il canone ordinario da riconoscere agli eredi Petruzzelli. Dunque, con la legge dello Stato, il protocollo d’intesa firmato il 21 novembre del 2002, è superato e modificato in due parti: il taglio del nastro inaugurale non avverrà più nell’ottobre del 2006, ma a Natale del 2007 e il canone di locazione agli eredi Petruzzelli comincerà a decorrere da gennaio 2008. In breve, gli impegni assunti nel 2002 sono ‘scivolati’ di 14 mesi. L’aver posticipato la data di inaugurazione non è una novità: non è la prima, né sarà l’ultima volta; ma disattendere unilateralmente l’impegno con gli Eredi, apre una strada ad un nuovo contenzioso, tanto più che al vertice barese del 7 dicembre la famiglia Messeni Nemagna non è stata invitata… perché - spie- Il nuovo sottosegretario ai Beni Culturali Nicola Bono. ga Bono - dovevamo affrontare il problema della ricostruzione e la famiglia ha sempre detto che non aveva le risorse per farlo. Quindi, non aveva titolo a partecipare al nostro tavolo: tutto qui! Quali sono allora i ‘nodi sciolti’ dal Sottosegretario ai Beni Culturali? Primo: la Fondazione istituita a livello regionale prospettata con il protocollo d’intesa del 21 novembre 2002 aveva valenza regionale. Oggi è superata dalla legge dello Stato… può restare in piedi per gestire quanto nello spettacolo non attiene alla lirica e alla musica sinfonica. Può, insomma, fungere da collegamento con la nuova Fondazione - sostiene Bono - ma non può svolgere, per legge, funzione di Ente lirico. Secondo: il Consiglio di Amministrazione della vecchia Fondazione diventa CdA della nuova e i fondi dello Stato, Regione, Provincia e Comune, pari a 20,8 milioni di euro, disponibili sulla carta, vanno erogati alla nuova Fondazione istituita con legge dello Stato. Terzo: al fine di ovviare a ritardi burocratici… ho concordato con gli Enti territoriali e la Sovrintendenza, la stipula di una convenzione che consentirà di versare i fondi della Fondazione direttamente alla Sovrintendenza che dovrà, entro la fine di dicembre, disporre per un nuovo bando di appalto di rilevanza europea, per il completamento dei lavori di ristrutturazione del Teatro. E ancora… i lavori in corso, il restauro del foyer e la predisposizione degli impianti, saranno completati entro la primavera del 2005. Il nuovo appalto non dovrà consentire pause al cantiere… pretendo - continua Bono - che i lavori vadano avanti senza soluzione di continuità. Ora 110 i fondi ci sono, bastano e sono addirittura superiori di 300.000 euro rispetto a quanto previsto


dal progetto esecutivo. Con parole chiare, decise e rassicuranti, il sottosegretario Bono risponde a tutte le eccezioni poste dalla folla di giornalisti alla conferenza stampa che segue il vertice. A chi gli chiede come è stata risolta la ‘diffida’ presentata dalla famiglia Messeni Nemagna a proposito dell’uso del marchio ‘Teatro Petruzzelli’, Bono risponde: nell’articolo 6 della nuova Fondazione è scritto che questa acquisisce i diritti d’uso esclusivo sul teatro Petruzzelli in conformità al protocollo d’intesa del 2002 che presuppone la totale disponibilità della struttura e quindi anche del marchio. Tutto a posto, dunque. Tutto regolare, tranne il fatto che l’intesa dei ‘nodi sciolti’ non è stata messa a verbale e sottoscritta. Nicola Bono l’invierà alle parti qualche giorno dopo per le necessarie firme, e che sulla scena politica del Comune e della Provincia di Bari gli ‘attori’ sono cambiati: alle elezioni amministrative di aprile 2004 le Giunte delle due Amministrazioni pugliesi sono passate dal centrodestra al centrosinistra. Sono cioè Amministrazioni guidate dall’opposizione del Governo centrale di centrodestra che il sottosegretario Bono, deputato di AN, rappresenta. 2005: nuovi veleni. La Convenzione La prima conseguenza è che il nuovo sindaco di Bari, Michele Emiliano, presidente del CdA della Fondazione che aveva disertato il vertice, commenta… Bono doveva concordare con me la sua visita barese… ho delegato Michele Mirabella… il giorno successivo, l’8 dicembre, convoca una conferenza stampa… per il Petruzzelli c’è una notizia buona e una cattiva - esordisce Emiliano - quella buona è che i lavori di ricostruzione del Teatro saranno supervisionati da un team di tecnici; quella cattiva è che la legge Finanziaria potrebbe decurtare del 20% il contributo annuale per la stagione lirica… un taglio sarebbe per noi gravissimo. Alla fine, però - scrive Onofrio Pagone - il Sindaco ha dato anche un’altra notizia: la Fondazione regionale per i teatri di Bari, quella istituita prima della legge dello Stato, sarà sciolta perché… ha un’irregolarità giuridica che ne vizia la sussistenza: nasce da un contratto, da una atto negoziale, non da una legge. E’ un errore del passato. In ventiquattro ore si passa dall’ottimismo del Sottosegretario sul futuro prossimo del Petruzzelli, ai dubbi, alla cautela del sindaco Emiliano. Ma Bono va avanti e il 21 gennaio 2005 invia agli Enti locali lo schema di convenzione annunciato che avrebbe agevolato il trasferimento dei fondi della Fondazione alla Sovrintendenza. Lo schema di convenzione, però, resta lettera morta: Regione, Comune e Provincia non la firmano e la Sovrintendenza, senza la disponibilità dei fondi, non può indire il secondo bando di appalto. E’ accaduto che il CdA della istituita Fondazione non ha avuto l’assenso del Ministero per la nomina di un team di tecnici chiesti dal Sindaco e il coordinatore del progetto di ricostruzione, Gianmarco Jacobitti, direttore regionale ai Beni Culturali sostiene, in contrapposizione con il Sottosegretario, che i fondi non bastano. Anche Bono, al vertice di dicembre, aveva detto che… alla fine saranno necessari altri 3-4 milioni di euro per gli allestimenti e l’arredo… ma c’è tempo, li troveremo. Jacobitti, invece, insiste e rilancia… non basteranno ugualmente… saranno necessari almeno un’altra dozzina di milioni. La disputa è sospesa. Anzi si ferma tutto perché, nel frattempo, anche la Regione Puglia ha cambiato formazione politica: al centrodestra di Raffaele Fitto succede il centrosinistra. Il 5

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aprile 2005, Nichi Vendola, esponente di Rifondazione Comunista, è eletto nuovo presidente della Giunta regionale. Il 16 giungo, il sottosegretario Bono torna a Bari per un appuntamento che non può disertare: l’inaugurazione dello splendido foyer del Petruzzelli. E’ il primo passo concreto verso la completa ricostruzione del Teatro e, stranamente, c’è voluto tutto il ‘decisionismo’ di Sgarbi prima e di Bono poi per arrivarci. L’impressione è che le parti si siano invertite: lì dove solitamente è lo Stato a porre mille ostacoli per procrastinare la realizzazione di opere di interesse pubblico nel Meridione, nella fattispecie sembra siano i meridionali, gli Enti pubblici pugliesi a seminare ‘paletti’ sulla strada della ricostruzione del Petruzzelli… ho notato uno sforzo continuo in questa città per creare nodi dove non ce ne sono mai stati - sottolinea Bono in un’intervista a Enrica Simonetti della Il 6 dicembre 1980, con l’esibizione di Rudolph NuGazzetta - non ne capisco le finalità e del reyev, il gestore del Petruzzelli, Ferdinando Pinto, resto non sono uno psichiatra. inaugura un decennio di grandi eventi artistici. Eppure i ‘nodi’ ci sono. Il sottosegretario Bono sostiene che ci vogliono altri 3-4 milioni di euro per gli allestimenti e l’arredo… ma c’è tempo, li troveremo… ma non assicura che lo Stato può farsene carico. Né Gianmarco Jacobitti ha smentito che le cifre per completare l’opera di ricostruzione siano diverse da quelle preventivate dal Sottosegretario. E ancora: perché si rifiuta una commissione di tecnici chiesti dal Sindaco per verificare l’adeguatezza del progetto di ricostruzione? Accusarci di rendere le cose più complicate è una falsità - sostiene Silvia Godelli, che ha avvicendato Mario Carrieri nel CdA della Fondazione, in rappresentanza della Regione - noi vogliamo trasparenza, vogliamo capire perché il Sottosegretario parla di 3-4 milioni di euro di finanziamenti aggiuntivi e il direttore regionale della Sovrintendenza insiste che ce ne vogliono altri 12. Altro che ‘nodi’, vogliamo chiarezza e certezze nel prosieguo della ricostruzione. Il 16 giugno doveva essere un giorno di festa per il sottosegretario Nicola Bono: orgoglioso, stupito per la bellezza del foyer che ha visitato con pochi addetti ai lavori nella prima mattinata. Il pomeriggio, invece, comincia male e prima che la cerimonia di inaugurazione volga la termine, finisce peggio. E’ andata male la riunione del CdA della Fondazione, svoltasi nella sala della Giunta del Comune perché, ancora una volta, il Sottosegretario è stato contraddetto da Gianmarco Jacobitti: ci vogliono altri 12 milioni di euro per completare la ricostruzione e non tre o quattro. Ed è andata peggio la cerimonia di inaugurazione del foyer perché durante l’intervento di Bono… a Natale del 2007 festeggeremo con il Petruzzelli aperto… il sindaco Emiliano ha ostentatamente abbandonato la platea, stipata da 400 invitati nel guscio spoglio del grande Teatro ‘rosso’ barese perché, ancora una volta, la data di apertura del Petruzzelli non è stata concordata con lui che 112 dopo tutto è il Presidente della Fondazione.


Per non dimenticare. Una ‘prima’ degli anni Settanta in un Petruzzelli sfavillante di luci e fiori.

L’emozione della moquette rossa stesa in platea per la cerimonia inaugurale, nonostante le sedie di plastica e i mattoni dei palchi ancora a vista - commenta Onofrio Pagone sulla Gazzetta - è talmente forte da indurre all’ottimismo. Non si può non riconoscere il lavoro svolto; è impossibile non compiacersi della capacità progettuale di chi ha ripensato il teatro com’era, della mano abile degli artigiani… è giusto un pizzico di orgoglio per quanto è stato fatto rispetto alle polemiche sterili intorno a cui la storia della ricostruzione si è avvitata negli anni… eppure il Petruzzelli non smentisce la sua storia. L’ottimismo non può soppiantare il realismo: a voler usare la metafora del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, il Petruzzelli resta, di fatto, mezzo vuoto. Doveva essere solo una festa - scrive, invece, Enrica Simonetti nel fare la cronaca della serata inaugurale - il brindisi c’è stato, la festa pure, ma alla fine le strade si sono divise e il Sindaco di Bari è andato via senza visitare il foyer scintillante di profili d’oro e avorio. Tornato a Roma, Bono, piuttosto contrariato per il gesto del Sindaco di Bari, comincia ad inviare lettere di sollecito affinché Regione, Provincia e Comune firmino lo schema di convenzione inviato il 21 gennaio 2005. Quando poi apprende che l’assessore regionale, Silvia Godelli, avrebbe

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dichiarato di non avere alcun documento ufficiale in tal senso, invia una sorta di lettera-ultimatum al CdA della Fondazione… il versamento delle risorse finanziarie da parte degli Enti territoriali alla Direzione regionale della Sovrintendenza deve avvenire al più tardi entro il mese di luglio, altrimenti verrebbe veramente compromessa l’ipotesi di ultimazione dei lavori per dicembre 2007. Nella stessa lettera, infine, Bono rimbrotta l’assessore regionale Godelli facendole osservare che… la principale regola di diritto pubblico è la ‘continuità amministrativa’. C’è il protocollo d’intesa del 7 dicembre 2004 - quello dei ‘nodi sciolti’ - seguito dallo schema di convenzione depositato il 21 gennaio 2005 presso gli uffici della Regione… appare ovvio che se la convenzione non è firmata non sarà mai un documento ufficiale. Godelli gli risponde per le rime… il protocollo d’intesa del 7 dicembre 2004 non è mai stato firmato e quindi non esiste in atti; in quanto alla convenzione, non può essere firmata se non è preceduta da una delibera di modifica da parte degli Enti locali che approvino l’erogazione dei fondi dalla Fondazione alla Sovrintendenza. Quella del Petruzzelli sembra una polemica senza stagioni - scrive la Simonetti sulla Gazzetta il 23 luglio - dopo un ennesimo inverno ‘bollente’ di critiche, repliche e controrepliche, ecco un’altra estate caldissima. Il 22 luglio 2005 il direttore generale per lo Spettacolo, Salvo Nastasi, incontra i rappresentati degli Enti locali nella Fondazione. E’ latore di un invito del sottosegretario Bono per un incontro da tenersi a Roma presso il Ministero dei Beni Culturali il 28 luglio. Oggetto: firmare la convenzione per trasferire i fondi degli Enti locali dalla Fondazione alla Sovrintendenza. Intanto, si apprendono quattro cose: che la Provincia ha già approvato la delibera per il trasferimento dei fondi; che la stessa Sovrintendenza ha ‘innalzato’ i costi per le opere aggiuntive ci vorranno 6 milioni di euro e non più 3 o 4 - che il sindaco Emiliano ha rivisto i suoi conti… a quanto ci risulta mancano altri 11 milioni e sembra evidente che ci troviamo di fronte a persone non affidabili che vorrebbero strumentalizzare la ricostruzione… e che l’assessore regionale, Silvia Godelli, è ancora ‘diffidente’… vado a Roma non per fare una gita ma per trovare disponibilità negli atti da produrre… il progetto è carente di due opere fondamentali come la torre scenica e il circuito Tv interno… problemi finora ‘inconfessati’… se poi da destra s’intende cavalcare in modo propagandistico la questione, che continuino pure a fare tanto rumore. Sarà, come diceva Shakespeare, tanto rumore per nulla. Non è una ‘battuta’. E’ la risposta ai consiglieri dell’opposizione di centrodestra che in una conferenza stampa hanno voluto sottolineare che… c’è in questa Amministrazione comunale il terrore di non essere protagonisti nelle scelte fatte dal centrodestra nella vicenda Petruzzelli. Licenziato Gianmarco Jacobitti Il pomeriggio di giovedì 28 luglio sono a Roma il presidente della Giunta regionale Vendola, il presidente della Provincia Vincenzo Divella, il Sindaco e l’intero CdA della Fondazione. Ci sono tutti, insomma. Tutti, tranne il direttore generale per i Beni Culturali, Gianmarco Jacobitti, che alla vigilia dell’incontro romano è stato sollevato dall’incarico di coordinatore dell’opera di ricostruzione del Petruzzelli… dava progetti di fantasia - dirà Bono - e quindi il Ministero l’ha ritenuto incongruo alla funzione. Ma a peggiorare la posizione di Jacobitti - che si difende sostenendo… che non si può fissare un tetto di spesa e modulare i progetti a quella cifra - la Gazzetta pubblica lo stesso giorno del suo siluramento la sintesi di una relazione degli ispettori dell’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici nella quale sono sottolineati essenzialmente tre rilievi: era inappropriato iniziare l’ope114 ra di restauro del foyer; è stato assegnato dalla Sovrintendenza un ingiustificato e inutile ‘pre-


Un’altra grandiosa opera del pittore barese Raffaele Armenise: l’enorme telone che copre il sipario rosso raffigurante l’ingresso del Doge Orseolo II a Bari nel 1002.

mio di accelerazione’ dei lavori, in assenza di un’effettiva celerità esecutiva e, infine, nello ‘spezzettare’ i lavori per competenza tecnica, la Sovrintendenza ha eluso l’obbligo di affidarli tramite gara pubblica. I rilievi non sono di poco conto tanto che il Sottosegretario chiede al Ministro di… avviare un procedimento disciplinare teso ad accertare la correttezza dei comportamenti adottati dal direttore generale Jacobitti. Un incendio dopo l’altro, insomma. Quello che non hanno fatto gli esecutori materiali, Francesco Lepore e Giuseppe Mesto, che lasciando in piedi l’immobile hanno ‘acceso’ la speranza di poterlo ricostruire, lo stanno facendo le Istituzioni, tutte, nessuna esclusa. Stanno mettendo in piedi un sofisticato laboratorio scientifico per creare dal nulla un nuovo tarlo capace di aggredire e distruggere la più antica delle malattie meridionali: la speranza. E tuttavia a Roma, il 28 luglio, il CdA della Fondazione prima ottiene il via libera per la nomina di una Commissione tecnica che dovrà valutare le opportune modifiche al progetto originale - è, perciò, ovvio che a causa dei lavori della Commissione appare compromessa la speranza di avere la fruibilità del Teatro per Natale 2007 - poi, è sì raggiunta un’intesa di massima per il trasferimento dei fondi dalla Fondazione alla Sovrintendenza, ma ancora una volta una convenzione in tal senso non è stata firmata. Nel corso della riunione romana - dice Salvo Nastasi ad Enrica Simonetti - è stato confermato e stabilito con chiarezza che Regione, Comune e Provincia verseranno al più presto direttamente alla Direzione regionale per i Beni Culturali le somme di loro pertinenza - 6,8 milioni di euro della Regione e 5 milioni di euro ciascuno del Comune e della Provincia - mentre sono già disponibili nelle casse della Sovrintendenza i 4,5 milioni di euro provenienti dai fondi ministeriali del gioco del lotto… mi sento di dire che con poco più di 5 milioni di euro aggiuntivi ai 21,8 già reperiti, gli arredi e le spese varie saranno completate a regola d’arte. Il sottosegretario Bono - conclude Nastasi - si è impegnato a reperire a carico dello Stato questi ulteriori fondi durante i prossimi mesi. Ma l’assessore regionale Silvia Godelli non nutre lo stesso ottimismo di Nastasi… sì, i soldi. Intanto non sappiamo quanto effettivamente manca… e se sono superiori alle stime fatte dal Ministero, chi mette la differenza? Dall’incontro romano, dunque, non è sortito un accordo, ma una presa d’atto: i fondi ci sono,

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ma non nella disponibilità della Sovrintendenza; il progetto originale ha bisogno di essere revisionato ed emendato, ma non si può farlo se prima non vengono nominati i tecnici revisori; Regione, Comune e Provincia sono pronti a versare nelle casse della Soprintendenza i fondi stabiliti, ma non lo faranno se prima non avranno certezze, sia sull’entità dei costi aggiuntivi, sia su chi dovrà finanziarli; la Sovrintendenza è pronta ad indire un secondo bando di appalto, ma non può procedere se prima non ha i fondi in cassa… e così di seguito fino all’infinito. Morale: uno scaricabarile incredibile, assurdo e scandaloso. Ma queste sono le regole della democrazia, della burocrazia e della politica. I processi-bis Eppure, in tutta questa fantastica altalena di speranze e delusioni, ci sono due certezze: gli esecutori materiali del rogo del Petruzzelli, Lepore e Mesto, professionisti esperti nel ramo ‘incendi’, sono stati individuati e condannati. I presunti mandanti, invece, loro pure individuati e processati, sono stati assolti. Il ‘fuochista’ Francesco Lepore è stato condannato in primo grado, in Appello e in Cassazione - sentenza del 26 ottobre 2005 - a sei anni e mezzo di reclusione; il suo ‘collega’ Giuseppe Mesto è stato condannato in primo grado, Appello e al processo di Appello-bis - sentenza del 14 luglio 2005 - a quattro anni e due mesi. Nello stesso processo che conferma per la terza volta la condanna di Mesto, i presunti mandanti dell’incendio, Ferdinando Pinto, Antonio Capriati e Vito Martiradonna - che secondo l’accusa avrebbero concordato il criminale rogo perché Pinto potesse saldare un debito usuraio contratto con il clan di Capriati e Martiradonna e lucrare poi sui fondi, pubblici o privati, stanziati per la ricostruzione del Teatro - sono assolti ‘per non aver commesso il fatto’. Non essendoci ‘mandanti’, l’ex custode del Petruzzelli, Giuseppe Tisci, accusato di aver agevolato l’ingresso dei ‘fuochisti’ dall’uscita secondaria del Teatro, è scagionato. Lui pure non ha commesso il fatto. E’ il caso di convincersi - commenta Onofrio Pagone sulla Gazzetta del 15 luglio - con la sentenza di Appello pronunciata ieri sul rogo del Petruzzelli si chiude un pagina della storia di Bari. Quell’incendio ha sfregiato la città e la Puglia. Quelle fiamme si sono rivelate negli anni la metafora di una crisi d’identità, del ripiegamento culturale ed economico. Quel rogo è l’icona di un tempo, di anni di plastica, di uno sviluppo finto, di affari effimeri, di lustrini senza luce durante la grande stagione di un Teatro che sotto la guida di Pinto portò il nome di Bari nel mondo. Per tutto ciò la vicenda del Petruzzelli - continua Pagone - è lo specchio della Bari di fine secolo: inconcludente, chiacchierona, vanesia, divisa e anzi frammentata, animata dai veti incrociati, innamorata dei ‘tavoli’ e delle cordate. Cioè esattamente l’opposto dello spirito imprenditoriale dei costruttori del Teatro, della baresità levantina, della linfa commerciale. Il processo rischiava di diventare la costruzione di un giudizio sulla storia recente della città e dunque il verdetto dei giudici ripristina le regole del diritto anche se lascia quel senso di amarezza e di disappunto. E’ finita dunque? Non ancora. La Procura di Bari ricorre in Cassazione e il 15 gennaio del 2007 la Suprema Corte sancisce definitivamente che Pinto, Capriati e Martiradonna ‘non hanno commesso il fatto’. Usciti di scena i presunti mandanti del rogo, resta una muta domanda: chi ha chiesto agli autori materiali, Lepore e Mesto incendiari di professione, di dar fuoco al Petruzzelli quell’infe116 lice notte del 27 ottobre 1991? Nessuno.


E la ricostruzione? Dopo l’incontro romano del 28 luglio 2005 fra il sottosegretario Bono e il Consiglio di Amministrazione della Fondazione, si è fermato tutto. O meglio, i lavori proseguono, ma solo per quelli già appaltati. La commessa più cospicua è in alto mare. Le posizioni sono rimaste ferme a quell’incontro: senza la nomina di una commissione tecnica gli Enti locali non firmeranno la convenzione per il trasferimento dei promessi fondi dalla Fondazione alla Sovrintendenza; senza la disponibilità economica la Sovrintendenza non può indire il bando di gara per appaltare il grosso dei lavori e senza il bando il teatro Petruzzelli resta un guscio vuoto e piagato dalle fiamme e da una micidiale miscela di interessi pubblici e privati. 2006: l’esproprio Con le elezioni politiche di primavera l’inquilino di Palazzo Chigi cambia. Al premier di centro destra Silvio Berlusconi succede il premier di centro sinistra Romano Prodi che a settembre ha un appuntamento istituzionale che non può disertare: l’inaugurazione della Fiera del Levante a Bari. Il 9 settembre, nella nuova ampia sala convegni della Fiera, c’è attesa per il discorso del nuovo presidente del Consiglio che praticamente gioca in casa: Regione, Comune e Provincia sono tutte amministrate dal centro sinistra. E’, invece, il sindaco Michele Emiliano a rubare la scena… così come abbiamo mantenuto la promessa di abbattere Punta Perotti, con la stessa forza e determinazione oggi dico: siamo determinati a ricostruire il teatro Petruzzelli. Lo ricostruiremo presto. Lo ricostruiremo comunque. Costi quel che costi. Meno di un mese dopo, il 3 ottobre, Romano Prodi firma un decreto legge in cui è detto chiaramente… al fine di garantire la celere ripresa delle attività culturali di pubblico interesse presso il teatro Petruzzelli di Bari… dispone che il Comune acquista la proprietà del Teatro… demanda al Prefetto di Bari di determinare l’indennizzo spettante ai proprietari e assegna al ministero per i Beni Culturali un contributo di 8 milioni di euro, per l’anno 2007, per il completamento dei lavori di ristrutturazione. E’ una bomba. I legali degli eredi Petruzzelli subito annunciano un ricorso alla Consulta e tuttavia il 24 novembre il decreto è convertito in legge e pubblicato quattro giorni dopo sulla Gazzetta Ufficiale. Nel frattempo, mentre i legali degli Eredi del Teatro preparano il ricorso avverso l’esproprio che ritengono incostituzionale, il Sindaco di Bari sollecita il ministro per i Beni Culturali, Francesco Rutelli, a procedere d’urgenza per mettere in sicurezza il teatro… poiché la struttura teatrale presenta numerosi punti di criticità strutturale che, nel caso di intense precipitazioni, potrebbe essere definitivamente compromessa. Insomma, così com’è, il Teatro è pericoloso. E’ vero?… non è vero - sostengono i proprietari - tant’è che il Teatro è aperto per visite a privati cittadini e a scolaresche. Il Ministro, però, accoglie la richiesta del Sindaco e il 22 dicembre adotta un’ordinanza di Protezione Civile e nomina l’Ing. Angelo Balducci Commissario straordinario. 2007: l’ultimo appalto Il primo faccia a faccia fra il Commissario straordinario e il sindaco Emiliano, presidente del CdA della Fondazione, si tiene a Bari il 15 gennaio. E’ lo stesso giorno in cui la Cassazione scagiona definitivamente Ferdinando Pinto quale mandante del rogo del Petruzzelli. La riunione è interlocutoria, ma per i poteri delegati al Commissario si procede rapidamente. Il bando di gara europeo per assegnare un appalto di 28 milioni di euro, è pubblicato il 26 febbraio. Vi partecipano sei aziende compreso il Consorzio barese di Recupero Patrimonio Artistico che ha portato a termine i lavori di consolidamento delle cupola e il restauro del foyer. Le buste delle offerte al ribasso

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vengono aperte all’inizio di maggio. Vince un consorzio composto dalla Conscoop di Forlì e dalla Società Appalti Costruzioni di Roma che si aggiudica i lavori per 23 milioni e 370mila euro. L’11 maggio Francesco Rutelli è a Bari accompagnato al governatore Nichi Vendola il Sindaco e il presidente della Provincia Vincenzo Divella - per consegnare le chiavi del cantiere ai rappresentanti del Consorzio che ha vinto l’appalto… è una grandissima soddisfazione - afferma il Sindaco - il sogno diventa realtà… la città si riappropria del suo Teatro. Si chiude oggi - sostiene il Governatore - una vicenda che ha rappresentato una doppia vergogna: quella del rogo e quella della interminabile fase della ricostruzione. Il Ministro, invece, afferma che la consegna del Teatro… è prevista per la fine del Il sindaco Michele Emiliano 2008… ho chiesto al Maestro Riccardo Muti la disponibilità a dirigere il concerto inaugurale… vedremo. Ma Michele Emiliano freme. Il 6 dicembre è San Nicola e il Sindaco vorrebbe ad ogni costo consegnare ai baresi il ricostruito Teatro proprio quel giorno. Il 29 settembre, giorno di San Michele, Bari celebra la prima ‘notte bianca’ dedicata ai Castelli e al Patrimonio artistico. Ospite d’onore, sul megapalco allestito in piazza Prefettura, è Renzo Arbore con la sua Orchestra Italiana. Ma il clou della serata avviene prima che si accendano le luci del palco. Al secondo piano del vecchio mercato del pesce in piazza Ferrarese, sull’angolo che si affaccia a corso Cavour e corso Vittorio Emanuele, sono stati sistemati due giganteschi pannelli raffigurante il fastigio del Petruzzelli. Sopra ai pannelli sono stati sistemati due grandi orologi elettronici rosso fuoco. Alle 19, nell’enorme piazza Ferrarese, il Sindaco, rivolto alla folla che lo circonda, dice… prendere un impegno preciso, fissando in anticipo ore, minuti e secondi è un atto d’incoscienza… non so se ce la faremo, ma ce la metteremo tutta… subito dopo avvia il timer del conto alla rovescia: al 6 dicembre mancano 10.420 ore, 42 minuti e 28 secondi. 2008: un pasticcio dopo l’altro Mentre i lavori per la ricostruzione del Teatro procedono senza intoppi, il 29 gennaio i legali degli eredi Petruzzelli e gli stessi Eredi sono chiamati ad un’audizione davanti alla Corte Costituzionale che sia pure preliminarmente ritiene… che ricorra in concreto una situazione di assoluta evidenza della mancanza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza… indispensabili per giustificare il decreto legge del 3 ottobre 2006 in ottemperanza all’articolo 77 della Costituzione. Forti di questo primo pronunciamento della Consulta i legali degli Eredi tornano a Bari e denunciano pubblicamente, occupando una parte del Teatro, l’esproprio del Petruzzelli definendolo una rapina. Il 30 aprile 2008 la Consulta emana la sentenza definitiva e conferma che gli articoli 2 e 3 118 del decreto che espropriano il Teatro sono incostituzionali e che i vizi di quel decreto non posso-


Il politeama Petruzzelli il giorno dell’inaugurazione

no ritenersi sanati dalla successiva conversione in legge del 24 novembre 2006. Morale: il teatro Petruzzelli non può essere acquisito dal Comune. E adesso? Ora il Petruzzelli, che friggeva allegramente in una grossa padella, è finito nella brace. Il decreto di esproprio aveva cancellato dalla legge che istituiva la 14ma Fondazione… i diritti d’uso esclusivo sul teatro Petruzzelli in conformità del protocollo d’Intesa sottoscritto il 21 novembre 2002 tra la Regione, la Provincia, il Comune e le parti private; la sentenza della Consulta ha abrogato sia l’esproprio sia il mandato al Prefetto di Bari di determinare l’indennizzo spettante ai proprietari… per mancanza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza… necessari per l’adozione di un decreto. Meno di due mesi dopo la decisione della Consulta, il 18 giugno, il Tribunale di Bari emette un decreto ingiuntivo alla Fondazione sostenendo che… la cancellazione dei diritti d’uso esclusivo sul teatro Petruzzelli… sottrae alla Fondazione Lirico Sinfonica del Petruzzelli e teatri di Bari la gestione delle attività del Teatro perciò, allo stato, non vi è alcun collegamento tra la predetta Fondazione e il teatro Petruzzelli. Per il sindaco Emiliano non cambia nulla… la sentenza non ha alcun effetto sui lavori in corso. Ne ha eccome invece. Ritorno al passato Cosa resta, ora, della Fondazione? In sostanza nulla: non ha i soggetti privati, gli Eredi; non ha l’immobile, il Teatro, e non ha neppure la gestione delle attività non potendo utilizzare il marchio Petruzzelli… la Fondazione non esiste più… scrive, infatti, donna Vittoria Messeni Nemagna al nuovo ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi. Nella stessa lettera donna Vittoria chiede il blocco dei finanziamenti pubblici, il rendiconto dei proventi pubblicitari derivanti dall’utilizzo del marchio Petruzzelli nei due anni di valenza dell’esproprio, i danni per le

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modifiche apportate al progetto di ricostruzione originale del Teatro e il ruolo del nuovo Commissario straordinario Angelo Balducci. Alle stesse conclusioni arriva anche l’Avvocatura distrettuale dello Stato che in una ‘memoria’ inviata il 1° luglio al ministero dei Beni Culturali, alla Corte dei Conti, al Prefetto e al Sindaco di Bari prospetta due soluzioni: finire i lavori, pagare i danni agli Eredi, poiché si ritiene che neanche il protocollo d’intesa è valido e lasciare tutto com’è, oppure, fare un nuovo esproprio, questa volta, per via ordinaria. Il tempo di digerire il nuovo colpo di scena che ne arriva un altro. Il 9 settembre si apprende che per completare la ricostruzione del Teatro sono stati spesi ulteriori 13 milioni di euro… sono stati necessari imprevedibili lavori straordinari e la commessa è finita fuori budget… scrive in una nota il commissario Balducci al ministro Bondi. Solo che la nota del Commissario non è del giorno prima, ma risale addirittura al 24 giugno precedente. Ci si chiede: perché quella relazione è venuta fuori solo ora? C’è qualcuno che rema contro il Petruzzelli? Nel frattempo scoppia un’altra polemica. Si è scoperto che sul cartiglio che recava l’anno di costruzione del Teatro, 1903, è stato posto l’anno del ricostruzione, 2008. Perché, come mai, chi lo ha deciso? Nessuno lo sa, anzi, lo sanno tutti, ma nessuno ha posto il problema. Eppure quel cartiglio è costato circa 20mila euro. In breve, la vicenda del Petruzzelli si è fatta di nuovo così maledettamente ingarbugliata che se qualcuno non fa un passo indietro, o un passo avanti, il Teatro rischia di restare chiuso ancora per anni soprattutto se passa l’idea di un nuovo esproprio per via ordinaria. Si rialza il sipario Inizia così la gara di rivalutazione del protocollo d’intesa del 21 novembre 2002 divenuto, improvvisamente, l’unico documento che garantisce le parti in causa: la Fondazione ottiene la gestione del Teatro e del marchio ‘Petruzzelli’ per 40 anni; gli Eredi, per parte loro, non sono chiamati a pagare la ricostruzione, sono affrancati dalla responsabilità di gestire le stagioni liriche, non devono sostenere le spese di sorveglianza e manutenzione che un simile immobile richiede, ottengono un congruo canone e, dulcis in fundo, fra 40 anni torneranno proprietari. In più, quale premio per i ‘sacrifici imposti’ dal protocollo, gli Eredi possono incamerare anche i canoni di locazione degli esercizi commerciali situati nell’edificio. Ma la città vuole riappropriarsi del ‘suo’ Teatro e il Sindaco, nonché presidente della Fondazione, non intende venir meno alla parola data ai sui concittadini proprio in vista del traguardo: il 6 dicembre, continua a dire, il Petruzzelli riapre i battenti e, agli Eredi, lancia un messaggio di pace… è intenzione della Fondazione costruire una relazione virtuosa con la proprietà del Teatro… intendiamo dare alla famiglia Messeni Nemagna un ruolo che è quello di Eredi di una tradizione di un nome e di una gratitudine che la città ha nei loro confronti. Anche il ministro Bondi è conciliante… è intenzione del governo restituire ai baresi ed al mondo intero questo splendido Teatro… e conferma la disponibilità del suo dicastero di erogare 6,7 milioni di euro per coprire parte del ‘buco’ di 13 milioni denunciati dal Commissario… voglio augurarmi che anche la Regione Puglia confermi il suo impegno finale. Pronta la risposta dell’assessore regionale al Mediterraneo Silvia Godelli… sono a disposizione 6,6 milioni di euro… nonostante la mancanza di chiarezza giuridica; il cartiglio? Si troverà un modo per mettere tutte e due le date, sia quella della fondazione, sia quella della ricostruzione. In conclusione: inaugurare il Petruzzelli il 6 dicembre è divenuta una priorità assoluta sostiene il sindaco Emiliano che ha già chiuso un contratto con l’orchestra del ‘Maggio Fiorentino’ 120 diretta dal Maestro Zubin Mehta. Per l’occasione ha invitato il presidente del Consiglio… ci


sarò… ha detto Berlusconi inaugurando a settembre la Fiera del Levante. Emiliano spera di avere ospite anche il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che proprio il giorno 6 sarà a Bari per la cerimonia ufficiale di consegna della chiesa Russa barese alla chiesa ortodossa di Mosca. Il 23 ottobre 2008 il ministro Sandro Bondi incontra a Roma i rappresentanti legali della famiglia Messeni Nemagna. La riunione è interlocutoria. Il Ministro, assistito da diversi componenti del suo Gabinetto vuole capire e approfondire ogni dettaglio; i legali degli Eredi, invece, presentano una lista di richieste in otto punti il più importante dei quali è una garanzia liberatoria che esoneri la famiglia Messeni Nemagna da ogni onere o richiesta di rimborso sia per la parte della ricostruzione finanziata dalla Fondazione sia per quella effettuata e finanziata dallo Stato, compresi, ovviamente, i famosi 13 milioni di euro fuori budget. Il Ministro prende atto… bisogna trovare una soluzione giuridica… un condono tombale… una legge… vedremo. E dispone d’istituire un tavolo tecnico. Domanda: Ministro e per l’inaugurazione del 6 dicembre? Non faccio l’organizzatore di eventi, risponde Bondi. Tranquilli, gli fa eco il sindaco Emiliano da Bari… la data del 6 dicembre resta confermata. Il 27 ottobre, intanto, 17mo anniversario dell’incendio, il Sindaco invita gli eredi Petruzzelli e i rappresentanti delle istituzioni locali ad una breve visita nel Teatro quasi ultimato. I Petruzzelli disertano la cerimonia, ma Emiliano, sempre conciliante sostiene… li capisco… ma il 6 dicembre si apre… non vogliamo fare ricatti, ma neanche subirne. L’8 novembre il Sindaco annuncia due nuovi eventi: una festa dei baresi e delle maestranze per la mezzanotte del 5 dicembre - con un concerto del tenore Placido Domingo - e un sorteggio di 1.200 biglietti, riservati ai cittadini baresi, per assistere gratuitamente alla serata inaugurale… per la serata del 5 - aggiunge Emiliano - mi assumo personalmente ogni responsabilità… per il 6… se il governo lo vuole aprire, lo apra. Dunque, la prima certezza del Sindaco, nonché presidente della Fondazione, s’è già incrinata. Ma egli non è certo il tipo che si arrende facilmente. Gli basta un piccola carica e subito si riaccende di entusiasmo. All’inizio di novembre, per iniziativa della CGIL-spettacolo di Bari, nasce il ‘Comitato 6 dicembre’ che in pochi giorni raccoglie 25mila firme. Così, prima confortato dal successo della petizione popolare poi dal primo dei tanti collaudi necessari, il collaudo statico del Teatro, Emiliano parte come un treno dell’alta velocità… a questo punto - dichiara il 18 novembre - io apro il teatro Petruzzelli il 6 dicembre, punto e basta, anche se il ministro Bondi dovesse continua a di re di no! Infatti, dieci giorni dopo, ‘l’uomo del monte’ dice no… in assenza di collaudi, controlli e verifiche programmate fino al 28 febbraio 2009, nel teatro Petruzzelli non sarà consentita alcuna attività artistica. L’inaugurazione potrà avvenire nel mese di marzo. Punto e a capo? Peggio. 6 dicembre 2008: San Nicola di Bari Doveva essere una di quelle giornate da scolpire a caratteri cubitali su un marmo pregiato… la cronaca di una data e di un anno che riempirà pagine di libri di storia cittadina… aveva detto il Sindaco e presidente della Fondazione Petruzzelli. Si rivelerà, invece, un fiasco altrettanto storico e senza precedenti. E’ annullato il concerto del tenore Placido Domingo programmato per la mezzanotte del 5 dicembre e conseguentemente ‘congelati’ i 1.200 invitati della riffa. E’ annullata la cerimonia di consegna della chiesa Russa al patriarcato ortodosso della Russia per l’improvvisa morte, il 5 dicembre, del patriarca Alessio II. Per l’occasione sarebbe venuto a Bari il presidente della Russia, Dimitri Medvedev e il Capo dello Stato italiano Giorgio Napolitano il quale sicuramente

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si sarebbe fermato per la cerimonia inaugurale del Petruzzelli assistendo, insieme al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al concerto dell’orchestra del Maggio Fiorentino diretta dal Maestro Zubin Mehta. Perfino l’orologio elettronico del conto alla rovescia di piazza Ferrarese, qualche giorno prima del 6 dicembre, è andato in tilt. Il tempo di smaltire la delusione per i mancati eventi politico-culturali del 6 dicembre, ed ecco che cominciano a farsi sentire, anche in Europa, gli effetti della più grave crisi finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti negli ultimi ottant’anni. Le conseguenze in Italia sono drammatiche. Le banche restringono il credito e migliaia di piccole e medie aziende, quando non riescono a salvarsi dal fallimento, licenziano o mettono in cassa integrazione centinaia di migliaia di lavoratori. Il governo tenta di correre ai ripari con aiuti al sistema produttivo e alle famiglie in difficoltà, ma la coperta è sempre corta. Per coprire la testa bisogna scoprire i piedi e, guarda caso, ‘a piedi’ dell’Italia ci sono i meridionali. Così, il Ministero del Tesoro prima taglia i contributi al Fondo unico per lo spettacolo, poi quelli per il Fondo delle aree svantaggiate. Morale, l’assessore regionale al Mediterraneo Silvia Godelli, che 122 già alla prima riunione del ‘tavolo tecnico’ ministeriale aveva avanzato l’ipotesi di non avallare


il protocollo d’intesa sottoscritto nel 2002 con gli Eredi del Petruzzelli, ora rifiuta di versare il promesso, ulteriore contributo di 6,5 milioni di euro a copertura delle spese finite fuori budget per completare la ricostruzione del Teatro. La risposta del ministro Sandro Bondi alla nuova posizione dell’assessore Godelli, condivisa dal presidente della Regione Nichi Vendola, non si fa attendere… vuol dire che il Teatro rimarrà chiuso. Come non bastasse, insieme alla polemica fra la Regione Puglia e il Ministero per i Beni culturali, nella quale il sindaco Emiliano si sente in dovere di fare da mediatore, se ne innesca un’altra fra la Provincia di Bari e la Regione. Protagonista, ancora una volta, l’assessore Silvia Godelli. Il presidente della Provincia, Enzo Divella, chiede alla Fondazione di farsi carico dei 51 professori dell’orchestra sinfonica assunti dalla Provincia con il sistema della chiamata diretta e da sempre retribuiti dall’Ente provinciale. In cambio Divella assicura alla Fondazione un contributo di 2,5 milioni di euro, per due anni, in attesa di accedere al Fondo unico per lo spettacolo. Non se ne parla, risponde l’assessore Godelli. Intanto è necessario l’avallo del Ministero per i Beni culturali e, quand’anche ci fosse, bisognerà fare le assunzioni per concorso. Divella perde le staffe e in un’intervista alla Gazzetta sbotta… ora basta… i soci della Fondazione hanno intrapreso un percorso condiviso. Non dobbiamo permettere a nessuno di porre ostacoli di qualsiasi natura alla definitiva apertura del Teatro. Se invece la Regione intende comportarsi diversamente… si tolga dai piedi. E’ il 17 gennaio del 2009. Lo stesso giorno il Presidente della Regione Puglia ribadisce… la Regione non ha cambiato posizione. E’ la politica del governo nei confronti del Mezzogiorno che rischia d’impedire il completamento definitivo della ricostruzione del nostro Teatro con i tagli feroci e ingiustificati ai Fondi per le aree svantaggiate. In tale ottica non possiamo più garantire quell’ulteriore promesso contributo. Come uscirne? Semplice… o il ministro Bondi pone la questione sul tavolo del governo oppure applichi al Petruzzelli le norme del Codice Urbani garantendo così la fruibilità pubblica di un Teatro la cui ricostruzione è stata pagata esclusivamente dalle tasche dei cittadini. Più chiaro di così! Il Presidente della Regione non solo ha rimesso in discussione il protocollo d’intesa, ma torna a suggerire l’esproprio, una tesi ormai condivisa da non pochi cittadini che vanno a sottoscrivere la ‘Class Action’ promossa da tre avvocati, prefigurante un ‘danno di massa’. Nell’esposto si contesta, infatti, che la ricostruzione del Teatro, pagato interamente con denaro pubblico, possa ritenersi ancora proprietà privata. Peccato che il nuovo strumento giuridico, approvato il 10 luglio 2009, andrà in vigore solo dal 1° gennaio 2010 e, soprattutto, non potrà essere applicato retroattivamente. Paradossalmente, solo il sindaco Emiliano, uno dei promotori dell’esproprio, passa da un ‘tavolo’ all’altro per mediare in difesa del protocollo d’intesa della proprietà e della Fondazione: teme che ogni iniziativa contro possa di nuovo procrastinare la data dell’inaugurazione, fissata per il 21 marzo con la rappresentazione della Turandot di Giacomo Puccini. All’inizio di febbraio, intanto, tecnici e operatori della Fondazione cominciano ad entrare nel Petruzzelli per prendere confidenza con le nuove sofistica attrezzature. La polemica fra la Regione Puglia e il ministro per i Beni culturali per coprire la parte del ‘buco’ delle spese extra, è rimasta ‘appesa’; quella per l’orchestra sinfonica della Provincia si è risolta con una convenzione a tempo e dopo le elezioni di giugno con un accordo che ha soddisfatto Provincia e Fondazione; gli Eredi proprietari del Teatro osservano un religioso silenzio e il sindaco nonché Presidente della Fondazione, Michele Emiliano, ha già nelle orecchie quell’ultimo acuto dell’aria più famosa della Turandot… all’alba vincerò, vin…ceròòò, vin…cee…ròòòòò!

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Elezioni amministrative, escort e sollazzevoli storie Il 21 marzo, giornata fredda e piovosa, il melodramma di Puccini non avrà l’onore di essere rappresentato nel nuovo, sfavillante Petruzzelli. L’opera sarà allestita ed eseguita nel salone conferenze della Fiera del Levante nella versione concertistica. Nessuno canterà… all’alba vincerò. Michele Emiliano ha perso il braccio di ferro con il ministro Sandro Bondi: senza l’ultimo pezzo di carta che certifica la totale fruibilità del Teatro, ha ribadito il Ministro, le chiavi del Petruzzelli non saranno consegnate. Ma ecco che si fa strada un nuovo problema: quando il Teatro avrà l’ultima liberatoria, a chi l’impresa di costruzione dovrà consegnare le chiavi: alla Fondazione o ai proprietari? Gli Eredi sostengono che formalmente le chiavi vanno consegnate a loro. Saranno poi loro a darle alla Fondazione per la gestione delle stagioni liriche e concertistiche. Potrebbe essere un percorso corretto - sostiene Mario Carrieri consigliere della Fondazione su nomina del ministro Bondi - a condizione, però, che la proprietà rilasci alla Fondazione un’ampia liberatoria da ogni pretesa di danni per non essere soggetta a rischi di nuove, annose, onerose, incerte vicende giudiziarie che potrebbero compromettere il lavoro produttivo della Fondazione stessa. Il pensiero di Mario Carrieri è chiaramente rivolto alla richiesta di danni avanzati dagli Eredi per le modifiche apportate al progetto originale di ricostruzione e per l’uso del marchio nei due anni di valenza dell’esproprio. Dunque, siamo di nuovo in una situazione di ristagno: gli Eredi pretendono di riprendersi il teatro non senza una garanzia che li esoneri da ogni onere o richieste di rimborsi - i famosi 13 milioni di euro fuori budget -; la Fondazione, prima di caricarsi della gestione del teatro pretende dagli Eredi un’analoga garanzia che li esoneri dal pagamento di presunti danni materiali e d’immagine. Altro che… com’è triste Venezia! A Bari si sprofonda in un lago di lacrime. Indignarsi è il meno… questa vicenda ha superato ogni limite - sbotta il deputato pd Francesco Boccia - se il Petruzzelli deve essere gestito dal pubblico che pubblica sia anche la proprietà. Si proceda allora ad un nuovo esproprio per via ordinaria, si riconosca un equo indennizzo alla proprietà e si vada avanti. Ma è una strada troppo lunga… c’è una scorciatoia - suggerisce l’assessore regionale Silvia Godelli - si applichi il Codice Urbani per i Beni culturali e si dia il via all’esproprio. I legali degli Eredi naturalmente parlano di ‘tradimenti’, di inadempienze di accordi… ma va bene così se si cercano le motivazioni per riaprire un altro decennio di contenziosi. La verità è che tutte le strade percorribili sono accidentate di massi o di buche difficili da percorrere. Ancora non si è riusciti a determinare se il Teatro è stato ricostruito, ristrutturato o restaurato e non si riesce a capire a chi il Commissario straordinario alla ricostruzione dovrebbe consegnare le chiavi del Petruzzelli dopo la firma dell’ultimo certificato di agibilità. Per un parere in tal senso, il commissario Angelo Balducci scrive all’Avvocatura Generale dello Stato che il 29 aprile, in sintesi, risponde: tenuto conto che gli Eredi sono stati acquiescenti all’esecuzione dei lavori, sia quelli eseguiti dalla Sovrintendenza regionale, sia quelli eseguiti dal Commissario straordinario dopo il decreto di esproprio; considerato che gli Eredi non si sono attivati a seguito dell’annullamento dell’esproprio per ottenere la consegna immediata dell’immobile, ciò… comporta il diritto del Ministero al rimborso delle somme impiegate per la ricostruzione del complesso immobile - 50 milioni di euro - o, quanto meno, a quelle impiegate dal Commissario straordinario - 13 milioni di euro - per l’espletamento dei suoi compiti. Gli stessi diritti, però, il Ministero potrebbe vantarli anche dal Comune di Bari qualora fosse ritenuto effettivo proprietario dell’immobile ai sensi del contratto di concessione del suolo stipulato 124 nel 1896 dove si specifica che in caso il Politeama fosse danneggiato e crollasse per un incen-


dio, i concessionari hanno il diritto di rimettere il Teatro nello stato primitivo entro tre anni, contrariamente, hanno il dovere di restituire il suolo libero da ogni ingombro entro un anno. Ecco la soluzione del rebus. Era lì, è sempre stata lì a portata di mano, scritta e sottoscritta nel documento di concessione del suolo fin dal 1896, ma nessuno l’ha voluta vedere. Eppure, quando si cominciò ad invocare l’aiuto dello Stato, qualcuno lo aveva anche detto. La replica dei proprietari al parere scritto dell’Avvocatura dello Stato, ignora totalmente la parte inerente alle possibili cause di danneggiamento sottolineati dai legali dell’Avvocatura e commentano: il Commissario straordinario ha proseguito nei lavori anche dopo l’annullamento dell’esproprio supplendo così agli obblighi assunti nel protocollo d’intesa dagli Enti Pubblici territoriali tramite la Fondazione. Sono loro, quindi, a godere dei lavori extra e sono loro a

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dover effettuare eventuali rimborsi. Ma la Fondazione non è firmataria del protocollo d’intesa e presto, anche la Regione Puglia e il Comune finiranno per disconoscere quel documento. E la giostra… torna a girare. Ma qualcuno comincia ad essere scettico sulla causa degli Eredi. Il 4 maggio 2009 l’avvocato Michele Costantino, legale di Vittoria Messeni Nemagna, rimette il suo mandato e notifica a donna Vittoria, alla Regione, Provincia e Comune di Bari, il pignoramento delle future spettanze degli eredi Petruzzelli per un credito di un milione di euro maturati in 18 anni di attività professionale per curare gli interessi di donna Vittoria nel contenzioso contro Ferdinando Pinto e gli 126 Enti Pubblici.


Il giorno dopo, 5 maggio, mentre Regione e Comune si affrettano a comunicare che nulla devono agli Eredi, il comitato tecnico regionale per la prevenzione degli incendi annuncia di aver firmato l’ultimo certificato. Il Teatro è ora agibile, può essere aperto al pubblico. Ma resta chiuso: è cominciata la campagna elettorale per eleggere il nuovo Sindaco di Bari e il nuovo Presidente della Provincia ed è alquanto ovvio che consegnare il Teatro nelle mani del sindaco uscente, Michele Emiliano, candidatosi per un secondo mandato, significherebbe dargli una bella spinta alla sua rielezione. Ma perché resta chiuso? Perché su quell’ultimo certificato manca la firma della Commissione provinciale di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo che non è stata convocata e non si è riunita. A sfidare Emiliano alla massima carica cittadina è l’on. Simeone Di Cagno Abbrescia già sindaco di Bari dal 1995 al 2004. Naturalmente la partita si gioca sul Petruzzelli ed Emiliano, convinto assertore de: ‘il Petruzzelli subito ai baresi’, vuole dimostrare che la mancata consegna del Teatro all’Amministrazione di centrosinistra uscente è parte del gioco politico per favorire Di Cagno Abbrescia il quale si gioca malamente il vantaggio avuto dal governo centrale: accetta un dibattito pubblico svoltosi su un palco davanti alla facciata del Politeama e quando Emiliano lo invita a recarsi con lui a Roma dal ministro Bondi a perorare la causa del Teatro e ottenere subito l’agibilità, Di Cagno Abbrescia, in evidente difficoltà, prima tergiversa poi declina l’invito. Quella sera l’ex Sindaco si è giocato il punto e mezzo che il 7 giugno lo separerà dalla rielezione. Al Sindaco uscente invece manca proprio un pugno di voti per essere rieletto. Il 17 giugno, quattro giorni prima del ballottaggio, scoppia lo scandalo delle ‘notti brave’ del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Un’avvenente signora barese, Patrizia D’Addario, una donna di ‘facili costumi’ si diceva un tempo, una ‘escort’ si dice oggi, ha confessato di aver piacevolmente intrattenuto il Presidente del Consiglio sia nella residenza privata di Villa Certosa, in Sardegna, sia a Palazzo Grazioli a Roma. La gentildonna è stata introdotta nella cerchia privata del Cavaliere da un altro barese, l’imprenditore e faccendiere Gianpaolo Tarantini. E’ uno scandalo. Un grosso scandalo nazionale e barese che il centrodestra paga con la possibile rielezione di Di Cagno Abbrescia: il distacco inflitto da Emiliano al suo sfidante è abissale rispetto al primo turno. Adesso è finalmente chiaro - scrive la Gazzetta tre giorni dopo la rielezione di Michele Emiliano - a quale Sindaco spetterà l’onore di inaugurare il teatro Petruzzelli, finito e rifinito da mesi ma chiuso per una serie di interminabili contestazioni burocratiche. Da fonti romane si ipotizza che le chiavi saranno consegnate l’8 luglio. Ma riecco la domanda da un milione di euro: a chi? Il 15 luglio la Commissione di vigilanza firma il sospirato certificato di agibilità e lo consegna al Comune di Bari. Sette giorni dopo gli Eredi scrivono al ministro Bondi chiedendo… che si proceda con urgenza alla consegna delle chiavi del Teatro alla famiglia proprietaria che le affiderà alla Fondazione in esecuzione e nel rispetto del protocollo d’intesa del 2002. Nella stessa lettera, infine, sollecitano la restituzione dei locali commerciali. Il 28 luglio, in un vertice romano presso il Ministero dei Beni culturali, i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato tornano a consigliare il Ministro di non riconoscere in alcun modo il protocollo d’intesa… non è quello lo strumento per giungere alla riapertura del Teatro. Intanto, i legali della ‘Class Action’ chiedono al Tribunale civile di Bari che dichiari… la piena ed esclusiva proprietà del Comune sul suolo in cui sorge il Petruzzelli in quanto illegittima la concessione in perpetuo di un suolo pubblico. Inoltre, essendo notorio che il Teatro è stato

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costruito interamente con soldi pubblici, ne deriva che l’intero stabile può essere acquisito dal Comune di Bari. Il 4 agosto anche la Regione Puglia si costituisce in giudizio accanto ai promotori della ‘Class Action’… per ribadire la propria ferma posizione in favore dell’acquisizione del Teatro alla proprietà pubblica. Al tempo stesso - sottolinea l’assessore regionale Silvia Godelli - la Regione disconosce il protocollo d’intesa del 2002. Siamo alla stretta finale. L’opinione pubblica, quella massa indistinta e apparentemente indifferente che invece affolla Facebook, blog e ogni sito in cui si parla del Petruzzelli e che va a firmare la ‘Class Action’, non è più disposta a tollerare che si lasci chiuso un Teatro che ha richiesto 18 anni per essere ricostruito e che ormai è pronto e fruibile da 7 mesi. Come un colpo di cannone… Dal 5 agosto ai primi di settembre tutte le parti osservano un religioso silenzio. Un silenzio che, a considerare l’animosità dei media nel dibattere l’annosa vicenda, si potrebbe definire inquietante. Nell’aria quasi immobile attorno al Teatro c’è una strana attesa: è il momento delle decisioni irrevocabili. Poi, parafrasando don Basilio nel rossiniano Barbiere di Siviglia, ecco che piano piano, terra terra, s’incomincia a sussurrare un nuovo scenario. Lo schiamazzo va crescendo, si propaga, si raddoppia, alla fine trabocca, scoppia e produce un’esplosione… come un colpo di cannone. Il venticello maligno che sibilando va scorrendo da Roma a Bari, annuncia che al Ministero per i Beni culturali si sta preparando un documento che lascerebbe gli Eredi dei fratelli Petruzzelli a mani vuote. Alle 13 in punto del 7 settembre, l’orologio elettronico che sovrasta il mercato del pesce in piazza del Ferrarese a Bari, si è spento. Il countdown è stato azzerato: Michele Emiliano, presidente della Fondazione Petruzzelli e teatri di Bari ha ricevuto, finalmente, le chiavi del Politeama. La cerimonia di consegna ha avuto inizio qualche ora prima nel foyer del Teatro con una continuità formale di passaggi: il direttore del cantiere del consorzio di costruzione ha consegnato l’immobile al commissario straordinario committente per conto del Ministero, Angelo Balducci. Questi ha passato le chiavi al direttore regionale dei Beni culturali Ruggero Martines, che ha sua volta le ha date ad Alfonso Pisicchio, in rappresentanza del Comune di Bari che le ha consegnate al Presidente della Fondazione Petruzzelli e teatri di Bari, Michele Emiliano. E’ stato un normale atto amministrativo consumato con qualche bottiglia si spumante e senza trionfalismi… ma resta uno di quei momenti che nella vita non si dimenticano - sostiene Emiliano rivolto ai pochi presenti alla cerimonia - vorrei che questa fosse un’occasione di riconciliazione… vorrei, perciò, organizzare un evento speciale: mi piacerebbe accompagnare in questo Teatro il ministro Raffaele Fitto. Ma come si è arrivati alla drastica soluzione di consegnare le chiavi al Comune di Bari e non agli eredi dei fratelli Petruzzelli? Con uno strumento che si sarebbe potuto applicare fin dal quarto anno e un giorno successivo all’incendio: con la clausola prevista nell’atto di concessione del suolo redatto nel 1896. Conseguentemente, con il Teatro ricostruito e fruibile, si è proceduto alla consegna dell’intero immobile al Municipio che si è reso disponibile a farsi carico delle spese di manutenzione, guardiania e assicurazione per consegnarlo poi, in applicazione alla ex legge 800 per i Beni culturali, alla Fondazione garante per la gestione delle stagioni lirico-concertistiche. Per i componenti la famiglia Messeni Nemagna, la notizia prima e la cerimonia poi, sono un 128


colpo allo stomaco che li lascia senza fiato: non hanno ottenuto neppure una deroga per l’utilizzo dei locali commerciali. Comprensibile, perciò, la furente reazione dell’avvocato Ascanio Amenduni che rappresenta tutti gli Eredi… siamo di fronte ad un esproprio bis peggiore del precedente. Quello era esplicito e veniva accompagnato da un indennizzo, questo è mascherato da una sequenza inaspettata di atti amministrativi il cui unico scopo sembra quello di eludere l’applicazione e l’esecuzione del protocollo d’intesa. Questa operazione… - prosegue l’avvocato Amenduni - è un tradimento che genera i presupposti di azioni risarcitorie di enormi proporzioni… agiremo in tutte le sedi civili, amministrative e penali… non esiteremo ad impugnare questo nuovo esproprio condito da una deprecabile scorrettezza di tutte le parti istituzionali. Più conciliante il Sindaco nonché presidente della Fondazione… non è stato fatto nessun atto pregiudiziale agli interessi dei privati. L’alternativa - sostiene Emiliano - sarebbe stata l’abbandono della struttura al suo destino, senza custodia, senza manutenzione, senza gestore: e questo era inaccettabile. Il Comune, del resto, non poteva dettare al Governo le condizioni con cui effettuare la consegna, né potevamo rifiutarla perché ci saremmo messi in una posizione incomprensibile. Naturalmente - conclude il Sindaco-magistrato - la consegna del Teatro al Comune e alla Fondazione lascia impregiudicate le ragioni delle parti private che ritengono di avere diritti sulla struttura. Fine. Il 7 settembre 2009, nel foyer del teatro Petruzzelli, si è concluso l’ultimo atto di un melodramma rimasto sulla scena per 18 anni. Tre mesi dopo, il 6 dicembre, la Fondazione inaugua la una nuova stagione lirica. Il 6 dicembre, con la protezione di San Nicola, il Petruzzelli torna alla vita.

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Una finestra sulla storia - 1992

Le stragi mafiose di Capaci , sopra e, in basso, quella di via D’Amelio a Palermo.

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Alla fine del 1991, i tanti analisti politici ed economici che si avventuravano in previsioni, avvertono: il 1992 è un anno bisestile e questi, solitamente, sono imprevedibili e rognosi. Gli addetti ai lavori, cioè la classe politica e i manovratori della finanza pubblica e privata, avvezzi ai seminatori di sventura, si dicono: vabbé, al massimo avremo il raddoppio delle picconate di Cossiga, ma sarà solo per un semestre. A luglio, il suo mandato scade. Magari fossero state solo quelle. Ciò che accade quest’anno, nel Belpaese, in gergo militare si chiama ‘coventrizzazione’. Cioè un attacco concentrico e sistematico di forze così smisurate da piegare perfino la volontà alla resistenza. Una lotta senza quartiere, senza esclusione di colpi. Una battaglia di tutti contro tutti, un finimondo, un massacro che lascerà ferite profonde e non ancora rimarginate dopo oltre un decennio. Per la prima volta, la società civile si mobilita contro il racket delle estorsioni; per la prima volta l’elettorato si ribella e punisce quei partiti che hanno usato il consenso per acquisire potere e privilegi; per la prima volta la Magistratura trova il coraggio di denunciare quel sistema politico-economico-finanziario irrimediabilmente corrotto e, per la prima volta, la criminalità organizzata, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta comincia a sentirsi braccata dalla simmetrica, aperta mobilitazione della gente e delle Procure di tutto il Paese. Il rapporto tra la criminalità e la moralità pubblica e privata, è giunto ad un punto critico: al punto in cui i bubboni scoppiano. E’ l’anno dei barbari. L’anno della resa dei conti. L’anno in cui la ‘questione morale’ trasloca: lascia le sedi delle segreterie politiche, del Parlamento, e s’insedia nelle Procure. E’ l’anno in cui la gente comune, l’elettore, smette di essere ‘strumento politico’ e diventa ‘protagonista politico’, soggetto e non oggetto, cittadino e non suddito, attore e non comparsa. Dopo lo sdoganamento della cosiddetta ‘democrazia bloccata’, che fungeva da spau-

racchio e da alibi contro il fattore K, il Komunismo, dissolto nel 1989, gli italiani cominciano a prendere le distanze dalla classe politica: nel corso di questo 1992, il ‘Sistema’, sarà parzialmente scardinato. Ma ci costerà caro. Molto caro. Il Paese piomba in una crisi politico-istituzionale, economica e occupazionale senza precedenti e inizia a sperimentare formule alternative, politiche e di governo, ancora oggi a livello di puro velleitarismo. Diceva Winston Churchill… la virtù insita nel socialismo è la eguale distribuzione della miseria. Il vizio insito nel capitalismo è la ineguale distribuzione della ricchezza. Nel corso del decennio che conclude il secondo millennio, l’Italia ha sperimentato, con successo, la massima del grande statista inglese: il socialismo ha distribuito miseria generalizzata e col liberalismo capitalistico i poveri sono diventati più poveri . Visto il fallimento degli opposti sistemi politici, nel nuovo secolo si è intrapresa una diversa formula di governo. Si chiama ‘federalismo’, ‘devolution’. Cioè Regioni che diventano Stati nello Stato, che elaborano ed emanano leggi proprie e più confacenti alle risorse e alle possibilità produttive locali, per migliorare le imprese, la competitività e poter sfruttare al meglio intelligenze e progettualità peculiari di ogni singola regione. In altre parole: ognuno per sé. Niente male, se non fosse per l’assoluta disparità delle basi di partenza, della enorme differenza infrastrutturale ed economica fra regioni, del diverso costo del denaro, della diversa posizione strategica delle regioni del Nord – al centro del più grande bacino industrializzato d’Europa – e soprattutto della diversa condizione socio-economica di molte regioni del Paese rispetto ad altre. Come faranno le Regioni più povere a mettersi alla pari di quelle più ricche? Semplice, basterà tassare, tassare, tassare. Un nuovo fallimento? Chi vivrà, vedrà. E se vivrà Umberto Bossi, la prossima fase sarà il secessionismo. 131


Una finestra sulla storia - 1992

Quest’anno dunque, l’Italia comincia a voltare pagina e, bisogna riconoscerlo, un qualche merito, per questa pacifica rivoluzione politica – che con Tangentopoli diventerà sociale e culturale – va attribuito a Francesco Cossiga il quale, sia pure confusamente e come un novello Masaniello, coglie il ‘brontolio sordo’ che sale dalle masse, assume la leadership del ‘partito che non c’è’ – milioni di cittadini ormai insensibili ad ogni chimera politica – e dà inizio alla ‘decostruzione del Sistema’. Accusato di ‘sfascismo’, insultato, offeso, perfino minacciato di ‘impeachment’ per attentato alla Costituzione, Cossiga sembra, quest’anno, voler deporre le armi. Ma è solo una tregua. Il suo messaggio di fine anno agli italiani, non è quello che aveva preparato… taccio per ora. Non per mancanza di coraggio o, peggio, per resa verso le intimidazioni. Ma per il dovere quasi disperato alla prudenza. Per tradizione questo è un evento formale e, per seri motivi, è legittimo, anzi doveroso derogare. Ma non è così che dovrebbe essere – continua Cossiga – un messaggio del Capo dello Stato, rappresentante dell’Unità nazionale, non dovrebbe essere un rito di circostanza… parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della Nazione. Ma che altro Cossiga poteva dire o denunciare che non avesse già detto e scritto in decine di occasioni? Che altro poteva fare affinché il Paese potesse, finalmente… rifondare la Repubblica sulla base di un nuovo patto nazionale di libertà e di progresso attraverso un ampio programma di riforme… visto che neppure le elezioni di Brescia, con l’esplosione della Lega, ha scosso i partiti tradizionali? Poteva sfidare apertamente la DC e il PDS. Il 22 gennaio, alla vigilia del ‘rompete le righe’ alla Camera e al Senato, a pochi giorni dall’inizio della campagna elettorale, il Consi132 glio Nazionale della DC ‘invita’ il Presidente

della Repubblica a rispettare un attimo di silenzio… mi sembra giusto – commenta Cossiga – dopotutto io non debbo partecipare alla campagna elettorale. Anche perché sono senatore a vita. Ma se questi quattro ragazzotti della Via Pal, guidati dall’on. Occhetto, continueranno ad attaccarmi con le solite baggianate di Gladio, della P2, del golpismo e dell’impeachment, io difenderò il mio ufficio colpo su colpo. Se invece l’on. Occhetto tacerà, io tacerò. Ma dubito che loro si asterranno dal portare queste sciocchezze davanti al corpo elettorale… l’on. Occhetto ormai sembra voglia far rivivere le cose più abiette e più volgari del paleostalinismo. Quello che mi duole – aggiunge Cossiga – è di vedere che il popolo comunista, il quale ha contribuito a consolidare il costume di democrazia nella società italiana, abbia come esponente l’on. Occhetto. Succede un putiferio… è inaudito – dirà il PDS – si vuole impedire il diritto dovere dei segretari di partito di parlare liberamente in campagna elettorale. Protesta anche la DC… io credo – commenta Antonio Gava – che se c’è uno che non può tacere durante la campagna elettorale, è il segretario di un partito politico, e quindi Occhetto. L’attacco, così violento, contro il PDS e il suo segretario, è un capolavoro di strategia politica. Era una trappola. Cossiga ha deliberatamente ‘provocato’ Occhetto per avere in anticipo – cioè prima di essere messo… sotto anestesia totale… dirà lui stesso – la risposta ad una domanda inespressa: cioè cosa farà la DC se durante la campagna elettorale il PDS tirerà fuori le… solite sciocchezze? Ora lo sapeva: la DC non lo avrebbe difeso. Dal 22 al 25 gennaio Cossiga sferra le ultime picconate della sua breva stagione di esternatore… ho letto, senza meraviglia, la dichiarazione dell’amico Antonio Gava. Essa, invero, si basa su una lettura erronea di quello che ho detto – e subito dopo aggiunge, con un pizzico di malignità – non so se erronea volutamente o per piaggeria nei confronti del


PDS. Io non ho mai intimato né al PDS né allo zombi coi baffi che è quel poveretto dell’on. Occhetto di non parlare. Sarebbe autoritario. Sarebbe un atto di prepotenza camorrista. Io non sono mai stato un boss, né sono mai stato chiamato boss, né di Sassari, né di Chiaromonti, né di Castellammare di Stabia – il paese natale di Gava - e non sono né sono stato chiamato, sia pure ingiustamente, figlio di boss. Non ho neanche intimato, né al PDS né allo zombi coi baffi Occhetto, di non attaccare il Presidente della Repubblica. Anzi, democratico e di sinistra quale sono, me lo auguro vivamente in modo da far chiaro ai democratici, specie a quelli che sono stati e sono ancora idealmente comunisti, il carattere vetero-stalinista e piccolo leninista di chi farebbe meglio, secondo l’invito rivoltogli dagli operai della FIAT, ad andare a zappare e a cogliere le margherite. Poi, fra il conciliante e il malizioso, Cossiga aggiunge… io voglio bene all’on. Gava e sono lieto di avergli potuto procurare l’occasione di compiere un altro gesto per acquisirgli benevolenza nei confronti del PDS, di aver consolidato accorte alleanze dentro la DC, accorte intese con i reggicoda del Partito democratico della sinistra. Sono lieto che il Presidente del gruppo parlamentare DC sia riuscito ad ottenere la benevolenza dell’ex PCI, dell’Unità e del partito trasversale che fa capo a Repubblica. Finalmente, l’amico Gava si è conquistato la serenità e la pace. Ventiquattro ore dopo, il 23 gennaio, Cossiga compie l’atto consequenziale. In una lunga lettera al Direttore del Il Popolo, l’organo di stampa della DC, il Capo dello Stato si accomiata definitivamente dal suo ex partito… non posso più sopportare la tolleranza e la complicità di molti esponenti della DC per gli apprezzamenti ingiustificati e privi di senso espressi tante volte dal PDS nei confronti del Presidente della Repubblica… ho reagito perché altri che avrebbero dovuto farlo, non lo hanno fatto. Ma non ho difeso solo la mia persona. Ho difeso quarant’anni di politica de-

mocratica dell’Italia, ho difeso la DC e i suoi uomini quando molti di questi per calcolo, per procacciarsi la benevolenza ed il silenzio dell’ex Partito comunista non hanno avuto il coraggio di difendere né le forze democratiche, né la DC, né la politica nazionale e neanche se stessi. Comprendo lo sbando ideologico e morale della DC; comprendo l’umano interesse per i voti del PDS nel prossimo Parlamento; comprendo il desiderio di pace e quindi la tendenza a guadagnarsi la benevolenza degli oppositori; comprendo ogni ambizione: non comprendo il servilismo e, per esso, l’abbandono degli amici o addirittura il ripudio di essi. Da alti esponenti DC – continua Cossiga – mi è stato detto che molti senatori e deputati si sentono da me minacciati per questa tragicomica vicenda dell’impeachment. E perché mai? Io non faccio più parte della DC, e non farò assolutamente più parte né della sua organizzazione né del suo gruppo al Senato perché non lo comprendo più e perché ne sono stato, non tanto silenziosamente, espulso. Se, una volta eletto, il nuovo Parlamento nazionale – che mi auguro gli elettori sottraggano all’ipoteca del ricatto paleocomunista ed alla viltà dei comunisteggianti, laici o cattolici poco importa – mi chiederà, con onestà d’intenti, di sgombrare il campo, lo farò, ma solo come ultimo servizio allo Stato. Bordate a dritta e a manca dunque. A dritta perché la DC non ha colto il significato, le implicazioni del crollo del comunismo: non si poteva più fare politica e vivere sull’argine di un fiume che aveva tracimato. Il dissolvimento della minaccia esterna della nostra integrità territoriale, indipendenza politica e sovranità nazionale, ha segnato la fine del metodo compromissorio nella gestione della politica, ha fatto venir meno l’ipoteca che gravava sul nostro sistema costringendoci ad una democrazia bloccata. A manca perché, nonostante le buone intenzioni di Occhetto, il nuovo partito non sembra essere né di sinistra né riformista. Tan- 133


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t’è che, a sinistra, s’è prodotta una scissione che ha dato vita a Rifondazione comunista, mentre i ‘riformisti’, pur restando all’interno del PDS, hanno formato la corrente ‘migliorista’ che fa capo a Giorgio Napolitano. A farla breve, se per Craxi il partito di Occhetto non è ‘né carne, né pesce’, per Cossiga è molto peggio del pur rispettabile partito di Cossutta. Ma c’è di più, molto di più.

Le elezioni anticipate Il primo febbraio, Cossiga distribuisce alla stampa quel messaggio agli italiani che non ha volutamente letto a Capodanno. Non è una denuncia. E’ il più esiziale discorso elettorale ed il più feroce atto d’accusa, verso la classe politica che un Capo dello Stato in carica potesse consentirsi… il Paese è allo sbando – scrive Cossiga – la mancata esigenza di una rinnovata democrazia, l’insoddisfatta richiesta di riforme, anzi, i ripetuti, declamati, ma mai realizzati intendimenti riformatori, insieme alle vaste deficienze dell’apparato amministrativo pubblico, dalla Sanità alla Sicurezza, dalle Partecipazioni statali ai servizi, dal pauroso deficit dello Stato alla crisi economica, dai disservizi pubblici alla criminalità organizzata… tutto ciò sta allontanando i cittadini e sta indebolendo la loro fiducia, la loro adesione, il loro rispetto verso le istituzioni democratiche e repubblicane… senza il rinnovamento politico istituzionale – continua Cossiga – senza un Parlamento che eserciti con autorevolezza le sue funzioni di legislazione e controllo, senza un governo che governi con autorità e prontezza, senza il ristabilimento della sovranità della legge nella lotta alla illegalità… non vi è chi non veda come vi possa essere un pericolo, questo sì reale, di involuzione politica e sociale antidemocratica o, peggio, di autoritarismo, se pur oggi solo a livello di sentimento. Se questo è, come io credo, il corale sentire della gente, questo è il momento magico per rinnovare, anche moralmente, il nostro 134 sistema politico e rifondare la Repubblica per

lo sviluppo del nostro Paese nella società del terzo millennio. Per farlo – conclude Cossiga – occorre rispondere contro il blocco della conservazione, contro la cultura della resa travestita da tolleranza, la cultura del compromesso arrendevole camuffato da confronto e contro chi non riesce a distaccarsi dalla prepotenza ideologica, e talvolta anche pratica, travolte dalla storia. La campagna elettorale di Cossiga è finita. Il 2 febbraio, il Capo dello Stato scioglie le Camere e indice le elezioni generali per il 5-6 aprile. Dopodiché, torna a promettere… non interverrò più. Ma ormai, ciò che voleva fare l’ha fatto e ciò che voleva dire l’ha detto. Il 7 aprile, quell’elettorato… che ho cercato di rappresentare, dando voce perché non poteva farsi ascoltare, tentando di dare una presenza perché una presenza non poteva tenere… l’ha ascoltato. Con il suo voto, quel popolo… ha dato un colpo a quel sistema di governo consociato che era basato su una egemonia di partiti maggiori – dirà Cossiga nel suo discorso di commiato – cioè sulla cogestione trasversale degli affari politici tra quella che avrebbe dovuto essere una democrazia compiuta, la maggioranza e l’opposizione. La campagna elettorale inizia il 28 marzo e sarà la più costosa e fastosa nella storia della Repubblica. Ci sono, sul mercato, maghi della comunicazione e strateghi del marketing che offrono campagne personalizzate alla modica spesa di 4 miliardi chiavi in mano. E non saranno pochi quelli che vi faranno ricorso. E’ iniziata, in Italia, l’era della comunicazione mediatica televisiva. L’era in cui, in pochi mesi, è possibile fare un Partito, inventarsi leader e farsi eleggere Presidente del Consiglio. Solo che, questa volta, non è bastato. E’ mancata la materia prima: un’idea, un volto, un’immagine nuova da offrire all’elettorato. Il 7 aprile i partiti tradizionali si svegliano per accorgersi che il Palazzo è veramente e fortemente lesionato. Rispetto alle elezioni politi-


che del 1987, la DC ha perso 28 deputati e 18 senatori; la sinistra ha perso 70 deputati e 37 senatori. Di questi, 35 deputati e 20 senatori li ha dovuti ‘cedere’ a Rifondazione comunista. In sostanza, la perdita secca del PDS, rispetto all’ex PCI, è stata di 35 deputati e 17 senatori: una sciagura. Il PSI, che fin dalla nascita del PDS non ha fatto altro che denigrare il partito di Occhetto, non ne è uscito numericamente ammaccato, ma lacerato e ferito sul piano politico e morale: ha perso 2 deputati, ha guadagnato 13 senatori, ma non avrà mai più la possibilità di diventare il secondo partito del Paese. Ha vinto Cossiga? Sì, ma ha vinto soprattutto la Lega di Bossi. Cossiga ha vinto perché è riuscito a catalizzare la protesta; la Lega perché è riuscita a raccoglierne i frutti. Al grido di ‘Roma ladrona’ Bossi ha saputo sollevare il popolo del Nord facendogli credere che Roma sperperasse il frutto della loro ricchezza per assistere il Sud. Era vero? La storia dice di no. Non era vero. Ma è altresì noto che la storia la fanno i vincitori. Resta il fatto che se non fosse per l’elettorato meridionale, DC e PSI avrebbero subìto un tracollo senza precedenti, un naufragio solo rimandato. Bossi è sicuramente in malafede, ma l’analisi del voto, fra Nord e Sud, gli fornisce un alibi perfetto per continuare la sua battaglia politica… l’elettorato meridionale – dirà il leader lumbard – ha confermato la fiducia a quel sistema di potere che gli ha sempre garantito assistenzialismo. La Lega ha fatto l’en plein. Nel giro di una sola legislatura è salita dalle stalle alle stelle: con l’8,7% dei consensi, è passata, di colpo, da 1 a 55 deputati e da 1 a 25 senatori divenendo il quarto partito nazionale, il secondo nell’Italia del Nord. E tuttavia – scrive il Direttore della Gazzetta – quando ci si pone di fronte al problema del nuovo Governo, appare chiaro che, almeno per il momento, non si vedono alternative… la vecchia maggioranza non c’è più, ma quella maggioranza, sia pure punita, risicata e precaria, c’è ancora. Dunque, il Palazzo può essere salvato… a

Umberto Bossi... il nuovo che avanza.

condizione – sostiene Cossiga – che si faccia subito il Governo; che si ponga mano alle riforme; che si punti a risolvere i problemi: dall’economia alla criminalità, dall’ammodernamento delle istituzioni all’abbandono delle vecchie logiche di potere. Altrimenti me ne vado. La minaccia cade nel vuoto. Ma è colpa sua. L’ha fatta tante volte che ormai non ci crede più nessuno. Per cui ‘lor signori’ tornano all’antico: a cincischiare, patteggiare, trattare e ritrattare, a sbranarsi per spartirsi il capello. Forlani si dimette senza dimettersi; Segni si candida alla presidenza del Consiglio; l’accordo pre-elettorale DC-PSI – che indicava Craxi candidato unico per Palazzo Chigi – è sfumato; Bossi, che ha capito subito come girano le cose, chiede 3 ministri per il suo eventuale ingresso nel Governo; la DC strizza l’occhio al PDS; il PSI a tutti e due; la sinistra interna della DC e la corrente di Andreotti sono in rivolta; altrettanto dicasi della sinistra socialista. Martelli e Amato si fanno promotori di un Governo ‘nuovissimo’ – DC-PSI-PDS con Craxi presidente – ma D’Alema li gela… 135


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ai socialisti non chiediamo l’autoflagellazione, ma una riflessione su come hanno governato per trent’anni. Finora il PSI è stato su questo terreno: un tanto a me un tanto a te. Continuare così sarebbe lo sfascio e questa proposta sembrerebbe l’ultima autodifesa del sistema dei partiti. In quanto a Craxi premier – sostiene ancora D’Alema – non mi pare che una sua candidatura risponda al bisogno di novità e di cambiamento che viene dal Paese… anche come segretario in carica Craxi è l’uomo di una stagione politica che si è conclusa. Cosa allora? Un Governo di tecnici? Un Governo del Presidente? Neanche a parlarne. Intanto, il 24 aprile, dopo un’ultima estenuante trattativa, Camera e Senato votano per eleggere i rispettivi presidenti. Senza traumi la riconferma di Giovanni Spadolini al Senato, ma alla Camera ci vorranno cinque votazioni – mai accaduto prima – per giungere ad una soluzione. La DC ha ‘bruciato’ Forlani, Mancino e De Mita che per la verità ha rifiutato la proposta di candidatura con un secco… non ci tengo ad essere imbalsamato. Il PDS, invece, che con il PCI aveva conservato la presidenza della Camera per 16 anni, boccia la candidatura del ‘migliorista’ Giorgio Napolitano… un errore – commenta l’uscente Nilde Iotti – così facendo il PDS resta escluso da ogni partecipazione alla vita dello Stato. Gira e rigira, alla fine la DC tira fuori il nome di Oscar Luigi Scalfaro che viene eletto al quinto scrutinio… ancora una volta – commenta Cossiga – ha vinto il quadripartito uscito bastonato dalle urne… ancora una volta – confiderà a Renato Altissimo – la DC ha voluto infliggermi l’ultimo insulto. Apparentemente, Cossiga non ha gradito l’elezione di Scalfaro, censore severo delle sue esternazioni. In realtà, era felicissimo. Non era un segreto che le sue reiterate promesse di dimissioni nascondevano una sola motivazione: evitare che il vecchio Parlamento potesse eleggere Scalfaro suo successore. 136 Scampato il pericolo – Cossiga non avrebbe

mai immaginato, né del resto era mai accaduto che a distanza di trenta giorni il neo eletto Presidente della Camera potesse essere chiamato a coprire la suprema carica dello Stato – scampato il pericolo dunque, ventiquattro ore dopo Cossiga si dimette.

L’addio di Cossiga Una coincidenza? No, le coincidenze in politica non esistono. Neanche la data in cui Cossiga annuncia le sue dimissioni, è una coincidenza: il 25 aprile del 1945 l’Italia si era liberata dell’oppressione nazi-fascista. Il simbolismo è evidente: Cossiga spera che con le sue dimissioni il Paese si liberi da un sistema politico partitocratico ormai esausto. Ho deciso di dimettermi perché ho un dovere – dirà Cossiga – quello di permettere che venga qui un Presidente forte… la soluzione di una crisi, che è politica e istituzionale insieme. Occorre, da parte del Capo dello Stato, una conduzione forte, autorevole, credibile e accettabile. Posso essere io questo Presidente? No, sostiene Cossiga… io sono un uomo solo, non ho la forza politica per considerarmi un uomo forte… la gestione della crisi da parte mia, le trattative e gli accordi per la formazione di un nuovo Governo, sarebbero inevitabilmente ipotecati dalla scadenza ormai prossima – 3 luglio – del mio mandato. Mi chiedo perciò se questo Paese non abbia bisogno, dopo il primo scossone delle elezioni, anche dello choc delle elezioni anticipate del Presidente della Repubblica. E se questa classe politica non debba essere inchiodata alle sue responsabilità chiamandola subito ad eleggere, presto e bene, un Presidente e ponendo quindi le basi per affrontare e gestire la crisi dando a voi quello che chiedete: riforme, cambiamento e Governo… un Governo forte, democraticamente forte, efficiente e coraggioso, con programmi chiari e concreti, un sistema istituzionale rinnovato, onesto, in cui i partiti siano aggregatori del consenso e produttori di proposte e programmi; che concorrano a formare la rappresentanza nazionale e


non si sostituiscano ad essa, non occupino né lo Stato né tanto meno la società in forme pericolose, ambigue, discriminatorie, spesso prepotenti, che rischiano di alienare i cittadini non solo dai partiti ma anche dal sistema democratico. Con le armate Brancaleone – prosegue Cossiga – si possono anche eleggere oneste persone; persone capaci, perbene, ma non si governa il Paese. Soprattutto non si può cambiare e, purtroppo, vi sono ancora chiare resistenze a cambiare, tentazioni forti di conservazione, incertezze gravi nelle forze politiche… incognite sulla possibilità di formare in Parlamento maggioranze vere, omogenee, responsabili specie se le si ricerchi con i vecchi sistemi. E avanti così per quaranta minuti a reti unificate. Senza una pausa, un’esitazione, un attimo di respiro. Meglio di un telefilm ad alta tensione – scrive Lino Patruno, incaricato di seguire e commentare la performance televisiva del Capo dello Stato – nessuno è riuscito a distrarsi. Una grande prova d’attore seguita, in redazione, in un silenzio religioso… un interprete ed una interpretazione sorprendente che sarebbe piaciuta a Ingmar Bergman, per profondità emotiva, e a Woody Allen per sottigliezza di ironia. Phatos nella voce, appello continuo a chi era dall’altra parte del video, tecnica del comunicatore che dà sempre l’impressione di rivolgersi a te, proprio a te. E richiamo della mitologia western dell’uomo solo: un debole tra i forti che non ha neanche dovuto fare eccessivi numeri, rinunciare alla naturalezza, tanto era la capacità di attrazione, di tenere inchiodati, di tirarci dalla sua parte, con i nervi se non con la ragione. Ci ha rosolati allo spasimo. Da premio Oscar. Finché, alle 18,40, il pianto dell’annuncio delle sue dimissioni è coinciso con la nostra commozione. Il grande gesto, così a lungo roteato nell’arena, ci ha uniti a lui nella solennità del momento. Un uomo che se ne va merita onore, sempre. Il gesto di Cossiga – scrive il Direttore del-

Il Capo dello Stato dimissionario Francesco Cossiga.

la Gazzetta Giuseppe Gorjux – ha messo la classe politica ed economica, i partiti, l’intero popolo italiano, spalle al muro, di fronte a se stesso, di fronte alla gravità del momento, di fronte alle proprie responsabilità… denunciando clamorosamente l’urgenza di ‘cambiare’, di ‘provvedere’, di rilanciare la produzione, difendere l’occupazione, riorganizzare i servizi pubblici, eliminare definitivamente la criminalità organizzata, Cossiga si è rivolto sì, al Parlamento, al Governo di domani, ai partiti ma, ripetiamolo, a tutti gli italiani. Forse siamo veramente ad una svolta, abbiamo l’ultima entusiasmante possibilità di restituire a noi stessi uno Stato libero, giusto, rispettabile e decoroso. Altrimenti saremo alla fine dello Stato democratico, imboccheremo un tunnel nel quale tutto potremo trovare e oltre il quale non sappiamo cosa ci sia. Fosse stato solo per le sue dimissioni, probabilmente, nulla sarebbe cambiato. Un avvi- 137


Willy Brandt

Alexander Dubcek

I lutti della politica, arte e cultura nel mondo... Willy Brandt, ex cancelliere della Germania Ovest, fautore della riunificazione tedesca e premio Nobel per la pace, muore a Bonn, stroncato da un cancro, l’8 ottobre. Aveva 78 anni; un mese dopo si spegne il cecosclovacco Alexander Dubcek, eroe della ‘primavera’ di Praga nel 1968. Aveva 70 anni. Il 26 gennaio muore l’attore e regista José Ferrer, 83 anni, premio Oscar per l’interpretazione di Cyrano nel film Moulin Rouge; scompare, il 6 aprile a New York, Isaac Asimov, scienziato e noto scrittore di best seller di fantascienza; se ne va Astor Piazzolla, grande compositore di tango argentino e virtuoso del bandoneon: si spegne a Buenos Aires, dopo una lunga agonia, il 5 luglio. Aveva 70 anni. I suoi nonni erano di Trani. E’ l’Aids, invece, a stroncare a 60 anni, il 12 settembre, il bravo attore americano Anthony Perkins.

José Ferrer

Isaac Asimov

Astor Piazzolla

Anthony Perkins


so ai naviganti non basta per fermare una nave in partenza in un mare ancorché in tempesta. Dopotutto, uno dei più navigati leader della Repubblica, un nocchiere di lungo corso come Giulio Andreotti, negli ultimi tempi ha sostenuto che… è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, tanto, in Italia, prima o poi tutto s’aggiusta. Cossiga dunque lascia e, a dirla tutta, senza troppi rimpianti né fra la classe politica, né nell’opinione pubblica, né tanto meno fra i mass media. Per mesi le sue esternazioni hanno contenuto la discesa diffusionale della carta stampata – di nuovo in crisi – ma guai a contraddirlo. Benché più o meno tutti ritenessero le sue esternazioni sacrosante, pochi apprezzavano le sue picconate. Specie quando le personalizzava. L’ex Capo dello Stato era, e lo è stato ancora per oltre un decennio, un permaloso con la memoria di ferro. Il che lo rendeva, sul piano dialettico, un avversario terribile. Ne sanno qualcosa il direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari; il buon Pasquale Nonno, direttore de Il Mattino di Napoli e Bruno Vespa, direttore del Tg 1, parecchio contestato anche dalla sua redazione. Cossiga, dunque, lascia con un accorato appello a tutta la società. Ma non sarebbe bastato. Non sarebbe stato sufficiente se in un’altra città, in un’altra istituzione dello Stato, un altro servitore dello Stato non avesse imbracciato l’arco già teso da Cossiga cominciando a tirare frecce in tutte le direzioni. E’ l’inizio di una ‘svolta’ storica che deve ancora avere un’ultima fase: gli eccidi della mafia. L’assassinio, premeditato e crudele, di altri servitori dello Stato. E’ l’assassinio di Giovanni Falcone che mette fine alla lunga, stressante… umiliante e vergognosa – scrive il Financial Time – trattativa per eleggere, al sedicesimo scrutinio, il nuovo Capo dello Stato. Ed è l’assassinio di Paolo Borsellino a far emergere dal profondo del cuore della gente, un corale grido d’indignazione: basta! Era lo stesso ‘basta’ che l’opinione pubbli-

ca aveva gridato nel 1978 con l’assassinio di Aldo Moro: 55 giorni per il martirio dello statista pugliese; 58 giorni dividono il massacro di altri due rappresentanti di milioni di italiani onesti. L’Italia è un paese che vanta duemila anni di civiltà, eppure, ogni tanto, abbiamo bisogno di ‘sacrifici umani’, come nelle società tribali, per cambiare, per operare ‘svolte’ che ci riportino nella società civile. Così, mentre il Mezzogiorno paga la lotta alla criminalità con la vita dei suoi uomini migliori – è accaduto anche durante la lotta al terrorismo, centinaia di servitori dello Stato meridionali sono caduti per difendere la democrazia e le istituzioni – mentre le Procure di tutto il Paese denunciano la loro impotenza e l’impari lotta che li oppone al sistema corrotto e malavitoso che, in forme diverse, è parimenti diffuso; mentre risulta chiaro che le infiltrazioni mafiose non sono solo appannaggio delle regioni meridionali; che Lazio, Toscana, Lombardia e Piemonte non possono più ritenersi immuni dai tentacoli della piovra; che se da una parte la mafia agisce e reagisce scopertamente e rozzamente, dall’altra si è ormai infiltrata con successo nel sistema finanziario, economico, politico, partitico e perfino con... compiacenze e garanzie nella Magistratura per limitarne l’indipendenza... denuncia il vice presidente del CSM, Giovanni Galloni. Mentre l’insieme di queste realtà sono di dominio pubblico, mentre tutta la stampa nazionale invoca un vasto programma di moralizzazione politica, sociale e imprenditoriale; allo stesso tempo, la stampa settentrionale insiste nel criminalizzare il Sud ospitando commenti di analisti e giornalisti più o meno prevenuti se non proprio disinformati o in malafede. In cima a questa genìa di campioni dell’antimeridionalismo, che soltanto dopo il 6 aprile si accorgeranno di aver letteralmente spinto milioni di elettori sul ‘carroccio’ di Bossi – Tangentopoli non c’entra perché è esplosa dopo le elezioni politiche – in cima a tutti, 139


Quando nacque Nicola Lobuono, nel 1899, la Gazzetta – che all’epoca si chiamava Corriere delle Puglie – faceva già parte della sua famiglia. Il padre, Giuseppe, l’aveva ‘adottata’ 12 anni prima e ne era così orgoglioso che l’andava mostrando in tutta la città come si fa con le belle fanciulle. Certo, don Peppino, non immaginava che quel ‘foglietto’di 4 pagine avrebbe originato un sodalizio che resiste da 120 anni assicurando lavoro e prosperità alle successive tre generazioni della sua famiglia, tant’è che aveva avviato Nicola agli studi della scuola superiore di Treviglio, in Lombardia, per ‘sistemarlo’ poi in un istituto di credito. Ma quando Giuseppe Lobuono morì, nel maggio del 1943, Nicola non ebbe esitazioni: lasciò l’impiego in banca e si dedicò all’Azienda di famiglia, all’Agenzia giornalistica uscita ‘disastrata’, come tutto in Italia, dal secondo conflitto mondiale. Bisognava rimboccarsi le maniche, ricominciare daccapo. Il dopoguerra inaugurava un nuovo periodo pionieristico che Nicola Lobuono seppe affrontare con coraggio e intelligenza fino a fare della sua Agenzia di distribuzione giornalistica il punto di riferimento pugliese di tutta la stampa nazionale. Nicola Lobuono si spegne il 15 aprile lasciando un grande vuoto in due famiglia: nella propria e in quella molto più numerosa della Gazzetta

Gianni Brera

Dante Maggio

Franco Franchi

... e i lutti del ‘92 in Italia Si spengono: Franco Franchi, il 9 dicembre, e Dante Maggio il 4 marzo. Erano gli ultimi simboli di quella comicità popolare cara all’Italia contadina e proletaria. Muore, per un incidente d’auto, Gianni Brera, esperto giornalista sportivo e critico severo del calcio nazionale; si spegne, a novembre, Severino Gazzelloni, ‘flauto magico’ della musica classica, concertistica e jazz. E, nello stesso mese, muore anche Giulio Carlo Argan, critico d’arte, saggista, già Sindaco di Roma e senatore del PCI.

Severino Gazzelloni

Giulio Carlo Argan


svetta Giorgio Bocca. All’illustre giornalista e scrittore non basta divulgare la sua opera denigratoria sulla Stampa di Torino, su Repubblica e sull’Espresso ma, proprio quest’anno, ci gratifica della sua indiscutibile, efficace prosa con un intero volume dal significativo titolo: Inferno, quel girone dantesco in cui presto finirà la gran parte dei rappresentanti politici e imprenditoriali della Lombardia e del Piemonte.

Nasce ‘Mani Pulite’ Da mesi, specie dopo il brutale omicidio di Libero Grassi, anche la stampa più asservita ha rotto gli argini omertosi dell’appartenenza denunciando, quotidianamente, l’ormai capillare diffusione del più odioso fenomeno estorsivo che abbia mai colpito il Paese. E da mesi, anche l’informazione televisiva delle lottizzate reti nazionali – che da quest’anno subiscono la concorrenza dei Tg in diretta di quelle private – è impegnata in coraggiose trasmissione di denuncia di quell’olio lubrificante che, espandendosi, insozza ogni forma di vita sociale: le Tangenti, il ‘pizzo’ che hanno, nei mass media politici, lo stesso rilievo, la stessa attenzione che i giornali sportivi riservano al campionato di calcio. E’ il prologo di ‘Mani Pulite’. La misura era colma già prima che la Procura di Milano inventasse ‘Mani Pulite’. La gente, quella gente che per anni è stata tacciata d’indifferenza, comincia a reagire. E’ finita l’omertà di popolo, sono finiti i tempi della rassegnazione. L’indignazione ha risvegliato le coscienze e, fin dall’assassinio di Libero Grassi, nell’intero Meridione è in atto un’imponente rivolta sociale, un rifiuto di massa alla sopraffazione criminale. Da mesi, la Sicilia, la Sardegna, la Calabria e la Puglia sfidano apertamente il racket delle estorsioni, la criminalità organizzata, la piovra che, non a caso, reagisce con violenza inaudita. Da mesi, piccole Procure, imprenditori, amministratori, organizzazioni sindacali, associazioni di commercianti si stanno ribellando.

Da mesi, piccoli centri della Sicilia e di Puglia, città, intere regioni sono teatro di grandi manifestazioni di protesta contro il racket… che una comunità afflitta da incompiuta maturazione civile – scrive Lino Patruno sulla Gazzetta l’8 gennaio – ora cominci a combattere con una resistenza tanto più civile quanto più lo Stato sembra assente, non è poco. Ma è inutile dire che la civiltà non si manifesta solo non pagando le tangenti e rischiando magari la vita. Si manifesta cominciando a capire che senza regole del gioco c’è l’abuso dei più forti e nel Belpaese le leggi rischiano di essere sempre più cose da aggirare. Ostacoli fastidiosi. La ‘resistenza’ dunque è cominciata. Ed è iniziata proprio da quelle regioni che la stampa nordista continua a criminalizzare. Ed è cominciata prima che la ‘Capitale morale’ venisse investita da ‘Mani Pulite’. Ma le tante piccole e grandi manifestazioni di rivolta popolare, le centinaia di denunce di misconosciuti procuratori che hanno il torto di operare in centri che non si chiamano Milano, nella ‘grande stampa’ non fanno notizia. Un omicidio mafioso in un piccolo centro della Sicilia, della Calabria o della Puglia, è su tutta la stampa nazionale, ma la rivolta dei commercianti a Capo d’Orlando, Sant’Agata di Militello a Messina, Reggio Calabria, Taranto e in tante piccole cittadine della provincia di Bari, Brindisi e Matera non fanno notizia. I venti, trentamila cittadini che in vari centri della Sicilia, della Sardegna e della Puglia che spontaneamente affollano le piazze per manifestare contro la mafia, l’anonima sequestri e il racket delle estorsioni non fanno notizia. Né fanno notizia piccoli imprenditori come Tano Grasso e Maria Ruta, che in Sicilia e a Taranto guidano la rivolta dei commercianti; amministratori come il sindaco di Altamura, Raffaele Crivelli – che chiama a raccolta i sindaci della provincia di Bari e Matera per far fronte comune contro il ‘pizzo’ – e la coraggiosa Rosa Stanisci, sindaco di San Vito dei Normanni, un piccolo centro della provincia 141


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di Brindisi. Solo dopo l’esplosione di Mani Pulite, la televisione pubblica e privata finisce per fare di questi piccoli ‘eroi’ un… simbolo della ferma volontà delle nostre popolazioni – scrive la Gazzetta – di cancellare al più presto il marchio malavitoso che purtroppo ne ha sfigurato la fisionomia. E’ il momento in cui anche il mondo dell’informazione è ad una svolta.

La Tv e i giornali L’avvento dei Tg in diretta anche delle televisioni private sia pure ancora in fase sperimentale, sta cambiando radicalmente l’informazione sulla carta stampata che, da inseguita, diventa inseguitrice: l’improntitudine dei telecronisti, sempre primi sugli avvenimenti, la ricchezza, la frequenza dei notiziari televisivi, rendono i quotidiani, che escono 24 ore dopo, superati e questi, impreparati ad affrontare la nuova, agguerrita concorrenza, vanno in crisi d’identità. Diminuiscono i lettori e, quel ch’è peggio, diminuiscono anche gli introiti pubblicitari. Arricchita da nuovi comunicatori e professionisti di valore – Michele Santoro, Gad Lerner, Giuliano Ferrara – riempita da trasmissioni di satira politica di grande effetto – da Striscia la notizia a Blob; da Avanzi di Serena Dandini e i fratelli Guzzanti al Portalettere di Piero Chiambretti; dal paradossale Mezzogiorno Italiano di Gianfranco Funari al brillante Créme Caramel di Pippo Franco – la Tv offre di tutto e di più. E’, di volta in volta, sbracata, becera, urlante e rissosa, ma anche intelligente, utile, dirompente e riflessiva. La concorrenza, il dilagante sentimento di riprovazione verso i partiti, amplificato dalla maggioranza dei quotidiani e dei periodici, ha prodotto un notevole salto di qualità nella Tv pubblica, specie nel secondo e terzo canale dove il direttore, Sandro Curzi, ha operato un’autentica rivoluzione nell’informazione televisiva. Curzi dimostra che pur facendo un’informazione di parte, si può essere anche 142 critici e obiettivi salvando autonomia di giudi-

zio e indipendenza professionale. In generale, la Tv pubblica confortata non poco dalle notevoli picconate di Cossiga contro il sistema, comincia ad uscire dagli schemi classici della lottizzazione producendo programmi sempre più coraggiosi e di buon livello culturale. Del resto è l’unica arma che le rimane per battere le Tv private che, costrette a produrre i Tg quale contropartita per l’assegnazione delle frequenze, vanno all’assalto del mercato pubblicitario. I Tg costano e qualcuno deve pur pagarli. Le reti private non hanno il canone. Perciò, arraffano di tutto, rastrellando anche gli spiccioli. Poco importa se per farlo dovranno mortificare spettacoli di intrattenimento, film, trasmissioni sportive, Tg e perfino la breve e molto seguita ‘Striscia’ di Canale 5, così infarcita di pubblicità da indurre autori e conduttori ad uno sciopero di protesta. Poco importa se, per fare audience, dovranno ricorrere alla televisione spazzatura, con spettacoli messi in piedi da… una folla di baiadere, eunuchi, mangiatori di fuoco, incantatori di serpenti, ciarlatani di piazza, vecchi scrivani ed antichi maghi ormai totalmente succhiati dall’arteriosclerosi – scrive Francesco Costantini sulla Gazzetta – dove si sbertuccia tutto e tutti, in primis la RAI. Innumerevoli spazi pubblicitari vengono venduti a prezzi stracciati e, senza regole, senza una politica che stabilisca le quote di mercato – uno sciopero dei giornalisti per sollecitare la risoluzione del problema sarà disertato dai colleghi delle Tv private – la dissennata corsa all’inserzionista finisce per colpire i quotidiani. Il mercato pubblicitario della carta stampata crolla, conducendo, come vedremo, l’industria editoriale sull’orlo del disastro. Tutti, in qualche modo, segnalano che il Paese denuncia un grave stato di malessere sociale. E’ in atto una nuova recessione. La produzione industriale è scesa, rispetto al 1991, del 5,1%; entro la fine di quest’anno l’occupazione sarà a meno 6,6%; il tasso di sconto è ormai stabilmente oltre il 12%, l’inflazione, per fortuna, non supera il 5%. Il defi-


cit dello Stato è incontenibile, ma guai a far notare al ministro delle Finanze, Rino Formica, che le uscite superano le entrate, mediamente, di 400 miliardi al giorno, che la voragine dei conti pubblici è destinata, quest’anno, a superare i 160mila miliardi. Ti risponderà che… sono discorsi da bottegai. Eppure, a maggio, il Presidente del Consiglio uscente, Giulio Andreotti, in un rapporto sulla pubblica amministrazione, confessa… abbiamo fatto cose per le quali meritiamo l’inferno. Che il Signore ci perdoni. Migliaia di lavoratori vengono messi in Cassa integrazione. La sola FIAT ne annuncia 28mila a gennaio e 57mila a giugno. Seimila all’ILVA. Nel Mezzogiorno sono a rischio 200mila posti di lavoro oltre ai già accertati 407.782 nel mese di aprile in Puglia. Tutti, in qualche modo, percepiscono che il Paese è alla vigilia di una svolta politica senza precedenti… ci si avvia verso una delle consultazioni elettorali più determinanti nella storia della Repubblica, scrive la Gazzetta. Tutti, in qualche modo, danno segni d’insofferenza verso un sistema politico e di potere che non ha saputo adeguarsi al cambiamento epocale maturato a seguito del crollo del Muro di Berlino. Perfino la criminalità organizzata si sta rendendo conto che qualcosa nella società civile sta cambiando, che il vecchio sistema è così malato e inaffidabile da costituire un grave pericolo per la stessa onorata società. Tanto che, il 12 marzo, commissiona l’assassinio dell’eurodeputato DC Salvo Lima. Il potente esponente della corrente di Andreotti in Sicilia è chiacchierato da un ventennio. Citato in centinaia di documenti della Commissione parlamentare Antimafia quale… referente politico della cupola nei palazzi romani, secondo i suoi detrattori Lima è stato eliminato perché non più in grado di garantire coperture politiche e giudiziarie alle cosche palermitane… calunnie mai provate, dirà Andreotti che non sarà mai smentito. Tutti, insomma, avvertono l’approssimarsi di un clima nuovo, tranne la classe politica

Salvo Lima, in alto, con Giulio Andreotti e, sul marciapiede, ucciso il 12 marzo a Palermo.

che affronta la nuova consultazione elettorale con i metodi e i mezzi di sempre, con vecchie strategie politiche intese a comporre, scomporre e mediare alleanze per formare il futuro Governo, assegnando a tavolino presidenze e poltrone nel totale disinteresse per gli elettori… si sta tentando di far valere – dirà Cossiga – una maggioranza che dopo le elezioni non ci sarà più. E, non fosse stato per il Mezzogiorno, che non aveva, per fortuna, l’alternativa della Lega Lombarda, la ‘maggioranza’, quella che ha governato il Paese per quasi mezzo secolo, non avrebbe vinto le elezioni politiche. 143


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Il ‘mastino’ Il 6 aprile, prima che si scateni Tangentopoli, prima che Antonio Di Pietro e il pool di ‘Mani Pulite’ cominci a cancellare dalla lavagna della storia politica dell’Italia i partiti tradizionali, ridimensionandoli, gli elettori hanno già voltato le spalle alla Prima Repubblica. La misura dunque era già colma quando Di Pietro farà cadere nel vaso quell’ultima goccia che lo farà traboccare. In altre parole Di Pietro non farà altro che scuotere un albero già zeppo di pere mature. Frutti che altri, Cossiga compreso, hanno contribuito a far crescere fertilizzando un humus ormai in decomposizione, favorendo la reazione della società civile, dell’elettorato e della Magistratura che, con qualche eccesso, finisce per riscattare le stesse deprecate istituzioni. Di Pietro, al quale va riconosciuta una notevole dose di coraggio, si trova nella condizione ideale per scuotere quell’albero: vive nella più fertile valle economico-finanziaria del Paese e opera in una delle procure più importanti della Penisola. Figlio di un contadino molisano, Di Pietro approda alla Procura di Milano nel 1981 dopo varie esperienze e mestieri. Nel Palazzo di Giustizia della ‘Capitale morale’ Di Pietro non è né amato né odiato. Non viene, come la gran parte dei suoi colleghi, da una famiglia di giuristi. Ha conseguito un diploma come perito elettronico e, prima di laurearsi in giurisprudenza ha fatto l’emigrante, l’impiegato, il segretario comunale e perfino il poliziotto, un’esperienza che mette a frutto nelle indagini che di volta in volta gli vengono affidate. Di Pietro è, nella Procura di Milano, un outsider, uno che va per le spicce, che non bada al cavillo e che non si fa scrupolo, quando occorre, di usare, da magistrato, i metodi del poliziotto. Pochissimi, nel Palazzo, lo chiamano per nome. I più lo indicano con appellativi efficaci e non sempre lusinghieri: il ‘guascone’, il ‘primitivo’, il ‘mastino’. Di Pietro s’era messo in testa di bonificare 144 il più ricco mercato politico-finanziario del

Antonio Di Pietro p.m. della Procura di Milano.

Paese da quella piaga che, nell’ambiente ovattato della finanza lombarda, chiamano ‘dazione ambientale’. Per farlo, passa ore e ore nel suo studio utilizzando una vanga modernissima: un computer in cui inserisce migliaia di dati, date e nomi di presunti illeciti con la segreta speranza che prima o poi qualcuno gli darà la ‘chiave di accesso’ che gli consentirà di leggere in chiaro l’intero teorema. La ‘password’ gliela porta un ufficiale dei carabinieri un grigio mattino dell’inizio di febbraio. Milano sembra avvolta nella bambagia tanto è spessa la coltre di nubi, foschia e fumi d’inquinamento. Non si sa bene se è l’alba o il tramonto. La ‘password’ è Chiesa, ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, il più vecchio ospizio milanese comunemente noto come ‘La Baggina’. L’ufficiale, il capitano Roberto Zuliani, entra nell’ufficio di Di Pietro, che sta completando l’ennesima indagine per una faccenda di appalti e tangenti alla Regione Lombardia, e gli racconta la storia di un piccolo imprendito-


re, Luca Magni, titolare di un’impresa di pulizia e già fornitore di servizi al Pio Albergo. Magni si è aggiudicato un appalto di 140 milioni l’anno per le pulizie di un nuovo padiglione della ‘Baggina’. A fronte della nuova commessa, l’ingegnere-presidente Mario Chiesa gli ha chiesto la solita tangente: 14 milioni in contanti – gli ha detto perentorio – altrimenti non se ne fa niente. La storia va avanti da anni, dice Zuliani, ma ora Magni è stanco, e comunque quell’ulteriore mazzetta non se la può permettere: è più di quanto ci guadagna. L’ufficiale ha finito. Di Pietro non sembra per nulla impressionato dalla sua storia. Scuote il testone, fa un cenno di sconforto con le spalle, guarda Zuliani negli occhi e dice: Capitano, parliamoci chiaro. Storie come questa me ne raccontano tutti i giorni. Una denuncia non basta. In tribunale sarebbe la parola di un galantuomo, che non conta niente, contro quella del Presidente della ‘Baggina’ che invece conta, eccome se conta. Perciò, se vogliamo incastrarlo, dobbia-

mo coglierlo con le mani nella marmellata. Magni è disposto a collaborare? Magni risponde di sì e fissa con Mario Chiesa un appuntamento per il pomeriggio del 17 febbraio. I cronisti, che in centinaia di occasioni hanno raccontato quel primo colloquio più o meno arricchito di particolari fra Di Pietro e Zuliani, raccontano anche che quel 17 febbraio era una giornata insolitamente limpida per il capoluogo lombardo. Chissà, forse è solo una metafora o forse la mano di un sapiente regista che, ad una buona novella, squarcia di nubi un cielo solitamente plumbeo e lascia che sia un’impresa di pulizie a sollevare il coperchio della più maleodorante pozza inquinante del Paese.

Il ‘mariuolo’ Quando il giovane Luca Magni entra nell’elegante ufficio del Presidente della ‘Baggina’ ha con sé una busta contenente 7 milioni di lire in banconote da centomila già contrassegnate, un microfono nascosto sotto la giacca

Luca Magni, l’imprenditore derubato e Mario Chiesa, il ‘mariuolo’, presidente della ‘Baggina’ di Milano.

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e una valigetta con una micro camera… ecco i soldi ingegnere… c’è tutto?… no, sono solo la metà, non mi è stato possibile mettere insieme l’intera somma… l’accordo non era questo, protesta Chiesa e, mentre sta per buttare la busta in un cassetto, tre carabinieri, accompagnati dallo stesso Di Pietro, irrompono nell’ufficio e gli sottraggono il malloppo dalle mani. Chiesa ha un attimo di smarrimento. Poi, d’impulso, farfuglia… Signori, quei soldi sono miei! Sbagliato Presidente, quei soldi sono nostri, dirà Di Pietro. In seguito Chiesa confesserà che mentre i militi gli perquisivano l’ufficio lui era riuscito a liberarsi di altri 37 milioni, ricevuti appena tre ore prima, buttandoli nel cesso. Incriminato per concussione, la sera stessa Mario Chiesa diventa un ospite privilegiato di San Vittore dove viene rinchiuso in una cella singola. Per circa un mese Chiesa ammetterà di aver riscosso solo due tangenti oltre a quelle di Luca Magni. Ma quando dalla cella singola viene trasferito in una cella comune, l’ingegnere si sente perduto, e crolla. In realtà Chiesa, che era stato insediato alla presidenza della ‘Baggina’ nel 1986 dal PSI, politicamente era già ‘morto’. Cinque giorni dopo il suo arresto, su sollecitazione di Bobo Craxi, figlio del più noto Bettino, viene espulso dal PSI. Bettino Craxi, invece, lo bolla come ‘mariuolo’, non tanto e non solo per sottolineare l’esiguità delle mazzette, ma soprattutto perché Chiesa ha commesso una grave omissione: le ha intascate invece di versarle nelle casse del Partito. Emarginato, abbandonato dal Partito, Chiesa ha ora un solo ‘amico’: Di Pietro, che non lo molla un istante. Il sostituto procuratore dopo aver ‘rivoltato come un calzino’ – per usare un suo eufemismo – la vita politica e personale di Chiesa, lo sollecita a rispondere a una lunga serie di addebiti, altrimenti sarà solo lui a subirne le conseguenze. Inserita la ‘password’ dunque, il computer 146 di Di Pietro prende a elaborare dati e a dare le

Mario Chiesa e Bettino Craxi.

prime risposte. Ma è solo l’inizio. Le prime indagini accertano che Chiesa, per il solo periodo di gestione della ‘Baggina’, ha preso mazzette per circa 4 miliardi. E tuttavia, il suo patrimonio personale ammonta ad oltre 15 miliardi. Da quanto tempo va avanti questa storia? A quante aziende ha chiesto tangenti? Come funziona il turpe mercato? Quanti altri soggetti sono implicati? Dove finiscono le tangenti depurate dalle sue tasche? Pressato come da un torchio, abbandonato dai ‘compagni’ e dalla famiglia – la moglie l’aveva lasciato pochi mesi prima e il figlio non gli rivolge più la parola dal giorno del suo arresto – rinchiuso in una cella insieme a delinquenti comuni, dopo quattro lunghi verbali di interrogatori – il 23, 24, 27 e 30 marzo – Chiesa consegna a Di Pietro le chiavi della città di Tangentopoli. Nel giro di pochi giorni i metodi di Di Pietro dilagano. Non ci si ferma più alle sole indagini, alla verifica delle denunce dei corrotti e dei corruttori che ormai affollano gli uffici


della Procura di Milano. Il nuovo metodo è: l’esca, la trappola e l’arresto in flagrante. Cadono, come mosche, imprenditori, amministratori, dirigenti, portaborse, delinquenti, faccendieri ed esponenti politici di Consigli comunali, regionali e provinciali di ogni colore politico in ogni città d’Italia. Da Belluno a Reggio Calabria, da Treviso a Venezia, da Roma a Padova, Pavia, Busto Arsizio, Torino, Palermo, Napoli, Taranto, Bari, Foggia e Lecce, la cui provincia è divenuta la più grande discarica abusiva del Paese. Tutti affratellati nella grande spartizione. Ovunque ci fosse un appalto, una transazione, una lottizzazione, un’asta, c’era una tangente. A volte subìta a volte offerta spontaneamente. Era una prassi, diranno quanti riscuotono le tangenti. Era l’unico modo per fare affari, per restare sul mercato e continuare a lavorare, diranno quelli che le pagano. Un fiume di denaro più lungo del Po che arrivato alla foce si spande in mille rivoli invadendo, senza distinzione, tutti i canali del variegato sistema politico nazionale. Un mare d’acqua limacciosa che inquina ogni forma di vita sociale. Si rubava sugli ospedali, sui malati, sui medicinali, sugli asili nido, sulla refezione scolastica. E poi ancora: sulle scuole, sui libri di testo, sulla formazione professionale. Si pagavano tangenti per far sorgere un’azienda e per ottenere un lavoro, per costruire case, discariche, inceneritori, porti, aeroporti, ferrovie, metropolitane, strade, autostrade, ospizi e perfino per avere un loculo al cimitero. Una tassa in più, un obolo per vivere ed essere governati poiché questa è, in ultima analisi, la giustificazione della classe politica. La tesi comune è che la democrazia, intesa come insieme di voci e partiti che rendono un Paese democratico, costa. La pluralità politica, che assicura la democrazia, necessita di enormi apparati organizzativi che bisogna pagare. Qualcuno obietta che la legge per il finanziamento pubblico dei partiti, introdotta appositamente nel 1974, prevede un contributo di 80

miliardi l’anno, fra finanziamenti e contributi elettorali, per tutti. Non bastano? Non scherziamo. Per la ‘Balena Bianca’, la DC, e per le manie di grandezza dei socialisti, bastano sì e no per fare un paio di congressi. Dunque… questa moneta servono… diceva Totò. Le tangenti sono il sale della democrazia. Sarà pure un metodo illegale, ma paradossalmente preserva la legalità, il sistema democratico. La convinzione è così radicata che l’impegno alla bisogna è totale. L’organizzazione è perfetta. C’è perfino una scala burocratica fra quanti incassano ‘mazzette’ e chi chiede e ottiene ‘tangenti’. Le prime infatti vengono riscosse dalla fauna del sottobosco politico e amministrativo. Le seconde, le Tangenti, quelle con la T maiuscola, si contrattano nelle Segreterie politiche nazionali, con autorevoli deputati e senatori se non, addirittura, da ministri quando si tratta di salassare le grandi industrie come quella farmaceutica, chimica e petrolifera. La gente mormora? E chi se ne frega. Che pensino a fare il loro dovere di elettori! Quei ‘qualunquisti’ di Samarcanda e Striscia strepitano? Oscuriamoli, così imparano ad interferire con la campagna elettorale! Le rivolte civili – scrive il sociologo Sabino Acquaviva in un editoriale della Gazzetta – si verificano quando una classe dirigente non riesce a soddisfare i bisogni essenziali di intere popolazioni; quando il senso d’impotenza dei cittadini raggiunge la massa critica. A dicembre, la maggioranza della stampa nazionale e internazionale elegge Antonio Di Pietro ‘uomo dell’anno’, eroe nazionale. Nessuno, se non dopo qualche anno, si soffermerà a considerare che quella ‘massa critica’ aveva raggiunto il punto di fusione ‘prima’ che Di Pietro elabori nel suo computer le ‘confessioni’ di Mario Chiesa; prima che il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, formasse il pool di ‘Mani Pulite’. L’inchiesta – dirà Borrelli in una intervista del 2 maggio – nasce da uno scivolone commesso da Mario Chiesa. E’ poi cresciuta grazie 147


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ad un clima nuovo e particolarmente favorevole dovuto, in parte, alle picconate di Cossiga, che in vario modo si sono abbattute sul sistema dei partiti, ma soprattutto alla congiuntura elettorale: si era diffusa, nella collettività, una sensazione di stanchezza se non addirittura di nausea di fronte all’occupazione sistematica e predatoria di alcuni settori pubblici da parte di ambienti politici. Questo mix di circostanze favorevoli ha spinto molti imprenditori a liberarsi della schiavitù della corruzione. La fusione della ‘massa critica’ dunque si era concretizzata alle elezioni generali del 6 aprile, quando gli elettori, premiando Bossi, davano l’inequivocabile segno che non intendevano più sopportare, con l’indifferenza, lo strapotere di ‘lor Signori’, le loro malefatte, i loro privilegi, la loro insensibilità. A quel punto, Di Pietro fece l’unica cosa che gli restava da fare: innescare la spoletta e tirare la linguetta. L’immensa deflagrazione sconvolge l’intera Penisola. Dalle Alpi alla Sicilia… decine di procuratori sembrano pervasi da una furia moralizzatrice senza precedenti… lamentano i destinatari di ‘avvisi di garanzia’. E’ vero. Ma è pur vero che la maggioranza è in buona fede. Alcuni finiscono col confondere il concetto di giustizia col giustizialismo. Altri, più o meno politicizzati, più o meno ‘oppressi’ da una classe politica sempre più arrogante, mirano a destabilizzarla. Cadono molti, moltissimi innocenti… quando è in atto un’operazione di pulizia – diranno gli americani bombardando la Serbia e il Kosovo – gli innocenti sono ‘vittime collaterali’ che vanno messe nel conto. Ma queste sono considerazioni del dopo, del prosieguo dell’inchiesta di ‘Mani Pulite’. Di quando cioè ci si rese conto che la ‘tangente’ non è un cancro che ha colpito solo i socialisti e i democristiani, ma una metastasi che ha invaso l’intero sistema politico, amministrativo e imprenditoriale del Paese. All’inizio, infatti, alle prime indiscrezioni, sembrava che Di Pietro avesse puntato l’indi148 ce solo contro il mondo affaristico-imprendi-

toriale milanese e l’Amministrazione socialista che da anni, insieme alla DC, governa la capitale lombarda. Questa errata convinzione induce il PDS, i repubblicani e i liberali a chiamarsi fuori dalla grande spartizione. Saranno presto e clamorosamente smentiti. Allo stesso modo in cui è smentito Umberto Agnelli che 24 ore dopo aver affermato… la FIAT non ha mai pagato tangenti… il 7 maggio è arrestato, per corruzione, Enzo Papi, ex amministratore delegato della Cogefar-Impresit, un’impresa di costruzione del gruppo FIAT impegnata, fra l’altro, nei lavori senza fine dell’ospedale San Paolo di Bari. Così, nella selva di indiscrezioni, illazioni e minacce di querele, prima e dopo che Di Pietro ‘liberi’ Mario Chiesa concedendogli, il 2 aprile, gli arresti domiciliari, il sostituto procuratore continua ad indagare: ha bisogno di riscontri, di conferme all’enorme massa di nomi e dati contenuti nei verbali d’interrogatorio di Chiesa. Tuttavia, la scarcerazione dell’ormai ex presidente della ‘Baggina’ e il ‘silenzio’ che segue, farà credere che, dopotutto, la Procura di Milano, non abbia molta carne a cuocere. E’, invece, una scelta strategica. Di Pietro era pronto. Aveva già tutte le ‘carte’. Ma si volle evitare di sentirsi addossare la facile accusa di aver influenzato il risultato delle imminenti elezioni politiche. Si decise perciò, di agire subito dopo le elezioni… perché se c’è un sospetto, e Dio me ne perdoni – dirà ancora Borrelli all’intervista del 2 maggio – è che una volta che si sia ricostituito un assetto politico-istituzionale, si ricrei la complicità tra le imprese di alto profitto e gli alti livelli della politica. In questo modo si riuscirebbe a tappare ogni possibile sbocco alle nostre indagini. Ad essere onesti, saranno anche più generosi. Il clamore dei mass media sui risultati elettorali si placa in una settimana. La successiva, 13-19 aprile, è la Settimana Santa. Non è il caso di infierire. Il 22 aprile, mentre le Camere aprono i battenti ai nuovi eletti, il gip della Procura di Milano, Italo Ghitti, firma 8 mandati di arresto per altrettanti imprenditori edili con


l’accusa di corruzione aggravata e continuata. Sei giorni dopo, in un continuo viavai di imprenditori che spontaneamente confessano, a Di Pietro e all’aggiunto Gherardo Colombo, di aver versato ‘mazzette’, Ghitti firma altri 7 mandati d’arresto. Anche in questa occasione, Di Pietro usa un metodo nuovo ed efficace: chi ‘canta’ torna libero, chi tace, resta a San Vittore… ma è inutile fare scena muta – afferma un inquisito – quello sa già tutto. Cerca solo conferme… e le ottiene. Soltanto i primi 8 arrestati confessano di aver versato, in meno di un decennio, tangenti per oltre 150 miliardi. Otto giorni dopo aver innescato la spoletta, Di Pietro rompe gli indugi, tira la linguetta e lascia esplodere la bomba. I primi esponenti politici a finire in manette appartengono proprio a quel partito che troppo affrettatamente si era chiamato fuori dal ‘mercato’ tangentizio. Il 30 aprile sono arrestati due noti esponenti dell’area riformista del PDS: Sergio Soave, componente dell’esecutivo regionale lombardo, e Epifanio Li Calzi, noto architetto ed ex assessore ai Lavori Pubblici di Milano. Il 2 maggio tocca ai socialisti. Ricevono una ‘informazione di garanzia’ i deputati Carlo Tognoli, ministro del Turismo uscente, e Paolo Pillitteri, cognato di Bettino Craxi. Tutti e due sono stati sindaci di Milano ed entrambi sono indagati per ricettazione, concussione, corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Il 5 maggio, Achille Occhetto, sempre convinto che il PDS fosse estraneo all’inchiesta milanese, avrà una battuta infelice… se si guardano gli uomini coinvolti nello scandalo di Milano se ne deduce che Craxi aveva i suoi amici, io i miei nemici. Un commento gratuito che l’on. Napolitano, leader dei riformisti, non gli perdona… considero indegno qualsiasi tentativo volto ad associare le responsabilità contestate dalla Magistratura a singole persone con la loro appartenenza o vicinanza all’area riformista. Molto più dura, invece, la risposta di Craxi… quando l’on. Occhetto avrà dimostrato

Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli.

al Parlamento e al Paese di essere dirigente e di guidare, ora, i resti di un partito che non ha mai contato su finanziamenti illegali o addirittura di provenienza inconfessabile e infamante – si era appena placata la polemica dei finanziamenti dell’ex URSS al PCI – allora potrà permettersi di dare lezione di democrazia a uno come me. Ventiquattro ore dopo, Di Pietro sconfessa Occhetto. Con l’arresto di Maurizio Prada, Massimo Ferlini e un mandato di cattura per Luigi Carnevale, si chiude il cerchio ‘politico’ dello scandalo del capoluogo lombardo. Il primo è il segretario cittadino della DC nonché presidente dell’azienda dei trasporti di Milano; Ferlini è consigliere comunale del PDS ed ex assessore comunista ai Lavori Pubblici del Comune di Milano; Carnevale è espressione del PDS nel consiglio di amministrazione – vice presidente – della Metropolitana milanese. Carnevale è in vacanza con la famiglia a Parigi. Sarà arrestato, in modo plateale, il 16 maggio, appena messo piede sul suolo italiano all’aeroporto di Linate. Lo stesso giorno finisce in manette Roberto Cappellini, segretario del PDS a Milano – occhettiano di ferro, dicono i cronisti – e indagato l’on. Gianni Cervetti anch’egli un riformista del PDS. Con l’arresto di Prada, Cappellini e Carne- 149


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vale il pool di ‘Mani Pulite’ mette la cornice intorno ad un quadro già abbondantemente chiaro. Qual è il rapporto fra il sistema dei partiti e quello delle imprese? Paritario, confessa Maurizio Prada: un terzo, un terzo e un terzo. Gli spiccioli ai partiti minori... non c’erano distinzioni o sottigliezze fra maggioranza e opposizione. Talvolta accadeva che il partito ‘promotore’ o beneficiario delle tangenti trattenesse il 50 per cento. Ma nessuno restava fuori. Raramente la spartizione avveniva solo fra i partiti di governo. Era una forma di consociativismo perfetto. Il rapporto fra politica e finanza funzionava meglio di quello interpartitico. Naturalmente molti sostengono di essere stati solo degli intermediari per i propri partiti. Altri, non riescono a negare di aver fatto la cresta riempiendo tasche e conti correnti personali. Ma se l’arresto di Prada non ha scosso più di tanto la segreteria nazionale della DC, che insieme ai socialisti si affretta a commissariare la Segreteria milanese, quello di Carnevale e soprattutto di Roberto Cappellini, è un autentico dramma per il PDS: le loro testimonianze non solo demoliscono l’equazione PCI-PDS uguale partito della trasparenza, ma costringono Achille Occhetto ad ammettere, fra le lacrime, che dopotutto anche il PDS ha le sue mele marce. Forlani pure è convinto, come Occhetto, che… i partiti non c’entrano, si tratta di responsabilità personale. Non innestiamo campagne distorsive – dirà l’8 maggio – dirette a coinvolgere i partiti. Ma l’11 maggio, il senatore Severino Citaristi, segretario amministrativo della DC, riceve il primo avviso di garanzia per violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti e corruzione aggravata. Entro 12 mesi Citaristi ne riceverà altri 32. Alla fine, quando cioè di Tangentopoli resterà solo una macchia indelebile nella storia del nostro Paese, Citaristi avrà assommato 74 procedimenti giudiziari. Sarà l’uomo più ‘avvisato’ d’Italia senza aver mai subito l’onta di 150 un arresto.

Il 13 maggio tocca all’on. Antonio Del Pennino, segretario del PRI, e, il 14 ottobre, all’on. Vincenzo Balzamo del PSI. Entrambi segretari amministrativi dei rispettivi partiti. Balzamo muore d’infarto il 2 novembre: il cuore non gli ha retto. Ormai è chiaro: non c’è proprio nessun partito – tranne il MSI e Rifondazione comunista – che possa chiamarsi fuori da Tangentopoli. Eppure, è solo l’inizio. In meno di un mese è cambiato tutto. E’ venuto meno l’antico rapporto di sudditanza fra potere politico e società civile; sono cambiati i rapporti fra i partiti; sono saltate le alleanze consolidate fra i partiti e nei partiti; si sono ‘risvegliate’ coscienze, per lungo tempo sopite, nella società e nella Magistratura – quest’ultima da sempre condizionata dai politici che in ultima analisi distribuivano poltrone e costruivano carriere – e soprattutto si sono ‘svegliati’ i pretori, prima sollecitati e poi incoraggiati dall’opinione pubblica, dalla gente, stanca di vivere in un Paese impunito e immobile. Non se ne poteva più. In meno di un mese Antonio Di Pietro è diventato un eroe. Il suo nome è sui muri di Milano, sulle t-shirt dei giovani, sui cappelli e sui foulard degli anziani. A sostegno delle sue


inchieste si svolgono decine di manifestazioni spontanee… in un Paese normale – dirà qualche anno dopo Massimo D’Alema – la giustizia non ha bisogno di eroi. Se un sostituto procuratore diventa un eroe popolare, è evidente che qualcosa non funziona. E’ vero. Ma Di Pietro non è diventato eroe per caso. E’ stato l’immobilismo politico a farlo iscrivere nel registro degli eroi. In meno di un mese, l’Italia ha ritrovato la sua unità. Per la prima volta, nella storia della Repubblica, la stampa settentrionale ammette che, in fin dei conti, esiste nel Paese una sostanziale uniformità dell’emergenza criminale. Anzi… sul piano delle prospettive – scrive La Stampa di Torino – Milano è, può essere, peggio di Palermo. A Milano c’è tuttora il cuore del sistema economico-industrialefinanziario del Paese. I danni che la fabbrica delle tangenti può arrecare a tale sistema, sono ben maggiori di quelli prodotti in situazioni ‘arretrate’. Più esplicito, e allo stesso tempo più severo, Saverio Vertone sul Corriere della Sera… finiamola con l’idea favolistica di un Nord tutto buono e un Sud tutto cattivo. Anche il Nord è popolato di furbi un po’ vili, di Arlecchini, Brighella e Don Abbondio… mi sembra davvero troppo comodo abbandonare il Sud perché sfigurato da un’economia paracriminale di stile colombiano dopo che per decenni è stato un serbatoio di consumi utili soprattutto al Nord. Oltre che comodo sarebbe un tragico errore. Troppa grazia, scriveranno in sintesi in diversi editoriali della Gazzetta, Gorjux e De Tomaso, in risposta alle note della Stampa e del Corriere. Non c’è da inorgoglirsi per questo tardivo riconoscimento di italianità solo perché ora, Nord e Sud, sono accomunati da una diffusa illegalità. Non consola il fatto che, finalmente, si ammette di aver lasciato in stato di abbandono ed emarginazione l’altra metà del Paese. Ma se, come contrappeso, bisogna prendere atto di aver consolidato… un’economia paracriminale di stile colombiano… allo-

ra è preferibile la coerenza di Giorgio Bocca che, pur vivendo a Tangentopoli, cioè a Milano, si ostina a distinguere un’Italia buona da un’Italia cattiva. Ma anche Gorjux e De Tomaso, come Occhetto, presto saranno smentiti: Capaci e Palermo non sono molto lontane dalla giungla colombiana. Intanto, arresti, avvisi di garanzia, comunicazioni giudiziarie, mandati di cattura, denunce piovono su tutta la Penisola come un acquazzone d’agosto. Un diluvio che viene giù fitto da Domodossola alle isole di Lampedusa e Lipari. I più colpiti sono sindaci e assessori di decine di comuni dell’interland milanese e, più di altri, sindaci, assessori e amministratori del PSI e della DC con una netta prevalenza dei socialisti.

Il declino dei socialisti Le Giunte di Regioni, Comuni e qualche Provincia, cadono a grappoli. Molte, a causa di Tangentopoli; altre, come in Puglia, quale conseguenza delle elezioni del 6 aprile: nella regione meridionale più ricca fra le più povere, la lotta per la spartizione di potere e poltrone è ancora politica. In Puglia, dove Tangentopoli sembra lontana, si fanno e si disfanno Giunte solo in conseguenza delle mutate posizioni di forza di questo o di quel partito; di questa o quella corrente, di questo o quel leader. Del resto, gli elettori pugliesi non hanno dato forti segnali di rinnovamento. Quello che ha perso la DC – un deputato e un senatore – l’ha guadagnato il PSI. Neanche la tempesta che sta decimando l’intero partito ferma i socialisti pugliesi dalla pretesa di guidare il Consiglio regionale e decine di Comuni e Province. Il giorno dell’apertura ufficiale dell’undicesima legislatura, il 23 aprile, Bettino Craxi entra a Montecitorio come un pugile che pur non avendo vinto il match del secolo – il sorpasso del PDS – è riuscito a conservare il titolo. E’ sempre il leader massimo del suo partito; è il candidato unico alla presidenza del Con- 151


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siglio; conserva, in alternativa, un’opzione per il Quirinale ed è ancora in grado di condizionare, più di prima, l’alleato più forte: la DC. In meno di un mese – e senza che gli sia stato mosso alcun rilievo sullo scandalo milanese – Bettino Craxi si vede sottrarre, ad uno ad uno, titoli e poteri. Le improvvise dimissioni di Cossiga lo costringono a rinunciare al Quirinale. Il massiccio coinvolgimento dei socialisti in Tangentopoli lo consigliano di ritirare la propria candidatura alla presidenza del Consiglio e il dissenso interno, prima sommesso e poi plateale, comincia ad intaccare la sua leadership. Il monolite Craxi, vacilla. Claudio Signorile, leader della sinistra socialista, da sempre oppositore coerente della politica di Craxi, commenta… la mancata elezione di Forlani alla Presidenza della Repubblica rappresenta la sconfitta delle segreterie politiche della maggioranza. Dopo il voto di ieri – 16 maggio – il quadripartito se lo possono portare a casa. Poi, con una punta di soddisfazione, aggiunge… è finito anche l’unanimismo in casa socialista. Ma il commento più pesante è di Rino Formica… perché dobbiamo continuare a fare i servi di Maria? E’ cominciata la fronda al Segretario del PSI. Craxi – orgoglioso, testardo, combattivo e soprattutto mai esitante di fronte ad una sfida – reagisce nell’unico modo che sa fare: lottando. Sceglie lo scontro frontale, col Partito prima e con il pool di ‘Mani Pulite’ poi. E perde. Perde perché rifiuta di accodarsi al carro dell’ipocrisia che ostenta fiducia ai ‘pretori d’assalto’, all’indipendenza della Magistratura da sempre imbrigliata dal potere politico. Perde perché, nel tentativo di salvare la sua barca, denuncia le falle di tutte le altre barche… i partiti, grandi medi e piccoli, i giornali, le attività propagandistiche, promozionali e associative, le strutture politiche operative 152 hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse

aggiuntive in forma irregolare o illegale – afferma Craxi alla Camera il 3 luglio del ‘93 – se gran parte di questa materia deve essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di chiamarlo spergiuro. Nessuno si alza e nessuno gli perdonerà mai di aver fatto come Sansone nel tempio dei Filistei. Ma c’è un’altra e più importante ragione per cui Craxi perde: sottovaluta la crescente indignazione dell’opinione pubblica stanca di essere strumentalizzata, manovrata, umiliata e infine derubata da una classe politica e dirigente inadempiente, amorfa e arrogante.

Un momento della denuncia di Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio 1993.


Non li salva più nessuno. Il ‘tutti sapevano’, il fatto che… l’opinione pubblica considerava la corruzione un fatto strutturale nella vita del Paese… che le tangenti sono parte integrante di una economia in espansione… che l’epidemia fa parte di quel libero scambio su cui è basata la civiltà capitalistica… che da tempo si vive in una società che non considera più l’onestà come un valore assoluto… che i veri valori oggi sono il denaro, l’immagine e il mercato… come scrivono diversi sociologi e intellettuali, non serve ad assolverli. La ‘scoperta’ delle tangenti è solo l’ultima voce di una nota spesa in cui c’è molto di più. Ci sono anni d’incuria, anni di ostentazione di potere e privilegi, anni di spregio verso le esigenze della gente, di accanimento fiscale, di malgoverno e di non governo, di crisi per dispetto o per capricci, comandate, concordate; di leggi mancate e di leggi tampone, di decreti scaduti, di istituti e istituzioni inadeguati, di discriminazione sociale e di abbandono di metà del Paese alla criminalità organizzata. Questo c’è nel conto del comune sentimento di giustizia; di questo alla classe politica viene chiesto di rendere conto. Avrebbe dovuto essere un processo lungo e difficile, invece accade tutto così velocemente che, senza accorgersene, il Paese passa da un eccesso all’altro. Rispetto alla massa degli inquisiti, pochi pagheranno il giusto prezzo. Molti, le ultime stime parlano del 78 per cento, saranno completamente scagionati dopo aver pagato, comunque, in termini morali, un costo altissimo. Alcuni, per fortuna pochi, commetteranno gesti eclatanti pur di non affrontare l’inquisizione laica, la gogna pubblica degli anni Novanta… è indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere del nostro Paese, della democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione – scrive il deputato socialista Sergio Moroni il 2 settembre – eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento… un grande velo di ipocrisia ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei

Sergio Moroni, l’esponente socialista suicida.

partiti e i loro sistemi di finanziamento… a ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori… non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita in un clima da ‘progrom’ nei confronti della classe politica… ma ho commesso un errore accettando il ‘sistema’. Ho ritenuto che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune… ma non mi è mai accaduto di chiedere e tanto meno pretendere tangenti, né mai e poi mai ne ho pattuite… eppure oggi vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo delle tangenti accomunato nella definizione di ‘ladro’. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile non resta che il gesto. Ancora qualche rigo poi, Moroni, piega la paginetta, indirizza la busta al Presidente della Camera, impugna il fucile e si uccide. 153



Sergio Moroni è il terzo suicida su 73 personalità avvisate o arrestate dalla Magistratura milanese fino ad agosto. Nei mesi e negli anni a seguire ci saranno altri suicidi eccellenti, altri arresti, altri avvisi di garanzia per centinaia, migliaia di persone. Negli anni ’92-’98 soltanto il pool milanese di ‘Mani Pulite’ ha iscritto nel registro degli indagati 4.446 persone. Quanti ne sono stati iscritti in tutto il Paese, se n’è perso il conto. Ogni giorno, da aprile a dicembre, i quotidiani riempiono intere pagine di nuovi e diversi filoni d’indagini e inchieste con denunce e arresti. Finiscono in manette a fascio: l’intera Giunta regionale dell’Abruzzo – 11 assessori e il Presidente – il 30 settembre per una presunta truffa sui fondi CEE; il giorno dopo, Sindaco e 6 assessori del Comune di Vercelli per presunte tangenti su un appalto per la costruzione di un impianto di depurazione; Sindaco e due assessori a Foggia; tre ingegneri e un architetto dell’ufficio tecnico del Comune di Taranto. E poi ancora, centinaia di assessori, amministratori, faccendieri; decine di imprenditori, sindaci, carabinieri, finanzieri, vigili urbani e perfino qualche magistrato. E’ una ‘pulizia’ radicale.

Scalfaro presidente Eppure, dal 26 aprile e fino al 23 maggio, mentre cioè l’intera Lombardia vive in un clima da ‘caccia alle streghe’, 1.014 grandi elettori si apprestano ad offrire l’ennesimo spettacolo d’impotenza nell’indicare l’unico nome che dovrebbe essere rappresentativo di tutti i partiti e di tutti gli italiani. Quindici giorni di riunioni, assemblee, vertici fra i partiti e nei partiti, non sono stati sufficienti a dare un’indicazione, un nome al nuovo Capo dello Stato… la bufera delle tangenti ha complicato i giochi – scrive la Gazzetta – lo sconquasso di tangentopoli ha rimesso tutto in discussione. Le hanno tentate tutte, ma non c’è stato nulla da fare. Non c’è un candidato della maggioranza di Governo; non c’è un candidato

della sinistra; l’abbozzo di un ennesimo avvicinamento fra PSI e PDS… è finito a sputi in faccia… dirà Craxi. Si è tentato allora un accordo DC-PDS, ma è stato vivacemente contrastato dai socialisti. Si attendono, prima di iniziare a votare, le decisioni del gruppo parlamentare DC che decide di non decidere e, il 13 maggio, si va alle sedie in ordine sparso… tutti contro tutti – scrive ancora la Gazzetta – tutti diffidano di tutti. L’atmosfera a Montecitorio è tesa e godereccia insieme, la ‘buvette’ del Transatlantico, nel salone dei ‘passi perduti’, è presa d’assalto: comodi signori, comodi. Per 10 giorni il rituale degli incontri, scontri, promesse, accordi e successive smentite, sgambetti e tradimenti, resta immutato… si va verso l’ignoto – commenta De Mita dopo il 15° scrutinio – non resta che mettere da parte le pretese di partiti e coalizioni e puntare su una figura istituzionale. Cioè Spadolini, Scalfaro, Andreotti. Ma chi dovrà decidere per chi e, soprattutto, quando decideranno di decidere? Sarà la mafia a rispondere al secondo quesito. Ai grandi elettori non resterà che agire di conseguenza. Pena, la perdita dell’ultimo scampolo di credibilità della gente nelle istituzioni. C’è poca gente nei corridoi di Montecitorio – scrive da Roma l’inviato della Gazzetta, Giuseppe De Tomaso, il pomeriggio di sabato 23 maggio – la giornata è tiepida. L’aria è stanca. Da fine settimana. I ‘peones’ sono tornati a casa per un brevissimo weekend. Nel Palazzo si vedono, si incontrano le delegazioni dei partiti, i capi. Continua la ‘melina’. Candidati istituzionali sì, candidati istituzionali no. Meglio Spadolini. No, meglio Scalfaro. No, meglio Andreotti. Spunta pure il nome di uno già ‘trombato’, il socialista Gino Giugni che piace a Occhetto e dispiace a Craxi. Si fa già la conta dei franchi tiratori che affosserebbero l’uno e l’altro. Si riparla di ‘metodo’, di ‘tavolo a sei’, di apertura e chiusura alla Lega e di tante altre formule 155


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tipiche dell’inesauribile lessico del Palazzo capitolino. Poi, arriva la voce-choc – prosegue De Tomaso – nel giro di pochi secondi tutti ‘sanno’. Sale la tensione. Si telefona ai giornali, ai colleghi siciliani e, all’amara conferma, si avverte un generale senso di colpa. Come paiono lontane le trattative che si svolgono a pochi metri da noi. Come sembra distante, irritante questa fastidiosa partita di potere, questo psicodramma di un sistema. Giovanni Falcone è morto ammazzato. Questa la voce-choc, la notizia che ammutolisce e getta sconforto in milioni di italiani. L’uomo simbolo della lotta contro la mafia era, da poco più di un anno, Direttore degli Affari penali presso il ministero della Giustizia a Roma. Era un incarico di ripiego. Il suo lavoro alla Procura di Palermo era stato pressoché svuotato. Delegittimato, emarginato, costretto a subire umiliazioni dai suoi stessi colleghi – che lo accusavano di arrivismo – Falcone accetta l’offerta del ministro Claudio Martelli alla direzione degli Affari penali. Cosa Nostra aveva ottenuto il primo successo: l’uomo che aveva fatto ‘cantare’ don Masino Buscetta e che aveva istruito, insieme ad un pool di magistrati, il primo maxiprocesso della storia giudiziaria contro la mafia – iniziato il 10 febbraio del 1986 con 460 imputati e conclusosi il 16 dicembre del 1987 con 19 ergastoli e decine di altre pesanti condanne – era stato allontanato dalla Sicilia. Ma Falcone non si arrendeva facilmente. A Roma convinse Martelli che per combattere adeguatamente la mafia era necessario istituire una Superprocura nazionale. Una riedizione insomma del pool antimafia locale ideato dal giudice Rocco Chinnici – ucciso da Cosa Nostra – e realizzato dal suo successore, Antonino Caponnetto, che aveva condotto, appunto, al maxiprocesso di Palermo. Era stato quel processo che aveva posto Giovanni Falcone, e non solo lui, nel mirino della lupara mafiosa. L’impresa non era facile. Falcone viaggia156 va ormai con scorta e auto blindata, tuttavia,

un tentativo lo fecero – giugno 1988 – poi, lasciarono perdere. Ci pensarono i suoi colleghi a demolire il mito Falcone. Il successo del pool antimafia aveva creato un clima di ostilità e veleni nel Palazzo di Giustizia di Palermo. Perciò, quando si rese vacante la dirigenza dell’Ufficio istruzione per le dimissioni di Caponnetto che andava in pensione, il CSM scelse di seguire la ‘prassi’: scelse la consuetudine dell’anzianità, a scapito di meriti sostanziali, nominando Antonino Meli al posto di Falcone. I suoi colleghi poi, faranno di peggio: candidatosi quale consigliere del CSM, lo trombarono. Nel frattempo, Antonino Meli prima sciolse il pool antimafia, poi istituì il concetto di turnazione fra i magistrati: ogni crimine, ogni delitto di mafia, costituiva un fatto a sé stante. Secondo Meli, non c’erano collegamenti fra vari delitti e quindi, la Procura di Palermo, non aveva alcun bisogno di un coordinamento delle indagini di delitti presumibilmente riferiti a Cosa Nostra. In pratica, era come sostenere che la mafia, in quanto crimine organizzato, non esisteva. Era esattamente l’opposto di quanto avevano sempre sostenuto Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino: di fronte ad una organizzazione criminale complessa che ha vertici, capi, articolazioni territoriali, gregari, enormi possibilità economiche, una strategia di guerra e strutture disciplinate, bisognava opporre una struttura dello Stato uguale e parallela, altrimenti la lotta alla mafia sarebbe stata perdente. Non se ne fece nulla. Anzi, il successore di Meli, Pietro Giammanco, insediatosi a Palermo, si circondò di un gruppo di fedelissimi emarginando definitivamente Giovanni Falcone che deluso e amareggiato… ero costretto ad occuparmi di furti d’auto… il 13 marzo 1991 lascia la sua natia Palermo. La ‘cupola’ palermitana poteva così, momentaneamente, mettere il fodero alla lupara destinata ad ucciderlo. L’omicidio di Salvo Lima, però, riporta alla ribalta il progetto della Superprocura e, paradossalmente, saranno proprio i maggiori esti-


matori di Falcone a farlo affossare. La decisa ostinazione del ministro Martelli nell’indicare al vertice della Superprocura proprio Falcone e, peggio ancora, la gratuita dichiarazione di Cossiga… voterò per Falcone… allarmarono il CSM: era una plateale ingerenza politica al loro autogoverno. Morale: Falcone non poteva assumere la guida della Superprocura perché… non dava sufficienti garanzie di indipendenza dal potere politico… e che i socialisti, in quella direzione ci marciassero, era vero. Così come era vero che gran parte dei magistrati accettavano di buon grado l’ingerenza politica quando questa agevolava carriere e privilegi. Per la ‘cupola’ palermitana, comunque, la discussione, la diatriba fra politici e magistrati, era pura accademia. La mafia registrò che Falcone, a Roma, era diventato più potente e pericoloso che a Palermo: bisognava eliminarlo ad ogni costo.

La strage di Capaci Alle 17,48 di sabato 23 maggio, Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, atterrano all’aeroporto palermitano di Punta Raisi. Hanno deciso, all’ultimo momento, di passare

Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo.

il fine settimana in famiglia a Palermo. All’aeroporto sono ad attenderli 6 uomini di scorta su due auto e una terza vettura blindata con l’autista Giuseppe Costanza. Falcone chiede a Costanza di prendere posto sul sedile posteriore. Sarà lui stesso, con la moglie accanto, a guidare l’auto fino a Palermo. Il piccolo convoglio si mette in moto. La macchina di Falcone è preceduta e seguita dalle auto di scorta. Le tre vetture escono dall’aeroporto e imboccano l’autostrada per Palermo. All’altezza dello svincolo della piccola cittadina di Capaci, 30-40 metri di autostrada letteralmente si sollevano ed esplodono. La prima vettura di scorta salta in aria insieme a blocchi d’asfalto e viene catapultata in un campo a 100 metri di distanza. L’auto di Falcone vola anch’essa in aria per qualche metro e poi piomba nel cratere sottostante dove viene semi sepolta da pezzi d’asfalto, pietre e terreno. La seconda vettura di scorta tenta una disperata frenata, ma non può evitare il tamponamento: il rinculo salva la vita ai tre agenti. E’ una strage. Seicento chili di tritolo piazzato sotto uno stretto viadotto ha distrutto 50 metri di corsia d’autostrada che conduce a Palermo. Lo spostamento d’aria è stato così violento che ha sollevato da terra due auto sulla corsia opposta. Una, dopo un paio di piroette s’è ritrovata sulle gomme, l’altra si è adagiata su un fianco. Gli occupanti ne usciranno feriti, traumatizzati, ma vivi. Sull’altra corsia intanto, i primi soccorritori cominciano a contare le vittime. Per i tre agenti sulla vettura di testa, non c’è più nulla da fare. Giovanni Falcone, la moglie e l’autista vengono estratti dalle lamiere contorte dell’auto blindata ancora vivi, ma giungono all’ospedale di Palermo in condizioni disperate. Falcone muore dopo pochi minuti; la moglie, dopo due ore di straziante agonia; l’autista resta fra la vita e la morte per due giorni ma riesce a salvarsi. Due dei tre agenti uccisi, sono pugliesi. Antonio Montinaro, 32 anni, era di Calimera in provincia di Lecce; Rocco Di Cillo, 30 an- 157


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Rosalia Schifani , la vedova di Vito, uno dei tre agenti uccisi nella strage di Capaci.

ni, era di Triggiano alle porte di Bari; Vito Schifani, 27 anni, era di Palermo. Lasciano mogli, figli e fidanzate. Ancora cinque vittime meridionali, di quel Meridione ‘assistito e parassita’ i cui figli non esitano a donare la vita in lotte che appartengono alla comunità, al Paese, allo Stato. Accadeva negli anni Settanta con la lotta al terrorismo, accade negli anni Novanta con la lotta alla mafia prodotti di una cultura statuale che fin dall’unificazione ha sempre diviso il Paese in due: da una parte feudatari e vassalli dell’economia e dell’industria, dall’altra valvassori, sudditi, servitori. Il 24 maggio le cinque salme sono esposte in una camera ardente nel Palazzo di Giustizia a Palermo. Il 25 i funerali. In questi due giorni, muore un’altra parte della prima Repubblica. Sfilano davanti all’ennesima sconfitta dello Stato, Giovanni Spadolini, provvisorio Capo dello Stato; Vincenzo Scotti, in rappresentanza del Governo – Giulio Andreotti, che si era precipitato a Palermo per l’omicidio di Salvo Lima, 158 se ne resta a Roma – Giovanni Galloni, vice

presidente del CSM e Claudio Martelli, ministro della Giustizia. Hanno tutti i volti scuri, afflitti, sconsolati. All’opposto della folla che li accoglie con fischi, urla, rabbia e lancio di monetine… fuori di qui, buffoni… vergogna… fate schifo. Spadolini farfuglia qualche frase di circostanza e scappa via; Scotti se ne sta zitto; Galloni avrà il coraggio di dire… Falcone era il numero uno… ma condivideva l’opinione comune nel CSM che non lo voleva al vertice della Superprocura. Soltanto Martelli non sarà oggetto di scherno. Stesse scene, stessa rabbia, il giorno successivo fuori dalla Basilica di San Domenico dove si sta celebrando il rito funebre che ha un momento di grande commozione quando, dall’altare, la vedova di Vito Schifani, Rosalia, quasi soffocata dalle lacrime, legge un testo preparato da Don Cesare Rattoballi… uomini della mafia che siete anche qui dentro, io vi perdono. Ma se anche avete il coraggio di cambiare dovete mettervi in ginocchio. Rosalia si ferma, non segue più il testo, si guarda in giro e sconfortata commenta… ma loro non cambiano, non vogliono cambiare. Si ripren-


Oscar Luigi Scalfaro. In un mese passa da presidente della Camera a Capo dello Stato.

de, torna a leggere… vi chiediamo di operare per la pace, la giustizia, la speranza, l’amore per tutti… e, ancora una volta si ferma e in un sussurro aggiunge… ma no, non c’è amore qui, non ce n’è per niente! Poi, sopraffatta dal dolore, singhiozza e sviene. La bara di Falcone e della moglie esce dalla Basilica portata a spalle da un nugolo di magistrati. Due ore dopo, in una seduta straordinaria del CSM nel Palazzo di Giustizia di Palermo, il ministro Martelli, a muso duro, afferma… quello che tecnici improvvisati, magistrati di parte e politici faziosi non avevano capito, lo ha perfettamente capito la mafia. Le critiche maliziose, le insinuazioni subdole, i tentativi di delegittimazione la mafia li ha spazzati via… la mafia ha scritto la parola fine alle polemiche, eliminando fisicamente chi meglio l’aveva saputo combattere, confermando agli occhi dei dubbiosi, dei disonesti, dei rivali invidiosi che Falcone restava per la mafia il pericolo numero uno.

Tornato a Roma, Martelli, chiede al CSM di riaprire il concorso per la nomina del Superprocuratore antimafia. Ma commette, di nuovo, l’errore di indicare il candidato: Paolo Borsellino. Spiacenti, risponde il CSM, per noi il candidato era e resta Agostino Cordova già procuratore di Palmi. Sarà la Magistratura ad avere l’ultima parola, ma non prima che la mafia compia una nuova, terribile strage. La sera dei funerali delle cinque vittime di Capaci, i mille e passa grandi elettori pongono fine al ‘vergognoso’ spettacolo offerto dal Parlamento al Paese per eleggere il Capo dello Stato… a quanto sembra – scrive la Gazzetta – i partiti della disciolta maggioranza, non hanno compreso le istanze di cambiamento emerse dal voto del 6 aprile. Nella notte del 25 maggio, Oscar Luigi Scalfaro è eletto Presidente della Repubblica… il Parlamento nega di aver votato con ‘la pistola alla nuca’ – commenta Pietro Marino sulla Gazzetta – spieghi come vuole, l’importante è che si sia verificato l’atteso sussulto di responsabilità. Scalfaro diventa presidente in un momento drammatico per il Paese – scrive Giuseppe De Tomaso – l’assassinio del giudice simbolo dell’antimafia; una crisi politica senza facili vie d’uscita; una situazione economica ogni giorno più grave. Perseguitato, per anni, da parole non sempre elogiative – bigotto, clericale, bacchettone, quaresimale, conservatore, fustigatore dei costumi – il nuovo Capo dello Stato tuttavia è, e resta, un garante inflessibile della Costituzione. Il sistema necessita di una ‘grande riforma’, per farlo ha scelto per arbitro un ‘Padre della Repubblica’. Se sarà lui a traghettare il Paese dalla prima alla seconda Repubblica, lo vedremo.

Il Milan ‘stellare’ La cronaca, gli avvenimenti drammatici, le vicende che stanno lacerando il Paese in quest’anno di svolta politica e sociale, sono così tante e tali che c’è poco spazio per ‘altro’, 159


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L’allenatore del Milan Fabio Capello.

quel ‘altro’ che ormai da anni si identifica con lo sport, specie con il calcio. Ma coincidenza vuole che il campionato di serie A finisce lo stesso giorno in cui viene eletto Scalfaro e sepolto Falcone. E’ strano, ma sembra che anche lo sport più popolare d’Italia abbia avvertito la gravità del momento. Sugli spalti degli stadi non ci saranno le solite manifestazioni di gioia e delusione per vincitori e vinti. E’ stato un campionato senza storia. Perfino noioso per le enormi differenze in campo. Il Milan ‘stellare’ di Fabio Capello… ha giocato un campionato a parte – dicono i cronisti sportivi – ha vinto lo scudetto infliggendo alla Juventus – seconda in classifica – ben 8 punti di distacco. E ancora non c’erano i tre punti in palio. La squadra del ‘tridente’ olandese – Van Basten, Gullit e Rajkard – non ha mai perso una partita; Van Basten ha vinto la classifica di capo cannoniere per la seconda volta consecutiva e, a dicembre, gli viene assegnato il terzo pallone d’oro. In una parola, fra il Milan di sua Emittenza e tutte le altre squadre, il divario di classe, genialità, inventiva e tecnica è stato abissale. Al punto che l’undici più ‘brillante’ della serie A, il Foggia 160 di mister Zeman, che nutre il sogno di inter-

rompere l’imbattibilità del Milan nell’ultima giornata di campionato, si vede appioppare, da Van Basten e soci, 8 reti… i monelli della banda di Zeman hanno retto per 45 minuti – scrive il cronista – poi, quei ‘diavoli’ stranieri del Milan si sono imbizzarriti come cavalli e la partita è finita 2 a 8. Una batosta che ha ferito solo l’orgoglio del glaciale Zeman. Il Foggia è uscito dallo Zaccheria fra gli applausi scroscianti delle due tifoserie. Applausi per l’indimenticabile spettacolo; applausi per Carlo Ancelotti che a Foggia chiude la sua carriera di calciatore e applausi per quei meravigliosi ragazzi del Foggia che partono: Signori, Baiano, Rambaudi, Matrecano, Shalimov e Padalino. Tutti via. Il ‘patron’, Pasquale Casillo, ha deciso di smobilitare. Il sogno di un piccolo club meridionale capace di competere con gli squadroni del Nord, è finito. Non per Zeman. L’inguaribile illusionista boemo si rimette all’opera, raccoglie scarti e rifiuti di grandi società, ragazzi dalla C1 e perfino dall’Interregionale e quando a novembre arriva Brian Roy, la gazzella nera scartata dall’Ajax, il nuovo miracolo è compiuto: il Foggia torna a brillare come una stella nel firmamento calcistico della massima divisione. Destino inverso quello del Bari. Partito con grandi sogni e ambizioni, dopo aver speso 50 miliardi in due anni, si ritrova, alla fine del campionato, non con uno, ma con due pugni pieni di delusioni. Boban, Jarni e Platt non sono riusciti a salvare i Biancorossi dall’umiliante retrocessione. Il Bari torna in serie B con sette punti di scarto dalla quintultima di A. Cos’è mancato? Il gruppo dirigente: l’allenatore, il direttore sportivo e la Società hanno percorso l’intero campionato in un clima di reciproca diffidenza e disistima. Anche il Bari smobilita. Non per ragioni di cassetta, com’è il caso del Foggia. Perché la serie B non ha bisogno di ‘prime donne’, ma di lottatori. I primi a partire sono l’allenatore Boniek; il direttore sportivo Janich e i già promessi Platt, alla Juventus, e Boban al Milan.


Alla guida del Bari viene chiamato il brasiliano Sebastiao Lazaroni, enigmatico, telegenico, un passato illustre da calciatore, un po’ meno da allenatore. La direzione sportiva viene affidata ad una vecchia conoscenza dei baresi, Carlo Regalia. Sarà lui a portare a Bari la coppia ProttiTovalieri che, insieme ad un risorto Joao Paolo – e senza Lazaroni – nella stagione ’94-’95 riporterà il Bari in serie A. Alla delusione dei baresi, per l’ennesima discesa in B, si oppone l’esultanza della Fidelis Andria approdata, per la prima volta nella sua storia calcistica, nella serie cadetta grazie alla ‘passione’ di una famiglia andriese – Nicola, il capostipite, Giuseppe e Franco Fuzio – e all’ostinazione di un allenatore caparbio: Mario Russo. Sofferte invece, molto sofferte, le permanenze in B del Lecce e del Taranto. La prima si salva all’ultima partita, il Taranto riesce a vincere un drammatico spareggio con la Casertana. Così sono quattro le squadre pugliesi in B. Sarà un inferno, ma ricco di esaltanti derby. Anche la Basilicata si aggiudica, in mancanza di meglio, premi sportivi di consolazione. La squadra di pallavolo femminile ‘Calia Matera’ conquista lo scudetto e il Potenza calcio, dopo 6 anni, torna in C1. Otto giorni dopo, per ‘riconoscenza’, la Società potentina esonera l’allenatore Salvatore Di Somma. Nel calcio, queste cose, fanno parte del gioco.

che spazza la corruzione, trascina sul fondo un’economia regionale già debole e delicata… Tangentopoli ha fatto mettere a molti amministratori e dirigenti i guanti bianchi – scrive Pino Anzalone sulla Gazzetta – non toccano più una pratica se non sono sicuri che sia più che pulita, sterilizzata. Le commissioni vanno deserte, le procedure si sono ulteriormente avvitate in un gioco perverso di controlli sui controlli. Una gara anche di pochi milioni diventa un affare di Stato. Ricorrere al credito privato è impossibile… praticano tassi che sono proibitivi anche per aziende che hanno maggior consistenza patrimoniale. Morale: tutto bloccato. Decine di cantieri si fermano. Migliaia di lavoratori finiscono in cassa integrazione ingrossando le già folte file dei disoccupati. Il numero delle ‘braccia conserte’ in una regione di appena seicentomila abitanti è spaventoso: si passa dai 55mila

Povera, piccola Basilicata Stava appena cominciando a scorgere un barlume di luce all’orizzonte – l’apertura del cantiere FIAT, l’indotto, la ripresa della ricostruzione, la posa in opera dei collettori per le opere irrigue, l’inizio dei lavori per il recupero dei Sassi a Matera – quand’ecco apparire, di nuovo, le nuvole nere della recessione. Le elezioni del 6 aprile mettono in crisi una Giunta regionale che sembrava solida – cinque mesi di discussioni per tornare alla Giunta dimissionaria – e il sopraggiunto vento

Shalimov e Barone, i due ‘gioielli’ del Foggia calcio.

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disoccupati di gennaio agli 86mila dell’inizio di dicembre. Il Comune di Potenza è sull’orlo della bancarotta. Ha accumulato debiti per cento miliardi. L’azienda telefonica gli ha tagliato le linee; l’ENEL minaccia di tagliargli la luce; l’ufficiale giudiziario, ogni mattina, notifica ingiunzioni di pagamento o presiede al sequestro di mobili e arredi; macchine blu portate via dai creditori… quando i tempi sono magri – commenta il sindaco Rocco Sampogna – tutti dobbiamo stringere la cinghia. Vero. Solo che da quelle parti, la cinghia non ha più buchi.

Bossi for president Finito dunque in sordina il campionato di calcio. Finita la maratona per eleggere il Capo dello Stato, inizia – nei rigidi canoni della consuetudine – la trattativa per formare la squadra di Governo e la scelta del capitano che dovrà guidarla. C’è un solo dato certo e comune a tutti: il NO corale al segretario del PSI. L’ostilità a Craxi sembra il solo comune denominatore nella confusione politica che il

nuovo Presidente della Repubblica dovrà affrontare. L’incarico a Craxi – sostiene D’Alema – sarebbe una tragedia, un errore verso tutto il Paese. Per la verità, neppure i socialisti insistono più di tanto. Ma non rinunciano a rivendicare la presidenza del Consiglio… il mare è agitato – scrive Gorjux – ma la nebbia è così fitta che neppure dalla battigia si riesce a vederlo. I repubblicani dichiarano subito che non intendono far parte del nuovo Governo, di nessun Governo; la DC corteggia il PDS e trova una ‘cauta disponibilità’ nei riformisti di Napolitano, ma un rifiuto deciso dei ‘duri e puri’ di Pietro Ingrao; Craxi si inalbera e sbotta… la DC scelga: o con me o con Occhetto. Siamo pronti anche all’opposizione; i liberali vorrebbero un Governo ‘aperto’, di larga convergenza; ai socialdemocratici, ridotti al lumicino, non importa chi guiderà la squadra, l’importante è che loro vi facciano parte; e i leghisti, come tante matricole alla prima festa di carnevale, scandiscono… Bossi for president, Bossi for president.

162 Giuliano Amato, il ‘Dottor Sottile’, con Bettino Craxi... il nuovo e il vecchio Partito Socialista.


Una babele insomma. Quella di sempre, mentre Ciampi, il Governatore della Banca d’Italia, ammonisce che… la situazione economica del Paese è tale che non c’è un minuto da perdere… e il pool di ‘Mani Pulite’, nella sola Milano, è già al 51° arresto. L’ideale – sostiene D’Alema alla vigilia del varo del primo Governo Amato – sarebbe un ‘governissimo’ di due, tre anni per fare le riforme istituzionali, affrontare la questione morale e il problema della criminalità. Un pezzo di strada insieme alla DC e poi nuove elezioni fra diversi schieramenti, di destra e di sinistra, come avviene in tutti i paesi democratici. Gli chiedono: e se Craxi non è d’accordo? Craxi è diventato un ingombro per un Paese che deve imboccare una strada nuova – risponde D’Alema – è stato un enorme ostacolo rispetto alla possibilità di dare vita ad un processo politico nuovo… questo Paese ha bisogno di compiere uno scatto in avanti e ha trovato sulla sua strada questi oligarchi che mettono la difesa del loro potere di traverso sul cammino del cambiamento. Eppure, ad agosto, in occasione del centenario del PSI, all’appello di Craxi… ai compagni che provengono dalla tradizione comunista a non lasciar passare questa occasione storica per riprendere un cammino, non retorico e non astratto, verso quell’Unità socialista che ci pare la medesima di quanti venivano indicando la via dell’Unità riformista… gli sarà risposto con un silenzio assordante. E non di meno, è Craxi a perorare l’ingresso del PDS nell’Internazionale socialista. Ma le distanze politiche, le rivalità, le posizioni personali sono ormai così deteriorate e incolmabili, che non c’è più spazio di trattativa fra i due partiti di sinistra. Craxi non sarà il nuovo Presidente del Consiglio, ma sarà ancora lui a dirigere l’orchestra e sarà lui a tirare fuori dal cilindro il ‘coniglio’ giusto: Giuliano Amato. E per la prima volta Martelli e per la seconda volta Formica, contestano il ‘Capo’. Non sulla scelta del nome, ma per averlo fatto… senza chie-

dere la disponibilità del Partito. Giustissimo. Così avrebbe dovuto essere. Ma per 16 anni Craxi, non solo ha sempre fatto il contrario, ma mai gli era stato chiesto di rendere conto. Ha sempre deciso lui per tutti. Poi, lasciava che fossero proprio Martelli e Formica, insieme a De Michelis, a fare opera di convinzione verso la ‘base’, gli ‘alleati’ e l’opposizione. I tempi sono cambiati. E’ cominciata la fronda al padre padrone del PSI. Amato è il socialista più craxiano che c’è – scrive in un editoriale della Gazzetta Giuseppe De Tomaso – il sodalizio fra Craxi e il Professore nasce all’inizio degli anni Ottanta e diventa ‘inossidabile’ durante il quadriennio di presidenza socialista a Palazzo Chigi. In quegli anni Amato colleziona una babele di nomignoli. Il più gettonato è ‘Dottor Sottile’, fa riferimento alle sue inesauribili trovate giuridico-politico-istituzionali: le architravi delle intuizioni e dell’azione di Craxi alla guida del Governo. Ma quanto la mente di Amato fosse ‘sottile’, lucida, analitica e calcolatrice, Craxi se ne accorge quando è troppo tardi per tornare indietro.

Il ‘Dottor Sottile’ Il 29 giugno il Presidente incaricato, Giuliano Amato, vara un Governo a quattro: DCPSI-PSDI-PLI. Non è un ‘governissimo’, ma un ‘governicchio’ con una risicata maggioranza ed un altrettanto ristretto numero di ministri e sottosegretari: 24 i primi, 35 i secondi, invece dei 33 e 69 del Governo Andreotti. Non sarà un Governo di transizione – sostiene Amato – l’esecutivo è snello perché c’è la necessità di fare poco, bene e subito. Il Paese è sull’orlo del precipizio. Ma i numeri non gli danno ragione. E’ un Governo nato morto. A parte l’esigua maggioranza – sulla carta Amato dispone di appena 15 voti in più del quorum necessario – a nessuno è sfuggito che nel suo Governo sono assenti De Michelis, 163


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Formica e soprattutto la sinistra socialista per il deciso rifiuto di Claudio Signorile che commenta… entrare nel Governo Amato sarebbe come mettersi davanti allo specchio e insultarsi da sé. Inoltre, a rendere più instabile la barca del ‘Dottor Sottile’, ci mette del suo anche il segretario dimissionario-in-carica della DC, Arnaldo Forlani, il quale propone e ottiene che i ministri democristiani designati facciano una scelta: o la poltrona di ministro o il seggio in Parlamento. Alcuni – Mancini, Merloni, Scotti, Sandro e Gianni Fontana – si dimettono da deputati. Scotti, un mese dopo, ci ripensa. Ritira le dimissioni da parlamentare e si dimette da ministro degli Esteri. Sarà sostituito dall’on. Emilio Colombo. Claudio Vitalone non fa né l’una né l’altra cosa… io resto senatore e ministro. Voi fate quello che vi pare. E tuttavia, il 2 e 3 luglio il Governo Amato ottiene la fiducia del Senato e della Camera. Non c’è un’alternativa, specie dopo l’imbarazzato silenzio sceso nell’aula di Montecitorio a seguito del discorso di Craxi sulla questione morale… nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra… le degenerazioni, che pure ci sono state, non possono essere utilizzate da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare la classe politica, per creare un clima foriero solo di disgregazione e avventura. In realtà, un’alternativa c’è. Ed è stata pure prospettata: nuove elezioni. Ma alla velocità con cui viaggia Tangentopoli – a fine giugno il pool di ‘Mani Pulite’ aveva già presentato 6 richieste di autorizzazione a procedere per altrettanti deputati – maggioranza e opposizione si guardano bene dal riproporle. Nessuno sa bene cosa è accaduto, cosa sta accadendo e cosa accadrà, ma tutti sono consapevoli che le elezioni anticipate potrebbero essere catastrofiche per il ‘sistema’ e il silenzio seguito alle dichiarazioni di Craxi lo conferma. Ma il destino della prima Repubblica è segnato. La mafia torna a colpire la Sicilia, il 164 Paese, lo Stato.

La strage di via D’Amelio Il pomeriggio del 19 luglio, il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, decide, all’ultimo momento, di fare visita alla madre e alla sorella che abitano nella stessa città in via Mariano D’Amelio. Le tre auto blindate, con 6 uomini di scorta, arrivano al numero 21 di via D’Amelio alle 16,55. Borsellino scende dalla sua vettura protetto dalla scorta, sale la breve rampa di scale che conduce all’ingresso del palazzo, suona il citofono e… la strada esplode. Un’auto imbottita di esplosivo al plastico parcheggiata di fronte al portone d’ingresso, a meno di cinque metri da Borsellino, salta in aria uccidendo sul colpo il giudice e 5 agenti della scorta: Claudio Traina, Agostino Catalano e Vincenzo Li Mulli erano palermitani; Walter Cosina era un ragazzo di Trieste ed Emanuela Loi, 25 anni, la prima donna poliziotto impegnata al servizio scorta, era della provincia di Cagliari. Il sesto agente,

Lo spettacolo terribile di via D’Amelio a Palermo dopo l’esplosione dell’autobomba.


Antonio Vullo, si salva perché si è allontanato per far defluire il traffico. Come per Falcone, anche ai funerali di Borsellino e degli agenti di scorta, si ripetono le stesse scene: proteste, spintoni, lancio di monetine, sputi e insulti all’indirizzo del Capo dello Stato, del Presidente del Consiglio e del Capo della Polizia che, nonostante il rifiuto della famiglia Borsellino ai funerali di Stato, hanno voluto esserci. La mafia – scrive Giuseppe De Tomaso – ha un grande alleato nella sua opera di depistaggio e sovvertimento della verità: un ‘sistema’ anzi uno Stato basato su tutto fuorché sul principio di ‘responsabilità’ e ‘identità’… chi ha organizzato un servizio d’ordine che a malapena è riuscito a salvaguardare l’incolumità del Presidente della Repubblica? Non si sa. Chi voleva impedire a Borsellino di occuparsi della strage di Capaci? Non si sa. Chi aveva sottovalutato le voci sul suo attentato? Non si sa. Chi non aveva predisposto il divieto di sosta e circolazione nella zona dove abitava la madre di Borsellino? Il Prefetto, il Questore o il Capo della Polizia? Non si sa! Eppure, che Paolo Borsellino fosse stato condannato a morte, era noto sin da prima della strage di Capaci. Il 21 maggio il pentito Vincenzo Calcara aveva rivelato agli inquirenti che lui stesso aveva ricevuto l’incarico. Lo ha poi ripetuto e confermato il 12 giugno… Cosa Nostra non dimentica e a Borsellino non perdonerà mai di aver messo in ginocchio una delle famiglie più potenti di Trapani. Si poteva, dunque, evitare la strage di via D’Amelio? Difficile dirlo. Gente con una organizzazione, mezzi tecnici ed economici così rilevanti da minare un tratto di autostrada e farla saltare nel momento esatto in cui una precisa vettura l’attraversa a 130 chilometri l’ora, neppure un esercito potrebbe fermarla… il problema non è se un omicidio si possa fare o no – aveva detto Borsellino – tutti i delitti sono possibili. E’ relativamente facile per questa gente uccidere anche un Capo di Stato. Dopo questa ennesima strage, lo Stato

Paolo Borsellino, vittima di un’altra barbara strage.

decide di esserci. Decide di usare la mano pesante. Il 20 luglio, il carcere dell’Ucciardone, a Palermo, è svuotato del fior fiore di detenuti di mafia per confinarli all’isola di Pianosa; il 22, invia in Sicilia 7.000 soldati, con compiti di polizia, e 2.000 nuovi agenti; approva, in due settimane, una legge antimafia che prevede il carcere duro per i mafiosi e maggiori garanzie ai pentiti per abbattere il muro dell’omertà; concede maggiori poteri alla Direzione Investigativa Antimafia; riapre i termini per la nomina di un superprocuratore alla Direzione Nazionale Antimafia e infine trasferisce il prefetto, il questore e il contestatissimo capo della Procura di Palermo, Pietro Giammanco. E’ una catarsi. Una vera opera purificatrice di traumi e conflitti che hanno avvelenato la Sicilia e soprattutto la Procura di Palermo. Un clima che il 3 dicembre induce il sostituto procuratore, Domenico Signorino, al suicidio. Era stato accusato dal mafioso pentito Gaspare Mutolo di collusione con la mafia. Eppure, Signorino aveva sostenuto l’accusa al primo maxi-processo a Cosa Nostra degli anni Ottanta. 165


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Nel frattempo, il 30 ottobre, il CSM questa volta… di concerto con il ministro della Giustizia… nomina Bruno Siclari capo della Direzione Nazionale Antimafia – la parola superprocuratore non piace ai magistrati – e il 17 dicembre, dopo l’ennesimo braccio di ferro con Claudio Martelli, il CSM nomina il piemontese Gian Carlo Caselli procuratore capo della Repubblica di Palermo. Ancora una volta, il CSM ha voluto sottolineare la propria indipendenza – e per quanto stava accadendo, il minimo dissenso con la Magistratura era considerato un sacrilegio – e confermare il criterio dell’anzianità. Martelli avrebbe voluto il giudice Pietro Grasso, ma questi era entrato in Magistratura due anni dopo Caselli. Non che Caselli fosse un illustre sconosciuto. Tutt’altro. Vantava successi considerevoli nella lotta contro terroristi e brigatisti, ma Grasso era, ed è, considerato un esperto della criminalità mafiosa in Sicilia. Tant’è che sarà Grasso a succedere a Caselli nella primavera del 1999.

166 Bettino Craxi: la sua leadership si appanna anche nel PSI.

La resa dei conti nel PSI Quel 17 dicembre segna anche un altro evento storico. E’ il giorno dei ‘lunghi coltelli’ in casa socialista: Martelli, Amato, Formica e Signorile chiedono a Craxi di dimettersi. Formica anzi è stato anche più esplicito… se non va via e chiede la solidarietà del Partito, sbaglierebbe, perché potrebbe correre il rischio di avere per metà solidarietà per pietà e per l’altra metà solidarietà ipocrita. Un grande leader accetta una situazione come si è venuta a determinare. Due giorni prima, il 15 dicembre, Craxi aveva ricevuto il primo dei 40 avvisi di garanzia con l’imputazione di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, corruzione e ricettazione. E’ l’ultima stoccata dell’anno ad un partito che veniva metodicamente decimato. Solo nei primi giorni di dicembre a Varese, Monza, Verona, Reggio Calabria e Lucera, sono stati arrestati sindaci, vice sindaci, assessori provinciali e regionali, presidenti, ex presidenti USL e un numero indefinito di ex assessori, tutti socialisti. A Lucera, l’ex vice sindaco socialista è arrestato proprio mentre Craxi, dal palco di piazza Duomo, sta facendo un discorso elettorale per le amministrative. Per la prima volta, il combattivo leader socialista è all’angolo, stretto fra i colpi della Magistratura e le esortazioni dei suoi ‘secondi’ che gli consigliano di… gettare la spugna. La fronda a Craxi è cominciata a maggio durante le elezioni del Presidente della Repubblica. Il 16, la maggioranza di Governo ha deciso di puntare sul nome di Arnaldo Forlani. Ma sia nella quinta che nella sesta votazione, Forlani s’è visto scippare la massima carica dello Stato per una manciata di voti. Erano venuti meno non i voti dei democristiani, avvezzi alle imprese dei ‘franchi tiratori’, ma quelli dei socialisti che, pur non disdegnando gli stessi metodi, solitamente non osavano ‘disubbidire al Capo’ che per l’occasione si era e li aveva impegnati. E la frase di Rino Formica… perché continuare a fare i servi di Maria…


confermava che erano stati i socialisti a trombare Forlani compiendo così il primo atto di insubordinazione alle direttive del ‘Capo’. Poi, man mano che decine di socialisti finiscono nelle maglie di Tangentopoli, da Silvano Larini – l’architetto che portava nella sede del PSI a Milano intere valigie di contanti – a Gianni De Michelis, è stato tutto un susseguirsi di posizioni e distinguo alla leadership di Craxi. Il più caustico è Claudio Signorile; il più pungente è Rino Formica. Poi, ci sarà la stagione del pupillo-traditore, Claudio Martelli. Ma il più ‘efficace’, per la sua affettata, insincera mitezza, sarà il mellifluo Giuliano Amato, il Dottor Sottile. Il 7 luglio l’Esecutivo del PSI decide di commissariare le Segreterie di Pavia e di Puglia. La reazione di Formica è violenta… sono provvedimenti presi senza discussione da chi pensa che nel partito si possa governare con i fogli d’ordine. Due giorni dopo Formica, Signorile, Ruffolo e Manca presentano un ‘manifesto riformista’ firmato anche dalla minoranza del PDS. Il 28 luglio Formica torna alla carica con una lunga lettera a Craxi e, dopo aver sottolineato una serie di errori nella linea politica del PSI, conclude: Dobbiamo cambiare, dobbiamo fare in modo che il PSI torni a rappresentare un punto di riferimento credibile dopo le ubriacature del rampantismo con il suo corollario di pressappochismo e lassismo. Il 31 luglio, Martelli fa il primo passo di avvicinamento verso i dissidenti: rifiuta di firmare un ampio documento di Craxi per avviare il chiarimento politico nel PSI… è un buon inizio – commenta il ‘Delfino’ – solo che non mi spiego perché bisognerebbe firmare prima di discutere. Craxi allora corre ai ripari. Il 7 agosto chiama Formica a far parte della nuova direzione e questi, ritenendo di averlo avvicinato alle proprie posizioni, commenta… aveva ragione De Martino quando sosteneva che Craxi è un leader che mantiene una posizione ir-

ruente sino a pochi metri dal traguardo e che poi, alla fine della corsa, diventa ragionevole e prudente… Craxi è un bel combattente, limpido e ostinato, ma anche orgoglioso e fanciullesco… il nostro è un rapporto ambivalente, ci comportiamo cioè come due persone molto legate e molto affezionate tra loro: ci teniamo il muso.

La ‘cura’ Amato Intanto, il Governo Amato comincia a strizzare gli italiani come tanti panni bagnati. Inizia cioè a mettere in cantiere una serie di riforme economiche e strutturali destinate a cambiare la politica economica dello Stato e la vita della gente. In una parola, cominciammo ad essere più poveri. Basta, dice Amato, e con lui Ciampi, con questa favola del quarto, quinto Paese più industrializzato del mondo. Siamo pieni di debiti, abbiamo un deficit dello Stato superiore al prodotto interno lordo, un’evasione fiscale di 270mila miliardi e un livello di vita che non possiamo più consentirci. E’ tempo di penitenza, bisogna cominciare a risparmiare, risanare e, se proprio bisogna mettere mano al portafoglio, sarà per pagare il dovuto. Inizia la fase in cui il Paese passa da ‘pubblico è bello’ a ‘privato è meglio’. Si pongono le basi per la messa in liquidazione, con la vendita ai privati, dei grandi carrozzoni dello Stato, nonché centri di clientele, di enti come l’ENI, IMI, IRI, INA, ENEL ed EFIM alcuni dei quali godono di ottima salute, altri sono soffocati di debiti. Con i Sindacati è siglato l’accordo per la definitiva sepoltura della Contingenza e la sospensione della doppia contrattazione, nazionale e aziendale. D’ora innanzi gli aumenti salariali saranno calcolati in base all’inflazione programmata. Sono, inoltre, bloccate le pensioni di anzianità fino al 31 dicembre del ’93 e gli aumenti retributivi nel pubblico impiego; varata una mini imposta patrimoniale e l’imposta sui depositi bancari; nasce la ‘minimum tax’ per i lavoratori autonomi; vengono riparametrate e 167


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La protesta dei lavoratori a Roma contro i provvedimenti fiscali del Governo Amato.

appesantite le aliquote IRPEF sui redditi superiori ai 30 milioni l’anno già da quest’anno e falcidiata la 13ma mensilità. Aumentano poi i contributi previdenziali a carico dei lavoratori; raddoppia il costo dei bolli per le patenti, passaporti e per le licenze di caccia; aumentano le tariffe ferroviarie, telefoniche ed elettriche oltre a zucchero, caffè e tabacchi. Giro di vite per i sindacalisti ‘distaccati’ nel pubblico impiego, dovrebbero essere 1.000 e sono 10mila; è varata l’ICI, l’imposta comunale sugli immobili, che entrerà in vigore nel ’93; sospesi i mutui agevolati e ridotti i contributi dello Stato agli Enti locali. La Lira, infine, è svalutata del 7 per cento e lascia, temporaneamente, il Sistema monetario europeo. A farla breve, più che una cura dimagrante è un salasso. Ma è solo un assaggio perché sono provvedimenti varati ad agosto. Altri verranno con la legge finanziaria. Achille Occhetto definisce il pacchetto del168 la manovra agostana… un atto di sadismo

contro i lavoratori dipendenti… e Fausto Bertinotti contesta l’accordo sulla Contingenza e sulla contrattazione. La CGIL si spacca. Il segretario, Bruno Trentin, che a Firenze è ‘aggredito’ dai lavoratori, prima si dimette poi viene convinto, dallo stesso Occhetto, a restare: la stretta operata da Amato è come il suo stesso Governo, senza alternativa… se la svalutazione prende una scivolata – sostiene il Dottor Sottile – non dovremo preoccuparci di quanto sia il salario, ma se ci sarà il salario. Quelli che in piazza lanciano bulloni e uova marce contro i leader sindacali sono degli irresponsabili. I Sindacati hanno capito che non si tratta di stabilire di quanto si può tosare la pecora, ma di assicurare la sopravvivenza della pecora. E’ finito lo sviluppo per tutti, afferma il CENSIS nel suo rapporto annuale. Ci attende un autunno difficile – scrive Paolo R. Andreoli sulla Gazzetta – forse il più difficile dalla fine della guerra… le misure della manovra di que-


sto autunno sono dure, ma non si possono rifiutarle tutte perché la casa non si può toccare, lo stato sociale neanche e il costo del lavoro si può ridurre solo se è il lavoro degli altri. E’ molto più che un ‘autunno difficile’. In pochi mesi, produzione e occupazione peggiorano; il clima, politico e sociale, non è dei migliori per gli investitori e riprende l’esodo dei capitali verso l’estero; fabbriche storiche, come la Lancia e la Maserati, chiudono; la Cassa integrazione dilaga; migliaia di cantieri sono fermi a causa di Tangentopoli e, a fine dicembre, la stima dei posti di lavoro in pericolo sale a 400mila. Ma Amato non ha finito. Poste le premesse per salvare l’economia del Paese, il Dottor Sottile, con lo stesso piglio, volge le sue attenzioni al PSI. Il metodo è quello classico: demolire il vecchio per costruire il nuovo. Il 14 agosto, a Genova, nella stessa storica locanda che nel 1892 Turati, Prampolini e la Kuliscioff fondarono il PSI, il vertice del Partito celebra il centenario. L’occasione conviviale è amichevole, ma Amato non è affatto conciliante… dobbiamo cambiare. Un sano bagno nelle origini fa bene a tutti i socialisti. Chi non è disposto a fare questo bagno se ne vada. Ci sono tanti mari inquinati in giro per l’Europa. Vada via, trovi le sue acque e ci si bagni tranquillo… dobbiamo dare prove lavorando, lavorando con onestà. L’onestà è diventata importante. Non è che con l’onestà si risolvono i problemi, ma senza non li si risolve, non si è ammessi a risolverli. Nessuno fiata. Chi ha capito, ha capito. E Craxi ha capito perché il 18 agosto sull’Avanti scrive… oggi c’è, forse, un solo modo vero per dare un senso incancellabile, un valore profondo, una rilevanza autenticamente storica alle celebrazioni del centenario socialista… si tratta di qualche cosa che può nascere da una rilettura e da un bilancio della storia e delle esperienze diverse delle generazioni che con le loro illusioni, le loro speranze, i loro errori e le loro conquiste hanno percorso un lungo travagliato tragitto nella vita

della società italiana ed internazionale… si tratta di giungere a gettare le basi del superamento di antiche divisioni, ostilità e pregiudizi, purtroppo ancora molto radicati, ostinatamente difesi da uno spirito conservatore duro a morire… si tratta di quell’orizzonte nuovo che noi avevamo indicato nella prospettiva dell’Unità socialista e che ci era parso poter essere il medesimo di quanti venivano indicando la via dell’Unità riformista. Non so e non saprei dire – continua Craxi – se eravamo e siamo di fronte ad orizzonti possibili e realistici oppure se siamo noi stessi prigionieri di schemi intellettualistici astratti e ideologici che debbono invece fare i conti con una realtà divenuta tanto diversa, composta da soggetti e fattori tanto diversamente ispirati e condizionati da risultare inevitabilmente incomprensibili. E tuttavia è, questo, un cammino che noi non vorremmo abbandonare. E’ un tentativo che vorremmo riprendere invitando i compagni che provengono dalla tradizione e dall’esperienza comunista a non lasciar passare questa occasione storica. Ma i compagni del PDS non raccolgono. Né raccolgono l’invito di Amato a sostenere il suo Governo. Anzi, senza troppi giri di parole, gli dicono chiaro e tondo di raccogliere lui… le carte e presentare le dimissioni del suo pessimo Governo. Il nostro è uno strano Paese – commenta amaro il Dottor Sottile – siamo in presenza di una maggioranza che quasi oggettivamente non c’è, e quindi nega di esserlo, e ad una opposizione che non vuole diventare maggioranza. La confusione è al massimo. Tutti remano contro tutti: Segni e Leoluca Orlando contro la DC; i riformisti di Napolitano contro i ‘duri e puri’ del PDS; la sinistra socialista contro il monolite Craxi… il PSI sta vivendo quello che ha vissuto il PDS nell’89 – sostiene Formica – stiamo cercando di uscire dal vecchio centralismo democratico. Martelli sembra simpatizzare per un ipotetico ‘partito che non c’è’; Pannella auspica la formazione di un 169


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partito… che tagli trasversalmente tutti i partiti esistenti. C’è chi semplicemente grida… liberateci dai partiti… e c’è poi la Lega di Bossi e del suo massimo ideologo Gianfranco Miglio, che mirano semplicemente a sfasciare l’intero sistema. L’unico a restare lucido in tanta confusione è lui, Giuliano Amato… non facciamoci illusioni, non esiste democrazia al di fuori dei partiti. Al di fuori dei partiti restano i mass media, il potere finanziario, i potentati di vario genere… e poi giù, duro… ma per i partiti di oggi, non c’è futuro. Non per questi partiti e con questi nomi e cognomi, con queste divisioni e distinzioni. Ciò vale anche e soprattutto per il PSI arrivato a questo centenario colpito, giustamente o ingiustamente, da vicende giudiziarie… e ancora, conciliante… occorre rimettersi in discussione, a disposizione di un’aggregazione politica più ampia, che continui la nostra stessa storia nella storia futura di un’Europa progressista, giusta, democratica.

Il Delfino ‘attacca’ il Re Ma è troppo tardi. Nessuno ascolta più. Tangentopoli è diventata una specie di catena di Sant’Antonio che miete vittime in tutto il Paese e ragionare con lucidità diventa difficile. Craxi è convinto di essere vittima di un’aggressione giudiziaria, giornalistica e politica… stanno creando intorno a noi un clima infame… e nel tentativo di allentare la pressione di ‘Mani Pulite’ sul PSI, s’inventa ‘carte scottanti’, un poker d’assi, contro Di Pietro. È un ‘bluff’ a cui abbocca anche Formica. E’ l’occasione, per Martelli, per cominciare a fare le pratiche di divorzio da Craxi… l’attacco ai magistrati è un errore – sostiene il Delfino – l’inchiesta di ‘Mani Pulite’ è salutare e deve andare avanti, ma con maggior equilibrio e discrezione da parte dei magistrati… penso che la responsabilità principale nell’aver fabbricato mostri, nell’aver creato una gogna pubblica in cui l’accusa è già diventata una condanna definitiva, sia dei mass media più 170 che dei giudici. Poi, improvviso, l’affondo a

Craxi… penso che ogni uomo politico debba essere in grado di produrre delle soluzioni e non diventare, lui stesso, un problema. E’ il 4 settembre. Il 6, nel PSI, si scatena un putiferio. Occhetto e La Malfa plaudono alle parole del quasi ex Delfino e si dichiarano disponibili a sostenere un Governo ‘targato Martelli’. Ma è il 12 settembre che l’idillio fra Martelli e Craxi si consuma definitivamente. Commentando, a Genova, la bozza di autoriforma del PSI presentata da Craxi – azzeramento delle tessere, decentramento, organo speciale per il controllo sulla moralità, criteri nuovi per la composizione delle liste elettorali e una politica che favorisca il processo di avvicinamento tra le forze di ispirazione socialista per giungere ad una prospettiva di programma e strategia comune – Martelli, prima la boccia… è vecchia… poi chiarisce… bisogna andare oltre i confini dell’Unità socialista… se c’è una disponibilità repubblicana, oltre che liberale e radicale, a ricomporre un’alleanza più grande in una sinistra rinno-

Formica e Martelli, il ‘consigliere’ e il ‘delfino’ di Bettino Craxi.


vata sul terreno del socialismo democratico, perché non approfittarne? L’autoriforma? Non basta un comunicato di segreteria o una riunione di vertice. E’ necessaria una discussione libera, franca, che impegni tutto il partito. L’azzeramento delle tessere? Meglio tardi che mai; purché non si trasformi in una sorta di azzeramento della base socialista. Sarebbe il massimo dei paradossi se i dirigenti sospendessero la base… le responsabilità per la situazione in cui versa il PSI le abbiamo tutti, ma non sono tutte uguali. Alle mie non mi sottraggo, ma non ho mai organizzato congiure interne o trasversali e neppure pensato, con mesi di anticipo, a governi da me diretti o a dorotee imbalsamazioni del leader ‘maximo’… io non sarò mai il killer di Bettino. Non diventerò il capo dei suoi nemici. No, non sarà Martelli il killer di Craxi. Martelli sarà uno dei tanti killer che da anni attendono una mossa falsa di Bettino. Paradossalmente, il più spietato killer di Craxi, sarà lo stesso Craxi. Sarà la sua arroganza, il suo orgoglio, il suo carattere a formare quella miscela esplosiva che lo condurrà alla ‘morte politica’… nel nostro Paese è in atto una nuova strategia degli opposti estremismi in cui spinte, chiaramente di destra e altre di sinistra concorrono, in modo fortunatamente ancora confuso, ad un disegno che, attraverso un dissolvimento dei partiti, porta ad una svolta dai caratteri ancora indefiniti – afferma Craxi a Berlino tre giorni dopo l’attacco di Martelli – non c’è di certo una mente unica dietro a questo disegno, ma più centri di potere economico, finanziario ed editoriale… compreso una generazione di rivoluzionari delusi degli anni Settanta e che considera gli anni Ottanta quelli della repressione delle loro speranze… una ‘cupola’ che vorrebbe avere mano libera, sgombrando il campo dai partiti, per trasformare l’Italia a suo uso e consumo, per trasformare la democrazia italiana in una democrazia elitaria. Vi sono vari personaggi di questo disegno che ricordano

l’ascesa al potere del fascismo. Forse aveva ragione. Lo dirà la storia, non questa cronaca, se il tentativo adombrato da Craxi c’è stato. Ma in quel momento non era proprio il caso di evocare gli opposti estremismi né tanto meno il fascismo. La conseguenza è che Martelli – in occasione delle elezioni provinciali di Mantova, il 27 settembre – stringe una specie di patto neofrontista con il PDS e il PSDI facendo comizi elettorali insieme a Occhetto e Vizzini. E’ un disastro senza precedenti – che si ripete nel più ampio test amministrativo di dicembre - dove DC, PSI e PSDI ne escono dimezzati a tutto vantaggio della Lega, a Nord, e della Rete di Leoluca Orlando a Sud. Il 29 settembre, mentre Forlani torna a dimettersi sostenendo che la DC… è assediata da forze eterogenee che convergono solo per distruggere… Martelli, prima addossa a Craxi la responsabilità della sconfitta elettorale mantovana, e poi afferma… il PSI non è finito, ma è finito e deve considerarsi un capitolo chiuso il PSI degli scandali, il PSI epicentro e baluardo in difesa del vecchio sistema… e chiede le dimissioni di Craxi e l’immediata convocazione del Congresso. E’ la fine. Martelli ha posto l’ultima firma alla pratica che sancisce il suo divorzio da Craxi e questi, il giorno successivo, controfirma… mi spiace che nel partito sia stato gettato il germe della divisione e, in taluni casi, con parole che rivelano una certa dose di viltà e slealtà… può essere una buona cosa – aggiunge Craxi - un congresso-verità che getti le basi per una ripresa del partito… ma subito dopo, con tono duro e tagliente, rivolto all’ormai nutrito gruppo di dissidenti, scandisce… avrete il Congresso. Ma non quando volete voi. Sarà la Direzione a prendere la decisione finale. Il ‘divorzio’ è consumato dunque. La grande ‘famiglia’ socialista si è sfasciata. Progetti, propositi, ideali, tutto finito nel bidone della spazzatura. E’ cominciata l’opera di distruzione di un partito secolare, fondamentale per la 171


Una finestra sulla storia - 1992

democrazia. Per milioni di italiani, il modo di pensare socialista, il volto del socialismo, è stato il simbolo di una società vivibile. E’ finita. Il PSI è moribondo. Ci saranno, come in tutte le famiglie, altri violenti scontri verbali per spartirsi l’eredità. Finché le parole, la Magistratura e gli elettori, delusi e mortificati, finiranno per perdere il ricordo delle antiche vestigia e del vecchio, glorioso PSI non resteranno che monconi sparsi in ‘poli’ diversi. Così, mentre… il pollaio si agita, starnazza, si spiuma al soffio del primo vento autunnale – scrive il Direttore della Gazzetta – commentatori autorevoli cominciano a cambiare registro nei confronti della Lega. Riconosciamo di aver sottovalutato il movimento leghista, ma saremmo più cauti nell’attribuire a Bossi e Miglio la cittadinanza democratica come fanno Montanelli e Bocca al quale, pur dandogli atto che la ‘sberla di Mantova’ era prevedibile, stante l’imperturbabilità e inamovibilità di quanti hanno disastrato il Paese, deve però stare attento quando giudica e parla in nome di ‘noi che lavoriamo’, ‘noi che ci guadagniamo faticosamente la vita’. Non crediamo che questa rappresentanza spetti – continua Gorjux – a chi, guadagnando quanto Bocca guadagna, raffazzona e vende libri, come il suo ‘Inferno’, rappattumando senza fatica e senza rispetto di alcuna professionalità, informazioni incontrollate, radicalmente sbagliate fin nei nomi, raccattate al telefono o, al massimo, in una cena al ristorante. Così, Bossi comincia a fare proclami… o il federalismo o io faccio la rivoluzione con trenta milioni di settentrionali; l’ineffabile prof. Miglio chiarisce al volgo il suo concetto di democrazia… se anche il Sud vota la Lega? Non è un problema. Quando arriva l’ondata di piena ci sono anche pezzi di sterco. C’è il pericolo che molti salgano sul carro della Lega per convenienza… adotteremo dei filtri per evitarlo; e la Magistratura continua, infaticabile ormai in tutto il Paese, a smantellare il ‘sistema’. Avvisi di garanzia, informazioni giudizia172

Lecce, il fastoso Palazzo barocco dei Celestini.

rie, mandati di comparizione, d’arresto e richieste di autorizzazioni a procedere fioccano come tanti inviti a nozze. Interi Consigli comunali, regionali e provinciali vengono decapitati o sciolti. Aziende colossali, pubbliche e private, vengono setacciate, inquisite e immobilizzate con conseguenze gravissime per l’occupazione… a volte si ha l’impressione – afferma il nuovo segretario della DC Mino Martinazzoli – che vi siano oggi procuratori della Repubblica che se si alzano la mattina e non trovano il democristiano o il socialista da mettere in galera, si sentono mortificati. E Rino Formica, in una intervista a Giuseppe De Tomaso, rincara la dose… non era mai accaduto che fossero in pericolo contemporaneamente il risparmio, il posto di lavoro e l’equilibrio democratico.

Puglia: addio isola felice E’ uno sfacelo. Eppure è poca cosa rispetto a quanto accade negli Enti locali meridionali dove né i pretori né tanto meno le disastrate finanze di tutti i Comuni, nessuno escluso, fermano la corsa agli incarichi nelle giunte o in vari altri Enti. Alla stessa stregua in cui nel Settentrione si considera che il fenomeno


malavitoso e clientelare è una prerogativa tutta meridionale, nel Meridione il fenomeno delle tangenti è considerato come una prerogativa tutta settentrionale. Nel Mezzogiorno insomma, non è cambiato nulla. E, paradossalmente, le elezioni del 6 aprile hanno solo fornito l’occasione per un nuovo, generale rimescolamento delle alleanze… le crisi comunali e regionali scoppiano a getto continuo – scrive De Tomaso in luglio – l’instabilità politica dei Comuni è ancora più cronica e grave di quella governativa nazionale. Coalizioni che durano pochi mesi, alleanze trasversali, conflittualità permanenti, poteri d’interdizione e ricatti che si generano da se stessi: incomincia dai Comuni il male oscuro che coniuga ingovernabilità e immoralità, partitocrazia e distacco della società civile… diciamo la verità, l’elezione diretta del Sindaco è sicuramente la riforma più richiesta dall’opinione pubblica. Mai si era assistito a una lotta così accesa per l’acquisizione degli incarichi, sostiene il sindaco di Brindisi, Giuseppe Marchionna, succeduto a se stesso per la terza volta e infine avvicendato, il 6 dicembre, dal pidiessino Teodoro Saponaro. A Foggia poi, il nuovo sindaco, Salvatore Chirolli, eletto il 4 agosto, non sa neppure da dove cominciare… amministrare cosa? Non abbiamo neppure i soldi per comprare le lampadine, e se anche vendessimo tutto, non potremmo coprire i debiti fuori bilancio. A Taranto e a Lecce le crisi sono permanenti. Nella città ionica, a soli sei mesi dalla nuova Giunta, guidata dal democristiano Della Torre, gli stessi alleati, DC e PRI, chiedono la revisione degli incarichi comunali… in chiave di abbandono della suicida strategia delle intese di potere personale, con un’accorta ricerca di specifiche competenze e qualità politiche individuali. Ma quando il Sindaco chiama in Consiglio comunale, non 5 o 6 esterni, ma il solo Sebastiano Scarfato esperto in economia, succede il finimondo… Sindaco e Giunta devono dimettersi – sostiene il PDS – e il

Consiglio comunale che non ha mai rappresentato la città, e tanto meno lo rappresenta oggi, va rapidamente sciolto. Divisioni profonde attraversano la DC e il PSI mentre l’ex sindaco DC, Alfengo Carducci, sostiene… l’attuale Giunta politicamente non esiste più ed è amministrativamente inefficiente. Ma Della Torre resiste. Stessa solfa a Lecce. Il sindaco, Francesco Corvaglia, minaccia dimissioni a giorni alterni… c’è uno stato di conflittualità perenne; il Consiglio comunale è praticamente in crisi perpetua. Questa Giunta non va? Bene – scrive Domenico Faivre sulla Gazzetta dell’11 ottobre – ma davvero c’è di meglio? Diciamo la verità, non è che Lecce offre di sé un’immagine decorosa. Anzi. Sfascio, degrado e melanconie varie sovrastano penosamente persino i più lontani ricordi di questa città elegante e civettuola; l’idea che dà ora è quella di una città soffocata dalla crisi d’identità e di amore che l’attanaglia da tempo, alimentata da anni di squallore amministrativo e di fanciullesche rincorse. Il degrado non è più prerogativa del centro storico, ma di tutta la città… Corvaglia non ci sta – continua Faivre - egli sostiene che si può fare meglio e di più se soltanto ci fosse meno conflittualità nella maggioranza. Ma il fatto è che nonostante gli sguardi amorevoli del primo cittadino, Lecce continua a starsene appiattita nel suo scomposto disegno di città spaventosamente decaduta e, per di più, avvelenata da forti dosi di criminalità, disoccupazione e disordine morale. Colpe? Tante, di tutti – conclude Faivre – nessuno cerchi fughe in avanti tentando di defilarsi. Anche se, naturalmente, quelle che appartengono alla classe dirigente di questa città surclassano tutte quelle degli altri messe insieme. Si vuole cambiare? Va bene. Ma alla gente bisogna dire perché e soprattutto se si è davvero in grado di garantire una Giunta migliore. Ma garanzie non ne vengono. Opposizione e maggioranza tacciono. E Corvaglia resta. In decine di altri piccoli e grandi centri 173


Bari, la ‘Regina delle Puglie’, abbandonata al degrado e alla criminalità per l’assenza delle istituzioni.

della regione avviene di peggio. Il succedersi delle Giunte è così frequente e variegato che neppure la fantasia riesce a starle dietro. Formazione di Giunte pentapartito, esapartito, multipartito sono la norma. Giunte DC con PDS; PDS con Verdi; PDS con PSI, PSDI e Verdi; Verdi con liste civiche; DC con PDS e PSI sono all’ordine del giorno. Lo spettacolo cui si assiste ormai regolarmente nelle amministrazioni locali – scrive il Direttore della Gazzetta il 29 novembre – è avvilente: ogni attività, ogni idea costruttiva si disperde nell’intreccio di interessi particolari, quando non illeciti, di sordida meschi174 nità, di ottusità e di miopia. Anzi, di completa

cecità rispetto a quanto sta avvenendo nel Paese; rispetto all’insorgere prepotente delle istanze di rinnovamento che, incomprese e compresse, rischiano di incanalarsi nell’alveo della irrazionalità. E il Comune di Bari, ovviamente, non fa eccezione. La crisi è nell’aria da tempo. Infatti, il 30 novembre, una stanca, sfiduciata e polemica sindachessa, la dottoressa Daniela Mazzucca, la prima donna Sindaco nella storia del Comune di Bari, si dimette… io credo nelle orchestre non nei gruppi improvvisati di suonatori magari attratti da qualche piffero magico… e lei, la Signora Daniela, ex ricercatrice di Tecnopolis, la città informatica alle


La biologa Daniela Mazzucca, socialista, è il primo sindaco al femminile nella storia del Comune di Bari.

porte di Bari, già segretario provinciale del PSI, non è un ‘piffero magico’. Eppure il 13 gennaio la Signora Mazzucca è stata eletta da ben 43 consiglieri su 60 e poteva contare su una maggioranza di 48 consiglieri in una Giunta composta da PSI, DC, PSDI e PLI. E’ dunque più che giustificato l’ottimismo che il Sindaco esterna al capo cronista della Gazzetta, Dionisio Ciccarese, in una intervista… abbiamo una maggioranza solida e dobbiamo partire di slancio… i problemi che ci attendono sono tanti, la città non può aspettare. Bari è ridotta ad un insieme di ruderi e la criminalità sta avvelenando il nostro tessuto sociale. Un mese dopo il nuovo Sindaco riceve perfino gli auguri del leader ‘maximo’. Craxi è a Bari non per un nuovo ‘Grazie Bari’, che potrebbe essere di cattivo auspicio considerata la fallimentare esperienza dell’ultima Giunta a guida socialista, ma proprio per una tavola rotonda sulla criminalità. All’opera dunque. Ma passano i mesi e di opere non se ne vedono. Anzi, alla prima importante seduta del Consiglio comunale, 11 giugno, per l’adozione di quattro fra le più

importanti delibere prodotte dalla Giunta – piano per gli insediamenti produttivi, lottizzazione per l’edilizia popolare e produttiva, porto turistico e convenzione con l’A.S. Bari per la gestione dello stadio San Nicola – l’Assemblea va in tilt… ad un certo punto non si è capito più nulla – commenta il cronista – chi è la maggioranza, chi l’opposizione? Dichiarazioni confuse, estemporanee, si sono accavallate. Dopo quattro ore di discussioni, le delibere sono state ritirate. La ‘larga maggioranza’ è svanita, si è già alla richiesta della ‘verifica’. La DC è spaccata, 12 consiglieri hanno chiesto le dimissioni del loro capogruppo; il PLI è in preda ad una ‘sindrome schizoide’; il PSDI contesta il suo unico assessore in Giunta e l’opposizione – PDS, MSI e Verdi – cercano di allargare la ferita per farla diventare una piaga. Il PDS: La cocente sconfitta della Giunta dovrebbe essere motivo di soddisfazione per l’opposizione, ma proviamo soltanto amarezza di fronte allo spettacolo di una grande città retta da amministratori incapaci. Il MSI: Semmai la dignità avesse ancora significato, questa Giunta fannullona e improvvisatrice dovrebbe rassegnare le dimissioni e procedere a serie riflessioni sui danni che vengono provocati alla città. I Verdi: La maggioranza ha subìto una vera e propria Caporetto cui deve seguire un’unica dignitosa conclusione: le dimissioni della Giunta. E il degrado continua. A seguito dell’Assemblea, la Gazzetta ritiene scaduta la tregua concessa al Sindaco per il… rodaggio e torna a fare quello che ha già fatto con le precedenti giunte di De Lucia e Dalfino. Torna cioè a indicare problemi, a sollecitare risposte. La città è ridotta ad una pattumiera; il fossato intorno al Castello Svevo è diventato una discarica pubblica; il verde è poco, trascurato e preda dei vandali; lo stadio della Vittoria, e l’area intorno, sono ancora nello stato pietoso in cui l’hanno lasciato gli albanesi; abbandonata al degrado e agli scippatori l’intera città vecchia, tanto che la Basilica e l’area antistante la 175


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stessa chiesa è ‘off limits’ ai pochi visitatori che vorrebbero vederla. E poi c’è il traffico, l’inquinamento, l’inefficienza dei trasporti pubblici, i parcheggi, i rioni popolari abbandonati al punto da evocare le ‘favelas’ sudamericane… se New York è la ‘Grande Mela’ – si legge in un articolo di cronaca cittadina del 5 luglio – Bari, senza dubbio, può essere considerata la ‘grande pattumiera’. Per chi ha qualche dubbio, si consiglia un’istruttiva passeggiata in periferia. Sulla zona di partenza non c’è che l’imbarazzo della scelta. Esiste anche la possibilità di scegliere tra mare e campagna. Tanto non cambia nulla. Lo spettacolo è identico: vere e proprie montagne di rifiuti la cui crescita è continua ed inarrestabile. Dilaga il racket del pizzo con corollario di attentati a quanti si rifiutano di pagare; aumentano gli spacciatori di droga e il contrabbando di sigarette, con conseguenti lotte fra clan per il controllo del territorio che lasciano sul terreno 44 vittime nella provincia di Bari e 37 in Capitanata. Dilaga insomma la trascuratezza, l’indifferenza, l’irresponsabilità che miete altre vittime innocenti. Quest’anno, nel più grande ospedale della regione, si registrano altri tre casi di malasanità. Tutti e tre fatali… una vergogna infinita – scrive il Direttore – a cui nessuno sembra volervi porre rimedio. Ma lo stesso Policlinico è in coma: mancano mezzi, attrezzature, medici, infermieri, ambulanze. Mancano perfino i fondi per pagare gli stipendi di ottobre a 4.200 dipendenti e, tuttavia, negli stessi giorni, i consiglieri regionali passano in cassa per riscuotere arretrati pari a 10 milioni di lire ciascuno… abbiamo suggerito e sperato in un ‘bel gesto’ – scrive Gorjux il 29 settembre – l’accantonamento della delibera, nel momento in cui il Paese e la Regione attraversano un periodo così travagliato, mentre si chiedono sacrifici a tutti. Il ‘bel gesto’ c’è stato: ieri mattina i mandati di pagamento sono stati incassati di gran carriera. Populismo, demagogia? Forse. Ma l’andazzo è di vecchia data. Le risse fra alleati per la

corsa alle deleghe, incarichi, consulenze, indennità di missione, spese per progetti che finiscono regolarmente dimenticati nei cassetti – si parla di miliardi – sono tutte malattie endemiche e senza cura. Il degrado politico, al Comune e alla Regione, soprattutto in quest’ultima, ha raggiunto un livello così mortificante che neppure un quotidiano come la Gazzetta, considerato da sempre, e non sempre a ragione, allineato alle posizioni della maggioranza di Governo, può più consentirsi di ignorare. E quest’anno, sia al Comune che alla Regione, accade tutto e di tutto. Inoltre, le vicende giudiziarie che a livello nazionale stanno scompaginando gli equilibri fra DC e PSI oltre che all’interno degli stessi partiti, finiscono coll’incidere anche in sede locale. Dopo la spaccatura della DC al Comune, anche il PSI si spacca e si ricompatta a giorni alterni. Ecco perché un Sindaco-piffero magico non basta a fare da traino ad un’orchestra sfiatata.

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San Nicola aiutaci tu Tutto fermo allora? No, una cosa si fa: la convenzione fra il Comune e l’A.S. Bari per la gestione dello stadio San Nicola lasciata ‘appesa’ sia dalla Giunta De Lucia che da quella di Dalfino al costo di 3 milioni al giorno per il Comune. La trattativa inizia a giugno. Il Comune ha quantificato in un miliardo e 400 milioni di lire l’anno la spesa per la gestione e la manutenzione ordinaria, verde compreso, dello stadio. L’A.S. Bari deve al Comune contributi vari pari a 760 milioni. Ne consegue che l’esborso del Comune a favore della Società sportiva barese è di 640 milioni. In cambio il Comune chiede: 1.200 ingressi gratuiti per studenti e categorie protette più 100 tessere di servizio e ingressi gratuiti alle forze dell’ordine, ai consiglieri comunali e ai Presidenti di circoscrizione. L’A.S. Bari fa due conti e dice: le contropartite richieste hanno, per noi, un costo di 3 miliardi e 193 milioni. Quindi, o ci date la differenza o… non se ne parla neppure. Vabbé, ci abbiamo provato, rispondono dal Comune e, il 18 giugno, presentano una nuova proposta: affidamento della gestione e manutenzione a costo zero – voi non date nulla a noi, noi non diamo nulla a voi – ma vogliamo la completa disponibilità della tribuna d’onore, compresi i parcheggi sotterranei e, siccome siamo generosi, dei 108 posti disponibili in tribuna, ve ne lasciamo 20. Per il resto, cioè ingressi per studenti e categorie protette, non si fa più cenno. La nuova proposta è, guarda caso, del gruppo consiliare socialista che, ovviamente, il sindaco fa sua. Al nuovo rifiuto dell’A.S. Bari il Sindaco, prima gli manda un’ingiunzione di sfratto poi minaccia e indice una gara d’appalto. Sindaco, ‘apri gli occhi’ – scrive Gorjux parafrasando i nuovi idoli del cabaret e delle Tv private locali, Toti e Tata - è giusto che lo stadio barese ospiti il Sindaco; è giusto che in uno stadio comunale, ‘qualche’ posto, sia 178 riservato al Comune. Ma la pretesa dell’inte-

Bari, lo stadio San Nicola. L’astronave barese su cui tutti vogliono salire senza pagare il biglietto.

ra tribuna è un atto di strapotere da strapaese che immiserisce l’intera vicenda ad un livello veramente meschino. Non sarà certo l’intervento della Gazzetta a risolvere la questione. Resta il fatto che il 29 luglio sfratto e gara d’appalto vengono bloccati e il 5 agosto la vertenza, almeno per il campionato ’92-’93, è risolta. L’A.S. Bari gestirà lo stadio a costo zero e il Comune avrà la piena disponibilità della tribuna d’onore. Per il prosieguo, si vedrà. Questo è l’unico atto amministrativo che riesce a portare in porto la Giunta di Daniela Mazzucca. Il resto – nodo ferroviario, metrò, porto turistico, Margherita, manifattura tabacchi, ospedaletto, insediamenti produttivi, lottizzazione edilizia e quant’altro – tutto fermo. Il Governo Amato ha congelato fondi e mutui agli Enti locali: arrangiatevi, non c’è una lira. Tutto sommato, la temporanea risoluzione della vertenza stadio, può essere considerata un successo rispetto al ‘nulla’ che viene prodotto dalla Regione Puglia.

La Giunta regionale Bellomo Partita con un paio di handicap, un mare di debiti e una maggioranza risicata composta da DC-PSDI-PRI-PLI e Verdi a gennaio, la Giunta regionale affronta, a livello romano, la ‘priorità delle priorità’: il risanamento delle


sue finanze. A quanto ammonta il deficit della Regione? Nessuno lo sa, nemmeno la Regione. Ma è quantificato in 1.500 miliardi e, per la stessa cifra, le viene concesso un mutuo trentennale… su 1.500 miliardi – sostiene il capogruppo del PDS, Vito Angiuli – in trent’anni saranno pagati 4.300 miliardi di interessi… in omaggio alla tradizione è stata scelta la strada più semplice: risanare i debiti con altri debiti e, per di più, con il consenso del PSI ormai in fase di riavvicinamento a questa Giunta. C’è un’alternativa? Se c’è, Angiuli non lo dice, ma ci tiene a sottolineare che… a pagare saranno sempre le categorie più deboli. Liberati da quell’enorme masso che impedisce ogni iniziativa, la Giunta affronta, con maggiore serenità, il piano di risanamento e l’ampliamento della maggioranza perché i socialisti premono per un accordo che li riporti in Giunta prima che inizi la campagna elettorale per le elezioni politiche del 6 aprile. Naturalmente i democristiani nicchiano. Per l’ingresso del PSI nella maggioranza qualcuno deve rinunciare a qualcosa, e le rinunce sono sempre dolorose. La DC va in fibrillazione e alla prima Assemblea regionale per la discussione sul piano di risanamento, il 20 marzo, le tensioni esplodono… lo sapevamo che finiva così – dirà il capogruppo socialista Alberto Tedesco – le preoccupazioni che avevamo espresso circa il pericolo che le elezioni potessero determinare un’ulteriore fase di stallo per la Regione, si stanno rivelando purtroppo fondate… continua l’inesorabile processo di auto liquefazione di questa Giunta. Non solo resta tutto fermo, ma migliaia di creditori cominciano a far arrivare decreti ingiuntivi di pagamento, fino al sequestro delle ‘auto blu’. Passata la bufera elettorale, con conseguenze politiche ‘irrilevanti’ in Puglia e nel Mezzogiorno in generale, il PSI torna a ‘bussare’ alle porte della Regione… non c’è fretta – dirà il presidente Bellomo – prima appro-

viamo il piano di risanamento e il bilancio di previsione, poi si vedrà. Ma il commissario DC, Mauro Pennacchio, avverte… è chiaro però, che se le condizioni poste dal PSI saranno inaccettabili, il processo potrebbe essere rinviato. La puntualizzazione di Pennacchio non è piaciuta ai socialisti. Volete lo scontro? E scontro sia. Il 10 aprile la Giunta regionale, insieme all’approvazione del bilancio, vara tre disegni di legge: aumento di 30 lire della benzina; di 50 lire il gasolio e dell’80 per cento le trascrizioni al Pubblico registro automobilistico. Protestano i Sindacati, l’opposizione e fra questi, più di tutti, i socialisti che annunciano già il loro voto contrario in Assemblea. Di fronte alla minaccia di scioglimento del Consiglio regionale, la DC scende a patti. Il 23 aprile l’accordo è raggiunto: dopo l’approvazione del bilancio e dei disegni di legge da parte dell’Assemblea, la Giunta e il Presidente si dimetteranno per consentire il varo di una nuova Giunta con i socialisti. Il 28 aprile inizia la ‘battaglia’. Non è un eufemismo: PDS e MSI hanno presentato 7.000 emendamenti. L’obiettivo primario è far saltare le tasse preannunciate. E’ una lotta senza quartiere. Di giorno gli scontri in Assemblea, di notte quelli con i socialisti che pretendono la vice presidenza e quattro assessorati chiave: Programmazione, Sanità, Urbanistica e Industria… non se ne parla neppure, affermano in casa DC. A prima vista si direbbe che i socialisti intendono assumersi impegni gravosi, poiché gli Assessorati ‘desiderati’ sono fra i più disastrati… ma sono anche quelli dove il denaro scorre a fiumi… dicono le malelingue. Malignità a parte, il 30 aprile vincono tutti: l’Assemblea delibera l’approvazione del bilancio; l’opposizione ottiene la sospensione delle tasse e Bellomo, insieme al rappresentante dei Verdi, si dimette. Ora la palla passa nelle mani della DC. Chi è che dovrà fare posto ai socialisti? Gli amici del ‘grande centro’ di Lattanzio o i ‘forzanovisti’ di Pisicchio? Così, ora, è 179


Gabriele Salvatores

Jack Palance

P. Chiambretti e P. Rossi

Cinema, tv e giornalismo Gabriele Salvatores, regista del film ‘Mediterraneo’, si aggiudica l’Oscar, il prestigioso premio hollywoodiano, per il miglior film straniero; Jack Palance invece, dopo quarant’anni di carriera da protagonista, riceve l’Oscar quale miglior attore ‘non protagonista’. Torna, con il film ‘Basic Instinct’ interpretato da una scandalosa Sharon Stone, il thriller sadico-erotico d’autore. Chiambretti e Rossi sono etichettati come ‘nuovi comici’, ma i loro spettacoli in tv sono tutt’altro; sono una miscela esplosiva di mordace satira politica e sociale; sono i nuovi flagellatori del malcostume italico, di quei vizi, pubblici e privati, che Michele Santoro e Gad Lerner denunciano nei loro programmi. Tutto il resto, per dirla con Franco Califano, è noia. Come il solito, zuccheroso e popolare Festival di Sanremo vinto quest’anno da Luca Barbarossa.

S. Stone e M. Douglas

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Gad Lerner

M. Carlucci, A. Parietti, L. Barbarossa, B. Nielsen


nella DC che si apre il contenzioso. L’Assemblea regionale intanto, il 9 maggio, ripropone i disegni di legge tributari sulla benzina, gasolio e tasse automobilistiche. Questa volta passano. Andranno in vigore da luglio. I socialisti si sono convinti. Quelle tasse, dopotutto, non erano… uno scippo ai cittadini… come avevano sostenuto stando all’opposizione. Ma nel governo regionale devono ancora entrarci. Improvvisamente Pino Pisicchio si ricorda, e ricorda, che il 6 aprile gli elettori hanno votato per il rinnovamento… e le forze che hanno sottoscritto l’intesa di collaborazione alla Regione non sono chiamate a distribuire poltrone e incarichi, ma ad elaborare un progetto di riforme… è ormai tempo di aprire un confronto serio, approfondito con il PDS che resta fondamentale per la crescita e lo sviluppo della Puglia. La risposta del PDS è conciliante… il confronto proposto dall’on. Pisicchio ci trova ampiamente disponibili, a condizione che si parli di impegni e programmi e che non sia una mossa politica funzionale ad eventuali tentativi di rientrare in un gioco che sembra chiuso da amici diversi dall’on. Pisicchio. La DC si allarma. Per il commissario Pennacchio questo improvviso ‘feeling’ fra il PSI e il PDS è inaccettabile… no, al consociativismo non si torna, il pentapartito non si tocca. Non è lecito affermare di presunti baratti per incarichi e presidenze da parte dell’on. Pisicchio al quale va ricordato, con riguardo, che è stato l’unico, dopo le elezioni e prima che iniziassero le trattative con il PSI, a rivendicare criteri spartitori degli assessorati. E avanti così per mesi. Le schermaglie si susseguono a colpi di fioretto e sciabola con affondi e passi indietro nella DC e nel PSI e fra la DC e il PSI. Il 18 giugno la Puglia scende in sciopero contro le nuove tasse. Quattro giorni dopo, il Governo nazionale approva il bilancio regionale, ma blocca l’aumento della benzina… inizia la marcia verso il risanamento finanzia-

rio – scrive Domenico Castellaneta sulla Gazzetta il 3 luglio – ma il ‘cuore’ della manovra di risanamento, blocco delle spese discrezionali, contenimento di quelle obbligatorie e la modifica delle leggi, quelle che hanno consentito alle maggioranze che hanno ‘sgovernato’ e alle opposizioni che, nel migliore dei casi, hanno chiuso gli occhi, di dilatare un debito pubblico che fa della Puglia la Regione più indebitata d’Italia, è ancora di là da venire. Intanto i socialisti scalpitano. Il tempo non depone a loro favore. Hanno già dovuto rinunciare ad un assessorato ed ora anche gli amici del DC Enzo Binetti chiedono l’ingresso del PDS in Giunta. Riassumiamo. A quasi tre mesi dalla crisi, le cose stanno così: La DC è ora spaccata in tre tronconi; il PSI in due, tanto che è stato di nuovo commissariato; il PSDI, il PRI e il PLI pendono dalle labbra degli uni e degli altri; i Verdi si sono chiamati fuori comunque e l’opposizione, PDS e MSI, fanno, a seconda di come tira il vento, il bello e il cattivo tempo. E la grave, gravissima crisi economica, occupazionale e imprenditoriale denunciata dalle parti sociali e che, a parole, tutti hanno a cuore, che fine ha fatto? Calma, c’è tempo… stiamo studiando la bozza di programma, si dice in Regione. Già, il programma – commenta ancora Castellaneta il 16 luglio – in realtà è la cosa più importante della trattativa, ma che nei fatti è solo il condimento nella spartizione dei posti. Cinque giorni dopo, la crisi regionale è al punto di partenza: DC e PSI hanno deciso di aprire al PDS. Ed ora? E’ chiaro che bisogna concordare un nuovo organigramma, bisogna fare una nuova trattativa… ragazzi, pure noi abbiamo diritto alle ferie. Se ne parla a settembre. Il PDS, però, non ci sta più. A settembre va bene, ma a condizione di formare un… governo di svolta fra le forze politiche di sinistra aperto al contributo di altre forze laiche e ambientaliste… con precisi punti programmatici: innanzitutto va riscritta totalmente la mano- 181


Una finestra sulla storia - 1992

Scioperi a catena in Puglia contro le nuove tasse regionali e contro la ‘stretta’ del Governo Amato.

vra di risanamento; va approvato un preambolo sulla trasparenza amministrativa e nelle procedure d’appalto; vanno smantellati alcuni punti emblematici del sistema di potere vigente; va sciolto l’ERSAP e riformati i consorzi di bonifica e ASI; va riscritto il piano regionale di sviluppo; bisogna contenere e qualificare la spesa sanitaria, ridurre le convenzioni, le USL e la spesa farmaceutica; ed è infine… ineludibile, per dare credibilità ad un governo di reale rinnovamento, che esso sia composto da uomini che non abbiano avuto responsabilità dirette nel determinare la situazione di dissesto. Più che un Governo di svolta quello che propone il PDS è un Governo ‘rivoluzionario’. Di più, improvvisamente le posizioni si sono capovolte. Di fronte all’incapacità della DC di trovare unità, ora è il PDS a dettare le condizioni e la DC ad invocare uno sforzo 182 comune… sappiamo tutti che in passato si è

speso più di quanto si avesse – ammette il presidente dimissionario Michele Bellomo – ma è stato fatto per il bene della comunità. Ora è tempo di risanare, basta con le polemiche… diversamente sarebbe come chiedere al Governo Amato di fermarsi perché occorre accertare pregiudizialmente le responsabilità del debito pubblico… si tratta di una svolta che deve appartenere a tutti, in particolare a quanti hanno voluto per tanti anni addossare alla Regione oneri e anche improperi. Tuttavia, si arriva alla prima Assemblea dopo la pausa estiva, con posizioni meno rigide. Dopotutto, i numeri per formare una Giunta PDS-PSI-PSDI e laici, non ci sono. Per cui il PDS si dice favorevole ad un ‘Governo dell’Assemblea’, cioè, tutti dentro meno, ovviamente, il MSI, a condizione che si applichi il principio della rotazione degli incarichi… anche la scelta del Presidente della


Giunta non può essere un affare interno della DC. Va bene – sostiene Bellomo – purché si faccia presto. Anzi, se il problema sono io, sono pronto a farmi da parte. Infatti, il problema è proprio lui. Fino al 28 luglio nessuno aveva messo in discussione la riconferma di Bellomo alla presidenza della Giunta. Ma due giorni dopo, Bellomo è interrogato – non inquisito – dalla Procura di Venezia per un presunto giro di tangenti in un appalto riguardante le reti idriche di Puglia e Basilicata quando era assessore all’Agricoltura. Bellomo chiarisce, nega che abbia mai preso tangenti e la notizia non ha seguito. Ma per i ‘duri e puri’ del PDS pugliese, il solo sospetto basta e avanza. Da qui la nuova richiesta in una con quella dei… nomi nuovi. La domanda è, perché tanto fervore morale? Il PDS è forse fuori dal giro delle tangenti? Niente affatto. Ci stanno dentro pure loro, solo che il PSI e la DC continuano a sostenere la tesi del complotto politico-giudiziario, il PDS ha scelto di perseguire una politica giustizialista. Ci siamo anche noi? Va bene, fuori i nomi e fuori dal partito. E’ una posizione calcolata. Innanzitutto perché, per quanti possano essere, i loro inquisiti e arrestati non saranno mai tanti quanti invece sono nel PSI e nella DC – che hanno governato e ‘maneggiato’ per decenni – e comunque, invocando ‘pulizia’ senza eccezioni, li rende più credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Così, la nuova richiesta del PDS al Consiglio regionale, spiazza la DC. Ma se l’intento è quello di spaccarla ulteriormente, al contrario, ottengono il risultato opposto… adesso basta – tuona il senatore Pennacchio – la richiesta del PDS va respinta con sdegno. Abbiamo capito che l’intenzione è quella di mortificare la DC. I tre partiti – PDS-PSIPSDI – non hanno capito niente. Non hanno soprattutto capito di che cosa è capace la DC e che cos’è la DC. Glielo faremo vedere ben presto. Se la soluzione della Giunta a sette non va, noi siamo disponibili a cercare altre

soluzioni. Anzi, abbiamo già iniziato a farlo. Stiano attenti. I ricatti non li accettiamo. E’ il 3 settembre. La DC si ricompatta, ma la soluzione della crisi regionale si allontana. E adesso? Adesso niente. Azzeriamo tutto e riproviamoci. E riprendono, frenetici, i viaggi a Roma, gli incontri fra gruppi e capigruppo, fra singoli partiti e fra i partiti della maggioranza e dell’opposizione – ma qual è l’opposizione? – e mentre i ‘sette’ si dividono, si riappacificano e si dividono ancora, il tempo passa. Il deficit della Regione è arrivato a 2.000 miliardi e cresce alla velocità di 420 milioni al giorno e, poiché non si presentano progetti, si dissolvono anche ingenti finanziamenti europei. Protestano i Sindacati, gli imprenditori, gli artigiani, gli agricoltori e protestano anche i 4.200 impiegati e 800 funzionari del Palazzo da anni privi di una pianta organica: sono sordi, ciechi e muti come le famose tre scimmie. Mai cinquanta consiglieri regionali hanno dimostrato un così totale disprezzo verso l’opinione pubblica. Mai era stato raggiunto un livello politico così basso. Ora non basta più dare nomi e volti nuovi alla Giunta; non basta più la rotazione degli incarichi; ora è pregiudiziale la rimozione del presidente Michele Bellomo e, nel frattempo, tanto per perdere tempo, viene proposta una Giunta istituzionale a termine guidata dal presidente del Consiglio Mario Annese e dai sette capigruppo. Oppure una Giunta a quattro – DC-PRI-PLI e Verde – con l’appoggio del PSI-PSDI e PDS. Ogni soluzione diversa, in questo momento drammatico, è destinata a prolungare per lo ‘spazio di un mattino’ l’agonia di questa legislatura regionale – scrive la Gazzetta – è inutile farsi illusioni. A meno di una generale resipiscenza, tanto vale pensare ad un rapido scioglimento di questo Consiglio. Ma il 2 ottobre avviene un fatto nuovo: Michele Bellomo rinuncia alla presidenza della Giunta… va bene, avete vinto: mi metto da parte. 183


Una finestra sulla storia - 1992

La Giunta Convertino Il 4 ottobre si riapre la trattativa. Il 5 è già chiusa. La DC ha chiesto 5 assessorati e la presidenza della Giunta; al ‘cartello’ della sinistra ha proposto 5 assessorati e la presidenza del Consiglio. Un assessorato ciascuno a PRI e PLI. Il ‘cartello’ insorge: non scherziamo – dicono i socialisti – la presidenza della Giunta vale almeno due assessorati perciò, la divisione dei pani deve essere così: presidenza della Giunta e 4 assessorati a voi; presidenza del Consiglio e 5 assessorati a noi e un assessorato ciascuno a PLI-PRI e Verdi. Ma i Verdi si erano chiamati fuori, sostiene la DC. Non più, ora vogliono rientrare. Prendere o lasciare. La DC lascia, ma cinque giorni dopo, la Gazzetta annuncia: Intesa raggiunta, domani nasce il governissimo. Troppa grazia. Si sono fatti i conti senza le ‘correnti’ che subito prendono a sbranarsi per la suddivisione delle deleghe. Torna il mercato delle vacche e, naturalmente, nella grande ‘stalla’ della DC ci si azzuffa per accaparrarsi il poco fieno a disposizione. A chi la presidenza della Giunta? Come spartirsi gli assessorati? E soprattutto perché

Cosimo Convertino, presidente della Giunta regionale

184 pugliese... per otto giorni.

subire un così pesante condizionamento dal ‘cartello’ della sinistra dal momento che noi, da soli, abbiamo lo stesso numero di consiglieri che hanno tutti loro messi insieme? La DC torna a spaccarsi. Certo, i democristiani hanno le loro responsabilità – scrive la Gazzetta – ma non si può pretendere che gli altri ‘partner’ accettino un alleato come il PDS che dichiara fin dal primo momento: sto con voi, sì, ma per buttarvi a mare al più presto. Ciò che rende interessante la politica, non è solo il gioco delle parti e l’assoluta noncuranza per gli ‘spettatori paganti’, ma la stupefacente abilità degli uomini in campo nel dilatare i tempi della partita. Non si arrendono mai. In politica la gara finisce solo quando tutti i giocatori, maggioranza e opposizione, si dichiarano sconfitti. Mercoledì 14 ottobre. Oggi è l’ora della verità – scrive Castellaneta – potrebbe segnare la fine della legislatura dopo sei mesi di trattative fra le più dure nella storia della Regione... ma dopo ore di polemiche, dibattiti, rifiuti, ammiccamenti e mediazioni, all’alba si torna a casa a mani vuote. All’ipotesi di chiudere baracca e burattini, i democristiani fanno ai socialisti una ‘proposta indecente’: un monocolore DC con l’appoggio esterno del PSI. Ma questi, provocatoriamente, rilanciano… e perché non una Giunta di sinistra? E giù altri comunicati, altre dichiarazioni infuocate, altre polemiche… noi non chiudiamo nessuna trattativa – commenta il capogruppo DC Luigi Ferlicchia – ma chiediamo chiarezza e rispetto. Il PDS deve scegliere: se accetta l’ipotesi di alleanza di governo con noi, non può continuare a ripetere che il vero obiettivo è quello di mandarci all’opposizione. Non è serio. Il 22 ottobre si torna alle sedie. Nel frattempo sono già sorti nuovi problemi. Il Verde si è di nuovo defilato; il PLI ha chiesto la delega alle Finanze… o non se ne fa niente… e nel PDS la corrente minoritaria denuncia di essere stata emarginata mentre si vocifera che la segreteria nazionale abbia chiesto ai regio-


nali di stoppare l’accordo. Ancora un giorno di riflessione e il 23 ottobre si vota per la nuova Giunta. E accade l’inverosimile. Cinquanta consiglieri entrano nella sala consiliare convinti di votare per un esecutivo multicolore e ne escono con un altro completamente diverso: è ‘rosso’ con accanto una ‘fiammella tricolore’. Rosso-nero, scrivono i cronisti della Gazzetta. Trovato il pretesto per abortire l’accordo per una Giunta DC-PSI-PSDI-PDS-PRI-PLI e Verdi, viene presentata una lista di sinistra provocatoria e senza speranza. E, a sorpresa, è votata sia dal consigliere dei Verdi sia dal MSI. Totale, 26 voti. Cioè, la maggioranza più uno. La Giunta è fatta. Il presidente è il socialista Cosimo Convertino. Sorpresa, incredulità, sgomento. Com’è possibile che i missini abbiano appoggiato una lista ‘rossa’? Ci siamo assunti la responsabilità di dare alla Puglia un governo, dopo sei mesi di pagliacciate – risponde Pinuccio Tatarella – ... perché siete dei buffoni – rincalza Gianni Mastrangelo – ed è giusto che la gente lo sappia ... E comunque il nostro obiettivo – dirà ancora Tatarella – è e rimane quello di sbattere, finalmente, questa DC all’opposizione. Le polemiche? L’intero Mediterraneo non basterebbe per contenerle. Per la DC… è una pagina nera nella storia politica della Puglia – sostiene Tonio Tondo – in un clima d’irrazionalità assoluta è stato consumato un passaggio istituzionale che segna il punto più basso della capacità dei partiti di governare un sistema ormai sconvolto. Nel PSI si parla di ‘resa dei conti’; per il PDS è peggio di una catastrofe. E tuttavia, sarà la Segreteria nazionale del PSDI a chiedere, per prima, di sconfessare la nuova Giunta che però può presentarsi dimissionaria solo dopo aver ricevuto il crisma di legittimità dalla Commissione di controllo. Il 30 ottobre, la Giunta ‘rosso-nera’ si dimette, ma resta in carica fino all’elezione della nuova. Si sono posti due obiettivi: iniziare l’opera di risanamento e cercare di non per-

dere i fondi europei. Ma la scadenza per presentare programmi e progetti è troppo vicina e la richiesta di una proroga viene infatti bocciata. Addio dunque a 1.200 miliardi? Forse. Se così stanno le cose – scrive la Gazzetta – allora è inutile che continuate ad andare a Bruxelles in ‘missioni d’oro’ a spese dei fessi.

Il governissimo Nel frattempo, cambiati vertici ed equilibri a piazza del Gesù, nella DC pugliese viene avvicendato il Commissario. Al senatore Mauro Pennacchio subentra il deputato Gianpaolo D’Andrea che riapre il tavolo della trattativa politica. In un clima più sereno, DCPSI e PDS provano a riallacciare i fili. Il 22 novembre s’incontrano le delegazioni del 6+1 e si torna a parlare di Giunta di ‘larga intesa’. La prima grana viene dal PDS. La minoranza, l’Area dei comunisti democratici, contesta il tavolo della trattativa… la Segreteria nazionale ha detto NO a governi con la DC – sostiene Silvia Godelli – qui invece si tratta. La verità è che nel PDS non si capisce più niente! ... Non prendiamo ordini dalla Segreteria nazionale – gli risponde la maggioranza – noi decidiamo in piena autonomia. La verità vera è un’altra: il ‘cartello’ della sinistra ha capito che la DC è disposta a tutto pur di arrivare ad eleggere un nuovo governo – andare alle urne ora sarebbe un suicidio – e alza il prezzo: vogliono la presidenza della Giunta e possibilmente il siluramento di PRI e PLI. Va bene, trattiamo, dice la DC. Ma sotto sotto, lavorano per escludere PSI e PDS. Il tira e molla continua per altri 12 giorni poi, all’alba di sabato 5 dicembre, dopo 7 mesi di trattative e 44 incontri fra delegazioni, DC-PSIPDS-PSDI-PRI-PLI e Verdi, tutti insieme partoriscono il primo ‘governissimo’ nella storia della Regione Puglia, l’unico fra le regioni italiane. La più lunga telenovela nella storia politica della Regione è finita. La DC ha ottenuto il Presidente della Giunta, Giovanni Copertino, e 4 assessorati; due assessorati ciascuno sono 185


Una finestra sulla storia - 1992

Giovanni Copertino, nuovo presidente della Giunta regionale pugliese.

andati al PSI e PDS; uno ciascuno al PSDIPLI-PRI e Verdi. L’ultima scena appartiene al PSI che il 16 dicembre si ‘aggiudica’ la presidenza del Consiglio: Cosimo Convertino subentra al democristiano Mario Annese. Chi ha vinto? Un po’ tutti, ma il PSI, che in pratiche spartitorie ha una lunga e consolidata esperienza, ha vinto più di tutti. Chi ha sicuramente perso, sono le istituzioni, i cittadini che, nel minitest elettorale del 14 dicembre, si prendono la rivincita e provvedono a calare il sipario sull’ultima rappresentazione di un ‘sistema’ avviato ad un rapido dissolvimento. Però, che magnifico avviamento professionale per il giovane consigliere democristiano, Raffaele Fitto. E’ stato come aver frequentato un istituto statale del Bronx dal quale, come si sa, si esce o completamente traviati o così ‘arricchiti’ da arrivare, a trent’anni, a coprire la prestigiosa carica di ‘Governatore’ della Regione Puglia. Ma questa è un’altra storia che si svolge in un’altra Repubblica. La prima Repubblica, intanto, continua a subire i colpi di ‘Mani Pulite’. Ormai, perquisizioni, avvisi di garanzia, interrogatori, arresti a tutti i livelli e in tutte le regioni del Paese, 186 non si contano più.

Il 29 ottobre vengono perquisiti gli uffici di Francesco De Lorenzo, Giulio Di Donato e Alfredo Vito rispettivamente: ministro della Sanità del Governo Amato, vice segretario del PSI e deputato della DC, a cui farà seguito una richiesta di autorizzazione a procedere con l’accusa di voto di scambio. Il 15 dicembre toccherà a Bettino Craxi. Ma la vicenda più drammatica e impietosa, la vive Bruno Contrada, funzionario dei servizi di sicurezza, ex capo della squadra Mobile di Palermo e, per molti testimoni della carriera di quest’uomo, un autentico mastino contro Cosa Nostra. Su segnalazione di alcuni mafiosi pentiti, Contrada è arrestato nella sua abitazione romana la vigilia di Natale e rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea a Roma per oltre due anni e mezzo. Nell’aprile del 1996 Contrada viene condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Cinque anni dopo, il 4 maggio 2001, la Corte d’Appello di Palermo lo assolve: 35 anni al servizio dello Stato, una vita professionale e un’immagine pubblica irrimediabilmente distrutte. Il 31 dicembre, Lino Patruno, in un editoriale della Gazzetta a commento dell’anno appena trascorso, scrive: Tutto il mondo occidentale è in crisi. Ma soltanto in Italia la crisi economica così devastante coincide con una crisi morale lacerante. Soltanto da noi lo sfacelo della politica ci mortifica non meno della protervia di una criminalità umiliante… siamo confusi e senza gioia. Ci affacciamo sul ’93 con la stanchezza dell’incertezza e senza senso del futuro. Ci manca qualcosa in cui credere. Cerchiamo uno scopo al quale vale la pena darsi… è una sconfitta non solo per gli inquisiti di Tangentopoli che a balzare in testa della ‘hit parade’ dei salvatori della Patria sia l’ignaro giudice Di Pietro. Una sconfitta per tutti sarebbe affidare alla Magistratura la delega a far piazza pulita. A celebrare le esequie di un sistema decomposto perlomeno nell’indifferenza generale. Abbiamo vissuto la


stagione irrefrenabile della scomposizione. Vorremmo affacciarci su quella della silenziosa, operosa ricomposizione nel Blob impazzito del tutti contro tutti. Ci occorre una riconciliazione nazionale. L’anno bisestile è finito. E’ finito cioè un anno scandito dalle ore, dai giorni, dai mesi. E’ finito l’anno reale. Ma l’orologio della storia non ha lancette che vanno sempre avanti. Il suo tempo non è reale ma ideale e la successione di eventi storici, epocali, la loro incidenza sul sistema politico, economico e sociale non si possono valutare in termini di giorni, mesi e anni. Il crollo del Muro di Berlino, il susseguente disfacimento del socialismo sovietico, la guerra fratricida nell’ex federazione jugoslava, l’Italia di Tangentopoli ha portato avanti o indietro l’orologio della storia? Naturalmente ognuno, a seconda della propria cultura, appartenenza politica e religiosa, ha un modo diverso di valutare il trascorrere del tempo di fronte a questi eventi. Ma qualunque sia l’opinione dei singoli, un fatto è certo: il tempo che ha sancito la fine della Prima Repubblica con l’inizio della Seconda, va molto più in là dei 366 giorni appena trascorsi. Il resto, invece, è andato avanti come sempre. Si è svolto regolarmente il Festival di Sanremo – condotto dall’intramontabile Pippo Baudo e vinto da Luca Barbarossa con ‘Portami a ballare’ -; il grande, grosso, violento Mike Tyson ha perso un match con un’esile ragazza di colore beccandosi 6 anni di carcere per stupro; continua, con una violenza che solo l’odio razziale e religioso può scatenare, la guerra nell’ormai ex Jugoslavia mentre Moana Pozzi, in Italia, fonda il Partito dell’Amore; torna ad esibirsi l’Etna con spettacolari fuochi pirotecnici che minacciano il piccolo centro di Zafferana; Gianluca Vialli non vuole andare alla Juventus, ma non riuscirà a resistere al fascino dell’Avvocato e al carisma della ‘Vecchia Signora’; il giovane Gabriel Batistuta comincia a far sognare i fiorentini mentre l’istrionico ed estroso Paul

I serbi infieriscono su alcune vittime civili a Sarajevo.

Gascoigne farà dannare i laziali; il giudice Corrado Carnevale continua ad annullare processi e a rimettere in libertà fior di galantuomini; la provincia di Lecce è ufficialmente la discarica abusiva d’Italia; si svolgono, a Barcellona, le Olimpiadi e l’Italia, che delude, si aggiudica solo 6 medaglie d’oro, una delle quali è assegnata al magnifico Settebello, la squadra di pallanuoto difesa dal portiere barese Francesco Attolico; finisce l’idillio fra Mia Farrow e Woody Allen, che a 57 anni s’è innamorato della figlia adottiva ventunenne; finisce la favola d’amore – ma era solo ‘favola’ – fra Carlo d’Inghilterra e la principessa Diana; Vittorio Sgarbi ha denunciato un reddito di un miliardo e 464 milioni passando da impiegatoassenteista a deputato più ricco d’Italia e sua Emittenza, Silvio Berlusconi, che ormai da tempo si è accaparrato il necessario, semina il panico nel mercato pubblicitario per finanziare i Tg delle sue tre reti televisive e ora insegue il superfluo. Tutti questi avvenimenti, tutte queste notizie, in altri tempi, in un Paese normale, avrebbero avuto ben altro rilievo nei quotidiani. Quest’anno, invece, fanno solo da corollario alla massa d’informazioni e approfondimenti che la stampa nazionale dedica alle ‘piccona- 187



te’ di Francesco Cossiga, alle inchieste del pool di ‘Mani Pulite’, alle conseguenze politiche dopo le elezioni del 6 aprile, all’elezione del nuovo Capo dello Stato, alla crisi economica e alle imprese criminose di Cosa Nostra.

Bill Clinton alla Casa Bianca Perfino la campagna elettorale per le elezioni presidenziali in America – solitamente seguita con attenzione dalla stampa europea – si consuma in sordina. Solo il 4 e 5 novembre la Gazzetta dedica le sue prime tre pagine al ritorno dei democratici alla Casa Bianca dopo 12 anni di dominio repubblicano… nella notte più lunga dell’anno, l’America ha compiuto il ribaltone politico, istituzionale, economico e generazionale. Da oggi l’America è più giovane – scrive Giuseppe De Tomaso che, inviato negli Stati Uniti, arricchisce la sua serie di ‘io c’ero’ – Bill Clinton è stato eletto a valanga Presidente degli Stati Uniti . Il nuovo Presidente ha 46 anni, è alto, bello e, assicurano i cronisti, ha fama di donnaiolo. Una fama che consolida durante il suo doppio mandato procurandogli non pochi guai. Clinton ha condotto la sua campagna elettorale… promettendo un’America nuova, diversa, più attenta ai problemi interni. Riforme sociali, più ampi diritti civili, tagli alle spese militari e soprattutto meno tasse – funziona sempre con gli americani – a quel ceto medio che rappresenta la grande maggioranza della popolazione statunitense. Diciamo la verità. I nostri governanti sono molto più coerenti di quelli d’Oltreoceano. In America, solitamente, promettono ma non sempre mantengono l’impegno di ridurre le tasse. In Italia, l’unica cosa che promettono, sempre, è l’aumento delle tasse. Faranno salti mortali, ma una promessa è un debito e i debiti si onorano sempre. Gli americani – continua De Tomaso – hanno bisogno di qualcuno che li faccia sognare. Questo qualcuno, oggi, si chiama Bill Clinton che ha concluso il suo discorso di ringraziamento alla Nazione con… Americani,

Bill Clinton, il nuovo presidente americano.

voglio restituirvi il futuro. Sicuramente, dalle nostre parti, qualcuno vorrà importare e sperimentare il nuovo ‘modello’ di Washington. Ma l’America – conclude De Tomaso – è la terra del ‘cambiamento’, l’Italia la Nazione del Gattopardo. A noi, il ‘futuro’, è sempre stato promesso e sempre scippato. Cosa resta, dunque, nell’immaginario collettivo di questo 1992? Cossiga il ‘picconatore’, Di Pietro il ‘giustiziere’ e le stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio. Resta ancora una domanda, spontanea, impellente, da soddisfare: che fine ha fatto Mario Chiesa? Che fine ha fatto il capostipite di una generazione di ‘mariuoli’? Tutto sommato se l’è cavata bene: ha patteggiato. Ha sborsato 6 miliardi e mezzo di maltolto – spiccioli rispetto alla fortuna che ha accumulato – e, in Appello, è stato condannato alla interdizione perpetua dei pubblici uffici e a 5 anni e 4 mesi da scontare in affidamento ai servizi sociali. Più o meno quello che capita a milioni di lavoratori italiani che, scaduti i benefici degli ‘ammortizzatori sociali’, sono ‘affidati’ ai servizi socialmente utili. 189


Una finestra sulla storia - 1993

190 Il 9 dicembre del 1993 il World Heritage iscrive i Sassi di Matera nel patrimonio universale dell’Unesco.


1993

In pratica sono bastati due anni perché le Mani Pulite e ‘libere’ della Magistratura e il conseguente incalzare degli eventi, pur fra errori e generalizzazioni, segnassero, con la fine di questo lungo, sconvolgente, tormentato 1993, anche la fine della Prima Repubblica. La Seconda non solo non è nata, ma non s’intravede neanche all’orizzonte. Nell’anno in cui il regista americano Steven Spielberg fa rivivere i dinosauri, la Magistratura – quella milanese prima di ogni altra – cancella dal ‘Jurassic Park’ della politica italiana i ‘mostri’ ritenuti, a torto o a ragione, più pericolosi. Centocinquanta deputati, una trentina di senatori e sette ministri in carica sono raggiunti, nel corso dell’anno, da ‘avvisi’ di garanzia: si contestano loro illeciti che vanno dalla violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti alla concussione, dal voto di scambio alla corruzione, alla ricettazione, all’appropriazione indebita e perfino al concorso esterno in associazione camorristica e mafiosa. E’ una ‘strage’. Ne consegue una devastazione senza precedenti. E’ la distruzione di una classe politica che, nel bene e nel male, ha governato il Paese per 47 anni. Nell’ambito del potere – e dei poteri istituzionali – seguirà una ‘rivoluzione’ destinata ad evolversi nel corso di molti anni. Gli effetti di Tangentopoli, come abbiamo visto, si sono manifestati appieno dopo le elezioni politiche del ’92. A tre anni dalla caduta del Muro di Berlino, dissolto ormai ogni timore di eversione comunista, i cittadini esprimono senza remore il loro scontento e la loro insofferenza nei confronti della classe politica e amministrativa dominante. Gli inglesi parleranno di velvet revolution – rivoluzione di velluto – in realtà, per l’opinione pubblica, è una vera e propria insurrezione che finisce per non distinguere più fra colpevoli e innocenti, fra buona e mala fede, fra truffatori e truffati. Peraltro, la gente comincerà presto a valu-

tare complessivamente le conseguenze di Tangentopoli che nel ’92 aveva espresso solo un decimo del suo potenziale purificatore, ma anche distruttivo. Fosse vera solo una parte – ed una parte è vera – di quanto l’azione inquisitoria della Magistratura rivela e la stampa rende pubblica, ce n’è abbastanza per una condanna in blocco. Ci vorranno anni perché il giudizio popolare divenga più equilibrato e si comprenda che, accanto ai ‘veri colpevoli’, sono state coinvolte centinaia di persone, vittime spesso inconsapevoli, quando non totalmente innocenti, di un sistema oggettivamente degenerato per naturale vetustà e, praticamente fino all’89, per impossibilità di alternativa a se stesso. Ma, intanto, è venuta meno la fiducia, mentre la classe politica continua a vivere nella sua ‘turris eburnea’, ispirandosi a logiche, regole, criteri del tutto avulsi da quelli cui la gente si ispirò nel conferirle la delega del potere… Cossiga intuì le debolezze del sistema e fece l’impossibile per indurci a cambiare con proposte traumatiche – dirà Giulio Andreotti a Barbara Palombelli in una intervista a Sette nel febbraio del 2003 – se si rileggono ora quelle proposte c’è un po’ di rimpianto per non averle tempestivamente dibattute. Ma il contesto partitico di allora non lo consentiva. Ed è proprio in quel ‘contesto partitico’, insieme alle ottuse barricate tese a difendere illegittime ‘canonicate’ e privilegi di potere, che magistrati come Di Pietro colgono l’occasione, il momento storico per svolgere quella che ritengono, ed in parte è, una provvidenziale opera di ‘pulizia’. Il potere, quello politico – scrive Gorjux sulla Gazzetta del 10 gennaio – è diventato fine a se stesso, è stato messo al servizio esclusivo di interessi particolari, quando non addirittura personali. Nel migliore dei casi al servizio di un gruppo, di una corrente di partito. Ecco perché quel potere si è sbriciolato giorno per giorno, ha perduto credibilità e rispetto, viene via via rifiutato ed estromesso da quella società che pure lo ha 191



espresso… l’attacco condotto dalla Magistratura nei confronti di parti ed esponenti importanti dell’establishment politico ed economico, pur presentando aspetti tali da indurre a perplessità di rilievo, riesce a trovare spiegazione proprio nella colpevole staticità di un sistema pervicacemente immobile, nel quale anche sfasciare rappresenta almeno una novità. Non è solo il ‘sistema’ a patire indiscriminatamente il ‘risveglio’ della Magistratura. L’attacco contro la criminalità organizzata appare altrettanto potente ed efficace. Una serie di organizzazioni mafiose e paramafiose sono, almeno per il momento, smantellate. Molti delinquenti di spicco finiscono in prigione insieme con i loro ‘soldati’: dall’agosto del ’91 all’agosto di quest’anno, la popolazione carceraria è passata da 25.500 unità a circa 51mila. E’ accaduto – afferma Indro Montanelli in una intervista a Gino Dato per la Gazzetta – che una Magistratura per anni distratta è passata all’eccesso opposto. Ed Enzo Biagi, in un’altra intervista di Dato alla Gazzetta, rincara la dose… giornalisti e magistrati hanno grandissime responsabilità: si sono sempre distinti per la loro inerzia. Sono le due categorie più pericolose perché alla fine non rendono conto a nessuno. La Magistratura è una corporazione che non ha sempre brillato per indipendenza. Accade così, forse per la prima volta nella storia d’Italia, che magistrati e giornalisti – cioè il terzo e quarto potere dello Stato raramente in sintonia fra loro – s’incontrano, stringono un solido rapporto di collaborazione e si mobilitano in una causa comune: l’abbattimento di quel connubio fra politica e affari, fra politica e criminalità organizzata, che ha raggiunto livelli di proporzioni e spregiudicatezza che nessuno avrebbe in precedenza immaginato. La norma intangibile – e, in verità, a volte sacrosanta – che sancisce… le indagini sono coperte da segreto istruttorio… fino a ieri solennemente opposta ai giornalisti che vole-

vano sapere prematuramente fatti e circostanze, prima ancora che l’accertamento divenisse attendibile, diventa il ricordo di una formalità ormai anacronistica e superata dai fatti. Gli uffici delle Procure diventano simili a ‘bar dello sport’, a ritrovi pubblici dove è normale discutere e commentare le… ‘partite’ della domenica precedente, le ‘tattiche’, le ‘convocazioni’ e perfino le successive ipotetiche azioni della Magistratura. Entrare in una Procura e uscirne ‘arricchiti’ di imbeccate, illazioni, menzogne frammiste a sprazzi di verità, con fotocopie di verbali d’interrogatori, minute, informazioni riservate e finanche con ‘avvisi’ di garanzia ancora da inviare ai destinatari, diventa quasi una norma per giornalisti e sedicenti tali. Centinaia di ‘avvisati’ e indagati scoprono di essere oggetto d’attenzione da parte della Magistratura dalle pagine dei quotidiani. In ventiquattr’ore, un documento che dovrebbe essere a garanzia dell’indagato, ampliato di congetture e collegamenti gratuiti, finisce in mano ai mass media. Ogni vera, casuale o presunta frequentazione, ogni occasionale o immaginario contatto – e sarà lo stesso Di Pietro a sperimentarne le conseguenze, accusato, nel ’95, di frequentazioni non proprio limpide – diventa un fatto accertato, una verità assoluta che un’opinione pubblica ormai affamata più di giustizialismo che di giustizia, trasforma in accuse precise, in già pronunziate ed irrevocabili condanne. Nessuna forma di cautela salva il destinatario di un ‘avviso’ dalla condanna morale di un’opinione pubblica prevenuta ed esasperata. L’avviso, l’informazione di garanzia, la comunicazione giudiziaria – sentono spesso il bisogno di precisare direttori, editorialisti e commentatori nei loro quotidiani – non è un atto d’accusa ma solo un invito a presentarsi davanti al magistrato. Ma ciò non serve in alcun modo a dissipare l’ombra del sospetto che grava sugli ‘avvisati’ e, ormai, su chiunque abbia a che fare con la politica. Questi, senza eccezione, sono condannati e ‘distrutti’ dalla 193



pubblica opinione solo per essere stati in qualche modo coinvolti dal ‘sistema’ che quella stessa pubblica opinione ha tollerato e contribuito a consolidare, ma del quale non sopporta più la degenerazione e, perché no, la tracotanza. Accanto a quelle dei ‘veri colpevoli’, cadono spesso anche le teste di coloro che di quel ‘sistema’ sono o sono stati soltanto prigionieri e vittime. Talvolta anche di chi, in quelle vicende, non ha avuto alcun tipo di coinvolgimento.

La ‘rivoluzione’ di Tangentopoli Così, il timore di essere soltanto sfiorati dalle inchieste di Tangentopoli terrorizza chiunque. E’ ormai evidente che si sta consumando una ‘rivoluzione’. Questa… nasce – scrive Gorjux il 5 febbraio – dalla maturata insofferenza nei confronti di un ‘regime’ resosi inaccettabile. Insofferenza che ha potuto liberarsi in seguito al dissolversi, almeno apparente, del pericolo comunista. Ecco dunque perché le ‘picconate’ della Magistratura al mondo dei partiti hanno assunto valore di azione non solo giudiziaria ma, in senso lato, politica. E’ solo il 5 febbraio. Presto, molto presto, l’azione della Magistratura assume un valore essenzialmente politico e più specificamente diretto alla demolizione del ‘regime’... quasi non si crede ai propri occhi quando si nota che, di arresto in arresto, si sia pervenuti alla rivoluzione – scrive Vito Ventrella sulla Gazzetta del 6 ottobre – e non si dà retta a coloro che vedono un pericolo nel fatto che la rivoluzione la facciano i giudici. Alcuni potranno anche ritenere poco credibile Andreotti – ma non potranno evitare qualche perplessità – quando affermerà, dieci anni dopo Tangentopoli, che Mani Pulite… non si limitò a perseguire possibili casi di illecito arricchimento e di corruzione personale, ma scatenò una campagna distruttiva dei partiti. E non di tutti i partiti. E se qualcuno era rimasto fuori dal mirino del ‘pool’, si trovarono altre strade.

Ma è proprio e solo il pool di Mani Pulite e lo scandalo di Tangentopoli da quel pool messo a nudo, a determinare lo scardinamento e la distruzione dei partiti tradizionali? No, anche se, indubbiamente, i magistrati usarono gli strumenti di cui disponevano per affrettare la débâcle politico-partitica che si sarebbe comunque determinata. Ma forse tutto sarebbe avvenuto in maniera meno traumatica e devastante e con minor rischio per la tenuta delle istituzioni che si volevano proteggere e ‘liberare’ dall’ipoteca di interessi ad esse estranei. Non si può comunque sottovalutare il profondo mutamento delle condizioni storiche, sociali ed economiche già in atto nel Paese, mutamento che contribuisce a destabilizzare i precedenti equilibri politici ed economici. In realtà già da tempo cresce nella società civile un moto di ribellione. Non solo per il modo in cui viene gestito il potere, ma anche per la resistenza del ‘regime’ ad ‘ammodernarsi’, ad affrontare e varare riforme che appaiono comunque indispensabili. Mossi da un misto di rabbia e rassegnazione, gli italiani firmano i molti referendum lanciati dai ‘pattisti’ – gruppo referendario interpartitico guidato da Mario Segni, figlio dell’ex presidente della Repubblica – per cambiare il sistema elettorale e istituzionale. E se non basta, c’è un’altra motivazione: sono finiti i soldi. Le imprese, piccole, medie e grandi, hanno ormai raschiato il barile dei fondi neri. 195


Una finestra sulla storia - 1993

L’arresto ‘spettacolare’ di Enzo Carra.

Non a caso Tangentopoli inizia proprio dalle difficoltà di un piccolo imprenditore milanese a pagare l’ennesima tangente a Mario Chiesa, definito da Craxi – con intelligente ‘sottinteso’ – ‘mariuolo’. Al ‘massacro’ della politica italiana contribuiscono in modo determinante imprenditori, dirigenti, amministratori di grandi aziende pubbliche e private, magnati della finanza e diversi, incolpevoli, segretari amministrativi dei partiti, semplici esecutori di ordini, cassieri e galoppini. L’opera di scardinamento dei partiti si regge in gran parte sui metodi spicci del pool milanese: se collabori torni a casa altrimenti finisci, o rimani, in cella a San Vittore. E’ una condizione che molti accettano, ma non tutti. Fra questi ultimi, Primo Greganti – che non ammette di aver mai preso tangenti per il PCIPDS – ed Enzo Carra, portavoce di Forlani, trascinato in aula con i ferri ai polsi, soltanto per aver detto di non aver mai sentito parlare di tangenti. L’episodio di Carra è del 4 marzo. Le immagini di un uomo ancor giovane con barba e capelli bianchi, provato, disfatto da 12 giorni in cella di isolamento, scortato da due carabinieri, con catena e ‘schiavettoni’ ai polsi e portato quasi di peso in un’aula del Tribunale 196 di Milano per essere processato per direttissi-

ma, passano più e più volte da un Tg all’altro per apparire, il giorno dopo, su tutti i quotidiani. L’effetto è sconvolgente, poiché da un lato induce la folla di esitanti e presunti inquisiti, non protetti dall’immunità parlamentare, a ‘parlare’ anche più del necessario pur di non subire la stessa degradante umiliazione; dall’altra scuote il mondo dei mass media che, per la prima volta, comincia a porsi seri interrogativi sui metodi del pool di Milano. Ma quel ch’è fatto, è fatto. Centinaia di indagati, di presunti tangentisti, corrotti e corruttori cominciano a ‘cantare’ accusando ed accusandosi senza esitazione – distruggendo aziende, patrimoni, carriere e in qualche caso la loro stessa vita – pur di non subire l’onta degli arresti plateali, del clamore sui media, delle celle d’isolamento nell’ormai famoso lato B, nel sesto raggio del carcere milanese di San Vittore. Nella realtà – dirà un anonimo magistrato – sono accadute cose che noi non riusciamo ad inventare. Nella realtà il pool di Mani Pulite è andato oltre il lecito, nel perseguire l’illecito e la corruzione. Di lì a poco cadranno, sotto i colpi di Mani Pulite, oltre a decine e decine di persone legate al mondo dell’industria e della finanza pubblica e privata, tutti i segretari dei partiti di governo – DC, PSI, PRI, PLI e PSDI – che si sciolgono, come fossero formazioni politiche di neofiti. S’incrinano e si coprono di fango i pilastri del sistema: la sanità, i servizi segreti, la Guardia di Finanza e la stessa Magistratura nelle sue espressioni… non conformiste. Nessuno viene risparmiato. Neppure il Colle più alto. Ombre inquietanti vengono gettate sul Capo dello Stato che reagisce e respinge l’attacco con un fermo… io non ci sto! Più che una rivoluzione, nel senso classico della parola, è una rivoluzione di velluto, come sostengono commentatori politici e sociologi: l’unico desiderio di popolo è la cacciata dei ‘ladroni’, veri o presunti, dal tempio, mentre si consolida l’atavico scetticismo della gente verso le istituzioni, i partiti, i media e


finanche verso la Magistratura. Gli italiani non credono più in nulla. Tranne che, per il momento, in alcuni magistrati… dirà ancora Montanelli a Gino Dato. Non è e non sarà una rivoluzione come paventata da Craxi… viviamo giorni pericolosi… c’è un clima da Piazzale Loreto… perché non c’è un minimo segno di sommovimenti popolari. Finanche le manifestazioni organizzate dal PDS, per sollecitare la discussione sulla ‘questione morale’, si svolgono, nelle piazze ed in Parlamento, fra pochi intimi. Mentre, al contrario, sono molto più numerose le manifestazioni spontanee a sostegno del pool di Mani Pulite. La gente è lontanissima sia dal clima da prefascismo, sia da quello di Piazzale Loreto. Craxi non ha torto nell’affermare, prima della caduta di tutti gli altri Segretari dei partiti del centro sinistra, di sentirsi intorno un clima torbido perché quello che gli stanno rovesciando addosso, più o meno a giorni alterni, fiaccherebbe anche un toro. Ma per la stragrande maggioranza si tratta di ben altro: nell’immaginario popolare si tratta di liberarsi ‘tranquillamente’ di una congrega di famelici ladri colpevoli di odiose ruberie ai danni della società. Di una società che pur sapeva di non essere proprio illibata, altrimenti difficilmente si spiegherebbe, per esempio, l’enormità dell’evasione fiscale – 250mila miliardi, lira più lira meno – denunciata dal Fisco ogni anno. Certo, se si accetta il principio formulato da D’Alema a Brindisi, il 25 settembre, a proposito di presunte tangenti al PDS… in qualche caso è accaduto che vi siano stati episodi di finanziamento illecito e, quando è accaduto, abbiamo chiesto scusa, vi abbiamo posto rimedio. Abbiamo allontanato dal partito chi se ne era reso responsabile. Non accettiamo, però, l’equiparazione del nostro partito a quelli che si sono spartiti migliaia di miliardi degli italiani perché così non è stato. Come dire: noi siamo meritevoli di un condono. Esattamente un mese dopo, D’Alema, a cui

non manca la coerenza, torna sull’argomento. In un incontro con la stampa a Bari, il numero due del PDS, chiede un condono anche per l’ex PCI… non ci preoccupano le indagini su Greganti. Si vada fino in fondo. Non neghiamo che nel PCI possono esservi stati fenomeni d’inquinamento e qualche episodio di finanziamento illecito. Tuttavia, la verità è che noi non ci siamo mai piegati ad un sistema nel quale la corruzione era la regola. Nel 2001 Armando Cossutta ‘confesserà’ nella trasmissione Tv ‘Porta a Porta’ di aver ricevuto, personalmente, regolari finanziamenti dall’Unione Sovietica fino al 1990. No, non ci sarà nessuna ‘rivoluzione’ per le stesse motivazioni che Craxi aveva sollevato in Parlamento per difendersi: pochissimi italiani potevano giurare di non aver mai alleggerito le tasche dello Stato. Nemmeno quelli a reddito fisso. Altrimenti non sarebbe stato necessario un ricorso così frequente dello Stato ai condoni. Non è un segreto che migliaia e migliaia di commercianti e piccoli imprenditori con case, ville e terreni, denunciassero redditi inferiori a quelli dei loro commessi e operai. Non è un segreto che almeno cinque milioni di lavoratori arrotondassero le loro retribuzioni… in nero. Non è un segreto che centinaia di migliaia di famiglie non pagassero e non pagano il ca-

Primo Greganti, l’esponente milanese del PCI-PDS che neppure dopo 4 mesi di carcere ammetterà di aver preso tangenti per il partito.

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Una finestra sulla storia - 1993

none Tv, le tasse automobilistiche, quelle per i rifiuti urbani e che, proprio quest’anno, la contestatissima ‘una tantum’ per il medico di famiglia è evasa da un contribuente su quattro. Non è un segreto che metà della Sicilia, della Campania e gran parte d’Italia, conta milioni di seconde case costruite abusivamente. Ed è notorio che a partire dal 1982 e fino a Tangentopoli, il Paese ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, spendendo molto più dei redditi dichiarati. Da dove è venuta tanta ricchezza? Non certo dal duro, onesto, mal-pagato lavoro. Abbiamo tutti aguzzato l’ingegno, usato la nostra innata, fervida immaginazione consapevoli che nei ‘palazzi’ si fa di peggio… sapevamo tutti – scrive Gorjux – l’esistenza della sporcizia che ci stava sommergendo, ma ci siamo adagiati, sprofondando nei cuscini di un benessere immeritato, vivendo e lasciando vivere. Eppure, segnali di malessere, disagio e insoddisfazione non sono certo mancati… viviamo in un’epoca di evoluzione continua, di permanente anche se apparentemente non traumatica rivoluzione. Ma pur sempre di rivoluzione si tratta – aveva scritto Gorjux già nel lontano agosto del 1987 – c’è, nel Paese, nei discorsi della gente, una diffusa sensazione di scontentezza. Sono scontenti i lavoratori dipendenti perché si ritengono mal pagati. Scontenti gli imprenditori per la bassa produttività aziendale, per il credito oneroso e per l’esosità del fisco. Scontenti gli intellettuali perché il regime politico e sociale non riconosce loro il ruolo che ritengono di meritare. Scontenti i politici e gli stessi governanti perché vedono allargarsi il solco che li separa da coloro che pure li hanno votati. Insomma, scontenti tutti… come fa allora questa società a reggersi in piedi? Come mai non si è sfasciato tutto? Perché – conclude Gorjux – tutto sommato si progredisce… e perché, aggiungiamo, gli italiani hanno sempre avuto un alto grado di sopportazione. Ma di fronte ad un mutato scenario politico nazionale e internazionale – il crollo del Muro 198 di Berlino e del Comunismo – venuti meno

quei presupposti politici che imponevano all’Europa occidentale una sorta di ‘democrazia bloccata’, le coscienze si svegliano, danno l’allarme. Ci si rende conto che così non può durare. Francesco Cossiga, Guido Carli, la stampa nazionale e infine l’intero Paese, alle politiche del ’92, avvisano i naviganti che bisogna cambiare rotta, altrimenti si rischia il naufragio. Troppo tardi. Il ‘contesto partitico’, per dirla con Andreotti, non consente più di salvare la flotta e, di fronte all’attacco di due giudici severissimi e convinti di svolgere opera provvidenziale per la salvezza della democrazia – Di Pietro a Milano e Caselli a Palermo – i timonieri e l’equipaggio dei cinque partiti di governo saranno ‘costretti’ ad abbandonare la nave. L’ormai evidente valenza politica nelle inchieste della Magistratura induce il Capo dello Stato ad intervenire… il giudizio politico – sostiene Scalfaro nell’invocare la centralità del Parlamento – è ben distinto dal giudizio penale… i mali ci sono e sono tanti, ma l’immoralità politico-amministrativa che tocca anche uomini politici, persone note, tocca i responsabili non le istituzioni che sono vittime di questi atteggiamenti… il giudizio politico dunque attiene al Parlamento… che chi ha incappato nel codice penale debba pagare è tema che non tollera colpi di spugna, la Magistratura non deve fermarsi nella sua opera di giustizia, ma non si deve neppure dare l’impressione che in questa opera vi possa essere la contaminazione di una ragion politica… anche la libera stampa – sottolinea Scalfaro rivolgendosi ai mezzi d’informazione – esprime un giudizio quando scende in valutazioni, interpreta, dà consigli, critica: la libera informazione deve rispettare la dignità della persona e non può mai emettere sentenze. Di fatto, però, quelle ‘sentenze’ sono emesse e, anche se poi prosciolti o assolti, sulle immagini degli ‘indagati’ rimarranno segni pesanti, difficili da cancellare. Peraltro, quasi a ricordare che dopotutto nessuno è senza peccato, Scalfaro stigmatizza il fenomeno dell’evasione fiscale bol-


lando gli evasori come… traditori della Patria. Ma il Paese, la Patria, l’Italia – soggiunge il Capo dello Stato – ci chiedono di lavorare insieme per risorgere: e, per risorgere, occorre innanzitutto il coraggio della verità. A noi è sembrato un discorso chiaro e onesto – commenta Giuseppe De Tomaso. E aggiunge – i suoi critici gli rimproverano un’eccessiva indulgenza nei confronti della partitocrazia. Sbagliano. A Scalfaro sta a cuore un’altra cosa: il rispetto della Costituzione e Costituzione e partitocrazia non sono sinonimi. Il Presidente ha parlato alla gente più che al Palazzo. Nelle sue parole sul senso del dovere è riecheggiata un’antica massima: pulisci davanti a casa tua, tutta la città sarà pulita. E l’opera di ‘ramazza’ politica e ambientale continua.

I ‘nastri d’oro’ di Manfredonia Il 4 gennaio scoppia a Foggia il più vistoso caso di tangenti mai scoperto in Puglia. La storia inizia nel 1989 quando l’azienda milanese ‘De Bartolomeis’ si aggiudica una gara di appalto, bandita dall’ASI – Area di sviluppo industriale – di Foggia per la realizzazione di un enorme nastro trasportatore al molo industriale del porto di Manfredonia. Costo dell’opera 78 miliardi; ammontare delle tangenti pagate 4 miliardi e 804 milioni. I lavori cominciano nel 1990, ma ad iniziare l’opera non è la ‘De Bartolomeis’, bensì la Emit – Ercole Marelli impianti industriali – un’altra azienda milanese di proprietà di Ottavio Pisante, un imprenditore, anzi una famiglia di imprenditori, originari di San Severo, trapiantati a Milano. Il fratello di Ottavio, Giuseppe, è il presidente del gruppo ‘Acqua’, un’azienda con 2.500 dipendenti specializzata in impiantistica ecologica, discariche e depuratori, impegnata in varie parti del mondo. Perché è la Emit e non la ‘De Bartolomeis’ ad aprire il cantiere dei nastri trasportatori a Manfredonia? Perché pare che fra le due aziende milanesi fosse stato stipulato un accordo segreto: se la ‘De Bortolomeis’ avesse vin-

I nastri trasportatori nel porto di Manfredonia.

to la gara di appalto, avrebbe passato la commessa alla Emit, in sub-appalto, a fronte di un congruo indennizzo. Tutto regolare dunque fino al 10 settembre del 1991, quando due sconosciuti sparano alcuni colpi di fucile contro l’auto del direttore dei lavori, Walter Guidi, mancandolo. Non era un tentato omicidio, ma un semplice avvertimento. Quaranta giorni dopo i malviventi tornano alla carica con una nuova minaccia e la richiesta di una tangente di 500 milioni. Qualcosa dunque non funziona su quel cantiere. Partono le indagini e, l’11 dicembre del ’92, i sostituti procuratori di Foggia, Roccantonio D’Amelio e Massimo Lucianetti, ottengono dal Gip un mandato di perquisizione degli uffici della Emit e delle abitazioni private milanesi di Ottavio Pisante e del suo amministratore delegato Achille Giroletti. Ed è nell’abitazione di quest’ultimo che i carabinieri trovano due cartelline con la copertina azzurra e un paio di agende zeppe di appunti e nomi relativi ad appalti ottenuti pagando, presumibilmente, tangenti a decine di persone in tutta l’Italia. I documenti sono così compromettenti che Pisante tenta di riappropriarsene, attraverso intermediari, cercando di corrompere l’appuntato dei carabinieri, Lorenzo Brunetti, promettendo 200 milioni. Il milite denuncia il tentativo di corruzione e il 23 dicembre del ’92, 199


Una finestra sulla storia - 1993

Ottavio Pisante, interrogato nella Procura di Foggia, è arrestato. Inizia così la grande inchiesta battezzata dei ‘nastri d’oro’ di Manfredonia. Intanto, copie dei documenti trovati nell’abitazione di Giroletti finiscono sulla scrivania di Antonio Di Pietro che ha già avviato indagini su altre presunte irregolarità della Emit e del gruppo ‘Acqua’ in Lombardia. Achille Giroletti viene convocato da Di Pietro il 4 gennaio di questo infelice 1993 come persona informata sui fatti, ma all’uscita dal Tribunale di Milano, trova i carabinieri di Foggia con un ordine di arresto. Dodici ore dopo Giroletti è rinchiuso nel carcere del capoluogo di Capitanata. L’11 gennaio, anche il presidente del gruppo ‘Acqua’, Giuseppe Pisante, riceve dalla Procura di Milano un ordine di custodia cautelare in carcere. La prassi seguita dai giudici inquirenti di Foggia, come di tutte le Procure, è quella ormai consolidata del pool milanese di Mani Pulite: individuati i presunti illeciti fanno partire le informazioni di garanzia a cui seguono perquisizioni e riscontri. Le accuse, per tutti, sono le stesse: concussione, corruzione, falso, abuso d’ufficio e truffa salvo poi modificarle in fase di interrogatori e confronti. Anche la condizione per ottenere la libertà provvisoria, o almeno gli arresti domiciliari, è sempre la stessa: ammissione degli addebiti, collaborazione con la giustizia e conseguente denuncia dei collettori di tangenti. Nessuno resiste – e, in molti casi perché dovrebbe? – e giù nomi e cognomi a tutto spiano: professionisti, costruttori, consiglieri regionali, segretari di partito provinciali, deputati, portaborse e collettori di tangenti. Dove sono finiti tutti quei soldi? Nelle casse di DC, PSI e PSDI nazionale, regionale e provinciale, sostiene Pisante. Ma l’intero ammontare o in parte? E attraverso chi? Tutti gli accusati si protestano innocenti o almeno non colpevoli di ‘dolo’ o del tutto estranei alla 200 vicenda. Del resto, la girandola di confessioni,

ritrattazioni e mezze verità non rende agevole il lavoro dei magistrati: molti finiscono in carcere, anche senza colpe, marcati, come si è detto poc’anzi, da un ‘segno’ che sarà difficile cancellare. Nella vicenda dei ‘nastri d’oro’ soltanto il consigliere regionale Giuseppe Affatato ammetterà di aver ricevuto un contributo elettorale regolarmente versato nelle casse del PSDI. Ottavio Pisante comincia a sgranare il suo primo rosario di nomi l’8 gennaio… mi hanno detto che se non volevo subire intralci o ritardi nella posa in opera dei nastri trasportatori, dovevo pagare tangenti. Chi ha chiesto le tangenti e a chi sono state date? Subito dopo l’inizio dei lavori – confessa Pisante ai sostituti procuratori di Foggia – sono stato avvicinato dal commissario dell’ASI – l’ex senatore democristiano Wladimiro Curatolo – il quale mi ha detto che potevano esserci intralci e difficoltà varie durante i lavori, ma che si potevano superare ‘offrendo’ ai partiti una percentuale sulla commessa. A chi? Alla DC, al PSI e al PSDI nella misura complessiva del 5% arrotondata, come vedremo, in eccesso, per sopravvenute richieste, fino a raggiungere la somma di 4 miliardi e 804 milioni. Com’è suddiviso quel 5%? In misura proporzionale alle forze politiche: 2% alla DC; 1,5% al PSI; 0,5% al PSDI; 1% allo stesso commissario Curatolo e qualche ‘bustarella’ qua e là ad altri intermediari e portaborse… per la sua quota, Curatolo mi fece promettere di non parlarne con nessuno. Alle 3 del mattino del 13 gennaio, il gip Antonio Diella firma 5 ordini di custodia cautelare e due avvisi di garanzia nei confronti dei deputati Domenico Romano, socialista, e Francesco Di Giuseppe, democristiano, a cui fanno seguito le richieste di autorizzazione a procedere. Finiscono in carcere, invece, i consiglieri regionali Roberto Paolucci del PSI e Giuseppe Affatato del PSDI; l’ex segretario regionale


socialista Angelo Ciavarella, l’imprenditore Paolo Sacco e lo stesso Wladimiro Curatolo che ottiene gli arresti domiciliari perché gravemente ammalato. Morirà, infatti, nel corso dell’anno. L’accusa, per tutti, è concorso in concussione. Il giorno dopo, mentre Ottavio Pisante se ne torna a Milano, il Direttore della Gazzetta scrive… il fatto che la pentola in cui la Magistratura foggiana ha appena cominciato ad immergere il mestolo contenga i frutti di un sistema politico degenerato, non assolve e non giustifica nessuno… vorremmo che fra le riforme si comprendesse anche quella dei partiti perché bisogna che i partiti, se vogliono sopravvivere e se vogliono che sopravviva la democrazia, comprendano la necessità di ripulirsi, ma di farlo sul serio. Anche a costo di perdere voti e consensi. Invece, ancora oggi – continua Gorjux – i partiti sono invischiati anche nelle Regioni, nelle Province, nei Comuni in confuse e scomposte lotte di grande e piccolo potere, in alleanze e combutte, guerre e scaramucce ‘trasversali’, non altro motivate, se non da interessi infimi e particolari. Che i magistrati vadano avanti dunque, guardandosi dallo scivolare nella ‘caccia alle streghe’, ma non guardando in faccia a nessuno. E i sostituti procuratori, D’Amelio e Lucianetti, vanno avanti. Il 21 gennaio sono arrestati Darsio Camerino e Giuseppe Manfredi, vice commissari dell’ASI; il 10 febbraio finisce in carcere Rodolfo Schiraldi, già segretario provinciale della DC; il 13 i carabinieri consegnano l’ennesimo avviso di garanzia al ministro Paolo Cirino Pomicino e al segretario nazionale del PSDI Antonio Cariglia; il primo marzo è tratto in arresto il notaio foggiano Leonardo Giuliani; il 3 aprile Vincenzo Giuseppe D’Urso, già collaboratore del segretario amministrativo del PSI, Vincenzo Balzamo. E ancora: Luigi Pellegrini, ex consigliere provinciale DC; Nicola Catanese, già consigliere comunale a Manfredonia; l’imprenditore Matteo Recchia e infine, come il fragoroso botto che chiude uno spetta-

colo pirotecnico, il giorno della festa dei lavoratori, primo maggio, partono per Roma gli avvisi di garanzia per i parlamentari socialisti Franco Borgia e Rino Formica. In sintesi, ogni volta che Ottavio Pisante è convocato a Foggia per chiarire alcuni punti delle famose agende, tira fuori un nome, una data, un ricordo. Gli ultimi due nomi, quelli di Borgia e Formica, sembra li abbia fatti nell’interrogatorio del 28 aprile. Del coinvolgimento dei due deputati socialisti nella vicenda dei ‘nastri d’oro’ Pisante ha dato due versioni. In quella del 28 aprile avrebbe detto che… l’amico Borgia mi ha contattato per lamentare, anche a nome di Formica, l’inaccettabile disparità di trattamento riservato al PSI rispetto alla DC rivendicando, perciò, l’ulteriore 0,5%… ed io ho provveduto versando a Borgia la differenza pari a 400 milioni. La seconda versione Pisante la fornisce in aula, il 4 dicembre 2003, nel corso del processo di primo grado svoltosi a Foggia… Borgia e Formica non c’entrano con le tangenti dei nastri di Manfredonia… incontrai Borgia, un amico di lunga data, in un albergo a Roma dove mi fece una richiesta di aiuto per la corrente di Formica… mi disse che non dovevo farne parola con la segreteria nazionale del PSI. Ne presi atto e cercai un modo per venire incontro a quella richiesta… non ho mai avuto alcun contatto con Formica, ma ne feci il nome perché ebbi l’impressione che era ciò che i p.m. volevano sentirsi dire… dovete capire il mio stato d’animo, ero sotto pressione e dovevo uscire dalla galera. Con le informazioni di garanzia a Borgia e Formica l’inchiesta dei ‘nastri d’oro’ di Manfredonia è virtualmente chiusa. Il 17 maggio, a seguito della richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei due deputati, uno sdegnato Formica s’intrattiene con i giornalisti osservando che… il magistrato che chiede di accertare la verità ha ragione: ma quando sfregia l’onore di un galantuomo va molto oltre la misura. Ho chiesto 201


Una finestra sulla storia - 1993

al Presidente della Camera di porre all’ordine del giorno la questione che mi riguarda al più presto, perché sia chiara la responsabilità di chi compie atti avventati. Franco Borgia, invece, appare più sereno… intendo concorrere all’accertamento della verità anche senza il ricorso alle prerogative dello status parlamentare. Il 22 aprile del 2004, ben undici anni dopo l’apertura dell’inchiesta, a conclusione del processo di primo grado, i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Foggia, assolvono Borgia e Formica dalla presunta concussione dei ‘nastri d’oro’, ma li condannano a 4 anni e 6 mesi ciascuno di detenzione per la concussione di 400 milioni ai danni di Ottavio Pisante. Ma torniamo all’inchiesta principale. Il 20 settembre del 1994 la Procura di Foggia chiede il rinvio a giudizio per 18 persone. Nel frattempo, uno dei principali imputati, il commissario dell’ASI di Foggia, Wladimiro Curatolo, il grande mediatore nella trattativa politica, è deceduto senza aver mai ammesso le responsabilità attribuitegli da Ottavio Pisante. Muore anche, nel novembre del ’93, il segretario amministrativo del PSI Vincenzo Balzamo, mentre l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino chiede e ottiene un processo stralcio per gravi problemi di salute. La prima udienza inizia il 18 maggio del 1996 poi, sarà tutto un trascinarsi incredibile di rinvii provocati da questioni procedurali, errori di notifiche, istanze di ricusazioni, eccezioni di legittimità costituzionali, avvicendamento di giudici e non ultimo la richiesta di patteggiamento accordata a Darsio Camerino, già vice commissario dell’ASI, meglio noto come ‘il postino’ per i suoi frequenti viaggi a Milano: partiva da Foggia con una borsa vuota e tornava con la stessa borsa zeppa non certo di ‘valori bollati’. Camerino patteggia una condanna a 2 anni di reclusione, pena sospesa il 6 aprile del 1998 e, finalmente, il 30 aprile il processo dei ‘nastri d’oro’ può iniziare con l’audizione 202 del primo dei 40 testimoni dell’accusa.

Esattamente 6 anni dopo, il 22 aprile del 2004, i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Foggia scrivono la parola fine al processo di primo grado comminando 9 condanne e 7 assoluzioni. I giudici hanno ritenuto che le maggiori responsabilità di tutta la vicenda dei ‘nastri d’oro’ sono da attribuirsi ai commissari dell’ASI – condannati quindi Giuseppe Manfredi e Darsio Camerino, vice commissari all’epoca dei fatti – e ai politici. Di Borgia e Formica si è già detto, mentre Roberto Paolucci, Domenico Romano, Giuseppe Affatato, Rodolfo Schiraldi e Francesco Di Giuseppe sono tutti condannati a pene variabili fra 4 e 6 anni che, ovviamente, potranno essere ridimensionate o ribaltate, dall’Appello prima e dalla Cassazione poi. E, comunque, considerati i tempi della Giustizia e l’età dei protagonisti, a meno che non intervenga la prescrizione, è possibile che siano i loro nipoti a sapere chi ha preso il ‘malloppo’ e chi, invece, è stato coinvolto perché ‘doveva’ essere coinvolto, spazzato via dall’onda ‘tsunami’ che mirava a ripulire le limpide spiagge italiche da una classe politica e imprenditoriale considerata, nel suo insieme, senza freni morali, senza progetti e senza prospettive per gli interessi del Paese. Cos’è accaduto intanto ai nastri trasportatori? Niente. Il 13 gennaio del ’93 il cantiere è messo sotto sequestro, l’area industriale di Manfredonia sprofonda, come gran parte delle zone industriali del Mezzogiorno, in una grave crisi produttiva e i ‘nastri’ sono ancora lì, nel porto industriale, dove il mare e la salsedine ha trasformato l’oro in ruggine. Anche in Puglia dunque fioccano, come l’abbondante neve di quest’anno, le inchieste per tangenti. Non è il diluvio che infuria in Lombardia, Veneto, Lazio e, collegate con la malavita organizzata, in Campania, Calabria e Sicilia. Ma c’è chi se lo augura. Il 10 marzo, Massimo D’Alema, durante una conferenza stampa del gruppo pidiessimo a Montecitorio, nel criticare con la sua consueta durezza il mancato varo dei decreti delegati


per l’abrogazione dell’intervento straordinario, si sofferma su Tangentopoli osservando che... nel Mezzogiorno la Magistratura ha appena sfiorato la punta dell’iceberg… quando i riflettori della Giustizia si sposteranno al Sud, la Tangentopoli di Milano, al confronto, apparirà uno scherzo, una cosa da dilettanti. La grande Tangentopoli del Sud non è ancora scoppiata e mi auguro che la Magistratura farà il proprio dovere in tutto il Paese. D’Alema non è nuovo a queste sortite estemporanee. Il 20 gennaio del 1990 non aveva esitato ad accomunare parte della classe dirigente pugliese alla criminalità organizzata. Nessuno ha mai negato, in Puglia e nel Mezzogiorno, fenomeni di diffusa illegalità. Ma da un esponente politico che naviga nei mari del Sud, al quale un gran numero di pugliesi ha affidato i suoi voti, oltre alla denuncia sarebbe stato lecito attendersi anche un minimo di autocritica se non una serie di attenuanti, fondate, per esempio, sull’arretratezza sociale ed economica in cui il Meridione è stato lasciato, anche con il contributo del PCI-PDS, durante gli anni dello scontro ideologico, della vocazione allo sfascio, dell’ostruzionismo e, non ultimo, del consociativismo. Ma D’Alema non fa sconti. Egli non ha nulla da spartire con quella classe politica meridionale che, ormai da anni, la Gazzetta ‘strattona’ richiamandola alle proprie responsabilità, non risparmiandole accuse di miopia, d’inerzia, d’inettitudine. Né si può dire che il PDS abbia perso la vocazione allo sfascio: non c’è giorno, specie dopo l’approvazione della legge per l’elezione diretta del Sindaco, che non invochi, in ogni Comune, lo scioglimento anticipato dei Consigli: è il momento di raccogliere i frutti della disintegrazione dei partiti di Governo. Lontana l’idea che la sortita di D’Alema fosse una ‘chiamata’, un input. Non era necessaria. Le Procure di tutto il Paese non hanno certo bisogno di essere sollecitate, vanno, ormai, a ‘cento all’ora’. Non sono mai state così zelanti ed efficienti.

I ‘tubi d’oro’ E tuttavia, una settimana dopo, il 17 marzo, la Procura di Bari ordina l’arresto dell’ex presidente della Regione Puglia, Michele Bellomo; del suo ex segretario, Vincenzo Barnaba; di 3 funzionari regionali e di un imprenditore. L’accusa, per tutti, è di concussione, peculato, abuso in atti d’ufficio, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture e falso ideologico: avrebbero gestito in modo illegittimo una grossa fornitura di tubi, del valore di miliardi, destinati all’irrigazione. La vicenda risale alla fine degli anni Ottanta quando Bellomo era assessore regionale all’Agricoltura. Eletto presidente della Giunta regionale nell’ottobre del ’90, il 23 ottobre del ’92 Bellomo si dimette perché destinatario di un avviso di garanzia da parte della Procura di Venezia che indagava sullo stesso filone d’inchiesta. Anche questa inchiesta che, per parafrasare quella di Manfredonia, è battezzata dei ‘tubi d’oro’, si trascina per mesi. Ci saranno altre informazioni di garanzia, altre denunce, confessioni, ritrattazioni e, insomma, la solita folla di personaggi che escono ed entrano in scena come su un grande palcoscenico. Alla fine, quando i magistrati inquirenti presenteranno le richieste di rinvio a giudizio, gli imputati, dagli iniziali sei, sono diventati sedici.


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E come per i ‘nastri d’oro’, anche per questa inchiesta ci vorranno 12 anni, dall’arresto di Bellomo, per arrivare alla conclusione del processo di primo grado. Il 7 gennaio del 2005 i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Bari pronunciano il loro verdetto: 10 condanne e 6 assoluzioni. All’ex Presidente della Giunta regionale pugliese – ormai 74enne – i giudici gli hanno inflitto una pena di 14 anni, superando di 6 anni la richiesta dello stesso p.m, perché lo hanno ritenuto colpevole anche di ‘associazione a delinquere’. A 10 anni di reclusione, invece, è stato condannato il suo ex segretario Vincenzo Barnaba. Dunque, sollecitata o meno, la Tangentopoli pugliese esplode. E non di meno, in una graduatoria di ‘merito’ di fine anno, è sempre la Lombardia, seguita dal Veneto, Lazio e Campania a guidare la classifica – per il gran numero di avvisi di garanzia e custodia cautelare – dei ‘marcatori’ nel peggior campionato politico-affaristico mai disputato in Italia. Per trovare i pugliesi, bisogna scendere in decima posizione. Non c’è di che consolarsi beninteso. Quando con le inchieste alla Regione – più volte ‘visitata’ dai carabinieri e dalla Guardia di Finanza – si blocca totalmente il già disastrato e poco efficiente consesso regionale con una ricaduta devastante sulla già immiserita economia pugliese; quando, con l’arresto di Bellomo e l’indagine sull’Acquedotto Pugliese, trova conferma la vecchia nota battuta che l’Ente ha sempre dato… più da mangiare che da bere… c’è poco di cui consolarsi. Ce n’è per tutti: dal Policlinico, all’ANAS regionale; dalla formazione professionale alle centrali elettriche di Brindisi; dall’Università di Bari a quella di Lecce, alle USL di tutta la regione, a decine di amministratori e Amministrazioni comunali e provinciali. Vengono arrestati Sindaci ed ex Sindaci; si sciolgono, si autosospendono o sono dimissionati diversi Consigli comunali. Si scopre che sono state pagate tangenti per depuratori e discariche, 204 per lavori ai cimiteri, per installare lampade

votive, per mense e perfino per l’acquisto e la manutenzione dei bagni pubblici prefabbricati. Ma il primato pugliese d’inchieste per tangenti rimane alla Procura di Foggia: 8 arresti e 38 inquisiti per la vicenda dei ‘nastri d’oro’; 12 arresti, fra gli impiegati della Conservatoria e dell’Ufficio tecnico, 85 informazioni di garanzia a notai, avvocati, commercialisti e funzionari di banca che pagavano tangenti agli arrestati per ottenere celermente documenti e certificati. Inoltre 3 ingegneri e 5 geometri sono inquisiti e sospesi, sempre dall’Ufficio tecnico, per presunti abusi e condoni facili, per concessioni non proprio legittime e per cambi di destinazione d’uso accordati dalla notte al giorno. Gli stessi sono poi colpiti da una nuova richiesta di sospensione per tre casi di abusi edilizi in cui sono coinvolti un assessore regionale, un ex sindaco, due ex vice-sindaci, un assessore comunale ed altre 35 persone fra imprenditori e liberi professionisti. Il Comune e la Provincia di Foggia restano paralizzati per mesi. Il caos è totale nei due enti locali della Capitanata dove le amministrazioni comunale e provinciale subiscono tre crisi in dieci mesi. Ma, per tornare alle tangenti, anche nella spartizione delle ‘mazzette’, il mercato meridionale, almeno quello pugliese, è… il mercato dei poveri. Calcolati i pesi e le misure – scrive Gorjux – quello di Tangentopoli è un verminaio quasi esclusivamente settentrionale. A ben guardare, quasi senza eccezioni, si tratta per lo più di illeciti amministrativi. Il peccato che si vuol far pagare al Mezzogiorno riguarda soprattutto l’Intervento straordinario, gli appalti pubblici che sono sistematicamente appannaggio di grandi aziende centro-settentrionali. E’ nel passaggio fra la partecipazione alle gare d’appalto e l’assegnazione delle stesse commesse che avviene la prima scrematura, la più consistente. Raramente poi accade che chi si aggiudica la commessa realizzi completamente le opere o le realizzi secondo le regole e rispetti i tempi concordati. Senza parlare dei vari adeguamenti di costi in corso


Totò Riina, arrestato dopo 24 anni di latitanza.

d’opera, fonti per altre tangenti. Le commesse acquisite – come nel caso dei ‘nastri d’oro’, delle centrali elettriche di Brindisi e perfino dell’ospedale San Paolo di Bari – si affidano a piccole e medie imprese locali che, per ottenere il sub appalto, pagano altre tangenti seguite da un rivolo ulteriori di ‘mazzette’ per ottenere licenze, permessi e autorizzazioni. Alla fine del circolo vizioso – l’economista Beniamino Andreatta afferma che ci sono fino a 60 passaggi prima che sia completata una pratica – basta mettere in piedi qualche pilastro, un capannone, e i soldi sono già finiti. Morale: a voler applicare la filosofia di D’Alema… a noi solo qualcuno e solo una tantum… per chiamare fuori PCI e PDS da Tangentopoli, allora anche la Puglia sarebbe meritevole di un trattamento più morbido. Non ci sarà per la Regione Puglia, come è giusto, un occhio di riguardo, anzi… che i magistrati vadano avanti senza guardare in faccia a nessuno – scrive Gorjux – ma si guardino dallo scivolare nella ‘caccia alle streghe’… è tempo di penitenza e, anche se le sberle più pesanti toccano sempre a noi – l’abolizione dell’Intervento straordinario è ormai un fatto compiuto – pazienza, se serve alla moralizzazione del Paese, alla sopravvivenza di un siste-

ma politico e sociale di democrazia e libertà. Ma, ancora una volta, queste note, questi commenti, sono antecedenti agli ‘avvisi’ che sommergono i partiti della maggioranza. Si spera che le parole di Craxi, il 3 luglio del ’92 in Parlamento… se il ricorso alle risorse aggiuntive deve essere considerata materia criminale allora gran parte del sistema sarebbe materia criminale… siano un efficace tentativo di difesa del PSI e di tutti gli altri partiti; ma quando Craxi riceve il primo e poi il secondo, il terzo e il quarto avviso di garanzia, quando cominciano a cadere Martelli, Forlani, La Malfa, Andreotti e via di seguito, pazienza e speranze, anche dei più ottimisti, si esauriscono. Solo Scalfaro, il conservatore, il bigotto… il capoclan della partitocrazia, dirà Bossi, riuscirà a tenere salda l’ultima trincea istituzionale. Bettino Craxi riceve il secondo avviso di garanzia l’8 gennaio. Due giorni dopo Martelli chiede al suo ex padrino di lasciare la segreteria… sùbito, e se la maggioranza del partito non è disponibile, cercheremo altre strade… Forse me ne andrò – risponde Craxi – ma non sarai certo tu a sostituirmi. La tensione politica, sia nel PSI, sia nel Governo Amato, è al massimo. E’ opinione comune che se cade Craxi, cade Amato. Per il PDS è irrilevante l’opera di governo che il dottor Sottile sta svolgendo con abilità, realismo e senso della misura. Amato è espressione di Craxi, e tanto basta: deve andarsene.

Totò Riina Ad allentare la pressione, a salvare tutti da quel che sembra un imminente naufragio, il 15 gennaio arriva, nelle redazioni dei quotidiani, una notizia attesa per 24 anni: Totò Riina, l’imprendibile capo della cupola palermitana, è stato arrestato. Il numero uno di Cosa Nostra è stato bloccato dai carabinieri alle 8,30 del mattino alla periferia di Palermo. Era a bordo di un’auto con autista. Si recava in centro, per il disbrigo dei suoi affari, come pare facesse ogni mattina. Senza armi né scorta, Riina, soprannomi- 205


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nato ‘u curtu’ per la sua bassa statura, o ‘la belva’, per l’efferatezza dei crimini di cui è accusato, era diventato l’incubo della Sicilia e del Paese. Già condannato a tre ergastoli, lo si ritiene responsabile e mandante di oltre 100 omicidi, non ultimi quelli di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sessantatrè anni, sposato e marito fedele di Antonietta Bagarella, figlia di una nota ‘famiglia d’onore’ corleonese, Riina ha avuto da ‘Ninetta’ quattro figli tutti regolarmente denunciati all’ufficio di stato civile palermitano. Ricercato numero uno, negli ultimi 20 anni Riina ha sempre vissuto in una grande villa all’interno di un quartiere residenziale alla periferia di Palermo… bastava andare a suonare il campanello… lo hanno preso quando hanno deciso di prenderlo… diranno ai cronisti alcuni anonimi magistrati della Procura palermitana. Era come con le tangenti: tutti sapevano ma nessuno parlava. Totò Riina era diventato ‘capo dei capi’ di Cosa Nostra dopo una lunga, sanguinosa lotta con Luciano Leggio – detto Liggio – arrestato nel 1974 e distrutto, proprio quest’anno, da una forma di poliomielite nel carcere di Nuoro. Con Liggio il giovane Riina aveva ‘fatto la gavetta’, di Liggio era divenuto l’uomo di fiducia e con lui era stato arrestato nel 1963. All’epoca, Liggio era accusato di 9 omicidi, Riina di 8 ed entrambi di associazione a delinquere di stampo mafioso. Dopo 6 anni di carcerazione preventiva, nell’estate del 1969 la Corte di Assise di Bari li aveva assolti per insufficienza di prove. Liggio scomparve subito; Riina, dopo un breve soggiorno a Bitonto, tornò in Sicilia con un foglio di via. Condannato dal Tribunale di Palermo a quattro anni di soggiorno obbligato in un piccolo centro del Bolognese, pochi mesi dopo Riina era sparito dalla circolazione: aveva ben altro da fare che starsene con le mani in mano in un paese agricolo. Era iniziata in quel periodo la feroce lotta contro il clan corleonese di Liggio per scalzarlo al vertice della Cupola. Quando l’ex ‘primula 206 rossa’ viene arrestato, Riina mette su famiglia

e sposa, nel 1974, Antonietta Bagarella. La cattura di Riina è fatta passare per una brillante operazione dei ROS, un reparto speciale dei carabinieri formato di 8 uomini con nomi in codice, al comando del capitano ‘Ultimo’. Ma nella stessa giornata, il ministro dell’Interno, Nicola Mancino, si lascia sfuggire un… grazie anche ai pentiti. Pochi giorni dopo, infatti, i cronisti scoprono che all’interno di un’auto civetta dei carabinieri, c’era anche Balduccio Di Maggio, ex autista di Riina ‘emarginato’ dalla mafia per aver abbandonato moglie e figli al fine di soddisfare un ‘capriccio’ che il codice d’onore mafioso non ammette. Invitato a tornare con la propria famiglia, Di Maggio aveva rifiutato e, rendendosi conto che la sua vita era ormai in pericolo, si era rifugiato in Canada. Ma la Cupola non ha frontiere. Perseguitato, stanco, senza soldi e senza amici, Di Maggio era tornato in Italia, si era stabilito a Torino e, in cerca di protezione e di mezzi di sopravvivenza, aveva deciso di collaborare con la giustizia rivelando, fra l’altro, il nascondiglio ‘segreto’ del boss mafioso più ricercato d’Italia, favorendone, come si è detto, la cattura. Rinchiuso nel carcere di Rebibbia, a Roma, Riina nega tutto… Non sono mafioso… non ho ucciso nessuno… la mafia è un’invenzione giornalistica… Cosa Nostra, delitti eccellenti… non ne so nulla, l’ho letto sui giornali e l’ho sentito in Tv come tutti… volevo restare a Bitonto e fare l’agricoltore, ma mi hanno cacciato… non ero latitante, ho sempre preso aerei, treni e autobus senza che nessuno mi abbia mai fermato, nessuno mi ha mai contestato niente… i pentiti? Mettetemi a confronto… sono gestiti… oggi basta firmare un verbale per uscire dal carcere e prendere pure soldi… io sono il Tortora di Napoli, io sono un parafulmine… e avanti così per anni e per ogni processo. Affronterà molti pentiti, ma rifiuta un confronto con Tommaso Buscetta… Non parlo con un depravato senza onore. Buscetta ha l’inaccettabile colpa di avere tre mogli: una l’ha sposata in Italia; la seconda in Nord America e la terza in Brasile.


Il PDS sfiducia Amato Abbandonato Riina al suo destino, i riflettori tornano a puntarsi sulle emergenze nazionali: prima fra tutte, lo stallo dell’economia, la recessione, la disoccupazione che ha raggiunto un livello così allarmante – l’11% nel Centro Nord, il 22% nel Mezzogiorno – da indurre il Capo dello Stato a scrivere una lettera al Presidente del Consiglio… bisogna fare ogni sforzo per affrontare con particolare efficacia il grave problema occupazionale – scrive Scalfaro ad Amato – è essenziale e urgente impedire con ogni mezzo che, specie nelle zone più povere, ci si abbandoni allo sconforto e all’esasperazione… si tratta di combattere insieme la battaglia per i diritti essenziali dell’uomo, ed è un impegno che non può non coinvolgere tutti e ciascuno. Insieme? Non certo con l’apporto dell’opposizione che, estremizzando, ragiona come Riina: con Amato non collaboriamo. L’integrità morale della sinistra non lo consente. Non perché socialista, ma perché espressione di Craxi. Diversi anni dopo, quando l’Italia avrà

un ‘nuovo’ e diverso centro-sinistra, sarà il PDS a chiamare Amato al Governo, profondendosi di lodi per il dottor Sottile e per quel Governo che quest’anno vorrebbero abbattere. Al Presidente del Consiglio non mancano certo gli argomenti per difendere l’opera del suo Governo… il mio Governo – afferma Amato il 26 gennaio – ha affrontato il cambiamento, ha aperto una strada al futuro ed ha chiuso col passato. Quello che stiamo facendo rispecchia le idee di una sinistra illuminata dall’analisi della ragione e non guidata dalla demagogia e dalle illusioni… gli aggettivi smisurati di una parte della sinistra rendono soltanto più difficile la soluzione di un problema che non è soltanto italiano… il problema è se esiste ancora una sinistra che con l’intelligenza del riformismo abbia il coraggio, senza avere paura del fantasma di Marx, di affrontare le ragioni strutturali della crisi di occupazione. Per tutta risposta, ventiquattro ore dopo, il PDS presenta in Parlamento una mozione di sfiducia… è un Governo privo di novità – si 207


Una finestra sulla storia - 1993

legge nella motivazione – è basato su vecchie alleanze politiche e ha tradito le aspettative nella difesa della lira e del salario… l’Italia necessita di un Governo di ‘svolta’, più solido, robusto e autonomo dalle segreterie dei partiti, commenta infine Occhetto. ‘Svolta’ d’accordo. Ma con chi? Con noi di Rifondazione comunista – suggerisce Cossutta – con il PRI e con la Lega di Bossi. Proprio così. Con la Lega di Bossi! Ma il Segretario del PDS ha un altro progetto. Con la mediazione di Amato sembra che Craxi si sia convinto a lasciare la segreteria del PSI al suo ex delfino, Claudio Martelli, ma ad una condizione: alla presidenza del PSI dovrà esserci Amato o lui stesso, Bettino Craxi. Amato rifiuta di lasciare il Governo e Martelli dirà che… sono troppo vecchio per fare il Segretario sotto tutela... e l’accordo sembra sfumare. La rinuncia di Martelli, dunque, è un brutto colpo per Occhetto: è infatti con Martelli e con la sua nuova e robusta corrente di Alleanza Riformista che il PDS vorrebbe fare il Governo di ‘svolta’. Ma non è detto. L’Assemblea nazionale del PSI, che dovrà designare il nuovo segretario, è convocata per il 10 febbraio e, nonostante si facciano già i nomi di Benvenuto e Del Turco, l’ipotesi Martelli non è del tutto svanita. Si vedrà. Con ‘Mani Pulite’ alle calcagna le cose si muovono in fretta nel PSI e, comunque, con i tempi del Parlamento, la mozione di sfiducia del PDS difficilmente potrà essere discussa prima dell’Assemblea socialista. Ma Amato, che non a caso si fregia dell’appellativo di ‘Dottor Sottile’, tira fuori la sua astuzia: chiede e ottiene dal Parlamento che il dibattito sulla mozione di sfiducia al suo Governo venga inserito nel calendario della Camera a norma di regolamento – tre giorni dopo la presentazione – e al presidente, Giorgio Napolitano, non resta che fissare la data: il 3 febbraio. Cioè, una settimana prima dell’as208 sise socialista.

Occhetto è spiazzato. Propone un rinvio tecnico… è legittimo che si voglia decidere quando ci saranno le condizioni di responsabilità chiare nel PSI. Ma D’Alema e Cossutta sono di diverso avviso… ormai la frittata è fatta… ci sono state valutazioni discordanti… abbiamo deciso di non sospendere la nostra iniziativa… ritirare la mozione sarebbe un atto di debolezza. Morale: dopo tre giorni di dibattito parlamentare, la mozione è respinta. Il partito della sfiducia – PDS, Rifondazione, Lega, Verdi, MSI e Rete – è battuto. Amato ha ottenuto addirittura più voti di quando ha presentato il suo Governo sette mesi prima. Un successo del tutto inatteso considerato che il PSI, proprio in quei giorni, è scosso da un nuovo terremoto. Si comincia con Martelli. Sono in corso le trattative per la successione a Craxi quando si apprende, dai soliti ambienti bene informati, che la Procura di Milano sta indagando presso alcune banche svizzere sul famoso ‘conto protezione’. La vicenda non è nuova. Se ne occupa da cinque anni il procuratore aggiunto di Milano Pierluigi Dell’Osso che si è sempre scontrato con il muro elvetico del segreto bancario. Ora sembra che il segreto sul ‘conto protezione’ sia stato tolto dalla banca che lo custodisce. La storia è nota. Nel 1980 il presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi – suicida o assassinato, ancora non si sa, durante l’estate 1982 a Londra – nel tentativo di salvare il Banco da un ‘crac’ imminente, chiese all’ENI un prestito di 50 milioni di dollari. La trattativa andò felicemente in porto grazie alla mediazione del PSI che, in cambio, ricevette un ‘contributo’ di 7 milioni di dollari, consegnati al collettore principe delle tangenti socialiste, Silvano Larini, che depositò il denaro a proprio nome su un conto svizzero, chiamato, appunto, ‘protezione’. Successivamente, si dice, il ‘conto protezione’ fu ‘polverizzato’ in più conti intestati a vari esponenti del PSI, uno dei quali sembra fosse proprio Claudio Martelli… E’ una spu-


dorata menzogna, reagisce il Ministro, come confermato, due giorni dopo, dagli svizzeri: Non esiste alcun conto intestato a Martelli. Ma per Craxi è molto più che una menzogna… E’ un gioco al massacro ben orchestrato e condotto con grande cinismo, disinvoltura e violenza non contro degenerazioni che ci sono state, ma contro buona parte del mondo politico, del sistema dei partiti e del Partito socialista in particolare… Occorre ormai che di fronte al Paese tutte le cose siano messe in chiaro… è urgente e necessario che si dia vita ad una inchiesta parlamentare che, con serietà e obiettività, si impegni a fare luce sui finanziamenti politici degli ultimi dieci, vent’anni. La risposta del procuratore capo di Milano, Borrelli, non si fa attendere… Il Parlamento è sovrano, può avviare tutte le inchieste che ritiene opportune, ma c’è il pericolo di andare molto avanti nel tempo e di creare un polverone. Il 29 gennaio, il pool di Mani Pulite emette una nuova serie di ‘avvisi’ e arresti: 6 informazioni di garanzia per altrettanti deputati, 14 ordini di custodia cautelare, sette dei quali eseguiti, e la visita dei carabinieri nella sede amministrativa del PSI. Dei 20 ‘provvedimenti’, 17 riguardano esponenti socialisti, 3 sono democristiani. Per Craxi è il terzo avviso, il secondo per De Michelis e il settimo o l’ottavo, ormai si comincia a perdere il conto, è per Severino Citaristi, per lunghi anni segretario amministrativo della DC. Nell’editoriale di domenica 31 gennaio, il Direttore della Gazzetta, scrive: Siamo fra quelli che non credono al ‘complotto’ dei magistrati contro il sistema dei partiti… ma l’idea che, alla fine esista non un complotto, ma un disegno, comincia a farsi strada… Siamo fra quelli che credono che la chiave di una soluzione innovatrice e rassicurante è nelle mani del Parlamento dal quale, purtroppo, escono invece segnali sconfortanti… la salvezza del sistema democratico sta proprio e soltanto nell’introduzione di innovazioni atte ad assicurare una migliore selezione delle rappresentanze politiche nel Parlamento e ne-

gli organi di governo delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni. Invece, queste articolazioni dello Stato, questi organi di autogoverno delle comunità locali continuano imperterriti – nella generalità dei casi – a produrre disavanzi economici ingiustificabili, a consentire spartizioni e lottizzazioni inammissibili, ad approfondire il distacco della gente dalle istituzioni e ad ignorare le esigenze che sono alla base della loro stessa ragion d’essere. Il riferimento alle ‘comunità locali’ non è casuale. Il 29 gennaio, il Consiglio comunale di Bari ha varato, con grande difficoltà, la sua terza Giunta in 30 mesi e dalle elezioni amministrative del maggio 1990, la Regione, le Provincie, le città pugliesi vivono in tale stato di incertezza e confusione politica, di inerzia amministrativa, da fermare ogni forma di attività con il conseguente aggravarsi di problemi antichi e nuovi, senza parlare dello spreco di denaro e delle migliaia di miliardi di contributi comunitari persi a causa dei loro ritardi e delle loro inadempienze. Anche la Regione Puglia ha già collezionato tre crisi e viaggia, come vedremo, per la quarta e la quinta prima che finisca la legislatura. Stessa musica al Comune di Bari, cinque crisi in cinque anni di amministrazione. Sono, invece, già cinque le crisi al Comune di Brindisi e altrettante alla Provincia; quattro ai Comuni di Lecce e Foggia; cinque a Taranto, il cui Consiglio è sciolto, reintegrato dal TAR e, dopo due mesi, di nuovo sciolto. Ci sono crisi che si trascinano per sette, otto mesi; Sindaci e Presidenti di Regione che sono rimasti in carica lo spazio di un mattino e, ancora, Sindaci e Presidenti di Province che succedono a se stessi per tre, quattro volte di seguito. Naturalmente, ci pare superfluo sottolineare – scrive Gorjux – che i lunghi periodi di non governo per risolvere le crisi, sono alla lunga più dannosi dello stesso malgoverno. Quando finalmente, sotto la spinta referendaria dei ‘pattisti’ di Mario Segni, il Parlamento vara le leggi per l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Province, è troppo 209


Robert Price Stewart Granger

Scomparsi nel 1993 Il primo ad andarsene, il 6 gennaio insieme a Rudolf Nureyev, è Dizzy Gillespie, padre del jazz moderno; il 20 si spegne l’indimenticabile Audrey Hepburn protagonista di ‘Vacanze romane’, ‘Sabrina’ e dello spettacolare musical ‘My fair lady’ insieme ad un eccezionale Rex Harrison. Il 18 agosto muore l’elegante Stewart Granger, celebre ‘Scaramouche’ cinematografico e, il 12 settembre, una celebrità della Tv: Raymond Burr, il noto avvocato Perry Mason. Il mese dopo, il 25 ottobre, scompare Vincent Price, celebre maschera di tanti film dell’orrore e il 5 dicembre, infine, un altro grande musicista, lo straordinario chitarrista Frank Zappa, una leggenda del rock. Audrey Hepburn

Raymond Burr

Dizzy Gillespie

Frank Zappa


tardi: Mani Pulite ha già spazzato via dal panorama politico nazionale socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e una buona parte dei democristiani. Con il dissolversi dei partiti di centro, le Giunte comunali e provinciali cadono a grappoli e, tuttavia, tranne le più disastrate, pochissime rinunciano a ricomporsi, con maggioranze che non avrebbero mai pensato di costruire in passato, pur di arrivare alla fine del loro mandato… pur di arraffare fino all’ultimo suppellettile, diranno poco generosamente PDS e Rifondazione che, quando non riescono a determinare lo scioglimento dei Consigli comunali sgraditi, non disdegnano di allearsi con la DC e, in qualche caso, con il MSI. Sono gli ultimi, patetici tentativi di salvare il salvabile da quello che si profila come la definitiva cancellazione di partiti e maggioranze tradizionali. Infatti, all’approssimarsi del primo, grande test elettorale amministrativo di giugno, il panorama politico che si presenta agli elettori è desolante: i tradizionali partiti di centro sono ridotti a mere rappresentanze di scarso credito, quando non addirittura assenti. All’inizio di febbraio, intanto, il pool di Mani Pulite scatena una nuova offensiva. Il 2 si dimette il sindaco di Roma Franco Carraro coinvolto nell’inchiesta sugli appalti ANAS e nella compravendita di immobili del Comune. Carraro sarà rieletto per la terza volta, tornerà a dimettersi e a sciogliere il Consiglio della Capitale. Lo stesso giorno, il 2 febbraio, le Fiamme Gialle prima visitano la sede dell’Avanti!, l’organo ufficiale del PSI, e poi tentano di perquisire gli uffici dello stesso partito a Montecitorio. Cercano i bilanci del partito, ma gli uomini della Finanza dovranno arrestarsi di fronte alla ferma opposizione del presidente della Camera, Giorgio Napolitano, che anzi chiede e ottiene le scuse del procuratore capo di Milano, Francesco Borrelli. Il 3 febbraio Craxi riceve il quarto avviso di garanzia: l’ex consigliere di amministrazione dell’ENEL, Valerio Bitetto, afferma di aver versato ‘mazzette’ per 7 miliardi su un conto

del PSI a Singapore; il 7 febbraio l’architetto Silvano Larini, il ‘cassiere’ del PSI latitante da otto mesi, si consegna spontaneamente al procuratore Di Pietro e il 10 febbraio il PSI e Craxi subiscono il colpo di grazia: Larini conferma il coinvolgimento di Claudio Martelli nel ‘conto protezione’ e, peggio ancora, racconta la storia dei lavori senza fine alla metropolitana milanese: A partire dal 1987 e fino al 1991 ho ricevuto da Maurizio Prada e da Luigi Carnevale – personaggi di cui si è già parlato ampiamente nel 1992 – circa sette, otto miliardi complessivamente e ogni volta li ho portati direttamente negli uffici di Craxi a Milano. E ancora: DC, PSI e PCI-PDS prendevano tre quote uguali di tangenti, mentre quote minori prendevano PRI e PSDI… io avevo solo un ruolo di ‘fattorino’. La confessione di Larini è devastante: Claudio Martelli si dimette da ministro della Giustizia e dal PSI; Craxi riceve altri due avvisi di garanzia, vacilla il Governo Amato, precipita la crisi socialista, mentre Severino Citaristi lascia la segreteria amministrativa della DC. Accuse, avvisi e arresti scattano in altre regioni; nuovamente decimata la Giunta milanese di Piero Borghini che sei giorni dopo si dimette… una giornata da fine dell’impero – scrive Giuseppe De Tomaso sulla Gazzetta l’11 febbraio – una giornata tragica, convulsa, incerta, confusa, allarmante… da ieri, il ruolo di Scalfaro è ancora più rilevante. E’ lui l’unico punto di riferimento del Paese. Ma il dramma del PSI non è ancora finito. Nelle stesse ore in cui la stampa nazionale registra una fra le più drammatiche giornate nella storia della Repubblica, Bettino Craxi mette a disposizione dell’Assemblea nazionale socialista, il proprio mandato: Ieri è finito il mito di Craxi – commenta ancora De Tomaso il 12 febbraio – dopo sedici anni e mezzo di incontrastato dominio, Craxi ha gettato la spugna. Ma il travaglio socialista continua… si è aperta la gara al suo successore con veti, controveti, ripicche e vendette. Sembra che i dignitari del Garofano - è il simbolo del PSI – 211


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non si rendano conto di quanto sta accadendo, né dei pericoli che le loro lacerazioni possono produrre nel Paese. Lo stesso giorno Gorjux scrive: Sì, c’è da cominciare ad essere sconcertati; ormai il polverone si solleva da tutte le parti. E non si capisce più se a sollevare il bailamme sia la sorpresa per i fatti emergenti, oppure la volontà di chi ha interesse ad avvolgere l’ignominia di Tangentopoli in una nuvola di incertezze e di sospetto che, alla fine, tutti ci accecherebbe ed a tutti, infine, consentirebbe di ‘chiamarsi fuori’… gli strali finora viaggiano tutti, o quasi, contro Craxi, ma non mancano voci di altri coinvolgimenti eccellenti… comunque stiano davvero le cose, – conclude Gorjux – comunque possano essere state enfatizzate o esagerate le responsabilità di questo o di quello, quali che possano essere gli ulteriori sviluppi delle vicende giudiziarie, quale che possa essere stato l’uso infamante ed improprio delle informazioni di garanzia, l’attuale apparato politico-istituzionale è stato oggettivamente delegittimato dalla bufera di Tangentopoli. E continua ad essere delegittimato tanto da allarmare lo stesso Di Pietro. Il 12 febbraio, mentre l’Assemblea nazionale del PSI elegge il nuovo Segretario, l’ex sindacalista della UIL Giorgio Benvenuto, il simbolo di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, divenuto ormai popolare quasi quanto Pippo Baudo per la sua consueta apparizione nei Tg di tutte le ore e di tutte le reti, è preso dallo scoramento: Non se ne può più… fra gli inquisiti ci sono persone per bene, che hanno agito ritenendosi in buona fede nel quadro di una prassi consolidata. Occorre trovare una soluzione. Definire nuove regole di comportamento e queste non possono che trovarle i politici. Cioè, il Parlamento. Dopotutto, è lo stesso appello di Craxi… che sia il Parlamento a fare luce sui finanziamenti politici. Lo ‘sfogo’ di Di Pietro è, naturalmente, accolto con cautela dalla maggioranza e con 212 scetticismo dal PDS: Trovo un tantino penoso

tutto questo mondo politico che si inginocchia a Di Pietro – commenta D’Alema – egli non può diventare un punto di riferimento politico per il Paese. Se lui come libero cittadino afferma che ci vogliono le riforme, è giusto. Ma come magistrato no, perché se scatta l’idea che si fanno le inchieste giudiziarie perché si vogliono le riforme, si crea una confusione che non finisce più. Scrive invece Gorjux: A noi pare che nelle attuali condizioni qualunque ‘soluzione’ sia difficilmente proponibile, difficilmente comprensibile da parte di un’opinione pubblica invelenita ed esasperata. Continuiamo a non capire perché Senato, Camera e partiti non debbano trovare il poco buon senso necessario a comprendere che da Tangentopoli e dintorni non si esce con ‘questo’ Parlamento, un Parlamento che – anche nei suoi uomini più integri e migliori – appare agli occhi della gente come espressione di un sistema che ci ha portato allo sfascio.

Le tangenti del secolo I più, però, si chiedono: perché Di Pietro si è lasciato andare a quello ‘sfogo’? Quali altre ‘bombe’ ha in tasca per sollecitare i politici a disinnescarle? Essenzialmente due: l’inchiesta sulle tangenti Enimont – che presto diventerà ‘la madre di tutte le tangenti’ – e quella sulla Sanità. Entrambe, per ora, in incubazione. Gabriele Cagliari, presidente dell’ENI, riceve un avviso di garanzia il 12 febbraio; Raul Gardini, ex presidente della Montedison, il 26 febbraio. Il ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, invece, ne aveva ricevuto uno il 29 ottobre dell’anno prima, ma per ‘voto di scambio’. Nulla si sapeva ancora dei suoi ‘traffici’ alla Sanità con Duilio Poggiolini. Per tutto il mese di febbraio, prima di ricevere le comunicazioni giudiziarie, Cagliari e Gardini escono ed entrano dall’ufficio di Di Pietro soltanto come ‘persone informate dei fatti’. Così, a posteriori, non è difficile presumere che siano queste le inchieste bomba che Di Pietro ha in tasca al momento del suo ‘sfo-


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go’: egli sapeva già quali altri virulenti focolai infettivi stavano per esplodere nell’economia pubblica e privata e nella Sanità del Paese. Per essere il mese più corto dell’anno, questo febbraio ’93 è lungo, lunghissimo. Ancora il 12, la Procura di Roma chiede il rinvio a giudizio per diversi inquisiti implicati nello scandalo per la ristrutturazione dello stadio Olimpico di Roma. Tra questi, Franco Nobili, presidente dell’IRI; Arrigo Gattai, presidente del CONI, e Franco Carraro, sindaco di Roma. Il 13, la Procura di Foggia chiama in causa l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino per l’inchiesta sui ‘nastri d’oro’ di Manfredonia. Il 17 è arrestata Vincenza Tommaselli, da trent’anni segretaria personale di Bettino Craxi; il 18 scompare misteriosamente Sergio Castellari, direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, ritrovato morto, una settimana dopo, con un colpo di pistola alla testa. Castellari era accusato di aver sottratto un pacco di documenti riservati dal Ministero e, ancora oggi, non si sa se si trattò di suicidio o di omicidio. Il 19 si dimettono il ministro della Sanità Francesco De Lorenzo e il ministro delle Finanze, Giovanni Goria… non sono destinatario di alcun avviso di garanzia – protesta Goria che lo riceverà una settimana dopo – ma non posso accettare voci, accuse ingiuste, non fondate e nemmeno argomentate sul mio conto. A Francesco De Lorenzo, invece, è stato arrestato il padre, Ferruccio: ha 89 anni e gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. Ex sottosegretario alla Sanità e attuale Presidente dell’Ente di assistenza dei medici, Ferruccio De Lorenzo è accusato di aver intascato un miliardo e 700 milioni di ‘compensi’ da imprenditori e titolari di società immobiliari per la compravendita, per conto dell’Ente che rappresenta, di diversi immobili a Roma e Napoli. Ma non è la prima volta che il padre del Ministro è oggetto dell’attenzione della Magistratura. Il 14 novembre del 1975, l’allora deputato Ferruccio De Lorenzo e tal Duilio Poggiolini, all’epoca semplice funzionario del Mi214 nistero della Sanità, furono accusati di viola-

zione delle norme in materia di produzione e commercio dei farmaci, interesse privato e omissione di atti d’ufficio. Per dirla con il linguaggio odierno, l’accoppiata De LorenzoPoggiolini faceva carte false per favorire – o in alcuni casi non ostacolare – l’autorizzazione alla vendita di taluni medicinali al fine di intascare tangenti. Non basta. Come spesso accade, certi personaggi fanno carriera: così Poggiolini diventa direttore generale del Ministero della Sanità e quando si ritrova al fianco il figlio del suo amico Ferruccio, entra con lui… in simbiosi: insieme organizzeranno, come vedremo più avanti, il più odioso traffico di ‘mazzette’ nella storia della Sanità pubblica. Il 25 febbraio, Giorgio La Malfa, segretario del PRI, si dimette. Anch’egli, che ha sempre sostenuto di essere il leader di un ‘partito degli onesti’, ha ricevuto un avviso di garanzia. Cade, dopo Craxi, un Segretario di partito ritenuto al di sopra di ogni sospetto… non si salva più nessuno – scrive De Tomaso – è un massacro. Il 26 febbraio, il Capo dello Stato, riferendosi al finanziamento illecito dei partiti, suggerisce una soluzione: Penso che i punti fondamentali per un politico che esce dal binario delle sue responsabilità – sostiene Scalfaro – siano due: fare in modo che restituisca ciò che ha avuto non secondo i canoni prescritti e fare in modo che non possa ricandidarsi. Ma sia chiaro: niente ‘colpi di spugna’. E’ finita? Non ancora. Il 27, mentre Pippo Baudo chiude il 43° Festival di Sanremo – vinto da Enrico Ruggeri con un motivetto quasi allusivo, ‘Mistero’ – Lorenzo Panzavolta, presidente della Calcestruzzi - una grande società di costruzioni del gruppo Ferruzzi guidato da Raul Gardini - dichiara ai giudici di Mani Pulite di aver versato, nel 1990, 621 milioni su una banca svizzera quale prima rata della tangente di un miliardo e duecento milioni destinati al PCI-PDS… la seconda rata – dirà in seguito Panzavolta – è stata versata nel 1992… quando cioè Gardini era già stato estromesso dalla Ferruzzi.


Una bomba. Achille Occhetto insorge e quando il Corriere della Sera rivela che l’intestatario del conto svizzero sarebbe Primo Greganti, dirigente amministrativo del PCI fino al 1990, il PDS querela il quotidiano milanese. Ma sarà Greganti a togliere le castagne dal fuoco ai suoi compagni… il conto è mio, i soldi pure e il partito non c’entra… quei versamenti sono il frutto di una mia consulenza in Cina per la Calcestruzzi… e nemmeno tre mesi di soggiorno a San Vittore lo indurranno a cambiare versione. Con l’arresto di Greganti e soprattutto dopo che Giuseppe D’Urso, componente della segreteria amministrativa del PSI, chiama in causa l’ingegnere Carlo De Benedetti - presidente della Olivetti, nonché azionista di maggioranza del gruppo ‘Espresso-Repubblica’ – lo scenario cambia. D’Urso sostiene che… anche lui, l’ingegnere De Benedetti, ha pagato tangenti per ottenere tutele e commesse di sistemi informatici nella Pubblica Amministrazione. Ora anche il PDS grida al ‘complotto’. Finché gli inquisiti erano tutti esponenti della maggioranza, il PDS non ha mai accettato l’idea di un ‘complotto’ della Magistratura. Ma quando il pool di Mani Pulite sembra accanirsi con Greganti, quando viene messo sotto pressione il segretario amministrativo del PDS, Marcello Stefanini, e quando infine si comincia a indagare sul coinvolgimento delle ‘cooperative rosse’ negli appalti pubblici, anche Occhetto e D’Alema cominciano a gridare al ‘complotto’. Anzi, D’Alema si spinge anche oltre… Se arrivasse un avviso di garanzia a un dirigente del PDS per questa faccenda di Greganti, allora vorrebbe dire che siamo al colpo di Stato. Bastano comunque l’arresto di Greganti e le indiscrezioni su De Benedetti – in seguito confermate dallo stesso Ingegnere – per non lasciare indifferente Occhetto all’appello di Di Pietro e Scalfaro per una ‘soluzione politica’ del più comune fra i reati emersi durante la tempesta di Mani Pulite: il finanziamento illecito dei partiti. Bisogna trovare una soluzione

giusta, con norme ben definite, sostiene la sinistra, ora preoccupata che il turbine di Tangentopoli possa, alla fine, sfociare in una ‘svolta a destra’. Incoraggiato o meno dalle dichiarazioni di Di Pietro e Scalfaro, il 5 marzo il nuovo ministro della Giustizia, Giovanni Conso, presenta all’approvazione del Consiglio dei ministri, tre decreti e quattro disegni di legge. I decreti, che com’è noto entrano in vigore subito dopo la firma del Capo dello Stato e cessano di validità se non trasformati in legge entro 60 giorni, riguardano: il ripristino dei contratti di appalto alle imprese coinvolte in Tangentopoli, fatte salve le responsabilità penali e civili degli imprenditori inquisiti; l’abrogazione del reato penale di finanziamento illecito ai partiti e l’istituto del patteggiamento: gli inquisiti che ammettono le responsabilità contestate e restituiscono le mazzette, potranno contrattare la pena ed ottenere la sospensione… non è un colpo di spugna – dichiara Conso ai giornalisti – si tratta di misure che accogliendo quel che i magistrati chiedono da tempo, semplificano i riti processuali per arrivare prima alle sentenze. E’ una svolta radicale. Per chi non ha capito, la depenalizzazione non abroga l’illecito ma lo trasforma da penale in amministrativo con sanzioni immediate. Domenica 7 marzo Gorjux commenta: Premesso che i provvedimenti assunti non sono il peggio che si potesse immaginare, abbiamo due dubbi: uno sulla loro credibilità e sulla effettiva efficacia ai fini di un taglio netto con il passato; l’altro è, soprattutto, sulla loro capacità di placare l’indignazione della gente esasperata dalla pesantezza della recessione economica. Nessun dubbio invece per il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli che la stessa domenica convoca nel suo studio al Palazzo di Giustizia, giornalisti e Tv per leggere un documento firmato da tutti i magistrati del pool milanese: Abbiamo appreso dalla stampa i contenuti dei provvedimenti adottati dal Consiglio dei Ministri in tema di finanzia- 215


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La protesta di migliaia di milanesi contro il decreto ‘salva ladri’ del ministro della Giustizia Giovanni Conso.

mento dei partiti e di interventi per la cosiddetta ‘soluzione politica’. Abbiamo anche appreso che tali iniziative sarebbero state giustificate sulla base di nostre dichiarazioni. Come magistrati abbiamo il dovere inderogabile di eccepire la illegittimità incostituzionale. Non consentiamo a nessuno di presentare come da noi richieste, volute o approvate le iniziative in questione. Governo e Parlamento sono sovrani, ma ci auguriamo che ciascuno si assuma davanti al Popolo italiano le responsabilità politiche e morali delle proprie scelte senza farsi scudo del nostro operato o delle nostre opinioni. Per quanto poi queste nostre opinioni possano interessare – continua Borrelli – esse sono di natura, portata e significato esattamente opposti al senso dei provvedimenti adottati. Riteniamo infatti che il prevedibile risultato delle modifiche legislative approvate, sarà la totale paralisi delle 216 indagini e la impossibilità di accertare fatti e

responsabilità di chi li ha commessi. Maledetta domenica. Conso minaccia di dimettersi; il ministro dell’Ambiente, Carlo Ripa di Meana, che in Consiglio dei ministri si era astenuto, si dimette e, alle 21,30, il Quirinale informa che il Capo dello Stato ha rifiutato di firmare il decreto ‘salva-ladri’, come qualcuno lo ha definito, suggerendo di trasformarlo in disegno di legge… che sia il Parlamento a decidere. Il Governo Amato vacilla e, il lunedì successivo, si scatena l’iradiddio: migliaia di cittadini scendono spontaneamente nelle piazze di tutto il Paese a supporto del pool di ‘Mani Pulite’ e, all’opposto, l’intera classe politica protesta per l’incredibile presa di posizione della Procura milanese… il proclama letto ieri dal Procuratore Capo – commenta il socialista Gino Giugni – è un vero e proprio ‘pronunciamento’. E’ la prima volta nella storia d’Italia che un magistrato critica il Governo, ignoran-


do e calpestando la separazione dei poteri. Il senatore del PDS Gerardo Chiaromonte afferma a sua volta: No, signor Procuratore, lei non può e non deve enunciare pareri sulla cosiddetta soluzione politica. E ancora: Se la Giustizia giudica un sistema, allora rischia il deragliamento, sostiene il segretario della DC, Mino Martinazzoli, mentre il presidente del Senato, Giovanni Spadolini, sbotta… c’è un limite a tutto, anche al potere giudiziario. Perfino Marco Pannella dirà: E’ un proclama giacobino, non degno di un magistrato. E’ un arbitrio. Per otto mesi ho sostenuto Di Pietro, ma adesso passo all’opposizione. Per Achille Occhetto la soluzione è facile… Amato se ne deve andare… il suo Governo diventa sempre più pericoloso per la sua insipienza… il colpo dato alle istituzioni con la proposta del decreto è incommensurabile. Amato, invece, prima ritira il decreto sul ‘colpo di spugna’ poi, chiede e ottiene la fiducia. Ancora una volta, il suo Governo è salvo. Ma il pool milanese non era poi così ‘unito’ come ha voluto far credere Borrelli perché il 10 giugno Di Pietro, parlando anche a nome dei colleghi Davigo e Colombo, torna a sollecitare la ‘soluzione politica’ invocando misure che assicurino… rapidi e giusti processi, senza amnistie, senza condoni e colpi di spugna variamente ammantati. Ma questa volta nessuno accoglie l’appello e… la ‘rivoluzione’ continua – scrive De Tomaso – l’Italia campeggia sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Ogni giorno un colpo di scena, uno choc, una picconata. Eppure, nonostante il clamore che il ricco notiziario di Tangentopoli suscita nell’opinione pubblica, l’industria della carta stampata, i quotidiani in particolare, sono in crisi. In crisi di lettori e, quel ch’è peggio, in crisi di inserzionisti pubblicitari. Il mercato della pubblicità – che com’è noto rappresenta, per la carta stampata, una fonte di ricavo importante almeno quanto quella delle vendite – cominciava a dare segni di stanchezza già nel 1991: il deludente esito delle vendite durante la guerra del Golfo

era stato letto come un segnale d’allarme dagli inserzionisti che per il ‘92 riducono il loro messaggio pubblicitario anche per le conseguenze di Tangentopoli sull’economia nazionale. Il mercato pubblicitario è poi letteralmente crollato quest’anno per la concorrenza, non sempre corretta, delle Tv private, a caccia di fondi per pagare i costi delle redazioni giornalistiche imposte dalla legge Mammì. Inoltre, con la liberalizzazione del costo-copia, sono finiti i contributi dello Stato all’Editoria; sono cessati gli sgravi fiscali e contributivi alle imprese, anche quelle editoriali del Mezzogiorno; sono finite le agevolazioni per l’introduzione delle nuove tecnologie; sono state ridotte le agevolazioni postali; è stata introdotta l’IVA sulle copie vendute e, soprattutto, da quest’anno, finisce la consuetudine, fra le aziende concessionarie di pubblicità e la carta stampata, di concordare in anticipo un ‘minimo garantito’ che consente alle aziende editoriali di programmare il proprio futuro. A peggiorare le cose, la nuova legge elettorale amministrativa sancisce il divieto di ogni forma di propaganda, su stampa e Tv, nel periodo della campagna elettorale… causa di corruzione e di spaventosa lievitazione dei costi delle spese elettorali, afferma il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, nel commentare la nuova legge. Va bene – scrive De Tomaso sulla Gazzetta – bisogna moralizzare, ridurre le spese. Ma siamo sicuri che la medicina proposta rappresenti un buon rimedio? Non si rivelerà, piuttosto, una soluzione peggiore del male? Ma è Lino Patruno, il 5 aprile, a suggerire un’interpretazione più veritiera del divieto: Diciamolo francamente: è una vendetta. Fallito il tentativo di mettere in manette i giornalisti rei di violazione di quel segreto di Pulcinella che è il segreto istruttorio – che si viola solo se a violarlo prima è un magistrato – inviperiti contro i giornali, senza i quali il grande furto di Tangentopoli non sarebbe esploso neanche in Tv, Lorsignori sembrano volerla far pagare alla stampa. A cominciare dall’ossigeno di quell’essenziale fonte di ricavo che è la pubblicità. 217


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Il 27 agosto infatti, il Garante per l’editoria autorizza le aziende concessionarie di pubblicità a sospendere da subito la formula contrattuale del ‘minimo garantito’. Ma per la Gazzetta e per altre 43 testate, fra quotidiani e periodici che si avvalgono della SPI – Società per la pubblicità in Italia – per la raccolta della loro pubblicità, il dramma è all’epilogo. Fra il ’91 e il ’92 la SPI – che non ha fatto sforzo alcuno per ammodernare le proprie strutture e la propria ‘cultura’ commerciale – ha accumulato un deficit di 58 miliardi e, prima che si pronunci il Garante, ha già informato le sue associate che per il ’93 non sarà in grado di assicurare il ‘minimo garantito’. Per la Gazzetta è un colpo che si traduce in una perdita secca di miliardi, il 25% degli introiti medi pubblicitari dell’anno. Il calo della pubblicità è un dato comune a tutta la stampa nazionale e l’aumento del costo copia – da 1.200 a 1.300 lire dal 28 giugno – non farà che peggiorare i bilanci delle aziende poiché i quotidiani perderanno altri lettori. I giornali italiani – si legge in una nota della Federazione degli Editori del 9 luglio – sono oggi stretti fra una posizione corporativa dei giornalai, un sistema televisivo al quale una legge ingiusta – la legge Mammì, approvata nell’agosto del 1990 – garantisce un’enorme capacità di drenaggio pubblicitario e un atteggiamento di indifferenza del potere politico… in questa situazione occorre un impegno concorde di tutte le componenti se si vuole impedire che l’intero settore sprofondi in una crisi irreversibile. Non ci sarà alcun ‘impegno concorde’. Gli Editori faranno da soli e, per salvare le loro aziende, faranno l’unica cosa possibile: si caricheranno di debiti, investiranno sempre più in nuove tecnologie e tra il ’95 e ’96 espelleranno – mediante pensionamenti e prepensionamenti – centinaia di giornalisti e migliaia di addetti ai servizi tecnici e amministrativi. Quanto al sistema televisivo, pur essendo vero il ricorso a sistemi pirateschi per acca218 parrarsi pubblicità, specie da parte delle emit-

tenti private, non gode certo di buona salute, anzi. La Fininvest, la società di gestione delle reti di Silvio Berlusconi, denuncia un deficit abissale – si parla di un ‘buco’ di 5mila miliardi – motivo non secondario della ‘discesa in campo’ dello stesso Berlusconi nel ‘circo’ politico. La RAI, invece, è in pieno caos gestionale e finanziario. Oberata da un deficit di 300 miliardi, quest’anno è costretta a tagliare programmi, ridimensionare collaborazioni, consulenze e perfino a rinviare il pagamento delle tredicesime mensilità. Ma le cose cominciano a cambiare. Sotto la pressante richiesta dell’opinione pubblica per le riforme, il 25 giugno il Senato vara definitivamente la riforma della RAI. L’intento del legislatore è quello di sottrarre l’informazione di Stato alla lottizzazione partitica. Come? Togliendo alla Commissione parlamentare di vigilanza la competenza nella nomina dei 16 componenti il Consiglio di Amministrazione della RAI. La nuova legge non solo affida ai presidenti di Camera e Senato il compito di eleggere e vigilare sull’operato del Consiglio, ma riduce lo stesso a soli 5 membri. E’ un’altra ‘rivoluzione’ e il presidente, Claudio Demattè, non fa alcun mistero delle sue intenzioni… abbiamo due soli obiettivi: risanare e delottizzare. Il risanamento lo si realizza in tempi decisamente brevi; la delottizzazione è un miracolo ancora atteso. Nel giro di una anno infatti, i cinque ‘professori’ del nuovo Consiglio – termine non proprio elogiativo attribuito al nuovo vertice della RAI per sottolineare una provenienza che non ha nulla a che spartire con il mondo dell’informazione – riescono a ridimensionare sia il faraonico organico, che conta 14.600 dipendenti, sia il deficit dell’Azienda. Ciò anche per l’intervento della Magistratura romana che ha avviato diverse inchieste a carico di giornalisti e dirigenti per presunti rimborsi-spese gonfiati o addirittura falsi, per appalti non proprio limpidi riguardanti la realizzazione di programmi ‘esterni’ e per la costruzione del nuovo centro di ‘Saxa Rubra’.


Di Pietro superstar Ma torniamo a ‘Mani pulite’ che nel frattempo ha fatto del giudice Di Pietro una ‘star’ della Tv grazie all’esperto direttore della terza rete, Sandro Curzi, che ha trasformato un mediocre programma settimanale – Un giorno in Pretura – in uno show di prima serata interamente dedicato ai primi processi di Di Pietro su Tangentopoli. Un successo enorme che registra, ogni lunedì, ascolti di 7- 8 milioni di telespettatori. Il primo marzo, mentre a Milano arrestano Primo Greganti, ad Avellino finisce in cella Michele De Mita, fratello di Ciriaco, accusato, insieme ad altre 11 persone, di truffa, associazione per delinquere e emissione di fatture false per la costruzione di un impianto agroalimentare proprio nel paese dei De Mita, Nusco, con i soldi della legge per il terremoto dell’Irpinia del 1980. L’operazione che conduce in carcere Michele De Mita si chiama ‘cratere’ ed è soltanto un filone della più grande inchiesta su quell’ Irpiniagate che in dieci anni avrebbe dilapidato 60mila miliardi di contributi dello Stato per la ricostruzione dell’Irpinia dove, fino a tutto il 1992, quindicimila persone vivevano ancora nei prefabbricati. A Napoli molti vivono, da anni, addirittura negli alberghi. Naturalmente a spese dello Stato e degli enti pubblici. Secondo un Comitato di 37 sindaci dei Comuni terremotati, sarebbero 150mila le richieste false per la ricostruzione di immobili danneggiati dal terremoto. Il 2 marzo, Ciriaco De Mita si dimette da presidente della Commissione Bicamerale che, per inciso, a sei mesi dall’inizio dei lavori non ha potuto produrre una sola riforma… era già fallita – sostiene Gino Giugni – era un tavolo di poker dove tutti giocavano contro tutti… c’era una tale carica di diffidenza e disprezzo reciproco che disarmava anche i più volenterosi. Ma la scure giudiziaria – qui a ragione, qui a torto – continua a colpire. Il 3 marzo, il pool di Mani Pulite a Milano fa scattare le manette ai polsi di 14 persone per lo scandalo ANAS.

Di Pietro: io superstar? Ma che c’iazzecca!

Tra il 4, il 15 e il 26 marzo il Tribunale di Andria decapita l’amministrazione comunale della città pugliese e il vertice del prestigioso ospedale ‘Bonomo’. In cinque anni, assessori, consiglieri comunali, dirigenti politici, amministratori, funzionari USL, dirigenti di aziende e piccoli imprenditori avrebbero ricevuto e pagato tangenti per centinaia di milioni ‘contrattando’ su ogni sorta di appalto: dalle mense alle forniture ospedaliere, ai lavori di ristrutturazione dell’ospedale. Fra i 16 arrestati, 9 sono consiglieri comunali. Il 3 aprile, la Giunta di centro-sinistra guidata da Pina Marmo, la prima donna sindaco di Andria eletta appena un mese prima, si dimette. Il Consiglio comunale è sospeso, poi commissariato e infine sciolto. Il 6 marzo la Pretura di Verona invia cinque avvisi di garanzia ad altrettanti deputati per presunte tangenti per la costruzione di un colossale impianto di smaltimento di rifiuti; il 7 tocca al deputato democristiano andreottia- 219


Una finestra sulla storia - 1993

no Vittorio Sbardella, detto ‘lo squalo’; altri 4 arresti ‘eccellenti’ a Roma, l’8 marzo, per l’inchiesta sui ‘palazzi d’oro’, cioè per la compravendita di immobili proprietà di enti pubblici. Lo stesso giorno, a Pavia, sono arrestati cinque esponenti politici – 2 democristiani, 2 socialisti e un pidiessino – per presunte tangenti su un progetto di teleriscaldamento e il 9, mentre Amato ritira il decreto sul ‘colpo di spugna’ e la Giunta della Camera pronuncia il primo ‘sì’ all’inchiesta giudiziaria a carico di Bettino Craxi, a Milano arrestano il presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari, per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: Sì, nel 1989 ho autorizzato un versamento di 4 miliardi su un conto svizzero del PSI per ottenere dall’ENEL un appalto per il ‘Nuovo Pignone’. Cagliari ha il terrore del carcere, ma questa prima ammissione non gli eviterà di finire a San Vittore per la gravità dell’illecito. Il ‘Nuovo Pignone’ è una prestigiosa azienda che produce turbine e sofisticate apparecchiature per l’industria petrolifera. Passata sotto il controllo dell’ENI, proprio per la specificità della sua produzione, viene inserita nel circuito degli appalti pubblici dell’industria petrolifera ed energetica. Ecco dunque la gravità della confessione di Cagliari: per la prima volta il pool di ‘Mani Pulite’ si trova di fronte ad un pezzo di Stato, l’ENI, che paga tangenti per acquisire commesse di lavoro… da un altro pezzo di Stato, l’ENEL. Lo scandalo finirà per travolgere il ‘Nuovo Pignone’. L’azienda, venduta a dicembre di quest’anno all’americana General Elettric, subirà, tra il ’94 e il ’96, un selvaggio processo di ristrutturazione con un pesante ridimensionamento, fra l’altro, della sede di Bari che passerà dai suoi 1.200 dipendenti a meno di 500. Due giorni dopo, mentre a Montecitorio il dibattito sulla ‘questione morale’ si trascina fra pochi intimi – ci sono momenti, scrive il cronista parlamentare, in cui si contano non più di una dozzina di deputati – l’intero vertice del 220 gruppo ENI è decapitato: finiscono in carcere i

presidenti di AGIP, SAIPEM e SNAM. Lunedì 15 marzo. Altra giornata di passione. Le procure di Milano, Roma, Napoli e Reggio Calabria sfornano un’altra raffica di informazioni di garanzia. Sono coinvolti 14 deputati ed un ex senatore. Nomi nuovi e vecchi. Fra i nuovi, Antonio Cariglia, presidente del PSDI – che sarà chiamato in causa anche per i ‘nastri d’oro’ di Manfredonia insieme con Rino Formica – Renato Altissimo, segretario del PLI, e, a Napoli, Giulio Di Donato, Raffaele Mastrantuono e Alfredo Vito, accusati di aver preteso un miliardo e 300 milioni per l’appalto di privatizzazione della nettezza urbana nel capoluogo campano.

Si salvi chi può Il 16 la Camera s’infiamma. Durante la replica conclusiva del Presidente del Consiglio sulla ‘questione morale’, leghisti e missini si scatenano gridando ‘ladri, ladri, dimissioni’ e finiscono col mostrare ‘spugne’, ‘detergenti’ e perfino un grosso ‘cappio’ sfoggiato dal leghista Leone Orsenico. Renato Altissimo si dimette nella stessa giornata e con le sue dimissioni, il già piccolo PLI sparisce dalla geografia politica nazionale. Il 17 marzo è arrestato il già citato Michele Bellomo, ex presidente della Regione Puglia; il 18 la Procura di Roma ordina l’arresto del ben noto finanziere Giuseppe Ciarrapico e di Mauro Leone, figlio dell’ex Capo dello Stato, Giovanni. Quali presidente e vice presidente di una società finanziaria, Ciarrapico e Leone avrebbero organizzato una truffa ai danni dello Stato per 300 miliardi. Il 20 marzo l’on. Alfredo Vito – uno sconosciuto ‘peones’ democristiano che alle politiche del ’92 ha ottenuto, a Napoli, oltre centomila preferenze – vuota il sacco e giù nomi e cognomi di assessori comunali, deputati, imprese e partiti, compreso il PDS. Da solo, Vito, negli ultimi 5 anni avrebbe intascato ‘mazzette’ per oltre 10 miliardi. E’ un terremoto. Il sindaco di Napoli, Nello Polese, si dimette. Vito chiama in causa Anto-


nio Gava, Vincenzo Scotti e Paolo Cirino Pomicino che, come il prezzemolo, sembra essere presente in tutte le minestre ‘tangentizie’ che si rispettano. Pomicino subirà 32 processi ottenendo 31 assoluzioni e una sola condanna per finanziamento illecito dei partiti. Dopo aver messo nei guai metà della classe politica napoletana, Alfredo Vito compie il grande gesto: si dimette dalla DC e da deputato e lancia un appello: Invito tutti i parlamentari inquisiti a seguire il mio esempio: fatevi da parte, solo così si potrà procedere al vero rinnovamento dei partiti e della classe politica… ho fiducia nella Magistratura… Il ruolo dei magistrati è fondamentale ai fini del rinnovamento… essi hanno capito prima di noi politici il nuovo orientamento e le nuove esigenze della gente, specie delle nuove generazioni che chiedono un Paese meno ricco e forte, ma più giusto e onesto. Vito, insieme con Pomicino e De Lorenzo, è uno dei pochissimi deputati che, avvalendosi del ‘patteggiamento’, restituiranno allo Stato 5 miliardi ciascuno. Il 21 marzo, un’altra ‘maledetta domenica’. Il Governo Amato perde un altro ministro. Il senatore Gianni Fontana, titolare del dicastero di Agricoltura e Foreste, raggiunto da un ‘avviso’ per ricettazione spiccato dal Tribunale di Verona, si dimette. Il 22 altra ‘batosta’ al PLI – secondo avviso ad Altissimo e primo ad Egidio Sterpa – e al PRI: Antonio Del Pennino riceve la quarta ‘informazione di garanzia’ e Gerolamo Pellicano la prima. Avviso anche a Claudio Signorile, ex ministro dei Trasporti, per la vecchia storia delle ‘lenzuola d’oro’, uno scandalo che nell’82 vide coinvolto l’allora ministro e il suo segretario, Rocco Trane: avrebbero preteso tangenti per un appalto di 150 miliardi di lenzuola ‘usa e getta’ alle Ferrovie dello Stato. Sorpreso e infuriato Signorile ribadisce la sua innocenza e denuncia… la pericolosità di un clima giudiziario e politico nel quale qualsiasi cialtrone – l’accusatore Elio Graziano – può tentare di coinvolgere chiunque, senza nessuna prova, per aiutare se

stesso. Neppure un mese dopo, il 17 aprile, il Tribunale di Roma conclude il processo delle ‘lenzuola d’oro’. Rocco Trane è assolto; Elio Graziano è condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Il 23 marzo Tangentopoli torna in Puglia. A Cerignola finiscono in cella due ingegneri dell’Acquedotto Pugliese, il Capo dell’Ufficio Tecnico del Comune e un imprenditore per ‘concorso in abuso innominato a sfondo patrimoniale’: avrebbero preso e pagato tangenti per la costruzione di un depuratore che, appaltato vent’anni prima per 735 milioni, ha già raggiunto il costo di 5 miliardi e 400 milioni senza che l’opera sia stata neppure completata. E come ad Andria, il rituale si ripete: crisi, dimissioni della Giunta e Consiglio comunale sciolto. Da Cerignola a Vieste: sette avvisi di garanzia per l’appalto di una discarica. Sono coinvolti ingegneri, amministratori, progettisti, direttore dei lavori e imprenditori. Questi ultimi avrebbero pagato, per un’opera da 10 miliardi appena appaltata, tangenti per 500 milioni. E, da non credere, l’impresa che si è aggiudicato l’appalto, è la stessa azienda milanese che ha realizzato i ‘nastri d’oro’ a Manfredonia. Il 26 marzo nuovo ‘terremoto’ a Napoli: 18 informazioni di garanzia per altrettanti deputati coinvolti nelle inchieste sulla ricostruzione dell’Irpinia, ancora sull’appalto della nettezza urbana e sui lavori per i mondiali di calcio del ’90. Il già dimissionario sindaco di Napoli, il socialista Nello Polese, è arrestato. Il 3 aprile, il Consiglio comunale, nel tentativo di evitare il commissariamento, elegge sindaco il prof. Francesco Tagliamonte, democristiano, economista ed esperto regionalista. Ma c’è poco da fare. Dopo una breve esperienza e in seguito ad una nuova spallata della Magistratura napoletana, il 19 luglio il professore – che non è coinvolto in alcuna inchiesta – e la Giunta partenopea si dimettono. Il Consiglio sarà poi sciolto. Il 27 marzo, infine, una notizia clamorosa, forse la più clamorosa per il devastante effetto 221


morale che produce nella DC: il senatore a vita Giulio Andreotti annuncia, personalmente, di aver ricevuto dalla Procura di Palermo un’informazione di garanzia relativa… all’apertura di un’indagine nei miei confronti per attività mafiose. La notizia mi amareggia profondamente – dice Andreotti – ma non mi sorprende. Il mio impegno personale e di Governo contro la mafia è notorio… dovevo attendermi la loro vendetta e, in un certo senso, meglio così che con un colpo di lupara. Andreotti è stato chiamato in causa da sei pentiti mafiosi; lo stesso giorno, Antonio Gava, capogruppo dei senatori DC, è messo nei guai da un camorrista ‘pentito’ e si dimette dal suo incarico. Poco più di due mesi dopo, un’altra terribile accusa si abbatte sulle spalle già curve del sette volte Presidente del Consiglio. Il 9 giugno, la Procura della Repubblica di Roma accusa Andreotti di essere il mandante dell’assassinio di Mino Pecorelli, direttore-proprietario di un settimanale – OP – specializzato in scandali politici, ucciso a Roma il 20 marzo del 1979 da killer rimasti ignoti. E’ una ‘rivoluzione’ che investe perfino il vertice della stessa Magistratura: il 29 marzo la Procura di Palermo iscrive nel registro degli indagati l’ex presidente della Prima sezione 222 penale della Cassazione, Corrado Carnevale,

il giudice ‘ammazzasentenze’ – più volte citato nella cronaca degli anni ’91 e ’92 – e già ‘sospeso’ dalla Cassazione dall’ex ministro Claudio Martelli. L’ipotesi di reato della Procura di Palermo per Carnevale come per Andreotti è: ‘concorso esterno in associazione mafiosa’. Con l’avviso a Carnevale, si ‘chiude’ un teorema suggerito dai pentiti mafiosi, condiviso dai magistrati palermitani e ancora tutto da dimostrare: i pentiti sostengono che al fine di ottenere una sostanziale riduzione delle condanne di primo grado o l’annullamento dei processi di mafia da parte della Cassazione, Cosa Nostra si sarebbe ‘servita’ dell’eurodeputato Salvo Lima – ucciso lo scorso anno – potente capo della corrente di Andreotti in Sicilia e ‘noto’ referente politico della mafia con i centri decisionali nazionali e locali. Lima sarebbe stato una cerniera ideale fra la mafia e Andreotti che sarebbe più volte intervenuto su Corrado Carnevale in favore della mafia stessa… grazie ad Andreotti – affermano i pentiti – Carnevale annullava le sentenze contro i boss mafiosi. Ecco, in sintesi, il teorema enunciato dai pentiti mafiosi: quando, fra il ’90 e ’91, la mafia si fece troppo arrogante e Andreotti fu ‘costretto’ a decretare una serie di provvedimenti restrittivi contro i mafiosi, Salvo Lima non fu più in grado di garantire sentenze d’ap-


pello più miti per gli affiliati di Cosa Nostra e la Cupola, ritenendo che fosse divenuto un pericolo per l’organizzazione malavitosa, ordinò di eliminarlo. L’avviso ad Andreotti è devastante. Un uragano avrebbe fatto meno danni all’immagine del Paese e della Democrazia Cristiana… qualcosa di oscuro, di troppo oscuro, copre ormai i cieli italiani – commenta Gorjux il 28 marzo – il domani è sempre più incerto… c’è quasi da aver paura di quanto potrà apparire al momento in cui tornerà la luce… la Prima Repubblica è al capolinea nel peggiore dei modi? La Prima Repubblica non ancora, ma il Governo Amato sì. Il 30 marzo l’Esecutivo perde un altro ministro: il socialista Franco Reviglio, titolare del Dicastero delle Finanze, raggiunto da un ‘avviso’ per l’inchiesta sull’ENI, si dimette; Mario Segni abbandona polemicamente la DC… non c’è più speranza di riformare questo partito… s’è trasformato in un apparato dominato da uomini che hanno aperto le porte della Repubblica ai corrotti e ai mafiosi… e Carlo Vizzini, segretario del partito fondato da Giuseppe Saragat, lascia e praticamente scioglie il PSDI… non vi sono più fondi per pagare gli stipendi, il fitto dei locali, le bollette del telefono. Scrive Gorjux: E’ inutile ricorrere a giri di parole. Un’intera classe politica, composta di più generazioni, è spazzata via dal turbine giudiziario. Tutto sta cambiando e nulla sarà più come prima. Se anche tutti gli inquisiti di questi giorni uscissero puliti e indenni dalle drammatiche vicende di cui sono protagonisti, l’opinione pubblica non li accetterebbe più. Giusto o ingiusto, è così. La storia, spesso, si muove su spinte non razionali sulla base di ‘teoremi’ non dimostrati. E che quello di Andreotti, per esempio, fosse un ‘teorema’ che né la Magistratura di Palermo, né tanto meno quella di Perugia riusciranno a dimostrare, è ormai storia. Processato per ‘associazione mafiosa’ dal Tribunale di Palermo e quale ‘mandante dell’omicidio di

Mino Pecorelli’ dal Tribunale di Perugia, dieci anni dopo Giulio Andreotti sarà scagionato da tutte le accuse. Assolto dal Tribunale di Perugia – ‘per non aver commesso il fatto’ – il 24 settembre del 1999; condannato a 24 anni di reclusione nella sentenza di Appello del 17 novembre del 2002 e, infine, definitivamente assolto dalla Cassazione il 30 ottobre del 2003. Assolto, in primo grado, dal Tribunale di Palermo il 23 ottobre del 1999 e assolto, in Appello, il 2 maggio 2003 perché ‘il fatto non sussiste’. Eppure, dal processo di Palermo Andreotti non ne esce proprio candido come un fiocco di neve. Nelle motivazioni della sentenza del citato Appello del 2 maggio 2003, un documento di 1.520 pagine composto da 6 volumi, depositato il 25 luglio del 2003, si afferma, in estrema sintesi che, fino alla primavera del 1980... Giulio Andreotti ha dimostrato un’autentica, stabile ed amichevole disponibilità verso i mafiosi inducendo, negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale. Non di meno, il presidente della Corte di Appello, Salvatore Scaduti, dichiara di... non doversi procedere nei confronti dello stesso Andreotti, in ordine al reato di associazione per delinquere a lui ascritto e commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione. Conferma, nel resto, l’assoluzione per la appellata sentenza. Comunque si opini sulla configurazione del reato – si legge ancora nelle motivazioni della sentenza – il senatore Andreotti risponde, in ogni caso, dinanzi alla Storia, così come la Storia gli dovrà riconoscere il successivo, progressivo ed autentico impegno nella lotta contro la mafia. Anche la vicenda processuale di Corrado Carnevale è più o meno simile a quella di Andreotti. Finito sotto inchiesta il 29 marzo, all’indomani dell’esecuzione mafiosa di Salvo Lima, il 3 aprile del ‘95 la stessa Procura di Palermo chiede e ottiene l’archiviazione della sua posizione. Ma tre settimane dopo, la Procura di Roma invia a Palermo nuove rivela- 223


Il giudice Corrado Carnevale. Accusato, come Giulio Andreotti, per concorso esterno in associazione mafiosa, sarà assolto perché il fatto non sussiste.

zioni e il 29 aprile Carnevale viene di nuovo iscritto nel registro degli indagati. Il processo di primo grado si conclude l’8 giugno del 2000 con l’assoluzione per ‘insufficienza di testi attendibili’. La Procura di Palermo ricorre in Appello e, il 29 giugno 2001, il verdetto di primo grado è capovolto: Corrado Carnevale è condannato a 6 anni di reclusione. Il Giudice ‘ammazzasentenze’ però non si arrende. Ricorre in Cassazione. La sera del 30 ottobre 2002, le sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione leggono il loro definitivo verdetto: ‘assolto senza rinvio perché il fatto non sussiste’.

Amato... rimandato! Il 31 marzo, Giuliano Amato si reca dal Capo dello Stato per rassegnare le dimissioni. La ‘perdita’ di sette ministri in due mesi – Martelli, Scotti, Goria, De Lorenzo, Fontana, Ripa di Meana e Reviglio – è più di quanto qualunque Governo possa sostenere. Ma Scalfaro non vuole saperne… occorre resistere fino ai referendum del 18 aprile. Secca la replica di Amato: D’accordo, ma non resterò un 224 giorno di più.

Per tre giorni, dal 28 al 30 marzo, l’Italia è sulle prime pagine di tutti i quotidiani del mondo… Ieri – scrive il New York Times – è caduto Giulio Andreotti, l’uomo politico più rappresentativo del Paese, lo statista italiano più conosciuto nel mondo; oggi, 29 marzo, Hollywood ha onorato Federico Fellini con l’Oscar alla carriera. Nulla di nuovo nel paese del sole. Non è la prima volta che gli italiani si fanno notare per la capacità di esprimere, allo stesso tempo, genio e sregolatezza. Ma ora prevale le sregolatezza e il Paese è in piena recessione economica. Una grande quantità di cantieri sono fermi; l’industria meccanica è in crisi, la siderurgica è in coma, il 1° novembre gli stabilimenti dell’ILVA di Terni, Bagnoli e Taranto saranno messi in liquidazione per essere poi privatizzati; in sei mesi 227mila piccole e medie imprese – soprattutto nei settori tessile, agroalimentare e artigianato – hanno chiuso i battenti; nei primi quattro mesi dell’anno la produzione industriale è scesa del 5,1%; da gennaio a luglio sono stati espulsi dal ciclo produttivo – licenziati, cassintegrati e prepensionati – 35mila ‘colletti bianchi’, dirigenti e quadri medi di aziende pubbliche e private; nei mesi da settembre a dicembre sono andati persi 330mila posti di lavoro; entro l’anno restano disoccupati anche 10mila dei 14mila dipendenti dei partiti. Il PSI, che aveva bisogno di 60 miliardi l’anno per il proprio funzionamento, denuncia debiti per 160 miliardi; della DC è noto solo quello che dirà Citaristi a Di Pietro per giustificare i finanziamenti illeciti: il Partito aveva bisogno di 90 miliardi l’anno per pagare sedi, dipendenti, fare congressi e attività politica. Del PDS, invece, si sa una cosa sola: necessitava di oltre 100 miliardi l’anno per le stesse attività che svolgevano gli altri partiti. E’ vero che gli ex comunisti, diversamente dagli altri partiti, contavano su rilevanti entrate dal tesseramento e dai contributi dei loro parlamentari, ma ugualmente non bastavano. Da dove dunque, e soprattutto, chi ‘copriva’ il resto del fabbisogno del PDS? Mistero. E’ lo stesso mistero che


attribuisce al partito di Occhetto un patrimonio immobiliare di mille miliardi. E ancora. Le banche denunciano sofferenze per 60mila miliardi di lire. Il tasso di sconto sale e scende come un ascensore, ma è sempre al di sopra della media europea; diminuiscono i consumi, aumenta vertiginosamente il deficit dello Stato; si svalutano i risparmi in titoli di Stato e intanto, mentre il Parlamento… concede un aumento di 5.000 lire – dicesi 5.000 – ‘lorde’ per le pensioni al di sotto del milione, deputati e senatori si ‘adeguano’ lo stipendio aumentandolo di oltre un milione e centomila lire al mese!… Un ottimo modo per aumentare la popolarità, già alle stelle, di noi parlamentari, commenta sarcastico il liberale Raffaele Costa. Ma c’è di peggio. Il 18 marzo, il decreto che, fatte salve le responsabilità penali e amministrative degli interessati, avrebbe dovuto sbloccare i contratti di appalto ad imprese coinvolte in Tangentopoli, viene bocciato con voto trasversale… E’ un danno enorme… – sostiene il ministro dei Lavori Pubblici Francesco Merloni – non erano, e il decreto è chiaro, gli inquisiti che s’intendeva salvare, ma le aziende… ora sono bloccati duemila miliardi di lavori dell’ANAS che rappresentano 30mila posti di lavoro. Achille Occhetto invece si esalta… è un momento molto bello del Parlamento; i sindacati protestano… è un atto irresponsabile. Ma è il repubblicano Giorgio Bogi a fornire la motivazione più cruda e coerente della bocciatura… è la vendetta dei politici inquisiti contro gli imprenditori che li hanno denunciati. E’ uno sfacelo: politico, sociale, morale ed economico. Eppure, non tutto è perso. La svalutazione della lira fa impennare le esportazioni e l’inflazione, miracolosamente, resta al 4%. Così, mentre Tangentopoli continua a sgranare il suo rosario di ‘avvisi’, informazioni di garanzia – il 6 aprile tocca ad Arnaldo Forlani – e arresti, gli italiani si apprestano ad andare alle urne, il 18 e 19 aprile, per pronunciarsi con un SÌ o con un NO in otto dei dieci referendum proponenti l’abrogazione: della carce-

razione per chi fa uso delle droghe leggere; la competenza del ministero del Tesoro per le nomine dei presidenti e vice alle Casse di Risparmio; del finanziamento pubblico dei partiti; della competenza delle USL in materia d’inquinamento e igiene ambientale; di tre Ministeri – Turismo, Partecipazioni Statali e Agricoltura – e l’abrogazione di quel quorum del 65% al sistema elettivo maggioritario del Senato, già introdotto nelle elezioni del ’92 con scarso successo. Era accaduto, infatti, che nessun candidato ottenesse il ‘quorum del 65%’ per cui bisognò assegnare i seggi col sistema proporzionale. I due referendum annullati all’ultimo momento dalla Cassazione riguardavano sia la legge elettorale per Comuni e Province, sia quella per l’Intervento straordinario. Il 25 marzo il Parlamento ha approvato la riforma della legge elettorale amministrativa per l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia rieleggibili poi per non più di due mandati; riduce il numero dei consiglieri e degli assessori; rende incompatibili le due cariche e, come s’è detto, vieta, trenta giorni prima delle elezioni, ogni forma di propaganda elettorale in Tv e sulla carta stampata. Divieto che sarà poi abrogato con una nuova legge nel febbraio del 2000. Il 6 aprile, invece, e cioè dodici giorni prima dei referendum, le Camere approvano il decreto legge che abolisce l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno e impegnano il Governo ad elaborare, entro il 31 dicembre, una nuova legge che preveda l’intervento ordinario per le aree depresse di tutto il Paese… con un tratto di penna – scrive Gorjux – si è posta la parola fine ad una serie di vergognosi inganni ai danni del Mezzogiorno confermati dalla storia di questi ultimi mesi e dalle indagini di Mani Pulite. Alle urne dunque. E la Gazzetta, coerente con le posizioni assunte in materia di riforme, non esita a schierarsi per il SÌ… votare SÌ – scrive il Direttore – significa porre la premessa indispensabile alla trasformazione del nostro 225


mento, egli ha esortato ad… imboccare la strada della modernità che impone il passaggio dalla protesta alla proposta.

Il governo Ciampi

Carlo Azeglio Ciampi da governatore della Banca d’Italia alla Presidenza del Consiglio.

sistema elettorale e politico; votare per il NO significherebbe continuare ad arrancare nelle paludi di un sistema politico ormai putrefatto. Vincono i SÌ a valanga… è stata una vittoria del popolo italiano – commenta Mario Segni – che ha fissato le fondamenta della nuova Repubblica. Sarebbe un crimine dare a questa data di libertà un seguito caotico, impotente, disperato… accordiamoci subito – continua Segni rivolto ai partiti che hanno sostenuto i referendum – altrimenti verrà come un fulmine il giorno che malediremo la nostra vittoria. Perché sarà una vittoria tradita, capace di produrre soltanto rancore e vendette. Se Segni non avesse fatto il politico, sarebbe stato un ottimo profeta. Il 20 aprile, come promesso, Giuliano Amato se ne va… lascio la politica… torno a fare il professore universitario. Tornerà, invece, non solo a fare politica, ma anche alla presidenza del Consiglio chiamato da quella sini226 stra che, nel discorso di commiato in Parla-

E adesso? Governo di ‘svolta’ o Governo istituzionale come vorrebbe il PDS? Nessuno dei due. Dopo una settimana dei soliti giri di valzer fra veti e controveti – clamoroso quello a Segni, sia dalla DC, che non gli ‘perdona’ di aver lasciato il partito, che dal PDS, per ovvie ragioni – il Capo dello Stato sorprende tutti e compie un passo nuovo e decisivo specie per le sorti dell’economia del Paese: il 26 aprile ‘incarica’ di formare il nuovo Governo il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi. Ciampi non fermerà le inchieste di Tangentopoli, che ha in serbo altri clamorosi colpi di scena, altre tragedie, personali e politiche. Ma questa cronaca non le seguirà più con la stessa puntigliosità. Continueremo cioè a seguire Tangentopoli, ma solo per i casi più eclatanti, trascurando i tanti rivoli giudiziari originati dal ‘grande fiume di mazzette’ gonfiato fino a minacciare le sorti del Paese. Ci sembra che la ricca cronaca tangentizia, ancorché parziale, fin qui ricordata, basti e avanzi per dare un’idea della proporzione del fenomeno, per un quadro più realistico possibile delle vicende italiane in questo tormentato periodo storico. Carlo Azeglio Ciampi è il primo non parlamentare nella storia della Repubblica ad essere nominato presidente del Consiglio. E… si vede. Ricevuto infatti il mandato il 26 aprile, il 27 ha già approntato la lista dei ministri: niente consultazioni, niente trattative con i partiti, nessun patteggiamento. Ciampi, che ha accettato l’incarico solo per spirito di servizio, chiarisce subito che il suo è un ‘Governo a termine’, costituito per realizzare un programma minimo: tentare di riavviare l’economia, imprimere nuovo vigore alla lotta contro la criminalità e, specificamente… favorire il lavoro del Parlamento per l’approvazione


della nuova legge elettorale. Dopo, posso anche lasciare il testimone alla politica. Il nuovo Esecutivo è composto da 24 ministri. Tredici sono considerati ‘tecnici’ di alto profilo; undici sono politici: 4 democristiani, 2 socialisti, un repubblicano, un Verde – Francesco Rutelli, all’Ambiente – e per la prima volta, tre rappresentanti del PDS che però non hanno l’assenso di tutto il partito. Per Occhetto, la partecipazione della sinistra al Governo dopo 47 anni, rappresenta il primo approccio alla ‘stanza dei bottoni’ di nenniana memoria. Per i ‘duri e puri’ di Ingrao e i riformisti di D’Alema, non basta… Il fatto che nel Governo Ciampi ci siano ministri del PDS – sostiene D’Alema, già in rotta di collisione con il Segretario – non ci vincola affatto. E’ la stessa affermazione fatta l’anno precedente nella Giunta regionale pugliese: Veniamo solo per buttarvi a mare.

Il Parlamento ‘assolve’ Craxi Ciampi presenta il nuovo Governo il mattino del 29 aprile. Nello stesso pomeriggio il Parlamento è chiamato a votare, a scrutinio segreto, sei richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Succede il finimondo. I deputati deliberano il proseguimento delle indagini solo per due inchieste – per il finanziamento illecito del partito e per un episodio di corruzione – e negano l’autorizzazione a procedere nelle indagini per i reati di ricettazione e corruzione aggravata e continuata. Craxi si è difeso come un leone ed ha attaccato come una tigre. Con la grinta e la passione di sempre, il leader socialista non nega le sue responsabilità politiche e personali, ma rifiuta… il processo di criminalizzazione della classe politica spinto verso le accuse più estreme… un processo che quasi non sembra riguardare più le singole persone, ma insieme ad esse tutto un tratto di storia, marchiato nel suo insieme. Un vero e proprio processo storico e politico ai partiti che per lungo tempo hanno governato il Paese. Rivolto ai colleghi, Craxi conclude:… Accertate se sono state vio-

late una o più norme che proteggono i miei diritti di cittadino. Poi, votate, nel modo più franco e libero, con tutto il senso di giustizia di cui siete capaci. I deputati votano e senza l’apporto di diversi parlamentari dell’opposizione, Craxi non ne sarebbe uscito indenne… ieri è stato un ‘giovedì nero’ per la democrazia italiana – scrive Gorjux il 30 aprile – è vano avventurarsi nell’ignobile giungla di supposizioni, ombre e ‘machiavelli’ che avvolgono gli avvenimenti di ieri e, in fondo, tutto il Parlamento. Comunque siano andate le cose, quale che sia la verità, il Parlamento è stato strumento di un sussulto conservatore, oseremmo dire ‘reazionario’, del più basso livello. E’ stato il giorno della vendetta della partitocrazia, la vendetta di quella politica deteriore che si vorrebbe escludere senza traumi, ma che, invece, insorge contro il rinnovamento, contro Mani Pulite, contro la volontà della gente, contro ogni ipotesi di rinnovamento. Ma il ‘giovedì nero’ non è ancora finito. Nel tardo pomeriggio, il Verde Francesco Rutelli rinuncia ad entrare in un Esecutivo che è solo sulla carta. Segue, poco dopo, un comunicato del PDS che annuncia il ritiro dei suoi tre ministri… avevamo ragione noi – commenta D’Alema – non possiamo partecipare a tentativi di alcun genere per la formazione di un nuovo governo con forze politiche che dimostrano di non avere la minima consapevolezza della richiesta di pulizia che viene dal Paese. In serata poi, un centinaio di giovani affollano l’ingresso dell’Hotel Raphael, la nota residenza romana di Craxi il quale, ostentando un’arroganza che sarebbe stato più saggio non esibire, affronta i dimostranti: viene coperto d’insulti, lancio di monetine e perfino sputi. Erano attivisti del PDS? Può darsi. Ma il senso di frustrazione e sdegno nei confronti dell’intera classe politica – e Craxi ne fa le spese – è reale e sentito da milioni di cittadini che il giorno dopo, spontaneamente, riempiono le piazze di tutto il Paese per una corale manifestazione di protesta contro un sistema 227


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superato, corrotto, dilaniato, ma ancora capace di difendere prerogative e privilegi propri, superando ogni ammissibile limite di coerenza ideologica e politica. Assolto Craxi, si scatenano le polemiche. Vincenzo Visco, ministro designato al Dicastero delle Finanze, contesta la decisione del suo partito di abbandonare l’Esecutivo… nel PDS la sindrome di chi teme sempre e continuamente di venire ingannato, una sindrome da vecchio comunista accerchiato, è dura a morire. E ogni volta si rinviano le scelte importanti a un’altra occasione. Per Giorgio Benvenuto, invece, la negata autorizzazione a procedere contro Craxi… pone in pericolo non solo il Governo, ma la stessa stabilità delle istituzioni democratiche. Ma ancora una volta interviene, con decisione e autorevolezza, il Capo dello Stato… non c’è alcun pericolo. Il Governo non c’entra con il voto del Parlamento… e incoraggia Ciampi ad andare avanti.

L’immunità parlamentare Così, mentre il Presidente del Consiglio incaricato avvicenda i dimissionari con altri quattro ministri tecnici e il PDS, alla fine, decide di appoggiarlo con l’astensione, torna a galla la mai risolta questione del ‘voto segreto’ e dell’immunità di cui godono senatori e deputati. Il voto segreto per le autorizzazioni a procedere è abolito il 5 maggio, non più di quarantotto ore dopo essere stato proposto; la legge che abolisce l’immunità parlamentare è approvata il 13 maggio dalla Camera e dopo 5 mesi, il 28 ottobre, in via definitiva dal Senato: i parlamentari potranno essere inquisiti senza una richiesta preventiva salvo che per l’arresto e la perquisizione personale. Tuttavia, anche l’arresto potrà essere eseguito senza richiesta di autorizzazione, qualora il deputato inquisito sia colto in flagrante o in presenza di una sentenza irrevocabile… con questa legge i giudici potranno riaprire tutti i casi già licenziati – commenta il ministro delle Riforme Istituzionali, Leopoldo Elia, ex Pre228 sidente della Corte Costituzionale – compreso

quello di Craxi… la legge rappresenta un giro di boa storico, un atto di civiltà e dimostra che quando c’è la volontà politica i risultati si ottengono. Già, quando c’è! Scongiurato il pericolo di una ‘crisi nella crisi’, il 4 maggio il Consiglio superiore della Banca d’Italia, che proprio quest’anno celebra il suo centenario, interrompe una tradizione consolidata: invece di eleggere quale nuovo Governatore dell’Istituto il direttore generale, Lamberto Dini, elegge il suo vice, Antonio Fazio. L’aria è ormai satura di ‘tradizioni’ e l’intero anno è costellato di ‘prime volte’ che sconcertano, sbalordiscono, ma che trovano un’opinione pubblica consenziente e aperta al nuovo considerato che gran parte delle ‘tradizioni consolidate’ sono state usate essenzialmente per difendere privilegi di pochi, per proteggere alcune ‘caste’ e categorie sociali legate fra loro da interessi politici, economici e, spesso, anche personali. Così, ecco la ‘prima volta’ di Gianni Agnelli che di fronte ad un’ammutolita assemblea di imprenditori, il 17 aprile a Venezia, ‘ammette’, con sofferta rassegnazione, che… anche in FIAT si sono verificati alcuni episodi non corretti di commistione col sistema politico… è tuttavia errato e fuorviante, per quanto riguar-


da i rapporti fra politica ed economia – aggiunge l’Avvocato – pensare che le indagini della Magistratura siano parte di un complotto o di oscure manovre politiche… mi auguro che le inchieste giungano quanto prima alla definizione della reale portata degli episodi che riguardano noi, distinguendo fra chi ha fatto seriamente industria e chi invece ha fondato le proprie fortune quasi esclusivamente sulla sistematica collusione con il potere politico. Sono le stesse argomentazioni che, parola più parola meno, sostiene, per quanto lo concerne, il PDS ottenendo in cambio, se non proprio un trattamento di favore, quantomeno una diversa valutazione del loro coinvolgimento in Tangentopoli. Anche il PDS, infatti, afferma che non c’è un ‘complotto’ della Magistratura e… anche se alcuni nostri dirigenti hanno preso qualche tangente, non possiamo essere confusi con quanti hanno prosperato sulla degenerazione del sistema. Di più. Il teorema del pool di Mani Pulite che fa scattare l’avviso di garanzia ai segretari politici dei partiti e a decine di presidenti e amministratori di aziende pubbliche e private, si basa sul presupposto – in verità processualmente discutibile – che questi, in quanto tali, ‘non potevano non sapere’ degli illeciti commessi dai loro segretari amministrativi e dai dirigenti delle aziende. Agnelli, per sua stessa ammissione, ‘sapeva’, ma non avrà mai un ‘avviso’, né avrà mai un confronto con una qualunque Procura nazionale. Il 29 aprile, l’amministratore delegato della FIAT, Cesare Romiti, invitato dall’Avvocato a collaborare con Mani Pulite, consegna a Di Pietro un lungo memoriale zeppo di nomi e società ‘targate’ FIAT che avrebbero pagato tangenti. Risultato: 21 ordini di custodia cautelare non tutti eseguiti; qualche giorno di custodia cautelare per Francesco Paolo Mattioli, direttore finanziario del gruppo FIAT e qualche ‘grattacapo’ per Cesare Romiti. Ma non dalla Procura di Milano, bensì da quelle di Torino e Roma.

Roberto Baggio, centravati della Juventus e della Nazionale, si aggiudica il Pallone d’oro 1993.

Tuttavia, quel sabato 17 aprile, avrà un epilogo felice per l’Avvocato. In serata, a Milano, la sua amata Juventus, trascinata da un irresistibile Roberto Baggio, infligge una severa lezione agli arroganti milanisti: la ‘Vecchia Signora’ batte l’undici rossonero ‘stellare’ di Silvio Berlusconi per tre reti ad una. Una sconfitta ‘bruciante’ per i milanesi che da due anni fanno il bello e cattivo tempo su tutti i campi di calcio nazionali e internazionali, più o meno allo stesso modo in cui il pool di Mani Pulite domina su tutte le prime pagine della stampa nazionale arrestando personalità che mai avrebbero immaginato di poter essere, un giorno, ospiti di San Vittore. L’8 maggio, mentre Ciampi ottiene la fiducia del Parlamento e conferma l’impegno a dimettersi dopo il varo della riforma elettorale, i partiti che in vista di nuove elezioni politiche dovrebbero compattarsi e rinnovarsi, continuano a scompaginarsi, a dividersi, a dilaniarsi lasciando gli elettori quantomeno sconcertati. Giorgio Benvenuto, il nuovo segretario socialista, minaccia di dimettersi se l’esecuti- 229


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vo nazionale del PSI non sospenderà tutti gli inquisiti di Tangentopoli; Mario Segni è deciso a formare, con ‘Alleanza democratica’, un nuovo partito di ‘centro’; Rosy Bindi vorrebbe riportare alle origini la DC e dà vita al Partito Popolare; Mino Martinazzoli, proprio a Bari, annuncia di voler cambiare nome alla DC, ma non ha idea di quale potrebbe essere la nuova denominazione… molto dipenderà dalla collocazione che si vorrà dare al partito. Il PDS, con la rinuncia a voler entrare nel Governo Ciampi e, peggio ancora, con la decisione di volerlo appoggiare con l’astensione, comincia a sfilacciarsi come una corda di canapa: Pietro Ingrao, l’ultimo ‘comunista’, leader dell’opposizione interna, si dimette il 15 maggio… esco dal mio partito nel cui futuro vedo solo il buio; i ‘miglioristi’ di Giorgio Napolitano sono sempre più insofferenti verso la politica della segreteria; la distanza fra Occhetto e D’Alema aumenta, non s’intendono più; Fausto Bertinotti annuncia che uscirà dal PDS insieme ad un gruppo di 40 sindacalisti. Insomma, non è una bella immagine per un partito che, nell’unità, intende costruire il cambiamento, creare le condizioni per l’alternativa. L’11 maggio, sull’immagine del PDS si stende un’altra ombra. La Magistratura milanese ordina l’arresto di Renato Pollini - ex senatore, segretario amministrativo del PCI fino al 1989 – e Fausto Bertolini, ex dirigente delle cooperative rosse. Secondo Giulio Caporali, ex componente del Consiglio di amministrazione delle Ferrovie dello Stato di nomina pidiessina, le cooperative rosse, attraverso la sua mediazione, ottenevano il 20% degli appalti delle Ferrovie stesse. Ed egli personalmente, Caporali, riscuoteva poi le tangenti riservate al PCI. La reazione del PDS è furibonda… è una vendetta… sanno tutti che Caporali è stato espulso dal PCI per indegnità… c’è, contro di noi, un teorema politico, una campagna di stampa orchestrata da forze conservatrici e 230 reazionarie, palesi e occulte – sostiene un infu-

riato Occhetto – che ritengono disdicevole per questo Paese che un partito della sinistra, che ha antiche radici, ma che si è profondamente rinnovato, rimanga in piedi… non abbiamo mai detto che non potevano esserci comportamenti o atti che hanno toccato anche il nostro partito, ma non facciamo parte del sistema della spartizione delle mazzette. A chi gli fa osservare che i pidiessini coinvolti in ‘comportamenti o atti di corruzione’, sono ormai 72, trentanove dei quali agli arresti, Occhetto replica: Un insieme di casi non sono un sistema tangentizio. Quando si faranno i processi si vedrà la differenza qualitativa tra noi e gli altri. Dunque, è una questione di ‘qualità’. In effetti, come si può accomunare un ‘mariuolo’ ad un ladro? Come si può dare lo stesso valore corruttivo fra tanti personaggi ‘minori’ del PDS coinvolti in Tangentopoli e il Presidente della maggiore holding pubblica del Paese? Come si può accomunare Giulio Caporali a Franco Nobili, presidente dell’IRI, arrestato il giorno successivo a quello di Renato Pollini? L’ordine di custodia cautelare a carico del Presidente dell’IRI è così sconcertante che le piccole ‘mazzette’ al PDS, fra le Ferrovie dello Stato e le cooperative rosse, appaiono come scambi di figurine fra i tifosi dell’Inter e quelli del Milan. Franco Nobili è arrestato a Roma dalla Guardia di Finanza di Milano su ordine del pool di ‘Mani Pulite’ il 12 maggio. Condotto, nella stessa giornata, da Roma al carcere milanese di San Vittore, il Presidente dell’IRI è accusato di corruzione aggravata e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Nobili avrebbe dato all’ingegner Fulvio Tornich – amministratore dell’Italimpianti, una delle 400 società del gruppo IRI – l’impressione di sapere che l’Italimpianti pagava abitualmente tangenti alla DC e al PSI in cambio di commesse dall’ENEL. In altre parole, è l’accusa classica: il massimo responsabile dell’IRI non poteva non sapere che le sue società pagavano regolarmente tangenti. Quello che a Tornich è sembrato un ‘silenzio


assenso’, a Nobili costa e costerà 77 giorni a San Vittore; poi arresti domiciliari; un primo processo nel 1999 con una condanna a 31 mesi di reclusione; l’assoluzione piena in appello nel 2001 - perché il fatto non sussiste - e la ‘trascurabile’ distruzione di una carriera da top manager. Le sole cose che Nobili non ha perso durante gli otto anni del suo calvario sono la propria personale dignità e la generale stima e considerazione di ‘galantuomo’. Il 13 maggio, nell’aula del Senato affollata come nelle grandi occasioni, Giulio Andreotti vota a favore dell’autorizzazione a procedere nei propri confronti… processatemi subito – dichiara l’ex Presidente del Consiglio – la mia coscienza riposa nella certezza che vi è un tribunale al di sopra di ogni contingenza e meschinità: è il tribunale di Dio. Intanto, la mafia torna a colpire. Il 14 maggio alle 21,30 in via Fauro, a Roma, una vettura imbottita con 50 chili di esplosivo salta in aria provocando 15 feriti e molti danni agli edifici e alle auto in sosta. L’obiettivo era Maurizio Costanzo appena uscito dal Teatro Parioli che ha l’ingresso proprio in via Fauro. Perché Costanzo? Perché il noto conduttore del ‘Maurizio Costanzo show’… è sempre stato in prima linea nella lotta contro la mafia – scrive Giuseppe Giacovazzo sulla Gazzetta – non è il solo, ma nessuno può vantare altrettanta continuità e una così martellante insistenza… non c’è dubbio che Maurizio ha contribuito al risveglio della coscienza civile del nostro Paese contro un fenomeno infamante per l’Italia. Costanzo scampa alla morte per una manciata di secondi, ma non annullerà una speciale puntata del suo talk show in onore di Giovanni Falcone programmata per il giovedì successivo 20 maggio. Sarà l’ultima. La moglie, Maria De Filippi, profondamente scossa, gli farà giurare di abbandonare la sua coraggiosa campagna contro la mafia… come tutti gli italiani – commenterà cinicamente e ingenerosamente qualcuno – anche Costanzo ‘tiene famiglia’. Il 15 maggio Romano Prodi – che Scalfaro

Carlo De Benedetti, presidente della Olivetti.

avrebbe voluto alla presidenza del Consiglio trovando l’opposizione netta del PSI e del PDS – torna alla guida dell’IRI: è a Prodi che Franco Nobili era succeduto nel 1989. Il 16 maggio l’ingegner Carlo De Benedetti, presidente della Olivetti, decide di imitare Cesare Romiti: si reca spontaneamente da Di Pietro e gli consegna un dettagliato memoriale in cui confessa di aver pagato tangenti per 10 miliardi alla DC e al PSI… ho resistito fino al 1988 – sostiene l’Ingegnere – poi ho dovuto cedere alla pressione estorsiva dei partiti che ha avuto un crescendo impressionante, assumendo progressivamente caratteristiche di pressione parossistica, di minacce, di ricatti e di un clima che negli anni dall’88 al ’91 non è improprio chiamare di vero e proprio racket. Solo due settimane prima, il 29 aprile all’assemblea della Olivetti, l’Ingegnere aveva affermato di… non aver mai corrisposto finanziamenti a partiti politici o a entità ad essi collegate: né io, né alcun altro dirigente o funzionario della Olivetti. Bugie dunque, stando al suo memoriale. E bugie sarebbero anche le presunte pressioni dei partiti. Al contrario, sarebbe stato lui a premere per ‘rifilare’ alle Poste tecnologie superate – per un valore di 170 miliardi – quali telescriventi, computers, stampanti, calcolatrici e persino macchine per scrivere finite direttamente nei depositi del Ministero delle Poste. Peggio, la Procura di Roma avrebbe accertato 231


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che sarebbe stato lui a fare pressione su DC e PSI, a fronte di dieci miliardi di tangenti, per far approvare la legge che introduceva l’obbligo dei registratori di cassa. Ma De Benedetti è un uomo fortunato. Quando la Procura di Roma ne ordinerà l’arresto, il 30 ottobre, è già in atto la guerra per il conflitto di competenza fra le Procure di Roma e di Milano. L’Ingegnere sarà ospite del carcere romano di Regina Coeli solo 12 ore, poi, gli avvocati, i ricorsi, i nuovi giudici per le indagini preliminari e i nuovi conflitti di competenza lo terranno sempre lontano dalle patrie galere. Finché, il 7 giugno 2002, il giudice romano, Roberta Palmisano, stabilirà la verità: Carlo De Benedetti, il fratello Franco e una novantina di imputati accusati di falso, abuso d’ufficio e peculato, saranno tutti prosciolti. Le accuse mosse – commenterà l’avvocato difensore di De Benedetti dopo la sentenza di proscioglimento – erano il frutto di consulenze assai modeste. E la confessione contenuta nel memoriale dell’Ingegnere consegnata a Di Pietro? Il pubblico ministero non è mai riuscito a trovare le prove! Il 17 maggio i giudici di Foggia che indagano sui ‘nastri d’oro’ chiedono alla Giunta parlamentare d’inchiesta l’autorizzazione all’arresto dei deputati Rino Formica e Franco Borgia. Il 18 maggio lo Stato risponde alla mafia. Alle 6 del mattino, quattrocento poliziotti circondano una masseria vicino a Catania e catturano Benedetto ‘Nitto’ Santapaola, capo della mafia catanese, latitante da 11 anni. Santapaola è considerato il vice di Riina, responsabile di numerosi delitti, compreso l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato a Palermo nel 1982 insieme alla moglie. Il 19 maggio è arrestato il sindaco PDS di Genova, Claudio Burlando. E’ accusato, insieme ad altre 7 persone, di truffa e abuso d’ufficio ai danni del Comune: avrebbero gonfiato del 30% i costi di un sottopasso. Il giorno dopo si dimettono Sindaco e Giunta. Il 20 maggio Giorgio Benvenuto e Gino 232

Ottaviano Del Turco, nuovo segretario del PSI.

Giugni si dimettono, dopo appena cento giorni, dalla Segreteria e dalla Presidenza del PSI sbattendo la porta… gli ex craxiani e il pattuglione degli inquisiti mi hanno contrastato con ogni mezzo – afferma Benvenuto – hanno disseminato il mio cammino di trappole per bloccare il rinnovamento e sopravvivere a se stessi. Otto giorno dopo, l’Assemblea nazionale del PSI chiama alla guida del partito Ottaviano Del Turco. L’ex sindacalista della CGIL è l’uomo indicato da Craxi per la sua successione. Cambiare le facce è necessario ed opportuno – scrive Gorjux sulla Gazzetta – ma non è certo sufficiente se le ‘facce nuove’ avranno un cervello ‘vecchio’. Il che vale per gli uomini come per i partiti. Siamo ben lungi dall’aver determinato quel cambiamento di mentalità, quella ‘rivoluzione culturale’ nella politica, che è premessa ad una democrazia funzionale all’interesse comune. Ma il tempo per soffermarsi, per capire, per analizzare cosa sta succedendo nel Paese, non c’è. Gli eventi si accavallano e si rincorrono con un ritmo impressionante. E la realtà supera l’immaginazione. Nessun regista ha mai concepito un film così ricco di colpi di scena. La cronaca ‘vera’ di questo 1993, raccontata giorno dopo giorno dai mass media, appare a milioni di italiani – che allibiti e perplessi divorano storie, avvenimenti e retroscena – come un terribile thriller, una corsa incontrollabile verso l’ignoto.


Dal Sud al Nord Pure, ancora, il 20 maggio, il Mezzogiorno racconta l’ennesima, incredibile storia di vassallaggio, sottrazione di risorse e mezzi, perpetrata dal ‘sciur Brambilla’ ai danni dell’industria meridionale. E’ una storia tante volte raccontata e sempre rifiutata con alibi basati sulla pretesa endemica carenza imprenditoriale dei meridionali, incapaci di programmare una compiuta politica industriale. L’Intervento straordinario? Uno spreco di risorse sottratte al sistema produttivo del Nord. Il 20 maggio dunque, il giudice barese Nicola Magrone, in seguito ad un esposto dei lavoratori della ‘Oto-Trasm’, ordina il sequestro, su tutto il territorio nazionale, di diversi macchinari dell’azienda torinese ‘Graziano Trasmissioni’ e invia cinque informazioni di garanzia ad ex dirigenti della ‘Oto-Trasm’ e al presidente della ‘Graziano Trasmissioni’, Vittorio Ghidella, già supremo manager di FIATAuto, padre della ‘Uno’, la vettura che negli anni Ottanta ha rilanciato l’azienda di Agnelli. La ‘Oto-Trasm’ è una fabbrica della zona industriale di Bari con 310 dipendenti. Fa parte del gruppo EFIM, un altro di quei carrozzoni di Stato destinato alla privatizzazione, che fino all’89 produceva parti di trasmissioni per veicoli militari. Finita in un vicolo cieco per carenza di commesse, nel luglio dello stesso anno l’EFIM cede il 49% delle azioni della ‘Oto-Trasm’ alla ‘Graziano Trasmissioni’ acquistata da Vittorio Ghidella nell’88. Nel contratto di cessione del pacchetto azionario, l’EFIM impegna Ghidella a riconvertire e ristrutturare l’‘Oto-Trasm’ per produrre trasmissioni per il mercato civile e, considerata la grande esperienza di Ghidella nel settore auto, l’EFIM lascia alla ‘Graziano Trasmissioni’ la direzione dello stabilimento barese. Ma non accade nulla. Anzi la ‘Oto-Trasm’ rimane senza commesse e senza le nuove apparecchiature tecniche per la riconversione produttiva. Proteste, scioperi, blocchi stradali e infine, la ‘scoperta’ e il ricorso alla Magistratura: a partire dal 1990 Ghidella ha acquistato macchinari per

40 miliardi con fondi concessi da agenzie dello Stato nell’ambito delle agevolazioni derivanti dalle leggi per il Mezzogiorno. Solo che quelle macchine, invece di avviarle allo stabilimento barese venivano dirottate nelle altre aziende della ‘Graziano’ tutte situate nell’hinterland torinese. Alla denuncia del Consiglio di fabbrica, Ghidella risponde con il ritiro delle presunte commesse alla ‘Oto-Trasm’ e la messa in cassa integrazione per 240 dipendenti. Il 29 giugno Nicola Magrone ordina l’arresto di 5 ex manager della ‘Oto-Trasm’ e di Vittorio Ghidella che dalla Svizzera fa sapere di non volersi sottrarre all’arresto… spiegherò tutto… non ho nulla da nascondere… ho sempre avuto grande disponibilità nei confronti dell’azienda barese. Ghidella giunge a Bari il 16 luglio e, dopo un breve incontro con il gip, Carlo Curione, è rinchiuso nel carcere di Turi, dove chiede e ottiene di restare in isolamento per poter scrivere una ‘memoria’ da consegnare ai giudici. Più che una ‘memoria’, è un’esplicita confessione, ma si chiama ‘memoria’ perché serve

Vittorio Ghidella.

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ad aprire le porte delle carceri. Cos’è che ha ‘confessato’ Ghidella? Il manager, che era già bravo quando lavorava per gli altri, quando rischia in proprio diventa ingegnoso. Ghidella dunque confessa di aver venduto, a società da lui controllate, macchine usate della ‘Graziano Trasmissioni’. Le faceva restaurare e poi le riacquistava, come nuove, per conto della ‘Oto-Trasm’ con finanziamenti pubblici in gran parte a fondo perduto. Ad acquisto avvenuto, le macchine, invece di essere inviate nello stabilimento barese, tornavano alla ‘Graziano’. Un’operazione semplice e pulita che consentiva a Ghidella di prendere i famosi ‘due piccioni con una fava’: otteneva macchinari rimodernati e convertiti per far lavorare le sue aziende nel Nord e in più un ‘modico’ contributo statale di 40 miliardi. Il 20 luglio, su parere favorevole del giudice Magrone, Vittorio Ghidella ottiene gli arresti domiciliari, promette la restituzione delle attrezzature ai legittimi proprietari, poi sale sull’aereo privato che lo ha condotto a Bari e torna a Torino. Nel 1994, la ‘Oto-Trasm’ verrà assorbita dalla ‘Graziano Trasmissioni’. Ghidella si ripresenterà dinanzi al Tribunale di Bari il 19 luglio del ‘95; concorderà una pena, sospesa, di 6 mesi di reclusione e tornerà a Torino per continuare a svolgere le sue attività di manager creativo. Tutto secondo una ‘nuova’ consuetudine: al 90% degli imprenditori inquisiti o arrestati, basta un ‘memoriale’, un’ammissione di responsabilità e, salvo processi civili o penali a venire, dopo pochi giorni o poche ore di ‘costrizione’ carceraria, tornano liberi.

illeciti, sempre con la segreta speranza di ottenere i domiciliari, ma pochi giorni prima che scada la carcerazione preventiva, gli viene notificato un nuovo ordine di custodia cautelare per un colossale affare fra l’ENI e la SAI. Cagliari confessa, torna a chiedere i domiciliari e, ricevutone un nuovo diniego, cede: il 20 luglio, dopo 133 giorni di carcere, mentre Vittorio Ghidella torna a casa sul suo jet privato, Gabriele Cagliari infila la testa in un sacchetto di plastica e si uccide. Per il pool di ‘Mani Pulite’ è una sconfitta – commenta amaro Antonio Di Pietro – è una dura sconfitta. Per l’inchiesta che stavamo conducendo noi, Cagliari poteva ottenere i domiciliari un mese fa. Il mattino successivo, Il Giorno, il quotidiano milanese dell’ENI, pubblica l’ultima lettera di Cagliari alla famiglia… sto per darvi un nuovo grandissimo dolore. Non posso più sopportare a lungo questa vergogna… quello che ho fatto non è un atto di sconforto o di paura. Ma di ribellione. Questa inchiesta annichilisce, demolisce la mia umanità… la

Il suicidio di Cagliari e Gardini Ma a qualche giudice non basta. C’è gente che nasce sfortunata. Nessuna ‘memoria’, nessuna ‘confessione’, nessuna ‘ammissione di responsabilità’, sempre seguita da richiesta di arresti domiciliari, consente a Gabriele Cagliari di uscire dal carcere di San Vittore. L’ex Presidente dell’ENI ha ammesso tutto quello 234 che poteva: tangenti, ‘fondi neri’, contributi

Gabriele Cagliari, il presidente dell’ENI suicida.


criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano come non persone – prosegue Cagliari – come cani in un canile… l’obiettivo di questi magistrati è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, a rompere con quello che loro chiamano il ‘nostro ambiente’… ciascuno di noi deve adottare un atteggiamento di ‘collaborazione’ che consiste in tradimenti e delazioni – Cagliari non farà mai un nome – che lo rendono infido, inattendibile, infame… si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della Magistratura che è il sistema carcerario. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima… dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, alcune ore prima… stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto – continua Cagliari – stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non voglio esserci – conclude Cagliari – non sono solo gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere questa guerra, ma è l’intera Nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire… quei pochi di noi caduti nella mani di questa ‘giustizia’ rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione. Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. Tre giorni dopo, alle otto e trenta del mattino del 23 luglio, Raul Gardini, il principe della finanza italiana, il ‘Contadino’ che voleva diventare più potente di Gianni Agnelli, si uccide con un colpo di pistola alla tempia nella

Raul Gardini sulla sua barca, il Moro di Venezia.

sua abitazione milanese. Era pronto per lui, per il cognato Carlo Sama e per il suo finanziere di fiducia, Sergio Cusani, un ordine di custodia cautelare. L’11 maggio del ’92, Gardini, a bordo del ‘Moro di Venezia’, la sua magnifica barca partecipante all’America’s Cup, commentando le prime inchieste di Mani Pulite, aveva detto… io non andrò mai in galera! La mattina del 23 luglio, con l’arresto di Sama e Cusani, inizia l’inchiesta sulla ‘madre di tutte le tangenti’: l’affare Enimont. Ad aumentare la confusione, in un Paese disorientato e sconfortato, in un Paese dove, in pochi mesi si sono persi i tradizionali riferimenti sociali, il collante politico-ideologico, gli schieramenti di potere, le certezze istituzionali e soprattutto gli stessi bastioni del sistema economico e finanziario pubblico e privato, la mafia torna a colpire ancora seminando panico e vittime.

Tornano le stragi mafiose Il 23 maggio, il ministro dell’Interno, Nicola Mancino, commemorando a Catania il primo anniversario della strage di Capaci, dice fra l’altro… non è finita. Avremo ancora colpi di coda, contrasti, bombe. Sembra una dichiarazione di circostanza. Un’‘allerta’ per non abbassare la guardia. Sta di fatto che dalla cattura di Riina, la mafia sembrava messa in un angolo, sotto la pressione dello Stato. Ma all’una del mattino del 27 maggio, un furgoncino imbottito con 100 chili di tritolo esplode sotto 235


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la palazzina dell’Accademia dei Georgofili a Firenze: cinque morti. Distrutta l’intera famiglia del custode dell’Accademia – marito, moglie e due bambini, il più piccolo di appena 50 giorni – e uno studente di architettura abitante in un palazzo antistante l’Accademia. Un attentato doppiamente barbaro: per l’eccidio di vittime innocenti e per la distruzione di un patrimonio artistico… che neppure i nazisti avevano avuto l’ardire di toccare, scrive il cronista. L’Accademia infatti è nel cuore del centro storico fiorentino, a due passi dalla Galleria degli Uffizi che subisce anch’essa danni ingenti. E’ una strage di mafia, si dice subito. Lo afferma, il 28 maggio, lo stesso ministro dell’Interno… siamo di fronte ad un nuovo atto di terrorismo mafioso. Ma perché? Cosa c’entra l’attentato al patrimonio artistico del Paese con la mafia? Nessuno lo sa. Quantomeno nessuno lo spiega. E i mass media non ci credono. Due mesi dopo, il 27 luglio, tre autobombe esplodono contemporaneamente: una a Milano e due a Roma. Alle 23,15 una telefonata anonima segnala un’auto in fiamme in via Palestro a Milano davanti al padiglione d’arte contemporanea nella villa comunale. Arrivano i Vigili del fuoco, cercano la vettura in fiamme che non c’è e, improvvisamente, una vecchia Fiat-Uno esplode: sei morti. Muoiono quattro pompieri, un vigile urbano e un immigrato di colore che curiosava intorno ai Vigili del fuoco. Una strage premeditata. Mezzora più tardi esplodono altre due auto a Roma: una davanti al portone del Vicariato della Basilica di San Giovanni, l’altra all’ingresso della chiesa di San Giorgio al Velabro. Bilancio: dieci feriti e, ancora, obiettivi emblematicamente scelti per danneggiare il patrimonio artistico e storico dell’intero Paese. Gli attentati sono nello stesso stile ‘stragista’ degli ‘anni di piombo’ e infatti, i primi commenti vanno dalla… volontà di far esplodere la democrazia… al tentativo di… frenare il rinnovamento… fermare Mani Pulite. Tor236 nano a galla i fantasmi dei ‘servizi deviati’,

delle ‘cellule impazzite’ della destra eversiva, delle Brigate Rosse. Ma, ancora una volta, sia il Capo dello Stato sia il ministro Mancino, parlano di mafia… si tratta di un terrorismo con intrecci mafiosi che tenta di destabilizzare il Paese – sostiene Scalfaro – possono sterminare anche noi, ma nessuno s’illuda: il cammino del Parlamento e del Governo sulla strada del rinnovamento, non si ferma. Il Ministro dell’Interno, invece, ripete… siamo di fronte ad un oscuro disegno di forze terroristico-mafiose. A chiunque appartenga la mano criminale che si nasconde dietro a queste stragi, c’è un punto fermo: E’ l’ora della paura – commenta Gorjux il 29 luglio – siamo in presenza di un tentativo criminale di sconvolgere la Nazione. Un tentativo cinico, incosciente, barbaro di stroncare alla base quanto faticosamente e spesso con dolore, si sta cercando di ricostruire e rinnovare dopo lo scempio che un’assurda stagione politica ha fatto della de-

L’attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze.


mocrazia italiana… è naturale porsi angosciose domande sulla provenienza dell’attacco terroristico, ma è assurda la pretesa di individuare con superficiale facilità questa o quella matrice dell’assalto criminale. E’ l’ora della paura dunque. Ma bisogna vincerla e l’unità è la sola, formidabile, arma vincente. Ma la domanda resta. Perché la mafia? Tutta la storia dell’onorata società è lastricata di delitti e stragi. Ma la mafia non ha mai ‘sparato nel mucchio’, ha sempre ‘mirato’ all’uomo, al nemico di turno, sempre visto attraverso la persona, mai nei simboli. I tanti magistrati uccisi dalla mafia erano colpevoli di minare il potere dell’onorata società, erano autori di condanne esemplari, protagonisti di processi storici. Perché, ora, questi attentati simbolici, tipici del terrorismo? Come faceva il Ministro dell’Interno ad escludere ogni altra matrice che non fosse mafiosa? I pentiti, i collaboratori di giustizia. Sono questi che, divenuti centinaia, sostengono che la mafia ha dato inizio ad una nuova strategia di lotta: ora, il nemico della mafia è lo Stato. Salvatore Riina ha chiesto al suo successore, il cognato Leoluca Bagarella, di mettere in atto una ‘strategia del terrore’ per allentare la pressione su Cosa Nostra e ‘aprire un dialogo’ con le istituzioni al fine di far sopprimere l’articolo 41 bis del codice penale che stabilisce il carcere duro per i mafiosi. Mancino non sapeva tutto, ma sapeva con certezza che il nuovo terrorismo era mafioso e non poteva rivelare le fonti perché sapeva anche che Bagarella stava assoldando una serie di killer per eliminare i pentiti. La verità verrà fuori nel ’94 – quando saranno individuati e catturati gli autori materiali delle stragi di quest’anno – e sarà confermata nel ’95 con l’arresto dello stesso Bagarella che, in quanto a bombe e stragi, è un esperto: è stato lui a piazzare l’esplosivo dentro il condotto dell’autostrada che ha provocato la strage di Capaci. E comunque, questo nuovo ‘impegno’ terroristico-mafioso non distrae certo l’onorata

Don Giuseppe Puglisi parroco della chiesa di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio a Palermo, ucciso dalla mafia.

società dalla difesa del proprio territorio. Da circa tre anni nel quartiere Brancaccio a Palermo, c’è un nuovo sacerdote, don Giuseppe Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano, che s’è messo in testa di rendere vivibile, di bonificare il Bronx di Palermo, serbatoio della manovalanza mafiosa. Attraverso un centro sociale, don Puglisi comincia a sensibilizzare la gente onesta del quartiere, soprattutto i ragazzi, dando loro un’alternativa alla strada, alla delinquenza e alla precoce affiliazione alla mafia. Rispetto all’opera della Magistratura e delle forze dell’ordine, la Chiesa, gli uomini della Chiesa, hanno sempre goduto di una certa tolleranza da parte della mafia. Ma don Puglisi ha superato il limite e il 15 settembre viene eseguita la sua condanna a morte: il killer, Salvatore Gricoli, gli pianta un proiettile nella nuca. Il quartiere Brancaccio è di nuovo ‘libero’. Nel frattempo, i tanti ‘pool’ di magistrati, formatisi ormai in quasi tutte le Procure del Paese, continuano nella loro opera di pulizia. Neanche lo sport si salva da Tangentopoli in questo caldo, disgraziato e bellissimo maggio italiano. Il 26 maggio, mentre l’on. Ciriaco De Mita riceve il suo primo avviso di garanzia – per l’inchiesta sulla ricostruzione dell’Irpinia – al costruttore edile Corrado Ferlaino, ‘mitico’ presidente del ‘Napoli calcio’, viene consegnato un ordine di custodia cautelare per aver versato tangenti al fine di ottenere appalti. Ferlaino conferma e l’ammissione gli consen- 237


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te di beneficiare degli arresti domiciliari. Tra maggio e giugno si chiude la stagione dello sport più amato dagli italiani: il calcio. Campionato, coppe, promozioni, retrocessioni polarizzano l’attenzione di milioni di sportivi di tutte le età. Ma ne scriveremo in coda. In questi due mesi è in atto un ‘triangolare’ fra politica, finanza e Magistratura mai disputato prima, una gara seguita con una intensità ed una passione che non consente soste.

Le nuove ‘regole del gioco’ Il 6 giugno, lo stesso giorno in cui finisce il campionato di calcio di serie A, vanno alle urne 11 milioni di cittadini: sono le prime amministrative con le nuove regole del gioco. Gli elettori potranno votare direttamente per Sindaci e Presidenti di Provincia. La ‘tornata’ coinvolge 1.192 Comuni, alcuni dei quali, come Milano, Torino e Catania, travolti e ‘sciolti’ dalle inchieste di Tangentopoli per corruzione, concussione, abuso di potere e varie, quando non addirittura per collusione con la criminalità organizzata. Oggi comincia una nuova stagione per la politica italiana – scrive Giuseppe De Tomaso sulla Gazzetta – finora, l’azione dei Palazzi ha adoperato il ‘consenso’, i voti, non come lo ‘strumento’ per la Politica, o per una linea politica, bensì come il ‘fine’ principale della Politica. Una degenerazione oscena, incestuosa. Con le nuove regole del gioco, scema il potere degli apparati. Aumenta quello dei cittadini che per la prima volta non delegheranno alle alchimie e soperchierie correntizie la scelta del Sindaco, l’autorità forse più sentita dalla gente comune. In Puglia e Basilicata sono impegnati 92 Comuni; ma soltanto Melfi elegge, al primo turno, il nuovo Sindaco. Il centro lucano, che dall’arrivo della FIAT respira un clima da ‘civiltà operaia’, è stato il primo ad operare una ‘svolta’ politica conseguenziale: il nuovo sindaco è il senatore Giuseppe Brescia del PDS. Per gli altri 91 Comuni tutto è rinviato al bal238 lottaggio del 20 giugno.

Ma il panorama politico sul piano nazionale, è già ampiamente delineato… non hanno voluto capire – scrive già l’8 giugno sulla Gazzetta, il direttore Gorjux – che bisognava cambiare fin dalle elezioni generali dell’87 quando fu promessa una ‘legislatura costituente’… ora ne pagano le conseguenze: hanno perso tutti i ‘partiti tradizionali’, compreso il PDS che dal ‘vecchio sistema’ non può chiamarsi fuori. Previsione azzardata prima del ballottaggio? Nient’affatto. Anzi: per la DC, PSI e la Rete di Leoluca Orlando che in Sicilia si ritiene, a torto, il nuovo ‘padrone’ politico dell’Isola, è peggio di una doccia fredda in pieno inverno. Scomparsi, letteralmente, PRI, PLI e PSDI; lacerati da polemiche interne nonché screditati da Tangentopoli PSI e DC, la contesa elettorale amministrativa è praticamente un affaire fra la Lega e i partiti di sinistra al Nord; il MSI e la sinistra al Centro e il MSI e partiti di sinistra, accortamente associati a liste civiche, al Centro-Sud. In Sicilia, la contesa è fra le liste civiche e la Rete di Orlando che ‘corre’ con il PDS, Rifondazione e Verdi. Chi vince allora? Vince la Lega al Nord – che si aggiudica 5 sindaci su 12, compreso quello di Milano – e moltissime liste civiche al Centro e al Sud. Non mancano, naturalmente, incredibili capovolgimenti. A Torino, Novara, Catania e Agrigento, il PDS, che si è presentato insieme a Rete e Rifondazione, in vantaggio al primo turno è battuto al ballottaggio. Ma i successi più clamorosi sono quelli ottenuti dal MSI in Puglia. I missini, guidati e spronati dal battagliero ‘Pinuccio’ Tatarella, strappano al PDS i centri di Altamura, Corato, Mola e soprattutto San Vito dei Normanni il cui Sindaco uscente, Rosa Stanisci, è nota in tutto il Paese per il suo impegno contro il racket delle estorsioni. Battuta anche la DC nel Leccese dove perde tutti e quattro i Comuni in cui si vota, compresa Maglie, la nota città natale di Aldo Moro, che ha eletto un Sindaco del PDS. Comunque, a voler essere


obiettivi, è indubbio che la sinistra, in generale, ha ottenuto il maggior numero di Sindaci. Tra novembre e dicembre, poi, si svolge un nuovo turno elettorale amministrativo, un test che sarebbe stato di gran lunga più modesto se, ancora una volta, le vicende di Tangentopoli non avessero contribuito a far ‘sciogliere’ Comuni come Roma, Napoli, Genova, Venezia, Palermo, Taranto, Andria e tanti altri centri minori. Questa volta, però, la vittoria della sinistra è così cospicua che il titolo della Gazzetta, all’indomani dei risultati definitivi, è più che esplicito: Una valanga di Sindaci rossi. Soltanto Palermo, il 21 novembre, ha eletto il Sindaco al primo turno. E’ un plebiscito per Leoluca Orlando che però ha dovuto ‘apparentarsi’ con Rifondazione e altre 4 liste civiche. Tutti gli altri Comuni sono andati al ballottaggio del 5 dicembre… è la caduta dell’Impero – scrive De Tomaso – è la fine di un’epoca. Si sfalda il ‘centro’, l’Italia si colora di rosso quasi ovunque e di nero al Sud. Scompaiono gli altri partiti delle vecchie maggioranze. L’Italia vuole cambiare. Profondamente. Saranno gli storici dei prossimi decenni a stabilire se gli elettori hanno votato per una rivoluzione o sono andati incontro all’ennesima operazione trasformistica… ha vinto il PDS, la forza che si è presentata alle urne con l’unico vero asso nella manica: la capacità di aggregazione anche se, fra i concorrenti allo spareggio, soltanto Bassolino, a Napoli, ha la tessera del PDS. I restanti candidati sindaci vincitori a Roma, Venezia, Trieste e Genova provengono da altri settori della sinistra. Gli sconfitti di ieri si chiamano Fini e Bossi – continua De Tomaso – anche se Lega e MSI hanno ottenuto più voti di lista del PDS, hanno tuttavia commesso l’errore di presentarsi all’elettorato in orgogliosa solitudine. Le nuove regole del gioco sono spietate: o vinci o perdi. In Puglia e Basilicata si è votato in 38 Comuni e tutti gli elettori, o quasi, hanno espresso voti di protesta: 30 sindaci sono andati a

liste civiche sia pure aggregate, in maggioranza, con la sinistra; 4 al PDS, 2 alla DC, uno al PSI e uno al MSI. Taranto, la prima grande città pugliese a sperimentare la nuova legge, consegna il disastrato Comune al ‘folkloristico’ Giancarlo Cito… espressione di un fenomeno sudamericano, dirà sprezzante Massimo D’Alema; Cerignola, la ‘rossa’, la città natale di Giuseppe Di Vittorio, è stata ‘conquistata’ dai missini: ha eletto sindaco Salvatore Tatarella, fratello del più celebre ‘Pinuccio’. Ma chi conosce la storia di questo grosso centro agricolo della Capitanata, non si è sorpreso più di tanto. Cerignola è sempre stata una città di grandi contrasti, le battaglie politiche fra Di Vittorio e i Caradonna, una famiglia di latifondisti, sono ancora oggi leggendarie. Durante il ‘ventennio’, ‘Peppino’ Caradonna aveva formato perfino un proprio corpo di ‘cavalleria’, composto da ‘capoccia’ e ‘caporali’ che, scorrazzanti per le contrade di Cerignola, si distinguevano cantando a squarciagola… se non ci conoscete / ih, per la Madonna! / noi siamo gli squadristi / di Peppino Caradonna.

Nasce il ‘Mattarellum’ Fra i due turni elettorali amministrativi intanto, il 3 e 4 agosto Camera e Senato approvano, definitivamente, la nuova legge elettorale per le elezioni politiche, legge che, nelle intenzioni dei legislatori, dovrebbe segnare il passaggio fra la Prima e la Seconda Repubblica. La nuova legge è il frutto di una lunga, articolata mediazione fra conservatori e progressisti con due punti fermi in comune: abolire il deleterio sistema delle ‘preferenze’ e, possibilmente, anche la proporzionale. La creatura istituzionale che invece viene fuori dal Parlamento è un ‘papocchio’, un ibrido che scontenta sia i partiti innovatori sia i conservatori, ma è, si dirà… il meglio del peggio. Le innovazioni più importanti: si andrà alle urne in un giorno solo; si voterà su due schede per la Camera e una per il Senato; il 75% dei parlamentari sarà eletto con il sistema maggioritario uninominale e il 25% con il propor- 239


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zionale. E’ introdotta la norma dello ‘sbarramento’: i partiti che non raggiungono il 4% dei voti sul territorio nazionale non parteciperanno alla ripartizione dei seggi parlamentari previsti dalla quota proporzionale e, sempre per l’assegnazione dei seggi con la proporzionale, si attuerà lo ‘scorporo’, un paradosso che punisce i partiti che col maggioritario hanno ottenuto più voti. L’operazione dello ‘scorporo’ è così complessa che, con tutta la buona volontà, neanche gli addetti ai lavori riescono a spiegare compiutamente come funzionerà. Inoltre, in caso di sostituzione – per dimissioni, rinunzie, decessi, etc. – di deputati o senatori eletti col sistema maggioritario, si dovrà procedere a elezioni suppletive. Con il vecchio sistema subentrava il primo non eletto, nella lista del sostituito col maggior numero di preferenze. Per molti osservatori – scrive De Tomaso sulla Gazzetta – questa legge è la reincarnazione del Minotauro, quella creatura mitologica dal corpo umano e dalla testa di toro, uccisa da Teseo nel labirinto di Creta. Se la nuova legge funzionerà non è dato sapere, ma dall’esperienza dei test amministrativi di giugno e dicembre, è chiaro che… l’Italia rischia inevitabilmente l’ingovernabilità – sostiene il politologo Giovanni Sartori – l’aver scelto il sistema uninominale secco per le elezioni politiche avrà come conseguenza la frammentazione del voto senza che alcuna forza politica raggiunga la maggioranza. Accettando questo sistema Mario Segni si è votato al suicidio politico. Infatti la vera incognita, nelle ormai prossime elezioni politiche, è la totale assenza di un grande, organizzato partito di centro, formato da quell’elettorato cattolico, laico e moderato che alle amministrative si è riversato nelle liste civiche. Dove confluirà nelle elezioni politiche? Alla luce dei risultati del 6 dicembre, Achille Occhetto non ha dubbi: nel PDS… siamo noi il ‘nuovo’ centro… siamo noi, oggi, la spina dorsale di un’alleanza democratica 240 che si propone come forza di governo. MSI e

M. D’Alema e A. Occhetto... ora il ‘centro’ siamo noi.

Lega sono estremisti e noi non crediamo che nelle prossime elezioni politiche l’Italia sarà costretta a scegliere fra due opposti estremismi. Noi siamo una forza centrale, riformatrice e moderna – ribadisce Occhetto - e quindi chiediamo il voto di cattolici, laici e moderati. E tenta ancora una volta di convincere Mario Segni a schierarsi con il PDS… siamo pronti, dobbiamo solo trovare qualcuno che faccia il Presidente del Consiglio. Se era un invito a Segni, non è raccolto. Allora Occhetto fa il passo successivo, si candida lui per Palazzo Chigi. Ma quando D’Alema, due giorni dopo, gli riversa addosso un secchio di acqua gelata… per una certa fase il Paese ha più bisogno di un Governo impegnato in un’opera di ricostruzione nazionale, per alcuni aspetti in continuità con quello attuale, che non propriamente di un governo di sinistra… Occhetto smentisce di essersi mai candidato alla Presidenza del Consiglio. E comunque, Segni è già oltre ‘Alleanza democratica’. E’ avviato verso la formazione di un ‘Patto’ di rinascita nazionale… un movimento nuovo che riunisca tutti gli italiani… per formare una forza di governo che combatta lo statalismo… un Paese lontano dal modello che vuole Bossi, dal ritorno al passato che vuole Fini e da una sinistra che è ancora rimasta indietro. Il nuovo – aggiunge Segni – non può certo venire da Occhetto.


Berlusconi ‘sonda’ La confusione, insomma, regna sovrana e la fase di ‘sondaggio’ di Silvio Berlusconi che accenna a voler costituire un partito di centro, non fa che accrescerla. Tutti vogliono conquistarsi il ‘centro’ rappresentato da quel 29% di elettori che nei due test amministrativi si è espresso con la scheda bianca o con la diserzione delle urne; tutti aspirano a schierarsi con il ‘centro’, ma il centro non c’è più. Anzi, paradossalmente, è il ‘centro’ che, diviso in tre anime, cerca un alleato affidabile… ci aspettano mesi durante i quali ogni giorno varrà un anno ed ogni scelta politica inciderà sulla storia italiana, sui cromosomi della Seconda Repubblica – scrive Gorjux il 7 dicembre – osserviamo con attenzione e riflettiamo con cosciente fermezza. L’Italia non vuole soltanto cambiare e cambiare in meglio. Vuole ricominciare. Così, mentre il ‘centro’ si dilania e si divide fra chi vuole andare a ‘destra’, chi a ‘sinistra’ e chi con i ‘pattisti’ di Mario Segni, Silvio Berlusconi prepara, in sordina, la sua… discesa in campo. Niente di ufficiale, ma è indubbio che ci sta lavorando… Berlusconi sta mettendo in piedi una macchina organizzativa formidabile, invincibile, diabolica – sostiene Vittorio Sgarbi l’8 dicembre – allestita con criteri così sofisticati che i vecchi partiti tradizionali saranno letteralmente travolti… il nuovo partito, che si chiamerà ‘Forza Italia’, potrebbe raggiungere il 20%… Berlusconi potrebbe diventare il Presidente del Consiglio, magari dopo una prima esperienza di Segni – continua Sgarbi che si avventura fino a ‘disegnare’ la futura coalizione di governo – il 16% sarà costituito da Forza Italia; il 4% lo porterò io con il mio partito – ‘Sgarbi italiani’ –; il 12% il nuovo partito di Fini; il 15% la Lega di Umberto Bossi e il 6% Mario Segni. Siamo, insomma, alla ‘palla di vetro’ – commenta Russo Rossi dalla redazione romana della Gazzetta – meglio non prendere alla lettera le rivelazioni di Sgarbi, anche perché alcune sembrano talmente azzardate da far

ipotizzare un tiro mancino scaturito dalla sua fantasia. Tempo quattro mesi e – tranne Segni, persosi nei meandri del vecchio ‘centro’ – le ‘fantasie’ di Sgarbi diventano realtà. Eppure, poco più di un mese prima, il Cavaliere aveva decisamente negato l’esistenza di un ‘partito del biscione’, come lo definivano quelli del gruppo Espresso-Repubblica, nemici storici di Berlusconi… ma quale partito!? – aveva detto lo stesso Berlusconi ai giornalisti il 27 ottobre – credete ancora a quello che scrive Repubblica? Al presente non ho intenzione di lanciarmi nel mondo politico… ho ben altre preoccupazioni al momento… le avreste anche voi se il vostro gruppo imprenditoriale avesse un indebitamento pari al 44% del fatturato. Certo – aggiunge poi – siamo persone responsabili, protagonisti del mondo delle imprese e ci poniamo domande… volete toglierci il diritto di preoccuparci di quale assetto avrà il Paese in un momento in cui una classe politica quasi al completo sta abbandonando la scena?

Silvio Berlusconi... non sono pronto a scendere in campo.

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Il Cavaliere... ci pensa Dunque il Cavaliere ci pensa… senza pensarci. Ma voci di incontri e consultazioni si fanno sempre più insistenti. Fra la sua abitazione romana e la fastosa residenza di Arcore, Berlusconi vede, ascolta e chiede consigli a numerosi esponenti politici, economisti, imprenditori, alti dirigenti del suo gruppo, amici, consiglieri personali e la folla di giornalisti del suo impero mediatico distribuiti fra quotidiani, settimanali e Tv. Tutto quello che Berlusconi ottiene sono adesioni tiepide, consensi di circostanza. I suoi più stretti collaboratori – Confalonieri, Dell’Utri, Martino, Previti, Urbani e Galliani – sono dubbiosi, scettici, contrari. Neppure il saggio e fidato Gianni Letta riesce a dissuaderlo dicendogli, in termini accorati, che la sua… discesa in campo potrebbe risultare rovinosa per lui e per le sue aziende. La maggior parte dei giornalisti invece – tranne uno, Emilio Fede – storcono la bocca: si sentono minacciati nella loro autonomia professionale, pensano a inevitabili condizionamenti o, peggio, a intromissioni di personaggi che con il giornalismo non hanno nulla a che fare. Si racconta che il consiglio più spassionato e sincero Berlusconi lo ebbe da Giuliano Ferrara che, sapendo bene di quale fauna è popolata la foresta politica italiana, gli disse senza esitare… Silvio, lascia perdere, ti faranno a pezzi. E Costanzo non sarà da meno. Ma il Cavaliere non è tipo che si lascia scoraggiare facilmente. Anzi, più le ‘sfide’ sono difficili, più si sente stimolato, intrigato. Possiede una tale carica di ottimismo e fiducia in se stesso – non a caso si dice ‘unto dal Signore’ – che alla lunga finisce col contagiare coloro che lo circondano. Così, il 23 novembre, subito dopo il primo turno elettorale per l’elezione del Sindaco di Roma, Berlusconi si offre come ‘mediatore’ per costruire un grande partito di centro… un polo liberal-democratico – dice – che contrasti le sinistre. Il candidato alla presidenza del Consiglio? L’ideale sarebbe Segni, ma potreb242 be anche essere Martinazzoli… li chiuderei

tutti in una stanza e non li lascerei uscire finché non hanno raggiunto un accordo. Poi, quasi con noncuranza, getta la bomba… se fossi romano, al ballottaggio fra Rutelli e Fini, voterei per Fini. Lo voterei senza esitazione, perché è l’esponente che raggruppa quell’area moderata che può garantire un futuro a questo Paese. Ventiquattr’ore dopo Berlusconi assapora la prima sfilza di ‘assaggini’ che la robusta cucina politica e la stampa nazionale riserva ai neofiti. Tranne Fini, che ringrazia per l’apprezzamento, tutti i rappresentanti dei partiti di ‘centro’ gli voltano le spalle. Gli imprenditori parlano di… rispettabile scelta personale; Occhetto gli consiglia di… dedicarsi allo sport. E’ l’unico settore in cui mi pare riesca meglio…; D’Alema è ancora più sferzante… Berlusconi dice di voler difendere il mercato. Ma quale, quello delle vacche? I titoli dei quotidiani vanno da… Berlusconi, il cavaliere nero a Berlusconi Fininvest; i più benevoli scrivono di ‘annuncio choc’; Maurizio Costanzo gli fa sapere che darà il suo sostegno e il suo voto a Francesco Rutelli; le redazioni giornalistiche del suo gruppo editoriale si riuniscono in infuocate assemblee, protestano, chiedono garanzie, proclamano scioperi; altrettanto fanno tutti i suoi dipendenti del settore commerciale; seduta stante nascono i comitati ‘bo.bi.’ – boicottate il biscione – al Giornale, il quotidiano fondato e diretto da Indro Montanelli – il cui azionista di maggioranza è Paolo Berlusconi, fratello del Cavaliere – corrono voci di dimissioni del ‘grande vecchio’ del giornalismo italiano; non mancano vignette che disegnano l’intruso in ‘fez’ e camicia nera. E c’è chi, senza mezzi termini, gli dà del ‘fascista’… è una vergogna – commenta sdegnato Berlusconi in un’affollata e caotica conferenza stampa – io non ho nulla da spartire con il fascismo. E’ un’ideologia vecchia, sepolta nel passato. Definirmi fascista è una stupidaggine… sono un liberista, un uomo concreto. E’ solo l’inizio. Il Cavaliere non ha ancora deciso di… scendere in campo che già comin-


cia l’opera di demonizzazione del personaggio. Berlusconi incassa. Dopo tutto, l’avevano avvertito. E tuttavia un boccone amaro dovrà buttarlo giù. Il 5 dicembre, a San Siro, durante l’incontro di calcio Milan-Torino, un gruppo di tifosi del ‘popolo’ milanista prima inonda la tribuna d’onore con volantini dal titolo ‘disarcioniamo il Cavaliere nero’ poi riescono a srotolare un enorme striscione con la scritta ‘Berlusconi, vergogna’. Berlusconi è visibilmente amareggiato. Una contestazione così plateale da parte della ‘sua’ tifoseria l’ha ferito: sa proprio d’ingratitudine. Il messaggio è chiaro: non sperare, caro Presidente, di trovare l’erbetta verde e soffice degli stadi di calcio se scendi in campo con una squadra politica. Quella sera stessa, Francesco Rutelli vince il confronto con Gianfranco Fini e viene eletto sindaco di Roma. Stranamente, però, almeno in questo contesto preambolare e amletico – Berlusconi non ha ancora deciso se insistere nel proporsi come ‘mediatore’ o, come dice lui stesso… bere l’amaro calice… e candidarsi – stranamente, nessuno ancora tira fuori l’inchiesta del pool di Mani Pulite sul gruppo Fininvest per presunti finanziamenti illeciti al PSI. L’indagine è partita il 22 giugno con l’iscrizione nel registro degli indagati di Fedele Confalonieri, amministratore delegato della Fininvest. Sembra che l’azienda di Berlusconi abbia pagato fatture ‘gonfiate’ all’Avanti!, il quotidiano del PSI, contribuendo così al finanziamento illecito del partito di Craxi… sono tutte fatture regolarmente emesse e registrate nella contabilità del gruppo – si difende Confalonieri – ma mi auguro che i giudici mi indaghino anche per analoghe fatture pagate all’Unità, al Popolo, alla Voce Repubblicana, a Repubblica, al Corriere della Sera, alla Stampa, al Giorno, al Secolo d’Italia e a tanti altri quotidiani di partito e non. In quanto alla pubblicità che i partiti, tutti i partiti, in special modo DC, PSI, PDS, MSI, PLI e PRI hanno fatto sulle nostre reti dal 1985 al 1992, hanno tutti

usufruito di sconti oscillanti dal 40 al 90% per un ammontare di 15 miliardi. In soldoni, più che tangenti erano, per la Fininvest, mancati introiti. Messa così, la vicenda si sgonfia. Nel calderone c’erano tutti ed era inutile spulciare carte per dimostrare che solo il PSI era stato privilegiato nelle agevolazioni. L’inchiesta si ferma dunque, ma è solo rinviata: si rimetterà in moto dopo l’elezione di Berlusconi alla presidenza del Consiglio. D’altra parte proprio in quei giorni, anzi lo stesso 22 giugno, esplodono le due più sconvolgenti inchieste di ‘Mani Pulite’ nella storia della Prima Repubblica: l’affare Enimont e lo scandalo sulla Sanità.

L’affare Enimont L’affare Enimont prende corpo con l’avviso di garanzia a Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison. Le voci che circolano da mesi su presunte tangenti alla Sanità, invece, trovano conferma nelle dichiarazioni di Giovanni Marone, ex segretario dell’ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo. Giuseppe Garofano è stato presidente della Montedison dal 1981 fino al 1992 quando, indagato e interrogato dal pool di ‘Mani Pulite’ per una tangente di 250 milioni alla DC, si rende latitante. L’accusa sostiene che quel versamento proviene dalle casse della Montedison. Garofano, invece, afferma che è un contributo personale. Gli inquirenti non si convincono e, in attesa di ulteriori riscontri, Garofano è lasciato libero. Ma questi sa che è questione di tempo. Perciò, quando a gennaio di quest’anno la Procura di Milano spicca un mandato di cattura nei suoi confronti, Garofano è già uccel di bosco: si è trasferito a Londra. Ricercato con un mandato di arresto internazionale, Garofano è intercettato e arrestato a Ginevra il 13 luglio. L’ex presidente della Montedison deve rispondere di finanziamento illecito ai partiti da parte della grande azienda chimica. Garofano, invece, apre il capitolo più 243


Gianni Agnelli con Raul Gardini il Re della chimica che voleva diventare più potente dell’Avvocato.

nero nella storia di Tangentopoli: parla dell’Enimont. Giuseppe Garofano, che si esprime come un grande elettore in un conclave – non a caso è soprannominato il ‘Cardinale’ – parla non tanto per difendersi, quanto per demolire quel ‘sancta sanctorum’ che ha guidato per 11 anni. Parla della fusione fra l’Eni e la Montedison, già parte integrante dell’impero del gruppo Ferruzzi, guidato da Raul Gardini. Il racconto di Garofano dura 9 ore il 18 luglio e 5 ore il 19. Egli spiega ai giudici Di Pietro, Greco, Ghitti e Colombo, come è nata la ‘joint venture’ diretta a costituire l’Enimont, il più grande polo petrolchimico d’Europa; come la Montedison, già prima della nascita di Enimont, abbia versato una decina di miliardi ai partiti di governo per ottenere una legge che consente l’esonero fiscale sull’operazione; come Gardini, non pago di possedere la parità azionaria con l’Eni al 40%, abbia tentato di impossessarsi del restante 20% rimasto sul mercato con una serie di azzardate operazioni finanziarie portando la ‘casa madre’, la Ferruzzi Spa, al crack finanziario; come l’Eni, nel tentativo di impedire la scalata al proprio gruppo, sia riuscita ad ottenere un provvedi244 mento di fermo cautelativo delle azioni Mon-

tedison e, come Gardini, ormai in difficoltà economiche, sia riuscito a rivendere la quota azionaria della Montedison all’Eni per 2.805 miliardi promettendo e pagando ai cinque partiti di governo una tangente colossale. Naturalmente, come oramai è consuetudine, al massimo due ore dopo l’interrogatorio di Garofano, i verbali sono già nelle mani dei giornalisti e, il mattino successivo, pubblicati da tutti i quotidiani: Gabriele Cagliari, rinchiuso a San Vittore da 133 giorni, si uccide il 20 luglio, autosoffocandosi con un sacchetto di plastica; Raul Gardini il mattino del 23, a casa sua, a Milano, con un colpo di pistola alla tempia, dopo la lettura dei quotidiani. L’Enimont ha avuto due anni di vita: nato il 15 dicembre del 1988, conclude la sua esperienza di colosso petrolchimico europeo l’8 novembre del 1990 quando il giudice Diego Curtò, presidente vicario del Tribunale civile di Milano, su richiesta dell’Eni, blocca le azioni della Montedison. Il ‘Cardinale’ – che continua a riempire pagine e pagine di verbali – delinea le strategie adottate da Gardini per diventare il maggior azionista dell’Enimont, descrive la cornice, abbozza il tema del puzzle, ma è Carlo Sama, cognato di Raul Gardini, a mettere uno per


uno, nella cornice delineata da Garofano, tutti i pezzi mancanti per formare il più incredibile quadro di corruzione politica nella storia della Prima Repubblica. Tuttavia Sama distribuisce solo gli spiccioli, poiché il vero ‘mediatore’ e grande ‘elemosiniere’ dell’affaire Enimont, si chiama Sergio Cusani, personaggio di spicco del movimento studentesco nel ’68, laureato in economia e commercio all’Università Bocconi di Milano, soprannominato il ‘Marchese’ tra gli addetti ai lavori della Borsa milanese e, ufficialmente, uomo di fiducia di Gardini. Il consulente finanziario Cusani, vanta di essere l’unico depositario dei segreti dell’imprenditore ravennate, il confidente privilegiato, colui che si occupa delle grandi cifre. E’ lui, infatti, l’elemosiniere di tutte le operazioni illecite della Montedison, è lui che per conto di Gardini contatta partiti e persone, patteggia e poi paga, a rate, 157 miliardi a partire dall’operazione di fusione fra l’Eni e la Montedison fino alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 1992. Ma come Gabriele Cagliari, anche Sergio Cusani, pur sostenendo di aver elargito ‘contributi’ a tutti, rifiuta di fare nomi scegliendo di assumersi tutte le responsabilità. E’ Sama a rivelare ai magistrati di Brescia il coinvolgimento dell’ingenuo giudice Curtò nella vicenda Enimont che in cambio riceve, dall’avvocato dell’ENI, Pompeo Locatelli, una tangente di 350 milioni. Locatelli, infatti, dopo aver chiesto e ottenuto dal giudice Curtò il blocco delle azioni Montedison, si farà nominare dallo stesso Curtò custode giudiziario. Fallita la fusione ENI-Montedison, Locatelli pretese dalla Montedison una parcella di 14 miliardi. Ne ottenne solo 7, tre dei quali in nero, e l’avvocato per riconoscenza versò su un conto svizzero del giudice Curtò, la modica mazzetta che costò all’alto magistrato qualche giorno di carcere, nonché onorabilità e carriera. Sarà ancora Carlo Sama, durante il processo a Cusani, a tirare in ballo sia la Lega Nord – 200 milioni per le politiche del ’92 – sia il

PCI-PDS, Bettino Craxi, Claudio Martelli, Arnaldo Forlani, Paolo Cirino Pomicino, Renato Altissimo, Giorgio La Malfa, Carlo Vizzini e Franco Piga ex ministro delle Partecipazioni Statali – scomparso per un infarto il 26 dicembre del ’90 – firmatario quest’ultimo del contratto di acquisto delle azioni Montedison. Sarà la stessa vedova del ministro Piga a confermare di aver ricevuto, giorni dopo la scomparsa del marito, una busta contenente 900 milioni in titoli di Stato. A questo punto, il collegamento fra l’affare Enimont e l’omicidio-suicidio di Sergio Castellari, ex direttore generale delle Partecipazioni Statali, trovato senza vita nella campagna romana il 25 febbraio di quest’anno, è conseguenziale. Quali segreti Castellari conosceva per compiere un atto così estremo? E ancora, Castellari si è suicidato o è stato ucciso?

Giuseppe Garofano con Carlo Sama cognato di Raul Gardini per conto del quale distribuiva mazzette.

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Una finestra sulla storia - 1993

Il processo del secolo Il processo a Sergio Cusani nasce da una sfida. Nasce dal rifiuto del giovane finanziere – freddo, elegante, altezzoso – di collaborare con Di Pietro… parlerò solo al processo. Benissimo – dirà Di Pietro all’avvocato Giuliano Spazzali, difensore di Cusani – lo faremo subito… e, parafrasando la celebre battuta di Saddam Hussein, comune in questo periodo, nel fresco ricordo della prima ‘Guerra del Golfo’, Di Pietro aggiunge… sarà il padre di tutti i processi… e chiede per Cusani il ‘rito ambrosiano’, un processo abbreviato in uso per i ladri di polli. Colto di sorpresa, Spazzali protesta. Tenta di far trasferire il processo a Brescia, dove si sta istruendo il procedimento contro Diego Curtò, ma Di Pietro dimostra che non c’è correlazione fra le accuse a Curtò e quelle a Cusani. Spazzali, insomma, il processo lo vuole, ma insieme a quello relativo a tutti gli alti papaveri dell’affare Enimont. Il… padre di tutti i processi per la madre di tutte le tangenti… si apre a Milano il 28 ottobre, appena tre mesi dopo l’arresto di Cusani. La sola ammissione che Di Pietro ottiene dall’imputato è una memoria in cui questi afferma… io ho avuto il compito di acquisire il contante e i titoli di Stato e di utilizzarli secondo un piano che, compreso e condiviso da me per una sua buona parte, non fu da me né organizzato, né indotto. L’antivigilia di Natale, Sergio Cusani è scarcerato – per decorrenza dei termini di custodia cautelare – senza essere mai stato nell’aula del Tribunale in cui si celebra il suo processo. Ci andrà per la prima volta il 4 gennaio del ’94 e chiederà di avvalersi della facoltà di non rispondere. Con le rivelazioni di Carlo Sama, il 24 novembre, due mesi dopo l’inizio del processo, Milano diventa, nei resoconti dei giornalisti, la Norimberga della classe politica italiana. A Milano, Di Pietro processa sia i partiti, compreso il PCI-PDS, che l’intera classe politica 246 nazionale del ‘vecchio regime’.

Sergio Cusani, a destra, con l’avvocato Giuliano Spazzali suo difensore al processo Enimont.

Portato nelle case degli italiani dalla televisione, il ‘processo Cusani’ diventa l’evento mediatico del decennio. Passati in rassegna e scrutati a fondo dall’occhio della telecamera, accusa, difesa e testimoni diventano attori di un unico grande spettacolo dove l’opinione pubblica passa dalla condizione di spettatore a quella di giurato… la televisione – scrive il sociologo Sabino Acquaviva sulla Gazzetta – sta facendo un processo parallelo… non descrive i fatti, non mette al corrente la gente di quanto è accaduto e accade, sta trasformando ‘il processo’ in una specie di tribunale del popolo, di quelli che si svolgono quando è in corso una rivoluzione… e ‘il popolo’ della Tv condanna, punisce e assolve indipendentemente dalle colpe, dalla realtà delle cose… il giudizio della gente è soprattutto psicologico, di simpatia o antipatia, a volte del tutto istintivo, di pelle. Il protagonista-eroe di tutte le trasmissioni, di tutte le 44 udienze del processo Cusani, è il pubblico ministero Antonio Di Pietro: oltre a dimostrare una indiscutibile capacità professionale, il magistrato unisce, con un’abilità sorprendente, l’uso di sofisticate apparecchiature elettroniche ad un comportamento gestua-


le da attore consumato. Ora austero, ora popolaresco, la sua esposizione dibattimentale è estremamente efficace. Semplice, diretto, impietoso e con qualche testimone perfino ‘crudele’, Di Pietro incanta, appassiona e sollecita l’interesse popolare specie quando si abbandona a frasi gergali – famoso il suo ‘che ci azzecca’ – o ad espressioni popolari come… qui, carta canta… i miliardi non sono bruscolini… non sono Mandrake… se non è zuppa e pan bagnato… e così via. Così, quello che doveva essere un processo a Sergio Cusani, imputato per falso in bilancio – reato che dieci anni dopo sarà depenalizzato – e finanziamento illecito dei partiti, diventa, per il grande pubblico, giorno per giorno, sera per sera, una specie di rito collettivo di purificazione, un documentario, con tanto di trasmissioni e servizi speciali sulle rovine di un regime che, per mantenersi al potere, ha finito per divorare se stesso. E’ vero che – come dicono molti studiosi la storia si ripete. Esattamente duecento anni prima, in seguito a quella rivoluzione che cambiò l’Europa e il mondo, un altro avvocato ‘incorruttibile’, Robespierre, nel chiedere la condanna a morte di Luigi XVI disse: Qui non c’è da fare un processo. Non dovete emettere una sentenza a favore o contro un uomo: dovete prendere una misura di salute pubblica, compiere un atto di provvidenza nazionale. Sarà più o meno con lo stesso spirito, con gli stessi argomenti che Di Pietro imposta il ‘processo Cusani’. Nessuno si salva, neanche il PCI-PDS chiamato in causa da Carlo Sama, Paolo Cirino Pomicino e, naturalmente, da Bettino Craxi. Per una strana coincidenza, Craxi e Forlani sono chiamati a testimoniare lo stesso giorno, il 17 dicembre. Craxi è interrogato il mattino, Forlani nel pomeriggio. L’ex Segretario socialista, che sa perfettamente quanto può pesare la sua testimonianza, trasmessa in diretta Tv, sull’opinione pubblica, non solo non si lascia intimidire dalle domande incalzanti di Di Pietro ma, invece di rispondere, improvvisa un

comizio. Ribadisce punto per punto quanto aveva già detto in Parlamento… tutti prendevano tangenti… tutti elaboravano bilanci falsi… è il sistema che è marcio… questo processo non ha senso… bisognerebbe fare un processo politico… e, riferendosi alla maxi-tangente Enimont, afferma:… qualcuno crede veramente che il ravennate Raul Gardini con interessi diffusi in tutta l’Emilia e con rapporti di lavoro con l’Unione Sovietica non finanziasse il PCI? E’ ancora Acquaviva a commentare l’interrogatorio di Craxi… non dava l’impressione di parlare ai giudici, al pubblico ministero, agli avvocati. No, Craxi si rivolgeva direttamente al popolo italiano. E l’ha fatto in maniera efficace. Bruno Vespa, nel suo volume ‘I dieci anni che hanno sconvolto l’Italia’, commenta la testimonianza di Craxi con un ironico… poco mancò che se ne andasse tra gli applausi. Il pomeriggio tocca ad Arnaldo Forlani: è un tormento. Bersagliato da domande insistenti, l’ex Segretario della DC si fa prendere dal panico. Di Pietro è così aggressivo che il presidente della Corte, Giuseppe Tarantola, è costretto a intervenire. Esitante, confuso, con la bava agli angoli della bocca che la telecamera non esita a mettere in risalto con impietosi primi piani, Forlani si trincera in una serie di… non ricordo… non mi risulta… non so nulla. E Di Pietro, irrisorio, sbotta… insomma è venuto qui per dirci ‘nun lu saccio, nun lu vedo’? Quello che doveva essere il processo a Cusani, diventa per l’opinione pubblica la pietra tombale sui partiti di maggioranza; lascia ‘macchie’ vistose sul PCI-PDS e annienta la moralità personale sia di Craxi e Forlani, sia di quanti sono interrogati prima e dopo le loro deposizioni: Altissimo, Martelli, Pomicino e La Malfa. Quando il Pubblico ministero chiede a Renato Altissimo quanti appartamenti possiede a Montecarlo… Sette, otto – risponde il leader liberale – li ho avuti in eredità. Vero o falso che sia, Di Pietro provocatoriamente non insiste, non commenta, lascia che sia il pubblico a casa a valutare e formarsi un giudizio. 247


Una finestra sulla storia - 1993

Tonino, eroe nazionale La requisitoria finale del processo Cusani inizierà il 19 aprile del 1994 e la RAI, che seguendolo ha trovato il miglior ‘legal-thriller’ mai sceneggiato, interpretato da attori e comparse ‘autentici’ – Giuliano Spazzali, l’avvocato difensore di Cusani, non è certo inferiore a Di Pietro quanto a personalità, cultura ed eloquenza, anzi… – la Rai dicevamo, deciderà di seguire tutte le fasi delle ultime ‘recite’ in diretta: mattino, pomeriggio e ampi resoconti e servizi speciali in serata, arricchiti poi dall’immancabile ripescaggio di Striscia su Canale 5 e Blob su RAI 3. Sarà un successo strepitoso. Di Pietro interpreterà un copione mai scritto con una tale professionalità da meritarsi l’appellativo di ‘Superstar’. Dopo aver ripercorso con estrema lucidità tutti i passaggi della maxi tangente Enimont, il pubblico ministero attaccherà duramente Cusani. Lo accuserà di aver indotto Gardini al suicidio e lo definirà camaleonte, ladro, bugiardo e traditore… Cusani non ha tradito Gardini una sola volta, ma tre volte: Uno, Gardini gli dà i soldi per i partiti e lui consegna solo le briciole. Due, tradisce il gruppo e la famiglia Ferruzzi a cui non dice di aver ricevuto tutti quei denari. Tre, tradisce i politici ai quali dà solo un tozzo di pane per tenersi il resto. Mancano all’appello 63 miliardi… io non sono Madrake e - continuerà Di Pietro – non sono riuscito a trovarli, ma se Cusani ci dicesse dove sono finiti quei 63 miliardi che dice di aver restituito a Gardini, sono pronto a rivedere la misura della richiesta di pena. Poi, quasi conciliante e quasi contraddicendosi, aggiungerà… in mezzo a mille falsità, Cusani ci ha dato uno spiraglio di luce, ha restituito 35 miliardi. Quindi merita non solo le attenuanti generiche, ma quelle equivalenti alle aggravanti …e chiederà una condanna a 7 anni di reclusione e 20 milioni di multa. La requisitoria della difesa sarà incentrata tutta sul tentativo di dimostrare che Cusani era 248 solo una ‘pedina’ nel grande gioco politico e

affaristico che si è consumato intorno alla vicenda Enimont. Spazzali tenterà soprattutto di scagionare Cusani dall’accusa più grave – falso in bilancio – asserendo che, nonostante il giovane finanziere avesse gestito una montagna di denaro, non ha mai ricoperto alcun incarico ufficiale nella Montedison, nell’Enimont o nel gruppo Ferruzzi. Il 28 aprile 1994, poco prima che i giudici si riuniscano in camera di consiglio per la sentenza, Sergio Cusani per la prima volta chiederà di poter fare una ‘dichiarazione spontanea’ per un estremo tentativo di difendersi dall’accusa di falso in bilancio e per denunciare la violenza verbale subita dal pubblico ministero… non sono stato io a indurre Raul Gardini al suicidio, ma la Procura che non ha voluto ascoltarlo… per Romiti e De Benedetti i magistrati si sono accontentati di pochi fogli di memoriale, per Gardini no, bisognava fare un colpo comunicazionale gettandolo in galera. Ladro? – proseguirà Cusani – non ho mai rubato in vita mia… c’è solo un colpaccio che potevo fare: aderire alle tesi della Procura, sarei stato subito libero e con un sacco di soldi in mano… ma io di verità ne ho una sola, io e i miei avvocati abbiamo dimostrato che il teorema del pubblico ministero, ‘Enimont-uguale-CAF’ – il famoso patto del ‘Camper’ fra Craxi, Andreotti e Forlani al congresso milanese del PSI nel maggio dell’89 – non era vero. Coinvolto era tutto il sistema di potere e ora che il CAF non c’è più, resta in piedi il sistema di potere. Infine, Cusani attacca direttamente Di Pietro per… la lunga e violentissima requisitoria, la valanga di insulti personali tanto più efficaci perché pronunciati da un magistrato che è diventato un personaggio potente… anche se dovessi essere assolto, resterei con il marchio di quelle accuse addosso per sempre… se le accuse fossero fondate, forse la gente che ha chiamato i giornali non avrebbe torto a protestare per i 7 anni chiesti dal Pubblico ministero… ma chi trancia giudizi non è mai stato in carcere… non voglio pietà,


voglio la giustizia giusta. E la Corte lo condannerà a… 8 anni di reclusione, 16 milioni di multa, 2 anni di interdizione dall’esercizio della professione di commercialista e a 167 miliardi di risarcimento alla Montedison. Qualcosa in più di quanto il pm Di Pietro avesse richiesto! Anche il processo per la maxi tangente ENI-SAI – un contratto assicurativo multimiliardario iniziato subito dopo la condanna a Cusani – vedrà, fra gli altri imputati, ancora Cusani condannato ad altri 4 anni di carcere. Riarrestato, fra appelli, condoni e sconti – Cusani sarà un detenuto modello – nell’autunno del 1999 sarà affidato ai servizi sociali e il 19 ottobre del 2001, l’imputato più coriaceo di Tangentopoli tornerà libero, povero e senza famiglia: la moglie, che l’ha abbandonato, e lo Stato, lo hanno lasciato, dirà, senza il becco di un quattrino. Il vero processo Enimont, quello che avrebbe voluto l’avvocato Giuliano Spazzali, inizierà il 5 luglio del 1994. Sarà un altro processo ‘storico’ che avrà fra gli imputati tutti i personaggi chiamati a testimoniare nel processo Cusani, compresi Umberto Bossi e Alessandro Patelli, rispettivamente leader e segretario amministrativo della Lega. Ma questa è un’altra storia. Una storia che appartiene ad un altro Paese, già diverso da questo 1993.

I ladri della salute pubblica Il bubbone delle ‘mazzette’ alla Sanità esplode proprio mentre la polizia tributaria visita, il 22 giugno di questo tumultuoso anno, gli uffici della Fininvest. L’ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, dimessosi il 20 febbraio per il già citato scandalo di tangenti che ha coinvolto il padre, riceve il primo avviso di garanzia per voto di scambio, all’inizio di marzo. Il 18 marzo, la Giunta parlamentare d’inchiesta concede l’autorizzazione a procedere e De Lorenzo, preoccupato, convoca nella sua abitazione napoletana il capo della sua Segreteria

Il ministro della Sanità Francesco De Lorenzo.

Giovanni Marone. Insieme, provvedono a distruggere, bruciando e gettando nel water una grandissima quantità di documenti che, in una eventuale perquisizione, potevano risultare compromettenti. Ma Marone si spaventa. Le inchieste di ‘Mani Pulite’ non sono catalogabili fra le solite ‘inchieste all’italiana’ e senza documenti comprovanti che lui, Marone, è solo il tramite nei rapporti d’affari del Ministro, il collettore di tangenti che consegna regolarmente, rischia di diventare l’unico capro espiatorio. Così decide di fare come tanti altri prima di lui. Il 16 giugno si presenta alla Procura di Milano e racconta ad Antonio Di Pietro la vergognosa storia delle ‘mazzette’ sulla Sanità: un lungo, terribile atto d’accusa, un verbale di 87 pagine, contro Francesco De Lorenzo che dall’89 al ’92 avrebbe intascato tangenti – personalmente o tramite lo stesso Marone – per decine di miliardi. Da chi? Soprattutto da imprese farmaceutiche, ma anche da aziende produttrici di acque minerali e finanche da aziende pubblicitarie per la realizzazione di spot televisivi anti-AIDS. Per quale motivo? In cambio di agevolazioni nelle pratiche di adeguamento del prezzo dei farmaci, per istanze di iscrizione di nuovi prodotti nel prontuario farmaceutico e per velocizzare procedure CEE sulle acque minerali. 249


Una finestra sulla storia - 1993

Il 22 giugno, il gip Italo Ghitti firma 20 ordini di custodia cautelare e un avviso di garanzia per De Lorenzo. Il verbale d’interrogatorio di Marone viene trasmesso alla Procura di Napoli che, ovviamente, apre una nuova inchiesta e il 5 luglio sforna una nuova serie di ordini di arresto e un nuovo ‘avviso’ per l’ex Ministro, questa volta con l’accusa di associazione a delinquere, corruzione e illecito finanziamento dei partiti. Fra gli 11 ordini di custodia cautelare della Procura di Napoli ci sono quelli che riguardano lo stesso Marone e il fratello di De Lorenzo, Renato; il preside della Facoltà di Farmacia di Napoli, Antonio Vittoria; il presidente del Comitato interministeriale prezzi per il settore farmaci, Antonio Brenna; il direttore dell’Istituto superiore della Sanità, Francesco Antonio Manzoli; il direttore del servizio farmaceutico del ministero, Duilio Poggiolini, e diversi altri componenti del CIP-farmaci. Il prof. Vittoria si uccide subito dopo le prime notizie filtrate dall’interrogatorio di Marone; Duilio Poggiolini è latitante, o meglio è ricoverato in una clinica svizzera per curarsi da un provvidenziale esaurimento nervoso. Secondo la testimonianza di Marone, la truffa più vergognosa nella storia di Tangentopoli avveniva così: a conclusione di numerosi contatti ‘discrezionali’ fra il Ministero della Sanità e le imprese farmaceutiche interessate a vedere esaudite le loro richieste di adeguamento prezzi o di iscrizione di nuovi prodotti nei prontuari, De Lorenzo, Marone e Vittoria prendevano in considerazione soltanto i fascicoli di imprese disposte a versare ‘contributi spontanei’. Ponevano poi quei fascicoli all’ordine del giorno, nominavano relatori che ne assicuravano l’esito positivo e li passavano al vaglio della Commissione CIP-farmaci i cui componenti, compreso il Presidente, erano allo stesso tempo relatori e commissari. Un gioco da ragazzi insomma: semplice e pulito. Tutto qui? Magari. All’interno di questa ‘grande famiglia’, che 250 coinvolge direttamente il Ministro e il Mini-

stero, ogni relatore-commissario cura un proprio orticello. In parole povere: ognuno degli alti personaggi indagati ha il suo piccolo fascicolo da agevolare.

La casa di Alì Babà Il migliore in senso assoluto, il più bravo, il più esperto – collaboratore del Ministro e allo stesso tempo ‘imprenditore’ in proprio – è Duilio Poggiolini che ha ‘speso’ trent’anni della sua vita al ‘servizio’ del Ministero della Sanità. Poggiolini conosce ogni imprenditore del settore farmaceutico, ogni fascicolo, ogni corridoio, ogni stanza del Ministero e quando non basta, si avvale della collaborazione della moglie, Pierr Di Maria, da anni consulente di decine di case farmaceutiche. E’ un’organizzazione perfetta, una fabbrica di ‘mazzette’ da far invidia al più sofisticato sistema produttivo. Marito e moglie, insieme, accumulano una fortuna incalcolabile.

Duilio Poggiolini, estradato dalla Svizzera, preso in consegna dalla polizia di frontiera italiana a Domodossola.


E tuttavia, all’inizio di luglio, poco si sa di questo formidabile ‘tandem’ arricchitosi sulla pelle degli ammalati. L’attenzione dell’opinione pubblica è tutta concentrata sull’ex Ministro: questi, a metà luglio, ha già collezionato 7 avvisi di garanzia che diventeranno 13 prima che finisca l’anno più torbido – o almeno fra i più torbidi – nella storia della Repubblica. Il 19 luglio, la Procura di Napoli invia alla Giunta parlamentare d’indagine un dossier di 800 pagine con la richiesta di arresto di De Lorenzo. Il voluminoso fascicolo contiene le denunce circostanziate di 13 aziende farmaceutiche e di 12 vari altri imprenditori. La richiesta d’arresto è motivata… dal rischio di inquinamento delle prove e dalla pericolosità sociale insita nella funzione di parlamentare rivestita da De Lorenzo… che ha strumentalizzato la funzione pubblica ad uso privato, con grave nocumento per la tutela dei cittadini meno abbienti. Il 23 settembre, mentre la Camera respinge per due soli voti la richiesta di arresto per De Lorenzo, i gendarmi svizzeri prelevano da una clinica privata di Losanna Duilio Poggiolini il quale, estradato, viene rinchiuso nel carcere di Poggioreale. In meno di una settimana, le ‘mazzette’ contestate a De Lorenzo appaiono spiccioli rispetto alla fortuna accumulata dai coniugi Poggiolini in 20 anni di proficuo sodalizio societario ai danni della Sanità pubblica. In meno di una settimana, Francesco De Lorenzo non fa più notizia. Poggiolini non sta collaborando con la giustizia perché, terrorizzato dall’idea di una lunga detenzione o di una pesante condanna, sta spontaneamente rivelando una nuova favola di Alì Babà, dove i ‘ladroni’ non sono quaranta, ma solo lui e la moglie. Chi sono questi nuovi ‘vampiri’ italiani? Sono persone che nella vita reale esistono, ma sono invisibili. E’ gente che ti vive accanto una vita e non te ne accorgi. Mai un gesto d’impazienza, un eccesso, una comparsa in pubblico, uno svago. Riservati fino alla segretezza, Pierr e Dulio si conoscono da trent’an-

Pierr Di Maria, la seconda moglie di Duilio Poggiolini.

ni, ma si sono sposati, senza clamore, soltanto nel ’91. Conducono un’esistenza al di sotto del loro livello sociale, vivono perfino separati: lei in una villa, lui in un appartamento. Mai che raccontino ad amici un’emozione, una pena di quelle che pure hanno, entrambi. Lei vive con un figlio di primo letto cerebroleso trentenne; lui con la madre sofferente di 93 anni. Lei possiede due conti bancari con una liquidità di 30 miliardi; lui di conti ne possiede 18 per svariate decine di miliardi. Solo in uno, fra i conti trovati in Svizzera, di miliardi ce ne sono 12. Ma le indagini sono solo all’inizio. Il vero tesoro della coppia diabolica è custodito nelle loro abitazioni romane. Il 29 settembre i carabinieri perquisiscono la villa in cui vive Pierr Di Maria. E vi trovano un tesoro da mille e una notte: 6.000 sterline d’oro di epoche diverse; migliaia di monete d’oro di vari Paesi; centinaia di Krugerrand sudafricani del valore di 560mila lire l’uno; 200 esemplari d’oro da 50 e da 100 ECU; 20 brillanti di grossa caratura, sette placche d’oro, 10 lingotti d’argento e 100 lingotti d’oro 251


Una finestra sulla storia - 1993

pesanti da 10 grammi a un chilo; un centinaio di rubli d’oro dello Zar Nicola II; 50 monete di epoca romana di valore incalcolabile; uno scrigno in oro massiccio zeppo di gioielli e 6 quadri di grande valore. E ancora: penne, accendini, orologi, bottoni d’oro e, ciliegina sulla torta, uno sgabello ricoperto in stoffa, un ‘pouf’, al cui interno sono celati 10 miliardi fra titoli di Stato e contanti. E’ proprio un tesoro da favola antica: solo per catalogarlo un gruppo di esperti impiega 12 giorni. Per il sequestro dei beni trovati nell’abitazione di Duilio Poggiolini, invece, è necessario un autotreno. Il ‘Re Mida’ della Sanità non ha in casa un altro tesoro di liquidi e preziosi, ma una vera pinacoteca composta di 60 quadri: dal Rinascimento a Picasso, De Chirico e Guttuso per un valore di oltre 5 miliardi. Quanto hanno accumulato i Poggiolini durante la loro ventennale attività? Cinquecento miliardi, stimano gli inquirenti… Non diciamo sciocchezze – sbotta la Di Maria – Non so nemmeno come si scrive 500 miliardi… e comunque io non c’entro, quello ch’è stato trovato a casa mia appartiene tutto a mio marito. Arrestata il 30 ottobre, per corruzione e ricettazione, fin dal primo interrogatorio i Magistrati si rendono conto che il ‘potente’, ma mite e malleabile Poggiolini, non è altro che uno strumento consapevole nelle mani della furba e intraprendente Di Maria. Minuta, nervosa, magra fino all’osso, ma dotata di una vivida intelligenza, ‘Lady Poggiolini’… è una donna avida – dirà il giudice Laura Triassi respingendone, una settimana dopo l’arresto, l’istanza di scarcerazione – ha strumentalmente enfatizzato le esigenze del figlio e mentre fa appello a sentimenti di umanità, non mostra segnali di pentimento rispetto alla sua condotta. Può ancora inquinare le prove. Duilio Poggiolini è scarcerato il 24 aprile del 1994 per decorrenza dei termini di custodia cautelare; la moglie, il 14 luglio successivo. Nessuno dei due tornerà più in galera no252 nostante la condanna, il 21 luglio del 2000, del

Tribunale di Napoli: 4 anni a mezzo di reclusione per la Di Maria e 7 anni e mezzo al marito. Dopo 48 ore di camera di consiglio lo stesso Tribunale dispone la confisca di 29 miliardi a Poggiolini e di 10 miliardi alla moglie, oltre ai lingotti d’oro e ai quadri d’autore oggi sparsi nelle varie pinacoteche pubbliche di Napoli. Tutto il resto del ‘tesoro’ sequestrato nelle abitazioni dei coniugi, in gran parte è tornato ai Poggiolini insieme con complessivi 32 miliardi di lire: il giudice ha ritenuto che l’accusa non è riuscita a dimostrare la provenienza illecita di gran parte dei beni sequestrati. I difensori hanno annunciato appelli, ma nel frattempo molti reati sono stati prescritti e la coppia simbolo del più degradante caso di Tangentopoli, torna a mimetizzarsi, torna nell’oblio dell’anonimato in cui ha vissuto per tanti anni. Il matrimonio di Duilio e Pierr – ma non il loro patrimonio – è finito, la gente li ricorda appena, i mass media li hanno dimenticati, la giustizia ha ben altro di cui occuparsi. Le tangenti sono come gli esami di Eduardo De Filippo, non finiscono mai! Intanto, fra la confessione di Marone, le denunce degli imprenditori farmaceutici, il memoriale del suicida prof. Vittoria e il fiume di rivelazioni scaturite da 33 interrogatori di Poggiolini, la posizione dell’ex ministro De Lorenzo si è aggravata. La sua pretesa d’innocenza, dichiarata con arroganza allo stesso Di Pietro il 28 giugno… ma quali tangenti… sono tutte illazioni, frutto della fantasia di Marone… è diventata indifendibile ed è lui stesso a fare la prima mossa. Vuole patteggiare e come segno di buona volontà, il 15 novembre, si offre di restituire 4 miliardi a titolo di risarcimento per il solo reato di finanziamento illecito dei partiti. La trattativa va in porto il 21 aprile del ’94, ma resteranno in piedi numerose altre imputazioni e in seguito alle elezioni politiche di tre settimane prima, De Lorenzo, non rieletto, privo dell’immunità parlamentare, il 12 maggio è arrestato e rinchiuso nel carcere di Poggioreale. Scarcerato due mesi dopo, come la Di Ma-


ria e Poggiolini, per effetto del contestatissimo decreto Biondi – frettolosamente ritirato dal primo governo Berlusconi per evitare una sollevazione popolare – De Lorenzo torna in carcere il 6 agosto dove gli vengono notificati altri ordini di custodia cautelare che lo vedranno imputato in altri 9 processi. Un mese prima, l’8 luglio del ’94, la Procura della Corte dei Conti del Lazio afferma che De Lorenzo e Poggiolini, favorendo illecitamente l’aumento del prezzo dei farmaci, avrebbero arrecato alla finanza pubblica un danno di 15.177 miliardi e quindi dispone una notifica per il sequestro conservativo di stipendi, liquidazioni, pensioni e beni immobili… ‘Arridatece i sordi’ – scrive Michele Mirabella nella sua semiseria nota domenicale sulla Gazzetta – ridateceli non solo per equità e giustizia, ma anche perché è

L’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, in una fase del processo a suo carico, dopo sette mesi di detenzione nel carcere di Poggioreale. Quattro giorni dopo la pubblicazione di questa foto su tutti i quotidiani nazionali, De Lorenzo ottiene la libertà provvisoria.

l’unica pena, la sola sofferenza che possiamo infliggervi perché il denaro è la sola cosa che vi interessi… questi signori li vogliamo poveri, costretti a guadagnarsi il pane con lo stipendio, a far la fila alle USL, a pagare tasse e balzelli, ad andare in pensione col minimo, a mandare i figli alla scuola pubblica, a curarsi in ospedale. La galera a voi serve a poco. Nel frattempo, la Procura di Napoli, imitando il procedimento seguito da Di Pietro per il processo Cusani, stralcia la posizione di De Lorenzo dal più vasto procedimento sulle tangenti alla Sanità e fissa per il 13 dicembre ’94 l’inizio del processo a carico del solo ex Ministro, che deve difendersi da 97 capi d’imputazione. Alla prima udienza De Lorenzo, che deve percorrere solo pochi metri per entrare nell’aula bunker di Poggioreale, non si presenta… è malato – dicono i difensori – è caduto in un profondo stato di depressione ed ha gravi problemi cardiaci. Ma, assicurano, sarà presente alla seconda udienza. Il 16 dicembre del ’94 De Lorenzo compare in Tribunale, ma quando entra in aula il pubblico è ammutolito: l’uomo di fronte alla Corte è ridotto ad una larva. Ha perso 15 chili, la giacca gli pende da tutte le parti, il viso è cereo, la barba, incolta, è diventata bianca, lo sguardo è assente, un tremito continuo lo scuote e gli fa battere i denti. Trema anche dopo che un suo difensore gli ha messo sulle spalle il proprio ‘loden’. Il Presidente della Corte è visibilmente colpito. Gli si avvicina, gli stringe la mano… mi hanno detto che rifiuta il cibo – gli dice – si faccia coraggio… si tiri su. E De Lorenzo, senza alzare lo sguardo, mormora… aiutatemi, non ce la faccio …e scoppia in pianto. L’incredibile, penosa, scioccante sequenza è ripresa dalle telecamere e trasmessa in tutti i telegiornali della sera. Il pubblico è impressionato. Il comitato di difesa dei diritti dei detenuti invoca una parola di conforto dal Papa per l’uomo che definisce ‘sequestrato’ dalla giustizia. L’Osservatore Romano commenta… 253


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il giustizialismo non è giustizia… si corre il rischio di perdere di vista la persona umana, la sua dignità e i suoi diritti, anche quando il soggetto si sia macchiato di gravi delitti e di esecrabili misfatti. Ma non mancano, specie a Napoli, quanti parlano di… magnifica, indegna sceneggiata. Lo era? Le perizie mediche diranno di no e quattro giorni dopo, il 20 dicembre del ’94, dopo 7 mesi e 10 giorni di carcerazione preventiva, De Lorenzo ottiene la libertà provvisoria. Due mesi di ospedale e l’ex Ministro che voleva sopprimersi per… distruggere con me stesso tutto quello che stanno dicendo di me… è letteralmente rinato. L’8 marzo 1997 il Tribunale di Napoli, dopo 57 ore di camera di consiglio, lo riconosce colpevole di 76 capi d’accusa su 97 e lo condanna a 8 anni e 4 mesi di reclusione nonché al pagamento di multe per un totale complessivo di 8 miliardi e 100 milioni. Tre anni dopo, il 7 luglio del 2000, la Corte d’Appello di Napoli gli riduce la condanna di 9 mesi e il 14 giugno del 2001 la Cassazione lo condanna definitivamente a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Affidato alla Comunità di Don Gelmini dal 15 giugno, De Lorenzo lascia il carcere di Civitavecchia – dove passa ‘a nuttata’ insieme ad altri detenuti – alle 8,30 del mattino e vi ritorna alle 18… ma non è giusto – commenterà De Lorenzo – mi ritengo un prigioniero politico… non viviamo in uno stato di diritto. E’ finita? No, si va sempre più su. E’ una ‘escalation’ da guerra totale: dagli imprenditori alle imprese – pubbliche e private –; dai singoli politici alla politica, ai partiti, ai segretari di partito; dai Ministeri ai Ministri, alla Magistratura, alla Guardia di Finanza; dal Servizio segreto italiano, il SISDE, al Ministero degli Interni, al Capo dello Stato che l’8 luglio di quest’anno ‘ammonisce’ la Magistratura perché si faccia… un motivato uso della carcerazione preventiva e dell’avviso di garanzia. La carcerazione preventiva – sostiene Scalfaro – 254 arreca un danno profondo e deve quindi rima-

nere una eccezione e non la regola; l’avviso di garanzia è nato per proteggere il cittadino, ma a volte lo uccide… bisogna accelerare i tempi dei processi i cui pilastri devono essere la libertà e la dignità del Giudice, la sua indipendenza e autonomia; e la libertà e la dignità della persona inquisita… quando si sgarra da questi due principi, con qualunque motivazione, si creano danni assolutamente irreparabili. L’ammonimento del Capo dello Stato è parte di un intervento in un convegno sulla legalità in Italia cui partecipano numerosi giudici che applaudono, ma poi, tornati nelle loro sedi, continuano a sfornare avvisi e ordini di custodia cautelare come prima. In un’intervista di novembre, il deputato dei Verdi, Mauro Paissan, componente della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, afferma che in 18 mesi il Parlamento ha ricevuto 613 domande di autorizzazioni a procedere contro 255 deputati… molte redatte da magistrati arruffoni o incapaci o mossi più da motivazioni politiche che giudiziarie… alcune sono addirittura basate sul contenuto di interrogazioni e interpellanze, come se quei magistrati non sapessero che la Costituzione definisce insindacabili le opinioni espresse dal parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni. In un consuntivo di fine anno dell’opera di Tangentopoli in tutto il Paese, a partire dall’arresto di Mario Chiesa – 17 febbraio 1992 – risulta che al 31 dicembre del ’93 sono stati indagate 6.059 persone fisiche. Di queste, 2.973 hanno ricevuto avvisi di garanzia; 2.993 sono state oggetto di ordinanze di custodia cautelare e 93 sono state arrestate in flagranza di reato. Dei 6.059 indagati, 338 sono deputati; 100 senatori; 331 gli amministratori regionali; 122 provinciali e 1.525 comunali. E ancora: 873 gli imprenditori; 1.373 i funzionari e 1.397 personaggi vari di altre categorie. La Regione con il maggior numero di indagati da Tangentopoli è la Sicilia; al secondo posto c’è la Campania; al terzo la Lombardia; al nono posto c’è la Puglia e al tredicesimo la Basilicata.


Tempesta sul Quirinale La tempesta continua dunque e, alla fine, sfiora anche il Capo dello Stato. La vicenda risale al 1992 quando due magistrati della Procura di Roma indagano, separatamente, sul fallimento di un’agenzia di viaggi e su compravendite immobiliari di enti pubblici con presumibili risvolti tangentizi. In breve, mentre il giudice Leonardo Frisani scopre che la presunta agenzia di viaggi non è che una copertura del SISDE – Servizi italiani per la sicurezza interna – diretta dagli agenti Michele Finocchi e Gerardo De Pasquale, il suo collega, il p.m. Antonio Vinci, scopre che le diverse società che si occupano della compravendita di immobili pubblici, appartengono a cinque ex funzionari dello stesso SISDE, due dei quali, guarda caso, sono gli stessi che dirigono la falsa agenzia di viaggi: Maurizio Broccoletti, Antonio Galati, Rosa Maria Sorrentino, Michele Finocchi e Gerardo De Pasquale. Erano agenti? Macché, appartenevano, fino a febbraio del ’92, tutti ai servizi amministrativi del SISDE. Broccoletti era il direttore; Galati il segretario amministrativo, De Pasquale capo del servizio logistico, la Sorrentino faceva parte dell’ufficio programmazione e Finocchi era capo di Gabinetto. Una piccola indagine sui loro conti correnti e saltano fuori 14 miliardi che i cinque non sono in grado di giustificare. Sono soldi dei ‘Servizi’, ammettono gli indagati, sono ‘fondi riservati’ affidatici dall’ex capo del SISDE, Riccardo Malpica. Di quei denari il giudice ordina la restituzione ed effettivamente, nel dicembre del ’92, i 14 miliardi rientrano nelle casse del Servizio segreto. L’indagine potrebbe essere chiusa. Ma il giudice Frisani non è convinto. Qualcosa non quadra. Come mai questi signori che non solo non erano ‘agenti sul campo’, ma neanche più impiegati nei ‘Servizi’, disponevano di tanti ‘fondi riservati’? Il 25 giugno di quest’anno Frisani spicca, nei confronti dei cinque, altrettanti ordini di custodia cautelare con l’accusa di peculato.

Riccardo Malpica, capo del servizio segreto italiano.

Ma il quintetto non cambia la precedente versione: erano ‘fondi riservati’ del Servizio e li abbiamo già restituiti. Il 2 luglio, però, il procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, adducendo il fatto che non era stato avvertito dell’arresto di Broccoletti e compagni, toglie l’inchiesta a Frisani. Questi si rivolge al CSM il quale non solo gliela restituisce, ma gli affianca anche il giudice Ettore Torri. Le indagini dunque vanno avanti e Broccoletti, a cui non mancano certo le ‘informazioni’, si allarma al punto tale che il 28 ottobre si presenta, spontaneamente, al giudice Torri e, carte alla mano, racconta un’altra storia scatenando un terremoto: i 14 miliardi restituiti non erano ‘fondi riservati’ dati loro in gestione, ma frutto di premi e riconoscimenti per particolari prestazioni, elargiti da Malpica e dai suoi predecessori; la decisione di restituirli, previa formale promessa di ‘chiudere’ la vicenda, sarebbe stata presa in un vertice svoltosi al Quirinale nel novembre del ’92 fra il ministro dell’Interno Nicola Mancino, il presidente del Consiglio Giuliano Amato e i capi del SISDE che dall’84 hanno diretto il Servizio: Vincenzo Parisi – attuale capo della Polizia – Riccardo Malpica e il prefetto in carica Angelo Finocchiaro. 255


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Fondi riservati ce ne sono ancora – avrebbe detto Broccoletti – e sono custoditi in una banca di San Marino su diversi libretti al portatore per un ammontare di 52 miliardi. Non è un segreto, inoltre, che parte dei ‘fondi riservati’ venivano utilizzati anche da tutti i Ministri dell’Interno che si sono avvicendati dal 1982 al ’92, ai quali venivano consegnati 100 milioni al mese. E per provare la magnanimità e la leggerezza con cui i fondi del SISDE venivano distribuiti, Broccoletti esibisce documenti con un lungo elenco di nomi fra cui: il segretario di Andreotti, l’autista di Craxi, la segretaria-amante di Malpica, Matilde Martucci – nota come la ‘Zarina’ - e una ventina di giornalisti… ecco le copie della lista di collaborazioni e consulenze mensili siglate da Malpica – avrebbe concluso Broccoletti – gli originali li ha Galati. Altro che ‘bombe destabilizzanti’, è panico: se la Magistratura non chiarisce subito e gli interessati non smentiscono, rischia di saltare l’intera ‘Santa Barbara’ perché i cronisti della giudiziaria non impiegano molto per sapere chi sono i ministri che si sono avvicendati agli Interni nell’arco di tempo menzionato da Broccoletti: Scalfaro, Fanfani, Gava, Scotti e Mancino. Fanfani è subito scagionato dallo stesso Broccoletti… non ha mai voluto nemmeno mille lire. Mentre Broccoletti, terminata la sua dichiarazione, torna a casa, il giudice Torri si precipita dal gip, Cesare Terranova, per farsi firmare sette provvedimenti di custodia cautelare a carico della ‘banda dei cinque’, già arrestati a giugno e poi rilasciati, della ‘Zarina’, Matilde Martucci, e di Riccardo Malpica. Troppo tardi. Tranne Malpica, arrestato il 29 ottobre, tutti gli altri sono già spariti dalla circolazione. Intanto, Torri e Frisani scoprono altri ammanchi. La bellezza di 111 miliardi prelevati dalle casse del SISDE nell’89 e ’90 come ‘fondi di assestamento’. Dove sono finiti? Il 29 ottobre l’inchiesta è secretata dal procuratore capo, Vittorio Mele, e, da quel mo256 mento, il segreto istruttorio funziona davvero.

Tutto quello che viene riportato dai quotidiani a partire dal 29 ottobre, è solo frutto di indiscrezioni o dichiarazioni rese dagli stessi interessati interrogati dai magistrati. Il primo ad essere interrogato è il capo della Polizia, Vincenzo Parisi… secondo quanto si è appreso – scrivono i giornali il 30 ottobre – Parisi ha dichiarato ai giudici che ogni somma da lui percepita l’ha ricevuta legalmente; che durante la sua gestione del Servizio – aprile ’84, gennaio ’87 – non ha mai dato soldi né a personalità politiche, né ad altre persone. Le somme erogate sono state date nell’ambito strettamente istituzionale, ed ha escluso che ai ministri degli Interni protempore venissero elargite le somme indicate da Broccoletti. Ma non sono Parisi, né tantomeno Gava, Scotti e Mancino il fulcro dell’attenzione della stampa nazionale e dell’opinione pubblica, il bersaglio è l’uomo sul Colle, il Capo dello Stato, che reagisce indignato, anche perché è stata tirata in ballo la figlia Marianna, ‘colpevole’ di coltivare un’amicizia con l’architetto Adolfo Salabè, il quale, guarda caso, è anche l’architetto a cui il SISDE affida lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza delle abita-

Maurizio Broccoletti, direttore amministrativo del Sisde.


zioni private di ministri e di altri personaggi politici e istituzionali di primo piano. Scalfaro denuncia e condanna con fermezza… un ignobile sistema che arreca grave danno alla civile convivenza e allo Stato democratico… attendo fino a tarda sera una forte precisazione da parte della Magistratura sulla vicenda. La ‘precisazione’ di Vittorio Mele arriva 24 ore dopo… il Capo dello Stato non c’entra… le circostanze riferite da Broccoletti riguardano un periodo successivo a quello in cui Scalfaro è stato ministro dell’Interno… Mancino poi non risulta menzionato tra coloro che avrebbero utilizzato e consentito l’uso distorto dei fondi segreti del Servizio. Ma al Capo dello Stato la dichiarazione del Procuratore Capo non basta e ai giornalisti neppure. Sono stati chiamati in causa e nonostante Mele assicuri… non faremo mai i nomi dei giornalisti indicati da Broccoletti, la categoria non intende fare sconti. Non ci vuole molto per scoprire che il mandato di Scalfaro agli Interni ha coinciso, sia pure per un breve periodo – da febbraio a luglio del 1987 – con la gestione Malpica. Anzi, c’è chi insinua che sia stato proprio Scalfaro a volere Malpica a capo del Servizio.

Antonio Galati, segretario amministrativo del Sisde.

Il 2 novembre, Antonio Galati si costituisce e non solo conferma le dichiarazioni di Broccoletti, ma consegna gli originali delle note di pagamento, originali che, per legge, avrebbero dovuto essere distrutti dopo tre mesi. Il fango lambisce le pendici del Colle e la sera di mercoledì 3 novembre, alle 22,30, il Capo dello Stato rivolge un messaggio al Paese dagli schermi della Tv a reti unificate. Un breve saluto poi, senza altri convenevoli, Scalfaro attacca… prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali… il problema che dobbiamo affrontare e risolvere tutti insieme è quello di fare giustizia nei confronti di chi ha commesso fatti gravi contro la legge… nessuno può stare a guardare di fronte a questo tentativo di lenta distruzione dello Stato pensando di esserne fuori. O siamo capaci di reagire difendendo ad oltranza gli innocenti, le istituzioni della Repubblica, o condanniamo tutto il popolo e noi stessi ad assistere a questo attentato metodico, fatale alla vita e all’opera di ogni organo essenziale per la salvezza dello Stato democratico. A questo gioco al massacro – continua il Capo dello Stato – io non ci sto, io sento il dovere di non starci e di dare l’allarme. Non ci sto non per difendere la mia persona, ma per tutelare, con tutti gli organi dello Stato, l’istituto costituzionale della Presidenza della Repubblica… non intendo allontanare le elezioni politiche… dopo il referendum che ha voluto una nuova legge elettorale, ho assunto un impegno e lo manterrò… il mio dovere primario è di non darla vinta a chi lavora allo sfascio… il mio ‘no’ all’insinuante e insistente tentativo di una premeditata distruzione dello Stato è un ‘no’ fermo e motivato… diamoci una scrollata per distinguere il male dalle malignità, dalle bassezze, dalla falsità, dalle trame di vario genere. La Patria è di tutti e ha bisogno di tutti… siamo ad un passaggio difficile per l’Italia e per il popolo italiano e non lo si affronta che con la responsabilità e il sacrificio. A questo siamo chiamati. A questo occorre rispondere. 257


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Il messaggio di Scalfaro al Paese non sfiora minimamente il motivo che ha posto il Capo dello Stato in quella situazione. Non è il momento. La Nazione sta vivendo un periodo cruciale della sua storia. Scalfaro ha posto una questione di principio: nello sfascio generale del sistema, la massima istituzione dello Stato non solo non merita, ma non può e non deve essere messa in discussione, farebbe sprofondare il Paese in un pozzo senza luce, nel caos. E’ questo che gli italiani vogliono? E la gente risponde no. Sceglie di credere al Capo dello Stato nonostante Malpica sostenga più volte che anche Scalfaro ha ricevuto quei 100 milioni… l’ex capo degli 007 – si legge sulla Gazzetta del 5 novembre – affermerebbe di aver consegnato di persona la consueta somma all’attuale inquilino del Quirinale. Ma ormai, la questione è superata. Nella notte fra il 3 e 4 novembre, i 23 milioni di italiani che tra dubbi, curiosità e attenzione hanno ascoltato il messaggio di Scalfaro, subiscono una metamorfosi. Il giorno dopo, quello sparuto gruppo di personalità della politica e della cultura che dall’inizio della vicenda ha

258 Oscar Luigi Scalfaro con la figlia Marianna.

sempre espresso solidarietà al Capo dello Stato, diventa un esercito. Perfino la Lega e il MSI che solitamente ‘sparano’ su qualunque cosa in movimento, rinfoderano le armi. Quella notte, l’opinione pubblica, la stampa nazionale, l’uomo della strada, decide di credere a Scalfaro e, a partire dal 4 novembre, la ‘banda dei cinque’, saliti a sette, viene etichettata come una banda di delinquenti e di ladri… al soldo di ispiratori, inquisiti e complici, che vogliono ritardare le elezioni per allontanare nel tempo il proprio pensionamento – scrive Giuseppe De Tomaso sulla Gazzetta – nel disperato disegno vi è il tentativo di disarcionare il Presidente, colpevole, ai loro occhi, di aver bloccato il colpo di spugna su Tangentopoli. L’ultimo colpo di scena è del 5 novembre ed è una prova di quanto poteva accadere se le presunte dimissioni di Scalfaro non fossero state una ‘bufala’… la falsa voce delle dimissioni di Scalfaro – scrive Russo Rossi dalla redazione romana della Gazzetta – ha raggiunto la Borsa di Milano come un’atomica facendo crollare precipitosamente moneta, titoli e azioni e determinando un’altra drammatica giornata nera nell’economia del Paese. Nella stessa giornata, la Procura di Roma apre un nuovo fascicolo contro Malpica, Galati e Broccoletti con l’accusa di ‘attentato alla Costituzione’: volevano destabilizzare i vertici del Paese colpendo il Quirinale e le istituzioni allo scopo di paralizzarle. Otto giorni dopo, l’affare SISDE sparisce dalle cronache dei quotidiani. Scalfaro e Mancino sono stati scagionati; i fascicoli di Gava e Scotti, accusati di peculato, vengono inviati al Tribunale dei Ministri; arrestata alla spicciolata il resto della ‘banda’: la Sorrentino il 7 novembre, la ‘Zarina’ l’8, qualche giorno dopo De Pasquale. Broccoletti, riparato a Montecarlo, è estradato in Italia il 5 gennaio del ’94, mentre Michele Finocchi è arrestato a Losanna il 25 luglio. Il processo di primo grado inizia a Roma il 26 aprile e termina il 20 dicembre del ’94. Tut-


ti condannati e, nel frattempo, tutti scarcerati: 9 anni a Broccoletti e De Pasquale; 8 anni e mezzo a Finocchi; 6 anni e mezzo a Galati; 2 anni e 10 mesi alla Sorrentino; 3 anni e 3 mesi a Malpica e 2 anni e due mesi alla Martucci, la ‘Zarina’, accusata, insieme con Malpica, soltanto di abuso d’ufficio. Poi, naturalmente, ci saranno la Corte d’Appello e la Cassazione. Ma che cosa ne è stato dei 111 miliardi? Dei soldi scomparsi gli inquirenti hanno sostenuto che Broccoletti ne ha sottratti 22; De Pasquale 16; Finocchi 10, Galati 4; mentre la Sorrentino si è offerta di restituire liquidi e immobili per circa 2 miliardi. Quanto al resto non si è riusciti a sapere più nulla. E i contributi mensili ai titolari del Viminale? Ebbene sì, li hanno presi… ma sfido chiunque – dirà Scalfaro il 29 maggio del ’94 a Oropa, in provincia di Vercelli – a dimostrare che chi è stato Ministro dell’Interno, e non solo io, ha speso una lira fuori dai fini istituzionali. Niente di diverso rispetto a una dichiarazione dell’ex Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, del 17 novembre dell’anno in corso… secondo me Scalfaro non c’entra. E’ possibile che in certi momenti ‘fondi riservati’ di un Ministero siano passati ad un altro senza che ci fossero illeciti… io stesso ho autorizzato a trasferire fondi riservati al Ministero dell’Interno per pagare i pentiti. Tutto regolare dunque. Ma allora perché negare? Quando Scalfaro affermerà, in modo non proprio esplicito, che dopotutto quei ‘fondi riservati’ c’erano, ancora una volta nessuno metterà in discussione la sua buona fede, ma sia la ‘destra’, sia la ‘sinistra’ – Gianfranco Fini e Franco Bassanini – commenteranno… non vogliamo aprire nuove polemiche, ma un giorno il Capo dello Stato dovrà dirci quali sono i ‘fini istituzionali’.

Il Sindaco ‘comunista’ Intanto, per tornare a cose che sono proprio sul davanzale di questa nostra ‘Finestra sulla

storia’, qualche ora dopo il messaggio del Capo dello Stato, il Comune di Bari elegge il terzo Sindaco in poco più di tre anni dalle ultime elezioni comunali. Lo sconquasso politico determinato da Tangentopoli ha provocato anche negli enti locali, specie nel Meridione, un più che dannoso stallo amministrativo. Svanita ogni disciplina di partito… la DC al Comune di Bari, pur con i suoi 23 consiglieri e 19 socialisti con i quali aveva fatto maggioranza, è ormai una identità indefinibile – scrive il capo cronista della Gazzetta Dionisio Ciccarese – nuovi gruppi, salti di correnti, precisazioni e trasformismi si susseguono ad un ritmo vertiginoso. Molti invocano il ritorno alle urne, più che giustificato a questo punto, ma l’‘attaccamento’ al seggio consiliare ed il disorientamento generale faranno sì che la legislatura comunale si trascini fino al termine naturale, complessivamente attraverso cinque differenti Sindaci e relative Giunte. Senza punti di riferimento politici, maggioranza e minoranza diventano parole prive di significato. I consiglieri comunali, più che impegnati a gestire l’Amministrazione di una grande città, sembrano preoccupati a ‘barricarsi’ – quasi fosse una turris eburnea di hobbesiana memoria – nella sala consiliare, avulsi dalla realtà circostante e possibilmente a guadagnarsi un assessorato: magari anche a fianco di nemici politici storici, di chi ha sempre cercato la paralisi per proporsi come forza alternativa. E con Tangentopoli, l’unica ‘forza alternativa’ che può definirsi ancora ‘integra’ rispetto al dissolversi della vecchia maggioranza di governo è il PDS che però, in molte realtà, e Bari è una di queste, deve fare i conti con i ‘numeri’: non bastano, e allora, pur di arrivare al traguardo, si allea con quella parte politica, socialisti e democristiani, che per il solo fatto di essersi proclamata ‘dissidente’ dalla politica del partito di provenienza, diventa credibile. In questi ‘giochi’ si lasciano risucchiare personaggi di valore, di alto profilo morale e provata onestà intellettuale come l’avv. Pietro Leonida Laforgia del PDS e, ‘ca- 259


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duto’ anche lui, il notaio Michele Buquicchio della DC. Ma procediamo con ordine. Alla Giunta guidata dal prof. Enrico Dalfino, è seguita quella della volenterosa e capace Daniela Mazzucca. Questa, partita il 12 gennaio del ’92 con una maggioranza di 48 consiglieri – DC-PSI-PSDI-PLI – su 60, dieci mesi dopo la sua elezione – il 30 novembre dello stesso anno – si è dimessa. La stessa Mazzucca afferma di essere rimasta… l’unico ‘piffero’ di un’orchestra ormai scompaginata. Silenzio per un mese. Mentre si svolgono confuse trattative fra i partiti, l’8 gennaio di questo 1993, perdurando il silenzio, la Gazzetta si chiede se nel vecchio palazzo comunale c’è ancora qualcuno che abbia a cuore le sorti di Bari, disposto ad amministrare una città di 350mila abitanti gravata da enormi problemi. Sì, qualcuno c’è, ma è un ‘polo’ delle forze di sinistra: PSI-PDS-PSDI-PRI e Verdi. Loro sono disposti a formare una nuova Giunta che si definisce di ‘progresso’, aperta al PLI e a 9 dissidenti della DC, con l’intento di… dare alla Città – si legge nel documento delle ‘forze’ di sinistra – un’Amministrazione qualificata e stabile in grado di rispondere alla complessità della domanda sociale. Immediato il richiamo all’ordine da parte della Segreteria nazionale della DC ai 9 dissidenti… non vi sono giustificazioni per ipotesi di trasversalità, dirà Martinazzoli. Ma i ‘ribelli’ non demordono… Martinazzoli è lontano dalla nostra realtà – sostiene Enrico Dalfino, leader dei 9 e già Sindaco di Bari dall’agosto del ’90 al settembre del ’91 – e comunque il Segretario ha solo fatto un appello all’unità… il ‘caso Bari’ è ormai irrisolvibile attraverso le metodologie partitocratiche della spartizione delle cariche pubbliche. Dunque si va avanti. Ma il Direttore della Gazzetta non nasconde la propria delusione per la soluzione della crisi che si va prospettando al Comune di Bari… importa poco quel che sarà la nuova Giunta – scrive Gorjux il 260 22 gennaio – quel che importa è la condizio-

ne… orizzontale in cui la Città è ridotta. Non si tratta più, ormai, di questo o quel Sindaco, di questa o quella maggioranza. All’origine del degrado e dell’abbandono ci sono le deficienze del sistema: debole, impotente, incapace di fornire risposte adeguate alle istanze delle popolazioni amministrate… sì, è un momento di sconforto per l’intera Città… lo scioglimento del Consiglio darebbe probabilmente uno sfogo alla scontentezza popolare ed una speranza di ricostruzione su migliori basi alle stesse forze politiche; darebbe forse espressione ai fermenti nuovi che maturano in una Città degradata sì, dall’incuria e dall’insipienza, ma ancora capace di esprimere creatività, intraprendenza e imprenditorialità. E per comprendere che la Città è davvero ‘disastrata’, basta leggere il programma che intendono realizzare le ‘forze’ di sinistra: Partecipazione, moralità, trasparenza, legalità, efficienza dei servizi pubblici e dei servizi sociali, vivibilità della Città e tutela dell’ambiente urbano, sviluppo urbanistico, tutela del territorio, risanamento delle periferie, sviluppo economico, occupazione e riforme in senso privatistico delle aziende comunali. Insomma, manca quasi tutto e quel poco che c’è, non funziona. Ma di sciogliere il Consiglio comunale e andare a nuove elezioni non se ne parla nemmeno. L’idea, d’altra parte, è così ‘assurda’ che nessuno si degna di considerarla. Tre giorni dopo la nota di Gorjux, il 28 gennaio, il ‘polo’ delle forze di sinistra raggiunge l’accordo sul nome del nuovo Sindaco, oggetto del desiderio di socialisti e liberali che, pur di ottenere la massima carica cittadina, si dicono disposti ad entrare sia nella Giunta di sinistra sia, in alternativa, in una ‘minoritaria’ con la DC. Il 29 gennaio, ultimo giorno utile per eleggere la nuova Amministrazione, pena lo scioglimento del Consiglio, l’avv. Pietro Leonida Laforgia del PDS, stimato penalista, è eletto Sindaco di Bari… è stata una notte lunga, piena di trappole e stilettate – scrive il cronista della Gazzetta Gianfranco Summo – ma


L’avv. Pietro Leonida Laforgia, nuovo sindaco di Bari, affronta l’emergenza occupazione.

alla fine Laforgia ce l’ha fatta. Il nuovo Sindaco ha ottenuto, dal PDS, PSI, PSDI, PRI, Verdi e 7 dissidenti DC – due nel frattempo hanno ritrovato la via di casa – 36 voti su 60… bravi – esclama sarcastico il capogruppo del MSI al Comune, Lucio Marengo, rivolto ai dissidenti democristiani – avete dato alla Città il primo Sindaco comunista della sua storia. Immediata la replica di Laforgia… sono e sarò il Sindaco di una coalizione democratica che ha nel cuore soltanto il progresso della nostra Città e mi riprometto di essere il Sindaco di tutti i cittadini di Bari. A cose fatte, il Direttore della Gazzetta si sfoga… all’alba di oggi si è conclusa un’altra fase della travagliata – e per molti aspetti squallida – vicenda del Consiglio comunale in carica. Ancora una volta – scrive Gorjux – ha vinto la logica delle ‘trasversalità’ politiche e di interessi; le lotte, per lo più di infimo livello, all’interno dei gruppi, i contrasti, soprattutto in seno ai gruppi della DC e del PSI, hanno già ‘bruciato’ due Amministrazioni: quelle del prof. Dalfino e della dottoressa Mazzucca. Ora tocca all’avv. Laforgia – persona di indubbia serietà politica – affrontare i problemi che

affliggono la Città per difendere la sua figura di uomo alieno da certi compromessi e quella del suo partito vincitore, almeno per il momento, di una contesa nella quale è riuscito a non recitare parti sgradevoli. Tutto quanto è accaduto negli ultimi giorni all’interno della casa comunale ed intorno ad essa merita di essere taciuto per carità di patria. I ‘colpi’, fra i gruppi, dentro ai gruppi, fra le correnti, dentro le correnti, fra gli stessi ‘dissidenti’, sono ‘volati bassi’ e senza risparmio. Ma ciò non ci nega – conclude Gorjux – la facoltà, che volentieri esercitiamo, di augurare al sindaco Laforgia ed alla sua Giunta, un lavoro serio e concreto. L’augurio è sincero. Ma è realistico? No, non lo è. L’11 marzo i 7 dissidenti DC, sospesi e denunciati ai probiviri, rischiano l’espulsione. Il 20 giugno Dionisio Ciccarese scrive… non è ancora tempesta, ma il barometro non lascia prevedere nulla di buono: c’è di nuovo fibrillazione al Comune e si affacciano le prime richieste di ‘verifica politica’… il dibattito a Palazzo di Città risulta sempre più distante dalla Città… il problema vero sta nel clima di litigiosità dal quale il Consiglio comunale non 261


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sembra più capace di venir fuori. Il 13 luglio si apre una sessione straordinaria del Consiglio comunale:… il copione è identico ormai da mesi – scrive il cronista Gianfranco Moscatelli – dopo un inconcludente balletto di dichiarazioni, polemiche e rinvii, il Consiglio termina per mancanza di numero legale. La prassi si è consolidata e, con il passare dei mesi, viene perfezionata ed arricchita. Dopo 4 ore di discussioni, nessuno dei 136 provvedimenti urgenti iscritti all’ordine del giorno è stato affrontato. La città è allo sbando. Il degrado aumenta. La ‘piaga’ degli ‘scippi’ è tale che Bari diventa ‘scippolandia’; l’economia cittadina è al tracollo, l’edilizia e il commercio, settori trainanti dell’economia locale, sono al collasso. Il 31 agosto la ‘svolta’: sei socialisti abbandonano la maggioranza… nata come rottura nei confronti del passato – si legge nel documento dei dimissionari – nella realtà questa Giunta non è che una rappresentativa dei vecchi gruppi e delle vecchie logiche spartitorie. Il 4 settembre Pietro Leonida Laforgia si dimette… in 36 mesi – scrive ancora Moscatelli – hanno bruciato tutto: coalizioni, formule politiche, alleanze, progetti, speranze ed entusiasmi. In poco più di tre anni a Palazzo di Città si sono alternate tre Amministrazioni nate, ogni volta, con intenzioni rivoluzionarie. Il risultato non è mai cambiato: polemiche, divisioni, lotta all’ultimo metro cubo, all’ultima poltroncina di sottogoverno. Punto e a capo dunque. Questa volta, però, le regole del gioco sono cambiate. Il Parlamento ha varato le nuove leggi elettorali amministrative che prevedono, fra l’altro, l’elezione diretta, da parte dei cittadini, di Sindaci e Presidenti di Provincia e dopo il primo esperimento di giugno – che ha visto eletti una valanga di sindaci leghisti e ‘rossi’ – la possibilità che anche Bari torni ad essere amministrata da un Sindaco e da una maggioranza di sinistra, è concreta. E la Gazzetta, che da sem262 pre esprime una linea conservatrice e modera-

ta, non è pregiudizialmente avversa alla sinistra. Quindi, torna a suggerire l’autoscioglimento del Consiglio, il ricorso anticipato alle urne: Bisogna rivolgersi ai giovani – scrive Gorjux – a quei giovani che hanno acquisito o maturato una nuova ‘cultura’ nell’approccio ai problemi ed alla gestione della cosa pubblica… a coloro che sono riusciti a mantenere intatta la propria integrità durante i decenni della spartizione politica e dei personali intrallazzi… il vero ‘servizio’ che la vecchia classe politica può ancora rendere alla nostra terra è quello di far posto ad energie nuove e limpide, non compromesse, non condizionate, non complessate dal costume dell’abuso e del sopruso, dall’utilizzo ‘in proprio’ di istituzioni ed amministrazioni, dalla lottizzazione delle risorse comuni… in una parola, ci vogliono ‘menti pulite’. Si è tentato di tutto – scrive ancora il Direttore della Gazzetta il 7 settembre – dal 4+1 di Dalfino senza i socialisti, alla Giunta di ‘larga intesa’ della Mazzucca, al ‘Polo’ delle sinistre di Laforgia… nessuno è riuscito a superare quel groviglio di interessi squallidi e meschini che trasversalmente impastoiano ogni mossa della Giunta comunale. Ora, mentre il degrado cittadino continua ad aggravarsi e la città somiglia sempre più ad un borgo mediorientale, c’è da domandarsi se sia ancora possibile pensare ad una nuova Amministrazione. Tutti gli esperimenti sono stati consumati, tutti i tentativi sono falliti e, nel frattempo, i partiti, le vecchie aggregazioni politiche, hanno perduto senso e consistenza. In quest’ottica… la necessità di autoscioglimento del Consiglio e di ricorso a nuove elezioni appare con chiarezza… non ci illudiamo certo – conclude Gorjux – che Sindaco e Giunta eletti con la nuova legge potranno poi, con un colpo di bacchetta, risolvere i gravi problemi che affliggono la città… ma è un atto da compiere con responsabilità e realismo tale da riscattare, sia pure parzialmente, un triennio di ingiustificate inadempienze. Gesù, che rampogna. Ma non c’è verso.


Anzi, l’eventualità del ricorso alle urne ricompatta la DC che, forte dei suoi 23 seggi, torna a dialogare con PSI, PSDI e PRI. Nasce il ‘Patto per Bari’. E nasce monco, perché questa volta sono i socialisti ad avere in casa un gruppo di ‘dissidenti’.

Il ‘Patto per Bari’ L’autoscioglimento del Consiglio non è un sogno che coltiva solo il Direttore della Gazzetta, ma è condiviso dal 61,2% dell’intera cittadinanza – dice un sondaggio del Centro ricerche per il Mezzogiorno – dal PDS, Verdi, Rifondazione, Rete, dai socialisti dissidenti e dal leader liberale Franco Sorrentino che, primo ad attivarsi per la raccolta delle 31 firme necessarie a sciogliere il Consiglio, è anche il primo a fare marcia indietro. Ma ai fautori del ‘tutti a casa’ mancano i ‘numeri’. Il ‘Patto per Bari’ è maggioranza e il 17 settembre la DC ha pronto organigramma, programma e il nome del nuovo Sindaco, il notaio Michele Buquicchio. Il 23 settembre si vota e… Sindaco e Giun-

Ancora un nuovo sindaco a Bari: Michele Buquicchio.

ta sono bocciati. Partita con una ‘forza’ di 34 consiglieri su 60, al momento del voto la Giunta Buquicchio ne ha raccolti solo 19: sedici democristiani, due ex socialdemocratici e quello del liberale Sorrentino. I ‘dissidenti’ DC hanno chiesto una ‘pausa di riflessione’; i socialisti ‘non dissidenti’ volevano un ‘dibattito’ e quindi non hanno votato; i socialisti ‘dissidenti’, pur aderendo alla nuova Giunta, non hanno sottoscritto il ‘Patto per Bari’ e i consiglieri del PSDI, PRI e PLI, già divisi e rappresentanti ormai di se stessi, escono ed entrano da una coalizione all’altra, secondo quel che offre il convento. La confusione è totale e, tuttavia, alle 2,30 del mattino del 3 ottobre, Buquicchio riesce a mettere insieme una nuova maggioranza, un organigramma totalmente diverso dal precedente che dovrebbe poter contare su 35 consiglieri: 16 DC più i 7 dissidenti del gruppo Dalfino; i dissidenti del PSI – che da 6 sono diventati 10 ed hanno formato il gruppo ‘laico socialista di centro’ – e due liberali, Sorrentino compreso. Sono fuori dunque i socialisti, il PRI e il PSDI… è una vergogna – commenta con feroce amarezza il socialdemocratico Mimmo Magistro – il ‘Patto per Bari’ è diventato un ‘patto per bari’. L’11 ottobre Buquicchio presenta, per la seconda volta, organigramma e programma e, per la seconda volta, è bocciato. Gli hanno votato contro non i ‘dissidenti’ socialisti o democristiani, ma 6 consiglieri del ‘gruppone’ DC che lo ha candidato e sostenuto dall’inizio. Per mesi abbiamo esortato il Consiglio nel suo complesso a rendere a Bari l’unico possibile servizio: autosciogliersi dignitosamente e rimettere il mandato agli elettori – scrive il Direttore della Gazzetta il 12 ottobre – non hanno ascoltato, non hanno voluto ascoltare, perduti – i ‘buoni’ coinvolti dai ‘cattivi’ – nel limbo di piccole e grandi avidità di potere, di trasversalismi connessi ad interessi particolari. Ciechi di fronte alla realtà, dimentichi soprattutto delle ragioni stesse per le quali sedevano in Consiglio comunale. Nelle ultime 263


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settimane abbiamo taciuto – continua Gorjux – e, in fin dei conti, se anche una quarta Amministrazione fosse stata rappezzata, pur scettici ed increduli, le avremmo offerto un non prevenuto, non polemico, seppur critico e costruttivo appoggio. Ma i fatti ed i numeri hanno battuto ogni velleità. Hanno ancora una possibilità: un’unica seduta entro il 6 novembre. Sapranno approfittarne ed avere il coraggio di ritirarsi prendendo atto della realtà? Il filosofo tedesco Karl Krauss non ha tutti i torti quando afferma che… il diavolo è un ottimista se pensa di poter peggiorare gli esseri umani. La notte del 3 novembre, come s’è detto, nasce la quarta Giunta comunale guidata da Michele Buquicchio: è sostenuta da 35 consiglieri. L’hanno votata tutti i democristiani; 8 dei 10 socialisti del neonato gruppo laico; due dei tre socialdemocratici ed il liberale Franco Sorrentino ‘premiato’ per aver scongiurato lo scioglimento del Consigio comunale con la carica di vice sindaco. Circa due mesi dopo, il 27 dicembre, la Giunta Buquicchio comincia a perdere pezzi: è arrestato l’assessore al Traffico, Luigi Loperfido, con l’accusa di abuso d’ufficio, turbativa d’incanto e falso ideologico. Loperfido, amministratore delegato di un’azienda che fornisce bagni pubblici prefabbricati, è sospettato di aver ‘truccato’ una gara d’appalto per la fornitura di un W.C. pubblico al Comune di Bisceglie che avrebbe deliberato l’acquisto con procedura d’urgenza e a trattativa privata. Insieme a Loperfido finiscono in manette anche quattro amministratori del Comune biscegliese dove, fra l’altro, il bagno pubblico, installato nel settembre del ’92, non è mai entrato in funzione. Il 29 dicembre, la nuova Giunta barese… è già allo sbando e senza punti di riferimento – scrive il cronista Giuseppe Armenise – l’inesistente maggioranza che regge attualmente le sorti del Comune, si muove in uno stato di generale marasma. Buquicchio si dimetterà, come vedremo, 264

l’11 aprile del ’94. Gli succederà, il 6 giugno, il socialista Giovanni Memola, ma la sua Giunta sarà ancora più travagliata delle precedenti quattro e finirà con l’arresto del Sindaco. Tutto nella ‘norma’ dunque e sia alla Regione Puglia, sia negli altri quattro capoluoghi di provincia come in decine di piccoli Comuni, le cose non stanno diversamente. Sia pure con qualche distinguo, avvisi di garanzia, ordini di custodia cautelare e crisi amministrative si susseguono a ritmi da record. La terza crisi alla Regione Puglia si è chiusa il 5 dicembre del ’92 con l’elezione del democristiano Giovanni Copertino, presidente di una Giunta composta da tutti i partiti presenti in Consiglio regionale tranne il MSI: è il ‘governissimo’. Programma: far funzionare la macchina burocratica regionale, presentare progetti rimasti per anni nei cassetti con conseguenti perdite di migliaia di miliardi di contributi comunitari, elaborare piani di sviluppo e soprattutto ridurre il deficit regionale il cui ammontare è abissale. Quanto abissale? 3.000, 5.000, 7.000 miliardi? Non si sa. L’unica cosa certa è che il grosso di quel ‘buco nero’ è stato scavato dalla Sanità: quella pubblica, che ugualmente non funziona; e quella privata che da anni si lecca le dita. Il 13 luglio, dopo una visita a sorpresa al Policlinico di Bari del nuovo ministro della Sanità, Raffaele Costa – uscito dal grande ospedale pugliese alquanto sbigottito – il CIPE delibera un primo stanziamento di 3.600 miliardi per il fondo sanitario pugliese: per pagare e placare farmacisti, USL e case di cura private che, a loro volta, non pagano i dipendenti. Il solo gruppo delle Case di Cura Riunite – le CCR – di Francesco Cavallari, vanta crediti per 371 miliardi riferiti al 1991. Nonostante l’enormità dei problemi, due mesi dopo l’insediamento, la Giunta Copertino è già in crisi. Nel giro di una settimana ha perso due assessori: il liberale Nicola Di Cagno e il DC Giovanni Sabato. Il primo, assessore al Patrimonio, ha ricevuto un ordine di custodia cautelare dalla Procura di Lecce per


Vito Savino, presidente della Giunta regionale pugliese.

un presunto concorso truccato all’Università salentina, dove Di Cagno insegna; il secondo, assessore all’Agricoltura, è destinatario di un avviso di garanzia per ‘accertamenti’ su un concorso ad una USL sempre nel Leccese. Giovanni Sabato si dimette senza ripensamenti, ma Di Cagno – risultato poi completamente estraneo alla vicenda – qualche giorno dopo le ritira. Il PDS è irremovibile… o lui o noi. E’ crisi tecnica. Il 12 marzo, la Giunta Copertino surroga i dimissionari ed è rieletta. Di Cagno è stato praticamente ‘estromesso’ e il PLI per protesta esce dalla maggioranza. Il 18 marzo il PDS lancia un ultimatum… il tempo è scaduto, l’azione della Giunta non ci soddisfa – sostiene il segretario regionale Gaetano Carrozzo – crediamo che un rilancio debba passare attraverso il ricambio di uomini e metodi. E questa operazione deve avvenire al più presto. La crisi non ci sarà, ma la sua ombra aleggia in Consiglio e rende incerta e opprimente l’atmosfera. Tre mesi di inconcludenti e stanchi dibattiti sulle nomine di nuovi Amministratori straordinari alle USL e sugli Enti da sopprimere e, il primo giugno, è già verifica.

Il 30 giugno, una relazione del presidente della commissione Bilancio, il DC Tonio Tondo, scatena il temporale… i conti continuano a peggiorare, occorrono interventi drastici rapidissimi, diversamente è più onesto dichiarare il fallimento di qualsiasi tentativo di risanamento e trarre le conseguenze politiche. Al PDS non par vero che sia proprio un democristiano a lanciare fulmini sulla Giunta. Immediata la richiesta di dimissioni… altrimenti ritireremo la nostra delegazione. Per restare nella maggioranza il PDS propone una ‘Giunta del Presidente’: Non un nuovo accordo politico nel senso di un’intesa fatta nelle stanze dei partiti – afferma Carrozzo – ma convergenze alla luce del sole sul programma e, naturalmente, sul nuovo Presidente che può anche pervenire dal gruppo democristiano, nel quale ci sono personalità in grado di assolvere il compito prefisso. Ma questo Presidente deve poter tranquillamente scegliere collaboratori e assessori.

Regione Puglia... crisi continua La DC accetta, la crisi è aperta, ma i socialisti non ci stanno: E’ aberrante l’idea di assegnare a un solo consigliere la totale responsabilità delle opzioni programmatiche, della selezione degli uomini per l’Esecutivo e della conseguente definizione del quadro politico. Si va avanti. Il 13 luglio la DC designa il magistrato Vito Savino presidente incaricato di formare la nuova Giunta… per noi va bene – dirà Carrozzo il 16 luglio – ma se entro i prossimi mesi non si avvierà concretamente e rapidamente il risanamento finanziario regionale e se al Presidente incaricato non sarà data la facoltà di scegliere con la massima autonomia gli assessori, allora sarà bene che il Consiglio si avvii all’autoscioglimento. Il 20 luglio Savino presenta il programma, ricevendo da ogni parte giudizi positivi, e otto giorni dopo la lista degli assessori: niente da fare. Il Presidente incaricato ha riproposto la vice presidenza e la delega all’Industria al PDS, ma ha tolto al vice presidente designato, 265


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Vito Angiuli, la delega al Bilancio assegnandola al PRI. Per Carrozzo è inaccettabile: E’ una provocazione politica! e ritira l’appoggio del PDS sia alla vecchia Giunta che a quella nascente. Il 2 agosto anche il PSI e il PSDI escono dalla dimissionaria Giunta Copertino per proporre a Savino la formazione di una nuova maggioranza senza il PDS. Una settimana dopo la Giunta Copertino si dimette e il vecchio 4+1 – DC, PSI, PSDI, PRI e Verdi – incarica Savino di costituire, durante la ‘pausa estiva’, la nuova maggioranza. La quarta Giunta regionale in tre anni è eletta il 3 settembre con la solita, inguaribile e inestinguibile pratica spartitoria: i socialisti hanno chiesto e ottenuto la vice presidenza assegnata all’ex sindaco di Bari, Francesco De Lucia. A parte le scontate dichiarazioni polemiche del MSI… povera Puglia. Avevi bisogno di un Governo, ti hanno dato un’armata Brancaleone… e del PDS… questa Giunta non merita nemmeno un’opposizione… neppure l’assessore democristiano Tonio Tondo – che ha rinunciato alla delega al Bilancio – nasconde la propria delusione: Credo nelle potenzialità innovative di Savino, ma in queste ultime settimane di trattative ho registrato una strisciante involuzione politica che ha ristretto le possibilità di rinnovamento… non si è riuscito a superare lo strapotere dei gruppi di interesse. Savino, infatti, si mobilita e mobilita la Giunta: l’obiettivo primario è il risanamento finanziario della Regione per il quale ha chiesto, al Governo centrale, l’accensione di un mutuo di mille miliardi ma… stranamente abbiamo registrato un’eccessiva e inspiegabile freddezza da parte del Governo. Nulla di che meravigliarsi, dirà l’ex vice presidente Vito Angiuli: Giustamente il Governo Ciampi non ritiene affidabile questa Giunta regionale che si fonda su una maggioranza di partiti cancellata dalla scena politica e quindi non più rappresentativa della comunità pugliese. Meno di tre mesi dopo, il 15 dicembre, la 266 Giunta Savino è a un passo dalla crisi.

Il Consiglio è chiamato a votare una delibera per la riproposizione delle variazioni di bilancio sulle quali il Commissario del Governo ha espresso perplessità. E’ richiesta almeno la maggioranza dei consiglieri, cioè 26 voti su 50, ma al momento della votazione, i sì sono soltanto 19. Dov’erano i 7 consiglieri della maggioranza indispensabili per l’approvazione della delibera? Al bar, a sorseggiare un caffè sotto i portici della Regione, mentre la Puglia, proprio in quei giorni, registra oltre trecentomila disoccupati. Il 16 dicembre è lo stesso Presidente della Giunta, in un articolo che la Gazzetta pubblica in prima pagina, a denunciare lo stato di confusione e irresponsabilità che regna in Consiglio regionale: Rilevo con amarezza una situazione complessiva di mancata identificazione e immedesimazione con i problemi reali e gravi della Regione che mortificano pesantemente l’istituzione regionale e la mia dignità. Per questo stato di cose – prosegue Savino – ci sono responsabilità diffuse ed estese sia per i comportamenti commissivi sia per quelli omissivi. Mi sono impegnato innanzitutto su tre temi fondamentali: recupero dell’immagine istituzionale, risanamento finanziario e riorganizzazione strutturale dell’apparato pur tra ignavie e pigrizie, cercando di incidere su pressappochismo e rendite di posizioni. Ma quanto è accaduto ieri m’impone di riconsiderare l’impegno assunto responsabilmente appena tre mesi fa. Savino non si dimette, ma Consiglio e Giunta sono avvertiti. Qualche barlume di ‘rinnovamento’ insomma c’è. Sarà perché ormai non c’è più nulla su cui valga la pena mettere le mani per la vigile e costante presenza delle Procure; sarà perché tutti i ‘rubinetti’ dello Stato sono a secco – e lo saranno sempre di più per l’avanzato processo di ‘privatizzazione’ – sarà perché la gente è stanca, indignata e pronta a cambiare i famosi ‘cavalli di razza’, sarà quel che sarà, ma non c’è dubbio che o si taglia col vecchio ‘sistema’ o si va a casa.


La Gazzetta... volta pagina Il 29 ottobre, quanttro giorni prima della soluzione dell’ennesima, travagliata e contrastata crisi al Comune di Bari, Giuseppe Gorjux ha lasciato la direzione politica della Gazzetta al giornalista-scrittore Antonio Spinosa. Si dice che Gorjux sia stanco ed irritato per la scarsa comprensione del ‘vecchio’ establishment politico nei confronti della sua linea di ‘chiarezza’ e imparzialità, per la quale, d’altra parte, ha personalmente acquisito qualche pesante inimicizia. Ma lui non ne parla: Assolto un dovere – scrive il 30 ottobre nel suo editoriale di commiato dai Lettori – abbiamo vissuto insieme anni intensissimi… abbiamo visto ‘cambiare il mondo’, abbiamo visto in Italia il tramonto del vecchio regime partitocratico, vediamo e viviamo ancora oggi una fase di drammatica incertezza della quale non si intuisce lo sbocco. Ho assolto un dovere con assoluto disinteresse… quello stesso dovere che, nell’attuale fase di recessione economica, mi impone di restituire tutte le possibili energie alla gestione del gruppo editoriale. Gorjux dunque torna ad occuparsi, a ‘tempo pieno’, della parte imprenditoriale del gruppo che gestisce le testate del Mattino di Napoli – acquisita nel 1985 – della Gazzetta del Mezzogiorno e, dal 22 aprile di quest’anno, della rinata Gazeta Shqiptare, quotidiano in lingua albanese fondato dalla Gazzetta nel 1928 e distribuito nel Paese delle aquile fino al 1940… un giornale che rinasce non per spirito di concorrenza – si legge nell’articolo di presentazione – ma con l’intento di creare un nuovo mezzo di reciproca comprensione ed amicizia con il vicino popolo albanese. L’esigenza di tornare al ‘ruolo amministrativo’ quale Amministratore delegato delle due società del Gruppo – ruolo che Gorjux ha conservato anche durante il suo impegno alla direzione politica della Gazzetta – è divenuta inderogabile. I quotidiani, s’è detto, attraversano un momento di grave crisi economica, non tanto per il decremento diffusionale, che

Il giornalista-scrittore Antonio Spinosa subentra a Giuseppe Gorjux alla direzione politica della Gazzetta.

pure c’è, specie al Mattino, ma soprattutto per il crollo del mercato pubblicitario. Occorrono nuove strategie d’impresa, nuove iniziative e nuovi investimenti specie dopo l’impegno assunto dal Gruppo con l’acquisizione della quota di minoranza, il 49%, del Mattino di proprietà dell’Affidavit – una società della DC – ormai in affanno, come tutti i partiti, sul piano economico. Normalmente, il solo avvicendamento al vertice della direzione politica di un quotidiano costituisce, di per sé, un investimento: nuove idee, nuove iniziative, nuovi contributi seguiti, il più delle volte, da nuovi assetti all’interno delle redazioni con l’intento di dare nuove motivazioni ed esaltare professionalità. Aspetti che però hanno due facce: costi ingenti e certi, prospettive incerte e comunque da verificare anche se per la direzione si scelgono professionisti di valore. Purtroppo, agli editori Gorjux e Romanazzi 267


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capita la prospettiva peggiore: i nomi su cui hanno puntato per rilanciare le sorti del Mattino e della Gazzetta, risulteranno, a breve, così deludenti da arrecare danni sostanziali alle Società e all’immagine dei due prestigiosi quotidiani meridionali. La parabola discendente del Mattino, diretto da Pasquale Nonno, ha avuto inizio nel 1991 quando Nonno decide di impegnare il giornale in difesa di De Mita e Antonio Gava dalle ‘picconate’ del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Prosegue nel ’92 e continua fino alle dimissioni di Nonno, nella primavera di quest’anno, ostinatosi a difendere il chiacchierato e poi inquisito folto gruppo di parlamentari DC napoletani – De Mita, Gava, Scotti, Pomicino, Vito, ecc. – da Tangentopoli. Risultato: da due anni circa il Mattino perde 30mila copie e senza una nuova ‘guida’, capace e di prestigio, rischia il tracollo. Acquisita, a giugno, la quota azionaria dell’Affidavit e liberati dal ‘vincolo’ del ‘gradimento’ da parte della DC nella scelta del Direttore responsabile, a luglio gli editori Gorjux e Romanazzi ‘offrono’ al noto giornalista Sergio Zavoli la direzione del Mattino. Zavoli, 70 anni, è al culmine della sua carriera. Ha speso gran parte della sua vita professionale in RAI; è considerato giornalista di profonda cultura e di notevole conoscenza della realtà meridionale, sociologo, autore di pregevoli programmi televisivi e di numerosi volumi. Zavoli insomma potrebbe veramente risollevare le sorti e i problemi di diffusione e d’immagine del Mattino e la Società editoriale non gli lesina mezzi, compensi e comodità. Si parla di un contratto di 90 milioni al mese lordi con l’aggiunta di un congruo compenso per collaborazione professionale e consulenza con la Gazzetta. Ma Zavoli sa di poter fare tutto tranne la vita del direttore di un quotidiano: 10, 12 ore al giorno all’interno di una redazione non è nelle sue aspirazioni e non si comprende perché accetta. Perciò, condiziona il suo impegno alla guida del Mattino con 268 l’assunzione del giornalista Paolo Graldi, già

inviato del Corriere della Sera, come vice direttore. E’ Graldi che gestirà per lui la redazione e le relazioni pubbliche con il vasto mondo politico, culturale e amministrativo della popolosa e ‘difficile’ città di Napoli. Poco più di un anno dopo, il sodalizio fra Zavoli, il Mattino, gli Editori e i napoletani, è finito. L’avventura di Antonio Spinosa invece – ancora un giornalista-scrittore settantenne – alla direzione politica della Gazzetta, dura anche meno, dieci mesi per l’esattezza. Ma produce al giornale – lo vedremo nel successivo capitolo – danni economici e d’immagine ben più gravi, di quelli che il Mattino eredita dalla gestione Zavoli. Più gravi perché la Gazzetta non ha bisogno né di recuperare Lettori – il calo è di quelli che si definiscono ‘fisiologici’ a causa dell’aumento del costo copia – né tantomeno immagine. Il consenso dell’opinione pubblica è ampio. La gente apprezza sia la linea politica di relativa imparzialità del giornale nei confronti dei partiti, sia le decise posizioni critiche verso le Amministrazioni locali. L’avvicendamento, dunque, risponde a due esigenze: riportare Gorjux al ‘ruolo amministrativo’ per il varo e la gestione di un nuovo progetto organizzativo e produttivo della Gazzetta e, con la nuova direzione politica, ‘rivitalizzare’ la redazione nel tentativo di recuperare le poche perdite e consolidare l’immagine di un quotidiano sempre più indipendente e al servizio della comunità pugliese. Ma che poteva sapere, cosa sapeva il ciociaro Spinosa che ha vissuto gran parte della sua vita professionale fra Milano e Roma, della Gazzetta, della sua storia centenaria, del suo ‘legame’ con la popolazione pugliese, del Mezzogiorno e della Puglia in particolare? Niente. Negli anni Settanta, Spinosa, da inviato del Corriere della Sera, ha scritto un volume dal titolo ‘Ultimo Sud’. Un buon libro se si volevano evidenziare tutti i mali che all’epoca affliggevano il Mezzogiorno – incuria, abbandono e degrado – ma un’analisi corretta


avrebbe voluto uno sforzo nella ricerca delle cause dell’iniqua diversità economica, culturale e sociale del Meridione rispetto al CentroNord. Il volume di Spinosa invece non è che una conferma di quella visione tutta settentrionale che vuole il Mezzogiorno assistito, indolente, sporco e cattivo. Né, assumendo la direzione politica della Gazzetta, Spinosa si perita di ‘informarsi’, capire, di compenetrarsi in una realtà tanto diversa e difficile rispetto alle sue precedenti esperienze. Per farla breve, in 10 mesi, Spinosa riesce a incidere profondamente e negativamente sul futuro prossimo della Gazzetta. La ‘pax’ redazionale è distrutta da un assurdo clima di ‘sospetti’ artificiosi, in gran parte attribuibili al suo carattere ombroso e sospettoso, alimentato da invidie e gelosie per scelte di ‘riassetto’ redazionale opinabili e clientelari, a cui non è estraneo il coeditore Stefano Romanazzi. Spinosa schiera decisamente il giornale verso un ‘centro-destra’ nazionale ancora ibrido e inesistente, ma sono già chiare le sue simpatie per il nascente partito di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere – attraverso la Mondadori – è l’editore di diversi volumi di Spinosa e in seguito lo raccomanderà personalmente, seppur senza successo, alla direzione del Mattino. Sul piano locale, invece, Spinosa attenua e ammorbidisce i toni di severa denuncia contro Comuni e Regione come di chi non conosce – e Spinosa non lo conosce – il recente e travagliato periodo amministrativo e politico negli Enti locali. Spinosa è attendista e conciliante con tutte le Amministrazioni locali, tranne che con Taranto. Alla vigilia delle elezioni Amministrative, il 21 novembre, il nuovo Direttore della Gazzetta, nell’elencare la somma di problemi che affligge la città – nessuna altra città pugliese sta peggio di Taranto – scrive: L’esasperazione, la stanchezza, la delusione sono sentimenti più che legittimi, ma non bisogna cedere alle suggestioni della protesta per la prote-

sta… la città ha bisogno di una soluzione autorevole per imboccare la via del riscatto… Taranto ha bisogno di un Sindaco altamente rappresentativo: non ha bisogno di un telepredicatore. Vince la lista civica guidata dal giudice Gaetano Minervini che ha l’appoggio del PDS, Rete e Rifondazione comunista. Stravince invece il telepredicatore Giancarlo Cito che da solo ha raccolto il 26% dei voti. Ma nessuno dei due candidati sindaci ha raccolto il 51% dell’elettorato. Il 5 dicembre si va al ballottaggio e Spinosa, che non vuole né un Sindaco di sinistra né tantomeno il telepredicatore, compie un capolavoro di ‘non sense’: invita i tarantini a votare scheda bianca. Cito diventa sindaco e Spinosa comincia a ‘bersagliarlo’ con una tale serie di piccoli, sarcastici corsivi dal titolo ‘inferocito’, che alla fine il telepredicatore s’infuria e chiede ai tarantini, attraverso la sua emittente locale, di boicottare la Gazzetta. E’ solo l’inizio. Cito non sarà per Taranto l’Uomo della provvidenza, non ‘salverà’ la città dall’incuria,

Giancarlo Cito è il nuovo sindaco di Taranto.

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Una finestra sulla storia - 1993

dal degrado sociale e amministrativo. Taranto è la città simbolo dell’esasperazione di massa, di un elettorato che non crede più a nessuno e, come i bambini che consumano solo quello che vedono in Tv, anzi su AT6 l’emittente locale di Cito, i tarantini si affidano al nuovo ‘Messia’ mediatico. Del resto, anche la maggioranza degli italiani faranno la stessa cosa cinque mesi più tardi. Il Cavaliere non è ancora sceso in campo che i suoi proseliti sono già all’opera: il 15 dicembre, Rossana Di Bello, giovane biologa tarantina, fonda il primo Club di ‘Forza Italia’ di Puglia: è l’ora di rimboccarsi le maniche e mettersi a lavorare seriamente. Sette anni dopo Rossana Di Bello sarà eletta Sindaco di Taranto.

La vita continua Facciamo un salto indietro. Tangentopoli è, come abbiamo visto, il tema dominante dell’anno: appassiona, rattrista, riempie di rabbia milioni di italiani, immiserisce il ‘sistema’, l’economia, la società, sfiducia le istituzioni, ma la vita continua. Lo ‘show must go on’, dicono gli anglosassoni, e gli italiani non mancano di riempire gli stadi, le tribune dei circuiti automobilistici, i palasport di basket, pallavolo e i bordi delle strade d’Italia per seguire il più ‘vecchio’ sport nazionale: il ciclismo. Ma è il calcio a chiamare folle immense. Sono le partite di calcio, nazionale e internazionale, che le Tv pubblica e privata si disputano a suon di miliardi. Non a caso i quotidiani politici aumentano sempre più le pagine dedicate allo sport e gli stessi quotidiani sportivi risultano fra i più diffusi giornali del Paese. Il 26 maggio, si gioca, a Monaco di Baviera, la prima finalissima della stagione calcistica internazionale ’92-’93: la Coppa Campioni. All’appuntamento per l’incontro che assegnerà la più prestigiosa coppa europea c’è il Milan del ‘mister’ Fabio Capello e l’Olympique Marsiglia, una ‘bestia nera’ per la squadra di Berlusconi. Due anni prima aveva subì270 to, a tavolino, la sconfitta e la squalifica di un

Gianluca Vialli, bomber della Juventus.

anno dalle competizioni europee: durante l’incontro era saltato un faro dell’illuminazione e contrariamente all’arbitro, il quale aveva ritenuto l’incidente non pregiudizievole al prosieguo della partita, l’allora amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, aveva ordinato alla squadra di restare negli spogliatoi. Rivincita di fuoco dunque con un Milan che ha vinto tutte le dieci partite eliminatorie di Coppa Campioni e che, in 34 partite di campionato, ne ha perse solo due: una in casa col Parma, e l’altra, pure in casa, con la Juventus. Due ‘incidenti’ di percorso per un Milan stratosferico che da due anni non ha rivali, che parte per Monaco avendo già ipotecato il suo secondo scudetto consecutivo. Un Milan voglioso di rivincita, motivato al massimo… e perde. Ancora un 1 a 0 per l’Olympique come nella partita sospesa di due anni prima. E’, invece, la Juventus di Trapattoni a riscattare il calcio italiano in Europa: la ‘Vecchia Signora’ si aggiudica la Coppa Uefa mentre il suo ‘figlioccio’ prediletto, Roberto Baggio, il pallone d’oro. Una stagione che sembrava da buttare via – commenta l’altra punta


di diamante della Juve, Gianluca Vialli – invece ci ha riservato una gioia incontenibile. La Juventus, infatti, è arrivata alla fine del campionato con un distacco umiliante dal Milan campione: 11 punti in meno e Vialli non è privo di colpe. L’ex sampdoriano ha semplicemente abdicato dalla sua fama di ‘goleador’. Doveva essere l’uomo in più della ‘fidanzata’ d’Italia, è risultato l’uomo in meno: in tutta la stagione ha messo a segno solo sei reti. Del resto, Vialli non voleva andarci alla corte dell’Avvocato. Ma, anche quest’anno, è il Foggia di Zeman la squadra più ‘ammirata’ della serie A. Messa insieme con ‘scarti’ e dilettanti, gli undici ‘diavoli’ dell’allenatore boemo seminano il panico in tutti gli stadi. All’inizio del campionato il Foggia è addirittura in zona UEFA. Sono ragazzi che giocano a memoria, affrontano chiunque senza alcun timore reverenziale; fanno spettacolo, divertono, vincono e perdono confronti impossibili con risultati tennistici, ma escono dagli stadi sotto scrosci di applausi e lodi perfino dagli avversari. E’ una stagione di grandi soddisfazioni per Zeman che non solo centra l’obiettivo della permanenza del Foggia in serie A, ma il suo ex ‘pupillo’, Beppe Signori, ceduto alla Lazio, si fregia del titolo di capocannoniere del massimo campionato con 26 reti. In serie B, invece, le solite ‘battaglie’. Nella serie cadetta bisogna lottare, stringere i denti, soffrire e trottare fino all’ultima partita per ‘vincere’ lo scudetto-salvezza o per arrivare fra le prime quattro per essere ammessi nel salotto buono del calcio italiano. Il Bari avrebbe tutti i ‘numeri’ per rientrare già da quest’anno nel giro delle grandi, ma… manca la necessaria tensione, la volontà di sudare, sostiene il ‘mister’ brasiliano Sebastiao Lazaroni. Tutte qualità che non mancano al Lecce di Bruno Bolchi e alla Fidelis Andria di Giorgio Rumignani. Il Lecce torna trionfalmente nell’olimpo del calcio nazionale; l’Andria, partita con l’unica ambizione di restare in B, vince il suo scudetto-salvezza.

Beppe Signori, capocannoniere nella stagione ‘92-’93.

Tutte e due le squadre pugliesi ottengono promozione e salvezza all’ultima partita di campionato; entrambe hanno emulato il Foggia: hanno messo insieme un nucleo di ‘pazzi’, di ragazzi terribili accomunati da eccezionali dosi di carattere, temperamento e voglia di vincere; entrambe sono state guidate da autentici ‘sognatori’, da quadri societari ‘familiari’ e fiduciosi nelle capacità dei loro ragazzi e, ad entrambe, non è mai mancato il sostegno, il calore del pubblico. Più che in società sportive, i molti giovani del Lecce e dell’Andria, insieme a qualche ‘vecchietto’ d’esperienza, hanno vissuto per l’intero campionato in una specie di famiglia patriarcale guidate dal saggio Franco Jurlano, a Lecce, e dai fratelli Fuzio ad Andria. Il clima sereno, la capacità degli allenatori, la voglia di vincere dei ragazzi, il cuore dei tifosi, l’assenza di polemiche dentro e fuori dai campi di calcio, hanno fatto il miracolo. Ma sono come due lumi accesi in una stanza spoglia, sogni inseriti in una realtà inaccet- 271


L’entusiasmo della tifoseria giallorossa per il ritorno del Lecce in serie A.

tabile: Lecce è una città in caduta libera, ingovernata e ingovernabile, squinternata e messa in liquidazione dalla litigiosità della sua classe dirigente; Andria ha subìto l’onta di Tangentopoli e non sta meglio del Comune di Lecce. Eppure, c’è chi sta peggio. C’è Taranto, per esempio, che alla crisi politico-amministrativa unisce una crisi economica e occupazionale senza precedenti, specie dopo i tagli alla produzione dell’acciaio all’ILVA imposti dalla CEE. La città è immiserita, degradata nell’ambiente e sull’orlo della bancarotta. Né fa eccezione la squadra di calcio che, oberata di debiti, subisce due retrocessioni: quella sul campo, dalla B alla C1 alla fine del campionato, e quella sancita dal Consiglio federale della FIGC che cancella la gloriosa società sportiva tarantina dall’affiliazione per insolvenza. Per tornare sui campi dovrà costituire una nuova società con nuovi soggetti giuridici e ricominciare dal torneo dei ‘dilettanti’. Colpiti dunque da Tangentopoli sia il presidente della Roma, Ciarrapico, che il presidente del Napoli, Ferlaino, le due Società vengo272 no vendute. La squadra partenopea passa di

mano in mano e si avvia verso un lento declino. La Roma, acquistata da Franco Sensi, interrompe, insieme con la Lazio, il predominio delle squadre settentrionali: le squadre romane inseguono entrambe, con successo – prima la Lazio e poi la Roma – il titolo di Campione d’Italia. La Lazio conquista il secondo scudetto della sua storia nella stagione ’99-2000, la Roma si cuce il terzo scudetto sulle maglie giallorosse, l’anno dopo. E il Bari? Un disastro. Il secondo, dopo quello di Boniek, l’allenatore polacco che in due anni di esperienza pugliese è riuscito a compiere un’impresa unica: ha portato dalla serie A alla serie B, prima il Lecce – nel ’91 – e poi il Bari l’anno scorso. Con l’affidamento dei Biancorossi al tecnico brasiliano Sebastiao Lazaroni, il Bari spera in un immediato riscatto. Dopotutto, la squadra barese è più che competitiva, schiera campioni di tutto rispetto: Jarni, Barone, Joao Paulo, Tovalieri e Protti, ma… la squadra non mi segue – afferma Lazaroni – non ho niente contro nessuno, ma non ho visto un’anima che mi desse la possibilità di raggiungere una dignità


di gioco. La verità è che l’ambiente sportivo barese non l’ha mai accettato e i calciatori ‘sentono’ che manca il necessario ‘feeling’, quel tanto che rende una squadra vincente. Lazaroni ‘resiste’ fino al 10 gennaio, poi getta la spugna: trasferta a Cremona e secca sconfitta per quattro a zero. Senza quell’umiliante risultato la Società non avrebbe mai avuto il coraggio di liberarsi del brasiliano. Ventiquattro ore dopo, il presidente del Bari, Vincenzo Matarrese, presenta il nuovo ‘mister’: è Beppe Materazzi, già allenatore del Bari ‘primavera’ negli anni ’81-’83. Un ‘cavallo di ritorno’ che risulterà, alla lunga, un ‘cavallo vincente’: è lui a riportare i Biancorossi nel massimo campionato. Il Bari però si sente in qualche modo in debito con la Cremonese e alla penultima partita di campionato, lo salda. I lombardi, ospiti

Protti e Tovalieri, i gioielli del Bari in serie B.

al ‘San Nicola’, vincono per due reti a una, ottenendo la matematica promozione in serie A con una giornata di anticipo. La Società ha così assolto il suo debito, ma ‘San Nicola’ ha punito entrambi. Nel grande stadio di Bari, capace all’epoca di contenere 60mila spettatori, assistono al trionfo della Cremonese solo in 173 per un incasso di 3 milioni: record negativo di tutti i tempi. Intanto, anche nel calcio cominciano a cambiare le regole. E’ nata la ‘pay-tv’ e, di fronte al vagone di miliardi che le reti pubbliche e private sono disposte a sborsare per trasmettere, in diretta, incontri di calcio nazionale e internazionale, non c’è principio – la contemporaneità delle gare e dei risultati – che tenga. L’accordo fra la RAI, la Fininvest e la Lega Calcio, prevede: l’anticipo di una partita di serie B al sabato sera, il posticipo di una partita di serie A la domenica sera, naturalmente, a circuito chiuso. Un affare colossale, specie per la Fininvest che vende milioni di abbonamenti e ‘decoder’. Non a caso Aldo Biscardi, che ha fiutato l’affare, sancisce il suo divorzio dalla RAI e si trasferisce con armi, bagagli, chiacchiere, sproloqui e ‘processo’ a Tele + 2. Non sarà un matrimonio felice: nuovo divorzio, nuovo matrimonio e nuovo trasferimento, l’anno successivo, a Telemontecarlo, divenuta in seguito ‘La7’. Il presidente della Lega, Luciano Nizzola, ad affare concluso assicura che gli introiti in più, derivanti dalle ‘pay-tv’, serviranno a sanare i bilanci delle società sportive. Illusione, serviranno sì, ma ad aumentare in modo scandaloso gli ingaggi ai calciatori e a pagare somme sempre più spropositate per accaparrarsi ‘fenomeni’ pallonari e allenatori di prestigio capaci di fare la differenza. Alla lunga, la pay-tv apporterà al calcio più danni che benefici. Le società di calcio, in maggioranza, continuano ad avere deficit paurosi, gli stadi – a meno di grandi eventi – sono sempre più desolatamente vuoti e calciatori e allenatori sono 273 ricchi come nababbi.


Una finestra sulla storia - 1994


1994

Doveva essere l’anno della ‘rifondazione politica e morale’ del Paese; doveva essere il primo anno della ‘promessa’ Seconda Repubblica, diventa, invece, il secondo tempo della Prima Repubblica: diventa l’anno della discordia civile, della contrapposizione generazionale, dell’intolleranza politica, della rinnovata ‘rivoluzione’ giudiziaria, della ‘controrivoluzione’ politica. E’ stato l’anno della delusione – scrive il condirettore della Gazzetta Lino Patruno il 30 dicembre – dell’attesa tradita di lasciarsi alle spalle un passato che non passa. La Prima Repubblica è troppo dura a morire perché possa ancora affacciarsi la Seconda. Altro che ‘confusione creativa’ come sostengono inguaribili ottimisti… forse questo Paese è condannato al provvisorio dai suoi stessi cromosomi intrisi di compromesso, di vie di mezzo, di trasformismo, di consociativismo, per indicare la vecchia pratica di dividere insieme tutto, maggioranza e opposizione nello stesso letto. Forse ha ragione chi sostiene che governare gli italiani non è difficile: è inutile. Puro pessimismo? No, è quello che solitamente si dice ‘pessimismo della ragione’. Pochi giorni prima infatti, il 13 dicembre, Giuseppe De Tomaso scriveva un editoriale che sotto il titolo ‘Babilonia’ descrive gli ultimi, convulsi giorni del ‘94… un’altra giornata da infarto. Crollano Borsa e Lira. Si dimette un magistrato di Cassazione. Infuria la battaglia BiondiCaselli. S’inasprisce lo scontro governo-giudici, governo-sindacati-imprenditori, mentre l’Esecutivo traballa ogni ora di più. Oggi infine si apre il match decisivo: Borrelli contro Berlusconi… non era mai accaduto – continua De Tomaso – che un Governo fosse impegnato a combattere su più fronti: l’opposizione, la Magistratura, i mass media, il Quirinale, gli alleati ostili, i salotti buoni dell’economia, i mercati internazionali, i sindacati. Molte, troppe cose non erano mai accadute. Non era mai accaduto che in un anno fossero ‘cancellati’ dalla geografia politica del Paese cinque partiti; non era mai accaduto che

in tre mesi nascesse un nuovo soggetto politico; non era mai accaduto che un imprenditore, un ‘grande comunicatore’, vincesse le elezioni politiche e assumesse, in tre mesi, la guida del Governo; non era mai accaduto che i ‘fascisti’ venissero ‘sdoganati’ e addirittura chiamati a far parte del Governo; così come non era mai accaduto che la nuova nave politica del Paese naufragasse subito dopo il varo. Il 22 dicembre il primo Governo Berlusconi è sconfitto sul campo dalla sua seconda punta: l’Attila del Nord, Umberto Bossi, invece di tirare nella rete avversaria segnava autogol a ripetizione e undici mesi dopo l’ingresso del Cavaliere in politica, l’Italia passa da un Paese sotto ‘tutela’ della Magistratura ad un altro in completo stato confusionale politico e istituzionale. Doveva essere l’anno della svolta, diventa l’anno in cui si adombrano ‘pericoli’ – e non mancano velate minacce – per la democrazia come affermano, nel corso di questo assurdo ’94, Fausto Bertinotti, Achille Occhetto, Umberto Bossi e il capo della Procura di Palermo, Giancarlo Caselli. Questo, in sintesi, il prologo di un altro anno da ‘infarto’ le cui conseguenze peseranno in maniera drammatica sul Mezzogiorno. Ma percorriamolo dall’inizio questo lungo millenovecentonovantaquattro. Quando il 2 gennaio i quotidiani pubblicano il tradizionale messaggio del Capo dello Stato, gli italiani si rendono conto che le sue parole contengono un invito chiaro ed esplicito… si volti pagina – afferma Scalfaro – sembrava impossibile, ma anche il 1993 è passato grazie alla forza, al coraggio e all’operosa pazienza della popolazione… il Paese sta risorgendo e gli italiani sono disposti a pagare il prezzo della rinascita. Dieci giorni dopo il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, si dimette e il Capo dello Stato scioglie le Camere. Si torna alle urne il 27 e 28 marzo per… voltare pagina. A nessuno è sfuggito il significato di quelle due parole: voltando pagina, c’è una sola 275


Una finestra sulla storia - 1994

forza politica uscita quasi indenne dal ‘terremoto’ scatenato da Tangentopoli. Se poi si aggiunge, a detta di Scalfaro… che l’anno è passato grazie alla forza, al coraggio e all’operosa pazienza degli italiani… si riconosce, ai superstiti di Tangentopoli, di non aver usato le ‘piazze’ per trasformare una ‘rivoluzione di velluto’ in una controrivoluzione ben più gravida di conseguenze. Ma c’è ancora un’altra frase di Scalfaro che chiarisce ulteriormente il significato del… si volti pagina: l’accenno alla ‘disponibilità’ degli italiani a pagare il prezzo della rinascita. Non è mai accaduto, in quasi cinquant’anni di Prima Repubblica, che gli italiani abbiano accettato grandi sacrifici senza l’avallo, il silenzio-assenso, del più grande partito di sinistra d’Europa: il PCI. Il ‘messaggio’ è così chiaro che Mario Segni e Silvio Berlusconi concordano nel ritenere che… a certi livelli e in alcuni ambienti c’è un chiaro indirizzo a favorire il PDS, gli ‘eredi’ del PCI. Segni e Berlusconi, insieme a Mino Martinazzoli, contestano anche la data delle elezioni, palesemente favorevole alle forze di sinistra, le sole in grado di affrontare una campagna elettorale così ravvicinata avendo conservato intatte le loro strutture organizzative notoriamente efficienti. A due mesi dalle elezioni, insomma, c’è da una parte un ‘blocco’ politico consolidato e ben organizzato; dall’altra, un’insieme di partiti e partitini che cercano di aggrapparsi a qualunque altra barca in grado di offrire loro un salvagente. Fanno eccezione i democristiani sopravvissuti a Tangentopoli: una parte ha già aderito al ‘Patto per l’Italia’, il nuovo movimento di Mario Segni; un’altra sta tentando di rifondare il Partito Popolare. Un altro punto fermo in tanta confusione, è la ‘pattuglia’ della Lega. I ‘barbari’ del Nord, così li chiama De Tomaso, determinati e pronti all’assalto del Palazzo… anche con le baionette, dirà Bossi. Esiste, in potenza, una nuova ‘forza’ politica, 276 ma è ancora un’idea, un progetto da definire.

La democrazia bloccata In pratica è come se si fosse tornati al punto di partenza: quando, finalmente, quella ‘democrazia bloccata’, frutto della spartizione politica dell’Europa, si è ‘sbloccata’ – con il crollo del Muro di Berlino e il conseguente disfacimento del comunismo – e per gli elettori italiani si è aperta la via del ‘bipolarismo’, ecco che la coalizione dei partiti che ha governato il Paese per 45 anni, si è dissolta. Logorati e moralmente compromessi, chiamati a rispondere di una lunga serie di presunti illeciti e abusi da un moderno… Robespierre, la DC, il PSI, PSDI, PRI e PLI crollano. Sembrerebbe così che gli elettori italiani siano perseguitati da una maledizione: ancora una volta viene loro negata la possibilità di scegliere. Si ripeterebbe, di fatto, una situazione simile agli anni della ‘democrazia bloccata’; gli elettori si apprestano ad andare alle urne nelle stesse condizioni del passato: virtualmente senza un’alternativa di Governo. Ieri gli ‘equilibri’ internazionali ‘consigliavano’ di votare i partiti di centro e della sinistra moderata; oggi, l’alternativa è tra la Lega e il PDS. Il ‘centro berlusconiano’, si è detto, è ancora un progetto da definire. Nessuno, in questo terribile biennio, ha messo in discussione le inchieste della Magistratura. Nemmeno la stragrande maggioranza del vecchio centro-sinistra le ha ritenute ingiustificate. Si sono avanzate e si avanzano riserve sui metodi dei procuratori, ritenuti persecutori, vessatori, parziali – il pubblico ministero Tiziana Parenti che fino all’inizio del ’93 ha fatto parte del pool milanese di Mani Pulite, trasferita a Palermo lamenterà di non essere mai stata messa in grado di indagare sulle presunte ‘tangenti rosse’ – ma non ingiustificati. Nessuno, neanche la stampa più schierata, ha messo in discussione nel suo complesso l’operato della Magistratura… ai magistrati va dato atto – scrive De Tomaso il 28 gennaio sulla Gazzetta – di aver demolito un sistema politico corrotto e inquinante. Resta il fatto che il processo di moralizzazione politica


messo in moto da tutte le Procure del Paese, ha rastrellato e continua a rastrellare solo le ‘foglie morte’ della vecchia partitocrazia. Perché? Perché, si chiedono in tanti, il PCIPDS che non ha mai negato gli anni del consociativismo, ne esce quasi indenne? E’ ben strano che dopo aver svolto il ruolo di ‘consocio’ di un’azienda si è poi negato ogni responsabilità nel fallimento della stessa azienda. E’ vero che il PCI-PDS durante la Prima Repubblica non ha mai avuto responsabilità di Governo, ma è anche vero che i suoi uomini hanno amministrato centinaia di Enti locali i cui deficit, prima delle norme sull’autonomia fiscale, venivano regolarmente coperti dalle casse dello Stato. Migliaia di Lettori della Gazzetta, nel corso del ’93, pongono e si pongono gli stessi quesiti, le stesse domande – attraverso le rubriche ‘Lettere al Direttore’, ‘Filodiretto’, ‘Ditelo alla Gazzetta’ e l’ultima, ‘Manette e Mazzette’, nata nel periodo più caldo di Mani Pulite – senza, tuttavia, mai mettere in discussione le inchieste della Magistratura, l’autonomia dei giudici, la loro opera ‘liberatoria’. Tanto più che a livello locale, quei Lettori sono ben consapevoli che anche gli amministratori del PCI-PDS hanno partecipato al ‘banchetto’ incappando, anche loro, nelle maglie di Mani Pulite. Un niente, è vero; un’esigua minoranza rispetto alle ‘purghe’ subite dai rappresentanti dei partiti di Governo. Si vuol far credere – scriveva Luciano Violante nel novembre del 2003 – che il vecchio sistema sia crollato per colpa dei giudici. Non è così. C’era un patto. A un certo punto sono scomparse le condizioni che lo tenevano in piedi. Tutto è successo per la fine del bipolarismo internazionale. A Violante risponde un ex militante del PCI, Sandro Bondi… quando è difficile affrontare scomode verità, le analisi si fanno in modo approssimativo. Che il ‘vecchio sistema’ fosse crollato dopo le inchieste di Mani Pulite e non con la fine del bipolarismo internazionale è opinione con-

Il pool di ‘Mani Pulite’ Di Pietro, Colombo e Borrelli seguiti da un ‘esercito’ di persone oneste.

divisa già nel corso di quest’anno. Non c’è dubbio – scrive Giuseppe Gorjux il 19 luglio – che l’azione del giudice Di Pietro e del suo pool abbia determinato il crollo di una classe politica ormai impari ai suoi compiti ed impegnata solo in ‘giochi’ tendenti alla conquista e al mantenimento di fette di potere fine a se stesse. Se poi quella salutare azione sia stata ispirata anche da premesse e finalità ideologico-politiche, resta da verificare. Infatti, è questo il nocciolo su cui da anni la società si interroga. C’era una regìa che ispirava il pool di Mani Pulite? E se sì, chi era il regista? Cossiga, Berlusconi, Segni, Occhetto, lo stesso Violante – già presidente dell’Antimafia – i massoni della P2, oppure i ‘poteri forti’ della finanza? Poiché attribuire alla fine del bipolarismo internazionale il crollo del vecchio sistema, è sicuramente un’analisi approssimativa. Perfino i ‘tempi’ sono diversi. Il bipolarismo internazionale cessa di esistere nell’ottobre del 1989 con il crollo del Muro di Berlino; nel marzo del ’90 il Soviet supremo del PCUS approva la proprietà privata dei beni e dei mezzi di produzione; nel febbraio del ’91 nasce a Rimini il PDS che, cancellando dal suo vocabolario i vecchi dogmi del collettivismo e dell’economia di Stato, spo- 277


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sa la libera iniziativa, la meritocrazia, l’economia di mercato e si candida come forza di Governo alternativa. Ciononostante, ad oltre un anno di distanza, il 7 aprile del 1992, non sono i partiti di sinistra – PDS e Rifondazione – a vincere le elezioni politiche, ma il vecchio centro-sinistra il quale, proprio a causa della fine del bipolarismo internazionale e grazie alle ‘picconate’ di Francesco Cossiga, ne esce ridimensionato e malconcio, ma non perdente come avrebbe dovuto essere. Il vincitore morale delle elezioni del ’92 è Umberto Bossi che con lo slogan ‘basta con Roma ladrona’ porta la rappresentanza della Lega in Parlamento da 1 a 55 deputati. I solidi e organizzati partiti di sinistra, con motivazioni politiche ben più consistenti dei facili slogan della Lega, non solo non vincono le elezioni ma perdono, in percentuale, gli stessi punti della già ‘screditata’ DC. Quando si sgretola il ‘vecchio sistema’? Quando il pool di Mani Pulite inizia la sua campagna di moralizzazione della vita politica ed economica del Paese. Certo, non è colpa di Di Pietro se il ‘sistema’ era compromesso, ma che Mani Pulite, ‘ispirato’ o meno, abbia contribuito, con protagonismi e forzature, denunciate anche dal PDS, a ‘cancellare’ dalle liste elettorali delle elezioni di quest’anno le ‘vecchie’ forze alternative al cartello della sinistra, è innegabile. Fin dall’inizio di questo nuovo anno… la nebbia che avvolge la prospettiva politica italiana anche a breve termine – scrive Gorjux il 7 gennaio – è sempre densa. E copre l’intero scenario: dalla Lega al PDS. Appare difficile e problematico il delinearsi di una ‘forza liberale’, cattolica e laica, capace di porsi con autorità al centro dello schieramento politico ed evitare lo scontro frontale fra le istanze degli opposti massimalismi… ciò che più allarma è una Lega che non ha finora trovato ripulse convincenti né da Martinazzoli, né da Segni, né tanto meno da Berlusconi. Qual è infatti lo scenario politico che si presenta agli occhi degli elettori alla vigilia di una 278 consultazione elettorale che dovrebbe segnare

il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica? Confuso quanto sconcertante. Chi conquista il centro vince, afferma il presidente del Senato Giovanni Spadolini. Ma dov’è il ‘centro’? Non c’è più. I partiti che fino allo scorso anno rappresentavano il ‘centro laico’ – liberali, socialdemocratici e repubblicani – sono in via di estinzione. Deputati e senatori del PRI-PLI-PSDI ‘scampati’ a Tangentopoli, rappresentano se stessi. La DC, il ‘grande partito’, asse portante del centro intorno al quale orbitavano i partiti appena citati, si è spaccata in quattro. Il nucleo centrale, che si riconosce nel segretario Mino Martinazzoli, si accinge a convergere nel ricostituendo Partito Popolare; Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio danno vita al CCD – Centro Cristiano Democratico –; Mario Segni sta costruendo un ‘Polo’ liberal-democratico denominato ‘Patto per l’Italia’ e l’estrema sinistra della DC – i Cristiano Sociali di Ermanno Gorrieri – si sono collocati all’ombra della Quercia, il nuovo simbolo del PDS.

Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della DC.


All’interno del costruendo Partito Popolare poi, ci sono tre anime: quella di Mino Martinazzoli che rifiuta ogni intesa politica elettorale con Forza Italia, con il PDS e men che mai con la Lega ed il MSI; quella di Rosy Bindi che per mesi ha tentato di convincere Martinazzoli a trovare un’intesa col PDS ammettendo, alla fine, di essersi sbagliata; e quella del filosofo salentino Rocco Buttiglione che, senza trascurare approcci con Forza Italia, tenta una mediazione fra il suo partito, il Patto per l’Italia, e la Lega: Una simile alleanza politica elettorale – secondo il professore di Gallipoli – potrebbe dar vita ad una forte area liberal-democratica; ridimensionare la follia secessionista dei leghisti e, forse, evitare la discesa in campo di Silvio Berlusconi il cui esercito cresce di giorno in giorno. In altre parole, una coalizione fra il nascente Partito Popolare, Patto per l’Italia e Lega Nord potrebbe essere l’unica aggregazione politica capace di raccogliere l’elettorato moderato costituendo un ‘Polo’ di centro alternativo al già costituito ‘Polo’ progressista che a sua volta ha, nel proprio interno, non pochi contrasti. Sono in otto, fra grandi, medie, piccole e piccolissime formazioni politiche riunite sotto la bandiera progressista: PDS, Rifondazione, Verdi, Rete, Cristiano Sociali, Alleanza Democratica, socialisti di Ottaviano Del Turco e Rinnovamento socialista. Molti farebbero volentieri a meno di correre insieme a Rifondazione, altri si sentono discriminati nella scelta delle candidature… non siamo profughi, sostiene il leader di Alleanza Democratica, Ferdinando Adornato; altri ancora sottolineano che il ‘cartello’ progressista ha un senso solo in quanto cartello elettorale, dopo… non intendiamo restare cespugli sotto la Quercia. Il male oscuro della sinistra italiana – scrive De Tomaso sulla Gazzetta – lo ha coniato Ferdinando Adornato e si chiama ‘sconfittismo’. Ogni volta che lo schieramento progressista arriva ad un passo dal traguardo, pigrizie, litigi, dispetti, ambiguità e pseudo revisionismi, vanificano tutti gli sforzi.

Ma se a livello nazionale grandi e piccoli, ‘storici’ partiti, finiscono col diventare ‘cespugli’ di questa o quella coalizione, a livello locale… gli sconvolgimenti e mescolamenti tra e nelle formazioni politiche – scrive il cronista Liborio Lojacono sulla Gazzetta del 10 gennaio – rappresentano veri e propri drammi per la formazione delle Giunte… la confusione è tale che ad ogni Consiglio il sindaco di Bari, Michele Buquicchio, è costretto ad interrompere l’interlocutore per chiedere: Consigliere, scusi, Lei di che partito è? Né la situazione è migliore nel Consiglio regionale pugliese. Il 15 gennaio, il presidente della Giunta, Vito Savino, intervistato da Domenico Castellaneta, sbotta: Così non si può andare avanti. Il clima complessivo, l’atmosfera che si respira in questo Ente, è al limite… sto vivendo l’esperienza più allucinante della mia vita. Sopravvivere, portare avanti il mandato fino alle prossime elezioni amministrative – nel 1995 – è oggettivamente problematico, anche perché le Procure non accennano ad allentare la pressione. E’ quindi con estremo sollievo che Vito Savino accetta la candidatura al Senato offertagli dal Partito Popolare e, il 21 febbraio, insieme con 4 assessori anch’essi candidati, si dimette aprendo la quinta crisi, in quattro anni, alla Regione Puglia. Vito Savino non sarà poi eletto, ma è uscito da un incubo. Torniamo alle ‘grandi manovre’ degli ‘accorpamenti’ da mettere in campo per l’ormai prossima consultazione elettorale. Il Polo progressista continua a cercare di mettere d’accordo le varie anime per comporre il puzzle della coalizione. Ma è Rifondazione Comunista il pomo della discordia. Sono loro che hanno fatto divorziare Segni e Occhetto all’indomani della vittoriosa campagna referendaria del ’93. Il Segretario del PDS avrebbe voluto consolidare il sodalizio anche per le elezioni politiche di quest’anno, ma Segni gli ha posto una condizione che Occhetto non ha avuto il coraggio di accettare: liberarsi di Rifondazione. A quel punto Mario Segni – Mariotto per 279


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gli amici – già considerato il ‘salvatore della Patria’, diventa l’uomo più corteggiato d’Italia. Il primo a farsi avanti è Silvio Berlusconi il quale, non avendo ancora deciso se restare fra le quinte – come continuano a suggerirgli amici e collaboratori – o salire sul proscenio, offre a Segni sia il potenziale organizzativo di Forza Italia, sia la presidenza del Consiglio, in caso di vittoria. Ma verso la fine di novembre del ’93, il Cavaliere commette l’ingenuità di dichiarare pubblicamente le sue simpatie per Gianfranco Fini e Segni, che si sente forte abbastanza da condurre il gioco, torna a dettare condizioni: o con noi ‘pattisti’, dirà a Berlusconi, o con la ‘destra’ di Fini. Il Cavaliere nicchia. Dopotutto, un accordo con Fini e tantomeno con la Lega, ancora non c’è. Le trattative fra Forza Italia e i ‘pattisti’ restano sospese, ma Berlusconi tenterà ancora di portare Segni dalla sua parte anche dopo aver deciso di scendere personalmente in campo e scelto la formazione della ‘squadra’ da schierare alle elezioni. Segni intanto, rifiutando le profferte di Occhetto e Berlusconi, comincia a sentirsi meno sicuro e si rende conto che i ‘pattisti’, nonostante la sua enorme popolarità, correndo da soli rischiano il naufragio. Perciò, ora è Segni a cercare alleati. E gli resta un solo uscio a cui bussare: il nascente Partito Popolare. Ma anche la Lega è sul ‘mercato’. Anzi, i leghisti sono così ‘corteggiati’ da dettare condizioni: no ad una coalizione con i fascisti, no ai comunisti; sì a Forza Italia, sì a Martinazzoli e Segni a patto che siano i candidati della Lega i capolista nei collegi del Nord. Prima di avviare vere e proprie trattative con Forza Italia – contatti informali non erano mancati – il Senatur incarica il suo delfino, Roberto Maroni, di andare a Brescia a tastare il polso di Mino Martinazzoli. Mediatore instancabile fra Segni, Martinazzoli, Bossi e Berlusconi è Rocco Buttiglione, che gira fra una sede e l’altra come una trottola. L’accordo con il ‘figliol prodigo’ Mario Se280

Buttiglione e Segni presentano il simbolo dei ‘pattisti’.

gni è presto fatto. Dopotutto, le distanze che separano Martinazzoli da Segni non sono incolmabili. L’ultimo Segretario della DC non aveva gradito il ‘feeling’ instauratosi fra Segni e Occhetto prima e durante la campagna referendaria dell’anno precedente. Inoltre, Martinazzoli rimproverava Segni di perseguire un ‘riformismo esasperato’. Il leader dei ‘pattisti’ avrebbe voluto anche un referendum per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. L’accordo, ma non il rientro dei ‘pattisti’ nel nascente Partito Popolare, è sancito da una dichiarazione di Segni… il mio intendimento è quello di riformare lo Stato, non di distruggerlo.

Rinasce il PPI Il 18 gennaio, nella sede romana dell’Istituto Sturzo, Mino Martinazzoli annuncia la rifondazione del Partito Popolare, nato esattamente 75 anni prima, ad opera di don Luigi Sturzo. Non abbiamo tante possibilità di rinascere – afferma Martinazzoli – ma una soltanto: vivificare le nostre radici, rompere i sedimenti del passato. Poi, il Segretario del nuovo partito accenna all’incontro di due giorni pri-


ma con Roberto Maroni… non c’è spazio per un accordo fra noi e la Lega… in che cosa consisteva poi la loro offerta di alleanza con noi? Nella nostra accettazione di una sparizione nel Nord del Paese. Mi pare inaccettabile. Mi sembrano condizioni mortali. Ho chiesto – continua Martinazzoli – in che modo questa nostra alleanza si sarebbe espressa sul terreno elettorale. La risposta è stata che in Lombardia, dove hanno i voti, i leghisti avrebbero presentato loro candidati col loro simbolo in tutti i collegi. Quindi alla fine, l’alleanza sarebbe stata fra PPI al Sud e Lega al Nord. Mi sembra un necrologio, non un’alleanza possibile. Naturalmente, Berlusconi non andrà tanto per il sottile. Darà a Bossi tutti i collegi che vuole, trasformando quella che da più parti è considerata un’armata Brancaleone di egoisti e secessionisti, in un esercito di ‘guerrieri’ che dieci mesi dopo, come vedremo, il Senatur gli scatenerà contro, costringendo alle dimissioni sia il Cavaliere che il Governo da questi presieduto. Intanto, malgrado la chiara relazione di Martinazzoli sulle proposte leghiste per un’alleanza elettorale, Buttiglione e Segni non si arrendono. Il 22 gennaio, a Roma, si svolgono contemporaneamente tre manifestazioni storiche: l’Assemblea costituente del Partito Popolare che scrive, dopo 51 anni, la parola fine su mezzo secolo di storia della DC; l’Assemblea costituente di Alleanza Nazionale che segna lo stesso epilogo per il MSI, dopo 48 anni, e il Congresso di Rifondazione Comunista che, sulle note di ‘Bandiera Rossa’, avvicenda al vertice della Segreteria l’anziano Armando Cossutta con il più giovane e battagliero Fausto Bertinotti che presto si rivelerà non una ‘spina’ nel fianco dei pidiessini, ma un robusto e appuntito tronco di quella ‘Quercia’ simbolo del PDS e del futuro DS. Le assemblee romane del PPI e di AN sono seguite dall’inviato della Gazzetta Giuseppe De Tomaso che, con una sintetica metafora

teatrale, descrive i drammi che si svolgono sui palcoscenici della Capitale. Atto primo: nasce, anzi rinasce il Partito Popolare; atto secondo: il missino Fini partorisce Alleanza Nazionale, tentativo gollista di defascistizzazione e di autoinvito nel ‘salotto buono’ della politica italiana. Il Partito Popolare rinasce – dice alla folta platea un commosso Mino Martinazzoli – per recuperare l’orgoglio ferito, mobilitare alla ‘stanga’ militanti e dirigenti, spiegare le ragioni culturali e etiche della nuova sfida. E a quanti invocano una parola più precisa sulle alleanze elettorali… c’è ancora tempo – afferma Martinazzoli – il PPI non cercherà la solitudine, ma ricercherà alleanze politiche in ogni direzione… purché siano incontri veri che non precludono la nostra identità. Nell’altra Assemblea, Gianfranco Fini sta enunciando il ‘nuovo corso’ di Alleanza Nazionale… questa nuova destra è post-fascista, moderata, moderna e persino liberal democratica… consegna alla storia il giudizio su fascismo e antifascismo. In quanto alle alleanze elettorali… credo vi siano i margini – prosegue Fini – per una intesa programmatica con la Lega, Forza Italia e CCD per contrastare la sinistra. Ma se AN sta bussando al ‘centro’ su quale uscio stanno bussando popolari e pattisti? Sulle stesse porte: Lega e Forza Italia. Durante l’assise dei popolari – annota De Tomaso – l’uomo più impegnato in fitte conversazioni telefoniche e contatti personali con delegati e ospiti, è il filosofo-pontiere Rocco Buttiglione, infaticabile interlocutore di Sua Emittenza nonché promotore, con Segni, di un secondo tentativo per avvicinare le posizioni della Lega al PPI-Patto. C’è chi assicura – scrive ancora De Tomaso – che Buttiglione sia riuscito, al telefono, a strappare al Cavaliere la rinuncia alla candidatura alla Presidenza del Consiglio in cambio di accordi tecnici che vedrebbero i candidati di Sua Emittenza sostenuti al Nord dalla Lega e al Sud dal Partito Popolare. 281


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Il Cavaliere scende in campo Chiacchiere da corridoio, evidentemente, perché, 24 ore dopo, sarà lo stesso De Tomaso ad annunciare le vere intenzioni di Berlusconi. Il Cavaliere ha varcato il Rubicone – scrive l’editorialista della Gazzetta il 24 gennaio – da ieri Sua Emittenza ha perso, almeno formalmente, lo ‘status’ di ‘tycoon’ televisivo per trasformarsi in un leader politico in piena regola. D’ora in poi – aveva detto Berlusconi in una dichiarazione diffusa il pomeriggio del 23 a Milano – a meno che non succeda un miracolo, ho l’impressione che per impedire la formazione di un regime neocomunista, bisognerà parlare direttamente a tutti gli italiani di buona volontà e agire. Ho cercato, in assoluta buona fede, un dialogo con gli interlocutori del PPI e del Patto, ma la mia fiducia in loro è esaurita. Martinazzoli si è confermato un uomo rispettabile, che crede in quello che dice e che, come afferma con orgoglio, ha una sola faccia. Ma la sua faccia è quella di un’agonia politica e i suoi argomenti rinunciatari sono espressione di una chiara sindrome suicida. E ancora: Il compito storico di dare agli italiani un sistema politico di forze alternative alla sinistra, che si battono a pari merito per la guida dello Stato, è caduto dalle loro mani. L’ultimo vessillo che è loro rimasto è il cattocomunismo di Rosy Bindi, ed è un vessillo che non prende alcun vento, destinato ad afflosciarsi il 27 marzo. Resta allora quel ‘miracolo’, accennato all’inizio, prima che Berlusconi decida, ufficialmente, di… scendere in campo. Il miracolo potrebbe avvenire il giorno dopo, 24 gennaio, a conclusione del secondo incontro fra Buttiglione, Segni e Maroni. Ciò che preme alla delegazione ‘centrista’ in questa seconda tornata di colloqui con i leghisti, non è tanto la suddivisione dei collegi elettorali al Nord, quanto la rinuncia, da parte dei leghisti, a perseguire l’idea inaccettabile di una secessione che dovrebbe dividere l’Italia addirittura in tre, come va vaticinando un altro 282 filosofo e ideologo della Lega, il prof. Gian-

franco Miglio. Nel PPI non c’è sintonia su questa nuova iniziativa insistentemente voluta da Segni. Rosy Bindi è pregiudizialmente contraria; Martinazzoli, benché scettico, attende l’esito dell’incontro in cui, ancora una volta, Bossi è assente giustificato: il 21 gennaio il Senatur ha sposato, al Comune di Milano, in seconde nozze, Manuela Marrone, una signora – quando si dice il colmo – di origine siciliana da cui Bossi ha già avuto due figli: nozze ‘riparatorie’ e tardive, dicono i parenti siciliani. Alle 15,30 del 24 gennaio… un Segni raggiante, insieme ad un soddisfatto Maroni e ad un sorridente Buttiglione – scrive Giuseppe Mazzarino dalla redazione romana della Gazzetta – annuncia il raggiunto accordo: la Lega non perseguirà il secessionismo. Dunque, il ‘miracolo’ in cui sperava Berlusconi si è avverato. Con l’accordo raggiunto, il Cavaliere non è più ‘costretto’ a scendere in campo e nella stessa serata commenta soddi-


sfatto... ora tocca a Martinazzoli decidere. Per Segni, in particolare, il punto qualificante dell’accordo è uno solo: far riconoscere ai leghisti che… la Repubblica italiana è una e indivisibile. Il riconoscimento della formula costituzionale è così rilevante che rappresenta il preambolo del lungo e articolato accordo. Maroni firma e accenneremmo volentieri i termini dell’accordo sottoscritto con disinvoltura da Segni e Buttiglione – se non altro per sottolineare il persistere di posizioni federaliste e antimeridionali, una fra tutte la reintroduzione delle ‘gabbie salariali’, un sistema che diversifica le retribuzioni – se non fosse del tutto inutile: poche ore dopo lo sventolato annuncio, Umberto Bossi, senza aver letto l’accordo, praticamente lo rinnega … bisogna capire se questo documento comprende anche il cambio della Costituzione, l’indicazione della prossima legislatura quale costituente in senso federalista: se così non è, non lo firmerò

mai – sostiene Bossi – e se non lo firmo io, non lo firma la Lega, la Lega nata per difendere la libertà del Nord, una libertà che si può difendere in mille modi, anche combattendo. Una gran parte della militanza della Lega – continua il Senatur – vuole la battaglia. La Lega è nata dalle baionette ed in ogni momento può scattare l’ordine alla lotta di liberazione… siamo pronti a combattere all’infinito – insiste provocatorio Bossi – per la libertà del Nord. Quanto a me, io sono un guerriero, non un ladro di polli, non ho mai avuto paura né di Martinazzoli né di Segni né di Di Pietro. Mazzarino, che dalla redazione romana della Gazzetta ha appena trasmesso a Bari bozza e commento dell’accordo, in coda alla delirante dichiarazione di Bossi, scrive una sola parola: stupefacente. Anche Gorjux e De Tomaso, che hanno preparato i loro commenti per i giornali del mattino del 25 gennaio sul confronto romano fra leghisti e moderati, si astengono dall’aggiungere severi giudizi sull’incredibile esternazione di Bossi. Gorjux, nel suo editoriale dal significativo titolo: Qualcosa si muove, esprime fiducia… ma il comune riconoscimento che la Repubblica è una indivisibile non basta a tranquillizzare il Sud… e se ha ragione D’Alema quando sottolinea che Bossi ha finora affermato tutto e il contrario di tutto… non v’è certo da sentirsi rassicurati. De Tomaso, invece, titola il proprio corsivo in terza pagina: Mariotto, attento al Barbaro. Il disegno di Bossi è chiaro: staccare Segni da Martinazzoli, che difficilmente potrebbe sottoscrivere quell’accordo; egli vuole creare le condizioni perché i popolari cadano nell’orbita pidiessina; ergersi a capo effettivo della destra e poi sbarazzarsi anche di Mariotto. Il mattino del 25 gennaio comincia il gioco al massacro. Bossi sale sulla barca che ha già mezzo affondato la sera prima e butta in mare i popolari… o con me o con la DC, ammonisce Segni. Martinazzoli, indignato per il tono sprezzante di Bossi, convoca Segni e scarica 283


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sul leader dei pattisti l’ultimatum del Barbaro… ora tocca a te decidere, o con noi o con la Lega. Segni cerca di guadagnare tempo, ma per Berlusconi il tempo della ‘ricreazione’ è finito:… sono rimasto a scaldarmi a bordo campo. Ma la gente mi reclama in campo. Non posso più tirarmi indietro. Oggi dunque – scrive Cristiana Cimmino dalla redazione romana della Gazzetta il 26 gennaio – il Cavaliere ‘elettronico’, il primo candidato ‘catodico’ del Bel Paese, annuncerà, via etere, la sua discesa in campo e affiderà la presidenza della Fininvest a Fedele Confalonieri. Alle 17,30 di mercoledì 26 gennaio, il Tg4 condotto da Emilio Fede trasmette, in anteprima, la famosa ‘cassetta’ in cui Berlusconi annuncia l’ingresso in politica, registrata, si dice, subito dopo il discorso della ‘lotta di liberazione del Nord con le baionette’ di Umberto Bossi. Ho scelto di scendere in campo – afferma il Cavaliere – perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare – ‘arrivano i nostri’, commenta maliziosa la Cimmino – voglio costruire, insieme a tutte le forze democratiche che sentono il dovere civile di opporsi a Occhetto e compagni, un’alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti… dicono di essere cambiati – prosegue Berlusconi – dicono di essere diventati liberaldemocratici, ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi: non credono nel mercato, nell’individuo, nel profitto… sono orfani del comunismo. L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato la passione per la libertà. Voglio costruire un nuovo miracolo italiano. Mentre Rete 4 sta mandando in onda l’atto di fede del Cavaliere che Cristiana Cimmino definisce… lo spot più importante della sua vita, Mario Segni, a Roma, molla Bossi… 284 abbiamo cercato di costruire un’alleanza di

governo basato su un programma nuovo, rivoluzionario. Ma non possiamo accettare veti: il PPI è nel Patto per l’Italia, collabora con questo, e noi non ci tireremo indietro. Il dado è tratto dunque e l’ironia che si è voluta sottolineare nel commento della Cimmino, efficacemente emulata in molte altre occasioni da altri giornalisti della redazione romana della Gazzetta e dalla sede centrale barese, non è compiacimento, ma solo un esempio di quale sarà, in generale, l’atteggiamento dei giornalisti nei confronti di Silvio Berlusconi. Nasce nei mass media, anche in quegli organi d’informazione prossimi a salire sul carro del vincitore, un movimento di opposizione trasversale con l’intento non già di far ribaltare il carro, ma di far scendere il conducente da cassetta. Il problema, per la maggioranza dei giornalisti italiani, non è Berlusconi in quanto leader politico, ma Berlusconi in quanto proprietario di un impero mediatico, Berlusconi editore, un ruolo a cui i giornalisti non hanno mai riconosciuto alcuna funzione nell’esercizio della loro professione. L’unico ruolo che direttori politici e giornalisti hanno sempre attribuito all’Editore è quello di un distinto signore che paga i conti, quasi sempre in rosso, soprattutto dei quotidiani, senza fiatare, senza interferire. L’assunto è che l’Editore, in quanto tale, ha sempre, per la funzione che svolge, un ‘ritorno’ politico o economico, al di fuori dell’azienda editrice. Il giornalista simbolo di questa nuova ‘fronda’ all’interno della stampa liberale e indipendente, è Indro Montanelli, fondatore e direttore de Il Giornale, un quotidiano che non solo appartiene alla famiglia Berlusconi, ma che si rivolge proprio a quella fascia di lettori, la borghesia moderata, a cui il Cavaliere chiede consensi. Montanelli, che si era unito al coro di quanti sconsigliavano Berlusconi dallo scendere in campo, contrariato e insofferente per la posizione in cui veniva a trovarsi, l’11 gennaio si


era dimesso: piuttosto che esporsi al semplice sospetto di condizionamento della propria autonomia professionale, Montanelli aveva preferito il divorzio. Il 15 gennaio, la Proprietà de Il Giornale affida la direzione politica del quotidiano milanese a Vittorio Feltri mentre Indro Montanelli annuncia che riporterà in vita La Voce, la prestigiosa testata fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, nata nel 1908 e scomparsa nel 1916. Con la discesa in campo del Cavaliere, dunque, si completano gli ‘schieramenti’ elettorali. Appartengono al centro-destra: Forza Italia, Alleanza Nazionale, i centristi di Casini e Mastella, la Lega Nord, il club Pannella ed i liberali di Alfredo Biondi e Raffaele Costa. Il cartello progressista è formato da: PDS, la Rete di Leoluca Orlando, Verdi, Rifondazione Comunista, Alleanza Democratica, il PSI di Del Turco, il gruppo di Rinnovamento socialista del senatore Gennaro Acquaviva e i cristiano-sociali di Ermanno Gorrieri. Il ‘centro’ è composto dal Partito Popolare, dai ‘pattisti’ di Segni e da Giorgio La Malfa che, dimessosi dopo aver ammesso di aver ricevuto una tangente per il PRI nell’affare Enimont, è richiamato alla guida di quel che resta dei repubblicani. Abbozzata la mappa degli schieramenti, inizia la battaglia per le candidature e la nomina dei leaders che in caso di vittoria elettorale assumeranno la Presidenza del Consiglio. Il grande lavorio all’interno delle coalizioni per indicare il candidato che dovrà rappresentarli, è il frutto conseguente della nuova legge elettorale uninominale e maggioritaria. Uninominale perché in ogni singolo collegio i partiti coalizzati indicano un solo candidato; maggioritario perché vince il candidato che ha ottenuto il maggior numero di consensi. Per le candidature alla presidenza del Consiglio invece, se nella coalizione di centro-destra – Lega, Forza Italia, AN – e di centro – popolari e pattisti – è tutto chiaro, nella coalizione di sinistra c’è ancora indecisione se non proprio confusione: Silvio Berlusconi è il can-

didato premier del centro-destra; Mario Segni è il candidato per il ‘centro’ e, forse, Carlo Azeglio Ciampi o lo stesso Achille Occhetto sono i papabili per i progressisti. Il primo ad aprire le ‘ostilità’ nella lotta per le candidature è Umberto Bossi che a giorni alterni va declamando… non faremo alcuna intesa con chi si accorda con il MSI… con Berlusconi sì, con Fini no… non andremo mai a braccetto con i fascisti… non andremo mai al Governo con i fascisti. Avesse scelto la carriera militare, Bossi sarebbe stato un grande stratega. In realtà, il Senatur sta facendo con Berlusconi lo stesso giochetto che non gli è riuscito di fare con Martinazzoli: ottenere, per i candidati leghisti, la maggior parte dei collegi del Nord e lasciare i collegi del Centro e del Sud del Paese a Forza Italia e Alleanza Nazionale. Subito dopo l’accordo, infatti, il Bossi si concede una citazione… come dice il Guicciardini ‘quando il nemico è impossibile da battere, meglio allearsi con lui e batterlo subito dopo’… dietro a Forza Italia c’è Bettino Craxi e noi non corriamo con i ‘ladroni’. L’11 febbraio, mentre Berlusconi illustra al Circolo della Stampa di Milano i termini dell’accordo elettorale con Bossi – praticamente un ‘dono’ ai candidati leghisti per quasi tutti i collegi del Nord – suo fratello Paolo sta tornando in aereo da Roma per consegnarsi alla caserma milanese della Guardia di Finanza: è sospettato di aver pagato, nell’83, ’84 e ’86, tangenti per 910 milioni per la cessione di tre immobili di proprietà dell’ex società edilizia della sua famiglia al fondo pensioni della Banca CARIPLO i cui dirigenti – il presidente, Roberto Mazzotta, il vice e due alti funzionari – dieci giorni prima avevano ricevuto ordini di custodia cautelare per corruzione, ricettazione e abuso d’ufficio. Paolo Berlusconi, interrogato nella stessa caserma da Antonio Di Pietro e Italo Ghitti, ammette di aver fatto quei versamenti, ma in quanto… leciti compensi ad un ex dipendente della Banca per una normale mediazione d’affari. Il colloquio-interrogatorio di Paolo 285


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Berlusconi si chiude con la concessione degli arresti domiciliari. Con l’accordo dell’11 febbraio nasce il ‘Polo delle Libertà’: una coalizione fra Lega Nord e Forza Italia solo per i collegi elettorali del Nord Italia aventi, in maggioranza, candidati leghisti. Qualche giorno dopo nasce il ‘Polo del buon governo’ che nei collegi del Centro e del Sud Italia avrà candidati di Forza Italia, Alleanza Nazionale, CCD e liberali. Raggiunta l’intesa, il caustico Gianfranco Miglio commenta… Berlusconi va benissimo ai cafoni del Sud. A loro piacerà tanto questo riccone che sa far tintinnare come nessuno i suoi denari, guadagnati non importa come.

La variabile Bertinotti Stessi problemi anche negli schieramenti opposti dove ‘pattisti’ e ‘popolari’ sono al limite della rottura. Segni pretende, e ottiene, l’esclusione dalle liste elettorali di tutti gli inquisiti, specialmente di Ciriaco De Mita che, in un referendum fra i ‘popolari’ dell’Irpinia, ha ottenuto una candidatura plebiscitaria. Nel ‘Polo’ progressista invece, oltre alle corali proteste dei cosiddetti ‘cespugli’ che lamentano vistose discriminazioni nei confronti dei loro candidati, c’è la variabile Bertinotti che nell’ipotetica vittoria della sinistra, ritenuta possibile da non pochi osservatori politici, pone condizioni: Rifondazione è disponibile ad assumere responsabilità di Governo solo se gli verrà garantita: la tassazione dei BOT, l’imposta sul patrimonio, l’Italia fuori dalla NATO, dal trattato di Maastricht – che prevede, essenzialmente, il risanamento dei conti pubblici pena l’esclusione dal Club dei Paesi europei che adotteranno la moneta unica – e una politica economica del Governo che riduca al minimo le privatizzazioni. Achille Occhetto, in visita a Londra mentre Bertinotti elenca le sue condizioni, arringa i giornalisti e dichiara senza mezzi termini… non andremo mai al Governo con chi vuole tassare i BOT. E’ cominciata la campagna elettorale e, 286

nonostante gli accordi e le solenni dichiarazioni d’intenti, è battaglia. E’ un tutti contro tutti. Non solo fra gli schieramenti contrapposti, ma anche all’interno degli stessi schieramenti. Bossi sollecita gli elettori a non votare per Forza Italia; Marco Pannella, che corre con una propria lista ma fiancheggia lo schieramento del Polo moderato berlusconiano, definisce Fini… un parassita fascista che sprizza a freddo, da ogni poro, la sua sete di potere; Fini attacca il Cavaliere… si crede l’ombelico del mondo; Bossi e Fini si rinnegano l’un l’altro ed entrambi rinnegano Berlusconi; Segni ritiene che solo i ‘pattisti’ e i ‘popolari’ rappresentino il vero ‘centro’… siamo noi il ‘nuovo’, la vera forza che costruisce il progresso del Paese… il ‘Patto per l’Italia’ non è né il variopinto fenomeno che si chiama Berlusconi, né la supponente costruzione di Occhetto che ben lungi dall’essere quella ‘gioiosa macchina da guerra’ rischia di afflosciarsi come un soufflè andato a male.

Fausto Betinotti: Noi siamo contro!


Ma, per tutti, l’uomo ‘nero’, il diavolo da esorcizzare, è Silvio Berlusconi, colpevole non tanto di essersi alleato con i ‘barbari’ nordisti, quanto per aver reso ‘visibili’ i fascisti. L’accanimento con cui tutti tendono a screditare l’uomo, l’imprenditore, l’imbonitore massimo come lo definisce Montanelli che pure lo considera… l’industriale più creativo e versatile degli ultimi decenni… un animale affaristico dal fiuto prodigioso… l’accanimento, dicevamo, a caricaturare e demonizzare Berlusconi è così dilagante che ad una settimana dall’apertura delle urne Lino Patruno scrive… chissà se Berlusconi vincerà le elezioni, ma una prima vittoria l’ha già ottenuta: è primo assoluto nella classifica degli insulti ricevuti. Patruno ne elenca parecchi, sottolineandone due. Uno per la gratuità: è un criminale, attribuito ad Achille Occhetto; l’altro per l’ironia: il Cavaliere è un Lazzaro al quale il vecchio sistema ha detto ‘alzati e cammina’, attribuito a Ferdinando Adornato. Il tentativo di ridicolizzare soprattutto le velleità politiche di Berlusconi contagia la gran parte dei giornalisti italiani, finanche i tanti che lavorano all’interno della cosiddetta ‘stampa amica’. Nessuno gli risparmia frecciate. L’intera, o quasi, categoria degli intellettuali – da sempre ideologicamente ‘vicini’ ai temi sociali della sinistra – e, naturalmente, l’intera classe politica che ha vissuto e vive respirando e nutrendosi di politica… politicanti senza mestiere, li definisce Berlusconi, alimentando così le polemiche. Il ‘Cavalier Antenna’ insomma è un ‘outsider’, un personaggio ambizioso che rompe gli schemi della politica e, come tale, da considerarsi con fastidio… il suo Polo moderato è una sciocchezza – sostiene Occhetto – è meglio che si dedichi allo sport perché è l’unico settore in cui riesce bene. Più duro Massimo D’Alema… Berlusconi è mal consigliato dai suoi dottor Stranamore di provincia… la gente non si lascerà infinocchiare. Non siamo mica in Brasile. Ma gli Stranamore di Berlusconi sfornano sondaggi su sondaggi che lo danno

vincente e Martinazzoli, infastidito, sbotta… il pensiero che la politica sia soltanto aritmetica è un pensiero politicamente imbecille. E riferendosi all’imprenditore mediatico, chiarisce: Non discuto la persona, ma quando il potere degli affari e dell’informazione diventa potere politico, allora si delinea un orizzonte abbastanza preoccupante. Sono commenti che Berlusconi spesso e volentieri ‘provoca’ anche per la poca dimestichezza con il linguaggio politico. Berlusconi è l’opposto di chi ‘cento ne pensa e una ne fa’. Il suo attivismo, la sua volontà di fare è tale che per istinto è portato a ‘fare cento cose pensandone una’. Si dice incompreso, sbeffeggiato. Si ritiene vilipeso per la carica che ricopre, ma poi, sia in pubblico, sia in privato – è costantemente seguito da una telecamera accesa – si concede in esibizioni teatrali da avanspettacolo, dando ‘corda’ ai vignettisti e ai programmi televisivi di satira che non ama. Le asprezze di questa campagna elettorale – scrive lo storico Mario Cervi sulla Gazzetta – hanno indotto i commentatori a rievocarne un’altra – quella per le elezioni del 18 aprile 1948 – per i toni duri e gli argomenti discutibili che vi vennero utilizzati. Di questa eccessiva temperatura polemica si lagnano sia i progressisti, sia i moderati. I primi negano che l’aggregazione di sinistra possa essere in qualche modo assimilata al vecchio PCI e rifiutano – tranne Rifondazione – ogni apparentamento con i contenuti ideologici del partito di Togliatti e di Berlinguer. I secondi lamentano che i leghisti vengano d’autorità arruolati tra i barbari, Berlusconi paragonato ad un dittatore sudamericano e Fini indicato come un Mussolini redivivo, se non un Hitler. C’è del vero in queste lamentele – continua Cervi – c’è del vero soprattutto in quelle del centro destra. Non perché la sua propaganda sia di gran lunga migliore della propaganda avversaria, ma la sua capacità d’influenzare l’opinione pubblica che conta è di gran lunga minore. La sinistra è in grado di demonizzare il nemico; il centro destra non lo è. 287


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Come volevasi dimostrare, si è talmente convinti che la sinistra, i progressisti, vinceranno le elezioni che ad elezioni perse gli stessi commentatori accuseranno lo schieramento progressista di estrema miopia politica, di leggerezza e sottovalutazione delle capacità di Berlusconi. Neanche l’anomalia tutta berlusconiana di possedere tre reti televisive nazionali, un impero editoriale e concorrere al tempo stesso per un’alta carica dello Stato – il che determina un palese conflitto d’interessi – è sufficientemente sottolineato e dibattuto. Tanto non vince, si dice. Quest’avventura del Cavaliere, si dice ancora, sarà il più grande insuccesso della sua vita. Segni, anche lui sicuro di vincere le elezioni, gli attribuisce al massimo il 6% dell’elettorato. Il fatto più grave e incredibile è che gli stessi errori di valutazione saranno commessi anche nel 2001, quando Berlusconi ritornerà alla Presidenza del Consiglio: sinistra, intellettuali e giornalisti – ancora più indispettiti per l’irrisolto problema del conflitto d’interesse che in cinque anni i tre governi dell’Ulivo non sono riusciti a risolvere con una legge – torneranno ad irridere, demonizzare e sottovalutare l’ormai collaudata macchina organizzativa di Forza Italia, con la certezza, di nuovo, che tanto non vince. Tornerà a vincere invece e, per di più, con una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. In tutte e due le circostanze, nelle elezioni di quest’anno e in quelle del 2001, il PDS prima e i DS poi, hanno un capro espiatorio ideale: Fausto Bertinotti. In entrambe le occasioni, i democratici di sinistra non ammetteranno mai di essere stati battuti dagli elettori, ma da Rifondazione Comunista che, alle elezioni di quest’anno, è accusata di aver impaurito l’elettorato moderato e a quelle del 2001, presentandosi da sola, di aver raccolto i voti di protesta. Protesta contro chi? Non era il Governo dei progressisti quello uscente? Ma torniamo alle vicende di questo 1994. 288

Tangentopoli continua All’indomani dell’arresto di Paolo Berlusconi, a cui come accennato sono stati concessi i domiciliari, Giuseppe De Tomaso scrive… sarà una campagna elettorale da infarto. Se finora non c’era uno straccio di programma a far da filo conduttore nelle risse televisive, adesso possiamo rassegnarci: sarà una battaglia giudiziaria più che politica. Le Procure di tutto il Paese infatti non hanno la minima intenzione di allentare la presa. Tirano fendenti in tutte le direzioni tanto che il ‘popolare’ Vincenzo Binetti, ex magistrato e sottosegretario alla Giustizia, e l’ex senatore del PDS Nicola Colaianni, si fanno promotori di una richiesta di ‘tregua’… non per il blocco di inchieste per fatti gravi e in violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale – scrive Binetti – ma per un agire con prudenza e rinviare a dopo le elezioni ciò che è minimale e non urgente. Niente da fare, le inchieste continuano senza distinzione di colore. Neppure le due ‘eroine’ pugliesi nella lotta al racket delle estorsioni, Maria Ruta e Rosa Stanisci – di cui s’è scritto ampiamente nelle cronache del ’92 – sono trattate con ‘cautela’. Maria Ruta è arrestata e scarcerata due volte. Con l’accusa di falsa testimonianza l’8 febbraio; per truffa e corruzione il 24: avrebbe intascato tangenti, in concorso con altri – l’ex sindaco di Taranto, Mario Guadagnolo, arrestato, lui pure l’8 febbraio, rinchiuso in una cella d’isolamento è scarcerato e scagionato due giorni dopo – per la vendita di un suolo destinato alla costruzione di un ipermercato, peraltro mai costruito, alla periferia di Taranto. All’epoca dei fatti, nel 1988, la Ruta era presidente della Confcommercio di Taranto. Corteggiata da ‘pattisti’ e ‘progressisti’ per una candidatura alla Camera, dopo le gravi accuse della Procura tarantina i partiti che se la contendevano lasceranno cadere le loro offerte. L’ex Signora anti-racket sarà processata, condannata in primo grado e assolta, ‘perché il fatto non sussiste’, al processo di



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appello nel 1996. Rosa Stanisci, invece, già sindaco di San Vito dei Normanni e candidata al Parlamento nelle liste del PDS, è destinataria – 14 febbraio – di un doppio avviso di garanzia, con rinvio a giudizio, per abuso in atti d’ufficio. Ma i suoi concittadini ed elettori non credono ai giudici. Le associazioni anti-racket pugliesi neanche e chiedono al PDS di sostenere la candidatura della Stanisci che il 29 marzo è eletta deputato. Avevano ragione loro: il 19 maggio l’on. Rosa Stanisci è prosciolta da ogni addebito su richiesta dello stesso p.m. che l’ha inquisita. Sono soltanto due fra le storie che testimoniano il clima che si respira durante questa campagna elettorale. I partiti si guardano bene dal presentare candidati di spicco se in qualche modo ‘sospetti’; gli inquisiti si guardano bene dal proporsi e i 5.000 candidati – nuovi e vecchi – alle elezioni del 27-28 marzo, vivono sotto la spada di Damocle di qualunque sostituto procuratore che… disseppellisce vecchi incarti tenuti nei cassetti – scrive ancora Binetti – interpretando con rigore il concetto di notizia di reato. Non vi è dubbio che la Magistratura fa il suo dovere con obiettività, ma si vuol capire che fuori dei Tribunali si sta svolgendo una lotta senza esclusione di colpi che utilizza pentiti, delatori, calunniatori, detenuti pronti a tutto per la libertà, al fine di creare paccottiglia idonea a deviare il corso della giustizia? Mi sorprende che una persona come Borrelli – continua Binetti – non capisca che questi non sono comuni e ricorrenti elezioni, bensì una prova decisiva per la nostra fragile democrazia, posta a dura prova da Tangentopoli e da un trapasso epocale. L’appello di Enzo Binetti è del 18 febbraio, il giorno prima, mentre il p.m. di Venezia, Carlo Nordio, emette 15 avvisi di garanzia nei confronti di esponenti veneti del PDS – fra cui 7 segretari di federazioni provinciali, sospettati di irregolarità nell’uso di rimborsi spese dei parlamentari pidiessini – a Roma esplode la 290 notizia dell’apertura di un’inchiesta a carico

del PCI-PDS basata su un lungo memorialedenuncia di Bettino Craxi. L’ex Segretario socialista afferma, ancora una volta, che neanche gli ex comunisti possono chiamarsi fuori dal sistema delle tangenti e allegando alla denuncia una serie di documenti, segnala almeno 13 casi di presunti finanziamenti illeciti destinati al PCI-PDS: per i lavori di costruzione della metropolitana milanese; delle centrali ENEL, appalti alle ‘cooperative rosse’, compravendita di immobili, operazioni commerciali con l’ex Unione Sovietica e, buoni ultimi, i noti e mai negati contributi versati al PCI dal defunto KGB, il famoso e famigerato servizio segreto dell’URSS. La ‘voce’ che D’Alema e Occhetto siano stati iscritti nel registro degli indagati è falsa. Ma per due giorni a Botteghe Oscure, l’antica sede del PCI-PDS, è panico… le parole di un malfattore sono diventate misura di giustizia – commenta furioso Occhetto – il tentativo operato da Craxi volto a colpire il PDS è un’iniziativa canagliesca quanto maldestra… confermiamo la nostra totale fiducia nell’azione della Magistratura volta all’accertamento della verità… che nell’interesse dei cittadini, della Nazione e della democrazia deve essere rigoroso, limpido, corretto… quel che preoccupa invece sono gli effetti deleteri che ne possono scaturire per lo svolgimento di una delle più importanti competizioni elettorali del Paese. Craxi è un morto che parla – sostiene Primo Greganti del PDS – il suo è un estremo tentativo di consegnare il Paese agli eredi della vecchia partitocrazia. Duro e, come al solito ironico, il giudizio di Montanelli… questa destra mi fa orrore, ma se fossi Occhetto pregherei notte e giorno perché Bossi e Berlusconi vincano le elezioni. Così la prossima volta le sinistre stravincono. La polemica sull’esposto-denuncia di Craxi si sgonfia in pochi giorni, ma per le tangenti della metropolitana milanese – l’inchiesta è stata avviata nel ’92 – il 19 febbraio il pool di Mani Pulite ha chiesto il rinvio a giudizio di 102 persone, Craxi compreso. Nell’elenco


mandato ieri al GIP insieme a 50 faldoni e alle 130 pagine del capo d’imputazione – scrive il corrispondente della Gazzetta da Milano – c’è un nutrito gruppo di dirigenti del PCIPDS. E’ infatti notorio, per ammissione degli stessi collettori delle tangenti, il metodo della spartizione: circa un terzo ciascuno al PSI, alla DC, al PCI. Ai partiti minori le briciole.

La campagna elettorale Tuttavia, nonostante il clima di generale confusione, la campagna elettorale prosegue e, a parte la vivacità e la foga con cui ogni schieramento illustra e difende il proprio programma… nessuno finora – scrive Gorjux il 21 marzo – ha spiegato, né potrebbe farlo, in che modo, concretamente, sarà in grado di attuarli tanto sono, tutti, piuttosto generici e approssimativi. Ma vediamoli, questi programmi. Quelli dei progressisti che vogliono fare un Governo di ricostruzione democratica, non sono molto distanti da quelli dei pattisti che vorrebbero fare un Governo per realizzare radicali riforme dello Stato, compresa l’elezione diretta del premier. Nel programma dei progressisti si evidenzia che l’economia di mercato non deve essere a scapito della solidarietà; l’esigenza di risanare il bilancio dello Stato non deve ridimensionare i beni comuni – sanità, istruzione, trasporti – e la raccolta del prelievo fiscale dovrà tenere conto delle fasce più deboli. Le proposte di Berlusconi invece… ancorché specchietti per le allodole – scrive Gorjux – stanno all’interno dell’annunciato progetto di ‘costruire un nuovo miracolo italiano’. Sono proposte rudimentali, suggestive e tutto sommato le sole che la gente capisce: ridurre le tasse, semplificare il sistema tributario – portando a 10 i 200 balzelli in vigore – e soprattutto detassare i profitti di quelle aziende che investono in nuova occupazione... si potrà così creare un milione di nuovi posti di lavoro. Faremo – sostiene Berlusconi – una guerra santa alla disoccupazione. E ancora: aiuti per invalidi e anziani, aiuti alle famiglie, ridu-

zione dell’imposizione fiscale sulla prima casa e, per il Mezzogiorno, incentivi fiscali e protezione certa, per imprenditori e società, dalle vessazioni della criminalità organizzata. Caratterialmente, Sua Emittenza ha una mentalità vincente e ottimista – scrive De Tomaso – ma i corridoi di Montecitorio sono tutt’altra cosa rispetto alla moquette del suo quartier generale nel cuore della Milano dei dané. In politica due più due fa generalmente quattro, talora anche tre o cinque… Berlusconi è un vincente per natura, il suo ottimismo è contagioso… ma sarà in grado, il Grande Seduttore, di ammaliarsi l’opinione pubblica e i Palazzi della politica? Roma non è molto tenera con le grandi personalità – continua De Tomaso – ha divorato imperatori, logorato Papi, triturato duci. Il suo disincanto è proverbiale. Quale trattamento riserverà al ‘sogno’ berlusconiano? Il Cavaliere lo sa. Il suo ingresso nel Colosseo della politica è destinato a radicalizzare la lotta. Nessuno gli farà sconti, come è giusto che sia. Qualsiasi sua dichiarazione verrà vivisezionata attraverso la lente d’ingrandimento del microscopio più preciso. Tutti cercheranno l’interesse privato in ogni suo atto pubblico. Ma prima che inizi il processo di vivisezione personale, inizia quello della Fininvest. L’8 marzo un’inchiesta giornalistica di Repubblica suggerisce che la società di gestione delle reti televisive del Cavaliere… è con l’acqua alla gola: sta affogando in un mare di debiti; il 9, il direttore del Tg5, Enrico Mentana, rivela, in diretta, che Marcello Dell’Utri – Amministratore delegato di Publitalia, la società pubblicitaria della Fininvest – sta per essere arrestato per falso in bilancio e frode fiscale. L’informazione, uscita ovviamente dagli uffici della Procura di Milano, crea non poco imbarazzo al pool di Mani Pulite che, dopo aver interrogato Dell’Utri e perquisiti gli uffici di Publitalia, decide di non procedere all’arresto. Ma allusioni, voci, insinuazioni su Dell’Utri, che si dice indagato dalle Procure di Firenze, Roma, Palermo e Caltanissetta, si sus- 291


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seguono. Il ministro dell’Interno uscente, Nicola Mancino, in una intervista ad un quotidiano nazionale afferma… alle prossime elezioni la mafia sarà protagonista, garantendo l’appoggio a formazioni politiche nuove e a piccole liste di recente formazione. Succede il finimondo. Forza Italia, che si ritiene identificata in quelle ‘formazioni politiche nuove’, chiede al presidente della Commissione Antimafia, Luciano Violante, la convocazione urgente del Ministro… ma Violante – scrive Cristiana Cimmino il 22 marzo sulla Gazzetta – risponde pressappoco picche: ‘non giova, a pochi giorni dal voto, aprire una seduta su una tale questione’. E ribadisce – scrive ancora la Cimmino – che i superstiti del vecchio sistema di potere, mafiosi compresi, ‘vedono nel dottor Berlusconi un punto di riferimento’. Quel giorno stesso, il giornalista parlamentare de La Stampa, Augusto Minzolini, incontra Violante a Montecitorio e gli chiede: Presidente cosa c’è di vero sulle indiscrezioni che circolano sul conto di Dell’Utri? Ecco la risposta di Violante che Minzolini pubblica regolarmente sul suo giornale: La verità è che Dell’Utri è iscritto sul registro degli indagati dalla Procura di Catania e non di quella di Caltanissetta… non si tratta di pentiti. C’è un pubblico ministero di lì, si chiama Nicola Marino, che sta indagando su un traffico di armi e di stupefacenti. L’inchiesta si basa su intercettazioni ambientali e poteva venir fuori già in questa settimana. Ma il Capo della Procura ha preferito rinviare a dopo le elezioni. E’ una bomba. Una palese violazione del segreto istruttorio. Violante smentisce, la Procura di Catania non nega l’esistenza dell’indagine su Dell’Utri, Minzolini conferma ogni singola parola del Presidente dell’Antimafia. Per Berlusconi, che si appella al Capo dello Stato, è troppo: chiede e ottiene le dimissioni di Violante dalla presidenza della Commissione Antimafia. Violante prima querela Minzolini poi, il 22 maggio, dirà di esser292 si dimesso perché… nessun dirigente progres-

sista ha sentito il dovere di difendere, non la mia persona, ma la Commissione, dagli attacchi di fascisti, Lega e Forza Italia. Non è finita. Il 23 marzo, mentre Berlusconi si prepara per un duello televisivo con Occhetto – un ‘flop’ incredibile dal punto di vista mediatico – il procuratore di Palmi, Maria Grazia Omboni, invia agenti della Digos nelle sedi di Forza Italia di Roma e Milano per acquisire gli elenchi di tutti i candidati al Parlamento e dei presidenti dei Club di Forza Italia alla ricerca, pare, di personaggi iscritti alla massoneria. Un errore madornale. Non solo perché gli elenchi sono pubblici – sono depositati nelle Prefetture – ma l’episodio è talmente paradossale che lo stesso Capo dello Stato è costretto a intervenire... dov’è l’illecito? Credo di aver fatto fino in fondo tutto il necessario perché non ci fosse il più piccolo freno all’opera della Magistratura. I magistrati non devono badare ai tempi nelle loro inchieste – prosegue Scalfaro - ma non possono essere fuori del tempo, perché sono un potere dello Stato, e se un atto che non riveste carattere d’urgenza viene compiuto lo stesso, non si tiene conto del fatto che siamo in un momento particolare nel quale i cittadini hanno diritto alla maggiore tranquillità possibile. E nel chiedere al CSM la convocazione

Luciano Violante, presidente dell’Antimafia dimissionario.


urgente della dottoressa Omboni, auspica un provvedimento che… non dia l’impressione che si passi il tempo senza concludere nulla. Sarebbe indecoroso e si rinuncerebbe alla difesa ed all’affermazione dello Stato di diritto. Naturalmente, tanto accanimento persecutorio nei confronti di Berlusconi, delle sue aziende e dei suoi uomini – che gridano al complotto – non fanno che portare e aggiungere fiumi d’acqua al mulino di Forza Italia che nel giro di due mesi passa da una compagine di sprovveduti neofiti della politica… utili solo alla causa dei progressisti… alla condizione di ‘vittime’ di quanti vorrebbero al Governo… gli eredi di una storia tragica e fallita – sostiene Mariotto Segni – ed a cui il Cavaliere vi ha aggiunto nome e cognome: comunisti. Infatti, lo scenario possibile e condiviso, fin quasi alla vigilia dell’apertura delle urne dalla maggioranza dei commentatori politici – compreso l’editorialista della Gazzetta, Giuseppe De Tomaso, che non è smentito dal nuovo direttore Antonio Spinosa – è il seguente: i progressisti, salvo sorprese, otterranno la maggioranza relativa; il Polo di centro-destra sarà la seconda forza politica del Paese e il ‘Patto per l’Italia’ di Segni e Martinazzoli costituiranno quell’ago della bilancia che fu dei socialisti. Considerato il netto rifiuto dei ‘pattisti’ per un Governo con la ‘destra-fascista’, alla fine, a meno di nuove elezioni, finiranno per scendere a patti con la sinistra per formare il nuovo Governo. Dopotutto i rispettivi programmi presentano molti punti in comune. Occhetto e Segni infatti, si sono ‘beccati’ più volte, durante la campagna elettorale, su chi ha scopiazzato i programmi dell’altro.

Tutti alle urne Il 27 e 28 marzo, finalmente, 48.325.454 elettori vanno alle urne per eleggere 630 deputati e 315 senatori fra 5.000 candidati sparsi in 321 partiti. La nuova legge elettorale sancisce che il 75% dei candidati alla Camera, 475 deputati distribuiti in altrettanti collegi, siano eletti con il sistema uninominale mag-

gioritario. I restanti 155, cioè il 25%, con il sistema proporzionale. Per eleggere i rappresentanti a Montecitorio, ogni elettore avrà due schede: una per l’uninominale, l’altra per il proporzionale. L’aspetto più qualificante della nuova legge è quello di evitare il ripetersi mortificante delle faide fra candidati, come avveniva in passato, con il sistema delle preferenze. Con la nuova legge insomma, non è più l’elettore a scegliere il proprio candidato, ma è il partito, o una coalizione di partiti, a designare i candidati e proporli ai propri elettori. Perciò, nella scheda per l’uninominale, accanto al simbolo del partito o dei partiti che lo sostengono, c’è il nome di un solo candidato. Vince, in ogni singolo collegio, il candidato che ottiene più voti. Nella scheda con il sistema proporzionale invece, i partiti possono indicare da uno a quattro candidati, il voto è valido solo se espresso sul simbolo del partito e l’elezione avviene sulla base dell’ordine di presentazione. E’ eletto cioè il primo, il secondo, il terzo e così via della lista dei candidati. Anche per il Senato è introdotto il sistema misto e anche per Palazzo Madama sono i partiti ad indicare i candidati. Ogni partito può designare un solo candidato. Ma a differenza di Montecitorio, al Senato l’elettore esprime il voto su una sola scheda. Il 75%, pari a 232 senatori, è eletto con il sistema uninominale maggioritario; il restante 25%, pari a 83 senatori, è proporzionalmente diviso fra i candidati che in ogni singola regione sono risultati meglio piazzati poiché la legge stabilisce che, ad eccezione della Valle d’Aosta e del Molise, nessuna regione può avere meno di 7 senatori. Un’altra novità assoluta del nuovo sistema elettorale, definito ‘Mattarellum’, dal nome del proponente, Sergio Mattarella, è l’introduzione dello ‘sbarramento’: tutti i partiti che nel proporzionale non raggiungono il 4% dei suffragi, sono esclusi dal diritto di rappresentanza in Parlamento o al Senato fatti salvo, ovviamente, quanti sono stati eletti con il sistema uninominale. 293


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In ultima analisi, se è vero che il ‘Mattarellum’ mette tutti i candidati sullo stesso piano, impedendo guerre fratricide fra candidati dello stesso partito, è anche vero che ‘lotte e diatribe’ per designare i candidati li ‘trasferisce’ all’interno delle coalizioni dove, sia i partiti più ‘forti’ – PDS e Rifondazione – sia i partiti più ‘arroganti’ – è il caso della Lega Nord – riescono ad ‘imporre’, nei singoli collegi uninominali, i propri candidati. Così accade, come si vedrà dai risultati elettorali, che i partiti minori della coalizione del centro-sinistra lamenteranno di essere stati discriminati nella designazione dei candidati; e Forza Italia, che risulterà il partito più suffragato, si ritroverà con una ‘forza’ parlamentare leghista superiore alla sua. Tutti alle urne dunque e vincano i migliori. Vinceranno invece, secondo i progressisti e i pattisti, i ‘peggiori’. Vincono Bossi, Berlusconi e Fini. Vince il centro-moderato del ‘Polo delle libertà’ e del ‘Polo del buon governo’. Nel proporzionale, Forza Italia, con il 21%, è il primo partito d’Italia; seguono: il PDS con il 20,4%; Alleanza Nazionale con il 13,5%; il PPI con l’11,1% e, buoni ultimi, i leghisti con l’8,4%. Enormemente delusi i progressisti; clamoroso il crollo dei pattisti di Segni che si salvano dalla completa disfatta grazie al proporzionale. Mario Segni subisce l’umiliazione di essere battuto nel collegio uninominale di Sassari, nel suo collegio, da uno sconosciuto, ma è ‘ripescato’ nel Lazio dal proporzionale. Tonfo ancora più grande per la Rete di Leoluca Orlando, dei socialisti, Verdi, Alleanza democratica e lista Pannella che al proporzionale non riescono a superare lo sbarramento del 4%. Furioso Marco Pannella che se la prende con… la sinistra burocratica, illiberale e storicamente perdente e perduta… ci hanno provato e hanno perso. E’ ora di ricominciare. Vincitore della ‘guerra’ politica è Silvio Berlusconi; vincitore della ‘battaglia’ dei candidati è Umberto Bossi che, assecondato nelle sue pretese da un Cavaliere generoso, ottiene 294 dai collegi del solo Settentrione 117 deputati.

Silvio Berlusconi festeggiato dai suoi sostenitori.

Più di quanti ne vengono assegnati a Forza Italia, che ne ottiene 113 ed è presente su tutto il territorio nazionale, e appena 4 in più di Alleanza Nazionale che con i suoi 109 parlamentari ha triplicato il numero dei deputati eletti nel ’92. Insieme – Lega, Forza Italia, AN, e CCD, che ha ottenuto 27 deputati – costituiscono, a Montecitorio, una ‘forza’ di 366 parlamentari, 50 in più della maggioranza necessaria. Il centro-sinistra, invece, conquista solo 213 deputati: 115 del PDS; 40 di Rifondazione Comunista e i rimanenti 51 seggi sono assegnati ai cosiddetti ‘cespugli’ della Quercia quali Alleanza Democratica, Rete, Verdi, socialisti di Del Turco ed altri. Diverso il risultato del Senato dove però è sempre la Lega di Bossi a fare la parte del leone. La maggioranza richiesta per Palazzo Madama è di 164 senatori – 315 eletti più 11 senatori a vita – e l’aggregazione politica di Berlusconi se ne aggiudica 157. Sette in meno di quanti sono necessari per la maggioranza assoluta. Ma per il Cavaliere non è un problema. L’incognita, il nodo cruciale della sua coalizione è, e resta, la Lega che anche al Senato ha ottenuto il maggior numero degli eletti: 62; seguono Alleanza Nazionale con 48;


Forza Italia con 36 e CCD con 11 senatori. Il vento che ha spazzato via, in quasi tutto il Paese, il Patto per l’Italia – la coalizione di Segni e Martinazzoli che ha ottenuto in totale 46 seggi in Parlamento e 31 al Senato, in massima parte nel proporzionale – è stato anche più sferzante in Puglia e Basilicata, da sempre serbatoio di voti del vecchio centro-sinistra. In Puglia, il ‘Polo del buon governo’ si è aggiudicato 25 dei 47 seggi per Montecitorio; 17 ne hanno ottenuti i progressisti, 4 i pattisti e uno la Lega di Azione meridionale. Pinuccio Tatarella, che sarà chiamato ad assumere l’incarico di vice presidente del Consiglio, è al settimo cielo… Bari è, da oggi, la capitale della svolta a destra… la via pugliese all’Alleanza Nazionale sarà utilizzata per proporre un contenitore arioso di destra politica per la preparazione di un programma di Governo per il Comune, la Provincia e la Regione. Per il Senato, sempre in Puglia, la sproporzione fra ‘destra’ e ‘sinistra’ è meno netta. Dei 22 seggi disponibili, il ‘Polo delle libertà’ se ne aggiudica 11, dell’altra metà, 9 vanno ai progressisti, 2 ai pattisti. Del tutto inversi i risultati elettorali in Basilicata dove l’elettorato si è nettamente schierato a sinistra. Sia alla Camera, sia al Senato – alla Basilicata sono stati assegnati 7 deputati e 7 senatori – i progressisti hanno ottenuto 4 seggi per parte; 2 al ‘Polo del buon governo’ e ancora 1 per parte al ‘Patto per l’Italia’.

Processo a Occhetto Due giorni dopo i risultati elettorali, mentre Mino Martinazzoli si dimette da segretario nazionale del PPI e Umberto Bossi, colpito dal virus del successo, comincia a farneticare, la sinistra, prima ancora di tentare una seria riflessione autocritica del proprio insuccesso – dopotutto, non ha perso, ma guadagnato 4 punti percentuali rispetto alle elezioni del ’92 – comincia a ‘processare’ Achille Occhetto e a tirare in ballo il ‘conflitto d’interesse’ del Cavaliere. Un tema che durante la campagna elettorale è stato appena lambito, ha fatto solo

da sottofondo alla polemica politica tesa più a screditare le velleità di Berlusconi che il suo reale potere mediatico, tanto era comune – s’è già accennato – la convinzione, specie fra giornalisti e intellettuali, che mai il ‘Cavaliere mediatico’ avrebbe vinto le elezioni. Forza Italia è ritenuta perdente perfino quando, una settimana prima l’apertura delle urne, tutti i sondaggi affermano il contrario. I sondaggi, si dice, sono manipolati e comunque sono di parte, sono il frutto della macchina organizzativa della Fininvest. Ad elezioni vinte da Berlusconi, riecco il ‘conflitto d’interesse’ e il ruolo avuto dalle tre reti del Cavaliere nel successo del ‘centro-destra’. Eppure, molti commentatori politici ammettono, obiettivamente, che il potere mediatico di Berlusconi non è stato inferiore all’influenza delle tre reti di Stato a favore della sinistra. Arturo Parisi, considerato ‘politologo al di sopra delle parti’ – sarà poi collaboratore di Romano Prodi e successivamente vice presidente della ‘Margherita’, la formazione politica di Francesco Rutelli – sostiene che… se sotto l’aspetto della correttezza Berlusconi ha lasciato a desiderare, sotto il profilo dell’efficienza è stato il più abile: entrata in campo tempestiva, grandi disponibilità finanziarie, utilizzo proficuo di alcuni svarioni giudiziari e una forza politica creata da zero in tre mesi… ma sono stati gli stessi tre mesi utilizzati dalla RAI per infeudarsi alla sinistra con una faziosità che un servizio pubblico non dovrebbe in alcun caso permettersi. Il 31 marzo Giuseppe Gorjux, tornato al ruolo amministrativo, ma continuando a dare il proprio contributo professionale, scrive: Non è vero, innanzitutto, che Berlusconi-FiniBossi abbiano vinto per merito delle televisioni Fininvest. A quelle televisioni si sono opposte le televisioni pubbliche con pari ‘audience’ e pari potenza di mezzi. La ‘grande’ stampa nazionale non ha certo giocato a favore di Berlusconi. Grosse televisioni regionali, co- 295


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m’è avvenuto proprio in Puglia, hanno stretto accordi con il PDS ed hanno attaccato e ridicolizzato in tutti i modi Forza Italia ed i suoi alleati… l’affermazione del ‘Polo di destra’ – continua Gorjux – nasce da un moto di popolo, certamente impulsivo, ma alimentato da una protesta diffusa, da una insofferenza generalizzata che ha respinto anzitutto quanto e quanti apparivano espressione del vecchio pentapartito, colpendo di rimbalzo gli ex ‘consociati’ di sinistra… la stessa demonizzazione dell’avversario da parte delle sinistre, aiutata anche da alcune incaute azioni di certa Magistratura, da un lato ha avallato ed enfatizzato il peso del ‘nuovo’, dall’altro ha spaventato gli elettori moderati che si sono rifugiati a destra nel timore – in gran parte ingiustificato, ma oggettivamente presente nell’opinione pubblica – di una ‘rivoluzione francese’ portata avanti a colpi di avvisi di garanzia ed ordini di custodia cautelare. Una ghigliottina morale e civile che ha preoccupato ed intimorito i più. E ancora, il politologo Saverio Vertone – che non ha nascosto simpatie per i ‘pattisti’ – intervistato da Gino Dato per la Gazzetta sul perché la sinistra non ha vinto le elezioni, risponde… dovranno chiederselo nel profondo e forse dovranno rispondersi: perché non ce lo meritavamo. Questa volta non c’era il fattore K – il komunismo di antica memoria – non esistevano concorrenti perché tutti gli altri partiti erano crollati e, inoltre, la sinistra aveva tutta la stampa a favore, compreso il Sole 24 Ore, quotidiano degli industriali, i tre canali televisivi di Stato, la cultura, gli automatismi del linguaggio, i valori correnti e gli intellettuali. La causa determinante del successo di Berlusconi – scrive invece De Tomaso il 5 aprile sulla Gazzetta – è stata proprio la campagna di demonizzazione di certa stampa contro il Demonio di Arcore… ogni qual volta un gruppo, un personaggio è sottoposto ad una campagna ‘contro’, l’atteggiamento ed il giu296 dizio della gente sono inversamente propor-

zionali all’intensità dell’opera denigratoria. Il voto del 27-28 marzo – continua De Tomaso – sarà prodigo di riflessione non solo per i partiti, ma soprattutto per le redazioni dei giornali. Quale credibilità può conservare un mestiere che sceglie di plagiare le coscienze anziché informarle e formarle? Quale garanzia di obiettività può fornire un giornalismo che sceglie di militare anziché raccontare? E soprattutto quali speranze di successo può nutrire un’informazione che si presenta sotto forma di partito più che di custode dell’interesse generale? La sinistra farebbe bene a riflettere sull’autogol elettorale. Farebbe bene a riflettere certo giornalismo che, all’indomani del voto – conclude De Tomaso – non può pretendere di tornare in cattedra accusando Occhetto e compagni di aver sbagliato tutto. C’è, dunque, anche fra i giornalisti della Gazzetta una velata delusione per il mancato successo del centro-sinistra. Una delusione che nasconde, per alcuni, motivazioni ideologiche, per la gran parte pragmatiche: Berlusconi è un Editore, figura che i giornalisti, a torto o a ragione, hanno sempre considerato ‘controparte’ e, come tale, tendente a mettere al centro dell’interesse le proprie attività più che le aspirazioni comuni, princìpi e valori ideali.

Spinosa: la ‘svolta’ a destra E’ a questo punto che il nuovo direttore della Gazzetta, Antonio Spinosa, torna ad essere protagonista di questa cronaca: assumendo una posizione politica precisa e decisamente favorevole al vincitore, compromette ulteriormente – la redazione è già pregna di un’aria irrespirabile – la sua permanenza al vertice della direzione del giornale. Eppure, solo 7 giorni prima delle elezioni, Spinosa, riferendosi al corretto rapporto che dovrebbe intercorrere fra giornalisti e politici, scrive… se mi è consentito di suggerire ai colleghi un modo per non rimanere impigliati nell’intreccio fra stampa e politica, consiglierei di evitare la condizione che i romani chiamano di ‘pappa e ciccia’ con il potere.


Ma ricapitoliamo. Come accennato nella cronaca del 1993, Antonio Spinosa ha assunto la direzione politica della Gazzetta il 31 ottobre. Dieci mesi dopo, il 29 agosto di quest’anno, si dimette. Tutto sommato, una parentesi nella storia ultra centenaria della Gazzetta, una parentesi densa di episodi non proprio edificanti che ha prodotto, al giornale, un rilevante danno d’immagine. Il corsivo del 5 aprile di Giuseppe De Tomaso dunque è ancora fresco di stampa quando Spinosa opera un clamoroso voltafaccia: abbandona l’atteggiamento di cautela ed equidistanza che ha conservato fino ai risultati elettorali per salire, subito dopo, sul carro del Cavaliere. Spinosa, insomma, sceglie di fare quel giornalismo che il suo editorialista ha così duramente condannato: sceglie di ‘militare e plagiare’ anziché raccontare e formare. E’ una situazione nuova per i giornalisti della Gazzetta. E’ una svolta che contraddice una scelta editoriale – iniziatasi con la nuova società di gestione nata nel 1978 – che si traduce in un atteggiamento meno acquiescente e più critico verso quelle forze politiche che ha sempre sostenuto. E’ notorio infatti che il primo direttore politico della nuova società di gestione, Giuseppe Giacovazzo, era ‘moroteo’, la ‘corrente’ democristiana che si riconosceva nello statista Aldo Moro ucciso dalle Brigate rosse nel 1978. A Giacovazzo, dimessosi nel 1987 per essersi candidato al Senato nelle liste della DC, succede Giuseppe Gorjux, già co-editore e Amministratore delegato della Gazzetta, il quale, prima di appartenere ad un colore politico, è cemento, malta e intonaco della Gazzetta nonché barese e pugliese fino al midollo. Figlio del fondatore della Gazzetta, Raffaele Gorjux, Giuseppe è materialmente nato nella prima vecchia sede della Gazzetta, quel palazzo liberty che faceva bella mostra di sé in un angolo dell’odierna piazza Moro – palazzo che forse molti baresi ricordano ancora – demolito negli anni Ottanta per costruirvi un moderno edificio in vetro-cemento sull’altare

del ‘nuovo’ e della speculazione edilizia. Lasciamo al Lettore il giudizio sul livello di indipendenza e obiettività di Giuseppe Gorjux nei suoi commenti politici. Commenti che, specie nei confronti delle Amministrazioni locali, abbondantemente citati nella cronaca di questa ‘Finestra’, definire ‘poco teneri’ sarebbe eufemistico. Le particolari caratteristiche dei predecessori di Spinosa, la loro ‘pugliesità’, l’ampia conoscenza dei problemi del territorio, il loro fervente meridionalismo, producono alla Gazzetta e nel corpo redazionale, due effetti: un rilevante aumento di Lettori e un rinnovato senso di indipendenza professionale. La nuova Società di gestione, insomma, ha saputo trovare il giusto equilibrio fra le esigenze della Proprietà – la Gazzetta è di proprietà della Fondazione del Banco di Napoli e resta tale fino al 1997 – e la necessità di porsi in maniera obiettiva in una realtà sociale che cambia rapidamente. Valori che lo stesso Spinosa sottolinea nel suo editoriale di saluto ai Lettori… assumo la direzione di un quotidiano fra i pochissimi che nella realtà italiana sia indipendente da forze politiche… esempio di obiettività e imparzialità. Per cinque mesi Spinosa non ha mai né parlato di Forza Italia, né menzionato Silvio Berlusconi. Anzi, ospite di ‘Funari News’, quando il ‘giornalaio’ – così Funari si compiace autodefinire – chiede a Spinosa per chi avrebbe votato, questi risponde che, quale ‘vecchio’ socialdemocratico, avrebbe certamente votato per Mario Segni. Poi, evidentemente colpito da una di quelle celebri frasi ad effetto di Indro Montanelli il quale, voltate le spalle al liberalismo berlusconiano, aveva detto: ‘soltanto gli imbecilli non cambiano opinione’, Spinosa decide, in corso d’opera, di convertirsi e sposare la causa del Cavaliere. Per quanto superfluo, è del tutto evidente che al Direttore politico di un quotidiano non è richiesta la sola gestione dell’indirizzo politico, ma soprattutto quella delle risorse umane e professionali della redazione. Sia chiaro, 297


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l’avvicendamento al vertice di un quotidiano, come e più che in qualunque altra azienda, non è mai indolore. Qualcuno è promosso, qualcun altro è promosso e giubilato, altri ancora sono assegnati a nuovi incarichi. E’ nei fatti. Sono i rischi del mestiere, specie quando si tratta di professionisti. Sono ‘rimescolamenti’ che servono ad evitare nicchie, incrostazioni. Spesso anche a rivitalizzare il giornale, a far emergere potenzialità professionali latenti. Sono ‘passaggi’ che normalmente si fanno con discrezione e sensibilità. La redazione di un giornale è una pentola in continua pressione, ha bisogno di equilibri, di strategie politiche e organizzative chiare, di rapporti corretti. E spetta al Direttore trovare le giuste motivazioni per affrontare un nuovo sentiero senza traumi. Purtroppo, il settantenne Spinosa, che pure annovera una notevole esperienza professionale e culturale – è autore noto di svariati volumi di successo – sul piano caratteriale è scivoloso e ambiguo. Brusco, permaloso, allergico alle obiezioni e, come quasi tutti gli uomini dalla memoria lunga, rancoroso – guai a stroncargli un libro, se ne ricorderà per tutta la vita – Spinosa è, in una parola, un uomo da avvicinare con cautela. Si adombra e perdi la sua attenzione al minimo cenno di dissenso. Eppure, ad incrociarlo, solo per un attimo, appare come la persona più mite del mondo. Ma la parte peggiore di Spinosa è la calcolata capacità di porsi sempre al centro di ogni avvenimento politico e sociale. Dotato di un narcisismo straripante, Spinosa pubblica per mesi, sulla Gazzetta, recensioni, carteggi e ricordi della sua lunga esperienza professionale e di autore, con una assiduità imbarazzante. Spesso si ha l’impressione di un giornale divenuto un bollettino pubblicitario delle sue opere. Spinosa vanta, e ne scrive, amicizie con gran parte del mondo intellettuale e politico del Paese; si definisce ‘allievo’ di Giovanni Spadolini, ospita, sulle pagine della Gazzetta, diversi articoli e perfino un racconto di Giulio 298 Andreotti, incurante dell’ostracismo di cui il

senatore a vita è oggetto da parte della stampa nazionale in questo particolare e drammatico momento della sua vita: il settimanale Europeo gli ha tolto la rubrica ‘block notes’ e il famoso almanacco ‘Who is Who’, il chi è chi in Italia, lo ha perfino depennato. Spinosa insomma eredita, per sua stessa ammissione, un giornale indipendente da forze politiche e lo accasa al Polo delle libertà; dichiara di non essere fiduciario di nessuno, di non avere padrini, e se ne procura due: uno a livello nazionale, Silvio Berlusconi; l’altro a livello locale, il co-editore Stefano Romanazzi; afferma di voler fare… un giornale di denuncia e magari pure di protesta, e presto se ne dimentica. Quella Gazzetta, quel giornale che per anni ha tenuto sotto i riflettori le Amministrazioni locali, denunciando inadempienze e indifferenza, diventa un ricordo lontano. E ancora, eredita un corpo redazionale di professionisti esperti, accomunati da anni di civile convivenza, e lo trasforma in una specie di serraglio in cui sospetti e veleni sono la norma. Ogni suo atto, ogni scelta sembra fatta apposta per esasperare i rapporti interpersonali. Nomina due vice direttori – il 14 dicembre del ’93 – e uno lo emargina bruscamente, l’altro, Lino Patruno, prima tenta di metterlo contro il collega, poi se ne serve quale mediatore nei rapporti con la redazione. Con Gorjux, tornato al ruolo amministrativo, Patruno diventa, per la redazione, il punto di riferimento, l’interlocutore fra il Direttore e il corpo redazionale, l’uomo su cui scaricare risentimenti, frustrazioni e ambizioni. Ma Spinosa non è soddisfatto. I suoi progetti, il rilancio editoriale, la riorganizzazione redazionale, vanno a rilento. Bisogna affrontare costi che, in un momento di grave crisi dell’editoria e di rilevanti deficit di tutte le aziende della carta stampata, appaiono particolarmente elevati. Gorjux insomma, che ricordiamo è Amministratore delegato e Direttore generale, tende ad allungare i tempi. Inoltre, con il fallimento annunciato della SPI, società che gestisce la pubblicità della Gazzetta, il


Un angolo della redazione della Gazzetta.

futuro appare molto incerto. Spinosa ha trovato la soluzione: ha scoperto che il potere decisionale nella gestione della testata non è più demandato solo a Gorjux, ma in questo particolare momento di difficoltà economica dell’Azienda, la bilancia del ‘potere’ pende più verso l’altro editore, Stefano Romanazzi. Qui è opportuno un salto indietro poiché gli equilibri di ‘potere’ determinatisi fin dalla nascita della Società di gestione fra i soci fondatori, merita un approfondimento. La Società che gestisce la testata della Gazzetta – EDISUD – nasce nel 1976 per iniziativa di Giuseppe Gorjux e del noto imprenditore pugliese Stefano Romanazzi auspice Aldo Moro, all’epoca presidente della DC. Il pacchetto azionario della EDISUD è così suddiviso: 51% a Gorjux e Romanazzi; 49% all’Affidavit, una società della stessa DC. L’intesa fra i tre soci della EDISUD è semplice: Gorjux mette a disposizione la sua lunga esperienza professionale e manageriale nell’Azienda, Romanazzi si rende garante presso gli isti-

tuti di credito e la DC, attraverso l’Affidavit, si riserva di esprimere il proprio gradimento nel caso di avvicendamento alla direzione politica. L’affidamento della gestione della testata alla nuova Società si perfeziona nel 1978. Settimane, se non giorni, prima del rapimento di Aldo Moro. L’accordo non cambia e, fintanto che la Gazzetta produce sostanziosi profitti, la bilancia del potere resta in equilibrio. Gorjux gestisce, senza interferenze, il giornale; Romanazzi, oltre ai profitti gode, indirettamente, della sua condizione di Editore del più importante quotidiano meridionale. L’intesa è perfetta fino a quando Gorjux, d’accordo con Romanazzi, assume, nel 1987, anche la direzione politica della Gazzetta e, da barese e pugliese, non gli riesce proprio di assistere al degrado sociale della regione ad opera di una classe dirigente, politica e amministrativa, definita più volte… famelica e arrogante. Cerca allora di scuoterli, di indurli ad agire; li invita a mettere da parte interessi di partito, di correnti e personali. Ma inascoltato e sfiduciato – non c’è un solo capoluogo di provincia, né piccoli e grandi centri pugliesi che non abbiano già collezionato quattro, cinque crisi, dalle elezioni amministrative del ’90 – Gorjux inizia una dura campagna di stampa verso le Amministrazioni locali di qualunque ‘colore’, denunciando – come ampiamente documentato in questo stesso volume – inadempienze, indifferenza e abbandono. Valga, per tutte, un solo dato: dalle elezioni amministrative del ’90 a tutto il ’94, la Regione Puglia ha avvicendato cinque Presidenti di Giunta. Iniziano da qui, cioè dal doveroso compito di un organo d’informazione, i primi contrasti con Romanazzi il quale, per le sue diverse attività imprenditoriali frequenta gli Enti locali, o meglio, li fa frequentare ad un suo stretto collaboratore, il giornalista della Gazzetta Franco Russo. Nelle varie sedi comunali e regionali lamentano l’eccessivo rigore critico della Gazzetta nei loro confronti e Romanazzi non gradisce che gli vengano attribuite re- 299


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sponsabilità nella gestione politica del giornale. Del resto, nessuno sa che fra lui e Gorjux c’è una tacita intesa di non ingerenza. Ma le cose sono cambiate. La difficile congiuntura economica, la crisi dell’editoria, il crollo del mercato pubblicitario e la conseguente difficoltà finanziaria del giornale coinvolgono Romanazzi più che in passato e quando Russo continua a farsi portavoce di lagnanze, da parte di politici e amministratori locali, Romanazzi con sempre maggior insistenza comincia ad esercitare pressioni su Gorjux: questi ha la pelle sensibile e stanco per l’enorme impegno profuso anche quale amministratore delegato de Il Mattino di Napoli – testata acquisita dalla Società nel 1985 – lascia la direzione politica della Gazzetta per dedicare maggior tempo e la sua esperienza manageriale alla gestione economica e organizzativa dei due quotidiani. Da qui la scelta, affrettata, di trovare un nuovo Direttore ed è da questo momento che Romanazzi rompe l’intesa di ‘non ingerenza’ nella gestione politica e amministrativa della Gazzetta. Naturalmente Spinosa non conosce ogni retroscena, ma opportunamente ragguagliato – informatori interessati non mancano mai – quando si ritiene ostacolato nei suoi progetti, ricorre ad un sotterfugio: il 21 aprile la Gazzetta pubblica una precisazione di Antonio Spinosa… in relazione ad alcune notizie diffuse da una emittente televisiva locale su presunte, improvvise dimissioni del Direttore – si legge nel comunicato – Spinosa, smentendo di aver mai lasciato il giornale o di avere l’intenzione di farlo, ha altresì smentito pretese divergenze con l’editore Gorjux sul piano di ristrutturazione aziendale. Una lettera a Gorjux c’è stata, ma si riferiva a problemi di carattere generale. E’ il classico messaggio alla moglie affinché suocera intenda. E la suocera, Romanazzi, intese e intervenne: dategli quello che vuole, purché non si dimetta. Da quel momento, Franco Russo si assume 300 il ruolo di mediatore fra Spinosa, Gorjux e

Romanazzi. Una settimana dopo, il piano di ristrutturazione e ridistribuzione degli incarichi in redazione è firmato. Il 3 maggio Spinosa comunica, con una serie di lettere ai redattori interessati, i loro nuovi incarichi togliendosi un ultimo sassolino: esonera e promuove l’indocile capo cronista Dionisio Ciccarese e affida l’importante redazione della cronaca di Bari al versatile Domenico Castellaneta che esce dal ‘mucchio’ dopo una gavetta decennale. Ciccarese è ‘colpevole’ di aver fatto, tra gennaio e febbraio, una campagna di stampa, con foto-notizie, contro l’assessore all’Igiene del Comune di Bari, Franco Cisternino: ogni giorno, per un mese di seguito. Cisternino, che è solo l’ultimo di una serie di assessori all’Igiene, protesta per l’accanimento dei cronisti. Anni dopo – dirà Ciccarese – seppi dallo stesso Cisternino che Spinosa scaricò su di me la responsabilità di quella campagna di stampa. Che la città fosse da anni una discarica a cielo aperto, non c’è dubbio, ma che simili iniziative fossero prerogativa del capo cronista o di qualunque altro giornalista, è semplicemente assurdo. L’autonomia dei cronisti, o dei giornalisti in genere in ogni settore del giornale, può essere esercitata una, due volte, ma non per trenta giorni di seguito senza precise disposizioni e avallo del Direttore politico. La verità è che quella iniziativa era strumentale e propedeutica ai disegni di Spinosa. Fu lui ad impormi espressamente di fare un ‘tormentone’ contro Cisternino. Bisognava correggere il tiro, bisognava soprattutto distogliere l’attenzione pubblica da ambienti della sanità privata che lamentavano di essere stati ‘troppo’ perseguitati dalla gestione di Gorjux. La protesta di Cisternino – conclude Ciccarese – fu l’occasione per farmi passare ad altro incarico. Nella stessa tornata di ridistribuzione degli incarichi, Spinosa, che ha capito qual è il tasto da spingere per realizzare i suoi disegni, nomina un terzo vice direttore, nella persona di Franco Russo, specificando la funzione di


vice direttore ‘vicario’. A Patruno quindi, che conserva la vice direzione, è affidata la supervisione e il coordinamento delle pagine culturali, sport e iniziative speciali. Poco più di un mese dopo, Spinosa toglie la ‘firma’ di Antonio Mangano dall’elenco della dirigenza redazionale: gli hanno fatto notare che tre vice direttori non li ha neppure il Corriere della Sera. Fin qui il contributo di Spinosa nell’opera di demolizione dei rapporti umani e professionali nella redazione di un’azienda afflitta, anche quest’anno, da un grave deficit di bilancio. Seminati abbondanti semi di discordia e conseguenti risentimenti all’interno della redazione, Spinosa si avvia ad offuscare anche l’immagine della Gazzetta all’esterno: il passaggio da un ‘giornale indipendente da forze politiche’ ad un altro sfacciatamente ‘schierato’, non è senza traumi fra i Lettori e nella stessa redazione. Ma un’azienda non arriva sull’orlo del precipizio senza una sommatoria di errori nella gestione complessiva dell’impresa: diversità di opinioni del management, ritardi e soprattutto un mancato aggiornamento delle innovazioni tecnologiche. Così, fra la crisi dell’Editoria che affligge tutta la stampa nazionale; il crollo del mercato pubblicitario; la scorretta concorrenza delle Tv private, che per ammortizzare i costi dei Tg arraffano e svendono gli spot pubblicitari, e la scelta di affidare la direzione della Gazzetta ad un personaggio completamente estraneo alla realtà politica, sociale e culturale dell’area di diffusione del quotidiano pugliese – Spinosa è nato a Ceprano, in Ciociaria, e non è mai sceso più a Sud di Napoli per un’altra esperienza professionale finita male – si completa il quadro di estrema incertezza sul futuro del giornale. Se poi si aggiunge l’impressionante sequenza di mutamenti sociali e politici, nazionali e internazionali – la guerra del Golfo nel 1991, le prime ‘picconate’ di Cossiga alla classe politica, i primi segnali di crisi economica,

le prime inchieste di Tangentopoli, lo smarrimento della società civile di fronte alle stragi di mafia con l’assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, infine, la crisi dei partiti e delle istituzioni – che sconvolgono lo stile di vita degli italiani, le abitudini acquisite, le certezze, i valori morali, allora è il futuro di tutti che appare minacciato.

La ‘rivoluzione’ alla Gazzetta Il 29 marzo dunque, il centro-destra berlusconiano vince le elezioni e Spinosa, che ama i paralleli storici, paragona la vittoria del ‘Polo delle libertà’ con la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1879, a Parigi. Con l’epilogo drammatico e violento della rivoluzione francese – scrive Spinosa – la storia volta pagina. Tra ieri e oggi, la storia ha voltato pagina anche in Italia dimostrando come un grande popolo non abbia bisogno della violenza per rinnovarsi… è bastato un voto democratico per abbattere una classe dirigente che aveva fatto della politica la sentina di tutti i vizi… l’odierna rivoluzione italiana consiste nell’aver affidato agli elettori la sovranità di scelta prevista dalla Costituzione, quella sovranità di cui la partitocrazia corrotta e inefficiente si era appropriata. Berlusconi ha dimostrato di aver capito il nuovo. E’ la prima volta in cinque mesi, da quando cioè Spinosa ha assunto la direzione politica della Gazzetta, che il Direttore fa il nome di Silvio Berlusconi in un suo editoriale. Non si fermerà più, venendo meno, lui per primo, al consiglio che appena nove giorni prima aveva dato ai suoi colleghi: evitate di fare ‘pappa e ciccia’ con il potere. Il primo passo di ‘avvicinamento’ al Cavaliere Spinosa lo compie il 3 aprile. Facendo il ‘verso’ a Umberto Eco, lo scrittore che non ha nascosto la sua amarezza per la sconfitta dei progressisti. Spinosa accomuna tutti gli intellettuali, Norberto Bobbio compreso, che in campagna elettorale hanno sostenuto la sinistra in una sola parola: ‘ecofregati’. 301



Berlusconi – scrive il Direttore – ha saputo rivolgere alla gente un messaggio di solidità. Ha offerto l’immagine di un uomo sicuro e tranquillo, ed era di questo che gli elettori avevano bisogno… ora ci aspettiamo che il Cavaliere riesca a compiere un vero e proprio miracolo, quello di rendere civile Bossi. Ma a Bossi e al suo esercito di ‘barbari’ lombardi, neanche un ‘miracolo’ li avrebbe resi ‘civili’. Il 21 aprile, l’ex senatore Giuseppe Giacovazzo, rieletto deputato nelle liste del PPI, racconta, sulla Gazzetta, che l’ufficio logistico della Camera, costretto a rivedere la distribuzione degli ambienti, assegna al numeroso gruppo parlamentare della Lega la sala che fino a pochi giorni prima era della DC. La stanza porta sull’uscio una targa con il nome di Aldo Moro e all’interno contiene un busto dello statista pugliese. Fin qui, c’è poco da eccepire – scrive Giacovazzo – ma diventa un atto grave quando si chiede la rimozione di quel busto e si pretende di cancellare il nome di Aldo Moro da quella porta. E’ un gesto che non fa onore alla reputazione civile di Bossi e della sua Lega… no, non è soltanto rozzezza culturale è intolleranza, è scarso rispetto della storia, è insopportazione dell’altro. E’ questo il clima della Seconda Repubblica? Temo la politica che ignora la storia… temo la furia iconoclasta che svilisce le memorie, che innalza controvessilli. Ma ciò che più ci deprime è la mancanza di sdegno, la distrazione in cui è caduto un episodio che non sfiora neppure la coscienza di un Parlamento stordito nella sua beata euforia. Il 5 aprile, intanto, Spinosa è tornato a punzecchiare Umberto Eco e a ironizzare sulla proposta di Gino Giugni e Leopoldo Elia che sollecitano la sinistra a formare un ‘governo ombra’… è già successo – commenta Spinosa – ma ‘ombre rosse’ erano e ombre sono destinate a restare in un Paese cui piacciono le cose concrete, sode e ben visibili. Bossi dal canto suo inizia ad attaccare Berlusconi… siamo di fronte ad una situazione pericolosa per la democrazia… ha vinto un

partito che non esiste… ha vinto un uomo solo. E De Tomaso, in una nota di prima pagina dal titolo ‘Un uomo da legare’, commenta… la vita del futuro Governo di destra si annuncia tutt’altro che facile… Bossi sta cercando di far valere il suo potere contrattuale. Consigliamo a Berlusconi di star fermo; di aspettare la decisione di Scalfaro sull’incarico di Governo. I leghisti infatti hanno chiesto: la vice presidenza del Consiglio, il ministero degli Interni, la presidenza del Senato e subito un’intesa sul federalismo. Immediata la replica di Berlusconi e Fini: Le dichiarazioni di Bossi sono da irresponsabile; le sue pretese sono un tradimento delle attese degli elettori. La formazione del Governo sarà oggetto di una trattativa fra le parti; le cariche istituzionali sono una prerogativa delle Camere e il federalismo non è negli accordi di programma. Bossi farebbe bene a rispettare gli accordi, altrimenti – minaccia Berlusconi – si torna subito alle urne. Bossi si placa, ma è solo una pausa. La capacità del Senatur di estrarre ‘numeri’ dal pallottoliere è superiore a quella della ‘dea bendata’ al gioco del lotto. Ma non è tutta farina del suo sacco. Bossi subisce da anni la superiorità culturale del filosofo razzista Gianfranco Miglio… i meridionali sono uomini antropologicamente inferiori… ma quando la Lega passa da partito antisistema a partito di Governo e il Senatur consolida il suo ruolo di leader, Bossi comincia a prendere le distanze da Miglio. Una cosa sono i proclami della campagna elettorale, altro è attuarli con responsabilità di Governo. E Bossi, che usa in politica la strategia della ‘furia francese e ritirata spagnola’, mal sopporta l’intransigenza di Miglio il quale, prima minaccia di fondare l’Unione federalista, chiamando la Padania alla secessione… la Lega è finita, non ha più niente a che vedere con il federalismo… poi se la prende direttamente con il ‘Capo’… dal punto di vista della scienza politica Bossi è un magnifico caso clinico. 303


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Gianfranco Miglio, l’ideologo razzista della Lega.

In breve, prima che arrivi l’estate, Bossi si libera di Miglio. Il Senatur ha scelto il gradualismo e il moderatismo di Maroni e Formentini imposti dalle responsabilità di Governo… ma la vera strategia politica del Capo del Carroccio – scrive Francesco Pionati sulla Gazzetta – è quello di conciliare il ruolo di Governo con i vantaggi dell’opposizione. Per questo si è alleato con Berlusconi, ma non perde occasione di attaccarlo; per questo tenta, contemporaneamente, di accreditare la Lega come moderna forza riformista senza tuttavia perdere per strada l’esercito scalmanato, protestatario e anti-meridionale di Pontida. Più che un rebus Bossi è, da qualunque parte si schieri, un alleato di cui ‘fidarsi è bene, non fidarsi è meglio’. Spinosa intanto... torna sul luogo del delitto... continuando a magnificare Berlusconi. Dopo aver esaltato… la strepitosa vittoria del Cavaliere… affermando che… gran parte del successo di Berlusconi risiede nel suo sguardo, ognora definito rassicurante, tranquillizzante, seducente... il primo maggio, in un editoriale dal titolo ‘Benvenuto Cavaliere’, Spinosa prima gli ricorda di onorare gli impegni presi con gli elettori, specie… il milione di posti di lavoro subito e altri tre in breve tempo… poi, si lancia in uno sperticato elogio… 304 il neo presidente Berlusconi può ben dire ‘Ça

ira’ come i rivoluzionari francesi. Anche la sua è una rivoluzione. E andrà a segno, nonostante tutti gli uccelli del malaugurio che gli volano intorno… il suo ‘Ça ira’ non sarà un motto storico, limitato ad un momento storico, ma il punto di partenza d’un nuovo e duraturo modo di far politica. Novità che si scoprono in alcune sue scivolate d’ala – continua Spinosa – ma sono proprio queste sue scivolate a rendere più umano un personaggio che si presenta come una perfetta, instancabile e ben lubrificata macchina da lavoro, come una sorta di robot sorridente e patinato. Il 28 aprile il Capo dello Stato affida a Berlusconi l’incarico di formare il nuovo Governo. L’Esecutivo giura l’11 maggio; il 18 il Cavaliere incassa un doppio premio: ottiene la fiducia del Senato, dove il Governo non ha la maggioranza assoluta, e il suo Milan vince ad Atene la Coppa dei Campioni. In un editoriale del 15 maggio, Spinosa torna ai suoi ‘paralleli’ storici: paragona l’operazione che Aldo Moro compì nel 1963, portando per la prima volta i socialisti al Governo, all’operazione compiuta da Berlusconi con Alleanza Nazionale… per aver affrontato le elezioni insieme a lui, ma anche per favorire l’estensione a destra dell’area democratica. Come ieri fu un grande merito quello di Moro – aggiunge Spinosa – così oggi ne va riconosciuto a Berlusconi uno di eguale portata. Immancabile e puntuale la risposta polemica di Giuseppe Giacovazzo il giorno dopo… a me, caro Direttore, pare francamente arrischiato collocare sulla stessa bilancia i due eventi. A qualsiasi commentatore politico si potrebbe anche lasciar correre questo incauto connubio. Il merito di Berlusconi – continua Giacovazzo – è proprio di eguale portata? E senza neppure l’ombra di una verifica? Si parlava di Moro e di Nenni, caro Direttore. Oggi siamo a Berlusconi e Tatarella i quali, senza far torto alla loro cultura politica, hanno fatto insieme soltanto una confusa campagna elettorale, in un clima emotivo che non ha niente da spartire con l’incontro sofferto di


due culture – tre con quella laica – che hanno restituito all’Italia la democrazia, dopo la dittatura e la guerra, e che avevano già fondato insieme la Repubblica e la Costituzione tuttora in vigore. Spinosa, che conferma la sua allergia al dissenso, risponde:… non vorrei, caro Onorevole che tu avessi letto affrettatamente il mio articolo col quale ti pregi, onorandomi, di polemizzare. Poi, ribadendo punto per punto la sua tesi, conclude… Ti sorprendi che uno storico del mio ‘valore’ – il giudizio è tuo – arrivi a coniugare eventi politici di diversa natura e rilevanza. E io di converso potrei leggere il tuo scritto più che una difesa di Moro, una disperata giustificazione della sconfitta elettorale dei popolari, i quali sono tanto nuovi – rispetto al nuovo di Berlusconi – che non hanno neppure saputo trovare al loro partito una sigla diversa da quella antica e inelegante di PPI. E ancora il 19 maggio, Spinosa scrive... finalmente nella replica di Berlusconi al Senato, hanno fatto capolino i problemi del Sud che sono poi quelli dell’intero Paese. Nella replica, il Mezzogiorno ha avuto il posto d’onore e Berlusconi ha usato toni che si possono definire vibranti. Il 25 maggio, nuova polemica e nuovo incenso per Sua Emittenza. Il politologo Giovanni Sartori, in un editoriale sul Corriere della Sera, ha evidenziato che al Senato Berlusconi ha ottenuto il via libera al suo Governo con un solo voto di maggioranza. Quella di Sartori – scrive Spinosa sulla Gazzetta – è una visione tanto miope da non consentirgli di cogliere il significato del ‘nuovo’ rappresentato da Berlusconi… il Cavaliere ha abbandonato gli schemi del passato, ha introdotto concetti inusitati per le aule parlamentari, riconoscendo al Paese la capacità di slanci miracolosi che stupiscono il mondo. E’ andato oltre – continua Spinosa – ha parlato di gioia di vivere; ha detto di aver fatto un sogno ad occhi aperti, quello di restituire alla società civile vitalità e creatività… è andato oltre le ideologie, oltre le tanto discus-

se collocazioni di destra e di sinistra, per ascendere le alture dell’utopia. Sì, dell’utopia – conclude Spinosa – senza di essa, al punto in cui siamo, non si costruisce nulla di nuovo. Il 5 giugno altra stoccata contro Norberto Bobbio che nell’analizzare il programma di Governo di Berlusconi – un milione di posti di lavoro in due anni, risanamento della finanza pubblica, riordinamento fiscale, privatizzazioni, flessibilità del mercato del lavoro in un quadro d’azione liberale in politica e liberista in economia – ha semplicemente commentato che… l’Italia non è una società per azioni. E’ strano – scrive Spinosa – finché la sinistra ha sostenuto, innumerevoli volte, l’esigenza di considerare l’Italia come un’azienda per farla funzionare bene, nessuno ha avuto da eccepire… con l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi, ecco che non è più possibile considerare l’Italia un’azienda. Il Cavaliere, imprenditore permeato di razionalismo produttivistico, può dire di essere venuto al mondo con la camicia. Nato con il Sole per dominante planetaria, era destinato al successo, al prestigio, al comando. Gli è sempre andato tutto a gonfie vele, nel calcio, nell’edilizia, nel commercio, nella comunicazione, nell’editoria, in amore. E ora ha vinto anche in politica. Napoleone, che aveva l’abitudine di premiare i generali fortunati, lo avrebbe immantinente nominato maresciallo di Francia. Il primo pacchetto di provvedimenti varato dal Governo Berlusconi riguarda la riforma fiscale… è tale da parlare di ‘rivoluzione’ – scrive il 9 giugno Paolo R. Andreoli sulla Gazzetta – stavamo quasi per applaudire. Abituati, per anni, ad annunci di lacrime e sangue, a conferenze stampa che sembravano attese in ospedale, abbiamo visto materialmente la ‘svolta’: il fisco comincia ad assumere un volto umano. Rinviato, invece, il pacchetto per l’occupazione che prevede, soprattutto, l’introduzione del ‘salario d’ingresso’ – paghe inferiori del 10-15% per i giovani neo assunti – l’estensione dei contratti a termine e un ‘bonus fiscale’ 305


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Il nuovo stabilimento della FIAT a Melfi inizia la produzione della ‘Punto’.

per le aziende che intendono fare nuove assunzioni. Bisognava conciliare la posizione della Lega che aveva chiesto la reintroduzione delle ‘gabbie salariali’ di antica memoria e la contestazione dei Sindacati che, ‘insoddisfatti’, hanno chiesto una pausa di riflessione. Il più perplesso sulle proposte del Governo è l’uomo nuovo della CGIL, il segretario generale in pectore Sergio Cofferati che il 10 giugno presenta le sue credenziali… alcune delle misure proposte dal Governo sono vere violazioni di regole e diritti che sfocerebbero in un pericoloso conflitto sociale. Il salario d’ingresso – afferma Cofferati – è una soluzione da terzo mondo. Infatti, all’inizio di gennaio di quest’anno, la nuova fabbrica della FIAT a Melfi, in Basilicata, ha iniziato a produrre le prime ‘Punto’ e il Sindacato non si è fatto scrupolo di concordare, per i lavoratori di Melfi, un salario da ‘terzo mondo’: la loro retribuzione è rimasta, per un decennio, inferiore del 20% rispetto a quella di tutti gli altri dipendenti della grande azienda torinese. Il 29 giugno Cofferati, al fine di chiarire meglio la politica della CGIL nel corso del suo mandato, dichiara: La nuova CGIL lancia la sfida al Governo delle destre… una sfida né astratta, né pregiudiziale. Oggi in Italia – 306 afferma Cofferati – c’è un’idea di liberalismo

secondo la quale la crescita economica passa attraverso la soppressione dei diritti. E’ un’idea che combatteremo. Eppure, a novembre – in un momento di ‘grande attenzione’ del PDS per la Lega – Massimo D’Alema dirà… che una correzione di rotta della politica salariale, è necessaria… sono contrario alle gabbie salariali, ma non ad una politica di flessibilità salariale. I Sindacati – aggiunge D’Alema – dovrebbero contrattare salari flessibili invece di fare la guardia al ‘bidone’ del contratto nazionale che al Sud nessuno applica. Il 13 giugno si svolgono le elezioni europee e Forza Italia non solo si conferma primo partito d’Italia, ma passa dal 21%, del 27 marzo, al 30,6%; Alleanza Nazionale ha una flessione di 1 punto – passa dal 13,5 al 12,5% – Lega Nord perde oltre 2 punti – dall’8,4 al 6% – e oltre un punto perde il PDS che passa dal 20,4 al 19,1%.

Occhetto si dimette La politica è brutale – scrive De Tomaso all’annuncio delle dimissioni di Achille Occhetto – chi guida la transizione, spesso non sa governare il ‘dopo’. E Achille è stato troppo ondivago mentre la smania del nuovo diventava ossessiva. Dopo la batosta di marzo e la batostissima di ieri, Occhetto non può richiamarsi a nessun salvagente, non c’è ‘zoccolo duro’ che tenga. Nel maggioritario chi perde va a casa. E adesso? La gerarchia vede favorito D’Alema – continua De Tomaso – piace alla base. Ha grinta. Sa difendersi e contrattaccare. Il numero tre è Walter Veltroni, il clintoniano. Nella tradizione comunista, spesso era il ‘tre’ che giungeva primo al traguardo. Accadrà la stessa cosa alla Quercia? Qui non si tratta di ricostruire il PDS – conclude De Tomaso – ma l’intera sinistra. Una parola. Di tutt’altro tenore invece l’editoriale del direttore della Gazzetta, Antonio Spinosa… qualche settimana fa incontrai informalmente Berlusconi a Palazzo Chigi. Mi disse che egli intendeva percorrere una strada del tutto


nuova per la politica italiana, lontana dagli schemi del passato cui attribuiva la responsabilità di aver portato il Paese sull’orlo del baratro. Per fare questo però aveva bisogno di un consenso elettorale più vasto, e si aspettava dalle consultazioni europee, non soltanto una conferma del 27 marzo, ma un deciso balzo in avanti. I risultati di domenica 13 giugno – scrive ancora Spinosa – gli hanno dato molto di più: gli hanno tributato un trionfo. Con le dimissioni di Occhetto – che in seguito dirà di essere stato ‘invitato’ da Massimo D’Alema a lasciare la segreteria fin dal giorno dopo la sconfitta elettorale del 27 marzo – si apre nel PDS il toto-segretario. Indro Montanelli, tifoso di Walter Veltroni – scrive De Tomaso – aveva vaticinato foschi presagi per la stessa democrazia italiana, in caso di vittoria di D’Alema. Ma anche Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, Claudio Rinaldi e Gianpaolo Pansa, rispettivamente direttore e condirettore dell’Espresso, conduttori di una serrata campagna di stampa contro D’alema, avevano affermato: se vince D’Alema vuol dire che nel PDS non è cambiato nulla.

D’Alema e Occhetto: cambio della ‘guardia’ nel PDS.

Il primo luglio, il Consiglio nazionale del PDS elegge D’Alema… che studiava da segretario sin da quando portava i calzoni corti, commenta De Tomaso. Eletto segretario D’Alema scandisce, senza enfasi e con grande freddezza, le sue prime parole… si è votato e si è scelto. Ora è finita. Non siamo più il PCI, siamo il PDS… siamo una grande formazione politica autonoma, non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per fare la nostra politica, né a Rifondazione, né a Scalfari. Tiepido, il commento di Spinosa… ho incontrato D’Alema soltanto una volta, quando non era segretario del PDS, e mi parve, nei gesti e nelle parole, gelido quanto un personaggio di antiche tragedie dominato da un’unica idea, quella di annientare il nemico. E senza un sorriso. Naturalmente il raffronto, il parallelo con Berlusconi, è scontato. Alla freddezza di D’Alema, Spinosa contrappone… lo sguardo rassicurante del Cavaliere… un incrocio fra quello di Rodolfo Valentino ne ‘Il figlio dello sceicco’ e quello di un manager della Pasta del Capitano. Ironia? Magari. Spinosa è completamente estraneo all’ironia. La sua ‘simpatia’ per Berlusconi è così palese che anche una stretta di mano – quella del Cavaliere a Giorgio Napolitano per il misurato discorso del deputato dell’opposizione sul programma di Governo – è definita ‘mitica’. Il 18 giugno inizia, negli Stati Uniti, il campionato mondiale di calcio in cui l’Italia non solo partecipa ma, come sempre, è considerata fra le candidate al titolo. Normalmente, in un’altra Italia, il Paese si sarebbe fermato. Ma Berlusconi ha deciso di prendersi qualche rivincita. In particolare: contro il Consiglio di Amministrazione della RAI – i famosi ‘professori’ nominati appena un anno prima – e contro quel… mondo togato a cui se pur siamo grati per aver scoperchiato il vaso di Pandora della corruzione politica e amministrativa del nostro sfortunato Paese – scriveva Spinosa il 13 febbraio – appare tuttavia con chiarezza 307


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che pure nell’animo dei magistrati di Mani Pulite, a causa della loro parossistica azione che ha del paranoico, non si tenda soltanto alla giustizia, ma piuttosto al giustizialismo. La posizione di Spinosa nei confronti di Mani Pulite, non è né nuova né tantomeno unica, ma nessuno l’aveva posta in termini così crudi. Il 27 giugno Spinosa torna sull’argomento e, pur ribadendo l’opera meritoria del pool milanese, sostiene che… da un certo punto in poi gli italiani hanno avuto l’impressione che i magistrati, invece di limitarsi ad amministrare la giustizia, siano trascesi a fare politica… la trasformazione di un grande Paese veniva guidata dai giudici e non più dalla politica democratica… è necessario porre rimedio a questo stato di cose. E, se ho ben compreso l’antifona, mi è parso di cogliere in proposito accenti nuovi dal leader pidiessino Massimo D’Alema. La strada migliore è quella di trovare il modo di dialogare sui fondamenti della convivenza politica. Ma Berlusconi non cercherà la ‘strada migliore’ convinto com’è che sia la Magistratura, sia il PDS di D’Alema, non gli faranno sconti. Il 7 giugno, durante un’affollata conferenza stampa, Il Cavaliere afferma… in nessun Paese al mondo con un Governo democratico c’è una Tv pubblica che attraverso le sue linee editoriali si manifesta antagonista del Governo e della maggioranza. Risponde l’opposizione… per un Leader che si propone di ‘rifondare’ il Paese con una serie di riforme radicali, la concezione di un’informazione pubblica in sintonia con il Governo, con il potere, è fin troppo vecchia. Appartiene alla Prima Repubblica. E tuttavia era vero, si è già accennato, che Berlusconi era stato trattato con preconcetta ostilità… il che valeva per i quotidiani – ammetterà in seguito Indro Montanelli – dove in effetti il fronte dei dissidenti nei suoi riguardi superava di parecchio il fronte dei benevoli, ma valeva soprattutto per la RAI. Del resto, lo stesso presidente uscente della 308 RAI, Claudio Dematté, dirà… Sì, è vero, ci

sono state faziosità. Dunque… c’è voglia di ripulisti, lamenta perfino Pippo Baudo.

Salvare la RAI L’occasione è data dalla necessità di rinnovare il noto decreto ‘salva RAI’, varato dal Governo Ciampi e senza il quale la RAI dovrebbe dichiarare fallimento. Il decreto prevede la copertura dei debiti e l’elaborazione di un piano industriale triennale volto al risanamento e al rilancio dell’Ente televisivo di Stato di proprietà dell’IRI. Ma la Commissione di vigilanza parlamentare ha già fatto sapere al Governo che il piano industriale è così zeppo di pecche che sarà bocciato. Il messaggio è chiaro: o il già contestato Consiglio di Amministrazione dei cosiddetti ‘professori’ si dimette, oppure il decreto salta e la RAI dovrà portare i libri in Tribunale. Si tratta di ‘coprire’ un deficit che va dai 900 ai 1.350 miliardi di lire. Comunque nessuno, neppure Berlusconi, vuole il fallimento della RAI. Il 28 giugno il nuovo decreto è sulla scrivania del Capo dello Stato per la firma. E Scalfaro lo rinvia al mittente: è anticostituzionale. Il decreto è stato emendato in un solo punto: ha tolto il diritto di nomina del CdA della RAI ai presidenti di Camera e Senato e l’ha trasferito alla proprietà, cioè all’IRI. E’ una palese ‘provocazione’ essendo noto, infatti, che l’informazione, ancor più quella pagata dai contribuenti, è un diritto sancito dalla Costituzione e in quanto tale soggetta al controllo del Parlamento. Il 29 giugno, mentre i progressisti parlano di un ‘golpe ad orologeria’ e il ministro delle Poste, Giuseppe Tatarella, si affanna alla ricerca di una mediazione – semplicemente riportando il testo alla sua stesura originale – i ‘professori’ decidono di dimettersi… non vogliamo essere noi la causa di un conflitto istituzionale. Né certo potevamo restare in carica fino alla bocciatura formale del piano triennale senza neanche aver avuto la possibilità di un confronto. E’ evidente la volontà del Governo di avere alla RAI un nuovo Consiglio di fiducia. Il primo ‘braccio di ferro’ dunque, il rinno-


Il ministro della Giustizia Alfredo Biondi.

vo del CdA alla RAI, lo vince Berlusconi. Il secondo, il più impegnativo, inizia praticamente a Bari e il Cavaliere lo perde. Il 4 luglio, il nuovo ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, avvocato liberale, è nel capoluogo pugliese per un incontro con i penalisti della città. Qualche ora prima Biondi s’intrattiene con l’editorialista della Gazzetta Giuseppe De Tomaso. Più che un’intervista, è uno scambio di opinioni a tutto campo, una di quelle conversazioni alla buona davanti ad una tavola imbandita. Si parla di ‘bastian-contrario’ Bossi, di Berlusconi, del mandato d’arresto a Craxi, di Montanelli – che è diventato il capo dell’opposizione del Cavaliere – e, naturalmente, di giustizia, di un suo già chiacchierato e, sembra, imminente provvedimento per una ‘soluzione politica’ di Tangentopoli. Lo sanno tutti – confessa Biondi a De Tomaso – che io non volevo fare il ministro della Giustizia… conosco troppo bene il mio ambiente… e le dico anche che quando qualcuno, fra i colleghi avvocati, avanza delle riserve, sono portato a dargli ragione.

Per la verità, c’è un’altra ragione per cui Biondi non voleva quella delega: gli era stata offerta dopo il clamoroso rifiuto di Di Pietro e, a quanto si dice, neppure Scalfaro era entusiasta dell’alternativa proposta da Berlusconi. Sapere di far parte di una ‘rosa di nomi’ in corsa per un prestigioso incarico di Governo è un conto; sapere altresì di essere subordinato alla decisione di un ‘prescelto’ o addirittura ‘sgradito’, non è piacevole. Ma Biondi non fa cenno alle manovre che lo hanno portato al ministero della Giustizia e, rispondendo a De Tomaso, afferma… io non parlerei di ‘provvedimento per una soluzione politica’. E’ più corretto parlare di ‘soluzione giudiziaria’. De Tomaso insiste… ma sarà un decreto o un disegno di legge? Per essere un decreto – risponde Biondi – dovrà prima ottenere il sì del Capo dello Stato, altrimenti uno dei due va via. Traduzione – scrive De Tomaso – se Scalfaro non firma il Ministro si dimette.

Tangentopoli infinita Lasciamo per un momento il ministro Biondi alla sua iniziativa e torniamo a Tangentopoli. Torniamo cioè al motivo per cui i provvedimenti governativi in materia di giustizia penale avrebbero consigliato approfondimenti e tempi diversi poiché il pool di Mani Pulite ha scoperto un nuovo filone di tangenti che macchia vistosamente la divisa della Guardia di Finanza. Verso la fine di aprile viene arrestato un maresciallo delle Fiamme Gialle con l’accusa di aver intascato tangenti da un imprenditore per evitargli controlli. E’ un caso isolato – dirà Di Pietro ai giornalisti – la Guardia di Finanza è sana. Il 19 maggio però, il pool milanese ordina l’arresto di altri 7 finanzieri – cinque ufficiali e due sottufficiali – con la stessa accusa e l’aggravante che alcuni di loro hanno svolto parte attiva alle ispezioni e perquisizioni disposte da Mani Pulite nella fase più calda di Tangentopoli. All’annuncio dei nuovi arresti, dato perso- 309


Terence Young

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Raul Julia

Scomparsi nel ‘94

Lionel Stander

Ayrton Senna

Raul Julia, protagonista nella versione cinematografica ‘La famiglia Addam’, muore a New York a soli 54 anni. Terence Young, invece, il regista inglese di James Bond, si spegne a Cannes l’8 settembre a 79 anni; 86 ne aveva Lionel Stander, lo straordinario caratterista americano, amato e apprezzato dal cinema italiano, muore in USA il 30 novembre; Fernando Ray, l’attore spagnolo preferito dal grande regista Luis Bunuel, si spegne a Madrid il 9 marzo, aveva 77 anni. Telly Savalas, il calvo ‘tenente Kojak’ di una lunga serie televisiva, muore, a Los Angeles, il 23 gennaio; il giorno prima si spegneva a Parigi, Jean Luois Barrault. Aveva 84 anni, era un grande attore teatrale, regista e mimo straordinario. Il primo maggio, infine, muore ad Imola il tre volte campione del mondo di F1 Ayrton Senna. Aveva 24 anni.

Telly Savalas

Fernando Ray

Jean Louis Barrault


nalmente da Di Pietro palesemente contrariato, un giornalista gli chiede: Signor Giudice ma non avevate detto un mese fa che l’arresto del maresciallo era un caso isolato? Sì, è vero – risponde Di Pietro – ma anche Mario Chiesa – ricordate? – sembrava un caso isolato. Poi abbiamo sfruculiato e, sfruculia oggi, sfruculia domani… insomma, siamo ancora qui a fare il nostro dovere: stiamo togliendo le mele marce dal cesto. Altro che cesto! Il verme della corruzione aveva attaccato un intero meleto. Il 28 giugno è arrestato per concussione il maresciallo Agostino Landi, altro collaboratore di Mani Pulite. Il 5 luglio, l’intero comando della Guardia di Finanza di Milano è scosso da un terremoto: la Procura spicca 6 ordini di custodia cautelare contro i vertici delle Fiamme Gialle accusati di aver chiuso tutti e due gli occhi, nei loro controlli fiscali, in decine e decine di aziende. Si tratta di 5 colonnelli e del generale Giuseppe Cerciello che si rende latitante. Il 9 luglio, mentre il generale si costituisce nei pressi del traforo del Monte Bianco, il maresciallo Landi, che 24 ore prima aveva ottenuto i domiciliari, si uccide sparandosi due colpi di pistola in bocca con la sua arma di ordinanza. E’ l’undicesimo suicida dall’inizio di Tangentopoli. Il 13 luglio, a Trieste, si uccide il generale Sergio Cicogna, comandante della Finanza nella zona Friuli-Venezia Giulia. Cicogna non c’entra con l’inchiesta in corso della Procura milanese, ma nel ’93 era stato accusato, e poi assolto, di truffa e corruzione insieme ad uno dei colonnelli arrestati il 5 luglio. Il giorno dopo, 14 luglio, il gip di Milano, Andrea Padalino, firma 49 ordini di custodia cautelare per 43 imprenditori e 6 altri marescialli delle Fiamme Gialle. I finanzieri sono arrestati, gli imprenditori – fra cui spiccano i nomi di Alberto Falck, erede del più grande gruppo siderurgico privato d’Italia, e Giuseppe Tramontano, amministratore delegato del gruppo Rinascente – ottengono i domiciliari.

Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo componenti il pool milanese di ‘Mani Pulite’.

E’ ancora Di Pietro a commentare gli avvenimenti… questa, purtroppo, non è un’inchiesta di Mani Pulite, ma un’inchiesta su Mani Pulite. Gli inquirenti allora riprendono a ‘visitare’ centinaia di aziende, comprese quelle di Berlusconi – Fininvest, Video Time, Standa, Mediolanum, Mondadori e Pubblitalia – alla ricerca di conti e bilanci ‘truccati’, di ‘revisori’ compiacenti, di corrotti e concussi con un susseguirsi di arresti fra i militi delle Fiamme Gialle e ancora un suicidio: il maresciallo Cataldo Santoro, anche lui non indagato, ma forse, nel timore di esserlo, si toglie la vita con un colpo di pistola in bocca il 22 luglio. E’ dunque in questo clima di rinnovata virulenza di Tangetopoli, esplosa proprio all’interno del pool milanese, che il ministro della Giustizia elabora una bozza di provvedimenti in materia di giustizia penale.

Il decreto salva ladri Il ‘pacchetto giustizia’, come viene definito, è inviato al Consiglio dei ministri il 7 luglio. Ma Berlusconi è in partenza per Napoli dove l’8 si svolgerà il vertice dei G7, i sette grandi Paesi industrializzati. Non è un rinvio di circostanza. C’è, nella maggioranza, qualche divergenza specie sull’iter da seguire. Biondi l’ha presentato come un disegno di legge, altri vorrebbero un decreto straordinario e urgente; Gianfranco Fini pare abbia detto semplicemente: No. 311


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Il 12 luglio il Guardasigilli espone il suo provvedimento alla Commissione Giustizia di Montecitorio che l’approva. Il Consiglio dei ministri sarà chiamato – quando Berlusconi torna da Napoli – a deliberare un decreto legge per limitare la custodia cautelare e un disegno di legge per tutti i reati che prevedano una pena fino a tre anni e 6 mesi. Il 13 luglio – a New York si gioca ItaliaBulgaria valevole per la qualificazione alla finalissima del mondiale – il Consiglio dei ministri approva il ‘pacchetto giustizia’ di Biondi. Poi, di corsa, tutti davanti al televisore per vedere gli Azzurri vincere 2 a 1 sulla Bulgaria e accedere alla finalissima che si giocherà domenica 17 luglio a Los Angeles: gli Azzurri si giocano il titolo mondiale con il Brasile. Alle 8 del mattino di giovedì 14 luglio, il Capo dello Stato firma il decreto Biondi. E si scatena il finimondo. Protestano tutti. Protesta l’opposizione che ha sperato fino all’ultimo in un rifiuto di Scalfaro a firmare… era un atto dovuto – dirà il Capo dello Stato – la Costituzione riconosce soltanto al Governo, in casi straordinari di necessità e urgenza, il potere di adottare provvedimenti aventi forza di legge. Protesta l’Associazione Nazionale Magistrati… con il decreto legge approvato – afferma il suo presidente Elena Paciotti – è stato escluso l’arresto per tutti i reati tipici dei colletti bianchi: il peculato, la corruzione, la concussione, la truffa, la bancarotta e il falso in bilancio. Ci sono tutti i presupposti per dichiararne l’incostituzionalità rispetto all’articolo sull’uguaglianza dei cittadini. Protestano i giornalisti: si dicono ‘imbavagliati’ dall’art. 8 che impone il segreto istruttorio ‘fino alla chiusura delle indagini’; e protesta, clamorosamente, il pool di Mani Pulite. Alle 19,10 dello stesso giovedì – definito, da non pochi giornalisti, il ‘più nero nella storia del pool milanese’ – i procuratori Di Pietro, Colombo, Davigo e Greco distribuiscono, ad 312 una folla di cronisti, un documento firmato da

tutti e quattro e che Di Pietro legge… come un’omelia funebre – annota il corrispondente della Gazzetta da Milano, Sergio Angelillo – in manica di camicia, il nodo della cravatta allentato, scuro in volto, il più famoso p.m. d’Italia comincia a leggere: ‘Fino ad oggi abbiamo pensato che il nostro lavoro potesse servire a ridurre l’illegalità nella società. Per questo abbiamo lavorato intensamente per servire fino in fondo il Paese… l’odierno decreto legge, a nostro avviso, non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti, persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere o a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora persino comprando gli uomini a cui venivano affidate indagini nei loro confronti’. E’ evidente il riferimento alle inchieste sulla Guardia di Finanza. Come magistrati – conclude Di Pietro – abbiamo applicato ed applicheremo le leggi quali che siano… tuttavia, quando la legge, per evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia. Abbiamo pertanto informato il Procuratore della Repubblica della nostra determinazione di chiedere, al più presto, l’assegnazione ad altro e diverso incarico. Il procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, non ha firmato il documento, ma la sua reazione non è molto diversa dai suoi colleghi… è singolare che nell’anniversario della presa della Bastiglia si siano aperti certi squarci nelle mura del carcere di San Vittore. Si dice che il Governo abbia preso questa decisione per riequilibrare la difesa rispetto all’accusa. Mi auguro – conclude Borrelli – che il prossimo passo non sia quello che consente agli avvocati di incarcerare i pubblici ministeri. Venerdì 15 luglio. Altra giornata di passione.


Mentre Berlusconi conferma la validità del decreto… non è un colpo di spugna, ma possiamo discuterne… la Federazione Nazionale della Stampa invita i giornalisti alla ‘disubbidienza civile’… è una violazione etica della legge rispetto alla quale la coscienza della persona non si adegua. I giornalisti – si legge nel comunicato della Federazione Nazionale della Stampa – si assumono tutte le responsabilità… non accetteremo mai la secretazione delle notizie per decreto. Nell’editoriale della stessa mattina, il direttore della Gazzetta, Antonio Spinosa, scrive: Il Governo Berlusconi è al giro di boa. Se supera la tempesta scatenata soprattutto dai magistrati di Mani Pulite sul decreto che si oppone alla carcerazione preventiva indiscriminata e precipitosa, avrà davanti a sé il mare aperto. La navigazione non sarà tranquilla, ma potrà essere certo di aver superato la prova più ardua, quella che gli hanno freddamente proposto gli sconfitti, i quali erano andati alle elezioni di marzo scorso sicuri di vincere e che non si danno pace di aver perso. Che dire sul merito delle norme contestate? La dignità e la reputazione dei cittadini, anche se imputati – prosegue l’editoriale di Spinosa – vanno ognora salvaguardate. Non è con gli scandali che si amministra la giustizia, ma con processi rapidi… non si può tenere un cittadino-imputato, non dico in galera, ma sulla graticola – alla gogna – per anni interi. Ecco perché concordo con il decreto del Governo che propende verso forme di giustizia segreta. La categoria dei giornalisti – conclude Spinosa – ha espresso assai vivacemente la sua contrarietà… è forte la tentazione di fare categoria, di fare corporazione anche in nome della libertà di stampa. Ma deve essere più forte la coscienza di non poter condannare un imputato ancor prima che lo abbia fatto il giudice. Nella maggioranza intanto, gli ‘alleati’ – Lega e AN – cominciano a prendere le distanze dalla nuova presa di posizione di Berlusconi… se il testo del decreto verrà stravolto, il Governo se ne va.

Ma Fini, che quel decreto non l’ha mai condiviso, insiste che sia modificato; l’ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, consiglia il Cavaliere di azzerarlo; il ministro della Sanità, Raffaele Costa, propone di trasformarlo in disegno di legge, i leghisti pure. Diciamo la verità – commenta De Tomaso sulla Gazzetta del 16 luglio – se la corruzione e la concussione non fossero state escluse dal novero dei reati più gravi passibili di detenzione carceraria, nessuno si sarebbe strappato le vesti per un decreto, il cui contenuto era condivisibile da una gran parte delle forze politiche e della opinione pubblica. Di Pietro è un fuoriclasse come Baggio. Ma quanti ‘dipietrini’ hanno commesso falli da espulsione con entrate scivolose per la dignità e la reputazione dei cittadini? Parecchi, come testimonia il fatto che solo una piccola percentuale di imputati risulta colpevole alla fine dei diversi gradi di giudizio. L’aspetto più sconcertante della questione – conclude De Tomaso – è un altro: più che sul merito del provvedimento di Biondi, si litigherà sul resto. Bossi ha già cominciato. Non sarà l’ultimo. Meglio concordare subito i ritocchi ‘giusti’. Infatti, poche ore dopo l’uscita dei quotidiani del 16 luglio, il ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, afferma con sconcertante candore… sono stato imbrogliato, mi

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hanno fatto leggere un testo diverso. La ‘confessione’ è così clamorosa che il portavoce del Governo, Giuliano Ferrara – personaggio dotato di un acume politico di prim’ordine, ma notoriamente privo di diplomazia – lo taccia di… infantilismo e dilettantismo politico. La verità – verrà fuori dopo – è che Maroni quel testo proprio non l’aveva letto. Presentato per la seconda volta al Consiglio dei ministri la sera dell’incontro di calcio ItaliaBulgaria, Maroni si era limitato a chiedere al collega Biondi se fossero state apportate modifiche rispetto al precedente e, avutone assicurazione contraria, l’aveva firmato per precipitarsi, come tutti, davanti al televisore. La reazione di Berlusconi è scontata… Maroni smentisca le insinuazioni sul decreto o si dimetta. Pronta la difesa d’ufficio di Bossi… il Ministro non deve lasciare e non deve chiedere scusa a nessuno. Il Governo trasformi il decreto in disegno di legge. Ma se sarà portato in Parlamento così com’è, la Lega voterà contro. Intanto, cominciano a venir fuori i nomi dei ‘beneficiari’ per effetto del decreto e quando si apprende che è stato scarcerato Francesco De Lorenzo, Giulio Di Donato – l’ex vice segretario di Craxi – e la moglie di Poggiolini, Pierr Di Maria, la protesta, da tecnico-politica, si trasforma in una vera sollevazione di popolo. Il 16 luglio la tensione è al massimo. Si arrivano ad ipotizzare perfino nuove elezioni politiche, ma ecco che, ventiquattro ore dopo, alle 21,30 di domenica 17 luglio, il decreto Biondi, le polemiche nella maggioranza, la reazione del pool di Mani Pulite, le vibrate proteste dell’opposizione, l’indignazione dei giornalisti e delle gente per i tangentisti liberi e perfino l’io concordo del Direttore della Gazzetta, diventano discussioni, argomenti e pensieri da mettere ‘in pausa’. Dopo, se ne parla dopo la sfida mondiale fra Italia e Brasile dove non c’è solo il ‘titolo’ in palio, ma la rivincita di quella finale persa nel lontano 1970 314 nel mitico stadio Azteca di Città del Messico.

E l’Italia perde. Zero a zero dopo i tempi regolamentari; zero a zero dopo i supplementari e 2 a 3 per il Brasile ai rigori. Roberto Baggio, il calciatore più rappresentativo e controverso nella storia del calcio italiano, ha spedito sopra la traversa il pallone che ci avrebbe consentito di continuare la giostra dei rigori ad oltranza. Il 18 luglio, anche la maggioranza di Governo, scossa dai fischi dei suoi stessi sostenitori, decide di ridimensionare sogni e propositi di rivincite. La tentazione di segnare un penalty al pool di Mani Pulite è forte, ma se poi va sopra la traversa? Si corre il rischio di fare la fine degli ‘altri’ Azzurri, tornati a casa pesti e piangenti. L’aria di crisi, dunque, comincia a rarefarsi. Il primo gesto di distensione viene proprio da Bossi… abbiamo fatto il Polo delle libertà perché governi – sostiene il Senatur – ma fino a quando non avremo ottenuto certi smottamenti, è inutile andare a nuove elezioni… Maroni non può dimettersi da ministro degli Interni. Lo ha proibito la Lega. E’ Berlusconi ad aver sollevato un polverone pretestuoso e polemico per tentare di coprire la rabbia e l’opposizione di tutto il popolo italiano, insorto contro lo scoperto tentativo di riportare a galla i rottami di Tangentopoli e di ricostruire il regime dei gattopardi e dei boiardi. Poi, com’è nel suo stile, scocca la freccia avvelenata… se Berlusconi vuole la crisi, vi saranno altre soluzioni per garantire agli italiani un’autentica, onesta governabilità. Il Cavaliere non raccoglie la ‘provocazione’ di presunte ‘altre soluzioni’ ventilata da Bossi – anche se circolano insistenti voci di ‘corteggiamento’ del PDS alla Lega – al presidente del Consiglio interessa sapere che Bossi non vuole la crisi e quindi ripete… il decreto si può cambiare… non c’è ragione per aprire la crisi di Governo. Il 19 luglio, la Gazzetta pubblica, in prima pagina, un articolo dell’editore Giuseppe Gorjux dal titolo: Berlusconi, ma perché? E’ vero che alcuni magistrati – alcuni ma



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comunque troppi e in troppi casi – hanno travisato ed abusato della custodia cautelare… ma perché varare improvvisamente un decreto sulla carcerazione preventiva? Perché offrire un inatteso cavallo di battaglia ai progressisti e ai suoi stessi alleati leghisti? Come mai proprio Berlusconi ha compiuto una mossa politicamente tanto rischiosa? I ‘principi’ ispiratori del decreto sono di innegabile, progredita civiltà giuridica e sociale – continua Gorjux – ma perché ricorrere alla decretazione d’urgenza, quando la proposta di un disegno di legge avrebbe consentito una più chiara definizione delle posizioni in Parlamento con minor possibilità di strumentalizzazioni ed ambiguità? Perché non distinguere, ad esempio, fra corruzione e concussione? Perché definire ‘minori’ quei reati che hanno minato alla base la democrazia italiana e ne hanno sfigurato l’immagine? Non ci si poteva illudere – conclude Gorjux – che la repentina scarcerazione di certi personaggi non sconcertasse l’opinione pubblica. C’è gente trattenuta ingiustamente? C’è di sicuro. Però non sarebbe stato difficile ai giuristi che assistono il Governo, calibrare opportunamente il provvedimento. Qualunque sia la sorte del decreto, l’unica valida, vera risposta che lo Stato può dare, sta nella rapidissima celebrazione dei processi a carico degli indagati. Nessun ‘io concordo’ dunque, ma una seria, lucida riflessione sui problemi che affliggono la giustizia. Spinosa però insiste… la reazione del pool di Mani Pulite al decreto Biondi dimostra che essi si comportano non come magistrati, ma come uomini politici in presa diretta con la gente… dimostra, con chiarezza, come essi abbiano assunto un ruolo eminentemente politico, ponendosi un obiettivo ben preciso: quello di abbattere Berlusconi. Ma ai magistrati – continua Spinosa – manca la legittimazione per svolgere a pieno titolo l’ambito ruolo politico… Berlusconi li ha istigati a ottenere un mandato dal popolo 316 sovrano e non è detto che quelli di Mani

Pulite e i loro epigoni, distribuiti sul territorio nazionale, non ci abbiano pensato. Per ora il pool fa proseliti, grazie a quella sorta di terrorismo giudiziario di cui i piccoli Robespierre sono capaci… ma se quelli del pool scenderanno nell’agone politico – conclude Spinosa – chi oggi li sostiene dovrà domani fare i conti con loro. Quando si semina vento non si può che raccogliere tempesta. Dunque, se proprio non si può parlare di ‘posizioni contrapposte’ fra il Direttore e l’Editore della Gazzetta, c’è quantomeno una divergenza d’opinione. Certamente non è l’editoriale di Gorjux – insieme a tanti altri autorevoli commenti dello stesso tenore – a indurre il Governo alla cautela. Resta il fatto che alla fine di una frenetica giornata di consultazioni, ‘arbitro e segnalinee’ concordano che, dopotutto, il ‘rigore’ nell’area dei magistrati non va dato: è appurato che il centravanti di sfondamento, Alfredo Biondi, ha accentuato la caduta. La sera del 19 luglio, il Governo annuncia il ritiro del decreto-Biondi che viene invalidato dalla mezzanotte del 20 luglio. In una settimana, dal 14 al 20 luglio, per effetto del decreto sono stati scarcerati 2.739 detenuti in attesa di giudizio. Alcuni sono semplici indagati, altri in attesa di giudizio… di questi – dirà il ministro Biondi – soltanto 164 erano indagati per delitti contro l’Amministrazione


riconducibili a Tangentopoli. De Lorenzo e Di Donato tornano in carcere, altri, come la moglie di Poggiolini, mai più. Il 22 luglio il Consiglio dei ministri trasforma e approva l’ex decreto-Biondi in disegno di legge – emendato dalle norme sulla custodia cautelare per i reati di concussione e corruzione oltre che dall’articolo che prevedeva il ‘segreto’ sull’avviso di garanzia – e Mani Pulite torna alla grande.

La retata Ventiquattro ore dopo scatta, fra la Sicilia e la Lombardia, un’operazione giudiziaria concentrica che i mass media definiscono… la grande retata. In Sicilia finiscono in manette l’ex ministro socialista alla Difesa, Salvo Andò; l’ex presidente democristiano alla Regione, Rino Nicolosi; l’ex deputato dello stesso partito, Antonino Drago; un ex assessore regionale, il direttore sanitario dell’ospedale di Siracusa, un imprenditore e un ex deputato del PCI, Angelo Mancuso. Sono tutti accusati di aver preso tangenti dal presidente dell’Inter, Ernesto Pellegrini, titolare di un’azienda nazionale per la ristorazione collettiva, già arrestato il 7 luglio. A Milano, invece, il pool di Mani Pulite, chiede e ottiene 20 ordini di custodia cautelare ancora per l’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Si tratta di ufficiali, sottufficiali, dirigenti d’azienda, commercialisti, il responsabile finanziario della Fininvest, il direttore generale della Gemina, la finanziaria che controlla Il Corriere della Sera, e l’imprenditore Roberto D’Alessandro, costruttore di elicotteri, che avrebbe preso una tangente di 2 miliardi e mezzo per la vendita di elicotteri destinati alla Protezione Civile: si sarebbe finto ‘intermediario’ vendendo i suoi stessi elicotteri attraverso società di comodo. La retata continua. Il 26 luglio il giudice Andrea Padalino spicca altri 6 ordini di custodia cautelare contro un altro dirigente amministrativo della Fininvest, Salvatore Sciascia, tre ufficiali delle Fiamme Gialle e due consulenti

di Mediobanca. Il 27 corre voce di un ‘avviso’ per il Presidente del Consiglio subito smentito da Borrelli. L’avviso c’è, ma non per Silvio Berlusconi, bensì per il fratello Paolo – ed è il secondo – che messosi a disposizione degli inquirenti ottiene, ancora una volta, gli arresti domiciliari. L’ultimo arresto di questo infuocato luglio, riguarda ancora un colonnello della Guardia di Finanza, Giuliano Montanari, componente, all’epoca dei fatti che gli vengono contestati – 1990 – il nucleo regionale di Polizia tributaria di Milano e, successivamente, collaboratore del pool di Mani Pulite. Montanari avrebbe intascato una mazzetta di 150 milioni in cambio di una compiacente verifica fiscale ad una catena alberghiera. Ma non è finita per gli agenti della Finanza. Ancora qualche arresto all’inizio di agosto e poi un’altra, grande retata il 15 settembre: 29 ordini di custodia cautelare. Finiscono in manette un altro colonnello, Angelo Tanca, ex capo della DIA a Milano; 9 graduati e 19 persone fra imprenditori, commercialisti e consulenti finanziari in vari settori dell’industria, del commercio e perfino dell’alta moda… dopo i primi, superficiali controlli degli ispettori – diranno Giorgio Armani e Gianfranco Ferrè a Di Pietro – i nostri commercialisti ci consigliavano di pagare al fine di evitare lunghi e approfonditi controlli in grado di bloc-

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care l’attività. E noi abbiamo pagato. Non c’è tregua per le Fiamme Gialle… se sarà necessario – dichiara Piercamillo Davigo ai giornalisti – rivolteremo l’Italia come un calzino perché la Guardia di Finanza non deve essere corrotta. Ma così non può continuare. E il primo a rendersi conto che qualcosa bisogna fare per uscire da Tangentopoli, è Antonio di Pietro che il 3 settembre presenta, ad un meeting degli industriali, a Cernobbio, una proposta, molto applaudita dagli imprenditori ma che, misteriosamente, non ha la stessa rilevanza dalla stampa nazionale. E’, invece, oggetto di commenti su tutti i quotidiani quando Di Pietro la illustra agli studenti della Statale di Milano il 14 settembre. Il 16 settembre, Mario Cervi, in un editoriale per la Gazzetta, scrive: La nuova raffica di arresti di Mani Pulite è tale da togliere ogni illusione a chi pensasse che gli uomini del pool milanese, impegnati nell’elaborazione del loro progetto su Tangetopoli, avessero chiuso la caccia ai corrotti. La caccia rimane più che mai aperta… gli amanti della dietrologia possono spingersi anche oltre: supporre che l’ennesima offensiva della Procura di Milano rappresenti una sorta di ammonimento per quanti hanno accolto con obiezioni o con sospetto la prospettata uscita di sicurezza da Tangentopoli… ma chi, come noi, diffida della dietrologia, si attiene alla spiegazione più semplice: il pool non ha voluto in nessun modo strumentalizzare i mandati di cattura, si è limitato a fare il suo dovere. Tuttavia – prosegue Cervi – questo rastrellamento insegna alcune cose che al progetto di Mani Pulite si collegano direttamente. La prima è che, al pari di quella politica, la corruzione amministrativa non può più essere considerata episodica. Il Palazzo aveva inquilini onesti, ma il suo attingere alla greppia delle tangenti era sistematico; gli uffici finanziari o tributari possono contare su tanti funzionari, ufficiali e sottufficiali probi, ma esisteva, e prosperava, una rete di complicità che

riesce difficile ricondurre sempre a responsabilità personali, o a un ambito locale. La filosofia dello schema legislativo del pool di Mani Pulite – conclude Cervi – è questa: diamo a chi ha peccato, ma è disposto a non farlo più, il modo di redimersi restituendo il mal tolto e denunciando i correi. Sfuggirà così ad una condanna. Chi perderà questa opportunità, pagherà le sue colpe più duramente che in passato. Io ritengo, come molti altri, che in questo momento uno sforzo per ripulire sbrigativamente le fogne di Tangentopoli non possa venire dai politici, né da un’amministrazione pubblica inquinata e complice di trascorse nefandezze. Ma uno Stato nel quale il potere giudiziario fa le leggi e le applica, è in preda alla confusione. E’ questo, infatti, il punto che accende interminabili polemiche. Il problema non è il progetto del pool, ma la legittimità dei magistrati ad intervenire in materia di leggi di esclusiva competenza del Parlamento. Tuttavia, la questione posta da Di Pietro è troppo importante per lasciarla cadere e la maggioranza apre una discussione, ne parla, ne discute, si scalda, si divide e si ricompatta. Per il vice presidente del Consiglio, Giuseppe Tatarella, noto come ‘ministro dell’armonia’, la proposta di Di Pietro… è l’inizio di un colloquio… ho sempre sostenuto che Di Pietro andava associato al Governo in quanto rappresentava l’origine della Seconda Repubblica… è lui che ha posto le fondamenta: il nostro Governo è figlio di Mani Pulite. Ma è stato Di Pietro, il 7 maggio, a rifiutare il dicastero della Giustizia offertogli direttamente da Berlusconi… no, grazie Cavaliere. Non posso accettare. Perché allora questa proposta che ha tutta l’aria di un ripensamento? Possibile che il più abile e ammirato p.m. d’Italia non abbia considerato che la maggioranza l’avrebbe accolta con freddezza, specie dopo la clamorosa presa di posizione del pool contro il decreto del Governo? A me pare – sostiene infatti il ministro 319


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Biondi – che si voglia chiudere un capitolo di ostilità e aprirne uno di collaborazione. Ma ognuno deve mantenere la sua autonomia e indipendenza: le leggi le fa il Parlamento. Non le fanno né i giudici, né gli avvocati, né gli industriali. La polemica continua. C’è chi non solo comincia a discutere nel merito la proposta Di Pietro, ma c’è anche chi insinua che Di Pietro abbia, dopotutto, riconsiderato l’offerta di Berlusconi. Ad escludere la seconda ipotesi è lo stesso capo della Procura di Milano, Borrelli, considerato, fra l’altro, l’ispiratore del progetto che porta anche la firma di Piercamillo Davigo. Borrelli è chiaro e sintetico… nessun magistrato del pool di Mani Pulite accetterà incarichi di Governo… non ci faremo attirare dalle lusinghe del ‘potere’. Sgombrato il campo da un presunto rimpasto di Governo con uomini del pool, resta la discussione sulla proposta. Per la Lega, il progetto Di Pietro… giunge come il cacio sui maccheroni; per Fini… è una proposta opportuna e percorribile; per Casini… è un passo completamente sbagliato; per il portavoce del Governo, Giuliano Ferrara… è un attentato alla Costituzione; per l’autorevole esponente del PDS, Giorgio Napolitano… non è né una via d’uscita da Tangentopoli, né una soluzione politica; per D’Alema, che non nasconde il rammarico per… la rissa indecente che colpisce l’opinione pubblica e gli interessi del Paese… il problema è di una semplicità estrema: è utile che proposte e suggerimenti in materia di politica giudiziaria vengano dai magistrati. C’è un solo modo per affrontare la questione: le forze politiche facciano le proprie proposte, il Parlamento ne discuta e la maggioranza, se non è in grado di assumere una posizione, se ne vada. Il presidente del Consiglio taglia corto… condivido la preoccupazione che muove Di Pietro… i giudici però devono fare il loro mestiere senza interferenze. Se vogliono governare si facciano eleggere dal popolo. Tuttavia, 320 apprezzo lo spirito costruttivo della sua pro-

posta: è un utile contributo. Punto e basta. La discussione è chiusa. La proposta di Di Pietro è morta. Le polemiche nella maggioranza sono finite… per ora. Il presidente del Consiglio ha altre gatte da pelare. Prima fra tutte, la mai risolta questione del ‘conflitto d’interesse’ sollecitata dall’opposizione, da Bossi, dai continui controlli della Guardia di Finanza a tutte le sedi amministrative del suo impero mediatico-editoriale, e dai mass media.

L’Editore, il Direttore, la Gazzetta Il 24 luglio, il direttore della Gazzetta, Antonio Spinosa, sollecitato da un articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, torna a tessere le lodi del Cavaliere. Panebianco afferma che il presidente del Consiglio dovrebbe considerare con maggiore serenità il problema del ‘conflitto d’interesse’, altrimenti

Antonio Di Pietro: io, ministro del Governo Berlusconi? No, grazie.


ci sarebbe da concludere che la mancanza di senso dello Stato che caratterizzava la Prima Repubblica persisterebbe nella Seconda. Le Cassandre sono immortali – commenta Spinosa – per fortuna il dio Apollo le ha condannate a non essere credute. A questo punto sarebbe bene accennare, a beneficio dei più distratti, alle novità che pure si sono avute con il nuovo Governo, il quale, come dice Berlusconi, fa tanto bene il suo dovere da poter annunciare l’imminente creazione di duecentomila posti di lavoro. Che dire poi – continua Spinosa – d’una manovra finanziaria cui si ricorre senza implicare una lira di nuove tasse? Tra le altre cose, a tappare i buchi, sarà il condono edilizio – approvato per decreto due giorni prima – un salutare patteggiamento nella soluzione delle controversie tra fisco e contribuenti, invece dell’abusato e impopolare aumento dei prezzi delle sigarette e benzina, come si pensava dovesse avvenire perfino con Berlusconi, ma lui, di persona, ha bloccato la vecchia logica delle stangatine. Tutti conoscete la piaga degli esami di riparazione. Ebbene – conclude Spinosa – ci voleva questo Governo per abolirla in un sol colpo. Spinosa ignora volutamente che un altro grande tema di polemica con l’opposizione sono proprio i condoni ed i patteggiamenti fiscali… provvedimenti fra i più odiati dalla gente perché premiano i più furbi. Ventiquattro ore dopo, lunedì 25 luglio, Gorjux, torna a ‘frenare’ l’entusiasmo di Spinosa per il Governo Berlusconi. Va bene – scrive l’Editore – c’è una classe politica ‘nuova’. Ma dov’è il Sud nella politica del Governo? Finora, a parte qualche retorico accenno alla ‘centralità del problema meridionale’, non sembra essersi concretamente preoccupato. Quasi fosse argomento che è meglio per tutti dimenticare, quasi fossero vere e conclusive le diffamazioni portate avanti per giustificare una politica che può solo arrecare danno all’intera Nazione. E’ ora che anche i ‘nuovi’ – maggioranza e opposizione – dichiarino le loro posizioni. Ed è ora

che indichino una linea chiara per il riequilibrio delle realtà economiche ed infrastrutturali del Paese. E’ chiedere troppo? Più che dialettica politica – normalmente un non-sense fra l’Editore e il Direttore dello stesso quotidiano – è una partita di ping-pong. Spinosa continua a cercare di ‘allineare’ la Gazzetta verso la stampa ‘amica’ di Forza Italia – poca per la verità – l’editore Gorjux cerca di conservarle un minimo di indipendenza. Gorjux continua a denunciare l’assenza di… provvedimenti basilari atti a favorire la ripresa economica, l’occupazione, la produttività delle aziende, la lotta alla criminalità, la trasparenza nella gestione pubblica insieme all’arroganza della maggioranza e la preconcetta, velenosa, opposizione degli antagonisti al Governo. Concludendo che… l’essenza vera della democrazia compiuta è lungi dall’essere compresa o realizzata dagli uni e dagli altri… e Spinosa continua a magnificare il Cavaliere. Gorjux riconosce che… la gran parte dei giornali si dimostra pregiudizialmente ostile a questo Governo, che trae la sua legittimazione dalla sovranità dell’elettorato… ma legittime e doverose sono la contrapposizione dialettica sulle impostazioni, la critica oggettiva, la denunzia degli errori che non sono mancati. Berlusconi – abituato al ‘comando’ nel suo impero personale – sembra non rendersi conto che, in un regime di libera pluralistica informazione, gli ‘attacchi’, che a torto o a ragione, gli vengono sistematicamente mossi, sono inevitabili, anche quando appaiono ingiusti, strumentali o tendenziosi… dunque non ha senso ed è certo controproducente, irridere ai giornali. E Spinosa, il 21 agosto, tre giorni dopo la sopracitata nota di Gorjux, scrive… per fronteggiare l’attuale disordine politico – in gran parte artificiosamente provocato da chi non si arrende alla sconfitta di marzo – muoverei qualche rilievo al Cavaliere, così corrosivo com’è, nelle esternazioni dei giornalisti. Il suggerimento che oggi ardisco rivolgergli è 321


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morale e sostanziale di giudicare, momento per momento, l’opera di chi, per delega della maggioranza popolare, li governa… non si tratta di stare alla finestra aspettando di vedere opportunisticamente quel che accade. Ma di valutare le situazioni con responsabilità e ragionevolezza… è sui fatti che si dovrà esprimere il giudizio, per quanto possibile sereno, dei cittadini e dei giornali. Nessuna cambiale in bianco dunque – conclude Gorjux – crediamo che questo sia lo schieramento della razionalità e del buon senso. Il nuovo direttore della Gazzetta, Franco Russo.

questo: non ti curar di lor, ma guarda e passa. Ora sono in attesa che Berlusconi offra il suo volto nuovo ai detrattori, politici e giornalisti, intellettuali e no, grilli parlanti d’ancien regime. Settembre è vicino – conclude Spinosa – e non sarà tempo di migrare. Non ancora per Berlusconi, ma lo è ormai per lui. Il 24 agosto l’editore Giuseppe Gorjux scrive la parola fine a questo duettare a colpi di fioretto. In un editoriale dal titolo ‘Chi non è con noi è contro di noi’ Gorjux scrive: In poche parole, è questa la posizione di chi oggi invita il mondo degli intellettuali e dell’informazione a ‘schierarsi’ da una parte o dall’altra, cioè pro o contro Berlusconi… nessuno può mettere in dubbio il legittimo diritto di ‘schierarsi’. Il pericolo sta, appunto, nella pretesa – presentata sotto forma di sfida morale – che ci si schieri pregiudizialmente e totalmente, anzi totalitariamente, da una parte o dall’altra. Ciò significa negare libertà alla stampa, rendendola schiava, se non di altro, dei pregiudizi ideologico-politici che tutti – sinistra, destra e centro – hanno dichiarato di voler cancellare… votando come hanno votato a marzo… gli italiani hanno dimostrato in primo luogo la volontà di abbattere proprio quei 322 pregiudizi… hanno rivendicato la libertà

Spinosa... lascia Il 30 agosto, in un brevissimo comunicato in fondo alla prima pagina della Gazzetta, la EDISUD, società di gestione del giornale, informa i Lettori che… per ragioni e valutazioni strettamente personali, Antonio Spinosa ha presentato le dimissioni dall’incarico di direttore responsabile della Gazzetta. La Società editrice nel prenderne atto, ringrazia il dott. Spinosa per l’opera svolta e affida la reggenza al vicedirettore Franco Russo. Un comunicato che, nella sua asetticità, salva capre e cavoli. Ma Spinosa non ha gradito e il 31, in un articolo di seconda pagina dal titolo ‘Le ragioni di Spinosa’, si sfoga… motivazioni personali un corno! La Società non solo nasconde la verità sulle mie dimissioni – incertezze editoriali nella ristrutturazione degli organici, ritardi diffusionali, deficienze redazionali, in particolare dei vertici, ed eccessiva conflittualità interna – ma si cerca pure di gettare ombre sul mio comportamento… la mia decisione non è improvvisa ma era nell’aria… al mio forte impegno non è corrisposta un’eguale azione da parte dell’Editore e, non avendo fiducia nelle prospettive, sono costretto a rassegnare le dimissioni… alcuni giornali hanno attribuito le mie dimissioni a contrasti con la proprietà sulla linea politica, nel senso che sarei stato troppo filo-berlusconiano. Ma questo è un altro discorso sul quale potrò tornare in un secondo momento.


E ci torna. Eccome se ci torna. Pieno di rancore Spinosa concederà interviste a destra e a manca, affermando inesattezze, facendosi passare per vittima, attribuendosi meriti inesistenti – come l’aumento della diffusione – e, a conferma del suo smodato egocentrismo, lamenterà il mancato sfruttamento della sua immagine quale scrittore di successo. Un falso facilmente dimostrabile consultando la collezione della Gazzetta. Per mesi il giornale ha pubblicato vecchie interviste, racconti, recensioni, ‘carteggi’ e ricordi di quasi mezzo secolo di vita professionale del dottor Spinosa. Né sono mancati aneddoti su personaggi e frequentazioni di un certo livello politico e intellettuale vantati da Spinosa e del tutto normali per una persona che ha fatto giornalismo per cinquant’anni. Ma il vero, grande cruccio di Spinosa è la delusa aspettativa di assumere la direzione politica de ‘Il Mattino’ di Napoli, testata, come ricordato, gestita dallo stesso gruppo editoriale della Gazzetta. Dal 1992 il prestigioso quotidiano napoletano è in caduta libera per l’ostinato impegno del direttore, Pasquale Nonno, nel tentativo di difendere la classe politica democristiana partenopea compromessa con Tangentopoli. Nonno è stato avvicendato nel ’93 da Sergio Zavoli, uno dei più quotati giornalisti italiani, con l’evidente scopo di fermare l’emorragia di Lettori e rilanciare l’antica testata napoletana. Ma il tentativo è stato vano. Il Mattino continuava a perdere copie. Zavoli, non è ‘uomo d’azienda’ e la ‘poltrona’ di Direttore di un quotidiano richiede abnegazione e sacrifici che Zavoli non è disposto a concedere. I suoi interessi professionali e culturali, la cura della propria immagine lo tengono troppo spesso lontano da Napoli. In breve, Zavoli si sente ‘inseguito’ e oppresso dagli editori, Gorjux e Romanazzi, che a loro volta lamentano pochezza di risultati. Il Mattino insomma non decolla e nella primavera di quest’anno ‘voci’ di un Zavoli in partenza sono sempre più ricorrenti.

E’ in questo contesto che nasce, più che la promessa, l’aspettativa di Antonio Spinosa. Ma un ‘chiarimento’ fra Zavoli e gli Editori tarda e quando Zavoli, il 15 settembre, finalmente si dimette – la RAI gli ha offerto la direzione di RAI 3 – Spinosa ha già lasciato la Gazzetta. L’ironia vuole che mentre Zavoli rinuncia all’offerta di RAI 3 per questioni economiche, Spinosa, che per soddisfare il proprio narcisismo non bada a spese, accetta di dirigere Videosapere, sulla stessa rete. La tentazione di accennare soltanto qualche commento di esperti analisti della televisione sulla gestione di Spinosa a ‘Videosapere’, è forte, ma non attiene alle cronache di questa ‘Finestra’. Sono rilevanti, invece, le conseguenze delle sue improvvise dimissioni: devastanti, come vedremo, soprattutto sul piano dell’immagine della Gazzetta.

Il nuovo Direttore A Spinosa dunque succede Franco Russo. Il 12 ottobre, il Consiglio di amministrazione della Gazzetta trasforma la ‘reggenza’ in convalida. Russo non è uno di quei personaggi che passano la loro vita per realizzare un obiettivo. Uomo d’intuito, con le ‘antenne’ sempre pronte, egli sa come utilizzare e sfruttare i rapporti personali. Sempre vigile riesce, prima di altri, a individuare il ‘treno’ buono e, quando questi arriva, non se lo lascia sfuggire. Né manca di capacità professionali. Già con Gorjux direttore, Russo è considerato ‘uomo di fiducia’ di Stefano Romanazzi, ruolo che consolida con Spinosa che il 3 maggio lo nomina vice Direttore ‘vicario’. Da quel momento Russo è praticamente direttore in pectore. E’ lui il collegamento fra Spinosa e Romanazzi; è Russo che ‘suggerisce’, in fase di ridistribuzione degli incarichi in redazione, chi-deve-andare-dove; è lui il mediatore nella successiva intesa per l’organizzazione del lavoro fra il Comitato di redazione e l’Editore; lui diventa il nuovo punto di 323


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riferimento della redazione nei rapporti con il Direttore; è Russo insieme a Spinosa, entrambi ‘bruschi’ nei rapporti con colleghi e maestranze, ad alimentare la conflittualità interna; ed è infine Russo ad iniziare una serie di articoli fortemente polemici con la Magistratura barese. Una polemica che avrà, per Russo in prima persona e per la Gazzetta di conseguenza, un costo altissimo poiché i magistrati non accettano impunemente di essere ‘processati’ e l’opinione pubblica non è certo ben disposta verso quanti tentano di gettare ‘ombre’ sul loro operato. Le conseguenze di Tangentopoli sono gravissime. Stanno mettendo in serio pericolo l’economia del Paese. La credibilità imprenditoriale, lo stesso sistema produttivo, rallentando o addirittura fermandosi, com’è il caso della aziende impegnate nelle opere pubbliche, espelle centinaia di migliaia di lavoratori, ma ciò non di meno, l’opinione pubblica non tifa certo per i tanti, e sono propri tanti, corrotti e concussi sia pure presunti. C’è sì, in molta parte della stampa politica e indipendente, una certa ‘insofferenza’ verso alcuni procuratori che tendono ad assumere la stessa arroganza delle loro vittime, ma quando gli scandali superano l’immaginazione, quando quei procuratori usano gli stessi sistemi anche contro i loro colleghi o contro chi è preposto alla vigilanza ed ai controlli, arrestando numerosi agenti e graduati della Guardia di Finanza, la gente, i cittadini, non vogliono sentir parlare di ‘protagonismo’ dei giudici, di abuso della carcerazione preventiva, di ‘pressione psicologica e morale’ e meno che mai di ‘sconti’ o di cautele nelle denunce. Del resto, non si può certo dire che tangenti, corruzione, frodi e quant’altro siano fenomeni in attenuazione. Anzi, si continua a ‘navigare’ nell’illecito come si naviga su Internet: illimitatamente. Nel Meridione poi, rispetto a Tangentopoli c’è la stessa convinzione che i settentrionali hanno del fenomeno mafioso-camorristico. I 324 primi sono convinti che gli illeciti di carattere

politico-finanziario appartengono solo alle ricche regioni settentrionali. I secondi credono che la criminalità organizzata è un fenomeno tipicamente meridionale. A ciascuno il suo, insomma. Ma non è così. Ce n’è per tutti: per il crimine organizzato, che alligna ovunque, e per quanti, con intrecci multipli, fra politica, mafia e affari, si sono costruiti imperi finanziari degni di case regnanti. E alla fine cadono anche i ‘Re’.

Il Re del grano Il 21 aprile è arrestato a Foggia Pasquale Casillo, un imprenditore campano che da anni vive e lavora nel capoluogo dauno, noto nel ‘jet set’ imprenditoriale come il ‘Re del grano’. Il 5 maggio cade un altro ‘Re’, Francesco Cavallari, il ‘Re Mida’ della sanità privata barese. Il 20 settembre finisce in carcere Antonio Gava, ex ministro democristiano e ultimo ‘Re di Napoli’. Tre ‘regni’ politico-imprendi-

L’imprenditore cerealicolo Pasquale Casillo.


toriali finiti nella polvere nel peggiore dei modi: sono accusati di corruzione, truffa e associazione a delinquere di stampo mafiosocamorristico. A far scattare le manette ai polsi di Pasquale Casillo prima e di Antonio Gava poi, sono i camorristi pentiti Pasquale Barra, Salvatore Chiarabella, Pasquale Galasso, Carmine Alfieri e Salvatore Annacondia detto ‘manomozza’, il tranese dagli occhi blu più ‘ciarliero’ nella storia della criminalità pugliese. L’arresto di don Pasquale Casillo era annunciato. Da un anno ormai le sue 59 ‘chiacchierate’ Società sono praticamente nelle mani di 42 banche che vantano crediti per 1.350 miliardi di lire. Fra tutte, la più esposta è la Cassa di Risparmio di Puglia che oltre a vantare un vecchio credito di 162 miliardi, alla vigilia del crack gli ha concesso un ulteriore prestito di 13 milioni di dollari pari a 21 miliardi di lire. Ma anche la Banca Popolare di Bari reclama dai Casillo un credito di 28 miliardi. Don Pasquale, dunque, era già un imprenditore in fase discendente. Da circa un anno le sue aziende sono ferme, i granai vuoti, gli oltre 1.500 dipendenti, di cui 400 solo nel Foggiano, sono in cassa integrazione, le banche gli hanno chiuso tutti i rubinetti, anzi, preoccupate di perdere i loro crediti, si sono coalizzate ed impegnate ad elaborare un piano di risanamento societario. In più, don Pasquale sa bene che, oltre ai carabinieri e alla Finanza, che da anni indagano sui suoi affari, ora ha alle calcagna anche la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Infatti, quando gli agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta del suo lussuoso attico di viale Di Vittorio, a Foggia, Casillo per nulla sorpreso esclama… finalmente, sono 15 anni che sto in galera. Ora potrò difendermi. Ma come è potuto accadere che un gruppo societario, una holding che vanta un patrimonio di 2.000 miliardi di lire si sia improvvisamente dissolto? Perché la base degli affari della famiglia Casillo – si legge nelle 105 cartelle del provvedimento di cattura – è costella-

ta di illeciti, truffe, evasione fiscale e di connivenze e commistioni con esponenti politici, della finanza, dell’economia, della pubblica amministrazione e della camorra. Don Pasquale, poi, ci ha messo del suo. Attivissimo, intelligente e impulsivo, Casillo è capace di fiutare un ‘bisniss’, come dice lui, lontano un miglio. Dotato di una personalità prorompente e di un smodato desiderio di grandezza, don Pasquale è, si legge ancora nell’ordinanza della DdA… un uomo temibile, potente e spregiudicato. Negli anni di maggior splendore dell’azienda di famiglia, dal 1984 al ’92, Casillo era noto come il Gardini del Sud. Anche don Pasquale, come il suicida imprenditore di Ravenna, ha costruito la sua fortuna con il commercio del grano e dei cereali. Perfino Berlusconi, che con Casillo condivide la passione per il calcio, lo ritiene più ricco di lui. Il fondatore della ‘Casillo Grani’, che possiede mulini, pastifici e silos persino negli Stati Uniti, è il padre, Gennaro Casillo. La famiglia Casillo è di San Giuseppe Vesuviano, un grosso centro agricolo a pochi chilometri da Napoli. Prima del secondo conflitto mondiale, don Gennaro è un piccolo commerciante di farina e semola. Gira per le campagne del Napoletano con un carretto comprando, sempre in contanti e senza intermediari, granaglie dai contadini. Poco per volta, don Gennaro passa dai carretti ai furgoni e da questi ai camion. Ma la Campania non è terra di granaglie. L’Eldorado è la Puglia, l’immenso Tavoliere della piana di Foggia, dove già negli anni Trenta, Mussolini, con grandi opere di bonifica, ne aveva fatto il granaio d’Italia. Così, finita la guerra, don Gennaro decide di fare il grande salto. Lascia a San Giuseppe Vesuviano la moglie e i suoi tre figli, Pasquale, Aniello e Angelo, e si trasferisce a Foggia dove torna a girare per le campagne con carretti, furgoncini e camion. Acquista e costruisce silos, dove ammassa enormi quantità di grano e dal commercio al dettaglio passa 325


Una finestra sulla storia - 1994

Casillo e Zeman, presidente e allenatore del Foggia.

all’import-export nazionale e internazionale con una flotta navale che prima noleggia e poi compra: una, due, cinque, dieci navi fino a raggiungere, subentrato il figlio Pasquale nella gestione dell’azienda, una flotta di trenta navi. Nel 1980 la ‘Casillo Grani’ ha uffici commerciali a Bologna, Roma, Napoli e naturalmente a Foggia dove arrivano i figli Pasquale e Aniello. L’altro, Angelo, gestisce l’ufficio commerciale di Bologna. I guai dei Casillo iniziano nel 1983 con l’assassinio del camorrista Giuseppe Sciorio in soggiorno obbligato a Foggia e, si dice, assiduo frequentatore della famiglia Casillo che, a seguito delle indagini, vi resta coinvolta. Nel 1984 infatti, i carabinieri della Digos presentano un rapporto in cui si ipotizza per 17 persone, compresi i Casillo, l’associazione di stampo camorristico. Ma quattro anni dopo, il giudice istruttore, Antonio Baldi, decide di… non doversi procedere per totale mancanza di qualsiasi estremo penale. Nel frattempo, nel 1987, anche la Guardia di Finanza apre un’indagine sui Casillo e, mentre da un lato conferma l’assenza di elementi per l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico, dall’altra ipotizza una colossale truffa – 84 miliardi – ai danni dell’Aima, l’azienda di Stato per interventi sul mercato agricolo. Nello stesso anno don Gennarì, il patriarca, 326 muore… di crepacuore – dirà il figlio Pasqua-

le – ucciso da tutte le cattiverie che si sono dette sulla nostra famiglia. Alla morte del padre, don Pasquale, che fino ad allora ha trovato nel calcio il modo di soddisfare la sua voglia di protagonismo – aveva comprato il Bologna, la Salernitana, il Foggia e naturalmente la Sangiuseppese – assume il controllo della ‘Casillo Grani’ dando sfogo a tutta la sua ‘imprenditorialità creativa’. Don Pasquale acquista tutto e di tutto: industrie alimentari, avicole, risaie, aziende agricole, turistiche, immobiliari, cantieri navali, imprese edili; possiede pacchetti azionari in banche, società finanziarie e assicurative. Acquista e vende piccoli quotidiani e naturalmente calciatori per il ‘suo’ Foggia Calcio. Nel 1989 don Pasquale, che è riuscito a tirare fuori dall’inferno della C 1 la squadra foggiana, chiama alla sua corte l’allenatore cecoslovacco Zdeneck Zeman e, insieme, nel giro di due anni, portano il Foggia Calcio nella massima divisione. Con il Foggia in serie A e con l’apporto delle sue attività imprenditoriali nell’economia della Capitanata, Casillo diventa un eroe. Nel dicembre del ’92 è eletto Presidente dell’Assindustria di Foggia e quando a settembre del ’93 si dimette, a causa delle prime ‘voci’ di collusione con la camorra, il Consiglio dell’Assindustria respinge le dimissioni. Pasquale Casillo è ormai un magnate dell’industria cerealicola. Possiede aziende in Italia, Grecia, Francia e Nord America dove è quotato in borsa. Ha silos, mulini e grandi depositi di granaglie ovunque; la sua flotta navale importa ed esporta cereali in Cina, Unione Sovietica, Nord Africa, Americhe e in gran parte dell’Europa. Possiede uno yacht, un jet personale e un elicottero con cui imita Berlusconi: atterra nello stadio Zaccheria di Foggia solo per esibirsi davanti alla tifoseria. Gli è rimasto un solo cruccio. Non è riuscito a soddisfare il sogno della sua vita: comprare il Napoli. Poi, crolla tutto. Prima crolla il suo impero finanziario, poi l’immagine morale di una


famiglia che, secondo gli inquirenti, avrebbe costruito la propria fortuna non per la loro capacità imprenditoriale, ma per una serie di presunti rapporti e connivenze con il mondo politico e criminale della Campania fin dai primi anni Ottanta. Il ‘mondo’ dei Casillo comincia a crollare nel 1992 con le dichiarazioni del camorrista pentito Pasquale Barra a cui fanno seguito quelle di Pasquale Galasso – braccio destro di Carmine Alfieri ‘vincitore’ della guerra contro il ’boss dei boss’, Raffaele Cutolo, per il controllo delle attività criminali in Campania – e proseguono con le testimonianze di Salvatore Annacondia e Salvatore Chiarabella ‘gola profonda’ della mafia foggiana. Le prime 50 pagine delle 105 che formano il provvedimento di cattura per Pasquale e Aniello Casillo della Direzione distrettuale Antimafia di Napoli, riguardano il capostipite della famiglia, don Gennarì. Secondo Pasquale Galasso, i Casillo… sono sempre stati aiutati dalla camorra nella loro crescita imprenditoriale… le frequentazioni di Gennaro Casillo con la camorra risalgono alla metà degli anni Ottanta… mi risulta – dirà ancora Galasso agli inquirenti – che don Gennarì e i suoi figli erano legati al clan Alfieri e che avevano, come referenti politici, l’on. Antonio Gava, il senatore Francesco Patriarca e l’on. Raffaele Russo. E ancora… mi risulta che Gennaro Casillo ospitò Raffaele Cutolo a Foggia durante la sua latitanza e che cercò di fare da paciere tra Cutolo e Alfieri… morto don Gennarì, i figli mantennero i rapporti con noi… in Puglia hanno creato un impero credo speculando e sfruttando i poveri contadini, le leggi statali, a livello di contributi, e truffando la CEE come assuntori dell’Aima. E’ poi la Guardia di Finanza, nello stesso provvedimento di cattura, a quantificare le presunte truffe: 430 miliardi alla CEE; 84 miliardi all’Aima e 8 miliardi all’Erario. Don Pasquale si difende… noi non siamo camorristi… sono invenzioni dei pentiti e di Luciano Violante… il quale, all’epoca delle

‘confessioni’ dei pentiti, è presidente della Commissione Antimafia. Ma le accuse sono gravi: associazione camorristica, truffa aggravata, evasione fiscale, concorso in abuso d’ufficio, peculato e appropriazione indebita. Il 21 aprile, dunque, Pasquale Casillo è rinchiuso nel carcere di Poggioreale dove il 27 è raggiunto dal fratello Aniello. Dopo il sequestro di tutti i beni e una ‘lunga pausa di riflessione’, il 15 maggio don Pasquale decide di collaborare con la giustizia. Interrogato per 10 ore al giorno per 6 giorni consecutivi, Pasquale Casillo riempie un ‘dossier’ più voluminoso di quello della DDA, ma gli inquirenti riescono a mantenere il massimo riserbo sulle sue ‘confessioni’ e i mass media se ne disinteressano. C’è un nuovo eclatante caso da seguire. C’è un altro ‘Re’, un altro ‘impero’ da demolire. Sembra un ritorno alla ‘rivoluzione permanente’ degli anni Settanta. Il 4 luglio, Pasquale Casillo ottiene gli arresti domiciliari, per motivi di salute. Il fratello Aniello, invece, è rimesso in libertà dopo pochi giorni dall’arresto. Ricoverato in una clinica privata napoletana, don Pasquale, nonostante gli arresti domiciliari, riceve una folla di visitatori e rilascia interviste a tutto spiano… io non sono camorrista, se lo fossi non sarei in queste condizioni. E’ vero – dirà a Salvatore Maffei che lo intervista per la Gazzetta – i miei guai sono cominciati nell’83, ma non per l’omicidio di Giuseppe Sciorio, bensì per la mia opposizione ad un gruppo di potere foggiano che stava predisponendo una incredibile speculazione edilizia pilotando il piano regolatore della città. I nomi – prosegue don Pasquale – non li faccio perché non posso violare il segreto istruttorio. Ma a Foggia anche le pietre conoscono i nomi dei veri ladri della città… non ho mai finanziato i partiti, ma ho subìto vere e proprie estorsioni da tre ministri italiani, due stranieri, un ambasciatore, da numerosi deputati e da diversi altri rappresentanti di istituzioni dello Stato… ed essendo rimasto povero, chiedo a questi signori di restituirmi almeno 327


Gianni Agus

Enrico Maria Salerno

Domenico Rea

Lutti nel mondo dello spettacolo, della cultura e del giornalismo nel ‘94 Si spengono, stroncati dal cancro, due mostri sacri del teatro, del cinema e della tv italiana: Enrico Maria Salerno muore a Roma il 27 febbraio; Alberto Lionello a Fregene il 13 luglio, avevano rispettivamente 67 e 64 anni; a Napoli, invece, muoiono lo scrittore e poeta Domenico Rea e il promettente attore Vittorio Mezzogiorno. Il primo si spegne il 26 gennaio, il secondo l’8. ... qui Nuova York vi parla... Ruggero Orlando. Il noto giornalista della RAI, per un ventennio inviato del TG1 in America, si spegne a Roma il 18 aprile all’età di 86 anni. Infine, Gianni Agus, ‘spalla’ per eccellenza di decine di grandi attori italiani, muore a 77 anni il 4 marzo. Ruggero Orlando

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Alberto Lionello Vittorio Mezzogiorno


una parte di quello che io ho dato loro. Due settimane dopo i domiciliari in clinica, Casillo torna a Poggioreale. Non sapeva… nessuno me l’ha proibito – dirà don Pasquale – che non potevo avere contatti con l’esterno. Il 9 settembre, il Tribunale di Nola, su richiesta di alcuni istituti di credito, dichiara fallita la ‘Casillo Grani’, ma molte altre società del gruppo l’avevano preceduta e diverse altre la seguiranno, tranne il Foggia Calcio. La Società sportiva di don Pasquale è attiva, vale circa 40 miliardi ed è, naturalmente, preda ambita dei creditori. I ‘diavoli’ rossoneri del Foggia restano in serie A, ma anche senza le ‘disavventure’ di don Pasquale il sodalizio con Zeman è finito. All’allenatore boemo è stata fatta un’offerta che non può rifiutare: guidare la Lazio che si propone di conquistare lo scudetto. Pasquale Casillo è scarcerato il 16 marzo del 1995… per cessazione delle esigenze cautelari, dirà il giudice del riesame e, per quasi un decennio, nessuno ha più sentito parlare dei Casillo. L’uomo che l’Antimafia ha definito… temibile, potente e spregiudicato, non ha mai subito un processo per i reati che gli sono stati contestati. L’unico processo in cui appare il nome di Pasquale Casillo è quello intentato dalla Banca Cariplo alla Cassa di Risparmio di Puglia acquisita dall’Istituto lombardo proprio nell’aprile di questo 1994. Nel 1997 la Cariplo – odierna Banca Carime – scopre che la Cassa di Risparmio di Puglia le avrebbe ‘nascosto’ crediti in sofferenza per quasi mille miliardi di lire. Da qui la denuncia per truffa agli ex amministratori della Banca pugliese, a Pasquale Casillo e a Francesco Cavallari quali maggiori beneficiari della ‘generosità’ di Caripuglia e quindi fra i più ‘esposti’. Casillo perché non avrebbe più restituito il famoso prestito di 13 milioni di dollari; Cavallari perché avrebbe lasciato una ‘sofferenza’ di 100 miliardi di lire. Il processo di primo grado si conclude a Bari il 4 dicembre del 2003. Dei 27 imputati iniziali, la Corte ha riconosciuto colpevoli di truffa soltanto sei persone. Fra questi, Pasqua-

le Casillo e Francesco Cavallari condannati entrambi ad un anno di reclusione, con pena sospesa, e al risarcimento in sede civile. Ma naturalmente c’è l’Appello, la Cassazione, il processo civile e chissà che, nel frattempo, i reati non siano prescritti. In quale ‘buio’ e con quali mezzi don Pasquale sia vissuto nell’ultimo decennio, non è dato sapere. Così come non è nota l’entità dei beni dissequestrati che, fra l’altro, costituiscono riserva di caccia di numerose banche creditrici. Apparentemente don Pasquale non è più nel ‘bisniss’ del grano, ma non ha rinunciato a coltivare la sua passione per il calcio. Nel 2003, gli stessi ‘uomini d’oro’ dei gloriosi anni del Foggia – don Pasquale, il direttore tecnico Giuseppe Pavone e l’allenatore Zeman – compongono il gruppo dirigente dell’Avellino Calcio, che milita nella serie cadetta. Obiettivo: portare l’Avellino, dopo un solo anno di permanenza in serie B, nella massima divisione. Tipico di don Pasquale che non ha perso il gusto per le sfide impossibili. Ma se il passato qualche volta torna, è difficile che i ‘miracoli’ si ripetano. Al termine del campionato 2003-2004, l’Avellino torna in C1.

Il Re della sanità privata Dal ‘Re’ del grano al ‘Re’ della sanità privata barese, Francesco Cavallari, protagonista del più grande scandalo sanitario-politicoamministrativo nella storia della Puglia. Una vicenda, come vedremo in un capitolo a parte, diversa, ma non meno devastante di quella che ha coinvolto lo scorso anno il ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, e il direttore generale del Ministero Duilio Poggiolini: loro si erano avvalsi del proprio ‘potere’ politico e direttivo per imporre tangenti; Cavallari ha semplicemente saputo ‘sopperire’ e sfruttare, a proprio vantaggio, le immense lacune del sistema sanitario nazionale, sia pure con metodi non proprio e non sempre leciti. Cavallari, infatti, più che un ‘corruttore’, si è sempre definito e ritenuto un ‘benefattore’: la 329


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gente doveva curarsi; la sanità pubblica e la struttura ospedaliera in Puglia era da terzo mondo; per cercare di rimediare la Regione si avvaleva della sanità privata attraverso il sistema delle convenzioni; Cavallari non ha fatto altro che inserirsi in quel sistema offrendo servizi e specializzazioni altrimenti indisponibili. In breve, Cavallari crea, in Puglia, il più moderno polo sanitario privato del Paese. Le sue cliniche, all’avanguardia specie in oncologia e cardiologia, sono l’orgoglio della regione, una speranza nuova per migliaia di pugliesi non più costretti ai tristemente noti ‘viaggi della speranza’. Naturalmente, sia la storia di Cavallari, sia quella di Pasquale Casillo, come tante altre storie minori e non meno edificanti, non potevano certo nascere e svilupparsi in un contesto politico-amministrativo efficiente e funzionale. Bisognava che le Amministrazioni locali fossero ingovernabili e ingestibili perché certi personaggi trovassero terreno fertile per coltivare i loro affari. E in Puglia, in tutta la regione, tutte le istituzioni, a tutti i livelli, lo sono ormai da anni. Nessun capoluogo di provincia, né tanto meno la massima istituzione regionale, può vantare un minimo di governabilità. Quando poi Tangentopoli finisce col togliere legittimità ai partiti che per cinquant’anni hanno costituito i ‘punti fermi’ dei governi, la litigiosità, che nei comuni in particolare non è mai mancata, diventa caos.

Puglia... addio Dalle elezioni amministrative del 6 maggio 1990, la Regione Puglia ha subito 4 crisi, ha avuto altrettanti presidenti di Giunta e viaggia, come vedremo, verso la quinta crisi. Il Comune di Bari ha avuto, in tre anni e mezzo, quattro sindaci – Dalfino, Mazzucca, Laforgia e Buquicchio eletto il 3 novembre del ’93 – e si appresta ad eleggerne un quinto. A Taranto dopo tre crisi, il Consiglio comunale è stato sciolto e gli elettori, chiamati alle urne antici330 patamente con la nuova legge che prevede l’e-

lezione diretta del primo cittadino, al ballottaggio di dicembre ’93 hanno eletto sindaco il ‘telepredicatore’ Giancarlo Cito. Ma la città resta senza governo per mesi: su Cito pende un giudizio di ineleggibilità – e non solo quello – il cui processo è ‘estinto’ nell’ottobre di quest’anno perché il ricorrente rinuncia all’Appello. A Brindisi, dopo 5 crisi, il Consiglio comunale è sciolto. Alle elezioni anticipate di novembre di quest’anno, è eletto sindaco Michele Errico, un notaio che si definisce ‘moderato’, eletto da una coalizione di centrosinistra da non confondersi con le defunte coalizioni così definite nella Prima Repubblica. A Foggia, la Giunta di Salvatore Chirolli, subentrata a quella di Mimmo Verile, in due anni ha già collezionato tre crisi; alla Provincia di Foggia invece, il presidente, Teodoro Moretti, dopo essere succeduto a se stesso per la quarta volta, si dimette e l’Assemblea provinciale è sciolta. A novembre è eletto il prof. Antonio Pellegrino, un chirurgo, anch’egli nelle liste del ‘nuovo’ centro-sinistra. Quattro le crisi anche a Lecce. A Francesco Corvaglia succede Ottorino Fiore che succede a se stesso per tre volte e poi, il 22 febbraio di quest’anno, riconsegna la Giunta di Lecce a Corvaglia. Tra tutta questa folla di personaggi che ‘sale’ e ‘scende’ dai Palazzi del potere amministrativo e politico – Comuni e Regione – soltanto una minoranza degli eletti alle amministrative del 6 maggio 1990 è rimasta al suo posto e quindi ‘legittimata’. Tutti coloro che hanno avvicendato i dimissionari a partire dal 1993 sono, in massima parte, espressione di accordi interpersonali, di correnti, di nuove formazioni politiche e di lobby… che hanno formato maggioranze raccogliticce e perfino trasversali – scrive in una lettera al ministero degli Interni il prefetto di Bari, Corrado Catenacci – al solo scopo di evitare lo scioglimento delle Giunte per assicurarsi la propria personale sopravvivenza. E’ vero. Ma è vero pure che, imperversando Tangentopoli, gran parte degli amministra-


tori eletti nel ’90 nelle liste della DC-PSIPSDI-PRI e PLI, si ritrovano ‘orfani’. Il dissolvimento dei democristiani e dei socialisti in particolare, ha stravolto le ‘vecchie’ maggioranze di Governo. Finita l’epoca dell’unità nella diversità, con la formazione di nuove sigle politiche bisognava scegliere. Molti scelgono di restare nei partiti che ancora governano le Giunte – ma fino a quando? – altri vagano da un partito all’altro, altri ancora scelgono di rappresentare se stessi. Accade così che molti neo-sindaci, dopo sfibranti trattative per mettere insieme nuove maggioranze, il giorno successivo la loro elezione si ritrovano in balìa di quanti, improvvisamente, decidono di cambiare corrente se non addirittura partito, magari avverso alla Giunta. Ci sono situazioni in cui il Sindaco non sa neppure da chi è stato eletto. Storica la domanda del sindaco di Bari, Michele Buquicchio, due mesi dopo la sua elezione, ad un consigliere che chiedeva la parola… scusi, Consigliere, lei di che partito è? In tutto il 1993, e in gran parte di quest’anno, nessun Sindaco s’azzarda a presentare in Consiglio una delibera, tanto è il timore di non avere la maggioranza necessaria. Il blocco di ogni attività amministrativa, a Bari più che altrove, è così totale che quando al Comune s’insedia il Commissario prefettizio – a seguito delle dimissioni di Buquicchio – questi, al fine di evitare la paralisi della città licenzia, in sole tre settimane, ben 500 delibere, alcune delle quali faranno aprire qualche cantiere. Come si spiega allora quest’ansia di rimanere, disperatamente, a Palazzo di Città, alla Regione, nelle Province, nonostante sia opinione comune, anche delle maggioranze ‘raccogliticce’ che sarebbe più utile, per il bene di tutti, sciogliere Consigli e Giunte prima della scadenza naturale del loro mandato? Perché di fronte alla richiesta ossessiva del PDS, Rifondazione e Verdi del ‘tutti a casa’, anche le migliori intenzioni sono accantonate. Perché, nonostante la vittoria del centro-destra alle elezioni politiche del 27 marzo, nonostante il

‘trionfo’ di Berlusconi alle elezioni europee del 12 giugno, nonostante il traumatico ridimensionamento dei progressisti che portano alle dimissioni il segretario del PDS, Achille Occhetto, le ‘forze di sinistra’, le ‘coalizioni di sinistra’, specie nel Centro-Sud, continuano a fare incetta di Comuni e Province che hanno sciolto i loro Consigli per andare alle urne anticipate. Alle elezioni amministrative di giugno, nella sola Puglia i progressisti sono riusciti ad eleggere 8 Sindaci su 12; alle successive elezioni di novembre, ne hanno eletti 16 su 26. L’eventualità dunque di ‘consegnare’ grossi centri urbani alla ‘sinistra’, come è già accaduto per Brindisi, Matera e alla Provincia di Foggia, è più che concreta. Da qui, le ‘resistenze’ a sciogliere i Consigli: è preferibile una litigiosità permanente, maggioranze ‘trasversali’, la paralisi delle attività, l’abbandono, il disastro cittadino, piuttosto che ‘rischiare’ elezioni anticipate e consegnare anche Bari, Foggia e Lecce ai progressisti. Ed è per evitare una simile ‘sventura’ che il Consiglio comunale di Bari in particolare, nel percorrere l’ultimo tratto di strada che l’avvicina alla scadenza naturale del suo mandato – aprile ’95 – mette in scena il più mortificante – qualche consigliere lo definisce ‘nauseante’ – spettacolo mai realizzato nella storia amministrativa della città. Ricapitoliamo. Il quarto sindaco di Bari, il notaio Michele Buquicchio, è stato eletto il 3 novembre del 1993. Un parto, come già accennato nelle cronache dello scorso anno, travagliato. La difficile gestazione e il lieto fine, ha avuto come protagonisti un gruppo di consiglieri ancorati alla vecchia DC; un ‘nucleo’ di democristiani ‘dissidenti’ guidati dall’ex sindaco Dalfino; un altro gruppo di socialisti e socialdemocratici altrettanto ‘dissidenti’ e dai liberali. In totale 35 consiglieri che, dando vita al ‘Patto per Bari’, hanno espresso il Sindaco e formato la maggioranza. Per mettere in piedi la Giunta Buquicchio, ci sono voluti 59 giorni; a renderla inoperosa 331



fino alla paralisi, s’inizia subito e senza l’ausilio dell’opposizione, che con i suoi sei seggi nulla può. Il primo ad abbandonare il Consiglio comunale è l’ex sindaco Enrico Dalfino il quale, pur divorato da un mostro che alla fine, il 25 agosto di quest’anno, lo uccide, ha continuato fino all’ultimo a dare, lealmente, quel contributo che riteneva utile alla Città tanto amata, godendo del massimo rispetto non solo dei suoi concittadini, ma anche degli oppositori politici. Ma la prima, vera breccia alla Giunta Buquicchio è provocata dall’arresto, il 27 dicembre del ’93, dell’assessore al Traffico, Luigi Loperfido, per presunte irregolarità sulla fornitura e manutenzione di bagni pubblici. Loperfido, scarcerato il 20 gennaio, lascia la delega al Traffico, ma non si dimette da consigliere. Subito dopo l’arresto dell’Assessore, lasciano il Consiglio Raffaele Carella e Gabriele Di Comite. Le dimissioni di Di Comite hanno un chiaro significato politico poiché egli è segretario provinciale della DC. Il 3 gennaio di quest’anno, quarto dimissionario. E’ il consigliere Massimo Vitone… non c’è futuro in questa Giunta – commenta Vitone lasciando la sala consiliare – non si può garantire, in questo contesto politico, un adeguato governo della Città. Due settimane dopo, il 17 gennaio, è la Magistratura barese ad aprire un’altra grossa breccia nella Giunta Buquicchio. Su richiesta del procuratore Giuseppe Scelsi, il gip Concetta Russi firma quattro ordini di custodia cautelare nei confronti del dimissionario Massimo Vitone, dei consiglieri in carica Berardino Eroli e Vito De Gennaro, che si dimettono, e di Ettore Bagnato, direttore dell’AMTAB, l’azienda municipale dei trasporti urbani. Arrestati, tutti e quattro sono accusati di concussione, truffa, falso e abuso d’ufficio.

Villa Camilla La storia che li coinvolge risale al 1988. Secondo quanto sarebbe emerso dagli accertamenti giudiziari, la vicenda inizia con un debi-

to non restituito. Sembra che il gestore di un distributore di benzina, Antonio Giammatteo, avrebbe fatto al direttore dell’AMTAB, Ettore Bagnato, un prestito di 140 milioni che questi non era in grado di onorare. Ma il Giammatteo, interessato ad avere in concessione 4mila metri quadri di un’area di 14mila, di proprietà del Comune – situata nel quartiere residenziale di Poggiofranco, proprio di fronte all’Hotel Sheraton – per installarvi un’altra stazione di servizio, prima inoltra la domanda, poi si rivolge al Bagnato affinché utilizzi le sue ‘conoscenze’ in Comune per fargli ottenere la necessaria delibera. Naturalmente, la contropartita è la cancellazione del debito. Il primo approccio di Bagnato al Comune sarebbe stato con l’assessore al Patrimonio, Berardino Eroli, della Giunta De Lucia. Ci vogliono 10 milioni, avrebbe detto Bagnato a Giammatteo il quale prontamente versa. Ma non accade nulla. Nel frattempo, ad Eroli subentra Vitone. Nuovo approccio, nuovo tentativo per avere la delibera di concessione e nuova richiesta: ci vogliono altri 10 milioni per Vitone. Nel 1992, il Giammatteo perde la speranza: ha saputo che su quell’area ci sono nuovi appetiti e quindi chiede a Bagnato, Eroli e Vitone, la restituzione del prestito e delle presunte tangenti. Ecco cos’è accaduto. Secondo gli investigatori della Procura – scrive il cronista della Gazzetta, Carlo Stragapede – l’assessore al Patrimonio nella Giunta Mazzucca, Vito De Gennaro, avrebbe messo in moto tutti i meccanismi burocratici per trasformare la destinazione del suolo antistante lo Sheraton da stazione di rifornimento carburanti a impianti sportivi commettendo quindi falso, abuso d’ufficio e truffa. De Gennaro avrebbe promosso, fra due sue cognate e un invalido civile, la nascita dell’associazione sportiva ‘Villa Camilla’ che, avvantaggiata da norme a favore dello sviluppo degli impianti sportivi, non solo avrebbe pagato un canone simbolico ma che, sempre secondo la tesi accusatoria, nelle intenzioni di De Gennaro l’impianto sarebbe 333


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stato posto a servizio dell’antistante Hotel Sheraton alla cui gestione lo stesso De Gennaro è cointeressato. C’è di più. Nella delibera prima concessa e poi invalidata, il Giammatteo avrebbe dovuto pagare, per i 4mila metri richiesti, un canone di 20 milioni l’anno; per quella poi concessa alla società sportiva ‘Villa Camilla’ il canone concordato, per tutti i 14mila metri quadrati, sarebbe stato meno che ‘simbolico’: un milione l’anno. Un bell’affare per il… Comune. Apparentemente tutte le accuse sarebbero circostanziate e ben documentate, ma il 4 febbraio il Giudice per il riesame mentre conferma e dispone per Vitone, De Gennaro e Bagnato i domiciliari per altri 30 giorni, a Berardino Eroli annulla l’ordine di carcerazione… per mancanza di gravi indizi. L’area di ‘Villa Camilla’ è posta sotto sequestro giudiziario e a dieci anni di distanza dall’ingarbugliata vicenda è ancora lì, recintata da lamiere ondulate e da assi di legno infraciditi mentre, proprio di fronte all’ingresso del più moderno albergo cittadino, campeggia lo scheletro di una palazzina che avrebbe dovuto essere l’impianto sportivo ‘Villa Camilla’. Un anno dopo, il 14 gennaio del ‘95, il sostituto procuratore Giuseppe Scelsi chiede il rinvio a giudizio per 26 persone con l’accusa di abuso d’ufficio, concussione e truffa. Il 27 ottobre, a seguito di due udienze preliminari, il giudice Ettore Cirillo accoglie la richiesta del procuratore Scelsi, rinvia a giudizio 24 dei 26 indiziati e fissa per il 21 febbraio del ‘96 l’inizio del processo. Come finisce? Non si sa! Intanto perché il processo non inizia il 21 febbraio e poi... come si fa ad inseguire tutti i procedimenti giudiziari, considerato che ci sono voluti due anni solo per il rinvio a giudizio? Quello che si sa, dal momento che il nome di Ettore Bagnato è ancora fresco di stampa, è che il direttore dell’AMTAB, l’11 novembre del ‘95, appena due settimane dopo il rinvio a giudizio per la vicenda di ‘Villa Camilla’, è di 334 nuovo in Tribunale. Per l’esattezza, Bagnato

compare davanti ai magistrati della Terza sezione, presieduta del giudice Michele Cristiano, per sentirsi comminare una condanna a 5 anni di reclusione per un’altra vicenda di corruzione: Bagnato avrebbe ricevuto una tangente di 76 milioni dal procuratore speciale della Italappalti – Gaetano Ferretti, condannato lui pure a 4 anni – per l’appalto di manutenzione e pulizia del complesso e del parco auto della municipalizzata barese. Torniamo al ‘94 e alle continue defezioni di consiglieri della Giunta Buquicchio.

La telenovela barese Il 26 gennaio si dimette l’ex sindaco socialista Daniela Mazzucca… insiste in me un forte senso di frustrazione e malcelata impotenza – scrive la Mazzucca al Sindaco – per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Il 27 ‘lascia’ il consigliere socialista Giovanni De Caro; il 29 anche l’assessore ai Lavori Pubblici, Michele D’Erasmo, del gruppo dei ‘dissidenti’ DC, abbandona Buquicchio… ho deciso di mettermi da parte – sostiene D’Erasmo – perché esiste una situazione di immobilismo amministrativo che rischia di compromettere definitivamente l’immagine e le opportunità di crescita e di sviluppo di questa città. Lo seguono, il 4 febbraio, i consiglieri Silvestro Delle Foglie, altro ‘dissidente’ DC, e Giuseppe Lacarra dissidente socialdemocratico ‘avviato’ verso il Polo progressista. In quanti si sono dimessi? Non si sa: 13, 14, 15, perfino i cronisti della Gazzetta hanno perso il conto. Altrettanto difficile è seguire i nomi di chi subentra. Ma la domanda più difficile è: cos’è rimasto di quelle forze politiche che nel 1990 hanno eletto la Giunta Dalfino? E ancora: su quale maggioranza può effettivamente contare Buquicchio dopo il dissolvimento dei partiti minori – PRI, PLI e PSDI – e la frantumazione dei democristiani e socialisti? Qual è la nuova geografica politica del Consiglio comunale barese? Con la ‘scomposizione’ della DC in tre


tronconi – Partito Popolare, Centro Cristiano Democratico e Patto per l’Italia – dei 23 DC eletti nel ’90, la maggior parte – non si sa quanti perché i ‘salti di quaglia’ sono quotidiani – sono confluiti nel Partito Popolare; altri – i dissidenti di ‘solidarietà e progresso’, gli originari 7 del ’93, quest’anno si sono spaccati ulteriormente e sono rimasti in 3 – ‘forse’ si riconoscono nel CCD di Casini; altri ancora, ‘forse’, confluiranno nei pattisti di Segni. Stessa solfa con i socialisti. Dei 20 eletti, sempre nel ’90, una parte vaga senza punti di riferimento; una decina hanno formato il gruppo ‘laico socialista’, altri ancora sono confluiti nei progressisti. Poi ci sono i ‘dissidenti’ socialdemocratici, liberali e repubblicani che non si comprende da chi dissentano, dal momento che i rispettivi partiti si sono letteralmente dissolti. Più che un Consiglio, dunque, quello di Bari è una miscela esplosiva, un cocktail in pressione che, pur con tutta la buona volontà di Buquicchio, rischia di esplodergli fra le mani. Il 30 marzo, infatti, il vice sindaco, Franco Sorrentino, prende atto della vittoria del centro-destra alle elezioni politiche e si dimette. L’8 aprile si dimette anche il consigliere repubblicano Paolo Nitti e il 9 Buquicchio annuncia che ha deciso di gettare la spugna. Il Consiglio comunale si è autoconvocato per le 16,30 dell’11 aprile. All’ordine del giorno l’importante delibera, presentata dall’opposizione, per la concessione di alcuni suoli all’Istituto Autonomo Case Popolari. Cinque minuti prima, alle 16,25, il Sindaco consegna al Segretario generale del Comune una lettera di poche righe: è l’atto ufficiale che mette fine alla quarta Giunta. Buquicchio è rimasto in carica 159 giorni. E ora? C’è una sola alternativa sostengono insieme PDS, Verdi, socialisti di Del Turco e Alleanza Nazionale: sciogliere il Consiglio e andare alle elezioni anticipate di giugno o al massimo a novembre. Non se ne parla proprio dicono, invece, i popolari insieme ai dissidenti DC di ‘solidarietà e progresso’ e ai socialisti

laici: significa consegnare anche il Comune di Bari alla sinistra. Escluso dunque il ricorso anticipato alle urne – ma non manca chi si mobilita per il contrario, basterebbe una richiesta firmata da 31 consiglieri da presentare al Prefetto – riprende la fitta serie di incontri per cercare di sbrogliare la matassa più intricata nella storia del Comune di Bari. Ormai non è più questione di trovare un Sindaco e una maggioranza che siano espressione di un indirizzo politico; si tratta di mettere insieme 31, 32 volenterosi consiglieri, quali che siano, disponibili a sostenere una Giunta, quale che sia, fino alla scadenza della legislatura. Il limite è che nella nuova Giunta non vi sia né la destra, né la sinistra. Il 12 aprile, mentre riprendono le trattative per formare la quinta Giunta barese, il capogruppo consiliare del PDS, Gianni Di Cagno, e il liberale Alberto Majorano si dimettono. Sono ormai 17 i consiglieri eletti nel ’90 e dimissionari. Ma gli incontri, le riunioni, i ‘distinguo’, le prese di posizione continuano e, nel frattempo, nascono nuove sigle politiche. Gli ex dissidenti DC di ‘Solidarietà e Progresso’ si fondono con gli ex socialisti del gruppo ‘Laico socialista’ e aderiscono al CCD di Ferdinando Casini; ex socialdemocratici e liberali formano l’Unione di Centro; altri ancora, fra socialisti e socialdemocratici, costituiscono il ‘Polo Democratico’; infine, diversi altri consiglieri di centro, di sinistra e di destra si proclamano ‘indipendenti’. Più che una trattativa è una corsa campestre irta di ostacoli e fossi, resa ancora più difficile da una pregiudiziale dei popolari: vorrebbero il ritorno di Buquicchio il quale, però, si dichiara indisponibile. Dopo 45 giorni di trattative, l’intesa è raggiunta. Il 27 maggio il Consiglio comunale è chiamato a risolvere la crisi. Ma l’ordine del giorno è ignorato: si dimettono, contemporaneamente, 16 consiglieri. Lasciano: il rappresentante dei Verdi, i 6 consiglieri del PDS, i 3 ex socialdemocratici e 6 socialisti. Tutto da rifare. Peggio, Verdi e pidiessini ritirano i loro rappresentanti dal Consiglio. 335


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Il 3 giugno, nuova Assemblea consiliare. Questa volta è indicato anche il nome del Sindaco. Si tratta di Giovanni Memola del gruppo ‘Laico-Socialista’ i cui componenti, disimpegnatisi dai democristiani di ‘Solidarietà e Progresso’, hanno formato un nuovo gruppo autonomo: il ‘Polo’ del centro moderato. Ma sarà, ancora una volta, una seduta interlocutoria poiché anche i democristiani di ‘Solidarietà e Progresso’ si sono divisi. Intanto, si è provveduto alla surroga dei 16 consiglieri dimissionari. Il 6 giugno è l’ultima chiamata. Fra cinque giorni scadono i termini previsti dalla legge per eleggere un nuovo Sindaco, pena l’autoscioglimento. E questa volta è fatta: Giovanni Memola è il quinto sindaco di Bari della legislatura ’90-’95. E’ stato eletto dai popolari, dai socialisti del ‘Polo’ di centro, dai democristiani rimasti in ‘Solidarietà e Progresso’, dai repubblicani e dall’ex liberale Franco Sorrentino. In tutto, 35 voti utili. Ma la fuga dei consiglieri dal Comune non si arresta. Appena eletto Memola, altri 4 consiglieri, fra ‘surrogati’ e non, si dimettono. L’11 giugno, si scopre l’acqua calda: il bilancio del Comune – sostiene il ragioniere Capo – ha un attivo di 4 miliardi… non si capisce come avrebbe potuto essere diversamente – commenta il cronista della Gazzetta Liborio Lojacono – considerato che l’attività amministrativa è ferma dal ’92. E’ finita? La Giunta Memola può cominciare a lavorare? Macché. Il 15 giugno, la Sezione provinciale di controllo annulla l’elezione del Sindaco e della Giunta per violazione delle norme di legge che disciplinano la composizione e la reintegrazione del Consiglio comunale: le surroghe di 3 consiglieri erano illegittime. La Giunta ricorre al TAR – Tribunale amministrativo regionale – ma il prefetto, Corrado Catenacci, ha già sospeso il Consiglio e ha nominato il Commissario. Sette giorni dopo, il TAR respinge il ricorso della Giunta Memola il quale, però, non si 336 arrende e presenta un nuovo ricorso, questa

volta al Consiglio di Stato, che il 9 luglio ribalta la sentenza del TAR e reinsedia Sindaco, Giunta e Consiglio. L’Amministrazione comunale è salva, si può cominciare a lavorare… anche se non possiamo fare programmi a lungo termine – afferma il Sindaco – avendo meno di un anno a disposizione. Ci accingiamo ad affrontare pochi ma significativi punti di programma capaci di avviare la ripresa dell’attività produttiva. Intanto, si torna a fare politica. Il 16 e 17 luglio il Partito Popolare celebra, a Bari, il primo congresso regionale per eleggere il Segretario. Il confronto, serrato e acceso, è incentrato su due diverse posizioni. Da una parte c’è chi auspica il ‘rinnovamento nella continuità’ – Giacovazzo, Lattanzio e Sorice – dall’altra c’è chi vorrebbe ‘cambiar pelle’… le logiche del passato – sostiene De Mita – appartengono ad una dimensione che non c’è più.

Giovanni Memola, quinto sindaco di Bari in quattro anni di legislatura: un record.


Vincono questi ultimi che la notte del 17 luglio eleggono segretario regionale del PPI il giovane e promettente Raffaele Fitto, venticinque anni, già consigliere regionale e figlio dell’ex presidente della Giunta regionale pugliese, Salvatore, scomparso in un incidente automobilistico nell’agosto del 1988. Sponsor del giovane Raffaele è Rocco Buttiglione che il 29 luglio succede a Mino Martinazzoli quale segretario nazionale dei popolari. Ma il futuro di Fitto va oltre il Partito Popolare. Egli interpreta la necessità di ‘cambiar pelle’ in senso letterale e lo testimonia in una nota inviata alla Gazzetta il 25 luglio… la maggior parte delle Istituzioni pugliesi – scrive Fitto – vivono in una condizione surreale: al loro interno sopravvive un contesto politico – di maggioranza e opposizione – che nella società civile non esiste ormai più da tempo… cittadini e Istituzioni si parlano oggi da soli… la gente non ha respinto i partiti perché non crede più nella loro funzione, ma perché non li riconosce più, perché obiettivamente non riescono più a funzionare… è necessario lavorare per i bisogni dei cittadini. E’ questa oggi la vera questione morale. Chi crede di rimanere nelle Istituzioni – prosegue Fitto – per vivere uno spazio da ‘ancient régime’ è destinato ad essere spazzato via senza speranza proprio dalla volontà della gente… vivere ancora la vita di corte… non sarà consentito a nessuno. Il nuovo Partito Popolare di Puglia vigila e vigilerà in tal senso non esitando, neppure per un giorno, nel denunciare i ‘pelandroni’ di un regime che non c’è più… il Partito Popolare, con comportamenti concreti, può tornare ad essere la naturale attrazione di un consenso di massa temporaneamente ‘appaltato’ dall’azienda Berlusconi. Qualcosa non ha funzionato, perché Raffaele Fitto non solo entra a far parte dell’azienda Berlusconi, ma alle elezioni regionali del 2000 sarà proprio Forza Italia a candidarlo e a farlo eleggere Presidente della Giunta regionale pugliese. Ma questa è, come si dice, un’altra storia.

Finita intanto la pausa estiva, nel mese di ottobre riprende, al Comune di Bari, la telenovela del toto-Sindaco. A seguito di altri 6 ricorsi al TAR da parte del PDS, Rifondazione, Patto Segni, Alleanza democratica e socialisti, sempre convinti che l’Assemblea del 6 giugno – elezione di Sindaco e Giunta – è da invalidare, il TAR non solo accoglie i ricorsi, ma aggiunge che neppure il decreto del Prefetto è valido. Per conseguenza, anche il verdetto del Consiglio di Stato, di reintegro della Giunta Memola, è annullato. L’errore l’avrebbe commesso il Prefetto. Nella motivazione, il TAR sostiene che la Giunta Memola e la conseguente invalidazione da parte della Commissione di controllo per ‘violazione delle norme di legge’, è avvenuta nel cinquantaseiesimo giorno di crisi della Giunta Buquicchio e non, come prevede la legge, entro il sessantesimo. Per cui il Prefetto avrebbe dovuto concedere, al Consiglio uscente, quei quattro giorni restanti per un ulteriore tentativo di eleggere una nuova Giunta. Ecco, allora, il nuovo verdetto del TAR: Buquicchio torna al suo posto e il Consiglio ha quattro giorni di tempo per eleggere Sindaco e Giunta. Il 27 ottobre la Giunta Memola è rieletta, ma non manca un ultimo tentativo di affossarla. La sera prima, l’ex assessore DC Luigi Loperfido aveva tentato di dar vita ad un nuovo Esecutivo… e c’era quasi riuscito – scrive il cronista – poi, i consiglieri del Partito Popolare hanno deciso di fare quadrato intorno alla Giunta Memola. Ma ancora non è finita. Mentre a Bari torna lo spettro del colera – si registrano solo una decina di casi, ma la città è in un tale stato di degrado che il timore di rivivere l’epidemia del settembre ’73 consiglia di affrontare con decisione la nuova emergenza – il 9 novembre la Sezione provinciale di controllo sospende, per la terza volta, la Giunta Memola… necessitano chiarimenti in merito a sette delibere di surroga dell’Assemblea del 27 ottobre… e il Segretario generale del Comune 337


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reinsedia Buquicchio. Passano solo poche ore e il TAR precisa… i chiarimenti richiesti dalla Sezione provinciale di controllo riguardano solo le delibere, non il Sindaco. Memola dunque resta, ma per evitare nuove sorprese, è Buquicchio a firmare la convocazione del Consiglio che dovrà fornire i chiarimenti richiesti dalla Sezione provinciale di controllo. Se tutta questa storia non fosse assurda e, per certi versi, tragica per i danni che procura alla città, sarebbe una commedia degna dei migliori De Filippo. Il 14 novembre, finalmente, la Sezione provinciale di controllo scrive la parola fine all’incredibile commedia messa in scena al Comune di Bari… le motivazioni fornite dall’Assemblea cittadina hanno consentito di superare i rilievi che avevamo mosso… il Sindaco e la Giunta eletti il 27 ottobre sono legittimati al governo della città. Il 16 novembre, per la seconda volta, Giovanni Memola, 40° sindaco di Bari dall’Unità d’Italia, sale lo scalone del palazzo della Prefettura per il giuramento di rito. Una delle più grandi città del Mezzogiorno è rimasta senza governo per 7 mesi e 4 giorni accumulando problemi immensi perdendo, inoltre, contributi comunitari e nazionali difficilmente recuperabili: sono sfumati 70 miliardi di finanziamenti statali per la realizzazione del centro agroalimentare all’ingrosso; 50 miliardi per l’edilizia residenziale e sono in forse 50 miliardi di contributi CEE per il piano ‘Urban’ – che prevede il recupero architettonico e sociale della città vecchia – se entro febbraio del ’95 non sarà presentato un piano di lavoro particolareggiato. L’Italia – sostiene il presidente della Commissione per le politiche comunitarie, Umberto Cecchi – perde da anni il 70% dei contributi stanziati dalla CEE a causa di disinformazione, negligenza e ritardi… il Sud e la Puglia in particolare – commenta il redattore economico della Gazzetta, Felice De Sanctis – è nelle classifiche delle regioni più pigre… un primato di cui non si può andar fieri… non è possibile 338 limitarsi ad esclamare: peccato! specie in

un’area a disoccupazione endemica… la rassegnazione non aiuta a crescere. L’Intervento straordinario è finito. Occorre fare da soli puntando sull’efficienza e sulle capacità manageriali che non mancano alla gente del Sud. La pigrizia nella Seconda Repubblica è bandita. Ma si può fare da soli in assenza dei necessari apporti istituzionali? Anche l’emergenza colera è finita… ma il ‘vibrione’ del colera avrebbe potuto essere meno pericoloso – scrive Lino Patruno dal 30 ottobre condirettore della Gazzetta – se non fosse stato favorito da due comportamenti criminali. Il primo è quello di chi ha fatto scempio del territorio devastandolo di fogne a cielo aperto; il secondo è quello di chi ha consentito che lo scempio avvenisse: anzitutto una dirigenza politica che non ha vigilato, aggiungendo anche questo peccato alla sua lunga e insopportabile lista nera. Più che di colera, la Puglia è ammalata di pessima amministrazione. E’ la prima volta, dopo l’avvicendamento del capocronista – da Ciccarese a Castellaneta il 3 maggio – che un giornalista della Gazzetta, il condirettore, commenta polemicamente l’assurda pantomima politico-amministrativa che ha paralizzato la città di Bari. Ma se Bari ‘piange’, se al Comune di Bari si svolge l’ultima, scomposta rappresentazione di una classe politica in ‘estinzione’ – come avviene a Foggia, Lecce, alla Regione Puglia, alla Regione Basilicata e in tanti altri centri minori – anche in quei centri in cui, con l’elezione diretta dei Sindaci si è voltato pagina, le prospettive per il futuro non appaiono migliori rispetto al passato.

Cito, il telepredicatore E’ il caso di Taranto. Già verso la fine degli anni Sessanta – ricorda il responsabile della redazione di Taranto della Gazzetta, Marcello Cometti – il giornalista Alberto Rizzo, fondatore della gloriosa testata ‘La Voce del Popolo’, scriveva che Taranto ha sempre avuto una capacità unica: quella di rinnovarsi autodistruggendosi.


Taranto. La città ha raggiunto il massimo degrado sociale. Il nuovo sindaco è l’ultima speranza.

Un’epigrafe tragicamente attuale – scrive ancora Cometti – considerato che lo stato di degrado sociale e amministrativo di questa città è peggio di quella stagione di industrializzazione e grandi speranze. Anche dopo aver ‘voltato pagina’, anche dopo l’elezione diretta del proprio Sindaco, Taranto continua a scivolare lentamente, ma inesorabilmente, verso una palude sudamericana. In due indagini sullo stato di salute e vivibilità dei 95 capoluoghi di provincia d’Italia – una triennale del settimanale ‘Il Mondo’ e l’altra annuale del quotidiano ‘Il Sole 24 Ore’ – sulla base di 34 indicatori socio-economici presi in esame, Bari e Taranto risultano essere fra le città più disastrate dello Stivale. Bari – abbiamo visto perché – è al 90° posto; Taranto al 93°. La città ionica, un tempo la più industrializzata di Puglia, è al collasso. Incuria, inquinamento, criminalità, contrabbando, assenza preoccupante di servizi sociali, carenza di infrastrutture, l’industria siderurgica di Stato in liquidazione – entro la fine dell’anno l’Italsider dovrebbe essere privatizzato – con conseguenze allarmanti sull’occupazione che coinvolgeranno anche l’indotto, e poi ancora: diffusione crescente della microcriminalità, di tossicodipendenti e della prostituzione.

Uno sfacelo, insomma… tutta colpa di una classe politico-amministrativa inetta e indifferente ai bisogni della città di Taranto – aveva detto Giancarlo Cito durante la sua campagna elettorale – io mi batto contro quel sistema, contro l’inefficienza… voglio dare a questa città le occasioni che merita. I suoi concittadini gli hanno creduto e il 5 dicembre del ’93 lo hanno eletto. Un bilancio della Giunta Cito è prematuro. Tuttavia, per quest’anno le cronache registrano solo quello che Cito non riesce a fare o che fa male. A luglio la Giunta di Taranto ha già perso 3 degli 8 assessori e ad agosto il Coreco – Comitato regionale di controllo – gli ha annullato tutte le 60 delibere di Giunta adottate nel corso di 6 mesi: erano illegittime perché deliberate da una Giunta che non aveva surrogato i dimissionari. Intanto, è cominciata, per Cito, una lunga ‘battaglia’ con la giustizia. Oltre alla denuncia per ineleggibilità risolta, come accennato, con la rinuncia del ricorrente all’Appello, Cito, a causa del suo carattere sanguigno e di una incontrollata irruenza verbale, comincia ad accumulare denunce su denunce per diffamazione e calunnie a danno di giornalisti, amministratori e magistrati. Già condannato, il 14 339


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gennaio, a due mesi e 10 giorni di reclusione per diffamazione – che in seguito sconterà ai servizi sociali – a febbraio è rinviato a giudizio per altre tre denunce per calunnia. Ma saranno i ‘pentiti’, Salvatore Annacondia – ancora lui – e il capo storico della criminalità tarantina, Gianfranco Modeo, a scagliargli addosso l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Chiamato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, il 19 maggio, a difendersi dalle accuse dei pentiti, Giancarlo Cito liquida la sua presunta contiguità con il tristemente noto clan dei Modeo come… mascalzonate… sono accuse da ergastolo – dirà lo stesso Cito – è il prezzo che devo pagare da quando ho dato il via alla battaglia moralizzatrice di questa città. Cito resta indagato. Il Procuratore della DDA di Lecce non si è convinto e continua ad indagare. Dimissioni? Non se ne parla – afferma Cito – non rinuncerò al mandato conferitomi dalla cittadinanza. Ma la città resta invivibile – scrive ancora Cometti – ci sono quartieri come Tamburi, Paolo VI, Salinella, Tramontone e l’intera città vecchia in cui il degrado è evidente. E in altre zone della periferia la situazione è esplosiva… panni appena lavati e sciorinati diventano neri per l’inquinamento, impossibile aprire porte e finestre senza essere assaliti da nuvole di zanzare e da odori nauseabondi; bambini che giocano fra alte erbacce o fra cumuli di immondizie… in breve, viviamo in una città in cui si può scegliere – è questa la libertà – se morire di morte violenta o di morte lenta per l’inquinamento.

Andate a casa Nessuna sorpresa invece per il sindaco di Foggia, Salvatore Chirolli – tre crisi in 21 mesi – per quella classifica che colloca la sua città all’83° posto per la qualità della vita… siamo indegni di rappresentarla perché incapaci di portare avanti i problemi che ci afflig340 gono.

Rieletto Sindaco per la terza volta il 28 maggio, durante la trattativa per la distribuzione delle deleghe, Chirolli rischia una nuova crisi… più di ogni altra sensazione, quello che si materializza sotto i nostri occhi in questo Chirolli-ter è che tutto è uguale a sempre – scrive il responsabile della redazione di Foggia della Gazzetta, Lello Vecchiarino – come se a Foggia e nel resto del Paese nulla fosse accaduto da diversi mesi a questa parte… noi ci permettiamo, sommessamente, di tenere presente il limite del buon gusto: per favore, risparmiateci il Chirolli-quater. La gente potrebbe perdere il conto oltre alla pazienza. E’ l’8 giugno. Il 12, perdurando la situazione di stallo, Vecchiarino scrive:… quel che non si riesce a comprendere è come mai fra spettacoli indecorosi, inconcludenze conclamate, stanchezze evidenti, non vi sia qualcuno che dalle file della stessa maggioranza – che oggi è tale, domani chissà – non levi alto un grido liberatorio: andiamo tutti a casa. Di fronte ad una simile prospettiva, non c’è limite nella ricerca di mediazioni possibili. Un mese dopo, surrogati 10 consiglieri, Chirolli compone la sua quarta Giunta. Che dire? – commenta amaro Vecchiarino – Parafrasiamo un vecchio adagio popolare: facciamo voti che siano meglio i nipoti. Altra storia quella del Comune di Lecce che dal ’90 al ’93 ha avuto, nella Giunta di Francesco Corvaglia, una certa stabilità amministrativa. Poi è arrivata la stagione di Tangentopoli. Nel marzo del ’93 cinque consiglieri e un assessore sono coinvolti in una storia di mazzette alle USL locali – successivamente assolti – e Corvaglia, pur potendo contare su 34 dei 40 consiglieri, messo in croce dall’opposizione e dalla sua stessa maggioranza, si dimette. Gli succede Ottorino Fiore, un altro DC, che però può contare su una maggioranza di appena 21 consiglieri. Due mesi dopo, luglio ’93, la Giunta Fiore è costretta a dimettersi. La vecchia maggioranza di governo non esiste più. Il 25 agosto del ’93 Fiore torna a guidare


una Giunta DC-PRI con apporti di consiglieri ‘vaganti’ da un gruppo all’altro in attesa di capire il futuro della DC e del PSI. Ma entro la fine di gennaio di questo infelice ’94, la Giunta di Ottorino Fiore perde, surroga e riperde 28 consiglieri e 4 assessori. Perciò, quando il Partito Popolare gli chiede di candidarsi al Parlamento alle elezioni politiche del 27 marzo, Fiore accetta e lascia il Comune. Il 21 febbraio, Francesco Corvaglia, 73 anni, torna alla guida della Giunta comunale di Lecce. La composizione della maggioranza è talmente ‘variopinta’ che il cronista rinuncia a descriverla. La confusione è al massimo e, ad aprile, si comincia a prendere in considerazione la possibilità di sciogliere il Consiglio. In due mesi, Corvaglia ha già surrogato 4 assessori e diversi consiglieri. Il 3 giugno il Sindaco entra nella sala consiliare e annuncia… la situazione politica a Palazzo Carafa è diventata ingovernabile… domani mi recherò dal Prefetto per rassegnare le dimissioni mie e della Giunta con l’impegno di non far parte di nessuna altra formazione politica. Ma Corvaglia non andrà dal Prefetto e il 6 luglio, dopo la surroga di altri due assessori… e con contorno di minacce e insulti – scrive il cronista – la Giunta Corvaglia, sia pure attaccata con la saliva, è ricomposta. E’ una maggioranza che fra qualche giorno potrebbe non essere più tale… è una Giunta senza partiti, composta solo da una ‘aggregazione’ di volenterosi. Sei mesi dopo, il 27 dicembre, è di nuovo crisi. Si dimettono 4 assessori e riprendono le trattative per formare una nuova Giunta, questa volta ‘liberal-laico-socialista’, alternativa a Corvaglia. Dunque la parola d’ordine nella stragrande maggioranza degli Enti locali, che privi ormai di ogni riferimento politico si ‘ostinano’ a tenere in piedi Giunte inconcludenti e rabberciate, è la stessa pronunciata dal procuratore capo della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, lasciando la sua carica per raggiunti limiti di età: resistere, resistere, resistere.

Chi ‘lascia’, chi ritiene che non esistano più le condizioni politiche per amministrare piccoli e grandi centri con le maggioranze espresse nel 1990, è consapevole che gli elettori sembrano decisi, in controtendenza con le recenti elezioni politiche, a voltare pagina. Anzi, meglio: gli elettori sembra abbiano deciso di affidare il Governo centrale a chi ha promesso un ‘nuovo miracolo’ e di restare con i piedi per terra in casa propria.

La Basilicata diventa ‘rossa’ L’unica regione che non si è lasciata convincere dal ‘sogno’ berlusconiano, è la Basilicata. Feudo, da sempre, della DC, che prima delle elezioni ha 4 deputati e 4 senatori, allo spoglio del 27 marzo l’equazione si capovolge. I progressisti si aggiudicano sia i 4 deputati, sia i 4 senatori; due per parte vanno al ‘Polo del buon governo’ e uno per parte ai popolari e ai pattisti di Segni. L’unico parlamentare superstite dell’ex DC è Angelo Sanza, eletto nelle liste dei popolari. Dei 14 nuovi deputati e senatori eletti in Basilicata, solo 3 sono stati riconfermati. Più che ‘voltare pagina’ la Basilicata ha scelto la ‘svolta radicale’… con il tramonto della storica predominanza democristiana – commentano, infatti, i progressisti – la Basilicata è l’unica regione ad aver dimostrato una reale volontà di abbandonare il vecchio sistema. Che la Basilicata fosse una regione a ‘rischio’ per il vecchio sistema è confermato dalle elezioni amministrative anticipate del Comune di Matera e dalle frequenti crisi alla Regione. Il Comune della città dei Sassi, governato per 8 anni dal sindaco DC Saverio Acito, è sciolto il 28 febbraio e alle successive elezioni di giugno è ‘conquistato’ dai progressisti. Lo stesso ‘pericolo’ corre la Giunta regionale guidata dal democristiano Antonio Boccia e dall’ex maggioranza di centro-sinistra, i quali, nonostante l’esigua opposizione, hanno già collezionato 4 crisi in quattro anni, due solo quest’anno. Sciogliere il Consiglio e andare alle elezioni anticipate, come auspica la 341


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Antonio Boccia, presidente della Giunta regionale di Basilicata: ha subito 5 crisi in 4 anni.

stessa maggioranza, sarebbe la soluzione più giusta rispetto alla difficoltà di governare con una maggioranza ormai evanescente, riottosa e spezzettata in gruppi e gruppetti fra ‘autonomisti’ e ‘dissidenti’. Ma bisogna resistere. Andare alle urne anticipatamente, significherebbe consegnare il Consiglio regionale ai progressisti; attendere la fine della legislatura, attendere cioè che ‘alleanze’ e ‘aggregazioni’ si consolidino, potrebbe riportare il consesso regionale nell’area moderata del ‘nuovo’ centro-destra. E’ per questa prospettiva che Antonio Boccia accetta, l’11 novembre, per la quinta volta, di guidare una Giunta regionale ‘tecnica’. Speranze deluse perché cinque mesi dopo – il 23 aprile ’95 – l’intera Basilicata diventa più ‘rossa’ di una mela del Trentino. I progressisti s’impongono non solo alla Regione, ma conquistano il Comune di Potenza e i Consigli provinciali di Potenza e Matera. Parlare, nel caso della Basilicata, come fanno gli ‘sconfitti’, di un ‘concertato’ voto di protesta, è riduttivo. C’è anche la protesta – né potrebbe essere diversamente in una regione che ha un deficit occupazionale di 95mila unità su una popolazione attiva di 219mila persone – ma in Basilicata è in atto una pro342 fonda trasformazione sociale.

Benché l’economia della regione sia ancora basata sull’agricoltura, questa non ha più le connotazioni del passato. L’agricoltura lucana si è arricchita di piccole e medie aziende specializzate in colture pregiate che si avvalgono di agronomi, analisti e tecnici. E’ in espansione l’industrializzazione – il comparto del mobile imbottito è il più vasto del Paese – l’ENI ha cominciato ad estrarre petrolio e gas e, con l’arrivo della FIAT, che già impiega 4.000 persone fra operai e tecnici specializzati, l’intero tessuto sociale della regione sta cambiando. In una parola, la piccola regione meridionale sta passando dalla civiltà contadina alla civiltà operaia; dalla fase della ‘rassegnazione’ dei padri a quella innovatrice e intollerante dei giovani, refrattari e insofferenti ai ‘tempi lunghi’ del vecchio sistema di potere. L’evoluzione politica della sinistra, l’abiura del collettivismo e dell’economia di Stato, l’impegno ad operare in un sistema produttivo liberale, basato sulla proficua collaborazione fra pubblico e privato dove, pur agevolando il privato non nega le conquiste sociali, offre specie ai giovani della Basilicata, in maggioranza disoccupati, una speranza nuova. Non è dunque la semplice protesta alla base della ‘svolta’ politica della Basilicata, ma un’insieme di motivazioni socioeconomiche che contribuiscono ad abbattere quel ‘muro conservatore’ che ha tenuto insieme, per decenni, vecchi e giovani. E’ lo stesso ‘muro’ che hanno abbattuto i pugliesi in molti Enti locali, verso la fine degli anni Settanta, con i ‘laboratori politici’ sfociati, successivamente, nel ‘consociativismo’ e, peggio ancora, in Tangentopoli.

Il ‘laboratorio politico’ di Gallipoli Ma la storia non sempre insegna e gli uomini, in particolare, sono portati a dimenticare. Ecco allora che rinascono i ‘laboratori politici’. Il primo s’inaugura a Gallipoli, in piena estate, fra il neo segretario del Partito Popolare,


Rocco Buttiglione – nato a Gallipoli – e l’altrettanto neo segretario del PDS, Massimo D’Alema, eletto a Gallipoli. Il secondo s’inaugura a Laterza, in provincia di Taranto, una settimana prima di Natale, fra il giovane segretario regionale dei popolari, Raffaele Fitto, e il segretario regionale del PDS, Gaetano Carrozzo. Il tema, nei due ‘laboratori’, è uno solo: trovare un’intesa per un nuovo futuro Governo nazionale e regionale. L’incontro Fitto-Carrozzo in realtà, più che dare corpo ad un ‘laboratorio’… è l’esplorazione di un ‘feeling’ fra due giovani esponenti di forze moderate e progressiste – scrive il cronista – i quali, avendo come base comune il ‘popolarismo’, si propongono di rilanciare un’intesa, anche in chiave prospettica, per percorrere insieme gli ultimi quattro mesi di attività regionale. Parole insomma, parole di cortesia dettate dal clima pre-natalizio. Innanzitutto perché mancano appena 4 mesi alle nuove elezioni regionali; poi perché il quinto presidente della Giunta regionale pugliese, il popolare Giuseppe Martellotta – eletto il primo marzo a seguito, come accennato, delle dimissioni di Vito Savino – viaggia tranquillo verso la fine della legislatura. Il ‘laboratorio politico’ di Gallipoli, invece, è praticamente ‘imposto’ da Umberto Bossi… che si conferma la spina nel fianco del Governo – scrive Gorjux il 13 agosto – l’elemento disgregante della maggioranza, conducendo senza remore né infingimenti un gioco al massacro che ricorda, ammesso che il paragone sia possibile, l’azione del PCI-PSI nei primi governi della Repubblica. La costante, continua minaccia della Lega di uscire dalla maggioranza pone, ai due nuovi leader del PPI e del PDS, un problema che può essere risolto solo con la Lega… noi siamo il perno di tutto – sostiene Bossi – siamo il vero centro politico del Paese; senza di noi non si governa. Ed è così drammaticamente vero che Buttiglione e D’Alema cominciano a corteggiarlo come si fa con un’amante: con ‘appuntamenti’ separati e congiunti

Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione a Gallipoli.

che dovrebbero essere ‘segreti’, ma che Bossi non si fa scrupolo di strombazzare. Per popolari e pidiessini è meglio un Governo con il ‘barbaro leghista’ che nuove elezioni anticipate, come vorrebbe Berlusconi il quale, dopo il ‘trionfo’ delle elezioni europee di giugno, potrebbe ottenere la maggioranza assoluta. Morale: a tre, quattro mesi dal varo del primo Governo della Seconda Repubblica, si è già tornati al clima, al linguaggio politico, alle formule, alle frasi fatte e ricorrenti della Prima Repubblica: verifica della maggioranza, rimpasto, Governo istituzionale, Governo del Presidente e, infine, minaccia di nuove elezioni anticipate che Buttiglione, D’Alema e lo stesso Bossi temono come la peste. Buttiglione è disponibile ad una coalizione di Governo sia con Forza Italia – se si ‘libera’ di Alleanza Nazionale – sia col PDS – se si ‘libera’ di Rifondazione – pur di allontanare lo spettro di nuove elezioni. D’Alema non è pregiudizialmente contrario ad una coalizione di Governo PPI-PDS-Lega, ma nicchia su Rifondazione allo stesso modo in cui Berlusconi preferirebbe ‘liberarsi’ di Bossi piuttosto che di Fini. Ma a nuove elezioni dovremo arrivarci – si dice nel laboratorio di Gallipoli – con nuove regole, con il doppio turno alla francese per esempio e, soprattutto, dopo che l’elettorato si sarà reso conto dell’inaffidabilità di un Governo sostenuto da un ‘partito-azienda’, 343


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da un suo alleato che vuole spezzettare il Paese e da una destra di matrice fascista. In definitiva, il ‘laboratorio politico’ di Gallipoli dura quanto un amore estivo: oltre alla comune ipotesi di formulare nuove norme elettorali, Buttiglione e D’Alema non vanno, poiché ad un ipotetico Governo formato da PPI-PDS-Lega c’è la ferma opposizione dei cattolici espressa dall’Osservatore Romano e dall’Avvenire… se l’ipotesi di un apporto, o addirittura di una partecipazione, del Partito Popolare ad un Governo PDS-Lega, dovesse diventare qualcosa di più di una vaghezza – scrivono, all’unisono, i due quotidiani cattolici – dovremmo dire che anche un simile sbocco sarebbe un tradimento del mandato chiesto e ricevuto dagli elettori. Eppure, PPI e PDS insieme sono vincenti. Alle elezioni amministrative di giugno e novembre ricevono consensi quasi plebiscitari. Il 5 dicembre D’Alema, festeggiando a Foggia il successo elettorale alla Provincia, torna a proporre l’alleanza vagheggiata a Gallipoli… come vedi, caro Buttiglione – che è presente alla manifestazione foggiana – insieme vinciamo al Nord, al Centro e al Sud. Abbiamo vinto perfino nella regione di Tatarella… ora hai davanti a te tre strade: perdere con la destra, uscire di scena o vincere con noi. Scegli tu. Ma Buttiglione non si sbilancia, e risponde… i positivi risultati elettorali non dimostrano che i popolari vincono solo se si alleano con la sinistra poiché non abbiamo la dimostrazione contraria per il rifiuto di Forza Italia a prendere le distanze da Alleanza Nazionale. Nulla di fatto, dunque. Flirt, aggregazioni, convivenza a livello locale sono consentiti, ma un ‘matrimonio’ in grande stile fra popolari e pidiessini ancora… non s’ha da fare. Intanto, mentre Bossi spara, ferisce, giura di aver sbagliato bersaglio, ricarica, punta e spara sullo stesso bersaglio – Silvio Berlusconi – sostenendo di non voler ‘demolire’ la maggioranza, ma di non poter rinunciare a rappresentare la ‘coscienza critica del Go344 verno’, intanto, anche la ‘sorte’ fa la sua parte.

La riforma delle pensioni Il primo siluro al ‘tre alberi’ di Berlusconi, che grazie a Bossi mostra già ampi squarci nelle vele, arriva dalla Corte Costituzionale che scrive la parola fine ad una lunga vertenza fra l’INPS e diversi milioni di pensionati. Il 13 giugno, la Suprema Corte sancisce che anche i titolari di più pensioni e di pensione di reversibilità, hanno diritto all’integrazione al minimo, con conseguente rivalutazione a partire dal 1983. Costo: 32.500 miliardi… una cifra ‘raccapricciante’ – commenta il ministro del Lavoro Clemente Mastella – ma le misure che verranno prese non interverranno sui diritti acquisiti. Troppo facile. Nessuno vorrebbe intervenire sui diritti acquisiti dei pensionati, nemmeno Berlusconi. Ma il problema di come reperire una cifra così spropositata resta e il ministro del Tesoro, Lamberto Dini, propone tre soluzioni: la rateizzazione, una manovra finanziaria correttiva – in pratica tasse su benzina, tabacchi, bolli e quant’altro – e una riforma del sistema pensionistico per il contenimento e la razionalizzazione della spesa previdenziale che pensionati e Sindacato traducono subito in: tagli alle pensioni. Di ‘rateizzazione’ non se ne parla; di nuove tasse Berlusconi, che ha promesso il contrario, non vuole sentirne parlare; non resta che la riforma con tagli alla spesa previdenziale e sanitaria. Immediata, e univoca, la risposta del Sindacato… se il Governo tocca punti nevralgici del sistema previdenziale e sanitario, si ritroverà le piazze piene. Meno di tre mesi dopo la sentenza della Corte Costituzionale, il 7 settembre, il Ministro del Tesoro presenta la sua proposta di riforma pensionistica con una premessa che sgomenta Sindacato e pensionati… l’adeguamento delle pensioni al costo della vita – la famosa ‘scala mobile’ – non è per i pensionati un diritto acquisito, ma solo un’aspettativa. Apriti cielo! Negare l’adeguamento al costo della vita – dirà il Sindacato – significa condannare 7 milioni di pensionati, con un asse-


gno di un milione al mese e gli oltre 5 milioni che percepiscono l’attuale minimo di circa 600.000 lire al mese, a vivere per tutta la vita al di sotto della soglia di povertà. Ma Dini continua a snocciolare le sue proposte: blocco per 6 mesi di ogni forma di pensionamento; abolizione delle future liquidazioni – le quote mensili da accantonare verrebbero date al lavoratore con il vincolo di costituirsi un fondo pensione integrativo – riduzione del rendimento annuo delle pensioni dal 2 all’1,5% a partire dal 1994; innalzamento dell’età pensionabile per il godimento delle pensioni di anzianità, abolizione delle pensioni baby per i dipendenti pubblici e parità di trattamento pensionistico fra pubblico e privato. Ancora: lotta agli sprechi, ai privilegi, tetto pensionabile, revisione sistematica delle pensioni di invalidità e di reversibilità. Questa non è una proposta di riforma – sostengono furenti i Sindacati – è una dichiarazione di guerra, un atto di terrorismo… togliere la scala mobile ai pensionati significa affamare le classi sociali più deboli… il ministro Dini cerca lo scontro sociale. Non è più tempo di minacciare scioperi – afferma Fausto Bertinotti – è tempo di farli. Domani può essere troppo tardi. E D’Alema… è un’inaccettabile aggressione del Governo contro i pensionati, un assalto alla sciabola alle condizioni di vita dei ceti più deboli… le proposte del Ministro sono offensive e insensate… scateneremo contro il Governo di Silvio Berlusconi un’offensiva senza precedenti. Ma anche nella maggioranza c’è chi dissente – primo fra tutti Bossi – alle proposte del Ministro del Tesoro. D’Alema allora torna ad ‘invitare’ Bossi e Buttiglione, il 9 settembre, ad unirsi alle forze progressiste per creare, in tempi brevi, un’alternativa di Governo… dopotutto – sostiene D’Alema – Bossi è già opposizione nel Governo. Berlusconi è ormai prigioniero di questa maggioranza mentre Fini, il più cinico e astuto, ingrassa sulle disgrazie del Governo puntando ad una posizione defilata per occupare il potere col-

locando i suoi uomini. Il 10 settembre, il Presidente del Consiglio inaugura la prima Fiera del Levante della Seconda Repubblica e, naturalmente, parla delle pensioni, della ripresa economica e produttiva, del Mezzogiorno e della prossima legge Finanziaria. La sala Tridente è stracolma – scrive De Tomaso – il caldo si può toccare con le mani e Berlusconi esordisce con una battuta: Torno il prossimo anno a patto che venga installato un nuovo impianto di condizionamento. L’atmosfera si scioglie – continua De Tomaso – poi Berlusconi attacca: La ripresa c’è ed è di buona qualità… a poco a poco ogni giorno faremo una cosina e, a furia di fare le cose per bene, vedrete che alla fine verranno risultati straordinari; le pensioni non si toccano: nonne, zie, mamme d’Italia state tranquille, non sarà toccata una lira delle pensioni attuali. Uno dei massimi leader dell’opposizione ha annunciato un’offensiva 345


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senza precedenti. Sarebbe più decoroso dialogare nel merito delle diverse soluzioni piuttosto che urlare e battere il tamburo in piazza. Per il Mezzogiorno – scrive Lino Patruno – Berlusconi ha indicato cinque possibili interventi: migliorare la produttività del sistema meridionale, curare la formazione professionale, ridurre il deficit delle infrastrutture, coinvolgere il capitale privato, migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. E’ un impegno che prendo formalmente, ha detto il Presidente del Consiglio. Ma i giuramenti non bastano – commenta Patruno – perché, come e con quali soldi, il Presidente non l’ha detto… e anche se l’avesse detto non avrebbe cambiato la sostanza. Sembra che tutto dipenderà dalla prossima benedetta legge Finanziaria sulla quale finora si è sentito di tutto, a cominciare dalle chiacchiere. Il Sud saprà attendere anche se, ormai, abbiamo capito: dobbiamo fare da soli. La giornata barese di Berlusconi termina con un’altra battuta. Ad un’anziana signora che in Cattedrale gli sussurra: signor Presidente, che Dio vi benedica! Berlusconi si ferma, le stringe le mani e risponde… Signora, se non fossi benedetto non sarei qua.

Tangentopoli, Napoli e la camorra Pochi giorni dopo torna, sulle prime pagine dei quotidiani, Tangentopoli: ventinove arresti il 15 settembre nell’ambito dell’inchiesta sulla corruzione nella Guardia di Finanza e 98 arresti, cinque giorni dopo in Campania, per una indagine su presunte commistioni tra camorra, politici e imprenditori. Alle 4,30 del mattino del 20 settembre, Napoli è come scossa da un terremoto. Nella grande retata, richiesta da 4 p.m. della Procura partenopea, i carabinieri arrestano anche l’ex ministro Antonio Gava, l’ultimo componente di una famiglia che ha ‘regnato’ a Napoli per oltre 25 anni. Figlio di Silvio, già senatore della Repubblica, don Antonio è stato ministro delle Poste 346 nel 1983; ministro delle Finanze nel 1987 e mi-

nistro dell’Interno l’anno successivo. L’accusa è gravissima: associazione a delinquere di stampo mafioso. A chiamarlo in causa sono 25 pentiti di camorra fra cui i noti capi della ‘Nuova famiglia’, Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, gli stessi che hanno accusato i Casillo. I nostri ‘rapporti’ – avrebbero detto Alfieri e Galasso agli inquirenti – iniziano subito dopo il terremoto del 23 novembre 1980 e si consolidano a seguito del rapimento di Ciro Cirillo, nell’aprile del 1981, da parte delle Brigate rosse. La storia di Cirillo, noto esponente politico napoletano considerato all’epoca il ‘cappello’ dei Gava, l’abbiamo raccontata nel 6° volume di questa Finestra. In quel periodo, però, il ‘boss dei boss’ della camorra, è Raffaele Cutolo che, in carcere già da anni, finisce per perdere la ‘guerra’ con l’emergente Carmine Alfieri della ‘Nuova famiglia’ e i Gava, che secondo Alfieri e Galasso erano già i ‘referenti’ attivi di Cutolo – si dice che fosse stato Cutolo a mediare con le Brigate rosse per il rilascio di Ciro Cirillo – diventano i loro referenti. Quella che raccontano Alfieri e Galasso agli inquirenti, è una lunga storia di affari illeciti fra commesse, appalti e tangenti, una valanga di miliardi per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto del 1980, in cambio di voti. Antonio Gava nega tutto e, dopo un lungo interrogatorio nel carcere militare di Forte Boccea a Roma, l’ex ministro ottiene gli arresti domiciliari per motivi di salute. Don Antonio, che appare l’ombra di se stesso, stava uscendo da un coma diabetico che l’aveva colpito tre anni prima. L’incredibile volume di affari illeciti per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto, è ormai storia. Al maxi processo di primo grado che si conclude a Napoli nel novembre del 2000, la corte d’Assise condanna 47 esponenti della camorra all’ergastolo; infligge decine di anni a diversi imprenditori ed esponenti politici e assolve, con ‘formula ampia’, Antonio Gava.


Dini... il ‘terribile’ Il 27 settembre di quest’anno, Governo e Sindacato s’incontrano prima che, il 28, il Consiglio dei ministri vari la legge Finanziaria dove, per la prima volta, sono previste misure sulla previdenza. Dini, insomma, è riuscito ad imporre la sua ‘riforma’: blocco, per decreto, delle pensioni di anzianità – 35 anni di contributi – fino a dicembre ’95; blocco delle pensioni di vecchiaia – 40 anni di contributi – fino al 30 giugno dello stesso anno e innalzamento dell’età pensionabile a 61 anni dal primo luglio del ’95. Quanti però volessero ugualmente godere della pensione di vecchiaia, senza aver raggiunto l’età pensionabile, subiranno una decurtazione del 3% fino al raggiungimento della nuova età pensionabile. E ancora: riduzione dei rendimenti dall’attuale 2% a 1,75% dal ’96 e a 1,50% dal ’97; slittamento di 2 mesi nell’erogazione della scala mobile, che non sarà più calcolata sulla base dell’inflazione reale bensì su quella programmata; eliminazione delle baby pensioni; parità di trattamento pensionistico fra pubblico e privato – i dipendenti pubblici godono di un trattamento migliorativo rispetto ai privati –;

revisione delle pensioni di reversibilità; blocco delle assunzioni nel pubblico impiego per 6 mesi; solito ‘condono’, che assume il nome di ‘concordato’, per le imprese in debito con l’INPS e altri, diversi, ammennicoli. In breve, bisogna rastrellare, sia i 32mila miliardi di arretrati dovuti ai pensionati come disposto dalla Corte Costituzionale, sia i 50mila necessari per la nuova Finanziaria. Per il Sindacato, le sole misure sulla previdenza, bastano e avanzano per sbattere la porta… si è cercato lo scontro. Il 14 ottobre sarà sciopero generale. Ma non è necessario attendere fino al 14. Già dal 28 settembre, mentre il Tg 3 apre sulle note dell’Internazionale, migliaia di lavoratori bloccano, spontaneamente, piazze, strade e fabbriche con cortei e comizi volanti in segno di protesta. Le posizioni sono nette: il Governo parla di misure necessarie per garantire le pensioni future; il Sindacato parla di ‘affossamento’ dello stato sociale. La Finanziaria è consegnata al Capo dello Stato la sera del 30 settembre, ultimo giorno utile per la sua controfirma… non c’è tempo per leggerla – dirà Scalfaro – ho fatto delle 347


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chiacchierate telefoniche con il Presidente del Consiglio impegnandolo a scorporare la riforma pensionistica dalla Finanziaria… non si possono prendere misure così importanti senza un dibattito in Parlamento… è in gioco la sopravvivenza dello stato sociale sancito dalla Costituzione. Il compromesso è che la riforma della previdenza sarà presentata come disegno di legge ma seguendo un percorso parallelo alla Finanziaria. E’ solo una questione di forma – commenta il ministro Dini, il più intransigente e convinto assertore della riforma – la sostanza non cambia… lo scorporo della riforma delle pensioni non modificherà la struttura della manovra finanziaria. Sarà, ma forse il Capo dello Stato non sarebbe intervenuto se Berlusconi non avesse ‘minacciato’ il ricorso al voto di fiducia per approvare la Finanziaria nella sua interezza.

Seconda Repubblica: addio Inizia il ‘concerto’ per coro e orchestra che porterà il Cavaliere alle dimissioni. Il 2 ottobre Rocco Buttiglione denuncia un presunto complotto della ‘destra’ contro Berlusconi… sento dire in giro che è in arrivo un avviso di garanzia per il Presidente del Consiglio… se questa ipotesi dovesse verificarsi, Berlusconi sarebbe sostituito a Palazzo Chigi dal giudice Di Pietro da tempo corteggiato dalla destra. Ironica la reazione di Fini… Buttiglione è un acchiappafantasmi; sferzante D’Alema… pura fantapolitica. Il 4 ottobre salta fuori una lettera del Capo dello Stato ai presidenti di Camera e Senato in cui Scalfaro, non solo lamenta di non essere stato messo in condizione di controllare la legge Finanziaria, ma li invita a vigilare affinché le norme sulla previdenza siano presentate con un disegno di legge… questo si chiama ‘conflitto istituzionale’, commenta l’opposizione. Berlusconi non nasconde il suo disappunto… non capisco, la scorsa settimana mi sono recato più volte dal Capo dello Stato per 348 informarlo su quanto si stava facendo. Tutto si

è svolto nella massima correttezza e Scalfaro conosceva le modalità della Finanziaria. Il portavoce del Governo, Giuliano Ferrara, è, come al solito, meno diplomatico… il Capo dello Stato pare abbia dimenticato che è consuetudine inviare la Finanziaria al Quirinale all’ultimo momento: l’anno scorso gli è stata consegnata l’ultimo giorno e due anni prima addirittura all’alba del primo ottobre e fu lo stesso Scalfaro a retrodatarla. Il 5 ottobre il Corriere della Sera pubblica un’intervista al capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli… e si scatena il caos. Borrelli attacca come un ariete il ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, a livello politico, personale e professionale; si scaglia contro gli avvocati definendoli ‘massa’ dalla quale vengono fuori professori e talvolta anche ministri; ritiene ‘pugnalate’ le critiche dei suoi colleghi all’operato della Magistratura milanese e, alla domanda dell’intervistatore a che punto è l’inchiesta sulle tangenti di Telepiù alla Guardia di Finanza, Borrelli risponde… è inutile nascondersi dietro un dito. E’ vero: siamo ad un momento importante, cruciale. Quanto è apparso sui quotidiani sul problema di Telepiù, mostra abbastanza chiaramente che si rischia di arrivare a livelli finanziari e politici molto elevati. Ieri è stata una fra le giornate più convulse nella storia della Seconda Repubblica – scrive Gorjux nell’editoriale del 6 ottobre – una giornata in cui si è stati, come non mai, vicini alla rottura ed all’aperto conflitto fra i poteri istituzionali. Nell’intervista al Corriere della Sera, lo dico con rincrescimento – commenta l’ex giudice Alessandro Galante Garrone sulla Gazzetta – mi è parso che Borrelli sia uscito un po’ fuori dal seminato. Un’intervista evitabile… è la reazione a caldo di Massimo D’Alema. Poi, quando viene divulgato il commento di Giuliano Ferrara… l’intervista di Borrelli è una canagliata di stile mafioso… il Governo sta preparando un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura


La rabbia dei pensionati contro la riforma Dini.

per attentato contro gli organi costituzionali… D’Alema corregge il tiro… lo scontro è grave, ma l’intervista a Borrelli è colta a pretesto per un attacco alla Magistratura, ed ha uno scopo molto preciso: intimidirla per garantire l’impunità a chi ha il potere. L’esposto annunciato da Ferrara non ci sarà. Fini e Bossi non intendono firmarlo. L’incidente si chiude con una lettera di protesta al Capo dello Stato, quale Presidente del CSM, e la conflittualità passa dal livello politico-istituzionale a quello politico-sindacale. L’antivigilia dello sciopero nazionale si registrano due episodi che appaiono conciliatori ma che, in realtà, sono in evidente contrasto tra loro. La mattina del 12 ottobre, il Capo dello Stato riceve, al Quirinale, i leader di CGIL, CISL e UIL. Scalfaro, prima sottolinea il ruolo istituzionale del Sindacato in una democrazia moderna; poi, auspica la ripresa del dialogo sociale. In serata, in un confronto televisivo fra Giuliano Ferrara e il segretario della CISL, Sergio D’Antoni, il portavoce del Governo comunica a D’Antoni la disponibilità dell’Esecutivo a riprendere la trattativa interrotta a settembre. Tuttavia… quell’incontro sul Colle – scrive Cristiana Cimmino sulla Gazzetta – è sem-

brato a molti, più una ‘benedizione’, un avallo del Quirinale alla manifestazione sindacale, che un cordiale colloquio ‘super partes’… la solidarietà di Scalfaro ai Sindacati suona come un atto politico. Che la manovra finanziaria e le misure sulla previdenza delineate dal Governo… non siano del tutto eque – sostiene invece l’economista Mariano D’Antonio – non c’è dubbio. Né si può dubitare sul significato politico dello sciopero generale. Manca, nell’atteggiamento della CGIL, CISL e UIL, una controproposta alle misure governative. Manca l’indicazione puntuale dei tagli di spesa pubblica e delle maggiori entrate che nel ’95 dovrebbero riempire il buco dei 50mila miliardi apertosi nel bilancio pubblico. Fino a quando i Sindacati – conclude D’Antonio – non diranno come e quando reperire questa cifra e abbattere di altrettanto il disavanzo pubblico, la loro posizione non sarà sufficientemente realistica e perciò non sarà credibile.

Sciopero nazionale Ma con o senza motivazioni sociali, con o senza controproposte sindacali, il 14 ottobre l’Italia si ferma. Una manifestazione imponente, un bagno di folla così non si vedeva da venti anni – commenta il segretario aggiunto della CISL, Raffaele Morese – aveva ragione Berlusconi, lo sciopero non è stato generale, è stato totale… con noi, oggi, c’era anche il Presidente della Repubblica. Ai trecentomila manifestanti di Milano e al mezzo milione di Roma – le cifre sono, come sempre, contrastanti fra quelle delle organizzazioni sindacali e quelle fornite dalle Questure – il segretario della UIL, Pietro Larizza, e il vice segretario della CGIL, Guglielmo Epifani, scandiscono all’unisono… oggi è il primo giorno di sciopero nazionale, ma non sarà l’ultimo… e annunciano, a breve termine… una marcia su Roma. A Firenze, davanti a 250mila manifestanti, Sergio Cofferati lancia un monito alla Confindustria… gli industriali stanno avallando una politica ini- 349


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qua… ma devono sapere che non vive una fabbrica giusta in una società ingiusta. A Bari, un corteo di oltre 50mila scioperanti ha impiegato 75 minuti per attraversare corso Cavour. Le notizie sullo sciopero generale raggiungono il Presidente del Consiglio in visita a Mosca. Berlusconi è allo stesso tempo piccato e contento. Piccato per la massiccia adesione – i soliti sondaggi gli avevano detto il contrario – contento per l’alto livello civile della protesta e l’assenza di incidenti. Presidente, e ora? – gli chiedono i giornalisti – Mi dispiace – replica Berlusconi – ma le misure impopolari che abbiamo dovuto assumere, sono frutto di un’eredità… io non le ho prodotte, le ho trovate e né con uno né con dieci scioperi generali si può arrivare ad un cambiamento delle cifre. Sferzante il commento di Massimo D’Alema alle parole del Cavaliere… soltanto un pazzo può non tener conto di un’espressione popolare come quella di ieri. Forse Berlusconi era annebbiato dalla vodka. Passata la ‘sbornia’, tre giorni dopo, il 17 ottobre, Gorjux scrive… possiamo affermare tre cose: lo sciopero era legittimo, non c’era bisogno che lo dicesse il Presidente del Consiglio; erroneo ritenere che non è servito, non servirà a niente. Altrimenti il Governo non avrebbe ‘offerto’ il tavolo della trattativa; inoltre, almeno nominalmente, non è stato uno sciopero politico. I provvedimenti in tema di pensioni inseriti nella legge Finanziaria sono certamente dolorosi, impopolari, sgradevoli e sgraditi. In alcune sue parti, il disegno legislativo è ingiusto, tanto che dallo stesso Governo se ne sono previste modifiche. Berlusconi, Fini, Bossi, lo stesso ministro del Lavoro, Clemente Mastella, sono disponibili ad apportare modifiche alla riforma pensionistica, ma il ministro del Tesoro, Lamberto Dini, no. Dini, in questo Governo – sostiene Cofferati – rappresenta la voce più oltranzista… 350 tuttavia noi siamo disponibili ad accettare il

tavolo della trattativa… ma resta pregiudiziale e irrinunciabile lo scorporo di tutti gli aspetti della riforma dal testo della Finanziaria… la loro collocazione naturale è in un apposito disegno di legge da discutere in Parlamento e con le organizzazioni sindacali. Ormai, le posizioni, fra Governo e Sindacati, sono nette e distanti. Finite le polemiche sullo sciopero generale, tornano, sempre con maggior insistenza, le voci su un presunto avviso di garanzia al Presidente del Consiglio. Anzi, più di uno: da Milano e da Roma. Anzi, mentre Berlusconi è ancora a Mosca, gli fanno sapere che ce ne sarebbe uno anche da una Procura del Sud… sono sereno, vado avanti – dirà Berlusconi – un avviso non mi farà dimettere. Mica vero – replica Bossi – intanto bisogna vedere di che avviso si tratta… se fosse per un reato grave, potrebbe portare alle sue dimissioni… e comunque c’è sempre la vicenda del ‘conflitto d’interesse’… a Berlusconi s’impone ormai una scelta precisa: o fare il Capo del Governo, oppure rimanere il presidente della Fininvest. Ma se le ‘voci’ non sembrano turbare Berlusconi, turbano invece, eccome, i mercati finanziari, azionari, la lira, i titoli di Stato, la fiducia dei risparmiatori, il mercato internazionale e l’affidabilità dell’azienda Italia nel contesto europeo. Intanto, fra bocciature della Commissione lavoro parlamentare, nuove ‘aperture’ del Governo, nuovo appello di Scalfaro in materia di ‘giustizia sociale’ e pressioni sindacali, la Finanziaria, specie le misure sulla previdenza, comincia a perdere foglie. E’ troppo poco, diranno i sindacalisti che, finalmente, dopo svariati editoriali di denuncia da parte di economisti e meridionalisti – Francesco Tagliamonte, Alessandro Napoli, Vittore Fiore e Giuseppe Giacovazzo – si sono accorti di un’altra grave carenza: nella Finanziaria non c’è traccia del Mezzogiorno… sembra che in Parlamento la parola Mezzogiorno sia diventata oscena – sostiene Pietro Larizza


Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza all’assemblea confederale CGIL-CISL-UIL del 5 novembre a Bari.

– se il tasso di iniquità in questa Finanziaria è altissimo, per il Sud è addirittura spaventoso. E il vice presidente della Confindustria, Carlo Callieri, aggiunge… il Mezzogiorno rischia di sprofondare in un buco nero che può determinare tensioni occupazionali serie… è un’idiozia terrificante pensare di risolvere i problemi del Meridione con l’archeologia, il turismo e l’ambiente. Con queste premesse arriva novembre. E la situazione precipita. Il primo novembre la Commissione Bilancio di Montecitorio approva la Finanziaria e il disegno di legge collegato alla previdenza, non senza diversi emendamenti dell’opposizione votati anche dalla Lega. Il 2 arriva, da Londra, la ‘voce’ falsa, delle dimissioni di Berlusconi: crollo della lira e Borsa in picchiata. In un giorno solo la Borsa ha perso il 2,32%. Il 5 novembre si riunisce a Bari, alla presenza dei tre Segretari nazionali, l’assemblea confederale della CGIL, CISL e UIL. Tremila delegati per una messa a punto della strategia di lotta per contrastare la Finanziaria e mettere in moto la macchina organizzativa che il 12 novembre intende portare a Roma un milione

di manifestanti. L’assise barese è di un giorno solo. Le solite cose… il Mezzogiorno deve tornare al centro dell’attenzione del Paese… la questione meridionale è più attuale che mai… va riscoperto il ruolo del Mezzogiorno… non esiste sviluppo possibile per l’intero Paese senza il Mezzogiorno… e giù con… le infrastrutture, l’occupazione, il lavoro ai giovani, ecc. ecc. Tutto l’armamentario di sempre insomma e, per provare che questa volta il Sindacato fa sul serio, nel documento finale è proclamata una giornata di sciopero unitario delle regioni meridionali per il 24 novembre. A margine dell’assemblea barese, Michele Marolla intervista Sergio Cofferati… come mai questo improvviso interesse per il Mezzogiorno ‘dimenticato’ o quasi negli accordi con il precedente Governo Amato? Credo ci sia stata una distrazione – ammette Cofferati – che non ha lasciato indenne il Sindacato. Quando, dopo i provvedimenti del Governo Amato, la condizione complessiva del debito dello Stato e l’inflazione hanno migliorato sensibilmente le loro performances, ci si è illusi che questo fosse sufficiente a rilanciare complessivamente l’economia, e di conseguenza dare risposte positive ai punti deboli 351


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della struttura produttiva ed occupazionale. Così non è stato.

Alluvione e rivoluzione Dal 6 al 10 novembre i quotidiani ridimensionano il notiziario proveniente dal ‘fronte’ dei pensionati – di fronte a Montecitorio c’è ormai un sit-in permanente anche se il ‘contenitore’ dei provvedimenti, a furia di emendamenti, comincia ad avere più buchi di un colapasta – per occuparsi di una nuova emergenza: l’alluvione nel Nord-Ovest. Fin dal 5 novembre, in Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria e Toscana piove intensamente ed ininterrottamente da 24 ore. Il 6, mentre le sedi locali della Protezione Civile inviano a sindaci e prefetti centinaia di fax d’allarme, a Genova è riunito il popolo leghista a cui Umberto Bossi sta illustrando il progetto dell’Italia prossima ventura… subito dopo l’approvazione della Finanziaria – proclama il Senatur – chiederemo al Governo una verifica politica che dovrà portare all’attuazione del nostro progetto: una Repubblica federale in senso politico e fiscale composta da 9 Stati; una nuova Costituzione; un nuovo Parlamento e la creazione di un partito liberal-democratico-federalista che escluda categoricamente Alleanza Nazionale, Rifondazione Comunista e tutti quei partiti che con il loro moderatismo paralizzante, la ‘partitocrazia’, tanto per intenderci – sottolinea Bossi – ci ha lasciato in eredità un Sud senza economia, che ha lucrato milioni di pensioni di invalidità fasulle… ancora in questi giorni si è cercato di far passare, in Parlamento, un condono per i lavoratori agricoli della Puglia che non hanno pagato i contributi. Stiamo parlando di 6-7mila miliardi, lo stesso valore dei tagli alle pensioni… è questa la ‘partitocrazia’ che dobbiamo combattere… e non saranno Fini e Berlusconi a smantellare la forza di liberazione dei popoli del Nord. L’emergenza nazionale non sollecita commenti politici a margine dell’Assemblea leghi352 sta. Berlusconi si limita ad affermare che non

ci sarà né la ‘verifica’, né un nuovo partito senza Alleanza Nazionale; Fini liquida la ‘provocazione’ di Bossi con una battuta… è un pugile all’angolo. Ma il 6 novembre è domenica e i fax della Protezione Civile, che troppo spesso sono risultati ingiustificatamente allarmanti, restano sulle scrivanie. La pioggia non smette e il 7 è troppo tardi per correre ai ripari. Ogni corso d’acqua in Piemonte tracima; un muro liquido insieme ad un mare di fango travolge ogni cosa: franano colline, crollano case e ponti, vengono sommersi milioni di ettari di terreno, strade, ferrovie, interi quartieri di Torino e le zone periferiche delle città di Vercelli, Asti, Cuneo e Alessandria. La sera del 7 novembre già si contano 48 vittime; l’8 salgono a 64 fra cui 20 dispersi; 10mila sono i senzatetto. Si comincia a fare il conto dei danni: nei 461 comuni colpiti dall’alluvione ammontano a 10mila miliardi. Si teme per l’onda di piena del Po, ma fortunatamente il maltempo scende a Sud e il Polesine si salva dall’ennesimo disastro. L’8 novembre il Governo vara un primo stanziamento di 3.000 miliardi, proclama lo stato di emergenza in 6 regioni e annuncia, per l’11 novembre, un giorno di lutto nazionale.


Le misure economiche sono insufficienti – dirà Berlusconi – ma vedremo come e dove reperire gli altri fondi. Il mattino del 9 novembre, Lino Patruno scrive sulla Gazzetta un breve, significativo editoriale… questa è l’ora della solidarietà e non si parli d’altro. Non dobbiamo lasciare soli quei nostri fratelli piegati dal dolore, privati della casa e di una vita di lavoro in una sola notte maledetta. Il nostro aiuto non mancherà anche se una parte dei tremila miliardi stanziati dal Governo erano destinati all’agricoltura, soprattutto meridionale. Non mancherà anche se dovesse essere imposta una ‘una tantum’ che non potrebbe pesare di più su chi meno ha, cioè sul Sud. Gli angeli del fango sono partiti dal Sud all’indomani delle proposte leghiste di federalismo fiscale… come qui al Sud giunsero, quando il terremoto sbriciolò i paesi presepe dell’Irpinia e della Basilicata. Si apre la gara di solidarietà. Il senatore leghista, Antonio Serena, invita il Governo a bloccare i 2.300 miliardi stanziati dal CIPE, proprio il mese precedente, a favore della Calabria, Campania e Basilicata devastate dal terremoto del 1980, per destinarli subito alle zone alluvionate del Nord. Alcuni deputati di Forza Italia, invece, propongono di stornare 1.000 miliardi dai fondi residui della vecchia legge 64 per l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno e far fronte alla nuova emergenza. Una gara a senso unico dunque. La stampa meridionale ha sollecitato la solidarietà di tutto il Mezzogiorno; la Lega e Forza Italia… pure! Tanto, se in Basilicata, Irpinia e Campania le migliaia di famiglie che dal terremoto dell’80 continuano a vivere in containers e baracche di cartone, ci restano per un altro decennio, non sarà certo la fine del mondo. Ora è importante mettere in piedi l’Italia che lavora e produce. Cessata l’emergenza alluvione, si riaccende la polemica Governo-Sindacato sulle misure in materia di previdenza. Berlusconi lascia intendere che si possono stralciare le norme sulle

pensioni dalla Finanziaria… ma prima si deve arrivare ad un accordo sui contenuti da cambiare; Cofferati risponde… il Presidente del Consiglio si convinca. Non esiste alternativa coerente e realistica alla proposta del Sindacato: prima lo stralcio e poi l’accordo. Ma se fra Governo e Sindacato si è ormai al ‘braccio di ferro’, nella maggioranza la confusione regna sovrana. Il ministro Dini non accetta deroghe alla sua proposta di riforma pensionistica; il ministro del Lavoro, Mastella, sostiene invece che… se lo stralcio serve a ritrovare la pace sociale, bisogna farlo… la ripresa economica non si coniuga con la conflittualità continua. La Lega è divisa. Alcuni vogliono lo stralcio, altri ritengono che stralciare la parte pensionistica dalla Finanziaria significa svuotare la manovra del Governo il quale, a fronte delle diverse posizioni, minaccia, ancora una volta, di ricorrere al voto di fiducia sulla parte della Finanziaria relativa alle pensioni. Siamo ormai di fronte ad una telenovela rissaiola che non ha nulla da invidiare alle fasi più roventi e ingestibili della Prima Repubblica – commenta Giuseppe De Tomaso – ma bisogna prendere atto che non è semplice ‘violentare’ la natura di un popolo e la tradizione di secolari pratiche mediazionistiche… è più facile vincere una guerra che smantellare le incrostazioni di privilegi che pullulano negli Stati.

E ‘guerra’ è Vanificato l’ultimatum con lo sciopero nazionale del 14 ottobre, sabato 12 novembre, il Sindacato unitario, i consigli di fabbrica e le forze politiche di opposizione portano a Roma oltre un milione di persone – un milione e mezzo secondo le organizzazioni sindacali – provenienti da tutto il Paese con ogni mezzo: 8.000 pulman, 55 treni straordinari, 4 navi e 20mila auto private. E’ la più grande manifestazione di protesta di tutti i tempi – dirà Sergio D’Antoni nella gremita piazza San Giovanni – in questa piazza, oggi a Roma, c’è la vera Seconda Re- 353


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pubblica, quella dei valori, della giustizia, dell’equità e della solidarietà. Senza tutte queste persone non si va da nessuna parte – gli fa eco, al Circo Massimo, Sergio Cofferati – lo sappiano quelli del Governo: noi non ci fermeremo fin quando non avremo ottenuto risultati concreti; e se ricorreranno al voto di fiducia per mutilare il dibattito in Parlamento o per impedire la ripresa del dialogo con i Sindacati, noi risponderemo con durezza. E durissimo è il discorso di Pietro Larizza a piazza del Popolo… i nostri governanti stanno distruggendo tre anni di pace sociale, stanno annullando la politica dei redditi, stanno spaccando il Paese, stanno emarginando il Mezzogiorno, stanno togliendo ai giovani anche la speranza. E’ un attacco a tutto campo. La manifestazione romana è ancora più significativa perché 354 non ha il crisma dello sciopero. E’ un’organiz-

zata e tuttavia ‘spontanea’ protesta di popolo con connotazioni politiche, sindacali e personali. E’ una ‘sfida’ alla maggioranza… il valore politico di questa manifestazione – commenta D’Alema alla guida del corteo che porta a piazza San Giovanni – sta nell’incontro di sentimenti dell’opposizione sociale con quella democratica. E’ una sfida sindacale all’Esecutivo… se il Governo vuole riprendere il dialogo – afferma Larizza – deve lasciare i fucili perché noi non andremo con le mani alzate; ed è un attacco personale al Presidente del Consiglio: il 90% degli striscioni innalzati dai manifestanti, contiene il nome di Berlusconi e, la sera prima, le rappresentanze sindacali unitarie, i consigli di fabbrica avevano concordato di promuovere una settimana di ‘boicottaggio’ di tutte le aziende commerciali del Cavaliere: nessun acquisto nei suoi supermercati; volontario oscuramento delle sue reti televisive e controinformazione nelle piazze. Salvo alcuni momenti di tensione, la manifestazione romana è un successo senza precedenti. Infelici, invece, i commenti del giorno dopo di Silvio Berlusconi… bisogna lavorare, non scioperare; di Fini… è stata una manifestazione politica, le cui motivazioni non erano quelle di migliorare la Finanziaria ma di dimostrare la virilità del Sindacato; peggio il portavoce del Governo, Giuliano Ferrara… i governi non si rovesciano con le manifestazioni sindacali ma con i voti di sfiducia di liberi parlamentari… tuttavia, siamo pronti a proseguire il dialogo sociale. Ormai è chiaro, qualcosa bisogna fare. Non pochi, nella maggioranza, invitano alla cautela, al dialogo… guai a sottovalutare la manifestazione, a far finta di nulla, dirà il ministro del Lavoro, Clemente Mastella, in una intervista alla Gazzetta.

Bossi l’ondivago Il 14 novembre il leader lumbard propone alcuni emendamenti alla Finanziaria relativi alla parte previdenziale. Dini si oppone… ogni emendamento stravolgerebbe l’intera


struttura della legge; Bossi, allora, chiede lo stralcio delle misure sulla previdenza; il Governo torna a minacciare il voto di fiducia e, prontamente, il Sindacato proclama una nuova giornata di sciopero generale per il 2 dicembre. Il 16 novembre, in un Paese ormai ribollente di scioperi regionali, provinciali, settoriali – scendono in piazza anche gli studenti per protestare contro l’aumento delle tasse d’iscrizione all’università – e continue manifestazioni spontanee di pensionati, il Parlamento approva, col voto di fiducia, i primi due articoli in materia previdenziale: blocco delle pensioni di anzianità fino a gennaio del 1996 e innalzamento dell’età pensionabile di vecchiaia a 62 anni per gli uomini, a 57 anni per le donne. Il paradosso è che la Lega, prima vota la fiducia poi firma, con Buttiglione, un documento in cui è riproposto lo stralcio delle misure sulla previdenza prima che la legge Finanziaria giunga in Senato. D’Alema plaude… la presa di posizione della Lega è apprezzabile. Il segretario del PDS sembra piacevolmente sorpreso dell’iniziativa di Bossi. Invece – lo confesserà lo stesso Bossi qualche tempo dopo – era stato tutto concordato la sera del 14 novembre, in un incontro ‘segreto’, fra il Senatur, Buttiglione e D’Alema, nell’abitazione romana di Bossi. L’accordo era: sfiduciare il Governo Berlusconi non per tornare alle urne, ma per formarne uno nuovo, un ‘Governo delle regole’ di cui si ‘vocifera’ da qualche settimana. Un Governo cioè che completi la riforma elettorale – oggetto di discussione fra D’Alema e Buttiglione nel ‘laboratorio politico’ di Gallipoli – che abbia un progetto globale di politica economica per la salvaguardia delle classi più deboli e vari la legge anti-trust, la legge che vieta la concentrazione di prodotti di pubblico interesse in un solo soggetto come, per esempio, l’informazione stampata e via etere… una legge che io non escludo affatto possa farla anche un Governo espresso dall’attuale maggioranza – dirà D’Alema a De Tomaso in una intervista

alla Gazzetta – io pongo la questione delle regole, non quella del ribaltamento della maggioranza. Il 17 novembre il Governo è posto in minoranza: le opposizioni votano due emendamenti proposti dalla Lega sulla previdenza e il PDS esulta… di fatto, abbiamo ottenuto lo stralcio. E’ crisi? Chiedono i giornalisti a Bossi… non penso, ma bisogna chiederlo a Berlusconi. La sera stessa Palazzo Chigi convoca il Sindacato. La trattativa riprende. Lo sciopero generale, annunciato per il 2 dicembre, è messo in forse, ma nel frattempo si è aperto un nuovo fronte di contestazione contro il Governo. La riforma della scuola presentata dal ministro della Pubblica Istruzione, Francesco D’Onofrio, non piace agli studenti e nella manifestazione studentesca di Bari del 17 novembre, Massimo D’Alema è in prima fila. Il 19 è la ‘colomba’ leghista, Roberto Maroni, ministro dell’Interno, a creare nuove difficoltà al Governo… Berlusconi e Fini – sostiene Maroni in una intervista poi smentita – cercano lo scontro per lo scontro… non perdono occasione per fomentare lo scontro sociale. Forse Maroni ha detto veramente quelle parole, e forse no, ma D’Alema, che ormai non si lascia sfuggire una virgola, commenta… la smentita conferma la sostanza politica dell’intervista. E’ un segno ulteriore del malessere e dello scollamento della maggioranza. E’ la conferma che vogliono esasperare il conflitto sociale e le parole di Maroni contengono un giudizio molto grave e preoccupante che io condivido.

L’‘avviso’ a Berlusconi Che nel Governo ci sia veramente chi cerca lo scontro per lo scontro questi è sicuramente Lamberto Dini, il quale, anche nel prosieguo della trattativa sindacale, avverte… ogni affievolimento in materia previdenziale avrà un prezzo molto alto sui tassi d’interesse e nel ’95 saremo costretti a varare nuove tasse. Il 21 novembre, mentre la Camera approva la Finanziaria ‘tagliando’ 1.075 miliardi desti- 355



nati al Sud e alle aree depresse, senza che alcun parlamentare meridionale accenni un minimo di protesta, il Presidente del Consiglio è a Napoli per presiedere la conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul crimine organizzato. Per 3 giorni, le delegazioni di 140 Paesi, alla presenza di oltre mille giornalisti, cercano un’intesa comune per combattere la corruzione e le organizzazioni criminali nel mondo. Ma Berlusconi ha altro per la testa. Le elezioni amministrative del 20 novembre hanno confermato la crescita dell’opposizione e Bossi continua a ‘giocare’ a leader di un partito di lotta e di Governo. La Lega ha votato la Finanziaria, ma ancora una volta ha chiesto che il Senato stralci da questa la riforma previdenziale. Meno di un mese prima, in un seminario di Forza Italia, Berlusconi aveva confessato alla sua gente che… è difficile e defatigante governare, peggio ancora guidare una coalizione disomogenea… ci trattano male tutti, prendo sberle da tutte le parti. Ma sono deciso a tenere duro e andare avanti. Ma ci vorrà ben altro per uscire indenne dalla ‘sberla’ che gli arriva durante la notte del 21 novembre. Il pomeriggio precedente, due ufficiali dei carabinieri, si presentano a Palazzo Chigi e chiedono di parlare con il Presidente del Consiglio. Il capo della segreteria del Presidente, Giampiero Massolo, sorpreso che i due ufficiali non fossero a conoscenza dell’impegno napoletano di Berlusconi, prima li ragguaglia, poi chiede il motivo della visita. Non lo sappiamo, replicano gli ufficiali, noi abbiamo l’incarico di consegnare questa lettera, personalmente, al Presidente del Consiglio. La busta è intestata: ‘Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano’. Congedati i due ufficiali, Massolo mette in allarme Gianni Letta che, dopo una serie di frenetici contatti, riesce ad ottenere il numero del cellulare di uno dei due carabinieri, il maggiore Paolo Maria La Forgia, e lo comunica a Berlusconi. Il Presidente, che è appena uscito dal teatro

San Carlo di Napoli dove con i suoi ospiti ha assistito ad un concerto di Luciano Pavarotti, chiama dalla sua autovettura il maggiore La Forgia e gli chiede di aprire la busta e leggergli il contenuto: il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è invitato a comparire davanti ai pubblici ministeri di Milano per rispondere dell’accusa di concorso in corruzione nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Una doccia gelata sarebbe stata più salutare. Lo sapeva, glielo avevano detto, ma si rifiutava di crederci. Che faccio? Chiede Berlusconi a Letta… Presidente resti a Napoli. La notizia, per ora, è segreto d’ufficio. Vedremo il da farsi. Illusione. In una successiva ricostruzione degli avvenimenti di quella sera, si saprà che almeno 4 giornalisti di tre quotidiani diversi avevano sospettato, dal gran movimento di carabinieri e procuratori nelle stanze del pool di ‘Mani Pulite’, che qualcosa di grosso era nell’aria. Ma soltanto due cronisti della ‘giudiziaria’ del Corriere della Sera erano riusciti ad avere conferma, nella tarda serata del 21 da una fonte rimasta anonima, del mandato di comparizione al Presidente del Consiglio. Alle 5,20 del mattino del 22 novembre, il solo Corriere della Sera infatti pubblica, in prima pagina, la notizia che Silvio Berlusconi è indagato. Alle 7, centinaia di giornalisti, cameraman, fotografi, agenti di polizia e carabinieri, assediano l’hotel Vesuvio a Napoli, dove alloggia il Presidente del Consiglio. Alle 9… in una bolgia infernale – scrive l’inviato della Gazzetta, Lello Parise – il Cavaliere, teso, accigliato, scuro in volto e visibilmente amareggiato, afferma: ‘sono sereno, ho l’assoluta certezza di non aver commesso alcun reato… prendo atto che la notizia della notifica è stata data direttamente a un giornale, anziché alla persona interessata, con palese violazione del segreto d’ufficio… giudichino altri qual è il senso di responsabilità di chi ha posto in essere questa situazione proprio il giorno in cui presiedo, in rappresentanza del nostro Paese, la conferenza 357


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mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale’. Nel pomeriggio Berlusconi torna a Roma per registrare, nel suo studio privato, una cassetta di 7 minuti che le redazioni dei Tg mandano in onda nel notiziario della sera… non mi dimetto e non mi dimetterò senza un voto di sfiducia delle Camere – sono le prime parole del Presidente del Consiglio – io non ho corrotto nessuno, non ho assolutamente niente da temere… non ho intenzione di piegarmi ad un abuso e ad una strumentalizzazione infame della giustizia penale… non cederemo di fronte a nessun ricatto, non molleremo la presa di fronte a nessuna intimidazione. Nei prossimi giorni – dice ancora Berlusconi nel suo messaggio – mi recherò dal Capo dello Stato per ribadire questo mio orientamento e per chiedergli un impegno rigoroso, senza tentennamenti e senza ambiguità… finché l’Italia rimarrà uno Stato di diritto in cui i magistrati fanno giustizia e non politica, nessuno potrà mai portare l’accanimento inquisitorio fino al punto di cancellare la rettitudine e la perfetta moralità del mio operato. Tutto nella norma: l’indignazione, la dichiarazione d’innocenza, l’attacco ai magistrati, tranne quell’inciso riferito al Capo dello Stato per un ‘impegno rigoroso, senza tentennamenti e ambiguità’. Il 23 novembre Scalfaro convoca i presidenti di Camera e Senato e nel comunicato del Quirinale a seguito dell’incontro, è ribadito che… la sorte del Governo è affidata alle scelte del Parlamento. Nessun cenno su quell’inciso del Cavaliere. Ma molti commentatori politici si chiedono: perché Berlusconi ha inteso far apparire Scalfaro ‘tentennante e ambiguo’? Perché il Cavaliere sapeva già che il Capo dello Stato era stato informato dell’avviso di garanzia fin dalla sera del 21 dallo stesso Borrelli, e non aveva fatto nulla. La sera dell’avviso all’on. Berlusconi – dirà Borrelli quasi un anno dopo, il 12 ottobre del ’95 – chiamai il Capo dello Stato dopo 358 aver ricevuto la telefonata di un cronista che

chiedeva conferma della notizia. A quel punto era evidente che qualcuno aveva violato il segreto d’ufficio… ritenni perciò mio dovere chiamare Scalfaro per considerazioni attinenti alle geometrie costituzionali e perché ritenni sconveniente che per un avvenimento giudiziario di quel rilievo, il Capo dello Stato ricevesse cognizioni da altre fonti. Anche dopo la ‘rivelazione’ di Borrelli, Scalfaro non farà commenti. Tre anni dopo, il 7 luglio del 1998, al processo di primo grado, Berlusconi è condannato a 2 anni e 9 mesi di reclusione e, naturalmente, scatenerà l’ira di Dio. Il giorno seguente, 8 luglio, durante un plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, Scalfaro ammette, per la prima volta, di aver ricevuto la telefonata di Borrelli… erano le 21,30 del 21 novembre, lo ricordo benissimo… io non ho dubbi che non c’è stata intenzione – continua Scalfaro – ma è possibile che un avviso di garanzia, che si poteva consegnare anche dieci giorni dopo senza che cambiasse nulla, esca con precedenza assoluta su un giornale? Poteva essere valutato un suo eventuale slittamento… e tuttavia, la protesta dell’on. Berlusconi, non può diventare accusa. Perché allora quella ‘maledetta’ sera non si pronunciò negli stessi termini con Borrelli? Perché gli ufficiali dei Carabinieri erano già a Palazzo Chigi, dirà Scalfaro. Era vero solo in parte. Una settimana dopo l’ammissione di Scalfaro, il procuratore capo di Mani Pulite torna sull’argomento e precisa che… alla mia telefonata il presidente Scalfaro manifestò una punta di stupore per la coincidenza della conferenza mondiale di Napoli… gli spiegai che non si era ritenuto di dover ritardare l’iscrizione, e lui non disse più nulla. Del resto – conclude Borrelli – tra noi non c’è un rapporto gerarchico e lui non avrebbe avuto alcun titolo per fermarmi. Resta il fatto che quella prima, specifica accusa, sarà respinta in Appello e il 20 ottobre del 2001 la Corte di Cassazione assolve Silvio Berlusconi per ‘non aver commesso il fatto’. Tornato, nel frattempo, Presidente del Consi-


glio, il Cavaliere chiederà a tutti i quotidiani… ora, ridatemi l’onorabilità calpestata. Ma torniamo a Napoli. Il 23 novembre, la notizia paradossale che il Presidente della conferenza mondiale sulla criminalità è indagato per corruzione, è sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. Dopo l’avviso di garanzia ad Andreotti dello scorso anno, questa nuova indagine della Magistratura su un Presidente del Consiglio in carica, getta un’ombra di grave discredito all’immagine del Paese. Tuttavia, nella stessa mattinata, Berlusconi torna a Napoli per la cerimonia di chiusura della conferenza e, nel pomeriggio, affronta la folla di giornalisti inviati da tutto il mondo. Teso, amareggiato, Berlusconi apre le braccia in segno di sconforto e si sfoga… non riesco a capire come si possa arrivare ad una cosa di questo genere… e ripete… no, non mi dimetto. Non ci sarà nessun Governo a termine… la verifica la faremo subito e non come vuole Bossi, dopo l’approvazione della Finanziaria… resto a Palazzo Chigi anche se devo buttare giù tanti rospi. Poi, lentamente, quasi sillaba dopo sillaba, per sottolineare l’annuncio clamoroso, afferma… ho deciso di vendere le mie aziende, saranno quotate in Borsa; ho il dovere di sacrificarmi. Poi ancora, apre ai Sindacati e accusa Bossi di ‘tradimento’… il sistema pensionistico così com’è non sta in piedi, ma c’è una grande disponibilità del Governo al dialogo con le forze sociali. E ai leghisti… chi è stato eletto con voti determinanti di Forza Italia, non può pensare di far parte della maggioranza e rinforzare allo stesso tempo lo schieramento dell’opposizione… chi lo fa è un traditore e io sono il primo a definirlo un ‘giuda’ nei confronti dei suoi elettori. Il 24 novembre mentre il Governo, ormai orientato verso lo stralcio dalla Finanziaria delle norme sulle pensioni – con la sola, ferma opposizione del ministro del Tesoro, Lamberto Dini – incontra le parti sociali, Bossi, D’Alema e Buttiglione preparano la successione al Governo Berlusconi.

Nessuno vuole nuove elezioni, tanto meno Bossi che ha ormai una ‘frangia’ di 50 deputati, compreso il suo ministro dell’Interno, Roberto Maroni che afferma… non sono disposto ad entrare in un Governo con una maggioranza diversa dall’attuale, è una questione di coerenza. Ombre di scissione nella Lega? Ma quale scissione – sbotta Bossi – una decisione del genere è impensabile. La ‘coerenza’ non porta al federalismo, e se l’accordo con il PDS fosse l’unico modo per portare a casa il federalismo, ben venga anche questa alleanza.

Quadro confuso Niente elezioni anticipate dunque, ma ‘nuove alleanze’ per un nuovo Governo. Si tratta solo di trovare la formula giusta. E si torna a sfogliare il libro alchimistico della Prima Repubblica: Governo di tregua, Governo del Presidente, Governo Istituzionale, Governo Costituente, Governo delle ‘regole’ – che piace al PDS – perfino un Berlusconi-bis. Poi, ecco la ‘parola nuova’ e immediatamente odiata: ribaltone. Ventiquattro ore dopo, il 25 novembre, un comunicato della segreteria della Lega e un editoriale apparso sui due quotidiani cattolici – Avvenire e Osservatore Romano – gelano il PDS. La segreteria della Lega comunica, seccamente, che… il PDS non rientra nel polo federalista e liberaldemocratico; i due quotidiani cattolici, si è già accennato, sostengono che un eventuale Governo PPI-Lega-PDS… sarebbe un tradimento del mandato ricevuto dagli elettori. Il 28 novembre Giuseppe Gorjux, scrive: A fine marzo gli italiani hanno votato per un radicale cambiamento, non solo e non tanto della ‘classe politica’ che li governava, quanto del modo di essere dello Stato democratico, per un rapido ripristino di dignità della politica. Diciamo la verità: pensare, credere che tutto cambiasse nel breve volgere di pochissimi mesi, è stata un’ingenuità collettiva. Oggi ci si ritrova davanti ad un quadro diverso sì, 359



ma confuso quanto quello che si credeva cancellato dal voto. Contrasti e ‘tradimenti’ dentro la maggioranza – prosegue l’editoriale di Gorjux – appiattimento dell’opposizione su pregiudiziali e schemi antichi; incapacità da entrambe le parti, di svelenire il confronto politico e parlamentare. L’impressione è che tutti stiano sbagliando tutto: il Governo perché ha proposto una legge Finanziaria troppo gravosa per i pensionati e per il Mezzogiorno; perché non doveva cedere alla ‘piazza’ dopo aver respinto lo stralcio in materia di previdenza; l’opposizione perché non ha lasciato respiro al Governo attaccandolo fin dal primo giorno e incentrando ogni energia sulla demolizione personale del presidente del Consiglio e infine, la Magistratura, che sconfinando dal suo ruolo con l’avviso di garanzia a Berlusconi nel giorno in cui questi presiedeva la conferenza mondiale contro la criminalità, ha inferto un altro colpo alla già compromessa credibilità italiana all’estero. Ognuno soppeserà e addebiterà i tanti asserti negativi secondo la propria ispirazione e convinzione – conclude Gorjux – di oggettivo rimane la constatazione che gli interessi dei partiti non sono riusciti a trovare quel comune denominatore – il bene del Paese – che è proprio delle democrazie compiute. Il primo dicembre, dopo quasi 24 ore di ininterrotte trattative fra Governo e Sindacato alla presenza del Presidente del Consiglio, l’accordo sulla previdenza è raggiunto; lo sciopero nazionale programmato per il giorno dopo è revocato. Tutti soddisfatti: maggioranza, opposizione, sindacati e imprenditori. L’obiettivo di stralciare le misure in materia previdenziale dalla Finanziaria, è raggiunto: sarà presentato un apposito disegno di legge. Anche il Mezzogiorno ha ottenuto qualcosa in più: 1.000 miliardi per affrontare l’emergenza occupazione – potenziamento dei lavori socialmente utili e contratti di solidarietà – 3.000 miliardi di mutui destinati agli interventi infrastrutturali e l’impegno ad accelerare al massi-

mo la liquidazione delle pendenze sospese della legge 64 – l’abolita legge per l’Intervento straordinario – entro la fine del 1995. Tutti felici. Il Governo può tirare un sospiro di sollievo, la ‘pace sociale’ è raggiunta… il Governo incassa un buon risultato – commenta l’economista Mariano D’Antonio sulla Gazzetta – la Finanziaria non è stata stravolta, come sosteneva il ministro Dini, e le linee portanti in materia pensionistica escono confermate; dal canto suo, il Sindacato guadagna in legittimazione: è stato riconosciuto il suo ruolo di soggetto politico da consultare, persuadere e coinvolgere in provvedimenti anche impopolari purché scambiati con qualche segnale visibile, con qualche contropartita che combini rigore ed equità sociale nella gestione della finanza pubblica. Lo stesso giorno, anche il Capo dello Stato decide di stemperare il clima. Prima elogia Governo e Sindacato… l’accordo è un grande merito; Governo e Sindacato sono elementi fondamentali per la pace sociale; poi, intervenendo al plenum del CSM, esorta i magistrati… occorre fare molta attenzione quando s’invia un avviso di garanzia, le ripercussioni possono essere molto pesanti… se è vero che la tutela degli interessi superiori dello Stato non può mai far diventare lecito l’illecito, non per questo essi non debbono essere tenuti in considerazione… ci possono essere dei momenti in cui occorre stare attenti che un atto della giustizia non finisca per avere conseguenze interne ed internazionali non volute… non può esservi una visione per cui il solo essere nella politica è sinonimo di arbitrio, di abuso o di potere fine a se stesso o, comunque, che crei una posizione di ‘sospetto di ufficio’. Guai se fosse così. Guai se il cittadino guarda al magistrato, non come un essere umano, ma come un misto di onnipotenza e infallibilità. Gli effetti sarebbero catastrofici. Di uccisi da avvisi di garanzia ce n’è una serie, l’istituto ha dei fondamenti particolari, ma è da rivedere, da riesaminare. Scalfaro non fa alcun riferimento preciso, 361


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non fa nomi. Non è necessario. Ma prima di lasciare la sede del CSM, il Capo dello Stato esorta i giudici ad essere più discreti, ad evitare di apparire troppo spesso in Tv o di dare troppe interviste ai quotidiani… l’autonomia e l’indipendenza che la Costituzione garantisce ai magistrati devono essere confermate nell’essere e nell’apparire di ogni giudice. Meno di 24 ore dopo, la raggiunta e sofferta ‘pace sociale’ e quello che intendeva essere un appello per una ‘tregua’ fra il primo e il terzo potere dello Stato – Governo e Magistratura – l’una e l’altro vengono vanificati da due nuovi ‘scoop’ giornalistici e da nuove manifestazioni di protesta, in tutto il Paese, di centinaia di migliaia di studenti, medi e universitari, con scontri e feriti anche a Bari. Il 2 dicembre, due quotidiani pubblicano, in esclusiva, una lettera di Francesco Saverio Borrelli al Capo dello Stato, in cui è chiesta l’autorizzazione ad indagare sugli ispettori ministeriali inviati alla Procura di Milano dal ministero della Giustizia. Gli ispettori sarebbero colpevoli, secondo Borrelli, del reato di abuso d’ufficio. Ma il peggio è che la lettera di Borrelli sarebbe stata inviata al Capo dello Stato lo stesso giorno dell’avviso di garanzia al Presidente del Consiglio: 21 novembre. Una strana coincidenza – si sottolinea nella maggioranza – che confermerebbe l’azione persecutoria della magistratura milanese nei confronti del Governo… un atto intimidatorio – sostiene il Ministro della Giustizia – compiuto contro altri magistrati. Fra il ‘riaccendersi’ delle piazze e il clamore della lettera di Borrelli, il secondo ‘scoop’ giornalistico del 2 dicembre è così incredibile che i quotidiani del mattino del 3, ‘nascondono’ la notizia nelle pagine interne. Nel corso del Tg 4 delle 19, Emilio Fede annuncia, con apparente scetticismo e incredulità, di aver ricevuto una ‘nota anonima’ – che continua a rigirarsi tra le mani, quasi scottasse – in cui è detto che il giudice Di Pietro avrebbe deciso di lasciare la Magistratura e che avrebbe già 362 pronta la lettera di dimissioni.

Di Pietro lascia Alle 5 del pomeriggio di martedì 6 dicembre in un’aula del Tribunale di Milano, il giudice Di Pietro ha finito la sua requisitoria al processo Enimont, noto come il ‘processo alla Repubblica’. Imputati, tutti i leader dei partiti di Governo degli ultimi trent’anni: Renato Altissimo, Severino Citaristi, Bettino Craxi, Gianni De Michelis, Arnaldo Forlani, Giorgio La Malfa, Claudio Martelli, Paolo Pillitteri, Cirino Pomicino, Egidio Sterpa e Umberto Bossi insieme a diversi amministratori dell’ex Enimont. Finita la lunga litania di richieste di condanne, Di Pietro si rivolge alla Corte… signor Presidente, io ho finito. Adesso si possono spegnere i computer. Poi, lentamente, quasi con ostentazione, si toglie la toga, si slaccia dal collo la ‘coscienza’ – quella specie di ‘collarino’ bianco pieghettato e inamidato – indossa la giacca, raccoglie dalla scrivania un fascio di fogli dattiloscritti e li distribuisce ai giornalisti presenti in aula: sono le copie della sua lettera di dimissioni dalla Magistratura consegnata poche ore prima a Francesco Saverio Borrelli. Nessuno ha mai capito perché proprio quel giorno, a dibattimento finito, l’occhio della telecamera abbia indugiato tanto a lungo su Di Pietro che compie un atto consueto. Ma quella sequenza, registrata in religioso silenzio e proposta continuamente nei Tg della sera, mentre i conduttori leggono la lettera di Di Pietro, rimane indelebile nella memoria collettiva… era l’immagine di un uomo sconfitto, si commenterà a posteriori. Dieci minuti dopo la distribuzione dei misteriosi dattiloscritti, le redazioni dei quotidiani e dei telegiornali impazziscono. La notizia, che pure girava con insistenza fin dal sabato precedente, è comunque scioccante. Ma prima di rielaborare i giornali del mattino dopo, già in avanzata fase di lavorazione, bisogna avere la conferma, che puntualmente arriva dall’agenzia di stampa nazionale, ANSA, insieme al testo della lettera di dimissioni. Carissimo signor Procuratore – scrive Di


L’ultima udienza di Antonio Di Pietro a Milano.

Pietro a Borrelli – in questi anni ho lavorato nel modo più obiettivo possibile, senza alcun fine, anche senza guardare in faccia a nessuno… eppure, da più parti, i miei doveri di magistrato vengono interpretati, mio malgrado, sempre più come competizione personale… letti in chiave di contrapposizione a qualcosa o qualcuno… mi sento usato, utilizzato, tirato per le maniche, sbattuto ogni giorno in prima pagina sia da chi vuole contrappormi ai suoi nemici, sia da chi vuole così accreditare un inesistente fine politico in ciò che sono le mie normali attività. Tutte queste distorsioni interpretative da me non volute – scrive ancora Di Pietro – stanno alimentando uno scontro nel Paese… sento pertanto il dovere di fare qualcosa per riportare serenità e fiducia nelle istituzioni… nella speranza che, senza di me, le passioni si plachino. Lascio quindi l’ordine giudiziario, senza alcuna polemica, in punta di piedi, con la morte nel cuore e senza alcuna prospettiva per il mio futuro. Altro che ‘punta di piedi’. Lo scalpitare di

mille cavalli non avrebbe potuto fare più rumore. La notizia delle dimissioni di Di Pietro si sparge in tutto il Paese in un baleno. I centralini dei quotidiani e dei telegiornali sono presi d’assalto e bloccati per ore. Impossibile collegarsi con inviati, opinionisti, collaboratori esterni per avere commenti, ragguagli, dettagli e interviste che, per fortuna, arrivano per via telematica e dall’ANSA. Quello di Antonio Di Pietro – scrive il nuovo direttore della Gazzetta, Franco Russo, nell’editoriale del 7 dicembre – è un gesto nobilissimo che dimostra l’intuito, la forza, la determinazione di questo piccolo grande uomo del Sud che ha avuto il coraggio di porsi alla testa del movimento di liberazione da quella partitocrazia che attraverso leader egemoni aveva occupato tutti gli spazi della società civile, impedendo, soffocando una crescita di libertà… questo non significa che Di Pietro e il pool di Mani Pulite non abbiano commesso errori… ma il prezzo che oggi la Magistratura paga, il prezzo che il Paese intero paga a quella stessa voglia di gogna che ha mosso la figura del pubblico ministero che si è sentito l’ombelico del mondo, è un prezzo troppo alto. Per questo il sacrificio di Di Pietro – conclude Russo – deve far riflettere tutti. Di Pietro se ne va perché l’opera di ricostruzione morale del Paese possa continuare, anche senza di lui. Poi, alle reazioni politiche, tutte di parte – la destra accusa la sinistra di aver usato la Magistratura per fini politici; la sinistra accusa la destra di volerla delegittimare mettendo in pericolo la democrazia – la Gazzetta predilige le reazioni della gente comune e, fin dalle prime ore del mattino del 7 dicembre, mette a disposizione dei Lettori un numero verde e un fax: ne arrivano a migliaia insieme a interi sacchi di posta e messaggi portati anche personalmente alla sede del giornale. Alcuni fax contengono due sole parole: Tonino, resta. Oggi è stato come se a tutti noi fosse mancato qualcosa – scrive Lino Patruno – è stato 363


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un ‘giorno dopo’ da orfani… abbiamo perso anche la speranza che l’onestà potesse alla fine vincerla sull’arroganza dell’impunità… la valanga di lettere che ci ha investito non rivela solo il senso della sconfitta… l’irrimediabile convinzione che a vincerla sia stata quella politica portata più ad assecondare i vizi che a stimolare le virtù di una nazione… ma rivela anche la voglia di ribellarsi nonostante la delusione. Rivela che, finquando ci sarà la capacità di indignazione, ci sarà vita. E la Borsa crolla, la Lira si deprezza; il Dollaro, il Marco, la Sterlina e il Franco francese raggiungono i massimi storici nei confronti della Lira. La Borsa crolla il giorno dell’avviso di garanzia a Berlusconi, il giorno delle dimissioni di Di Pietro, ogni giorno che Bossi lancia siluri al Governo e, infine, il 12 dicembre, la vigilia dell’interrogatorio del Presidente del Consiglio presso la Procura milanese. I mercati – sostengono gli operatori di Borsa – ritengono scontata la caduta del Governo e sono preoccupati per il destino della Finanziaria. Il 13 dicembre Silvio Berlusconi entra nel Palazzo di Giustizia di Milano – fin dal mattino assediato da giornalisti, fotoreporter, operatori della televisione, forze dell’ordine e comuni cittadini – ed esce dopo sette ore e mezzo d’interrogatorio condotto dal procuratore capo Borrelli e dai pubblici ministeri Davigo e Colombo. All’uscita dal Palazzo di Giustizia, nessuno riesce ad avvicinare il Presidente del Consiglio che solo a tarda sera rilascerà una dichiarazione scritta… l’inchiesta giudiziaria che mi ha coinvolto si basa incredibilmente su un teorema privo di qualsiasi riscontro… nessuna carta, nessuna persona fisica affermano quel che non sarebbe possibile affermare e cioè che io abbia ordinato di compiere qualcosa di illegale o che fossi a conoscenza di pratiche illegali… l’avviso di garanzia – si legge ancora nel comunicato – da strumento di informazione a tutela dei diritti dell’indagato è stato trasformato in un clamoroso atto di giu364 stizia spettacolo anzi, di ingiustizia spettaco-

lo… e di faziosità politica… che ha imbarbarito il tono, il linguaggio e le pratiche di un’opposizione che non si è rifiutata ad atti di aperto strumentalismo e in qualche caso di vero e proprio sciacallaggio personale… io non desisto dal compito affidatomi con il mandato elettorale… vado avanti… sono sereno, se non lo fossi mi sarei già dimesso. Ma l’Attila del Nord ormai ha deciso… questo Governo muore fra poche settimane – sostiene Bossi – e tra poche settimane darà i primi vagiti la Seconda Repubblica… daremo subito vita al polo liberal democratico con i popolari e manderemo via questo Governo, colpo di coda del pentapartito e del suo capocomico. Gli fa eco D’Alema dal Consiglio Nazionale del PSD… siamo pronti ad usare l’arma parlamentare della mozione di sfiducia sapendo che dopo questo Governo non ci sono solo le elezioni anticipate ma anche la possibilità di una maggioranza diversa sulla base di un programma minimo di riforme… e propone al Consiglio di… assumere la bandiera del federalismo… che non è una soluzione di ripiego ai guasti del vecchio centralismo, ma una componente vitale del processo di modernizzazione istituzionale, economico e sociale che necessita al Paese… in questa maggioranza di destra, la Lega rappresenta l’anima democratica.

Il ‘ribaltone’ Comincia il conto alla rovescia. Incontri formali, informali, ‘segreti’, fra Bossi, Buttiglione e D’Alema, s’intensificano. Il primo accordo è il ritiro di tutti gli emendamenti della Lega e dell’opposizione alla legge Finanziaria in discussione al Senato per accelerarne l’approvazione. Ma un’accelerazione insperata alla crisi è data da una iniziativa del Presidente della Camera, Irene Pivetti, che il 14 dicembre propone e mette ai voti l’istituzione di una commissione speciale sul sistema televisivo: per la prima volta, la Lega vota con l’opposizione… oggi la maggioranza è morta, commenta il capogruppo dei progressisti alla


Camera, Luigi Berlinguer. Mentre si torna a parlare di ‘ribaltone’, i dissidenti all’interno della Lega, aumentano. Sono diventati 53, Maroni compreso, contrari ad una collaborazione di Governo con il PDS. Ma anche in casa dei popolari spira aria di ‘fronda’. Berlusconi, intanto, ormai ‘convinto’ che la crisi è inevitabile, si reca in visita dal Capo dello Stato per riaffermare che se non sarà possibile varare un nuovo Governo con la stessa maggioranza o, al posto della Lega, con i cattolici popolari, si dovrà andare a nuove elezioni. Quale Governo allora? L’ultima ipotesi è quella di un Governo del Presidente. Ma D’Alema taglia corto… non ci sarà un Berlusconi-bis; poi torna a parlare di ‘Governo delle regole’… noi non puntiamo ad un Governo Lega-PDS-PPI, che pure sarebbe legittimo, ma ad un Governo che aiuti il Paese a fare le riforme ed abbia larga base parlamentare… non abbiamo preclusioni ideologiche verso nessuno, ma se si farà un Governo costituente sono convinto che la Lega ci seguirà. Il 17 dicembre, dopo un vertice fra Bossi, Buttiglione e D’Alema, viene annunciata, per lunedì 19, la presentazione di tre mozioni di sfiducia: una sarà firmata dalla Lega e dal PPI; una dal PDS, la terza da Rifondazione Comunista. Il 18, il senatore leghista Marcello Staglieno afferma che 60 deputati e 23 senatori non voteranno la mozione di sfiducia al Governo Berlusconi. Il 19, mentre il Senato approva definitivamente la Finanziaria, Berlusconi chiede ufficialmente… che la parola torni alla gente, a coloro che, in un Paese democratico devono decidere chi governa e chi sta all’opposizione. Ma… in democrazia – gli fa eco il Capo dello Stato – è primaria la responsabilità del Parlamento. Il 20 dicembre, anche la Camera approva, in tutta fretta, la legge Finanziaria. Ormai c’è un solo appuntamento che conta, dopo una travagliata, breve stagione di

pareggi e sconfitte del primo Governo della Seconda Repubblica: il dibattito in Parlamento sulle mozioni di sfiducia contro il Governo Berlusconi. Un dibattito che il Presidente del Consiglio elude: non chiede la fiducia al suo Governo e non mette ai voti le mozioni di sfiducia presentate dalla Lega e dalle opposizioni. Nel testo delle sue 18 cartelle… lette con ira pacata – annota il cronista parlamentare – nella tarda mattinata del 21 dicembre, le sue dimissioni sono implicite. Quando Berlusconi denuncia, per 27 minuti, la frustrante esperienza di non essere mai stato messo nella condizione di governare… per essere stato tradito da un alleato dalla personalità doppia, tripla… rivelatosi rispondente alla logica partigiana e faziosa del piccolo sotterfugio e dell’inganno costringendo i suoi ministri a farsi portaparola degli incubi di un leader che girava a vuoto nella giostra delle più spericolate improvvisazioni politiche. Quando Berlusconi chiede, ancora una volta, al Capo dello Stato che se si vuole cambiare maggioranza… la strada obbligata e ineluttabile è quella di tornare serenamente a 365


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chiedere il parere degli elettori… Umberto Bossi, interrompendolo, gli risponde… lo Stato non è lei, caro on. Berlusconi, e dopo di lei non c’è il diluvio; io, oggi, ho la responsabilità di far finire la Prima Repubblica: la Lega le toglie la fiducia… è chiaro che non c’è alcuna necessità di mettere ai voti le mozioni di sfiducia. Alle 13,30 del 22 dicembre, il Presidente del Consiglio torna al Quirinale e rassegna le dimissioni… ho chiesto al Capo dello Stato – dirà in serata Berlusconi – che in linea con l’interesse del Paese questo Governo deve restare in carica fino alle elezioni… ho indicato anche una data, il 2 aprile del 1995. Ma Scalfaro lo gela… sarebbe una catastrofe. E’ mio dovere tentare di far durare questa legislatura fino alla scadenza naturale… ho l’obbligo costituzionale di verificare se c’è una nuova maggioranza. Il 30 dicembre, al termine del primo giro di consultazioni, il Quirinale rilascia un breve comunicato… la maggioranza dei parlamentari di Camera e Senato sono contrari ad elezioni immediate. Lo sono anche gli imprenditori, i sindacati, la Banca d’Italia e i mercati finanziari. Il ‘ribaltone’ è ormai dietro l’angolo. E l’Italia, come sta l’Italia? Il Paese ricorda la torre di Pisa – scrive l’economista Vieri Poggiali sulla Gazzetta – che pende e mai va giù. La produzione industriale è a più 7%, le esportazioni a più 8%, la bilancia commerciale è attiva, il PIL – prodotto interno lordo – è migliorato… il Paese non ha mai raggiunto livelli così alti. Vi hanno contribuito le scorte di materie prime, massicci investimenti tecnologici e, per le esportazioni, il continuo deprezzamento della Lira. Ma saranno dolori quando le grandi industrie dovranno rifarsi le scorte. Per contro, il deficit dello Stato ha raggiunto i 1.924 milioni di miliardi; l’inflazione è in aumento, dal 3 al 4%; il costo del denaro pure, dal 7 al 10%; l’incremento delle retribuzioni è di 2 punti inferiore all’inflazione e la disoccupazione è in vertiginosa ascesa: dei 2.726.000 366 disoccupati registrati ad ottobre, un milione e

seicentomila stanno al Sud. Doveva essere l’anno del rilancio economico e occupazionale del Paese. E’ stato l’anno dell’impoverimento della nostra moneta, del conseguente diminuito potere d’acquisto, dell’aumento dell’inflazione e della disoccupazione: 470mila posti di lavoro in meno rispetto al ’93. L’Italia è più povera e più indebitata e il Mezzogiorno è più povero dell’Italia povera. Il reddito pro-capite nazionale è diminuito del 10%; quello dei meridionali del 18%. Spendiamo meno, anzi, spendiamo così poco che i negozi ‘millelire’ – nati da un’idea geniale di Alfredo Leone, un commerciante di casalinghi di Capurso – sono più frequentati di un supermarket. Anche le ‘botteghe dei sogni’, quest’anno, si arricchiscono e si moltiplicano: a febbraio viene lanciato il ‘gratta e vinci’ e si può ‘grattare e vincere’ sia in una ricevitoria del lotto sia sorbendo un caffè nel solito bar.

Maradona, addio al calcio Doveva essere l’anno del quarto titolo mondiale di calcio degli Azzurri e della ‘resurrezione’ di Maradona. Diventa l’anno del

Il più tragico urlo di esultanza nella storia del calcio mondiale: Maradona è positivo all’antidoping.


Il Bari torna fra le stelle del calcio nazionale.

quarto titolo al Brasile – che vince la finalissima contro l’Italia – e la definitiva ‘morte’ calcistica di Diego Armando Maradona. Considerato uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, il 25 giugno, dopo l’incontro con la Nigeria, il ‘pibe de oro’ è stato trovato positivo all’antidoping: aveva preso efedrina e altre 5 sostanze proibite. La FIFA gli infligge 15 mesi di squalifica e Maradona, che ha ormai 34 anni, esce di scena e chiude mestamente e ingloriosamente la sua carriera calcistica. Doveva essere l’anno di Ayrton Senna, il giovane, coraggioso pilota brasiliano che a soli 24 anni aveva già vinto tre titoli mondiali di Formula Uno e si avviava verso il quarto successo; diventa l’anno di un promettente campione tedesco. La stella di Senna si spegne a Imola il primo maggio: un guasto ai freni della sua Williams e il bello e amato corridore cario-

ca si schianta contro un muro di protezione, alla curva del Tamburello, nel Gran Premio di San Marino. Spenta la stella di Senna, si accende quella di Michael Schumacher: è il primo pilota tedesco a vincere un mondiale di Formula Uno e diventerà il più grande corridore nella storia della Germania e… della Ferrari. Doveva essere l’anno del Foggia Calcio, in corsa per la Coppa Uefa; diventa l’anno del Bari che dopo tre anni di serie B torna trionfalmente in serie A. Il Foggia resta nella massima divisione, ma il suo ‘ciclo’ è finito. La squadra ‘rossonera’ di Casillo e Zeman da inseguitrice di successi sportivi è diventata preda delle banche. Le disavventure giudiziarie del suo ‘patron’, Pasquale Casillo, e l’abbandono di Zeman, il mister boemo che ha fatto impazzire di gioia la tifoseria dei ‘diavoli’ foggiani, porteranno i rossoneri al declino: tre anni dopo il Foggia è già in serie C. In breve, tutta la cronaca di questo nuovo, infelice anno della nostra storia, non è che un’interminabile serie di ciò che l’Italia doveva essere e non è stata: una successione continua di ambizioni frustrate, traguardi falliti e speranze deluse. Perfino il mito di una società capace di esprimere creatività anche al massimo della confusione, è appannato, impoverito dall’impoverimento generale. Non c’è granché da ‘inventare’ o ‘creare’ in una società che da tre anni è ‘prigioniera’ della corruzione, della criminalità organizzata e del più devastante scontro istituzionale nella storia della Repubblica. Ma anche il mondo intero sembra girare alla rovescia. Il crollo del ‘sistema bipolare’ USA-URSS ha messo in crisi le vecchie certezze e le tensioni, i contrasti – civili, etnici e religiosi – tenuti sotto controllo dalle vecchie ‘aree d’influenza’, esplodono. Tornano i rancori, per tanti anni repressi, per l’uomo della porta accanto, l’insofferenza per le minoranze, le ‘pulizie etniche’, le spinte secessionistiche, le guerre tribali e civili, torna il terrorismo internazionale alimentato dal fondamentalismo religioso. 367


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Riesplode la Palestina. A nulla è valsa la dichiarazione dei principi per avviare il processo di pace fra israeliani e palestinesi firmata a Washington nel ’93, né la prima conferenza di pace tenutasi al Cairo, né i premi Nobel per la pace assegnati quest’anno allo stesso Arafat, Rabin e Peres... è caduto il muro dell’odio – scrive Patruno – ma è stato macchiato dal sangue degli attentati di chi non riesce a varcare la soglia della speranza. Tornano gli eccidi delle minoranze: il genocidio dei campesinos nella regione del Chiapas, in Messico; degli indios nel Sud America e dei curdi in Turchia e Iraq; tornano le guerre d’indipendenza nel Caucaso – Georgia, Azerbaigian e Cecenia – le guerre tribali in Africa e, soprattutto, continua la mattanza nella regione balcanica dove vive il più grande concentramento di razze e religioni d’Europa. La Federazione delle sei Repubbliche che componevano la Jugoslavia – Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Slovenia, Croazia, Serbia e Montenegro – si è sgretolata. Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclama unilateralmente l’indipendenza e due giorni dopo inizia il più feroce conflitto territoriale nella storia della regione balcanica. Lo scontro è totale: civile, religioso ed etnico. Un lungo, sterminato elenco di massacri, violenze e distruzioni che si consuma ininterrottamente da tre anni nonostante le sanzioni dell’ONU contro la Serbia e gli ultimatum della NATO. Inizia, un secolo dopo la grande migrazione europea verso le Americhe, un nuovo esodo biblico: milioni di individui provenienti dai paesi dell’Est, dai Balcani, dall’Africa, dal Medio e dall’Estremo Oriente, ‘invadono’ l’Europa: fuggono, come gli europei cento anni prima, dalla miseria, dalle carestie e dalle guerre, dalle nuove dittature, dalle persecuzioni razziali. Inizia l’era dell’economia globale e delle tecnologie avanzate che lungi dal portare nuova ricchezza creano, specie in Europa, nuove sacche di emarginati: migliaia di operai e 368 impiegati privi delle capacità necessarie per

inserirsi nel mercato tecnologico, sono espulsi dalle grandi fabbriche e diventano i nuovi poveri del mondo evoluto e civile. Inizia, con la diffusione dei satelliti per le comunicazioni internazionali – in Italia nasce la ‘Telecom’ – l’era di società primarie capaci di dominare il mercato mondiale, mentre i profitti prodotti dall’alta tecnologia si concentrano in un numero sempre più ristretto di mani creando la più iniqua distribuzione di ricchezza dai tempi della seconda guerra mondiale. E’ in atto una nuova ‘rivoluzione’ in cui la cultura dominante è la ricerca scientifica e tecnologica applicata in tutti i campi, dall’informatica alla medicina, dall’agricoltura all’alimentazione, ai nuovi mezzi di produzione e distribuzione. E se non si ricompone un nuovo ordine internazionale, un nuovo sistema bipolare, il mondo rischia il ‘dominio’, di una sola potenza: gli Stati Uniti d’America. Il ‘pericolo’, in questi primi anni Novanta, è appena accennato. Ma la vecchia Europa l’avverte e comincia ad accelerare il processo che dovrebbe portare alla creazione degli Stati Uniti d’Europa che, se non potrà mai competere con lo strapotere militare dell’America, dovrebbe, quantomeno, tentare di condizionare le scelte politiche ed economiche globali degli Stati Uniti programmate, scientificamente, dalle università della grande potenza nordamericana. Finché gli uomini sapranno indignarsi – ha scritto Lino Patruno – ci sarà sempre la speranza per un futuro migliore. E la gente s’indigna, protesta, si ribella. Le coscienze si svegliano e si rivoltano contro l’arroganza, le ingiustizie, le discriminazioni. Nascono nuovi movimenti per i diritti civili; aumentano le associazioni umanitarie e crescono i partiti che si battono per la difesa dell’ambiente; migliaia di cittadini si dedicano al volontariato, promuovono la solidarietà; si diffondono, specie nel Meridione, le associazioni antiracket e antiusura. Finite le utopie ideologiche, l’Occidente è alla ricerca di nuovi ideali, di nuovi principi


civili e morali, per arginare l’anarchia, il caos del mondo… l’apocalisse prossima ventura – scrive ancora Patruno – un mondo in cui impazza, dalle terre della povertà, la tratta dei bambini interi o a pezzi e si rincorrono gli annunci economici al gran bazar dei reni o delle cornee messi sul mercato per poter vivere o solo sopravvivere. Perfino il cinema, con l’affermazione di una nuova generazione di cineasti, propone produzioni di notevole impegno civile. Primo fra tutti Steven Spielberg, 45 anni, che dopo la trilogia di ‘Indiana Jones’ e del famoso ‘E.T.’, è passato dal tema degli esperimenti scientifici sugli animali, con ‘Jurassic Park’, all’impegnativo ‘Schindler’s list’, una riflessione sullo sterminio nazista degli ebrei e sulle capacità di riscatto degli uomini, premiato con 7 Oscar; Quentin Tarantino, 31 anni, Palma d’oro a Cannes con ‘Pulp Fiction’, denuncia il mondo violento della criminalità e della droga; continua l’impegno politico di Oliver Stone, cinquant’anni, autore di grandi film contro tutte le guerre. Quest’anno, Stone denuncia, con ‘Assassini nati’, l’aggressività, il cinismo di un certo giornalismo televisivo americano; il non più giovane regista Jonathan Demme, autore de ‘Il silenzio degli innocenti’, propone ‘Philadelphia’, un film che pone all’attenzione mondiale il costante pericolo della diffusione dell’AIDS e denuncia la discriminazione sessuale, premiato con 2 Oscar; Jim Sheridan, 45 anni, si aggiudica l’Orso d’oro al festival di Berlino con il suo bellissimo film ‘Nel nome del padre’, una delicata storia generazionale all’interno della tragedia irlandese; in autunno arriva sugli schermi italiani ‘Forrest Gump’, di Robert Zemeckis premiato, nel ’95, con 6 Oscar. Il film rivive trent’anni di storia americana vista attraverso gli occhi di un ‘sempliciotto’ dal cuore più grande del suo cervello che riesce a diventare protagonista. Splendida l’interpretazione di Tom Hanks, Oscar quale miglior attore protagonista per ‘Philadelphia’ quest’anno e per ‘Forrest Gump’ nel ‘95.

Addio a Massimo Troisi Anche nel cinema italiano stanno facendosi largo i quarantenni. Attori e registi come Nanni Moretti, Roberto Benigni, Sergio Rubini e Massimo Troisi s’impongono all’attenzione della critica come ‘personalità guida della nuova cinematografia nazionale’. Ma il bravo Massimo è stroncato da un infarto il 4 giugno… forse era l’ultimo Pulcinella o forse ne verranno altri – scrive Oscar Iarussi sulla Gazzetta nel ricordarlo – ma di Massimo rimarrà unica l’intelligenza delle cose, la rabdomanzia spettacolare nel trovare le limpide sorgenti delle emozioni, nel cogliere i tic, le ansie, i tormenti di una generazione, sdrammatizzandoli, rendendoli umanissimi e accettabili a un pubblico di ogni età. Troisi aveva appena finito di girare ‘Il Postino’ accanto a un mostro sacro del cinema francese, Philippe Noiret, senza esserne oscurato, anzi. Nel gennaio del ’95 ‘Il Postino’ è candidato a 5 premi Oscar compreso quello di miglior attore protagonista per Massimo Troisi. Il premio verrà poi assegnato a Tom Hanks, ma la sola candidatura è un grande riconoscimento, sia pure postumo, all’attore e al cinema italiano. ‘Il Postino’ sarà premiato con l’Oscar per la migliore colonna sonora. ‘A livella’ del principe De Curtis, il grande Totò, è passata, per l’inimitabile Troisi, a soli 41 anni. Ventitré anni ha invece Ylenia Carrisi, figlia di Al Bano e Romina Power, quando semplicemente scompare dalla faccia della terra. Ylenia, bionda, occhi verdi, fin troppo indipendente per lo stile di vita che conducono i suoi famosi genitori a Cellino San Marco nel Brindisino, era andata negli Stati Uniti per le vacanze di Natale. Non tornerà mai più. L’ultima volta è stata vista a New Orleans il 6 gennaio. Che cosa è accaduto, chi ha attraversato la sua strada e la sua vita il giorno dell’Epifania, nessuno lo saprà mai. Sono in molti, tanti quest’anno, a lasciare il palcoscenico delle vita. Il 26 gennaio si spegne a Napoli, dov’era 369


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nato 73 anni prima, Domenico Rea, scrittore autodidatta, giornalista polemico, molto amato dai suoi concittadini che lo ritenevano la ‘voce verace’ della cultura popolare napoletana. Rea è stato per anni anche collaboratore della Gazzetta. Il 9 marzo, a 73 anni, muore negli Stati Uniti, Charles Bukowski, lo scrittore ‘maledetto’ che scandalizzò l’America puritana con le sue ‘Storie di ordinaria follia’; il 28, a Parigi, si spegne Eugene Ionesco, ‘poeta dell’assurdo’ e noto drammaturgo. Aveva 82 anni. Il 18 agosto scompare a Zurigo il premio Nobel per la letteratura Elias Canetti, 89 anni, e il 23 muore ad Ancona lo scrittore Paolo Volponi, 70 anni, vincitore di due premi Strega e di un Viareggio. Nei suoi libri Volponi aveva raccontato e descritto il mondo operaio e contadino. Karl Popper, il grande filosofo austriaco, si spegne a Londra il 17 settembre. Aveva 92 anni e… ancora novantenne, non aveva voluto rinunciare all’esercizio della critica che fa di un filosofo la coscienza del proprio tempo – scrive la Gazzetta – le sue ultime ragionate invettive erano rivolte contro la violenza dei mezzi di comunicazione di massa. Il 28 novembre muore a Milano Franco Fortini, 77 anni, poeta e saggista. Fortini era uno dei più lucidi intellettuali della sinistra. Polemista del marxismo, pessimista, nel ’68 aveva affiancato le lotte studentesche allo stesso modo in cui John Osborn, il grande drammaturgo inglese scomparso il 24 dicembre a 65 anni per un attacco cardiaco, era stato il punto di riferimento di quella ‘gioventù arrabbiata’ anglosassone. ‘Qui, Nuova York, vi parla Ruggero Orlando’ si spegne a Roma il 18 aprile. Il noto giornalista e scrittore aveva 86 anni. Era in pensione da anni, ma nessuno aveva dimenticato le sue ‘note’ politiche e di costume quale corrispondente della RAI da New York, la sua voce strascicata e il suo particolare saluto all’inizio e alla fine di ogni corrispondenza. E ancora, indimenticabile, l’ultima imma-

Ylenia, la figlia di Al Bano svanita nel nulla.

gine pubblica di Giovanni Spadolini – morto a Roma il 4 agosto – per l’impressionante trasfigurazione del suo viso durante l’elezione del Presidente del Senato il 16 aprile. La cerimonia è ripresa in diretta Tv. Sono in lizza Carlo Scognamiglio, per la maggioranza, e Spadolini, presidente uscente, per l’opposizione. La penultima scheda pareggia i conti fra i due contendenti. La telecamera del Senato allora abbandona lo scrutatore e fissa l’obiettivo su Spadolini che è in piedi con il viso acceso dalla tensione e dall’emozione: anche il cameraman è convinto che sull’ultima scheda ci sarà il nome di Spadolini e non vuole perdere l’immagine del suo trionfo. Ma il nome, su quell’ultima scheda, è quello di Carlo Scognamiglio. Qualunque operatore, a quel punto, avrebbe inquadrato l’esultante nuovo Presidente del Senato. Invece, inspiegabilmente, la telecamera resta su Spadolini che appare impietrito e, all’istante, il suo volto da paonazzo diventa bianco: si vede, quasi materialmente, il sangue defluirgli dalle floride gote. 371


Una finestra sulla storia - 1994

E’ la prima e ultima sconfitta della sua vita, e non riuscirà a superarla. Personaggio rilevante nel mondo culturale e politico del Paese, storico, grande studioso del Risorgimento, grande giornalista – Spadolini è stato direttore del Resto del Carlino e del Corriere della Sera – repubblicano da sempre, eletto senatore nel ’72, Spadolini è stato segretario nazionale del PRI, più volte Ministro, primo Presidente del Consiglio laico nella storia della Repubblica e, infine, Presidente del Senato. Già minato dal cancro, profondamente ferito nel suo amor proprio e nel suo smisurato orgoglio da quella mancata rielezione, il fisico possente di ‘Giovannone’, crolla. Aveva 69 anni e negli ultimi 6 mesi la Gazzetta ha avuto il privilegio di annoverarlo fra i suoi collaboratori.

Nel blu dipinto di blu Due giorni dopo, il 6 agosto a Lampedusa, Domenico Modugno, ‘l’uomo in frac’ vola per sempre ‘Nel blu dipinto di blu’. Un infarto lo coglie in una insenatura dell’Isola. Muore lì, vicino al mare che amava. Noto in tutto il mondo come ‘Mister Volare’, Modugno era il simbolo di quella genìa meridionale che non conosce ostacoli. Il Signore di Sanremo – scrive Alberto Selvaggi sulla Gazzetta – ha vissuto tutti i suoi 66 anni come 200 dei nostri. Compositore, cantante, attore di cinema e teatro, quando nel 1984 è colpito da un tremendo ictus che lo costringe su una sedia a rotelle, la sua carriera sembra finita. Ma lui, Mimmo, non si arrende e, in attesa di riprendersi, di recuperare voce e voglia di cantare, si iscrive al Partito Radicale per contribuire alle battaglie civili di Marco Pannella. E’ il 1986, l’anno successivo Modugno è eletto deputato al Parlamento. Ma non era certo Montecitorio il suo palcoscenico e, recuperati voce e stimoli, torna a cantare. Modugno iniziò la sua carriera come cantautore girovago ‘siciliano’ ma era nato in Puglia, a Polignano a Mare, il 9 gennaio del 372 1928 ed aveva trascorso la sua fanciullezza a

Giovanni Spadolini si spegne a Roma il 4 agosto.

San Pietro Vernotico nel Brindisino. Nel 1947 lasciò la famiglia e, come tanti, prese un treno per il Nord. Si fermò a Roma, un altro treno lo condusse a Torino e poi tornò di nuovo a Roma dove nel 1952 si diplomò attore a pieni voti al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ma la sua passione era la musica che continuava a comporre e cantare. Finalmente, nel 1958, sfonda: porta a Sanremo ‘Nel blu dipinto di blu’, vince e diventa ‘Mister Volare’. Modugno e la sua canzone entrano nella storia della musica leggera nazionale e mondiale. Il disco vende 22 milioni di copie, vince il ‘Grammy Award’ quale miglior brano del ’58; ‘The International Accademy of Recording Art and Sciences’ gli conferisce tre nomination: miglior canzone, miglior cantante, miglior disco. Sanremo sarà il suo podio. Vince, l’anno successivo con ‘Piove’, nel ’62 con ‘Addio, addio’ e nel ’66 con ‘Dio, come ti amo’. Diventa un mito, la critica discografica lo definisce ‘innovatore della musica leggera


italiana’. Esperti del settore discografico hanno calcolato che fino al 1984 Modugno abbia venduto 60 milioni di dischi. La sua vena musicale è inestinguibile. Scrive e compone musica per le commedie di autori come Garinei e Giovannini, Eduardo De Filippo e Renato Rascel; interpreta e scrive, per diversi altri autori, le musiche per commedie teatrali e televisive; poeti come Salvatore Quasimodo e Pier Paolo Pasolini consentono solo a Modugno di musicare i loro poemi. Nel ’91 torna a cantare. Un concerto memorabile a Caracalla, a Roma, un secondo a Montecarlo e un terzo nel mitico Carnegie Hall di New York dove americani e italo-americani gli riservano un’accoglienza trionfale. Commosso e provato dalla fatica, Modugno è colto da un malore sull’aereo che lo riporta a Roma. Nell’agosto del ’93 volle tornare a Polignano per riconciliarsi con i suoi concittadini, contrariati per quella ‘sicilianità’ professionale dei primi anni della sua carriera. Sarà accolto da una folla trabocchevole e commossa a cui ‘Mimì’ dedica l’ultimo concerto della sua vita. E’ un anno nefasto per il mondo del cinema, del teatro e della televisione. A gennaio si spengono: Jean Louis Barrault, 83 anni, attore, regista e mimo insuperabile – la Francia lo aveva insignito della Legion d’Onore – e l’attore greco-americano Telly Savalas. Il calvo tenente Kojak dell’omonima serie televisiva aveva 70 anni. Il 6 febbraio muore a Los Angeles Joseph Cotten, 88 anni, protagonista di grandi film, come ‘Quarto potere’, il capolavoro di Orson Welles, ‘Duello al sole’ e ‘Niagara’ insieme a Marilyn Monroe; il 28 dello stesso mese, scompare Enrico Maria Salerno, 68 anni, grande attore teatrale e un protagonista della ‘commedia italiana’. Il 4 marzo, un infarto stronca Gianni Agus, 77 anni, ‘spalla’ di grandi comici – Totò, Dapporto, De Filippo, Tognazzi – nonché ‘caratterista’ eccezionale del cinema e della Tv; due giorni dopo, domenica 6 marzo, muore a New York, per un cancro ai polmoni, l’at-

Domenico Modugno nell’agosto del ‘93 torna a Polignano per riconciliarsi con i suoi concittadini.

trice greca Melina Mercouri, 71 anni. Una beffa per l’attrice che deve la sua notorietà al film ‘Mai di domenica’ del 1960 e a ‘Topkapi’ nel 1964. Ma la Mercouri, per i greci, è molto più che un’attrice. Nel 1967 un colpo di Stato dei cosiddetti ‘Colonnelli’ abbatte la monarchia greca e la Mercouri inizia la lotta politica contro la dittatura militare. Dopo aver subito tre attentati, viene espulsa dalla Grecia, privata della nazionalità e di tutti i beni. Quando cade la dittatura, nel ’74, Melina Mercouri lascia il cinema per dedicarsi alla politica e al ripristino della democrazia nel suo paese. Eletta in Parlamento nel 1981, quale ministro della Cultura ingaggia un’altra battaglia con il Governo inglese per il recupero del patrimonio storico-architettonico saccheggiato alla città di Atene dagli archeologici di Sua Maestà nel corso di un secolo. Muore delusa per il rifiuto dei britannici di restituire alla Grecia il maltolto e per l’indifferenza delle istituzioni internazionali alla sua causa. Un tumore uccide anche il noto attore spagnolo Fernando Rey, il 9 marzo a Madrid, e sarà ancora un tumore ai polmoni a portarsi via, il 23 marzo, la ‘piccola’, delicata Giulietta Masina, l’indimenticabile ‘Gelsomina’ de ‘La Strada’, film diretto da suo marito Federico Fellini. Masina aveva 73 anni ed è sopravvissuta, al grande e vulcanico marito, soltanto 5 mesi. 373


Una finestra sulla storia - 1994

Insieme da quarant’anni, quando è morto Federico ‘Giulietta degli spiriti’ ha smesso di lottare contro il cancro. Vince, invece, il duello ‘contro la vita’, Kurt Cobain, leader del gruppo rock dei ‘Nirvana’, che riesce a suicidarsi al secondo tentativo: il 7 aprile si spara un colpo di pistola alla testa. Aveva 27 anni e, nonostante una folla di ammiratrici, aveva scelto, come compagna della sua vita, la droga. Ma è sempre e ancora la malattia del secolo a fare da falciatrice. Il 15 luglio il cancro uccide Alberto Lionello, 64 anni. Attore duttile e colto era passato dalla rivista alla commedia, ai drammi di Shakespeare e Sartre e dal teatro al cinema e alla Tv; di cancro muore, il 17 settembre a 32 anni, la diva italiana dell’Hard Core, Moana Pozzi… senza Moana il sesso non sarà più lo stesso – commenta Oscar Iarussi sulla Gazzetta – ironica almeno com’era opulenta, in un mondo avaro di sorrisi e di forme, Moana faceva esplodere le sue carni nivee in abiti sempre troppo stretti, turbandoci tutti, uomini e donne… ma in Moana c’era – inconsapevole, istintivo – uno scandalo senza malizia, e anzi con brio, capace di mettere a nudo qualche pregiudizio, qualche ipocrisia. Sarà, invece, il cuore a tradire il grande Burt Lancaster protagonista di pellicole memorabili. Dotato di un carisma naturale, esigente fino al perfezionismo, grande estimatore del cinema europeo, quando, nel 1962, il regista Luchino Visconti lo chiama a Roma per interpretare la parte del principe di Salina ne ‘Il Gattopardo’, Lancaster non avrà la minima esitazione. Il film è, ancora oggi, un capolavoro della cinematografia mondiale. Affascinato dai ‘filmaker’ italiani, Burt Lancaster tornerà in Italia più volte per lavorare, anche gratis… non sarete mai in grado di pagarmi… dirà a Bernardo Bertolucci nel ’75 e a Liliana Cavani nell’80, che lo vollero co-protagonista sia nel mastodontico ‘Novecento’ di Bertolucci, sia ne ‘La Pelle’ della Cavani. L’Italia diventa 374 così la sua seconda patria artistica e quando la

Tv inizia a produrre una serie di mega-sceneggiati – Mosè, Marco Polo, I promessi sposi – Lancaster si lascia irretire anche dal piccolo schermo. Burt Lancaster muore a Los Angeles il 21 ottobre. Aveva 81 anni. Un mese e mezzo dopo, il giorno di San Nicola, un altro cuore, quello di Gian Maria Volontè, cessa di battere durante la lavorazione di un film del regista Theo Anghelopulos in Grecia. Volontè aveva 61 anni… è stato l’attore più rappresentativo del nostro cinema nel passaggio dal post-neorealismo ai film di grande impegno civile, scrive Vito Attolini sulla Gazzetta. Eppure, al pari di Clint Eastwood, Volontè era una creatura artistica del grande regista italiano Sergio Leone che nel 1964 s’inventa il ‘western made in Italy’. Il genere sarà poi così mediocremente scopiazzato da essere etichettato con lo spregiativo ‘spaghetti western’. Volontè si libera quasi subito dei panni del ‘cattivo’ psicopatico che interpreta nei film ‘Per un pugno di dollari’ e ‘Per qualche dolla-

Moana Pozzi, la regina dell’Hard Core uccisa dal cancro.


ro in più’. Dotato di una intensa maschera espressiva, perfezionista nella ricerca di verosimiglianza con i personaggi che interpretava, Volontè offrirà il meglio di sé con registi impegnati in temi politici e sociali contemporanei. Dalla diffusione della criminalità, negli anni ’60 – ‘Banditi a Milano’ – all’arroganza del potere – ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’, ‘Il caso Mattei’, ‘Sacco e Vanzetti’, ‘Todo Modo’ – e alla mafia – ‘A ciascuno il suo’ – alla denuncia politica della condizione operaia – ‘La classe operaia va in Paradiso’ – negli anni del ‘miracolo economico’ italiano. Notoriamente ‘impegnato a sinistra’, proprio per quest’ultimo film Volontè e il regista Elio Petri si attirano le ire della sinistra sindacale, ‘cinghia di trasmissione’, si diceva allora, del PCI: il film denunciava una presunta arrendevolezza politica del Sindacato verso quel padronato che aveva accumulato ricchezze sulla ‘pelle dei lavoratori’. Infine, e non potevano mancare su questo funereo carro della storia, due ultimi nomi, due ultimi ricordi su personaggi che hanno fatto parte della storia politica mondiale degli anni Sessanta e Settanta. Il 22 aprile muore a New York l’ex presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, colpito da una emorragia cerebrale a 81 anni. Soprannominato ‘Trichy Dicky’ – l’imbroglione – già prima di arrivare alla vetta più alta del potere, Nixon è stato il primo Presidente americano ad essere costretto a dimettersi per evitare, nel 1974, l’Impeachment, lo stato d’accusa, per aver coperto un’operazione di spionaggio nella sede dei democratici, nel complesso residenziale di Watergate a Washington. Una fine politica ingloriosa per il Presidente che ha avuto il merito di porre fine alla guerra in Vietnam; ha avviato un decennio di ‘distensione’ con la Russia di Breznev e ha rotto l’isolamento della Cina di Mao dal contesto politico mondiale. Con Nixon, che si avvaleva del grande acume politico di Henry Kissinger, l’America inaugura la stagione del ‘dialogo’ con le altre due ‘super potenze’ della terra al-

Muore l’ex presidente statunitense Richard Nixon.

lontanando, definitivamente, la costante minaccia delle guerre nucleari. Meno di un mese dopo, il 20 maggio, muore a New York, ancora per un cancro, Jacquelin Kennedy Onassis. Aveva 64 anni ed era stata la moglie del più giovane presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, ucciso nel 1963 e, cinque anni dopo, del miliardario greco Aristotele Onassis. Gli americani non le perdonarono quell’unione, ma non riuscirono a dimenticarla. Jackie era stata la prima, vera ‘First Lady’ che l’America avesse mai avuto specie se paragonata alla tranquilla ‘massaia’, Mamie Eisenhower, che l’aveva preceduta. Colta, sofisticata, elegante, Jackie conquista il cuore degli americani da subito. Inseguita, vezzeggiata e coccolata dai mass media di tutto il mondo più di quanto lo fosse il marito, il Presidente, Jacquelin diventa il simbolo al femminile di quella ‘nuova frontiera’ disegnata e promessa all’America da J. F. Kennedy il quale, consapevole della crescente notorietà della moglie, quando nell’agosto del ’63 verrà in Europa, si annuncia, scherzosamente… sono Kennedy, il marito di Jacquelin. 375


Una finestra sulla storia - 1994

Il cancro uccide lo stilista Franco Moschino a 44 anni il 18 settembre e, quattro giorni dopo, la cantante folk Maria Carta a soli 54 anni. E ancora, un tumore ai polmoni uccide il grande ‘caratterista’ americano Lionel Stander. Negli anni ’70 Stander si era praticamente trasferito in Italia dove ha lavorato, come comparsa e protagonista, in numerosi film. Notevole l’interpretazione del ‘comunista’ ateo e mangiapreti nel primo film diretto da Nino Manfredi ‘Per grazia ricevuta’. E di cancro infine muore a 60 anni, il giorno di Santo Stefano, l’attrice di origine croata, Sylva Koscina, un corpo statuario esibito con grande indifferenza in decine di ‘commedie all’italiana’ negli anni Sessanta e Settanta. La notte prima, il giorno di Natale, si spegne a Roma, a 77 anni, l’attore Rossano Brazzi. In pochi mesi una malattia di origine virale gli aveva distrutto i centri nervosi. Con Brazzi muore l’ultimo ‘latin lover’ inventato da Hollywood. Professionista ‘onesto’, del teatro e del cinema italiano, chiamato dallo ‘Star sistem’ americano nel 1949, Brazzi diventa un ‘mito’ che offusca il ricordo di Rodolfo Valentino. Con lui nasce il ‘divo’, una parola che Hollywood ha sempre coniugato al femminile. L’ultima vittima del cancro è Giovanni Goria. Deputato della DC, Goria è stato ministro del Tesoro a 40 anni e, quattro anni dopo, nel 1987, divenne il più giovane Presidente del Consiglio della storia d’Italia. Goria muore ad Asti, per un tumore ai polmoni, a soli 51 anni. Fra la folla di personaggi e celebrità scomparsi quest’anno e ancora viva nella memoria di due generazioni, ce n’è una, una ‘Regina’, assente dalla vita pubblica da oltre trent’anni eppure indimenticata e indimenticabile per quella generazione che ha vissuto il fascismo e i primi terribili anni del secondo dopoguerra. Quella ‘celebrità’ si chiamava Wanda Osiris, si spegne a Milano il 12 novembre. La ‘Wandissima’ aveva 89 anni, era la ‘Regina del Varietà’, la diva di quell’epopea teatrale per ‘po376 veri e sognatori’.

Simbolo dell’effimero femminile, del lusso e dello charme, Wanda Osiris aveva fatto sognare uomini e donne senza eccellere in nulla e senza mostrare un solo centimetro delle sue grazie. La ‘Signora’ in lustrini e piume era divenuta famosa solo per l’eleganza e la sinuosità con cui ‘scendeva fluttuante’ una decina di scalini mentre, con un filo di voce, cantava… Sentimentaaaal, questa notte infinitaaaa. Dagli anni Trenta alla metà degli anni Cinquanta, la ‘Wandissima’ ha rappresentato tutti i sogni irrealizzabili degli italiani. Poi, quando anche per l’Italia i sogni cominciarono a realizzarsi, quando fece la sua prima apparizione quell’apparecchio che si annunciava con un formicolio luminoso e portava immagini nelle case, le luci del Varietà si spensero.

La ‘nota’ a piè di pagina Capita tutte le sere, durante l’elaborazione del giornale del mattino successivo, che le agenzie di stampa ‘lanciano’, come si dice in gergo, una notizia che, pur interessando il vasto pubblico, non è, tuttavia, rilevante. Sono notizie ‘varie’, generalmente si riferiscono al mondo del calcio, della televisione e dello spettacolo in generale. Il più delle volte, è il redattore responsabile di settore a deciderne la collocazione; altre volte, è lo stesso Direttore a dare le indicazioni necessarie. In entrambi i casi, il destino di quelle notizie è il ‘fondo pagina’. Nella ‘cronaca’ di quest’anno, è la Tv, nel suo complesso, a ‘meritare’ il fondo pagina, l’ultima ‘nota’ in un Paese che sembra gareggiare per restare fuori dal medagliere di tutte le discipline. Afflitta da un deficit abissale, condizionata dalla lotta politica, privata per mesi del suo vertice aziendale per la ‘regola’ che vuole un nuovo Consiglio di Amministrazione per ogni nuovo Governo, ognuna delle tre reti televisive di Stato – e non solo quelle – esprimono il peggio che possono: mediocrità culturale, faziosità politica e una programmazione da Tv di provincia.


Pippo Baudo, a sinistra con Roberto Benigni, e Pippo Franco, a destra con Leo Gullotta e Valeria Marini, sono gli unici conduttori, ancora sulla breccia, capaci di fare spettacoli e satira ‘irriverente’ ma mai volgare e offensiva.

Assicurato, al grande pubblico, il solito Festival di Sanremo con il solito Pippo Baudo – un’edizione che premia due non vedenti: Aleandro Baldi e Andrea Bocelli – assicurata la solita ‘Domenica in…’ alla tranquilla e ‘casalinga’ Mara Venier; riproposto il solito show del sabato sera, abbinato alla lotteria di Capodanno affidato a ‘er core de mamma’ Fabrizio Frizzi; ripassati, per l’ennesima volta, i soliti film della più misera cineteca d’Italia – salvo qualche rara eccezione – il resto è equamente diviso fra spettacoli e programmi di satira – Blob, Avanzi, il ‘teatrino’ di Pippo Franco, con tutti i ‘figli’ di Biberon iniziato nell’87 sulla RAI e passato, nel ’95, sull’ammiraglia della Finivest – e gli ormai numerosi programmi sportivi, gli unici che non conoscono crisi di audience. Nella classifica Auditel del ’94 il calcio, in particolare, occupa le prime dieci posizioni fra i programmi più seguiti. Le Tv pubbliche e private sono riuscite a trovare la formula per conservare il pubblico ‘pallonaro’ che cominciava a migrare verso le pay-tv: hanno introdotto nel mondo del calcio e dei personaggi che lo affollano, prima l’ironia sottile di Rai-

mondo Vianello, e poi la satira, la ‘salsina’ piccante ormai indispensabile per portare al successo anche i programmi più insulsi. Inventori e pionieri di un linguaggio nuovo applicato ad una trasmissione sportiva, sono tre giovani ‘buontemponi’ dalla battuta pronta, la Gialappa’s Band, che nella stagione calcistica ’92-’93 si sono inventati Mai dire gol, in onda per soli 15 minuti la domenica notte su Italia 1. Il successo è così travolgente che nella stagione successiva sbarca anche la RAI con Quelli che il calcio affidato a Fabio Fazio. Prendere atto che qualunque trasmissione condita di satira è sinonimo di successo, somministrarla, con cattiveria e cinismo nell’arroventato clima politico di questo irripetibile 1994, è tutt’uno. La forma letteraria più alta nell’esercizio della critica e della denuncia, il ‘sale e il pepe della democrazia’, la satira, vestita e travestita come arma dialettica della politica, diventa l’apoteosi dell’insulto, l’arma letale che resta la sola testimonianza in questo primo tentativo di traghettare l’Italia verso la Seconda Repubblica. Eppure, non siamo ancora alla ‘Tv spazzatura’ che ci inonderà nel prossimo decennio. 377



‘Operazione Speranza’ La tangentopoli barese

A

dieci anni di distanza dagli avvenimenti che si narrano in questo volume i mass media in generale insieme a politologi, sociologi, economisti e perfino alcuni giuristi, concordano nel ritenere che dal febbraio del 1992 – arresto di Mario Chiesa – fino alla primavera del 1996 – elezioni politiche anticipate – la Magistratura, il cosiddetto ‘terzo potere dello Stato’, è stata artefice di una ‘rivoluzione’: ha scompaginato, sconvolto e rimodellato l’intero sistema politico, produttivo e finanziario del Paese. In quel breve, lungo triennio della storia d’Italia, le Procure di tutta la Penisola hanno praticamente ‘assediato’ un sistema di potere che perseguiva ormai da tempo un unico obiettivo: affermare, conservare e possibilmente accrescere posizioni e privilegi anche con mezzi non sempre e non proprio leciti. A provocare il crollo di quel consolidato ‘sistema’ è un oscuro, ostinato pubblico ministero della Procura milanese, Antonio Di Pietro, che arresta, a Milano, un altrettanto oscuro dirigente di un grande centro per anziani, Mario Chiesa appunto, colto in flagrante mentre intasca una ‘tangente’. Inizia Tangentopoli. Di Pietro diventa un simbolo da imitare e, in breve, non c’è città d’Italia che non abbia, nella propria Procura, il suo Di Pietro. Comincia così l’assedio al ‘sistema’, l’assedio al ‘potere’, logorato da troppi anni di immunità e impunità; ‘condannato’ a governare un Paese nel quale il dissolto bipolarismo internazionale precludeva l’alternanza. Un assedio che, amplificato e spesso ‘strumentalizzato’ da tutti i mezzi di comunicazione, produce altrettante storture, altrettanti abusi, un ‘contropotere’ che crea, nell’opinione pubblica, una liberatoria ‘attesa giustizialista’. ‘Cadono’ così, sotto i colpi delle Procure di tutta l’Italia, prima esponenti politici, finanzieri, alti dirigenti della finanza pubblica e privata – alcuni dei quali non reggono il pubblico dileggio e compiono l’atto estremo – poi istituzioni regionali, amministrazioni, tutti i partiti politici che hanno governato il Paese per quasi mezzo secolo e l’economia di intere città. Nel Mezzogiorno l’onere delle Procure è duplice perché diverso e più articolato è l’insieme del malessere che affligge il Sud. Nel Centro-Nord Mani Pulite svela le storture del rapporto fra politica e affari; nel Sud le Procure affrontano un mostro più vorace, perverso e pericoloso: all’interno del medesimo rapporto è inserita la criminalità organizzata, quella che lucra sugli appalti pubblici, che si chiama camorra in Campania, ‘ndrangheta in Calabria, mafia in Sicilia e ‘quarta mafia’ in Puglia. Quanto questo ‘assedio’ delle Procure sia diverso nelle due latitudini, lo dicono le vittime. Nel Centro-Nord la maggior parte dei ‘caduti’ appartengono agli ‘assediati’; nel Centro-Sud la maggior parte delle vittime appartengono agli ‘assedianti’. Valgano, per tutti, le stragi di Capaci e di via D’Amelio, a Palermo, con l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino.

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Una finestra sulla storia - ‘Operazione Speranza’

Sotto i colpi di Mani Pulite ‘cade’ Milano, la capitale finanziaria del Paese, ed è vistosamente danneggiata Torino, la capitale industriale. Sotto le innumerevoli inchieste di Tangentopoli, invece, ‘cade’ Roma, Napoli, Palermo e infine Bari, la Milano del Sud, la più intraprendente città del Meridione amministrata per oltre un decennio da una classe politica… rampante, inadeguata, impreparata, inefficiente e litigiosa… che ha lasciato la ‘crescita’ della città nelle mani di imprenditori e commercianti altrettanto rampanti e alla mercé di due, tre ‘famiglie’ malavitose – Capriati, Parisi e Diomede – le quali, dopo aver consolidato il controllo di ogni forma di illegalità sul territorio – contrabbando, droga, estorsioni – s’infiltrano nelle ‘pieghe’ dell’amministrazione pubblica e dell’imprenditoria. E’ la fine… quando i riflettori della Magistratura si sposteranno al Sud – aveva detto Massimo D’Alema il 10 marzo del ’93 – la Tangentopoli di Milano al confronto apparirà uno scherzo, una cosa da dilettanti. E lo diceva uno che del Sud, della Puglia e di Bari in particolare, aveva cognizione diretta e personale. Le luci, i ‘riflettori’ della Magistratura ordinaria e della Procura Antimafia si spostano sulla città di Bari nello stesso mese di marzo e resteranno accesi per molto tempo. Quando alla fine si ‘abbasseranno’ – perché non si sono mai spenti del tutto – Bari sarà un cumulo di macerie morali e materiali. Distrutto, materialmente, il simbolo più rappresentativo del Capoluogo pugliese, il teatro Petruzzelli; distrutto, moralmente, l’uomo che ha creato il più importante laboratorio artisticoculturale della regione, Ferdinando Pinto; ulteriormente mortificata l’istituzione regionale, il Comune, l’imprenditoria privata e su fino a colpire il fiore all’occhiello di quattro generazioni di pugliesi: La Gazzetta del Mezzogiorno. Un disastro insomma, con effetti e ricadute sull’economia cittadina e, naturalmente, sull’occupazione. Dall’ottobre del 1991 e fino alle elezioni amministrative del 1995, Bari è una città che ha fermato il film della sua vita culturale, sociale e amministrativa sul fotogramma del teatro Petruzzelli divorato dalle fiamme. Il 17 marzo del ’93 è arrestato il presidente della Giunta regionale Michele Bellomo; 4 mesi dopo, il 7 luglio, il procuratore nazionale antimafia, Bruno Siclari, piomba a Bari e nell’annunciare che… si è arrivati ad accertare infiltrazioni della criminalità nell’imprenditoria barese… conferma l’ipotesi dolosa e criminale dell’incendio del teatro Petruzzelli che la notte precedente aveva portato all’arresto di Ferdinando Pinto, l’imprenditore che in un decennio di gestione del Teatro – come abbiamo già scritto ampiamente a parte – ha portato il binomio Petruzzelli-Bari in tutto il mondo. Nella stessa primavera del ’93, la Procura di Bari sta svolgendo una serie di indagini parallele che porteranno alla ‘madre’ di tutte le inchieste giudiziarie baresi. E’ un’inchiesta così sconvolgente e distruttiva da appannare per sempre l’immagine pubblica e la moralità di centinaia di persone fra cui due deputati, diversi consiglieri e dirigenti regionali, professionisti, un Sindaco in carica, quattro magistrati e il direttore della Gazzetta, Franco Russo. E’ l’inchiesta sulle Case di Cura Riunite. E’ la storia di un imprenditore che in due decenni è diventato il ‘Re Mida’ della sanità privata barese. E’ la storia di Francesco Cavallari. Il 3 maggio del 1994, lo stesso giorno in cui Franco Russo ottiene l’incarico di vice direttore vicario, esplode a Bari lo scandalo della sanità privata convenzionata e, il giorno successivo, quello della sanità pubblica. Le inchieste, parallele, sono condotte dai sostituti procuratori Anna 380 Maria Tosto e Giovanni Colangelo. L’indagine sulla sanità pubblica riguarda, in realtà, l’ospeda-


le San Paolo… è il più vergognoso mostro burocratico mai concepito dalla pubblica amministrazione… scrive il cronista, e l’anticipiamo perché la storia del San Paolo è molto meno ingarbugliata e drammatica di quella che coinvolge la sanità privata dove, fra l’altro, saranno estromessi migliaia di lavoratori. La prima pietra dell’ospedale San Paolo, sito nella periferia dell’omonimo e popoloso quartiere barese, è posta dal presidente del Consiglio, Aldo Moro, il 6 settembre del 1966. Nessuno all’epoca – siamo in pieno miracolo economico – avrebbe immaginato che quella pietra aveva una malattia comune a tutte le opere pubbliche sorte durante e dopo il ‘miracolo’ nel Meridione. Aveva il ‘verme solitario’. Una tenia esigente perché ingurgitava solo denaro: decine di miliardi. Solo che, a differenza di tutti i parassiti, la tenia del San Paolo non lasciava in piedi solo le fondamenta: il San Paolo cresceva, si vedeva che cresceva, ma restava debole. E ogni volta che si tentava di metterlo in piedi, di farlo funzionare, bisognava fargli altre iniezioni di miliardi. Perciò, il proposito dei sostituti procuratori Tosto e Colangelo quando inviano 24 avvisi di garanzia, con rinvio a giudizio, ad amministratori delle USL, imprenditori, direttori dei lavori e componenti della Commissione giudicatrice sulle offerte di appalto, non è il solito ‘tutti dentro poi si vedrà’, ma un’indagine seria sulla ricerca di responsabilità oggettive per capire, insomma, quanto di quel pubblico denaro finiva realmente nel ‘corpo’ del San Paolo. La tragedia di questo ospedale, infatti, non è solo un problema di ‘mazzette’, ma il deviante sistema degli appalti. La prassi consolidata è semplice: la ‘grande azienda’ costruttrice si aggiudica l’appalto – l’ultima in ordine di tempo, nel caso del San Paolo, è la Cogefar-Impresit del gruppo FIAT – questa, a sua volta, la passa in sub-appalto ad un’azienda locale più piccola e quest’ultima ad un’altra, ancora più piccola. E’ evidente che ad ogni passaggio lo stanziamento iniziale si assottiglia. Alla fine della catena basta alzare un muro e i soldi sono già finiti. Del tutto diverso lo scandalo della sanità privata dove, secondo l’accusa, l’appropriazione indebita è provata. Il 3 maggio, dunque, i p.m. Tosto e Colangelo chiedono al giudice per le indagini preliminari, Maria Iacovone, 27 ordini di custodia cautelare nei confronti di dirigenti amministrativi, direttori sanitari e medici di quasi tutte le strutture sanitarie private di Bari; per diversi funzionari della Regione Puglia, delle USL di Bari e amministratori locali. L’accusa è: truffa aggravata, falso ideologico e abuso d’ufficio. Fra gli arrestati, alcuni dei quali ottengono subito i domiciliari, spiccano i nomi di Francesco Cavallari, presidente delle Case di Cura Riunite, Franco Caccuri, direttore amministrativo del gruppo ‘Apulia Salus’, del prof. Francesco Traina, presidente della clinica Santa Maria, e dell’ex assessore regionale alla Sanità, Tommaso Marroccoli, dimessosi per altre ragioni il 1° febbraio. Per Marroccoli è ipotizzato anche il reato di corruzione per i rapporti avuti, durante il suo mandato, con le Case di Cura Riunite. Lo scandalo è enorme. Ben presto, però, tutta l’attenzione della stampa locale e nazionale si concentra sulla figura di Francesco Cavallari e sulle sue cliniche private, ritenute all’avanguardia nell’ambiente della comunità medica e scientifica di tutto il Paese. Chi è dunque Francesco Cavallari? Fino all’inizio degli anni Settanta, Cavallari è un informatore medico-scientifico la cui frequentazione con medici, ambulatori, cliniche ed ospedali lo pone nella condizione ideale per capire che, sfruttando le incredibili deficienze della Sanità pubblica, ci sarebbe da arricchirsi. Non è naturalmente il solo a trarre simili conclusioni. E’ l’epoca in cui le città pullulano di laboratori clinico-radiologici privati e convenzionati con il sistema sanitario nazionale. Ma Cavallari è qualche passo più avanti, vede ‘oltre’ i laboratori. L’uomo è intelligente, ha spirito d’iniziativa,

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capacità organizzative e un notevole acume imprenditoriale. Cavallari inizia la sua attività di imprenditore acquisendo piccole e medie cliniche private che vivacchiano alla meglio. Le ristruttura, le ammoderna, le rende efficienti e con gli ‘agganci’ giusti nel sistema sanitario e creditizio, quelle aziende che sembravano decotte, rifioriscono. In breve, dall’acquisizione e trasformazione di ruderi, Cavallari passa alla costruzione di ospedali che sembrano alberghi a cinque stelle. I ‘gioielli’ del suo impero ospedaliero sono la clinica Santa Rita, la Mater Dei, specializzata in oncologia, e la declassata Villa Bianca che Cavallari trasforma in un modernissimo centro di cardiologia. Già verso la metà degli anni Ottanta, la notorietà di Cavallari e delle sue cliniche-hotel travalica l’ambito regionale. La Santa Rita e la Mater Dei in particolare sono strutture ultramoderne con ampi spazi verdi progettati da architetti; profusione di marmi, servizi, personale medico e paramedico in abbondanza e perfino un servizio di receptionist come si conviene nei grandi alberghi. E’ in queste due cliniche, che non hanno nulla da invidiare alle più moderne strutture private del Paese, che Cavallari riceve luminari nazionali e d’Oltralpe per consulti e interventi o per semplici visite di cortesia come il prof. Umberto Veronesi, i premi Nobel Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco, nonché vari ministri della Sanità. Dopotutto è al loro dicastero che Cavallari deve la propria ‘fortuna’. Dei seimila miliardi l’anno che il fondo nazionale stanzia per la spesa sanitaria pugliese, le cliniche convenzionate di Cavallari sono le maggiori beneficiarie. Dal 1989 al 1993, la Regione Puglia ha erogato, alle Case di cura di Cavallari, 85 miliardi l’anno per convenzioni e 20 miliardi, sempre annui, per l’utilizzo dell’Istituto oncologico della Mater Dei. Verso la fine degli anni Ottanta, Cavallari è unanimemente riconosciuto ‘Re Mida’ della sanità barese. E’ presidente di 10 aziende ospedaliere, denominate Case di Cura Riunite, e azionista di maggioranza della Geroservice, una società di servizi affidata al cognato Paolo Biallo che fornisce alle CCR medicinali, apparecchi specialistici, infermieri, manutentori, autisti, giardinieri e quant’altro. Le due Società, insieme, danno lavoro a 4.200 persone fra medici, paramedici e tecnici; le sole CCR hanno un fatturato annuo di 250 miliardi. Nel 1993, il gruppo ospedaliero di Cavallari è considerato il più imponente comparto sanitario privato italiano e, proprio quell’anno, inizia il lento, inesorabile declino del ‘Re Mida’. Le cause sono molteplici. La prima è imputabile allo stesso Cavallari: è troppo ‘visibile’ e molte delle sue frequentazioni sono ‘sospette’. Si parla di ‘stretti’ e frequenti rapporti con amministratori pubblici, politici di ogni colore, magistrati e finanche con quelle tre, quattro famiglie di malavitosi che a Bari si dividono e controllano il territorio per i loro traffici illeciti. Tutte insinuazioni, sostiene Cavallari. Chiacchiere e cicaleccio di invidiosi, dicono gli amici di Cavallari, di persone escluse dal suo ‘giro’, dai fastosi, periodici ricevimenti, nella sua villa in via Alcide De Gasperi alla periferia di Bari. Tuttavia, la domanda facile facile è: quelle ‘chiacchiere’, le tante dicerie su Cavallari sarebbero rimaste tali senza l’onda lunga di Tangentopoli? Chi può dirlo. Resta il fatto che nella primavera del 1993, la Direzione Nazionale Antimafia chiede al procuratore capo di Bari, Michele De Marinis, un’indagine a tappeto sulle presunte ‘voci’ di collegamenti fra le imprese di Cavallari e la criminalità locale. De Marinis affida le indagini al sostituto procuratore più noto della Procura, Nicola Magrone, protagonista delle più importanti inchieste giudiziarie dell’ultimo decennio nel Barese. E’ a Magrone che sono state affidate le inchieste sui ricorrenti scandali alla Regione Puglia per presunte tangenti sulla formazione professionale; per presunte irregolarità nella 382 costruzione dello Stadio San Nicola; per l’incendio del Teatro Petruzzelli e sul recente scandalo,


s’è già fatto cenno nella cronaca del ’93, della Oto-Trasm, l’azienda barese il cui titolare, l’imprenditore piemontese Vittorio Ghidella, comprava macchinari destinati all’azienda di Bari con il contributo dell’Intervento straordinario e li rivendeva ad altre sue aziende nel Nord. Ed è infine Magrone che, nonostante minacce e intimidazioni da parte della malavita locale, ha istruito i processi e decimato le famiglie dei noti boss baresi Parisi e Capriati. Magrone insomma è l’uomo giusto, incorruttibile al punto che, pur consapevole di avere nell’organico delle CCR la sorella, non si lascia condizionare. Così, dopo una serie di controlli e verifiche, soprattutto alla Geroservice, il 3 giugno del 1993 Magrone presenta il conto: iscrive nel registro degli indagati 70 persone fra amministratori delle CCR e della Geroservice, politici, dirigenti di vari partiti e capiclan della criminalità barese. Cavallari e Biallo, invece, non iscritti nello stesso registro, sono destinatari di avvisi di garanzia. Nel verbale consegnato al procuratore capo, Magrone conferma che sul libro paga della Geroservice ci sono decine di individui appartenenti a noti clan della malavita cittadi- Francesco Cavallari, il ‘Re Mida’ della sanità barese, na, compreso Mariolino Capriati, fratello posa, orgoglioso, davanti alla ‘Mater Dei’ minore del boss della città vecchia, Antonio. Alcuni malavitosi sono addirittura già ospiti delle patrie galere. Diverse altre assunzioni, inoltre, sarebbero il frutto di segnalazioni di esponenti politici. L’ipotesi di reato suggerita da Magrone è di associazione a delinquere di stampo mafioso e di voto di scambio. Ravvisata l’ipotesi mafiosa, il giorno dopo De Marinis – che è anche il Capo della Direzione distrettuale Antimafia – trasferisce l’indagine di Magrone ai sostituti procuratori della Direzione nazionale Antimafia. Il 4 giugno del ’93 finisce il primo episodio di questo sceneggiato tutto barese. Il secondo inizia circa due mesi dopo, verso la fine di agosto del ’93, con un clamoroso colpo di scena: gli inquisitori diventano inquisiti. Su segnalazione dei giudici della Direzione distrettuale Antimafia, Alberto Maritati e Giuseppe Chieco, il Consiglio Superiore della Magistratura invia a Bari due informazioni di garanzia. Destinatari: Nicola Magrone e Michele De Marinis. Il primo è chiamato a rispondere di ‘omissione di procedure’ nell’indagine sulla Geroservice; il secondo, deve rispondere di presunte ‘frizioni’ nell’ambito della stessa indagine e di un’accusa del pentito tranese, Salvatore Annacondia, secondo il quale De Marinis avrebbe fatto rivelazioni d’ufficio ai suoi avvocati difensori. Magrone, indignato e amareggiato, sbotta… non è bastato il mio decennale impegno, le minacce, gli attentati alla mia persona da parte della criminalità locale; ora devo anche difen- 383


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dermi da speciose accuse davanti al CSM… potrei essere un giudice candidato al suicidio. De Marinis è più tranquillo. Resta sereno anche dopo la traduzione della parola ‘frizioni’: significava che il Capo della Procura di Bari sarebbe stato in rapporti di stretta amicizia con Francesco Cavallari. L’audizione dei due magistrati baresi davanti al CSM avviene all’inizio di settembre del ’93: per Magrone, i giudici del CSM hanno chiesto un provvedimento disciplinare; per De Marinis, il trasferimento per incompatibilità ambientale. L’addebito a Magrone è di aver accettato e svolto l’indagine sulle Società di Cavallari per ‘ragioni di opportunità’; di aver omesso, nell’elenco dei 70 iscritti al registro degli indagati il nome di Cavallari e di aver indicato molti dei 70 indagati non con nome e cognome, ma solo con il cognome rendendo così nulla l’indagine per ‘omissione di procedura’. A De Marinis, invece, è contestato l’affidamento della stessa a Magrone e la già citata accusa del pentito Annacondia. Il 3 dicembre del 1993, la prima Commissione del CSM chiede l’archiviazione del ‘caso’ Magrone, l’archiviazione della sua indagine sulla Geroservice e conferma il trasferimento di De Marinis. Il verdetto definitivo nei confronti di Magrone e De Marinis spetta al plenum del CSM che si riunisce il 20 gennaio del 1994. Nel frattempo, è già iniziato il declino del ‘Re Mida’ della sanità barese. La Regione Puglia ha bloccato tutte le convenzioni con le CCR e la Società ospedaliera insieme alla Società dei servizi, la Geroservice, minaccia 1.870 licenziamenti… per esuberi in assenza di convenzioni. In realtà, più che una minaccia, è una sfida. E’ come dire al consesso regionale: vediamo se siete capaci di gestire questa ‘bomba’ sociale. Cavallari, che vive ormai da mesi nel terrore di perdere la libertà, ha deciso di giocare il tutto per tutto. Tuttavia, quando il 20 gennaio ’94 il plenum del CSM conferma l’archiviazione del caso Magrone, dell’indagine di questi sulla CCR e respinge la proposta di trasferire De Marinis definendo gli addebiti ad entrambi un ‘castello di sospetti’, Cavallari riprende fiducia. Forse, con questo secondo episodio, la ‘reality fiction’ sul suo gruppo sanitario è finita. Non sarà così. Paradossalmente, il prezzo più alto nell’indagine sulle CCR e Geroservice lo pagano Magrone e De Marinis. Malgrado il CSM li abbia scagionati, nell’opinione pubblica è rimasta la convinzione che i due magistrati, Magrone per ‘salvare’ la sorella e De Marinis per salvaguardare l’amicizia con Cavallari, abbiano tentato di inficiare l’indagine allo scopo di insabbiarla. Il 10 febbraio, Nicola Magrone chiede di essere collocato in aspettativa. Alleanza Democratica, del Polo progressista, lo ha candidato alle elezioni del 27 marzo. Il 29, Magrone è eletto deputato al Parlamento. De Marinis, invece, dopo un ‘invito’ a lasciare la Direzione distrettuale Antimafia, decide di chiedere il collocamento a riposo… lascio la Magistratura ma non intendo mettermi in pantofole – scrive il Capo della Procura di Bari in una lettera inviata alla Gazzetta il 17 maggio – voglio, da libero, lottare contro chi vuol far uso alternativo della giustizia… la cattiveria di certi uomini, l’asservimento di tutto alla ideologia che pretende ispirarli, non ha confini… questo non significa che ‘loro’ abbiano vinto… ma non voglio che la mia Toga sia attinta da certe miserie… il mio profondo e vissuto convincimento democratico, la mia tensione di libertà, mi inducono a ritenere che si può essere impegnati anche a fermare questo fondamentalismo ideologico che vorrebbe il diritto per la politica invece che per la giustizia. Quattro anni dopo, il 10 luglio del ’98, il procuratore Angela Tomasicchio chiede il rinvio a 384 giudizio di De Marinis per il reato di ‘rivelazione di segreti d’ufficio’: durante le indagini di


Magrone sulle CCR, De Marinis avrebbe fatto avvertire Cavallari che il suo telefono era sotto controllo. A rivelarlo sarebbe stato lo stesso ‘Re Mida’. Come finisce la storia del coinvolgimento di De Marinis nella vicenda di Cavallari, non è dato sapere. Negli ambienti giudiziari si ritiene che, di rinvio in rinvio, alla fine il reato ascrittogli sia caduto in prescrizione. Torniamo al 3 maggio ’94 e ai provvedimenti dei procuratori Tosto e Colangelo che mettono in scena il terzo episodio del più grande scandalo sanitario di Puglia. Il 5 maggio, Francesco Cavallari passa dal suo modernissimo centro di cardiologia, la Villa Bianca, alle carceri di Bari. Aveva annunciato Il procuratore capo M. De Marinis e il sostituto che si sarebbe costituito il 4, ma la sera del 3 è stato colto da una crisi ipertensiva e diabetica procuratore N. Magrone durante un processo. che lo ha costretto al ricovero urgente. La difesa di Cavallari – sostengono gli inquirenti – è tutta tesa a sottolineare l’importanza del servizio reso alla collettività dalle Case di Cura Riunite di fronte alle assenze e alle forti carenze della sanità pubblica. Ma la realtà che viene fuori dai tabulati di rimborsi è invece quella di un enorme flusso di denaro pubblico, erogato indebitamente dall’ottobre del 1989 al mese di dicembre del 1993 per complessivi 86 miliardi e 570 milioni. E ancora: la Società delle CCR conseguiva l’indebito rimborso delle spese di ricoveri e delle relative prestazioni sanitarie e specialistiche eseguite presso la ‘Mater Dei’, benché né autorizzata ad operare, né convenzionata con il sistema sanitario nazionale, rimborsi pari a complessivi 17 miliardi e 347 milioni; conseguiva l’indebito rimborso delle spese di ricovero e delle relative prestazioni sanitarie specialistiche, eseguiti presso 5 suoi presidi per i quali la convenzione era stata revocata, rimborsi pari a 21 miliardi e 179 milioni. Peggio… altri miliardi di indebiti rimborsi venivano percepiti per falsi e disinvolti ‘ricoveri brevi’. Le CCR insomma, sostengono ancora i procuratori Tosto e Colangelo… avevano quale precipua finalità quella di ottenere rimborsi non dovuti con l’avallo delle USL e della Regione Puglia che effettuavano controlli superficiali e sommari in cambio di assunzioni alle dipendenze delle CCR di parenti e di affini per persone da essi raccomandate, segnalate o indicate, per ragioni di ordine politico, personale e privato nonché di somme di denaro, per fini estranei agli interessi della Pubblica Amministrazione. C’era, fra Cavallari e la classe politico-amministrativa locale… un inossidabile patto di ferro con un’allarmante capacità di penetrazione nello stesso apparato giudiziario. Sullo sfondo, una non comune capacità inquinante… ciò è avvenuto non una sola volta – concludono gli inquirenti – ma reiteratamente e per anni fino all’instaurarsi di una prassi tanto costante e sistematica da costituire la regola non suscettibile di eccezioni benché evidente ne appare la illeceità. Un atto d’accusa tremendo, inquietante. Ma c’era davvero un ‘inossidabile patto di ferro inquinante’ fra le CCR e i ‘poteri’ locali? Non c’era anche, come si evince dagli interrogatori dei funzionari regionali, una buona dose di superficialità e negligenza? Diciamo la verità, chi è che aveva voglia di spulciare il malloppo di carte a corredo di richieste di rimborso che ogni mese 385


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arrivava negli uffici regionali? Infatti, i 5 funzionari della Regione, responsabili a vario titolo per i necessari controlli, si protestano innocenti dei reati loro contestati: truffa, falso ideologico, abuso d’ufficio… noi quelle carte le abbiamo firmate – sostengono gli inquisiti – ma eravamo convinti che il lavoro di controllo fosse già stato effettuato in altri uffici, da altri funzionari. In altre parole, ogni volta che le richieste di rimborso varcavano gli uffici regionali, il diritto era scontato. Bisognava solo firmarle e passarle in tesoreria. Ma qualcuno doveva sapere. E quel qualcuno, secondo gli inquirenti, è Tommaso Marroccoli, ex assessore regionale alla Sanità, accusato anche di corruzione. Marroccoli, quale assessore competente – si legge nel capo d’imputazione – adottava i criteri di liquidazione omettendo sistematicamente e dolosamente di rilevare e segnalare le incongruenze e falsità delle richieste di rimborso presentate dalle CCR… in cambio avrebbe ottenuto da Francesco Cavallari l’assunzione di 18 persone e ricevuto, dallo stesso Presidente delle CCR, la somma di 240 milioni di lire. Marroccoli respinge ogni addebito. Anzi, afferma che fu lui a negare la convenzione ambulatoriale per la TAC e la risonanza magnetica alle CCR… è vero che ho firmato decreti di pagamento, ma l’autorità regionale non ha alcuna possibilità di ingerenza nella quantificazione delle competenze… si limita a recepire, controllando formalmente, il conteggio fornito dalle USL. In quanto al denaro ricevuto dal Presidente delle CCR… è il frutto della vendita di un suolo. Ricevetti 14 assegni postdatati per complessivi 240 milioni. Ero alla Cassa di Risparmio di Puglia per mettere gli assegni allo sconto quando incontrai casualmente Francesco Cavallari che si offrì di cambiarli… si trattò di un’operazione perfettamente lecita e documentata. Cavallari era un amico di vecchia data. Che l’incontro fosse ‘casuale’ è credibile. Cavallari è un assiduo frequentatore della Caripuglia. Anzi, è un cliente privilegiato della Banca a cui il ‘Re Mida’ non si farà scrupolo di lasciare un ‘ricordino’ inesigibile di 100 miliardi. Ma c’è chi, in calcoli successivi, parlerà di 250-300 miliardi. Il 7 maggio, mentre nel carcere di Bari inizia l’interrogatorio di Cavallari, la Regione Puglia blocca i crediti delle CCR… che vanno ben al di là degli 87 miliardi contestati – dirà il prof. Gaetano Contento difensore di Cavallari – durante l’interrogatorio il Presidente delle CCR ha confermato di non aver corrotto o istigato alcuno alla corruzione… c’è stato, in generale – prosegue il prof. Contento – un atteggiamento di generico favore da parte di tutta la Regione Puglia nei confronti di Francesco Cavallari che non è stato alimentato da ‘piaceri e mazzette’, ma piuttosto dalla necessità del Palazzo della politica di rimediare, in qualche modo, alla gestione irrimedibile e terremotata della Sanità pubblica. In quanto alle assunzioni clientelari – continua ancora il prof. Contento – Cavallari ha detto che nessun partito può ritenersi estraneo. Il 13 maggio, mentre il gip Maria Iacovone respinge l’istanza di scarcerazione di Cavallari, Biallo, Marroccoli e Giuseppe Pellecchia – responsabile, quest’ultimo, dell’ufficio controllo e vigilanza sulle case di cura convenzionate – perché potrebbero inquinare le prove, la direzione delle CCR informa che sta attivando le procedure di riduzione del personale… in considerazione dell’oggettiva situazione di esubero, tollerato, per lungo tempo, per esclusive ragioni di solidarietà sociale. In ultima analisi, quello che si evince dalla difesa di Cavallari è che il ‘Re Mida’ della sanità privata barese è sempre stato un ‘benefattore’ e che le CCR non sono altro che istituti di beneficenza. Il 21 maggio, il ‘regno’ di Francesco Cavallari crolla definitivamente. Il Presidente delle CCR, nonché socio di maggioranza della Geroservice, è investito da una 386


tale nuova raffica di accuse da ‘piegare’ anche un ‘Re’. Il gruppo dei carabinieri del ROS – Raggruppamento operativo speciale – su richiesta della Direzione nazionale Antimafia, ha raccolto per circa un anno una serie di nuovi documenti e prove riguardanti la vecchia indagine sulla Geroservice. Li hanno consegnati al sostituto procuratore di Bari, Giuseppe Scelsi, e questi, insieme ai p.m. della Direzione distrettuale Antimafia, Giuseppe Chieco, Corrado Lembo e Alberto Maritati, chiedono al gip, Concetta Russi, un ordine di custodia cautelare per 12 persone: Francesco Cavallari, un tecnico della manutenzione della clinica ‘Mater Dei’, due imprenditori e otto pregiudicati della malavita barese, compresi i noti boss Antonio Capriati e Savino Parisi già detenuti nelle carceri di Bari e Pianosa. L’accusa è di quelle da lasciare senza respiro: associazione per delinquere di stampo mafioso. L’ordinanza è costituita da 35 pagine. Vi è ricostruita l’ipotesi di un presunto intreccio fra Cavallari e gli esponenti della criminalità locale… allo scopo di acquisire il controllo di attività economiche, autorizzazioni e servizi di pubblico interesse per realizzare ingiusti profitti anche attraverso la ‘manipolazione’ di esponenti politici, per appoggi e coperture nelle sedi istituzionali quali Regione e USL. In cambio Cavallari avrebbe assunto, alle CCR e alla Geroservice – dove si sarebbero trovati elenchi e tabulati con l’indicazione di compensi anche per i boss in carcere – centinaia di persone appartenenti ai clan malavitosi di Bari, ricevuto ‘protezione’ e, con la forza dell’intimidazione di questi, esercitato pressioni sulle organizzazioni sindacali interne alle strutture ospedaliere oltre che su funzionari pubblici per ottenere i rimborsi illeciti. Altro che arresti domiciliari, concessi proprio quel giorno, 21 maggio, all’ex assessore regionale Tommaso Marroccoli. Cavallari è di fronte ad un… così grave e ‘insopportabile’ atto d’accusa – sostiene il suo difensore prof. Contento – da rischiare una lunga detenzione. La mattina del 22 maggio, insieme alla notizia di 12 nuovi ordini di custodia cautelare, la Gazzetta pubblica, in prima pagina, una nota a firma del neo vice direttore Franco Russo dal

Savino Parisi.

Antonio Capriati.

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titolo: ‘L’Italia spaccata dai giudici’. Russo, nel commentare in generale la polemica nazionale sull’uso e gestione dei pentiti, sottolinea che anche in Puglia… c’è la stessa contestazione. Alcuni magistrati sono stati posti sotto inchiesta, anzi, a Lecce e a Taranto si parla addirittura di un uso distorto dei pentiti… ora, anche a Bari, al Palazzo di Giustizia, cominciano a scorrere i primi veleni sullo scandalo della sanità privata, sulla gestione dei processi, sull’uso della carcerazione preventiva e sulle vendette trasversali, come ha denunciato il procuratore De Marinis il giorno delle sue dimissioni. E se davvero in questa guerra a base di curaro – scrive ancora Russo – alcuni uffici di magistrati sarebbero stati controllati da microspie ambientali – come si dice con enorme terrore negli ambienti giudiziari baresi – per lo Stato di diritto sarebbe la fine. Due giorni dopo, il 24 maggio, il Tribunale della Libertà revoca gli arresti domiciliari ai dirigenti delle cliniche ‘Apulia Salus’ e ‘Santa Rita’… dubitando sull’esigenza della custodia cautelare… si legge nella motivazione, e Russo, il mattino successivo, torna sull’argomento, in una nuova nota di prima pagina, dal titolo: ‘Veleni e manette’: Sono colpi di mannaia i ‘dubbi’ del Tribunale di riesame sull’operato dei pm e dei gip dopo l’uso – e l’abuso – della carcerazione preventiva nel cosiddetto scandalo barese della sanità – scrive Russo – ‘dubbi’ che alimentano sospetti sull’esistenza e sulla consistenza dei motivi posti a base della pioggia di manette e che fanno dire ai giudici del Tribunale della Libertà come quegli arresti non si giustificano. Questo, naturalmente, non significa che gli accusati di oggi siano innocenti: erano e restano imputati, ma gli arresti no. Non si giustificano, non si dovevano fare… gli imputati non potevano inquinare le prove, né potevano reiterare il reato poiché nel frattempo il clima di legalità era stato ristabilito. Che in questa vicenda ci sia stato e ci sia – continua Russo – una visione ed un uso personale dei poteri discrezionali sull’esigenza cautelare, è fuori di dubbio. Ma se queste visioni sono comprensibili – e non giustificabili – nel pm, il quale non si è ancora spogliato completamente del rito inquisitorio, l’appiattimento su queste posizioni – e visioni – del gip appare del tutto incomprensibile, tenuto presente il suo ruolo di super partes. Farà certamente discutere questa decisione del Tribunale della Libertà che ripropone l’antico problema delle manette facili e quello più attuale della carcerazione preventiva come strumento di pressione fisica e psicologica per ottenere conferme e confessioni. La polemica è, per ora, contenuta – conclude Russo – non è un mistero per nessuno che nel Palazzo di Giustizia si svolgono scontri titanici che hanno come obiettivo i referenti del vecchio sistema. Su questo scontro i veleni scorreranno a fiumi, dopo il già annunciato arrivo di altre manette. Questa volta, la risposta dei magistrati non si fa attendere. Nella stessa giornata, il sostituto procuratore presso la corte d’Appello di Bari, Emilio Marzano, scrive una lettera aperta che non invia alla Gazzetta e che il giornale perciò non pubblica. Ma Russo ne viene in possesso e non si astiene dal commentarla sulla Gazzetta del 26… se non fossero note le grandi capacità umane e professionali del dott. Marzano – e non è retorica – se non fosse unanimemente riconosciuta la sua poderosa cultura giuridica, se la missiva non fosse sottoscritta col nome e col cognome dell’autorevole magistrato, mai avremmo identificato in lui l’autore del delirante e contraddittorio proclama. Egli però - sostiene Russo – ha firmato la lettera nella sua qualità di componente del comitato esecutivo di ‘Magistratura Democratica’, di una corrente della Magistratura italiana, saldamente schierata a sinistra: il delirio così prende corpo e diventa strategia politica. Nella lettera aperta il dott. Marzano accusa la Gazzetta di avere orientato le reazioni ai due fatti più clamorosi delle ultime settimane – dimissioni del procuratore De Marinis e scandalo sanità – ‘in direzione univoca contro i giudici dell’inchiesta e, ancor più contro la Magistratura del Palazzo con accenti velenosi e toni rabbiosi di commento, in cui si affiancano gratuite affer388 mazioni su presunte lotte di potere all’interno del Palazzo di Giustizia’. L’informazione della


Gazzetta – commenta Russo – è stata volutamente e scientificamente ancorata ai fatti, alla cronaca… veleni e rabbia il dott. Marzano li ha trovati nelle dichiarazioni del procuratore De Marinis e del comm. Cavallari: tutti e due hanno accusato i partiti politici della sinistra – PDS, Rete e Rifondazione – di essere causa diretta delle rispettive vicende… ma c’è un passaggio significativo nella lettera del dott. Marzano che merita una particolare sottolineatura. Egli scrive che nella Magistratura barese non ‘allignano faide, lotte di potere e complotti, tanto più ora che la Procura della Repubblica di Bari si muove e opera – com’è Scontro fra ‘Palazzi’ e ‘poteri’ a Bari. visibile a tutti – in unità di intenti e finalmente con la determinazione necessaria a verificare e reprimere tutte le forme di illegalità per troppo tempo all’ombra dell’ignoto… occorre difendere l’indipendenza dei giudici da ogni tentativo di delegittimazione e condizionamento’. Va bene – conclude Russo – noi condividiamo e sottoscriviamo l’appello del dott. Marzano, ma la Gazzetta non può e non vuole intervenire nel confronto e nello scontro in atto all’interno della Magistratura. E questo proprio per evitare quell’equivoco in cui riteniamo forse è caduto il dott. Marzano quando parla di giornale schierato contro i giudici. Semmai è il contrario: la Gazzetta da sempre è schierata a difesa delle istituzioni democratiche, delle libertà civili, collettive e individuali; ma è anche contro gli abusi. E dovrà convenire il dott. Marzano che, forse, qualche errore di… valutazione, recentemente, è stato commesso. Ma la polemica continua e Russo insiste. In risposta ad una lettera del giudice Nicola Colaianni, ex senatore del PDS, il quale ammette che in generale… cadute di tono della Magistratura si sono avute, che la critica va comunque esercitata ma che in definitiva… è interesse comune creare intorno alla Magistratura un clima di serenità e di solidarietà… Franco Russo risponde: Condividiamo… in questa ottica la Gazzetta è stata e sarà in prima linea a fianco dei giudici… ma i veleni non li abbiamo cosparsi noi nel Palazzo di Giustizia di Bari… anzi, è proprio perché esercitiamo il diritto di cronaca, e per svelenire il clima, che la Gazzetta evita, scrupolosamente, di pubblicare tutte quelle notizie che forse sono pure vere, ma che rese note provocherebbero sul Palazzo di Giustizia una pioggia di arsenico. Francesco Cavallari, intanto, sommerso da nuove, pesanti accuse – si parla di Società fantasma, di compromessi con imprenditori compiacenti, di un giro di fatture false per una frode fiscale di 40 miliardi, ecc. – decide di cambiare linea difensiva: smette gli abiti della vittima e si dichiara disponibile a collaborare con gli inquirenti. Il 31 maggio, il cronista della Gazzetta, Nicola Pepe, scrive che l’inchiesta della Direzione distrettuale Antimafia sulla Geroservice si allarga… sarebbero pronti per essere inviati una nuova raffica di avvisi di garanzia, dieci o forse più, ad esponenti malavitosi, politici, amministratori, pubblici funzionari, magistrati, professionisti e giornalisti. E’ la prima volta che si fa cenno ad un presunto coinvolgimento di ‘giornalisti’ nella vicenda Cavallari-CCR-Geroservice. E’ un caso? E’ solo una voce non confermata che circola nel Palazzo di Giustizia di Bari? Forse. Resta il fatto che a seguito della risposta di Russo alla lette-

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ra di Colaianni, il 2 giugno la sezione di Bari dell’Associazione nazionale Magistrati invia alla Gazzetta un durissimo comunicato. Sono in corso di svolgimento, a Bari, indagini e procedimenti volti ad accertare eventuali responsabilità penali con riferimento a fatti di estrema gravità e rilevanza sociale che a nostro avviso hanno notevolmente degradato il livello di convivenza nel nostro territorio. Deve essere interesse comune, degli inquisiti, dei loro difensori come di qualsiasi altro cittadino – continua il comunicato dell’ANM – che ai giudizi si pervenga in un clima di compoSopra, il Tribunale, e a sinistra e la sede della Gazzetta. stezza, perché le invettive, i giudizi affrettati e ogni altra forma di pressione o strumentalizzazione finiscono con il pregiudicare proprio quella giustizia che si va cercando. Oggettivamente non contribuisce a creare un clima siffatto ogni intervento che travalichi in qualsiasi modo il diritto-dovere alla informazione o che getti ombre e sospetti sull’operato della Magistratura, la cui buona fede è scorretto mettere in discussione in assenza di prove certe di scarsa professionalità o di prevenzione di giudizio. Perciò – prosegue il comunicato – sorprende che certa stampa, ed in particolare La Gazzetta del Mezzogiorno, continui ad accreditare di fronte all’opinione pubblica senza un minimo di fondamento… la tesi secondo cui il Palazzo di Giustizia di Bari sarebbe dilaniato da chissà quali lotte intestine e percorso da chissà quali ‘veleni’, ‘scontri titanici’, ‘piogge d’arsenico’ e, cosa di inaudita gravità, ‘una visione ed un uso personale di poteri discrezionali sulle esigenze cautelari’. Pur con il dovuto rispetto per il diritto di cronaca e di critica, la Giunta distrettuale dell’ANM non può esimersi dal rilevare che siffatto modo di fare informazione non aiuta a fare chiarezza, finisce per disorientare l’opinione pubblica, per isolare la Magistratura barese o peggio singoli magistrati impegnati in inchieste di notevole rilevanza. In ogni caso, la Giunta distrettuale, intende rassicurare i cittadini e tutti gli organi di informazione – conclude il comunicato – che all’interno degli uffici giudiziari baresi, fortunatamente, non allignano né tensioni, né lotte di potere e tanto meno scorrono ‘veleni… a fiumi’ e che insistere ancora oggi su tale linea rappresenta soltanto un modo per creare artificiosamente, e si spera non strumentalmente, un clima di tensione che non esiste e che non giova a nessuno. Ecco la risposta di Franco Russo. I giudici che fanno politica non ci convincono. Soprattutto quando, in modo scorretto, assisi sul solenne scanno della Giustizia, lanciano moniti e avvertimenti minacciosi, nel tentativo – in verità assai maldestri – di delegittimare gli altri per rilegittimare se stessi. Il documento della sezione barese dell’ANM è un capolavoro di faziosità, di prevaricazione, che cerca di dare corpo ad ombre inesistenti e creare battaglie immaginarie. Questi giudici sono pericolosi – afferma Russo – la Giustizia presuppone che una norma legislativa deve essere soltanto ‘applicata’, non ‘discussa’. Costoro non solo discutono e polemizzano, ma – fatto gravissimo – lo fanno in maniera fraudolenta, addebitando ad altri problemi che sono i loro. Questo disegno scellerato presuppone una direzione e una strategia politica che non è ancora molto chiara, ma che contiene nel suo approccio un progetto destabilizzante il cui primo 390 obiettivo è una stampa asservita, un giornale sotto tutela. Noi non vogliamo tutori, vogliamo


essere liberi di esercitare il nostro diritto-dovere di cronaca ed anche di critica. E perché sia a tutti chiaro e comprensibile, al di là delle mistificazioni di parte, non solo ribadiamo quanto sino ad oggi scritto sul cosiddetto scandalo della sanità, ma aggiungiamo pure che i veleni all’interno del Palazzo di Giustizia di Bari ci sono stati e ci sono. Ed è una lotta intestina, tra le diverse correnti della Magistratura, tra giudici di opposte correnti… filosofiche. Come definire, se non titaniche, le lotte tra i diversi partiti dei giudici? Le notizie rientrano nel diritto-dovere di cronaca ed hanno un loro preciso e solido fondamento. Su questo terreno non accettiamo avvertimenti minacciosi, soprattutto da questi giudici… la gente ha il diritto di sapere anche che cosa accade quando scoppia una guerra tra i giudici… i cittadini lo devono sapere, lo devono sapere i Lettori del nostro giornale, lo deve sapere il Ministro della Giustizia il cui autorevole intervento ora sollecitiamo pubblicamente in quanto non è possibile che, esercitando il diritto di cronaca e di critica, si possa essere accusati in maniera strumentale di voler isolare la Magistratura barese. Qui ci sono giochi di gestione del potere giudiziario che non riusciamo a capire – conclude Russo – ma sui quali è necessario fare chiarezza assoluta. Perché è falso che non ci siano lotte interne, perché è falso che nel Palazzo di Giustizia di Bari non scorrono veleni. La polemica si stempera, anzi si chiude, il 4 giugno con una lettera ‘conciliante’ del sostituto procuratore Leonardo Rinella… non siamo immuni dalla possibilità di errori. L’umiltà non sempre è una qualità che ci appartiene – sostiene Rinella – di contro, è dovere di chi informa avvicinarsi serenamente agli avvenimenti senza preconcetti o chiusure, senza far ricorso a generalizzazioni e luoghi comuni… una diversità di giudizio fra il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari, non significa che vi sono ‘veleni’ fra i magistrati dei due uffici… il ‘rigetto’ è disciplinato dal codice processuale… guai se il gip accogliesse ogni richiesta del p.m. perché questi non sarebbe tutelato dal controllo che il giudice deve eseguire sul suo operato. Non penso – scrive ancora Rinella – che i mezzi d’informazione abbiano interesse a delegittimare e ad isolare la Magistratura… che tutela anche la libertà di cronaca e di opinione protette dalla Costituzione… smettano però i mass media dal descrivere l’intera Magistratura ‘pericolosa’ perché dilaniata da giochi di gestione del potere giudiziario. Certe affermazioni sono offensive per chi e per quanti, e sono la maggioranza, hanno scelto, ogni giorno, di ‘servire’ in silenzio. Sottoscriviamo – si legge in una breve nota non firmata della Gazzetta – nessun fumus persecutorio nei confronti della Magistratura… solo una chiosa: guai, parafrasiamo noi, se la Magistratura ricevesse solo applausi. Con una stampa che rinuncia alla sua funzione, il Terzo Potere si delegittimerebbe da solo. Nel frattempo, Francesco Cavallari, subissato da una infinità di accuse – truffa, corruzione, abuso d’ufficio, tentativo di estorsione aggravata, falso in bilancio, false fatturazioni, associazione a delinquere semplice e di stampo mafioso – decide di dimettersi da presidente delle CCR. L’addebito di ‘associazione di stampo mafioso’ lo allontana sempre più dalla semilibertà e dunque dalla possibilità di gestire le sue aziende. Il 13 giugno, infatti, il Tribunale della Libertà rigetta, per la quinta o la sesta volta, la richiesta degli arresti domiciliari del suo difensore prof. Contento perché… appare evidente la contiguità costante e consapevole tra i coindagati Francesco Cavallari, Savino Parisi e Antonio Capriati. Ventiquattro ore dopo, nuovo colpo di scena: arrivano gli americani. Sembra che all’inizio di questo travagliato ‘94, le CCR abbiano siglato un accordo con un gruppo statunitense, l’Health Management Service, specializzato nella gestione di strutture sanitarie. Questi, a seguito delle dimissioni di Cavallari, arrivano a Bari con il proposito di dare corso all’accordo… riorganizza-

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La protesta dei dipendenti delle CCR che tentano di occupare la stazione di Bari.

re e ristrutturare una Società che al momento ha una presenza di addetti largamente in sovrannumero – afferma Allan Bird, nominato consigliere e direttore generale delle CCR – il problema non lo abbiamo creato noi, l’abbiamo trovato. Noi dobbiamo solo risolverlo se vogliamo rendere le CCR un’azienda modello. Come? Semplice: bisogna porre in essere le procedure per attivare i 1.870 licenziamenti già annunciati. Altrimenti, non ci sarà futuro per le CCR. Succede il finimondo. Risultato vano ogni tentativo di mediazione fra il nuovo gruppo dirigente e i sindacati, i dipendenti delle CCR – che da due mesi sono senza retribuzione – scendono in piazza a migliaia e per tre mattine consecutive bloccano la città: la tangenziale, la Prefettura, la sede della Regione, la stazione centrale, l’intera piazza Moro e alcune cliniche del ‘gruppo’ vengono presidiate per ore dai dimostranti e dalle forze dell’ordine dove non mancano tafferugli, scontri, feriti e arresti. Si mobilitano il prefetto, il questore e il presidente della Giunta regionale che per calmare gli animi assicura il pagamento delle competenze arretrate. Sindacato e Azienda, intanto, tornano ad incontrarsi e finalmente, il 24 giugno, gli americani ammorbidiscono la loro posizione: i licenziamenti non saranno più 1.870, ma 1.281. Il 27 giugno, anche Paolo Biallo, cognato di Cavallari e dirigente della Geroservice, ottiene gli arresti domiciliari. Ora, in carcere c’è solo il ‘Re Mida’ al quale il 4 luglio, i giudici del Tribunale della Libertà respingono l’ennesima richiesta di revoca del provvedimento di custodia cautelare. Il 5 luglio, il nuovo Consiglio di Amministrazione delle CCR annuncia che sono in partenza le prime 600 lettere di licenziamento e, incredibile ma vero, la maggior parte degli estromessi non appartengono ai cosiddetti ‘rami secchi’, agli assenteisti cronici, ai tanti a ‘disposizione del Presidente’ alcuni dei quali risultano ospiti dello Stato in stanze multiple con sole a scacchi. Ancora più incredibili le proteste del Sindacato che nel tentativo di difendere quei dipendenti non riconducibili al clientelismo politico e delinquenziale, denuncia i veri ‘rami secchi’ ammettendo così, implicitamente, di aver sempre saputo ed avallato l’anomala politica occupazionale delle CCR e della Geroservice in particolare. Nuove contestazioni, nuovo intervento del prefetto, nuove liste di licenziamenti, nuovi 392 incontri Sindacato-Azienda. Viene richiesta la Cassa integrazione, ma sembra che i dipendenti


delle aziende ospedaliere private non ne abbiano diritto. E’ inoltrato un ricorso al pretore del Lavoro, si susseguono riunioni presso l’ufficio provinciale del Lavoro, il Ministero della Sanità a Roma e, ancora, alla Regione Puglia. Ma quando il Consiglio di Amministrazione delle CCR rifiuta di aumentare il capitale sociale, gli americani abbandonano la nave. Il 21 luglio, la Health Management Service informa:… poiché non vi sono i mezzi mediante i quali poter lavorare, restare e continuare a oziare sarebbe improduttivo e certo non professionale… e questo non è nel nostro costume. Ventiquattro ore dopo arriva il verdetto del pretore del Lavoro: i dipendenti delle CCR hanno diritto alla Cassa integrazione. Ma le prime lettere di licenziamento sono già partite. Punto e a capo dunque: nuova, estenuante tornata di trattative per la revoca dei licenziamenti, nuove procedure per utilizzare gli ammortizzatori sociali, nuove liste, nuove discussioni e soprattutto, con il rifiuto di aumentare il capitale sociale, la Società è rimasta a secco. Non ci sono più soldi. Non si possono pagare i fornitori, non si possono pagare i dipendenti – che per i mesi di luglio e agosto hanno ricevuto solo acconti – e, peggio ancora, anche i pazienti evitano gli ospedali delle CCR… a livello locale non c’è la volontà di salvare questa Azienda – sostiene Antonio Giannone, direttore generale del ‘gruppo’, che il 12 agosto si dimette – forse si aspetta il fallimento per poterla rilevare con quattro soldi. Cavallari, intanto, trasferito nel carcere di Pisa, torna a Bari per essere sottoposto ad un intervento chirurgico e, piantonato per mesi in una delle sue cliniche, riceve, per giorni e ogni giorno, almeno 6 pubblici ministeri, compresi i procuratori della Direzione distrettuale Antimafia, con cui collabora attivamente… per disvelare – scrive il gip, Concetta Russi, nell’ordinanza di revoca della custodia cautelare – gran parte dei rapporti intrattenuti con tutti gli ambienti politici, economici, istituzionali e sociali a tutti i livelli, locali e non, realizzando quell’intreccio di interessi delittuosi sui quali ha potuto organizzare e sviluppare il proprio potere… la portata oggettiva delle dichiarazioni di Cavallari, rivelano indiscutibilmente come egli non sia posto più nella condizione di fungere da mediatore di interessi delittuosi perseguiti dal mondo della criminalità organizzata e dal potere politico-imprenditoriale e fanno pronosticare – conclude Concetta Russi – che come tale non si porrà per il futuro. La revoca della custodia cautelare al ‘Re Mida’ è firmata il 29 novembre, il 30, dopo sette mesi di detenzione, Francesco Cavallari torna libero. Fine della terza puntata della più lunga e sconcertante vicenda politico-sociale che abbia mai investito la città di Bari già ‘disastrata’ dall’immobilismo amministrativo per la lunga serie di crisi delle sue istituzioni. Ma il peggio deve ancora accadere, perché Francesco Cavallari e Mariolino Capriati, divenuti nel frattempo collaboratori di giustizia, stanno dettando agli inquirenti della Direzione distrettuale Antimafia, l’ultimo e più devastante episodio di questa sconvolgente vicenda. Dopotutto, uno ‘sceneggiato’ che ha avuto come protagonisti un ‘Re’, un assessore regionale, due magistrati, diversi amministratori pubblici e privati, imprenditori, commercialiMariolino Capriati.

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sti, piccoli e grossi personaggi della criminalità locale, una ‘folla di comparse’ degno di un kolossal – gli oltre 4.000 dipendenti della CCR e della Geroservice – non poteva finire con la scarcerazione di Cavallari. I giudiciproduttori della Procura Antimafia barese avranno, da Cavallari e Capriati – scarcerato anche lui il 4 febbraio del ’95 per essere inserito nel programma di protezione dei testimoni – la partitura per mettere in scena l’ultimo epi- Franco De Lucia, vicepresidente della Regione Puglia. sodio e, come si conviene ad una mega produzione, stanno mettendo in cantiere la ‘puntata’ più spettacolare e drammatica di tutte. Intanto, svanita la ‘speranza americana’, il gruppo dell’ex impero Cavallari è affidato a Franco Taverna che il 10 gennaio del ’95, al fine di salvare il gruppo, chiede e ottiene, dalla sezione fallimentare del Tribunale di Bari, lo stato di ‘insolvenza’. Lo scopo è di usufruire di finanziamenti pubblici previsti dalla legge 26/79, nota come ‘legge Prodi’, che prevede interventi urgenti a favore di imprese di rilevanza nazionale in crisi produttiva. La sentenza del Tribunale di Bari, trasmessa al Ministero dell’Industria, è accompagnata dal parere favorevole del procuratore capo reggente della Repubblica di Bari, Angelo Bassi. Naturalmente, gli esuberi occupazionali non si limitano alle sole CCR, ma colpiscono tutte le altre aziende sanitarie private, coinvolte e non, nell’inchiesta della Procura. Dopo lo scandalo e gli arresti del maggio precedente per presunti rimborsi e convenzioni inesistenti, la Regione ha operato un controllo a tappeto finendo col ridurre drasticamente le prestazioni sanitarie alle cliniche e ai laboratori diagnostici privati. In breve, l’intero comparto entra in crisi. Il 9 febbraio ‘95, il solo gruppo Caccuri, che a Bari controlla 4 cliniche private, licenzia 229 dipendenti. Cinque giorni dopo, il 14 febbraio, il ministro dell’Industria, Alberto Clò, firma il decreto che consente alle CCR di beneficiare della ‘legge Prodi’ e nomina, allo stesso tempo, i commissari straordinari che gestiranno, in ‘amministrazione controllata’, la ripresa produttiva del gruppo ospedaliero. Con l’arrivo dei commissari – il 23 febbraio – diventano esigibili gli 8 miliardi e 400 milioni stanziati dalla Giunta regionale pugliese, il 3 febbraio, per pagare gli stipendi arretrati, da ottobre ‘94 a gennaio ’95, di medici e maestranze. Ed eccoci all’ultimo episodio, all’ultimo atto di questo dramma che coinvolge la città a tutti i livelli, al più devastante terremoto politico-amministrativo della storia di Bari. Il primo segnale della nuova bufera che sta per abbattersi sulla città è del 27 marzo ‘95. Alle prime luci dell’alba quattro militi della polizia tributaria delle Fiamme Gialle arrestano Franco De Lucia, vice presidente della Regione Puglia, e Michele Cologno, assessore regionale alla Sanità. L’ordine di custodia cautelare in carcere, per i due esponenti regionali, è firmato dal gip Maria Iacovone su richiesta dei sostituti procuratori Anna Maria Tosto e Giovanni Colangelo, gli stessi che indagano sui rapporti fra il gruppo CCR e la Regione Puglia per presunte irregolarità nelle convenzioni. L’ipotesi di reato per De Lucia e Cologno è di corruzione: avrebbero intascato da Francesco Cavallari una tangente di 50 milioni ciascuno per ritirare una delibera che avrebbe danneggiato le Case di Cura Riunite. Una bomba? No, un petardo, un semplice prologo al ‘grande spettacolo’ in programma per il giorno dopo. Il mattino di martedì 28 marzo, Bari si sveglia sotto un cielo premonitore: è scuro e gonfio di 394


pioggia. Alle 9 piove copiosamente e quando alle nove e trenta il procuratore nazionale antimafia, Bruno Siclari, entra nell’aula magna della Corte d’Appello per una conferenza stampa, è come se piovesse anche nell’intero Palazzo di Giustizia. L’ultima volta che Siclari è venuto a Bari per un’altra conferenza stampa, è stato il 7 luglio del ’93, per annunciare l’operazione che ha portato all’arresto di 27 persone per l’incendio del teatro Petruzzelli. Qual è la tempesta che i procuratori dell’Antimafia barese hanno scatenato questa volta per richiedere di nuovo la presenza del Procuratore nazionale? Si chiama ‘Operazione Speranza’ dicono i quattro magistrati dell’Antimafia che affiancano Siclari al tavolo della conferenza stampa a giornalisti, avvocati e curiosi che affollano l’aula magna… si chiama ‘Operazione Speranza’ ed è in corso da alcune ore. L’inchiesta è quella sulla Geroservice, la nota società di servizi delle CCR, la stessa che ha svolto il neo deputato Nicola Magrone nel ’93 e per la quale il CSM aveva disposto l’archiviazione per ‘omissione di procedura’: l’ex sostituto procuratore aveva omesso di scrivere il nome di battesimo accanto al cognome di alcuni indiziati che aveva poi iscritto nel registro degli indagati. Questa volta non manca nulla: 35 nomi e cognomi ben evidenziati e tali da lasciare senza fiato il folto uditorio pur in un clima generale in cui nessuno si sorprende più di nulla. Alcuni di quei nomi, quello del Sindaco di Bari e del Direttore della Gazzetta, sono noti a tutta la città fin dalle prime ore del mattino. Il sindaco in carica, Giovanni Memola, è stato arrestato dai carabinieri del ROS, venuti appositamente da Roma, alle 6 del mattino; il direttore della Gazzetta, Franco Russo, qualche minuto dopo. Una mattina ‘segnata’ per Franco Russo. Il giorno prima aveva perso il padre, Guglielmo, e quel mattino si accingeva ad andare a Foggia per assistere al funerale. Oggi la Procura distrettuale Antimafia di Bari – legge il procuratore Giuseppe Chieco dal comunicato che sarà distribuito ai giornalisti, firmato anche dai colleghi Giuseppe Scelsi, Corrado Lembo e Alberto Maritati – ha disposto l’esecuzione di 35 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del Tribunale Concetta Russi… 31 persone sono state tratte in arresto; 4 sono già in carcere per altra causa. Le indagini che hanno condotto all’applicazione dei provvedimenti sono il frutto di due anni di lavoro dei magistrati della Procura nazionale e distrettuale dell’Antimafia che si sono avvalsi anche delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia. ‘Collaboratori’ identificabili, principalmente, in Cavallari e Mariolino Capriati fratello del noto boss della città vecchia, Antonio. Muovendo dall’analisi dei rapporti tra esponenti della criminalità organizzata barese ed il gruppo imprenditoriale di Francesco Cavallari, il pool della Procura Antimafia ha potuto… mettere a fuoco un delittuoso sistema di alleanze, protezioni, complicità e corruttele di ogni genere nel quale sono risultati coinvolti anche uomini politici di rilievo nazionale, disposti ad anteporre il tornaconto personale e di fazione agli interessi generali… tra le conseguenze più dannose derivate dal sistema politico-affaristico creato dal Cavallari – continua a leggere il procuratore Chieco – va segnalato il rilevante depauperamento delle risorse pubbliche con corrispondente illecito arricchimento dei principali indagati… la strategia di Cavallari – si legge nelle 46 cartelle motivanti gli arresti – era basata da un lato su un’accorta politica di alleanze con i clan malavitosi locali in maniera da neutralizzare e utilizzare a proprio vantaggio la forza di intimidazione della criminalità; dall’altro diretta a stabilire un rapporto di delittuosa collaborazione con la ‘maggior parte della corrotta classe di governo locale’. Ma c’è di peggio… quello che provoca maggiore sconcerto e seria preoccupazione è che il sistema disvelato dall’inchiesta è riuscito a coinvolgere finanche taluni mezzi di informazione.

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Questa è la principale ragione – qualcuno dei giornalisti presenti nell’aula magna ha interrotto Chieco per domandare come mai un’operazione di questa portata è stata varata a meno di un mese dalle elezioni regionali, comunali e provinciali – per cui abbiamo ritenuto di sospendere il doveroso riserbo che ha caratterizzato il nostro lavoro. Nel corso dell’Operazione Speranza dunque… sono stati tratti in arresto – soggiunge Chieco – esponenti del ceto politico nazionale e locale, personaggi di rilievo della criminalità organizzata barese, diversi soggetti legati ad uno stretto rapporto fiduciario e di collaborazione a Francesco Cavallari, un ufficiale e tre sottufficiali della Guardia di Finanza, un alto magistrato in pensione e, per ‘reati comuni’, l’attuale Direttore responsabile del quotidiano locale La Gazzetta del Mezzogiorno. E’ necessario e urgente – conclude il sostituto procuratore – che l’opinione pubblica sia correttamente e compiutamente informata del grave pericolo che hanno corso le libertà a causa di alleanze e intrighi disvelati da questa inchiesta. Ma è altrettanto necessario che i cittadini – questa è la nostra ‘speranza’ – siano consapevoli che indagini di tale natura non possono prescindere dalla collaborazione responsabile di tutte le persone oneste. La conferenza stampa è finita e, insieme a copie del comunicato appena letto e distribuito ai giornalisti, è allegato l’elenco dei 35 arrestati, con una scarna sintesi dei reati ipotizzati accanto ad ogni nome e cognome. Per saperne di più bisogna leggersi le 300 cartelle dell’ordinanza di custodia cautelare Si comincia con gli esponenti politici nazionali: Vito Lattanzio e Rino Formica, entrambi ex ministri, sono accusati di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio e finanziamento illecito ai partiti. Lattanzio e Formica avrebbero ricevuto, da Cavallari, un miliardo il primo e 500 milioni il secondo per finanziare la campagna elettorale delle elezioni politiche del ’92 oltre a diverse assunzioni clientelari nel gruppo delle CCR. Questi sono i soli ad ottenere gli arresti domiciliari insieme all’alto magistrato in pensione, Domenico Iandolo, accusato di corruzione. I politici locali arrestati sono: Franco Borgia, Michele Bellomo, Nicola Di Cagno, Giovanni Memola e Antonio Di Rienzo. Borgia, Di Cagno e Bellomo – quest’ultimo già arrestato nel ’93 per un’altra vicenda di mazzette – erano, all’epoca dei fatti contestati, tra il 1989 e il ’91, amministratori regionali: avrebbero favorito il rilascio di alcune convenzioni al gruppo CCR in cambio di mazzette e assunzioni clientelari; Di Rienzo e Memola invece, il primo assessore all’Urbanistica al Comune di Bari, il secondo componente della Commissione urbanistica, sempre nello stesso periodo avrebbero intascato tangenti per aver agevolato, in corso d’opera, alcune varianti per l’ampliamento di tre cliniche del gruppo CCR. Solo un mese prima, il 24 febbraio, il sindaco in carica, Giovanni Memola, era stato prosciolto dal giudice Pietro Sabatelli da un’altra accusa di concorso in estorsione e truffa ‘perché il fatto non sussiste’. Arrestato, inoltre, Paolo Biallo, l’ex amministratore della Geroservice e cognato di Cavallari; il segretario di Lattanzio, la segretaria di Di Cagno, tre dipendenti e due fornitori delle CCR, un gioielliere, un imprenditore e poi, l’ennesima ratifica in carcere a Savino Parisi, il boss del quartiere Japigia, e ad Antonio Capriati, boss della città vecchia, il cui clan è decimato: sono arrestati 4 malavitosi considerati ‘vicini’ alla sua ‘organizzazione’ e Filippo, Francesco, Domenico e Giuseppe Capriati tutti parenti di vario grado del boss Antonio. L’accusa comune ad amministratori, dipendenti, segretari e militi delle Fiamme Gialle è corruzione; per Biallo, per i fornitori delle CCR e per tutti i presunti pregiudicati, l’accusa è di associazione per delinquere di stampo mafioso. L’unico ad essere accusato di estorsione e corruzione è il direttore della Gazzetta, Franco Russo, il quale, negli anni ’91-’92 avrebbe ‘costretto’

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l’ex assessore regionale alla Sanità, Tommaso Marroccoli, a versargli ingenti somme di denaro con la minaccia di pubblicare notizie a lui pregiudizievoli in riferimento a presunti collegamenti tra un socio in affari di Marroccoli e ambienti della camorra napoletana. Se questa è l’accusa – e questo è l’addebito attribuito a Russo nel processo ‘stralcio’ – non si comprende cosa c’entri il Direttore della Gazzetta nell’Operazione Speranza che verte sull’inchiesta alla Geroservice. Ma il collegamento c’è… nel corso delle indagini preliminari – diranno i procuratori dell’Antimafia – Marroccoli prima e Cavallari poi hanno confermato l’ipotesi accusatoria e, pur in mancanza di una prova diretta della corresponsione del denaro in favore del giornalista, tali dichiarazioni dimostravano la sussistenza del reato. Resta il fatto che nel corso del processo ‘stralcio’, Marroccoli si avvale della facoltà di non rispondere e Cavallari dichiara di non aver mai saputo di somme di denaro che l’ex assessore regionale avrebbe versato a Russo. Del resto, Marroccoli non ha mai denunciato di aver subìto un’estorsione. Il 18 aprile 1996, i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Bari assolvono Franco Russo dall’accusa di estorsione… perché il fatto non costituisce reato. Mancava la prova dei presunti versamenti di denaro e mancava anche la denuncia della presunta estorsione. E’ successo, succede anche a noi – commenta Gorjux il giorno dopo sulla Gazzetta – di riportare notizie su procedimenti in corso, poi smentite dalle decisioni dei giudici. E’ fatale in una democrazia libera con una stampa libera. Ma l’accanimento di quei giorni – che non vorremmo ricordare – sconfinò in molti casi nel razzismo e nel dileggio. Torniamo allora a ‘quei giorni’. L’arresto del Direttore della Gazzetta – nominato appena sette mesi prima – non solo sorprende e sconcerta l’opinione pubblica pugliese e barese in particolare, ma aumenta lo stato di insicurezza che pervade il giornale a tutti i livelli. Afflitta come tutte le altre testate giornalistiche da una profonda crisi editoriale, la Gazzetta ha appena superato una crisi societaria e sta cercando di frenare una grave emorragia finanziaria attraverso un drastico ridimensionamento degli organici. Questa nuova tegola, dunque, che colpisce il giornale nell’espressione più alta della sua ricchezza, l’immagine, è una ferita difficile da rimarginare: in nove mesi, infatti, la Gazzetta perde oltre il 10% dei suoi abituali lettori. Il comunicato ufficiale della Procura Antimafia è distruttivo. A nulla serve la giusta indignazione di Gorjux, che torna a firmare il giornale a seguito dell’immediata autosospensione di Russo, e il tentativo del procuratore Alberto Maritati di ridimensionare quella frase incriminante… il sistema è riuscito a coinvolgere finanche taluni mezzi di informazione. Devo aggiungere qualcosa in merito a quella frase – dirà Maritati al giornalista della Gazzetta Stefano Boccardi subito dopo la conferenza stampa – quando noi parliamo di istituzioni o, per esempio, di stampa e muoviamo delle accuse, delle censure, non parliamo contro la stampa, la Magistratura e la politica in generale: i processi si fanno sulla base di ipotesi accusatorie a carico di persone. Ma ormai il danno è fatto. Tant’è che il mattino successivo, tutti i quotidiani nazionali si ‘buttano’ come lupi famelici sull’unico elemento nuovo della ‘retata’ barese: l’arresto del Direttore della Gazzetta. Dopo due anni di Tangentopoli, dopo centinaia di ‘avvisi’ e arresti eccellenti fra deputati, ministri, segretari di partito, imprenditori e amministratori, soltanto l’arresto del Direttore di un quotidiano poteva ‘fare notizia’. Alcuni giornali fanno, come al solito, di tutta l’erba un fascio; altri sostengono che era fatale 398 per una città definita la ‘Milano del Sud’ subire l’attrazione del modello settentrionale; il


Manifesto si sofferma sulle… opposte analogie del caso Bari… è notorio che nel Mezzogiorno è la criminalità organizzata a corrompere la politica; in Puglia si può dire che sia avvenuto il contrario. Ma è Repubblica a scrivere gli articoli più ‘severi’, al limite della diffamazione. In uno di questi, i giornalisti Massimo Dell’Omo e Marina Garbesi, scrivono… il manager della truffa sanitaria aveva in pugno la città che conta. A cominciare dal suo simbolo più alto, temuto, riverito, ascoltato: il Direttore di quella che ora nelle edicole viene chiamata spregiativamente la ‘Mazzetta del Mezzogiorno’. La Società di gestione della Gazzetta minaccia querele alle quali non darà seguito. Ma gli editori di Repubblica, un anno dopo, non si faranno scrupoli nel tentare di acquisire la proprietà di quel giornale tanto gratuitamente disprezzato. Né manca chi, abituato a fare della vita uno ‘show’, prova a ridurre tutto in una ‘battuta’. Il sabato successivo, 1° aprile, durante la trasmissione televisiva di Pippo Baudo dall’appropriato titolo ‘Papaveri e papere’, arriva la telefonata di una signora che chiama da Bari e, prima che la signora chiarisca il motivo della sua chiamata, il Pippo nazionale, giulivo, si lascia sfuggire una battuta infelice… sta chiamando da Bari? Signora, lei deve essere l’unica rimasta in libertà. Il pubblico in studio applaude, ma i telespettatori baresi, che non apprezzeranno l’ironia del ‘bravo presentatore’, inondano la RAI di migliaia di telefonate di protesta. Due giorni dopo Baudo si scusa… mi dispiace, mi è sfuggito. Non volevo offendere nessuno. Torniamo a ‘quei giorni’. Il 29 marzo, appena 24 ore dopo i 35 arresti, l’agenzia giornalistica ANSA manda in rete una nuova, incredibile notizia… cinque magistrati baresi sarebbero iscritti nel registro degli indagati della Procura della Repubblica di Potenza per presunti fatti di rilievo penale legati a rapporti, diretti o indiretti, avuti con Francesco Cavallari. Si tratta del procuratore reggente del Tribunale di Bari, Angelo Bassi; del sostituto procuratore Carlo Maria Capristo; del gip Carlo Curione; dell’ex procuratore Michele De Marinis e del neo deputato ed ex p.m. Nicola Magrone. Così com’è divulgata dall’ANSA, la notizia sembra appena trapelata dalla Procura di Potenza. In realtà è roba vecchia. E’ lo stesso fascicolo che nel ’93 ha portato Magrone e De Marinis davanti al CSM – con le conseguenze già accennate – aggiornato dalle rivelazioni di Cavallari e da intercettazioni telefoniche disposte dai procuratori antimafia contro i loro stessi colleghi. Carlo Maria Capristo è stato inserito in quel fascicolo perché avrebbe chiesto e ottenuto, dalla Geroservice, l’assunzione del cognato; il gip Carlo Curione avrebbe goduto di diversi viaggi turistici all’estero facendogli credere che fossero offerti da case farmaceutiche e al procuratore reggente Angelo Bassi è contestato un interrogatorio di Francesco Cavallari, debitamente verbalizzato, avvenuto nel dicembre del ’94 non in Procura ma nell’abitazione del Cavallari… arrecando grave nocumento – si legge nel provvedimento del CSM che il 27 settembre ’95 delibera il trasferimento di Curione e Bassi per incompatibilità ambientale – alla credibilità dei giudici. E’ nato il ‘Caso Bari’. Per giorni saranno versate sulla città, sui cittadini, sui veri o presunti colpevoli del ‘sacco’ di Bari – con particolare accanimento sulla Gazzetta – carrettate di fango… le emergenze dell’Operazione Speranza – scrive Gorjux - non autorizzano generalizzazioni che infangano l’immagine della città, né che scalfiscano la credibilità e l’immagine di questo giornale, dei suoi giornalisti, di tutti coloro che vi lavorano con dignità e fierezza… la Gazzetta non si sente e non è compresa fra i ‘taluni mezzi di informazione’ di cui parla il comunicato firmato dai procu-

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ratori antimafia. E ancora, qualche giorno dopo, persistendo l’ondata di denigrazione, Gorjux scrive… non si può giustificare il fango con cui certa informazione vorrebbe sommergere la città. Né tanto meno le accuse di trasformismo che dalle pagine di ‘Panorama’ ci lancia una signora – la giornalista Liana Milella, n.d.A. – cresciuta in questa città, nutritasi nei piatti di questo giornale, collaboratrice di personaggi già cancellati dalla nomenclatura barese. Il 2 aprile la Gazzetta ospita, in prima pagina, un articolo del vice presidente della Camera on. Luciano Violante – già presidente della Commissione parlamentare antimafia - che, a proposito del ‘Caso Bari’ scrive: esponenti significativi della città e della regione hanno fatto a gara, per anni, nel minimizzare, frantumare, sottovalutare e ridicolizzare l’imbroglio annunciato dalle relazioni dell’Antimafia. Neanche questo giornale è stato esente da colpe. E ancora… in una città imprenditoriale e commerciale è naturale che al centro dello scandalo ci sia un imprenditore. Attorno a lui, come satelliti, hanno girato uffici regionali, gruppi criminali, politici potenti, povera gente, un giornalista cittadino di rilievo e alcuni magistrati… un’associazione orizzontale dai confini espandibili all’infinito. Che Bari avesse raggiunto lo scalino più basso del degrado politico, amministrativo e sociale, non l’aveva scoperto né la Commissione parlamentare antimafia né tanto meno i procuratori dell’Antimafia. Per oltre un decennio, come si evince anche dalle cronache di questi volumi, la Gazzetta non ha mai smesso di denunciare scandali, carenze, inefficienze e clientelismi a tutti i livelli, rilevando altresì il disagio dell’opinione pubblica, arrivando persino ad invitare gli amministratori regionali e comunali ad ‘andare a casa’. Noi facciamo informazione – risponde Gorjux a Luciano Violante – non siamo né magistrati né poliziotti. Siamo esposti a sanzioni penali e a risarcimenti civili… non siamo esenti da colpe? Abbiamo il coraggio di assumerci le nostre responsabilità – continua Gorjux – ma non possiamo consentire di ignorare che non esitammo a riferire con completezza e oggettività quanto stava avvenendo… possiamo rieditare centinaia di pagine se volessimo ricordare agli immemori, in buona e cattiva fede, quanto lineare e ferma sia sempre stata la linea di questo giornale nel denunciare gli eccessi della criminalità, l’immobilismo politico e amministrativo, l’abbandono del territorio e lo sperpero del denaro pubblico. E’ stata la Gazzetta, già nell’87 ad accogliere il grido d’allarme di alcuni imprenditori, intellettuali e professionisti, ad aprire e promuovere sulle sue pagine un grande dibattito pubblico dal titolo ‘Bari svegliati’; è stata la Gazzetta a denunciare per prima l’enorme ‘buco’ di bilancio delle finanze regionali; ed è stata inoltre la Gazzetta, prima della Magistratura, a indicare nella mano del racket l’incendio del Petruzzelli. Ora il Direttore di questo giornale è stato travolto dall’Operazione Speranza. Attendiamo gli accertamenti della Magistratura, ma questo non può confortare – conclude Gorjux – la tesi che la Gazzetta sarebbe stata un ‘satellite’ nel sistema di Cavallari. L’accenno di Violante sul divenire della Gazzetta ‘satellite’ del sistema Cavallari, è supportato da un’altra ‘indiscrezione’ non contestata dell’esistenza di un contratto di consulenza stipulato nel 1990 fra la Società editrice del giornale e le CCR. Il contratto, risultato poi perfettamente legale, non ha mai riguardato l’attività editoriale della Gazzetta, si trattava, bensì, di fornire, ad un’azienda divenuta di rilevanza nazionale, una rassegna della pubblicistica sulle attività delle CCR. Ciononostante, malgrado cioè i pesanti rilievi, Violante inizierà un’attiva collaborazione giornalistica con la Gazzetta, convintosi, evidentemente, che una presunta mela marcia non 400 aveva infestato l’intero cesto.


Ma l’articolo di Luciano Violante, oltre alla puntigliosa risposta di Gorjux, scatena un putiferio. Di nuovo quella classe imprenditoriale, culturale e sociale, barese e pugliese – Gianfranco Dioguardi, Francesco Divella, Vito Laterza, Marcello Veneziani e diversi altri – che spesso e forse colpevolmente, opera e lavora in silenzio, si sveglia, s’indigna, si ribella… non accettiamo le analisi censorie e moralistiche dell’on. Violante… le vicende drammatiche di questi giorni non devono essere generalizzate… bisogna che le forze sane di questa città si riapproprino del territorio… bisogna scendere in campo… bisogna assecondare quel soprassalto di orgoglio di cui la Gazzetta si sta facendo opportunamente promotrice… a Bari vivono, lavorano, operano tantissime persone eccezionali… bisogna fare uno sforzo per far riemergere quella ‘società civile’ perseguita, spesso invano, anche da questo giornale che ha finito coll’occultarsi dalla drammatica rappresentazione di una infezione che pervade i luoghi del potere… il dramma storico della Puglia è che è uscita da una civiltà contadina senza entrare in un’altra, siamo cresciuti senza sviluppo culturale e civile… riproponiamo, ancora una volta – si legge in un appello firmato da 70 personalità dell’imprenditoria, professionisti, docenti universitari, scrittori, giornalisti, sociologi e meridionalisti – il problema della partecipazione delle più sane forze locali, produttive e culturali, alle scelte e alle politiche che riguardano lo sviluppo territoriale. Vecchie e nuove istituzioni, con estrema chiarezza e trasparenza, devono compiere uno sforzo congiunto fra un pubblico risanato e un privato attivo e moderno, per ridare a Bari quell’immagine di città operosa, ricca di cultura tecnica e di un patrimonio ideale profondamente democratico che lungo la sua storia seppe conquistarsi. E’ un moto di popolo. La Gazzetta è inondata da lettere di partecipazione e protesta… non siamo né mafiosi né corrotti… la stragrande maggioranza dei baresi e dei pugliesi lavora onestamente e non accetta di essere additata all’opinione pubblica nazionale, da una stampa prevenuta, come massa inerte, incapace di reagire alle prepotenze e agli abusi di una minoranza. Ci si appella ai sentimenti, all’orgoglio meridionale, all’innata capacità dei pugliesi di risorgere dalle avversità, dalle disgrazie. Ma c’è anche chi criticamente sostiene che bisognava capire, immaginare che dietro all’incredibile ostinazione con cui la classe politica e amministrativa ha voluto conservare la gestione della ‘casa comune’ – in cinque anni la Regione ha avuto 5 presidenti di Giunta e il Comune 5 sindaci – c’era la prospettiva del disastro. Ora – scrive Luciano Canfora – l’on. Violante auspica che la città sappia ‘trasformare questa brutta bufera giudiziaria in occasione di forte ripresa’. Non so – continua Canfora – penso si tratti di quel coatto ottimismo cui un politico specchiato e virtuoso non può sottrarsi e che un tempo si chiamava ‘ottimismo della volontà’. Allo stesso modo mi sembrano segnati da analogo ottimismo gli inviti di Laterza e Dioguardi alla ‘società civile’ a impegnarsi di più anziché limitarsi a ‘salvarsi l’anima’. Io non credo che i termini della questione siano così semplici – conclude Canfora – il retroterra è stato il luogo e il presupposto necessario per costruire fortune economiche e politiche. E, sia detto per inciso, tutto fa pensare che seguiterà a funzionare così – magari in modo più accentuato – visto che in regime elettorale maggioritario si fanno avanti, nell’agone politico, le fasce di censo più elevate. Di botto dunque si passa dall’‘ottimismo della volontà’ al ‘pessimismo della ragione’. E’ indubbio che nella città vi sono non pochi esempi di persone serie e preparate – scrive Giandomenico Amendola – ma sono esempi dell’esistenza di segmenti non ancora inquinati di un tessuto sociale che credo sia, nel suo complesso, profondamente malato… la tesi è che, per espellere la malattia da un corpo, implicitamente considerato sano, sono sufficienti gli anticorpi naturali. Entra così in gioco, come anticorpo per eccellenza, la ‘società civile’, depositaria di virtù e saperi che, da Hegel in poi, è stato simbolo e strumento dei governati nei confronti dei

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governanti autoritari, inetti e corrotti. L’appello alla ‘società civile’ – sostiene ancora Amendola – scaturisce da una premessa etica ineccepibile… ma, purtroppo, il sistema si è stabilizzato e io non credo che si renda un buon servigio a questa nostra città bloccata e malata se il cosiddetto ‘Caso Bari’ lo si affronta nei termini, semplici e accattivanti, dei buoni da una parte e dei cattivi dall’altra. Qual è allora la ricetta del prof. Amendola per guarire il malato? Bisogna anzitutto individuare, per la città di Bari e per il suo territorio, un tipo di sviluppo, quello della città competitiva sul mercato globale, capace di rompere la spirale dei Il direttore della Gazzetta Franco Russo. Autosospesosi circoli viziosi della sfera pubblica che alimen- dopo l’arresto, si dimette nonostante sia stato assolto ta se stessa; poi è necessario ricostituire il in primo grado e in Appello. ‘principio di legalità’ secondo il quale le norme che sovrintendono alla vita collettiva, soprattutto quelle che regolano la gestione e l’indirizzo della cosa pubblica, devono essere rigorose tanto nella formulazione che nella applicazione. Mentre il ‘Caso Bari’ continua ad arricchirsi di notevoli contributi, il gip Concetta Russi inizia la lunga serie di interrogatori, riscontri e confronti tramutando, per alcuni, gli arresti dalle carceri ai domiciliari. Il primo ad ottenere gli arresti domiciliari, il 5 aprile, è il dimissionario sindaco di Bari, Giovanni Memola; l’11 maggio sarà il Tribunale della Libertà – stante il rigetto del gip Russi – a concedere i domiciliari all’ex presidente della Giunta regionale pugliese Michele Bellomo. Infine, una settimana dopo, il 18 maggio, il gip Concetta Russi firma un provvedimento di revoca della misura cautelare, in carcere o domiciliare, per tutti gli arrestati non appartenenti a presunti clan malavitosi e non accusati del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso e, delle 35 persone arrestate il 28 marzo, tornano liberi in 14. La maggior parte ‘esce’ dai domiciliari; Franco Russo esce direttamente dal carcere di Turi. Il 10 giugno ’95 Russo tramuta l’autosospensione in… dimissioni irrevocabili da Direttore responsabile della Gazzetta… sono costretto a questa decisione da una vicenda giudiziaria tanto nota quanto, per me, assurda, nella quale, oltre l’umiliazione e il dramma della custodia cautelare, ho dovuto subire un vero e proprio pubblico linciaggio, spesso artatamente amplificato da alcuni organi di informazione… sono certo che alla fine riuscirò a convincere i giudici della mia innocenza – continua Russo – anche perché voglio che il giornale, e tutte le persone che nel giornale lavorano, restino fuori da questa mia disavventura giudiziaria, nonostante i tentativi, talvolta interessati e strumentali, di coinvolgere la Gazzetta in una vicenda cui era ed è del tutto estranea. Franco Russo, s’è già accennato, sarà prosciolto in primo grado e anche nel successivo giudizio di Appello. Il 19 maggio, intanto, anche il gip Maria Iacovone firma i provvedimenti di scarcerazione per Franco De Lucia, ex vice presidente della Regione, e Michele Cologno, ex assessore regio402 nale alla Sanità. Sono stati gli stessi sostituti procuratori Tosto e Colangelo che, chiedendo il


rinvio a giudizio, hanno ritenuto esaurite le esigenze cautelari. Il 31 maggio torna in scena la prima inchiesta giudiziaria, l’inchiesta ‘madre’, quella che il 3 maggio del ’94 ha condotto all’arresto di Francesco Cavallari e di altre 26 persone. I titolari di quell’indagine, i sostituti procuratori Tosto e Colangelo, hanno chiesto al gip Maria Iacovone il rinvio a giudizio non di tutte le 27 persone originariamente inquisite, ma solo di 16 più Cavallari. La richiesta è accolta il 18 dicembre successivo. I chiamati a giudizio devono rispondere di falso, truffa e abuso d’ufficio. In breve, due ex assessori regionali alla Sanità – Corradino Marzo e Tommaso Marroccoli – diversi funzionari della Regione, delle USL e delle CCR avrebbero ‘concertato’ un sistema per pagare alle CCR costose prestazioni diagnostiche non dovute, causando alla Regione un danno che secondo i pubblici ministeri sfiora i 100 miliardi di lire. Il 3 giugno, i nuovi ‘gestori’ delle CCR, i commissari straordinari, sollecitano i Sindacati di categoria a sottoscrivere un accordo che prevede la Cassa integrazione per ulteriori 586 lavoratori… abbiamo trovato una situazione debitoria di 650 miliardi – sostiene il commissario Claudio Macchi – e continuiamo a perdere circa 6 miliardi al mese… di questo passo a luglio, o al massimo ad agosto, non avremo più un soldo e dovremo chiudere… se le parti sociali accetteranno quest’ulteriore riduzione di personale, potremo ridurre le perdite a tre miliardi al mese e pensare ad un piano di rilancio delle CCR. La risposta dell’Unione dei sindacati dei professionisti e dell’impiego pubblico e privato è lapidaria: adotteremo tutte le azioni di lotta previste dalla legge per scongiurare questo ennesimo atto di sopruso e sopraffazione nei confronti dei deboli e degli indifesi. Nel frattempo, anche i procuratori dell’Antimafia hanno completato l’inchiesta ‘Operazione Speranza’ e chiesto al gip Concetta Russi il rinvio a giudizio di tutti gli inquisiti. Ma, a sorpresa, i presunti 35 originari imputati, sono diventati 87. Cinquantadue nomi in più, fra i quali spicca anche quello del prof. Gaetano Contento. Il noto penalista, che ha rinunciato alla difesa di Cavallari, è accusato di aver rivelato ad un giornalista della Gazzetta alcune dichiarazioni rese dall’ex ‘Re Mida’ ai magistrati. Il 22 giugno ’95 un altro macigno si abbatte sulle CCR. La nuova Giunta regionale, eletta a seguito delle elezioni del 23 aprile, disdice la convenzione con la ‘Mater Dei’ che ospita l’Istituto scientifico oncologico fin dal 1990… in cinque anni – scrive il cronista della Gazzetta Michele Ottolino – l’ospedale di Cavallari ha assorbito oltre 400 miliardi… uno spreco colossale se si considera che una sede nuova, modernamente attrezzata, costa al massimo 120 miliardi. La convenzione, tuttavia, scade il 30 giugno del ’96. Entro un anno, perciò, si dovrà trovare una nuova sede… altrimenti – dirà il direttore scientifico dell’Oncologico, prof. Francesco Schittulli – l’Istituto sarà condannato a morte e con esso un patrimonio di conoscenze e di professionalità apprezzate anche a livello internazionale. Sicuramente in stato pre-agonico è il gruppo CCR. Dopo la revisione delle liste per individuare i ‘dipendenti ombra’ – i tanti presunti appartenenti ai clan malavitosi baresi inseriti negli organici con la dizione ‘a disposizione del Presidente’ – i lavoratori definitivamente espulsi ed in attesa della Cassa integrazione, sono poco più di un migliaio anziché i 1.870 annunciati. Ma non basta, dicono i commissari. Gli organici del gruppo sono ancora largamente sovradimensionati e, l’11 giugno, annunciano la messa in Cassa integrazione di ulteriori 865 dipendenti… dobbiamo scendere ad un organico massimo di 1.300 unità, altrimenti non usciamo da questa profonda crisi societaria. Il 23 giugno ’95, nuovo colpo di scena: Francesco Cavallari annuncia di voler patteggiare la

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pena relativamente all’accusa di ‘associazione per delinquere di stampo mafioso’ e, avuto il parere favorevole dei procuratori antimafia, presenta la sua richiesta al gip Concetta Russi. A motivare, anche a nome dei colleghi, il parere favorevole alla richiesta di Cavallari, è il procuratore Giuseppe Chieco … nonostante i p.m. dell’Antimafia continuino a ritenere la posizione di rilevanza rivestita dall’imprenditore nel malaffare barese – spiega Chieco alla giornalista Carmela Formicola – Cavallari ha comunque offerto un apporto rilevante al proseguimento delle indagini, contribuendo alla rottura, ci auguriamo definitiva, di quel sistema di potere che si basava su un duplice binario. Da una parte c’era l’accordo con la cri- Francesco Cavallari patteggia 22 mesi di reclusione. minalità organizzata, dall’altra i legami con il mondo dell’impresa, della politica e anche con quello giudiziario. Un sistema che serviva a Cavallari per ampliare il suo impero, e a tutti gli altri per consolidare il proprio arricchimento e il proprio potere. Certo – conclude Chieco – questi intrecci potrebbero riproporsi. Su questo fronte dovranno vigilare i magistrati e le forze dell’ordine, ma anche i cittadini, le istituzioni, la stampa. Il giorno dopo, 24 giugno, il giudice Concetta Russi chiude l’inchiesta sull’intreccio politicoaffari-criminalità denominata ‘Operazione Speranza’ e degli 87 inquisiti, 59 sono rinviati a giudizio – compresi gli ex ministri Lattanzio e Formica – 21 sono ammessi a riti alternativi e 7 sono stati ritenuti innocenti: non hanno commesso il fatto, ‘non c’è luogo a procedere’. Per Cavallari, difesa e accusa hanno patteggiato una pena di 22 mesi, ma il giudice Russi si è riservato di decidere entro il 30 giugno. E il 1° luglio, il magistrato deposita due sentenze. Nella prima accoglie la richiesta di patteggiamento di Cavallari, nei termini pattuiti con pena sospesa; nella seconda scagiona l’avv. Gaetano Contento dalle accuse di favoreggiamento e patrocinio infedele perché ‘il fatto non costituisce reato’. Il 2 luglio, la Gazzetta pubblica una lunga intervista di Carmela Formicola al capo del pool pugliese antimafia, Alberto Maritati, al quale chiede se ritiene che, con il rinvio a giudizio, l’inchiesta è conclusa; se pensa che gli intrecci e le collusioni in questa città siano stati del tutto sconfitti e quali prospettive i baresi hanno davanti, alla luce di quanto è accaduto. Ecco, in sintesi, la risposta del giudice Maritati… No, l’inchiesta a mio giudizio non è finita… ci sono numerosi altri imputati che devono rispondere di gravi reati per i quali è stato disposto il rinvio a giudizio… per Bari la vicenda Cavallari ha rappresentato un momento essenziale per una risposta di democrazia a chi invece la democrazia non solo non l’agevola, non la rispetta, ma vuole affossarla… Cavallari è stato il perno, il fulcro di una organizzazione di tipo mafioso e di una trama molto, ma molto ampia di corruttele. Corruzione di uomini delle forze dell’ordine, corruzione di magistrati, di uomini di governo e di uomini di governo locale, corruzione di funzionari e, riteniamo, abbia trovato il sistema per far tacere, o per dirigere in una certa direzione a lui favorevole, anche alcuni mezzi di informazione. Se questa inchiesta abbia lasciato il segno nella società barese – prosegue Maritati - io me lo auguro, ma non ne sono certo… fino ad oggi la città, intesa non come somma di singoli cittadi404


ni, ma come società organizzata, non mi pare abbia mostrato di voler reagire. Le prospettive? Sono quelle che la cittadinanza barese vuole che siano, cioè dipenderà tutto da come reagirà la città nel suo complesso… se troverà uno spunto, la forza di migliorare, intrecci e collusioni verranno contenuti… se invece resterà il vuoto politico, se resterà la confusione, la superficialità, la caduta di ideali, il terreno sarà comunque fertile allo sviluppo di nuovi illeciti. Nonostante il notevole pessimismo del giudice Maritati, la società barese saprà reagire. Il vuoto politico sarà colmato e il 31 maggio 2003 sarà lo stesso magistrato, divenuto senatore dei DS, ad affermare, sulla Gazzetta, che… Bari, dopo l’Operazione Speranza, ha avuto uno scatto di crescita, di superamento di una condizione di illegalità diffusa e penetrante. Certo, nell’ultimo decennio, gli illeciti non sono scomparsi dalla cronaca quotidiana. Ce ne sono stati e forse ce ne saranno ancora poiché, ahinoi, sono parte integrante di una democrazia evoluta e complessa, ma non della dimensione dell’Operazione Speranza che con il rinvio a giudizio di tutti gli inquisiti è virtualmente conclusa. Ciò che non è concluso, le ferite aperte e insanate di questa vicenda, sono le centinaia di dipendenti delle CCR che a dieci anni di distanza dall’Operazione Speranza sono ancora ‘aggrappati’ agli ammortizzatori sociali, alla Cassa integrazione ordinaria e straordinaria, alla miseria della mobilità, ai continui corsi di formazione professionale e a periodici inserimenti in ‘lavori socialmente utili’. Ciò che non è conclusa è la vicenda personale di Francesco Cavallari che, venuta meno l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso per l’assoluzione, in primo grado, di tutti gli imputati accusati di aver costituito tale associazione – sentenza del 23 maggio 2003 – ha preannunciato un ricorso per la revisione del patteggiamento. Ma torniamo al 1995. Il 7 agosto i commissari delle CCR sospendono, unilateralmente, 455 dipendenti degli 865 annunciati. Riprendono così le proteste, i blocchi stradali, gli appelli al Prefetto e alla Giunta regionale. Il 31 agosto le parti decidono di costituire una commissione mista allo scopo di esaminare l’elenco dei sospesi e i criteri adottati dai commissari nei procedimenti sospensivi saliti ormai a 1.500 unità. Ma non c’è speranza, non c’è modo di salvare il gruppo CCR senza ricorrere ai licenziamenti. Il 9 ottobre, la nuova Giunta regionale di centro-destra che ha vinto le elezioni del 23 aprile, approva un provvedimento che trasferisce la nuova sede dell’Istituto oncologico nell’ospedale Cotugno di Bari il quale necessita di una profonda ristrutturazione. Secondo una perizia del Genio Civile, la spesa per la ristrutturazione del Cotugno si aggira tra i 46 e 50 miliardi. Tempi previsti, 300 giorni. Dieci anni dopo, nel 2005 tanto per essere precisi, l’Istituto Oncologico è ancora locato presso la ‘Mater Dei’; il Cotugno è ancora in ristrutturazione. Il degrado del sistema sanitario nella nostra regione – ha scritto Umberto Mairota, un giornalista che ha passato metà della sua vita professionale alla Gazzetta e l’altra metà alla Regione Puglia – non è stato il frutto di azioni delittuose compiute da singoli uomini o da gruppi di persone, ma la conseguenza di una politica sanitaria regionale che ha guardato agli ospedali non come strutture per la cura degli ammalati, ma come ad occasione di progetti e appalti, di commesse e forniture, di posti di lavoro e di rapide carriere. L’esempio più classico dell’affermazione di Mairota, è l’ospedale San Paolo di Bari. Venuto meno quel sistema politico-sanitario che non apparteneva solamente alla realtà pugliese, il 22 dicembre di questo ‘disgraziato’ 1995, politici, amministratori e funzionari inaugurano l’ospedale San Paolo. Ci sono voluti 29 anni e un fiume di miliardi in più rispetto alle previsioni e agli

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stanziamenti iniziali. Il ‘sistema’ dunque comincia a cambiare. Il Paese cambia. Il tempo in cui le opere pubbliche si annunciavano, si posavano le ‘prime pietre’ e poi tutti se ne dimenticavano – tranne i collettori di tangenti – sembra lontano. Con la ‘devolution’ e il federalismo fiscale, la spesa sanitaria è passata a totale carico delle Regioni che rendendosi conto dei costi proibitivi, tendono a tagliare i rami secchi, ad accorpare ospedali più piccoli in ospedali più grandi se non, qualche volta, anche a chiuderli. Non c’è più molto da scialacquare e, non di meno, qualche abuso, qualche tangente per forniture e commesse, soprattutto alcune forme di clientelismo, non sono del tutto scomparse. Il 12 ottobre ’95 la ‘fiction’ sul ‘Re Mida’ della sanità barese sta per finire. Il quarto episodio, dal titolo ‘Operazione Speranza’, volge al termine non senza un’ultima clamorosa sorpresa: su richiesta del sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Michele Emiliano, lo stesso magistrato che nel 2004 sarà eletto sindaco di Bari, la sezione per le misure di prevenzione del Tribunale dispone il sequestro di tutti i beni, mobili ed immobili comunque riconducibili a Francesco Cavallari ed ai suoi familiari, oltre alle quote sociali nelle Case di Cura Riunite. E’ un provvedimento terrificante – commenta Cavallari due giorni dopo in una conferenza stampa – nei prossimi giorni chiederò ai miei avvocati di inoltrare alla Corte di Cassazione una richiesta per sottrarre alla competenza dei giudici di Bari tutte le vicende giudiziarie che mi riguardano. Nel Palazzo di Giustizia c’è un clima di veleni a me sfavorevole… una condizione che non auguro a nessuno. Il 2 novembre, la stessa sezione del Tribunale, non solo convalida il provvedimento di sequestro dei beni di Cavallari, un patrimonio stimato in 350 miliardi di vecchie lire, ma lo integra aggiungendovi anche il sequestro di oltre un miliardo e 200 milioni di liquidi posseduti in vari conti correnti e libretti di risparmio. Ora il ‘Re’ è veramente nudo. Ora la parola passa ai giudici nelle aule del Tribunale. Ci sarebbe, a questo punto, la sceneggiatura per scrivere un quinto ed ultimo episodio di questa drammatica ‘fiction’ tutta barese. Ma risulterebbe farraginosa, lenta, inadeguata ai canoni moderni dello ‘spettacolo’ che vuole anche le tragedie snelle, essenziali e ricche di colpi di scena. I processi invece – solo Cavallari ne ha subìti una ventina fra penale e civile – si trascinano per anni e malgrado l’enormità della vicenda e il conseguente cumulo di accuse, saranno tutti scanditi da assoluzioni con varie formule. Amministratori, funzionari, faccendieri e politici inquisiti, a cominciare dagli ex ministri Lattanzio e Formica, saranno tutti assolti o ‘per non aver commesso il fatto’ o perché ‘il fatto non costituisce reato’ o perché ‘il fatto non sussiste’ o, infine , per ‘avvenuta prescrizione’. Nel processo ‘stralcio’ a carico di Paolo Biallo e Savino Parisi – il primo è accusato di frode fiscale e tutti e due di aver promosso e organizzato un’associazione per delinquere di stampo mafioso – i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Bari, il 16 luglio del 2002, scagionano entrambi. Per il cognato di Cavallari i giudici hanno accolto la tesi del suo difensore avvocato Francesco Paolo Sisto, secondo il quale, la funzione dell’ex Amministratore delle CCR, era meramente esecutiva, limitata cioè a emettere fatture e pagamenti vistate da altri. Assolto dunque dall’accusa di frode fiscale con la formula ‘per non aver commesso il fatto’ e, con la stessa formula, insieme a Savino Parisi, è assolto dall’accusa di aver promosso e organizzato un’associazione per delinquere. Intanto, prosegue il processo alle ultime 32 persone inquisite dall’Operazione Speranza e 406 accusate di aver fornito il ‘supporto logistico’ nel presunto intreccio politico-affaristico-malavi-


toso attorno alle CCR. Fra queste spiccano, di nuovo, i nomi Paolo Biallo e Savino Parisi oltre ad Antonio Capriati; di diversi appartenenti ai loro clan, ma anche di… incensurati e del tutto estranei ai sodalizi criminali – scrive il cronista Carlo Stragapede – che a causa di questa indagine persero il lavoro. Il 29 ottobre 2002 – ancora davanti ai giudici della prima sezione del Tribunale di Bari – il pubblico ministero Giuseppe Scelsi, l’unico dei quattro titolari dell’inchiesta rimasto a sostenere l’accusa nel processo di primo grado, conclude la sua requisitoria chiedendo: 7 anni di reclusione per Savino Parisi e Antonio Capriati e tre anni e sei mesi per tutti gli altri 30 imputati. Due mesi dopo, l’avvocato dello Stato, Filippo Patella, chiede e ottiene un’istanza di Il pubblico ministero Giuseppe Scelsi. ricusazione del collegio giudicante, perché nei confronti di Savino Parisi e di Paolo Biallo, gli stessi giudici – nella sentenza appena citata del 16 luglio – avevano già anticipato il giudizio sulla presunta esistenza di una organizzazione malavitosa orbitante attorno alle CCR: cioè non era stata organizzata alcuna associazione mafiosa attorno al gruppo imprenditoriale di Cavallari. Un giudizio che il 27 maggio del 2003 è confermato: tutti i rimanenti 30 imputati accusati di associazione mafiosa sono assolti perché ‘il fatto non sussiste’. L’esistenza del sodalizio malavitoso – si legge nella motivazione della sentenza di primo grado – è conclusione, oltre che non dimostrata, anche illogica, frutto di voci, pettegolezzi e millanterie che circolavano all’epoca in ambienti della malavita. In quanto a Francesco Cavallari… deve essere ritenuto un soggetto passivo, o al massimo connivente delle pretese dei clan che gli imposero assunzioni di molti malavitosi nelle sue cliniche. Il 9 gennaio 2004, il p.m. Giuseppe Scelsi, deluso ma nient’affatto rassegnato, ricorre in Appello sottolineando che l’esclusione dell’esistenza di un’associazione mafiosa attorno alle CCR… è fondata su di una interpretazione della realtà criminale della città frettolosa e superficiale, figlia di un approccio alla problematica delle associazioni criminali priva di adeguati strumenti di conoscenza. Nel frattempo, il 7 ottobre 2003, la Corte di Cassazione ha annullato l’istanza di ricusazione promossa dall’Avvocato dello Stato contro i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Bari e, limitatamente agli imputati Paolo Biallo e Savino Parisi, ha disposto il rinvio a giudizio ad un’altra sezione della Corte d’Appello. Quando si farà il processo di Appello ai 30 imputati assolti il 27 maggio del 2003? Non si sa. Né e dato sapere quando si farà il processo a Parisi e Biallo. La Giustizia, si sa, è lenta e la gente, alla fine, finisce col dimenticare. Dimenticati – non fanno più notizia – i restanti 1.370 dipendenti dell’ex CCR che all’inizio del 2005 sono ancora in attesa di una ‘sistemazione’; dimenticata la gestione commissariale del Ministero dell’Industria… il cui piano di risanamento presentato nel febbraio del ’97 – scrive il

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cronista Elio Matarrese l’8 agosto del 2000 – si è rivelato peggiore del male. Nonostante la riduzione degli organici a 981 unità, nel luglio del 2000, cioè cinque anni dopo l’inizio della loro ‘gestione’, i commissari sono riusciti ad accumulare debiti per oltre 900 miliardi che sono andati ad aggiungersi alla ‘voragine’ lasciata dal crollo dell’impero di Francesco Cavallari. Dimenticati gli impegni della CBH – Città di Bari Hospital – un gruppo di 8 società del settore sanitario costituito da imprenditori meridionali che nel giugno del 2000 partecipano e vincono la gara per rilevare gran parte delle cliniche di Cavallari messe in vendita alla modica cifra di 210 miliardi. Nell’affare è compreso anche il rustico della clinica Santa Lucia, un nuovo grande ospedale in via Fanelli messo in cantiere da Cavallari nel 1990… i nostri progetti mirano alla valorizza- L’ultimo sogno di Cavallari, una grande clinica, un zione della clinica Santa Lucia – affermava grande centro oncologico... divenuto un rudere. l’amministratore della CBH, Max Paganini, intervistato da Nicola Pepe il 20 ottobre del 2000 – vi abbiamo destinato un investimento di 80 miliardi… ne vogliamo fare, nei prossimi 3 o 4 anni, una struttura avveniristica, un gioiello di tecnologia sanitaria. Quel ‘gioiello’, nel 2005, è ancora un rustico alla mercé delle intemperie e dei vandali. Paradossalmente, l’unico a non aver dimenticato, l’unico ad avere ancora la massima fiducia nella giustizia, è proprio l’uomo che ha costruito e demolito un impero con le sue stesse mani: Francesco Cavallari. Il mio calvario è cominciato da quando ho conosciuto il dott. Alberto Maritati – dirà Cavallari in una dichiarazione riportata dalla Gazzetta il 18 febbraio del 2001 – il mio ex pubblico accusatore aveva la convinzione che fossi colpevole anche della pioggia che cadeva… non voglio atteggiarmi ad innocente perseguitato, ma da quando tutto è cominciato, sono stato assolto 16 volte dall’accusa di essere un corruttore… ho cercato di fargli capire che le corruzioni erano inesistenti o al massimo le subivo e che la mafia era un’allucinazione collettiva di chi non seppe capire quello che era la mia vita fatta di pressioni di ogni genere. E, all’indomani dall’assoluzione degli ultimi 30 imputati – 27 maggio 2003 – dall’accusa di associazione a delinquere, Cavallari commenta… quando l’odierna sentenza diventerà definitiva, chiederò la revisione del patteggiamento della mia pena perché non è possibile che io mi sia associato da solo. Quattro giorni dopo, il 31 maggio, la Gazzetta ospita una lettera di Cavallari al suo ex ‘persecutore’, senatore Alberto Maritati, con la replica di quest’ultimo. Cavallari in sostanza afferma che alla luce delle ultime sentenze di assoluzione… che dimostrano quanto fosse sbagliata quella maledetta ipotesi accusatoria rivoltami dall’allora p.m. Alberto Maritati… mi aspetto un ‘mea culpa’ per gli errori che ha commesso distruggendo quel408 lo che lui stesso definiva ‘un uomo di non comuni doti imprenditoriali’… le relazioni con la


politica, le richieste e le esigenze di una classe dirigente ‘aguzzina’, le assunzioni malavitose che avevano reso la mia vita un inferno e che mi avevano fatto commettere irregolarità fiscali… è tutto vero. Ma mai mi sognai di associarmi ai malavitosi… la mafia era tutt’altra cosa, una cosa che non esisteva e non esiste nei miei principi di vita. In definitiva, Cavallari ribadisce la tesi comune ad una minoranza di imprenditori che con un eufemismo si possono definire rampanti: in quegli anni non c’era modo di fare impresa e arricchirsi rapidamente senza venire a patti con politici, amministratori e malavitosi. Infatti, dall’inizio degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta – il decennio in cui il gruppo delle CCR decolla come un missile spaziale – Cavallari ha accumulato una fortuna. Una stima dei soli beni fatti sequestrare nel ’95 ammonta a circa 350 miliardi. Si è parlato Il senatore Alberto Maritati. poi di proprietà e somme favolose depositate nei paradisi fiscali del Centro America, somme la cui esistenza sarà lo stesso Cavallari a confermare quando, a seguito della sanatoria fiscale per quanti volessero far rientrare i propri capitali dall’estero, il ‘Re Mida’ annuncia – il 27 gennaio 2003 – di voler approfittare della benevolenza dello Stato per riportare in Italia ‘una decina di milioni di euro’. La replica del senatore Maritati alla lettera di Cavallari è quasi lapidaria… Cavallari taccia, taccia questo signore che nel corso delle indagini sottrasse una fetta considerevole del patrimonio delle sue imprese… mi rendo conto che è molto facile oggi prendersela con Maritati p.m. ‘sterminatore’ o ‘vendicatore’… davanti a questi attacchi – continua il senatore dei DS – oppongo la mia profonda serenità professionale e comunque, all’inchiesta ‘Operazione Speranza’ non ha lavorato un p.m. ma quattro magistrati… io rifarei tutto quello che ho fatto. E’ vero, Cavallari fu costretto a compiere le sue scelte da una situazione di disagio. Ma invece di venire a patti con politici e criminali, avrebbe dovuto rivolgersi a giudici e carabinieri per farsi difendere e non per corromperli, per servirsene, come risulta dagli atti. Se questa non è mafia… Cavallari poi, non dimentichi che egli ha reso una confessione libera, e che in base ad essa ha patteggiato la pena. Dunque non è finita. Le posizioni fra l’accusa e la difesa continuano a rimanere distanti e, tuttavia, entrambi conservano l’incrollabile fiducia che alla fine, la Giustizia prevarrà. E non è poco in un Paese in cui la Magistratura ha parecchi riflettori puntati contro. Il 18 febbraio 2001, Francesco Cavallari aveva sostenuto di essere stato processato e assolto dall’accusa di corruzione per 16 volte. Il 14 novembre 2004, al 17° verdetto, la Corte di Cassazione ha condannato, definitivamente, l’ex ‘Re Mida’ della sanità barese, a 3 anni di reclusione. Tornerà in cella? Per ora non se ne parla. Intanto perché versa in gravi condizioni di salute e sta curandosi nell’isola caraibica di Santo Domingo; e poi, potrebbe anche ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali e perfino il differimento della pena. In uno Stato di diritto, garantista e democratico, l’immunità è solo una questione di portafoglio.

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Prima piansero le statuette della Madonna, a decine, in diverse regioni del Paese tranne in Puglia e Basilicata. Poi, a Soverio Mannelli, un piccolo centro del Catanzarese, pianse anche Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, l’uomo che aveva speso metà della sua vita per l’unificazione dell’Italia. Il massimo esperto mariano, René Laurentin, dirà che… il fenomeno delle Madonne piangenti è un ‘miracolo’ alla rovescia: non una cascata di bene, ma un avvertimento sul male commesso dal mondo… un mondo che deve cambiare. Il mondo, certo, stava andando alla deriva – la guerra fratricida nell’ormai ex Jugoslavia, l’intervento russo in Cecenia, i genocidi in Africa – ma l’Italia non è il mondo e il fenomeno para-religioso stava verificandosi solo nel nostro Paese, per di più, in uno dei periodi più drammatici della nostra storia repubblicana. Tre anni di sconvolgimenti politici e sociali, tre anni di continue, cocenti delusioni su tutto quello che si riteneva acquisito e consolidato in quarantacinque anni di Repubblica, lasciano la gente sconcertata, allibita, incredula. E’ cambiato e sta cambiando tutto in modo radicale; ed è cambiato e sta cambiando tutto in peggio. L’abbattimento del Muro di Berlino nel 1989, apriva, soprattutto in Italia, una nuova stagione politica, nuovi orizzonti di democrazia. Finalmente, il più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale poteva proporsi al Governo del Paese. Il ‘bipolarismo’ politico internazionale era crollato e l’Italia, come tutti i Paesi occidentali, non era più costretta a vivere in una ‘democrazia bloccata’. Finalmente, insomma, i comunisti, già convertiti al liberalismo economico, la sinistra nel suo insieme, potevano realmente costituire l’alternativa di Governo. Ma Bettino Craxi non volle e secondo molti osservatori, anche il PCI, già PDS, aveva molte difficoltà nel trasformarsi da partito di opposizione a partito di Governo. Si parlò

di ‘sindrome da sconfittismo’. In realtà, il vero, grande problema del PCI-PDS era costituito dalla propria ‘base’: due generazioni di militanti con la cultura dell’opposizione non potevano trasformarsi, da un anno all’altro, in ‘gestori’ di quel ‘potere’ da sempre avversato e perfino ‘odiato’. E, quindi, malgrado gli sforzi della classe dirigente ex comunista, nonostante le ‘picconate’ dell’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga – specie contro il suo stesso partito – il vecchio centro-sinistra, da sempre al Governo, vinse le elezioni politiche del 1992 sia pure di misura. Ma qualcosa si era irrimediabilmente guastato. Il meccanismo del ‘potere’, finito per avvolgersi su se stesso, si era inceppato dimostrando che non era vera la massima di Giulio Andreotti… il potere logora chi non ce l’ha… quel potere, il loro potere, si era logorato e al primo scricchiolio, al primo strappo, il collaudato vecchio sistema si era disintegrato. Bastò la scoperta di un ‘mariuolo’ per decretare l’abbandono della nave ormai compromessa. Poi sarà tutto un susseguirsi di eventi, un proliferare di sventure tali che finiranno per incrinare, specie nella gente comune, quella indefettibile sfiducia tutta italica nello Stellone. L’esplosione di Tangentopoli fece tabula rasa di tutti i partiti di Governo; le accuse a Giulio Andreotti – di contiguità con la mafia – minarono la credibilità dello Stato; le stragi di mafia ne confermarono la debolezza; Tangentopoli produsse il blocco dei finanziamenti per le opere pubbliche e l’imprenditoria privata, spaventata, non solo smetterà di investire, ma darà inizio alla più colossale fuga di capitali verso i mercati esteri. Fu un disastro. La crisi economica provocò stagnazione, disoccupazione; il massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali fece aumentare l’indebitamento pubblico, il deficit dell’INPS; il deprezzamento della moneta italiana dette respiro alle esportazioni, ma in generale il livello di vita della società risultò impoverito. Poi, Silvio Berlusconi scese in campo, si 411


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accompagnò a Bossi e Fini e, il 27 marzo del ’94, si tornò alle urne. Questa volta gli italiani non andranno a votare ‘turandosi il naso’ ma fiduciosi nell’uomo nuovo e nelle sue promesse, specie quella in cui affermava di poter creare, in breve tempo, un milione di posti di lavoro. Il Cavaliere sembrava così convincente che, se pur ‘alleato’ a quei ‘fascisti’ dal volto nuovo di Gianfranco Fini e a quel ‘barbaro’ leghista che predicava la secessione, la gente volle credergli. E’ vero, gli ex comunisti, il PDS, si era ‘rinnovato’ e convertito al liberalismo, ma conservava ancora diverse scorie del passato. Alla vecchia ‘nomenclatura’ apparteneva la sua classe dirigente e, soprattutto, c’erano Bertinotti e Cossutta che si richiamavano ancora all’economia di Stato, all’egualitarismo, alla lotta di classe, alla tassazione del patrimonio e alla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario. Insomma, da una parte si prometteva un ‘sogno’, la continuità con un passato che aveva fatto dell’Italia la sesta potenza economica del mondo, si prometteva una stagione di grandi riforme che avrebbe reso lo Stato più snello, più moderno, più efficiente, soprattutto meno aggressivo in materia fiscale; dall’altra non si nascondevano le difficoltà: bisognava mettere in moto il sistema produttivo; bisognava frenare la disoccupazione; la crescita esponenziale del debito pubblico; la criminalità; gli abusi, l’illegalità diffusa. E le risorse dello Stato erano poche. In breve: sarebbero stati necessari nuovi sacrifici. Da destra dunque il ‘sogno’, da sinistra la realtà, la consapevolezza che, se anche non saremmo stati chiamati a nuovi sacrifici – come invece chiederà Romano Prodi appena due anni dopo – la vittoria dei progressisti alle elezioni del ’94 non avrebbe certo portato alla creazione di un milione di posti di lavoro. E gli italiani, sognatori inguaribili, votarono per il ‘sogno’. Sarà Giorgio Napolitano a fare l’analisi della nuova sconfitta della sini412 stra… purtroppo il PDS non è stato percepito

come qualcosa di nuovo rispetto al PCI. Berlusconi vinse, nacque la Seconda Repubblica e il 10 maggio del ’94 il Cavaliere, Bossi e Fini ‘inaugurarono’ il primo Governo. Non ci volle molto per capire chi, fra Bossi e Fini, avesse fecondato con un gamete pazzo l’ovulo della Casa delle libertà perché, appena cinque mesi dopo, nonostante le attenzioni e le cure amorevoli del corpo ospitante, il primo Governo della Seconda Repubblica era già compromesso. Il nascituro, l’evidente frutto di un matrimonio affrettato, rifiutò il capace grembo berlusconiano e il 22 dicembre, sette mesi dopo la fecondazione, provocò l’aborto. La morte prematura del primo Governo nato da un ‘sogno’, decretava la fine dei sogni, il ritorno alla realtà segnata da tre anni di stravolgimenti politici, istituzionali e sociali che solo per il grande spirito di adattamento degli italiani non avevano prodotto conseguenze più gravi.

Le Madonne piangenti In tre anni, la classe politica, imprenditoriale e amministrativa del Paese è stata sepolta da una tale montagna di rifiuti da far piangere tutte le statue di tutti i santi di tutte le chiese d’Italia. Eravamo sprofondati… nella notte del senso – scrive il teologo Bruno Forte – avevamo perso la capacità di sentire, di cogliere, di distinguere. E tuttavia, nonostante tutte le sventure che si erano abbattute sul Paese, nessuna immagine sacra, nessun ‘Padre della Patria’, fino a quel momento, aveva pianto. Neppure dopo le dimissioni di Berlusconi, che pure si riteneva ‘unto dal Signore’, si erano avute manifestazioni di misticismo laico-religioso così plateali. Perché allora il fenomeno delle lacrimazioni si manifesta proprio all’inizio di questo 1995? E’ una premonizione divina foriera di nuove sventure? E perché piange anche il busto di Giuseppe Garibaldi? Questi fenomeni sono una risposta alla decadenza dei valori – scrive ancora il teologo Bruno Forte sulla Gazzetta – assistiamo,


oggi, ad una radicale assenza di Patria, in virtù della quale sembra quasi necessario aggrapparsi a tutto ciò che può essere evidente, anche se dato a buon mercato. La decadenza, che caratterizza il post-moderno, non è la negazione del valore, ma della passione per il valore, della passione per la verità. Il decadente – continua Forte – è colui che distribuisce sorrisi rassicuranti, magari con televisiva prodigalità, proprio per non far percepire la serietà e la passione del vero. Il decadente è colui che è pronto ad accordarsi su tutto e con tutti pur di perseguire i propri interessi. Di tutt’altro avviso il teologo Sergio Quinzio… io credo in quei prodigi… la fede è un dono di Dio e non possiamo confonderla con gli sforzi di chi cerca di uscire da una condizione esistenziale intollerabile. Per la buona teologia cattolica, nessuna fede può essere fondata sui miracoli, tanto meno sui miracoli alla rovescia… vedo, in giro, molto velleitarismo e confusione. Dunque non è finita. Sicuramente i fenomeni religiosi non sono riconducibili alla con-

La Madonna piangente di Civitavecchia.

dizione di grande incertezza in cui vive la stragrande maggioranza dei cittadini. La gente non sa più a chi credere o a chi dare credito. E’ sconfortata, smarrita, confusa e dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro si sente perfino abbandonata, lasciata in balia di una nuova stirpe di ‘barbari’: secessionisti per egoismo alcuni, velleitari per smania di ‘potere’ altri. Berlusconi, infatti, non ha rinunciato a coronare il suo ‘sogno’ e Bossi continua a perseguire il suo progetto di secessione cercando e trovando alleati che hanno storia, cultura e missione sociale totalmente opposta a quella leghista. Il Cavaliere si dimette ritenendo di compiere un semplice atto formale. La sua coalizione non ha più la maggioranza, l’opposizione neppure, quindi non resta che tornare alle urne. Berlusconi sostiene che il Paese non ha alternative. L’introduzione del sistema elettorale maggioritario ha cambiato le regole del gioco. Con il maggioritario il 27 marzo del ’94 gli elettori non hanno più votato per un candidato di un singolo partito, ma per uno espressione di una coalizione, con una linea politica condivisa e un programma comune indicando persino il nome del Presidente del Consiglio. Perciò, argomenta Berlusconi, se una delle parti della coalizione viene meno all’impegno assunto, l’elettore è tradito. Quindi bisogna ridare la parola ai cittadini perché si pronuncino, in questo caso, sul comportamento di Bossi. Perché il Cavaliere parla esplicitamente di Bossi? Perché il Carroccio stava già perdendo un terzo dei suoi deputati contrari alle posizioni del Senatur. Una fronda capeggiata proprio dal numero due della Lega Roberto Maroni. Il Capo dello Stato sembra convinto dalla tesi di Berlusconi… tant’è vero – dirà il Cavaliere nell’accesa polemica che segue con Scalfaro – che mi ha indicato persino la possibile data delle nuove elezioni: l’11 giugno. Scalfaro smentirà recisamente… non c’è mai stato alcun impegno con Berlusconi per un voto anticipato. Ma a cose fatte, l’8 marzo, 413


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Armando Cossutta confermerà le parole di Berlusconi… anche a me Scalfaro ha detto di voler votare a giugno. Quale che sia la verità, sta di fatto che il Capo dello Stato già nel messaggio di fine anno ’94, indica chiaramente la strada che intende percorrere… è quella ‘maestra’ della Costituzione… abbiamo lavorato insieme sette, otto mesi – dice Scalfaro riferendosi a Berlusconi – abbiamo avuto, a volte, una posizione dialettica e molti ci hanno inzuppato il pane per dire che eravamo in guerra dalla mattina alla sera: io non mi sono mai sentito in guerra e credo neanche il presidente Berlusconi… la crisi di Governo assorbe la nostra attenzione, perciò rivolgo un appello a privilegiare gli interessi generali pur senza trascurare le legittime aspettative di parte… siamo ad un bivio importante – prosegue Scalfaro – occorre prendere una strada con una bussola sicura… lo dico a tutti e, se mi permettete, lo dico con affetto anche al Presidente del Consiglio rispettando la sua posizione e la ferita che ha avuto con la rottura della maggioranza… siamo chiamati forse a grandi rinunce, forse a cercare momenti di tregua, forse a qualche sacrificio… non c’è una contrapposizione, una polemica, un braccio di ferro tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio – conclude Scalfaro – ma c’è la proposta di elezioni immediate e le regole, la ‘bussola’ della Costituzione che mi impone di cercare in Parlamento la soluzione della crisi. In sintesi la posizione di Scalfaro è questa: è vero che il maggioritario ha modificato il sistema elettivo, ma è anche vero che la Costituzione è rimasta immutata e questa, se da un lato mi chiede di rispettare il voto dello scorso 27 marzo, dall’altro mi obbliga ad attenermi alla volontà del Parlamento… ho constatato – dirà il Capo dello Stato dopo il primo giro di consultazioni per formare il nuovo Governo – che la maggioranza dei deputati alla Camera e al Senato, sono contrari a elezioni immediate. Ed io ho il dovere costituzionale di esami414 nare se esistono le condizioni per costituire

una nuova maggioranza. Esistono, esistono. Ci sono soprattutto perché lui, il Capo dello Stato, vuole che ci siano. Non solo, ma ponendo ogni sorta di veto a Berlusconi – no ad un suo rinvio alle Camere, no ad un suo Governo-bis, no ad elezioni immediate, no a ministri della Casa delle libertà nel costruendo nuovo Governo – finisce per ‘imporre’ un Governo tecnico e transitorio di suo gradimento. Se alla fine il Cavaliere farà l’auspicato ‘passo indietro’, sarà solo perché il PDS ha acconsentito che fosse la maggioranza uscente ad indicare il suo successore alla presidenza del Consiglio… non abbiamo obiezioni alla possibilità che ci sia una personalità di garanzia che sia espressione del partito di maggioranza relativa – afferma D’Alema – purché Forza Italia si disponga all’idea che il Parlamento non vuole le elezioni immediate. Perché? Perché, spiega Gavino Angius a Bertinotti e Cossutta che vorrebbero un Governo elettorale… perché una consultazione elettorale a breve scadenza si trasformerebbe in un plebiscito per Forza Italia e Alleanza Nazionale.

Il Governo Dini Alle 13 di venerdì 13 gennaio 1995, Lamberto Dini, il ‘Rospo’, come lo hanno etichettato quegli ‘estremisti’ de Il Manifesto, è convocato dal Capo dello Stato per ricevere l’incarico di formare il nuovo Governo. All’uscita dal Quirinale, Dini ha già la lista della spesa in tasca… per la natura stessa della scelta operata dal Capo dello Stato nei confronti della mia persona – dice Dini ai giornalisti – il Governo sarà composto da personalità svincolate dall’appartenenza politica… si tratterà, in sostanza, di un Governo formato da tecnici, con un programma minimo e transitorio. Quanto transitorio? – gli chiedono i giornalisti – il tempo necessario per approvare la legge elettorale regionale; il decreto legislativo sulla ‘par-condicio’ in materia di propaganda elettorale; una manovra finanziaria-bis


e la riforma pensionistica. Tranne che per Bertinotti, il quale si dice subito contrario ad un Presidente del Consiglio ‘banchiere’ e soprattutto ad un capo dell’Esecutivo ‘telecomandato’ dal Capo dello Stato, Lamberto Dini sembra l’uomo giusto al momento giusto. Va bene a Bossi, a Buttiglione, a Segni, all’intero PDS, alla Confindustria e anche a buona parte del Polo delle libertà. Del resto, Scalfaro è stato chiaro: se fallisce Dini ci sarà un nuovo incarico. E il Cavaliere, a testa bassa, attacca Scalfaro… si sta creando una situazione eversiva. Sarà D’Alema… con la consueta freddezza ma con parole di fuoco – scrive Cristiana Cimmino dalla redazione romana della Gazzetta – a commentare la grave affermazione di Berlusconi. A volte si ha l’impressione – dirà D’Alema – che il Cavaliere non sia consapevole del significato di quel che dice. Ciò che è veramente eversivo sono i suoi proclami. Ma non tutto è perduto. Berlusconi vuole sentire dalla viva voce di Dini, in Parlamento, il programma del suo Governo poiché non ha ancora perso la speranza di ottenere la data delle elezioni anticipate. Il 23 gennaio il Presidente del Consiglio incaricato non solo conferma i quattro impegni enunciati, ma sottolinea per tre volte il carattere eccezionale e transitorio del mandato ricevuto dal Capo dello Stato. E di nuovo, quella parola ‘transitorio’ resta senza un tempo determinato… che il neo Presidente del Consiglio abbia deluso le aspettative del suo ex-principale Berlusconi – scrive De Tomaso – i telespettatori lo hanno constatato con i loro occhi. Viso tirato, nessuna tentazione al battimani. Il Cavaliere non ha sentito da Dini la sola parola che avrebbe voluto sentir pronunciare: elezioni. Addio elezioni a giugno o a ottobre come ha accennato D’Alema… a meno di chiedere a Dini di fare quattro decreti per le quattro priorità – commenta l’on. Francesco D’Onofrio – solo per fare la riforma delle pensioni ci vorranno almeno trent’anni.

Accade così che, nel corso di un solo pomeriggio, il Parlamento passa da una confusa fase politica al caos. Il partito di maggioranza relativa che avrebbe dovuto votare a favore del nuovo Governo, decide per l’astensione; l’opposizione passa dall’astensione al voto favorevole; i leghisti passano dalla maggioranza all’opposizione; i partiti di centro – Buttiglione, Segni e persino Pannella – si schierano con Dini; solo Rifondazione comunista rimane coerente nella sua opposizione al Governo Dini. In un solo pomeriggio quello che per Berlusconi doveva essere un ‘Governo amico’ diventa un ‘Governo nemico’; gli elettori, che solo nove mesi prima avevano espresso la volontà di essere governati dal centro-destra e dal Cavaliere, si ritrovano governati dal suo ex ministro del Tesoro e da un Esecutivo di tecnici sostenuti dai partiti che il 27 marzo hanno perso le elezioni e da un gruppo di ‘barbari’ mercenari passati nello schieramento avverso. Il 25 gennaio, mentre Gianfranco Fini celebra a Fiuggi l’ultimo congresso del Movimento Sociale Italiano, Lamberto Dini, in Parlamento, ottiene la fiducia al suo Governo

Lamberto Dini, nuovo Presidente del Consiglio.

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con 302 voti a favore, 270 astensioni e tutti i 39 deputati di Rifondazione contrari. E’ nato il primo Governo ‘tecnico’ nella storia della Repubblica con ministri e sottosegretari tassativamente non parlamentari con la ‘fiducia’ dell’opposizione. E’ nato il Governo del ‘Ribaltone’. Il 25 gennaio a Subiaco, un centro di ottomila anime a 70 chilometri da Roma, una statuetta della Madonna comincia a piangere. Tre settimane dopo comincerà a piangere la Madonna di Civitavecchia, ancora oggi oggetto di culto, e poi tante altre ancora in tutto il Paese. Nonostante lo scorno, la cocente delusione per l’avvenuto ‘ribaltone’, non manca chi ricorda… fregandosi le mani – scrive Mazzarino dalla redazione romana della Gazzetta – che Dini, dopotutto, è l’uomo che ha armato la mano di Bossi per il rigore con cui ha difeso la mancata riforma delle pensioni. E’ lui, sostengono diversi esponenti del Polo berlusconiano, che ci ha messi contro il Sindacato, i pensionati, l’opposizione e Bossi. C’è chi ha osservato che indicare Dini alla Presidenza del Consiglio è stata l’ennesima ingenuità politica del Cavaliere; altri, invece, sostengono che è stata una mossa strategica geniale… adesso il problema è di D’Alema, Buttiglione e Bossi. Dovranno spiegare ai loro elettori e ai ceti più deboli, perché mai Dini sarebbe migliore di Berlusconi. E perché – scrive ancora Mazzarino – la riforma pensionistica e la manovra aggiuntiva, da sangue, sudore e lacrime che l’ex direttore di Banchitalia promette, dovrebbe essere più accettabile se da lui gestita come presidente e non come ministro. Intendiamoci, il ‘ragionier Dini’, come lo chiama Bossi, è un tecnico eccellente, ma non è un politico. Noi, comunque – si dice nel Polo delle libertà – faremo il possibile per spianargli la strada… se riesce a realizzare quanto si è proposto, ci agevolerà il cammino nel girone di ritorno. Opinioni, commenti, giudizi a caldo e rab416 biosi dettati dalla difficoltà di argomentare

razionalmente quello che è avvenuto nel Paese e in Parlamento negli ultimi due mesi. Brucia il voltafaccia – il ‘tradimento’ dice Berlusconi – di Bossi; sgomenta l’accordo del PDS col ‘Giuda’ leghista e, infine, sconcerta l’accettazione di un programma di Governo, sia pure minimo, già respinto dalle parti sociali e dalla gente. L’opposizione ha fatto di tutto per evitare nuove elezioni – afferma Berlusconi in Parlamento – ha preferito baciare il ‘Rospo’ di questo Governo pur di sconfiggere quel nemico pubblico numero uno che è diventato Silvio Berlusconi… sull’altare di questo obiettivo è stata sacrificata un’importante stagione del liberalismo, per livore personale e interessi di piccola bottega. Il primo merito di Dini, che presto si rivelerà anche un politico accorto, è quello di non farsi coinvolgere dalle continue polemiche fra il centro-destra e il centro-sinistra. Egli sa di poter contare sull’appoggio del Capo dello Stato, sui partiti di centro, sull’intero PDS e soprattutto sui cosiddetti ‘poteri forti’: Gianni Agnelli ha già annunciato che in Senato voterà a favore del Governo Dini e la positiva risposta dei mercati finanziari e valutari, dopo il voto di fiducia del Parlamento, lo rinfranca e lo conforta per il prosieguo. Ma è una falsa partenza perché, come vedremo, la Lira e la Borsa crollano e cadono ad ogni nube che si addensa sul Governo.

Il Congresso di Fiuggi Il 27 gennaio, a Fiuggi, Gianfranco Fini mette la lapide sul Movimento Sociale scrivendovi sopra un epitaffio ‘ingeneroso’ per i pochi nostalgici rimasti: L’antifascismo è stato un valore fondante della Repubblica. Essenziale – dice Fini – per il ritorno alla democrazia che il fascismo aveva conculcato… noi non siamo figli del fascismo… dobbiamo superare le contrapposizioni ideologiche del Novecento che vanno invece storicizzate… se non accettiamo questa sfida condanniamo l’Italia a rimanere prigioniera del ven-


tesimo secolo. Se non siamo disposti a cambiare, potremo anche essere indicati come esempio di coerenza… ma saremo fuori dalla storia, dalla società, dal tempo in cui viviamo… la nostalgia è cosa sterile in termini politici… la destra, invece, non può tenere aperte le ferite… io a questo non ci sto! Alle 19,30, fra non poche lacrime, si chiude la cerimonia funebre del MSI. Il mattino dopo, mentre lo sconfitto Pino Rauti insieme ad uno sparuto gruppo di ‘duri e puri’ lascia la piccola cittadina termale, cominciano ad arrivare gli ospiti per la cerimonia di battesimo di Alleanza Nazionale. E quando nel grande salone delle terme salgono sul palco gli artefici del nuovo soggetto politico italiano – Domenico Fisichella, il teologo; Gianfranco Fini, il politico, e Pinuccio Tatarella, il costruttore, l’uomo che ha messo su l’impalcatura, il ferro e i mattoni di AN con ostinazione e passione – la platea esplode in un lungo, caloroso applauso… oggi, di fatto, finisce il lungo interminabile dopoguerra – esordisce un raggiante Fini rivolto ai 1.700 delegati ed ai numerosi ospiti – con Alleanza Nazionale vogliamo costruire una destra sociale, antifascista, interclassista e democratica… da oggi – gli fa eco il prof. Fisichella – nessuno può sottoporre ad ulteriori prove ed analisi del sangue AN: la stagione degli esami è ormai conclusa. Pinuccio Tatarella – scrive l’inviato della Gazzetta Giuseppe De Tomaso – non sta nella pelle. L’uomo che più di tutti ha contribuito a superare la sindrome dell’isolamento nostalgico… abbraccia festoso e commosso chiunque gli capita di incontrare. Il coronamento del suo disegno, il grande centrodestra, sta per realizzarsi: ‘così era nei voti’ commenta, a caldo, Pinuccio. A tarda sera, Gianfranco Fini, quasi per acclamazione – 1.507 voti su 1.679 – è eletto primo presidente di Alleanza Nazionale. Il Congresso che in cinque giorni ha celebrato un funerale e un battesimo, finisce alle 13 di domenica 29 gennaio… per la prima volta nella nostra storia – scrive Bruno Vespa

Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella esultanti al congresso di fondazione di Alleanza Nazionale.

sulla Gazzetta – il nuovo soggetto politico della vita italiana ha eletto un Presidente e non un Segretario: un segnale anticipatore verso quel traguardo presidenzialista al quale da queste parti si guarda da tempo. Ma il segno tangibile che qualcosa è veramente cambiato nel panorama politico nazionale, lo rivela De Tomaso… fra i tanti ospiti di questo Congresso, ci sono anche due ‘compagni’: Ugo Pecchioli e Secondo Zani. Certo – continua De Tomaso – non si chiamano D’Alema. Ma solo qualche mese fa sarebbe apparsa fantapolitica persino la partecipazione dell’usciere di via delle Botteghe Oscure. Un altro muro è crollato.

La fronda nella Lega Non cade, invece, il ‘guerriero’ di Gemonio Umberto Bossi. Il 10 febbraio si apre, al Palatrussardi di Milano, un altro congresso storico: il congresso del chiarimento, della verità. Il congresso straordinario della Lega. Facciamo un salto indietro. All’indomani de ‘onorevole Presidente, la Lega le toglie la fiducia’ scandito da Bossi all’indirizzo di Berlusconi in Parlamento, il 417


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Carroccio perde una ruota: Roberto Maroni, l’amico di tante battaglie. L’uomo che è accanto al ‘boss’ da 15 anni, ha preso il coraggio a due mani e ha detto al leader massimo che questa volta ha sbagliato… noi dobbiamo tutto a Berlusconi, le nostre fortune e il nostro successo. Non è leale abbandonarlo così. E dichiara apertamente il suo dissenso. Nasce così una fronda che a gennaio è già folta di una quarantina di deputati. Bossi, che sperimenta sulla propria pelle la ferita bruciante del ‘tradimento’, reagisce a modo suo… sono topi carrieristi – dirà sprezzante ai giornalisti – uomini piccoli piccoli che, guardandosi allo specchio deformante della loro ambizione, si considerano giganti. Lo vedremo al Congresso – replica Maroni che si candida alla sua successione – io pongo un problema di linea politica: chi è con Bossi è per l’isolamento politico della Lega. Ma a ‘Bobo’ Maroni successore di Bossi non ci crede nessuno… nemmeno lui – sostiene il senatore dissidente Marcello Staglieno – ‘Bobo’ non ha il carisma di Bossi. Infatti, quando il 25 gennaio i leghisti votano, insieme al PDS, la fiducia al Governo Dini e il gruppo dei dissidenti del Carroccio passa da 40 a 60 deputati, Maroni si spaventa e, anziché confermare la candidatura alla successione di Bossi, si tira indietro… sono pronto ad andarmene se Bossi resta segretario. Siamo un gruppo senza speranza – dicono, ormai rassegnati, i dissidenti – dobbiamo convincerci che non c’è nella Lega un altro leader che possa guidare la ‘mandria’ con la stessa autorevolezza del Senatur. E tuttavia, a scanso di sorprese dell’ultima ora, il consiglio federale della Lega approva un programma di lavori che non prevede, all’ordine del giorno del Congresso, l’avvicendamento del Segretario. Il 10 febbraio, dunque, inizia il grande spettacolo del popolo leghista… se le alleanze fanno discutere – scrive De Tomaso ‘inviato’ anche a Milano – la leadership dell’Umberto 418 è fuori discussione… si tratta solo di un con-

fronto fra due tesi: quella del ‘lucidamente confuso’ Maroni – che vorrebbe restare nel Polo del centro-destra – e quella del ‘confusamente lucido’ Bossi che vorrebbe creare con i popolari di Buttiglione un grande centro alternativo alla destra e alla sinistra. Se la giornata inaugurale è stata orchestrata ad arte per togliere ogni illusione ai dissidenti, lo scopo è raggiunto… ogni intervento dal microfono – continua De Tomaso – è una sciabolata per i fuorusciti… spesso fisicamente impediti a parlare. Perfino le tesi a confronto sono un optional. Formentini afferma che se la Lega vuole difendere la democrazia, l’approdo è a sinistra; Borghezio e Boso – detto il Bove – vogliono la Repubblica del Nord e tutti insieme vogliono stare il più lontano possibile da Berlusconi e Fini. L’intera prima giornata del Congresso passa senza che il Senatur si faccia vedere. Il popolo leghista sta lavorando per lui: stanno disinfestando il Carroccio da fastidiosi tarli; stanno riempiendo il Palatrussardi di piante sempreverdi e stendendo una lunga passerella rossa. L’indomani, il grande capo farà il suo ingresso seguito dall’ospite d’onore Massimo D’Alema. Oggi è sicuramente il giorno più lungo e drammatico della storia leghista – scrive De Tomaso sulla Gazzetta il 12 febbraio – oggi è il giorno del divorzio fra Bossi e il suo delfino ‘Bobo’; il giorno della riappropriazione definitiva di quel che resta della Lega, il giorno dei proclami e del ritorno allo spirito delle origini. Il primo affondo di Bossi è contro Berlusconi che definisce… un Frankestein, un mostro partitocratico creato per distruggere la Lega… ma noi non ci arrendiamo… noi abbiamo salvato la democrazia. Poi si rivolge ai dissidenti, ai transfughi… nessun alibi può salvare chi, nel momento della lotta, per non combattere si consegna prigioniero all’avversario. E guardando Maroni, seduto in prima fila, ammorbidisce il tono della voce… da domani i traditori, i pavidi, i venduti li chiame-


Umberto Bossi e Massimo D’Alema ospite d’onore al congresso della Lega al Palatrussardi di Milano.

remo con i loro nomi… ma oggi no. Oggi siamo qui per piangere i nostri dolori, non per condannare. Domani, la gioia. Ma per favore, chi se ne deve andare, se ne vada oggi, perché entro domani la Lega vuole cauterizzare le sue ferite e lanciarsi all’attacco… per realizzare il federalismo. Quanti guardano la politica dall’alto, dalla villa di Berlusconi e considerano inevitabile la scelta fra destra e sinistra, sbagliano… io sono il centro… un Polo di centro è possibile ed io credo ai miracoli. E se prima del miracolo ci fossero le elezioni? Considerato il repertorio lessicale al vetriolo usato contro il Polo di centro berlusconiano – commenta De Tomaso – è quasi certo che in caso di votazioni l’approdo leghista si troverà nel Polo di centro-sinistra. E D’Alema conferma. Ha ragione Bossi – afferma il Segretario del PDS rivolto ad una platea che subito si fa attenta – le elezioni non sono così lontane; è vicino il momento delle scelte che devono essere coraggiose. Le prossime elezioni saranno una sfida fra un blocco di potere, che rappresenta la continuità dei lati peggiori del vecchio regime politico, e quella che io chiamo una nuova Italia. In questa alleanza c’è bisogno del federalismo democratico della Lega. Prima, però, di lasciare il podio a D’Alema, il Senatur compie l’ultimo, plateale quanto inutile gesto di sfida: le sue dimissioni da Segretario che sono immediatamente respinte. I dissidenti, invece, non hanno bisogno di

formalizzare le loro dimissioni: sono stati brutalmente licenziati. Neppure all’amletico Roberto Maroni… l’uomo dai mille dubbi e dai mille ripensamenti – scrive Sergio Angelillo per la Gazzetta da Milano – è stata concessa una tregua. Quando sale sul podio del Palatrussardi, salutato da una selva di fischi, ‘Bobo’ non ha scelta: deve andarsene. Ho detto che sono nato con la Lega e morirò con la Lega – dirà Maroni ad una platea apertamente ostile – non faccio politica per le poltrone. Io non vedo alternative al Polo delle libertà. I partiti di centro come la Lega si stanno lacerando… la decisione è obbligata: o stiamo con il centro-destra o stiamo con il PDS. Un terzo Polo, il centro, non esiste. Ma la Lega ha fatto questa scelta… la mia battaglia politica l’ho perduta… il mio ruolo è esaurito… nei prossimi giorni presenterò le mie dimissioni da parlamentare e capogruppo della Lega alla Camera. Il Congresso è finito. L’ultima giornata di ‘lavori’ congressuali, quella di domenica 13 febbraio, altro non è che una fiera paesana, uno spettacolo folkloristico attorno ad un Carroccio che ha innalzato la bandiera secessionista e antimeridionalista; una ‘sfilza’ di mozioni insulse contro il solito Sud parassita e un povero Nord vittima dello sfruttamento meridionale. Una ‘sfilata’ in cui si esibisce anche la ‘papessa’ Irene Pivetti che, incurante del suo ruolo istituzionale – la ‘pasionaria’ della Lega è Presidente della Camera – ha voluto ugualmente contribuire al processo di demonizzazione del Cavaliere, al coro degli insulti… non era mai accaduto che un’alta carica istituzionale attaccasse così frontalmente il leader di un gruppo parlamentare – scrive De Tomaso – altro che ‘politica gentile’, qui siamo di fronte ad un costume politico e istituzionale del Paese completamente lacerato… qui le pallottole sono di piombo. Il passaggio più duro del Presidente della Camera contro Berlusconi – che non nomina mai – è quello in cui lo indica come… il nocchiero di una ciurma che rema contro la 419


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democrazia… ci sono amici che non si sono accorti di essere strumenti nelle mani di qualcuno molto furbo, molto scaltro, che sa perfettamente curare i propri interessi, a costo di andare contro gli interessi della democrazia. E’ una frase bomba – commenta De Tomaso – una frase destinata a far discutere. Non ne discuterà nessuno. Così come nessuno chiederà a Maroni di mantenere la sua parola. Le parole, in politica, sono come i profumi: sia forti che delicati, sono sempre inebrianti e sempre… volatili.

Romano Prodi scende in campo Due giorni dopo il battesimo di Alleanza Nazionale, Rocco Buttiglione, che ancora non ha deciso cosa fare da grande, accenna ad una possibile adesione del Partito Popolare al Polo del centro-destra. La reazione dell’ala sinistra del partito, erede della defunta Democrazia Cristiana, è immediata e radicale: Beniamino Andreatta si premura di offrire a Prodi, all’insaputa di Buttiglione, la leadership del partito; Rosy Bindi, l’ex ‘pasionaria’ della DC, dichiara senza mezzi termini… che se il Segretario-filosofo non recede dal suo proposito… faremo un secondo Partito Popolare senza Buttiglione. I Popolari di sinistra infatti – un gruppo molto più consistente di quanto pensasse il Segretario – non comprendono l’improvviso cambio di rotta di Buttiglione. Dopo tutto quel gran parlare nel ‘laboratorio politico di Gallipoli’; dopo l’accordo elettorale con il PDS alle amministrative del novembre precedente e soprattutto dopo la ‘caduta’ di Berlusconi, schierare il Partito nel centro-destra, allearsi con una ‘destra’, sia pure rinnovata, per uomini come Martinazzoli, Andreatta, Elia, Bianchi, De Mita, Jervolino, Bodrato, Bindi, Mattarella e perfino per due ‘campioni’ dell’anticomunismo come Gerardo Bianco e Emilio Colombo, unirsi al Polo di centro-destra è inconcepibile. Meglio a sinistra. Meglio con il PDS che con il ‘Cavaliere Nero’. Il rimescolamento delle carte di Rocco 420 Buttiglione che compromette il disegno dale-

miano – commenta De Tomaso – era prevedibile… il Segretario-filosofo aveva accettato l’alleanza con il PDS sulla base di uno stato di necessità… ma il suo passato, il suo retroterra culturale, il suo pensiero, la sua stessa linea congressuale, invece, non deponevano a favore di una scelta strategica a sinistra o filoprogressista. Il 2 febbraio, il prof. Romano Prodi, candidato dalla sinistra dei Popolari alla guida di un costruendo Polo di centro-sinistra, si reca sul Colle: vuole la ‘benedizione’ di Scalfaro che, a quanto si dice, è così ben disposto verso il ‘Professore’ che lo avrebbe preferito a Dini alla guida del Governo ‘tecnico’, se non fosse stato ‘costretto’ a chiedere la designazione a Forza Italia. La sera stessa il PDS annuncia la costituzione del Polo di centro-sinistra: vi fanno parte, oltre al PDS, i Cristiano Sociali di Carniti, i socialisti di Boselli, i laburisti di Spini, la Rete di Orlando, i pattisti di Segni e i Verdi. Candidato leader: Romano Prodi… un uomo vero – dice D’Alema – dopo tanti prodotti preconfezionati. E Rifondazione? Rifondazione se ne sta fuori… sono stati loro, o almeno il gruppo dirigente – sostiene D’Alema – ad essersi messi fuori da soli, a considerare Dini peggio di Berlusconi: una regressione settaria che lascia senza parole… e aggiunge: Bertinotti è un irresponsabile. La discesa in campo di Prodi appare alla maggioranza dei commentatori politici come la soluzione di una complessa formula chimica: si è trovato quel fattore mancante all’elica della vita politica italiana. Gran parte della stampa nazionale, infatti, saluta con soddisfazione la decisione del Professore. Forse siamo ad una svolta del sistema politico nazionale; forse si riuscirà, finalmente, ad uniformare il nostro sistema con la maggioranza dei sistemi politici europei; forse con Romano Prodi si potrà realizzare quel ‘bipolarismo’ politico che è la premessa indispensabile del maggioritario. Due grandi coalizioni, due programmi,


due leader. Chi vince governa, chi perde si oppone costruttivamente e si organizza per andare al Governo. In quest’ottica, perfino Berlusconi commenta positivamente la candidatura di Prodi… fare chiarezza sugli schieramenti – sostiene il Cavaliere – è una necessità per il Paese, per favorire, finalmente, una democrazia dell’alternanza. Meno di ventiquattro ore dopo, tutti quei ‘forse’ nei commenti degli addetti ai lavori, si materializzano. Se Prodi infatti diventa da subito il collante del Polo di centro-sinistra, per i Popolari e per Rifondazione il nome del Professore diventa il solvente che porterà i due partiti alla scissione. Improvvisamente, il dibattito politico s’infiamma e dalla confusione pre-Prodi, si passa al caos post-Prodi. Buttiglione interrompe il ‘feeling’ con il centro-destra e contemporaneamente boccia Prodi… chi va a sinistra non conti sul Partito Popolare. Poi riunisce la direzione del Partito e afferma che il suo obiettivo… è quello di costruire un centro moderato concorrenziale alla sinistra e alternativo ad Alleanza Nazionale… ma la corrente di sinistra che lo contesta chiede che sia il Congresso a decidere la linea del Partito. Bossi, che come abbiamo visto ha ben altre gatte da pelare, se ne esce con… sono cose romane… il solito accapigliarsi per problemi di poltrone e potere. In casa di Rifondazione, invece, il nome di Prodi comincia a fare qualche breccia. Bertinotti, che aveva già perso Sergio Garavini – suo predecessore al vertice della segreteria – per il rifiuto di appoggiare il Governo Dini, ora rischia di perdere anche Armando Cossutta, presidente di Rifondazione favorevole alla candidatura di Prodi. Perciò, all’annuncio della formazione del Polo di centrosinistra, il Segretario di Rifondazione, prima fa la vittima… D’Alema ci ha ripetuto il suo no, ma noi siamo testardi e il no di D’Alema non ci spaventa. Poi pone le sue condizioni… Prodi non ci piace granché, ma non siamo

contro. Se ci dice che i primi due punti del suo programma saranno la patrimoniale e la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, saremo pronti a dire sì. Neanche la discesa in campo di Berlusconi aveva creato nel ‘centro’ e nei ‘cespugli’ di destra e di sinistra l’animosità e la diffidenza che crea Prodi. E’ nella classe politica – scrive Gorjux – l’ostacolo che impedisce il passaggio da un sistema di democrazia incompiuta ad un sistema di democrazia perfetta. Ma se è vero che il nome del Professore mette tutti in fibrillazione, è anche vero che la sua candidatura alla guida del Polo di centrosinistra, unisce le varie anime del PDS: dalla ‘destra’ dell’amerikano Walter Veltroni, alla sinistra di Luigi Berlinguer. La leadership di Prodi insomma, accelera il processo di rinnovamento politico del PDS. Se per Veltroni, infatti, il nome del Professore è ‘rassicurante per il Paese’, per Massimo D’Alema con Prodi è possibile spingersi anche oltre il PDS. Il 4 febbraio, in un editoriale per la Gazzetta, Veltroni scrive… prima di Prodi c’era una destra onnivora e compatta e, di fronte ad essa, un campo di opposizione di centro e di sinistra frastagliato… con Prodi oggi è possibile dare al sistema politico la gamba che gli mancava, cioè costruire un Polo democratico che restituisca simmetria e dunque ordine al sistema… Prodi è competente, conserva legami con la vita sociale e produttiva, sensibilità democratica, è espressione di un mondo moderato e riformista contiguo ai valori della sinistra. Rassicurante per il Paese nel suo insieme. Due giorni dopo, in una intervista a Panorama, D’Alema va anche oltre le ‘speranze’ e le aspettative di Veltroni.

La ‘Cosa 2’ Per il Segretario del PDS… Prodi rappresenta un punto d’incontro tra un moderatismo democratico ed una sinistra moderna e per proseguire nel processo di rinnovamento saranno necessari mutamenti radicali. La scommessa – dice D’Alema – è quella di 421


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rilanciare l’idea di una costituente di un grande partito laburista, moderno, integrato in un sistema europeo che evolve verso l’obiettivo di aprirsi alle diverse culture progressiste. Un partito nuovo insomma, con un nome nuovo e un simbolo nuovo, un partito che non potrà più avere, ai piedi della Quercia, l’antica bandiera rossa con la falce e martello sovrapposta al Tricolore italiano… quel simbolo – dice ancora D’Alema – raffigurante le nostre radici, non rispecchia più la realtà di un partito socialista-democratico che si apre ai cattolici popolari, ai liberaldemocratici e ai laici di centrosinistra… vogliamo spostare in avanti le nostre ragioni storiche, trovarne di nuove anche a rischio di perdere qualcosa del nostro insediamento tradizionale. Come potrebbe chiamarsi questo nuovo soggetto politico? Sinistra democratica – replica D’Alema – ma lo deciderà la Costituente o il Congresso. Lo sforzo d’immaginazione, il ‘pallone sonda’ lanciato da D’Alema nell’universo progressista, avrebbe meritato un momento di riflessione, una diversa reazione, se non dai nuovi partner che si sono affrettati a dire ‘no, grazie’ intendiamo conservare la nostra identità politica, quantomeno dal PDS. Invece, è proprio il suo partito ad esprimere le maggiori riserve. Fredda la reazione di alcuni esponenti della Segreteria; scettica, fino alla delusione, la ‘base’… la bandiera non si tocca; duro il commento di Occhetto… mi vengono i brividi… la cosa finisce per gettare un’ombra di ridicolo su tutto quello che abbiamo fatto a partire dal crollo del Muro di Berlino; sferzante Bertinotti… D’Alema non tiene conto che la sinistra è ‘plurale’: è un vizio integralista tentare di ridurre ad uno solo uno schieramento politico. Deluso, D’Alema si astiene dal commentare le reazioni. Ma due settimane dopo, sollecitato dal leader Cristiano-sociale, Ermanno Gorrieri, il Segretario del PDS… visibilmente contrariato, scrive il cronista, annacqua la 422 portata della sua proposta, ma non manca di

Massimo D’Alema... Gesù, quant’è difficile questo ‘popolo’ di sinistra.

dare due risposte. Una, rassicurante, ad Occhetto… non vogliamo fare una seconda svolta – dirà D’Alema a Gorrieri – si tratta di portare a compimento quella già fatta da Occhetto. Il nome, la bandiera rossa, il simbolo… c’è tempo, è un problema secondario. Ma se decideremo di presentarci alle politiche insieme a tutte le forze progressiste, il simbolo non sarà certo quello del PDS. La seconda risposta di D’Alema è ovviamente per Bertinotti. Sferzante, con gli interessi: il leader di Rifondazione Comunista è il capo di una ‘sinistra’ eccentrica e applaudita nei salotti perché assolutamente innocua. Dal momento in cui D’Alema avanza la proposta di cambiare nome e simbolo al PDS, i giornalisti cominciano a riferirsi al ‘partito che non c’è’ come alla ‘Cosa 2’. E’ un chiaro accostamento al periodo in cui il PCI accolse la proposta di Occhetto – 10 ottobre 1990 – di rifondare il Partito Comunista dandogli un nuovo simbolo e un nuovo nome. Fu allora che i giornalisti cominciarono a riferirsi al costruendo nuovo soggetto politico come ‘la Cosa’, che cessò di essere tale il 3 febbraio del


1991 quando assunse il nome di Partito Democratico della Sinistra. La ‘Cosa’ di Occhetto venne trasformata in PDS dopo cinque mesi; quella di D’Alema si realizzerà dopo 3 anni. L’addio alla bandiera rossa con la falce e martello sovrapposta alla bandiera italiana ai piedi della Quercia, avviene al Palazzo dello Sport di Firenze il 12 febbraio del 1998. Il nuovo simbolo è una Quercia con ai piedi una rosa in fiore coronata da 15 stelle, simbolo del Partito Socialista Europeo. All’assise di Firenze non ci saranno lacrime. Il mondo è cambiato. L’Italia è cambiata. Gli ex comunisti, gli ex pidiessini, divenuti semplicemente DS – Democratici di Sinistra – sono, per la prima volta nella loro storia, al Governo del Paese con l’Ulivo di Prodi. Finite le contrapposizioni ideologiche, sepolti i vecchi dogmi del comunismo – egualitarismo ed economia statale – l’attenzione dei DS è oggi rivolta alla valorizzazione degli individui, al rispetto delle differenze, all’economia di mercato senza trascurare i diritti dei più deboli.

l’ora, suggerisce, anzi chiede al Capo dello Stato di sciogliere le Camere e accorpare le elezioni regionali alle politiche. Ma D’Alema frena. E Scalfaro spegne il motore. E’ inutile continuare a urlare che si vogliono le elezioni – sottolinea il Segretario del PDS – soprattutto è inutile che Berlusconi le chieda a me e a Scalfaro. Se le vuole deve fare una cosa semplice: presentare una mozione di sfiducia al Governo… per il PDS il Governo Dini si esaurirà quando i provvedimenti del suo programma diventeranno leggi. Il Capo dello Stato è ancora più esplicito… c’è un Parlamento in piena attività; c’è un Governo che ha meno di un mese di vita e ha già stabilito la data delle elezioni regionali… non è lecito farne un bersaglio di tiro a segno come già si fa con il Capo dello Stato… il mio compito, il compito di tutti è quello della fedeltà alla Costituzione che deve essere inseguita ad ogni costo, al di là delle polemiche e delle minacce… non mi lascerò intimidire da schiamazzi inutili e dannosi.

L’Ulivo Torniamo al 1995. Il 13 febbraio, Romano Prodi presenta alla stampa il nome del suo movimento – l’Italia che vogliamo – e il simbolo: un Ulivo. E’ stata sottolineata da parti molto autorevoli – dice il Professore – la necessità che alla nuova Quercia del PDS non si affianchi qualche ‘cespuglietto’ alla ricerca di protezione e sicurezza, ma altri alberi… è necessario che nel campo democratico sia piantato al più presto un albero d’Ulivo… una pianta italiana, coltivata al Nord come al Sud, che ha radici, è forte e dà tanti frutti… frutti che la Quercia non dà – sottolinea maliziosamente Gianni Pecci – braccio destro del Professore nonché presidente del comitato per Prodi alla guida del Governo. Dunque si va ad incominciare: costruiti i due Poli e designati i leader, la ‘gara’ per la successione a Dini è aperta… io sono pronto – afferma Prodi – e Berlusconi, che non vede

Romano Prodi presenta il simbolo del suo ‘movimento’.

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Morale: finché c’è una maggioranza parlamentare che sorregge il Governo, di elezioni anticipate non se ne parla. E comunque, anche in caso di sfiducia, tocca sempre al Capo dello Stato verificare che ci siano le condizioni per sciogliere le Camere. Così, messisi un po’ tutti l’anima in pace – tranne Berlusconi che non si rassegna – Romano Prodi sale su un pullman e inizia il ‘tour delle cento città’… si va a parlare con la gente… si va nelle città a discutere dei problemi per costruire una proposta credibile. E comincia proprio dal Sud. Dalla città di Lecce. Il Governo Dini, intanto, vara i primi due punti del suo programma: il decreto sulla ‘parcondicio’ in materia di pubblicità elettorale e la legge elettorale regionale. Ufficialmente il decreto sulla ‘par-condicio’ passa l’esame della Camera il 17 febbraio, ma è oggetto di una tale caterva di proteste da tutti i partiti che, corretto, emendato e rivisto, prima del 29 marzo non può entrare in vigore. E quando entra in vigore è praticamente inutile perché il decreto vieta ai mass media ogni forma di propaganda elettorale a pagamento fin dal ventesimo giorno precedente la data delle elezioni fissate per il 23 aprile. L’intento del legislatore, il ministro delle Poste Agostino Gambino… è quello di eliminare – dirà lui stesso – qualsiasi forma di suggestione del cittadino, attraverso i mezzi della carta stampata e radiotelevisivi, garantendo così, a tutte le forze politiche, pari condizioni in campagna elettorale. Ne viene fuori un decreto legge così complesso e macchinoso che definirlo assurdo è un eufemismo. Cercare di inoltrarsi nei meandri del decreto è peggio che cercare di uscire da un labirinto. La parte più iniqua non è tanto la normativa per assicurare la ‘par-condicio’, quanto i divieti e le sanzioni a carico di giornalisti e editori di Tv e giornali. L’inosservanza delle regole da parte dei giornalisti prevede il deferimento all’Ordine; gli editori dei giornali rischiano multe fino a un miliardo di lire; 424 per le Tv private è previsto l’oscuramento. In

breve si è passati dagli eccessi della Prima Repubblica, all’assordante silenzio della Seconda dal momento che, come accennato, quando il decreto entra in vigore, mancano sei giorni al divieto totale di pubblicizzare la campagna elettorale regionale. Il 20 febbraio, il Parlamento vara la legge di riforma elettorale regionale, nota come ‘Tatarellum’, dal nome del suo relatore Giuseppe Tatarella. La prima stesura della legge era del deputato Diego Masi, un pubblicitario eletto nelle liste del Patto Segni. Ricalcava, più o meno, la legge di riforma elettorale per le elezioni politiche del ’94, basata cioè sul maggioritario. Ma dopo l’esperienza subìta dal Governo Berlusconi, nessuna coalizione vuole correre il rischio di incorrere in un ‘ribaltone’ anche nei governi regionali. Bisogna emendarla, bisogna fare presto e bisogna trovare un relatore capace di mettere d’accordo tutti. Date le premesse e considerato che il 70% dei deputati è alla prima esperienza parlamentare, il nome del relatore viene fuori da solo. E’ l’ex ‘ministro dell’armonia’ del Governo Berlusconi, Giuseppe Tatarella, la cui capacità di mediazione è pari al suo attivismo: senza limiti. In cinque giorni Tatarella prepara il nuovo testo, lo presenta alla Commissione Affari Costituzionali e, dopo un’estenuante giornata di lavori parlamentari, ottiene anche il via libera dalla Camera dei deputati… sembrava impossibile – dirà ‘Pinuccio’ agli amici pugliesi – è stato difficilissimo fino all’ultimo. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. La nuova legge poggia su tre norme fondamentali: consente alla coalizione vincente di governare con una solida maggioranza – mediante l’assegnazione di un ‘premio di maggioranza’ fino al 20% dei seggi – scongiura il ‘ribaltone’ – se si dovesse verificare nei primi 24 mesi, l’Assemblea regionale sarà sciolta e si andrà automaticamente alle urne – e favorisce le aggregazioni politiche inserendo uno sbarramento a quelle liste che, su base regionale, non ottengono almeno il 5% dei voti.


Per il resto, rimane il turno unico, resta il sistema elettorale proporzionale e il Presidente della Giunta solo formalmente è eletto dal Consiglio, poiché è acquisito che sarà il capolista indicato dai partiti o dalle coalizioni. Il 21 febbraio Fini affida a Tatarella un nuovo delicato compito: convincere il Capo dello Stato che sciogliere anticipatamente il Parlamento, oltre a corrispondere ad un’evidente opportunità politica per rispettare l’elettorato, è anche formalmente e istituzionalmente ineccepibile. Tatarella si mette al lavoro. Promuove una serie incredibile di incontri, compreso uno fra Berlusconi e Dini, e dieci giorni dopo è pronto per incontrare il Presidente della Repubblica. Tatarella ha praticamente compiuto un miracolo: invece di convincere Scalfaro, ha convinto Berlusconi a fare un passo indietro; ha convinto il Polo delle libertà a non ostacolare il Governo nella realizzazione del suo programma e ha fatto promettere a Dini ‘irrevocabili dimissioni’ dopo aver portato al traguardo gli ultimi due impegni rimasti – manovra economica e riforma delle pensioni – o dopo aver constatato l’impossibilità di portarli a termine… promessa – aggiunge Tatarella per le antenne sensibili del Cavaliere – che Dini si è impegnato a comunicare al Senato il 3 marzo a conclusione del dibattito sulla manovra economica… è inutile e dannoso – sostiene Tatarella – inasprire la polemica con il Capo dello Stato. Non è lui l’interlocutore da pressare per andare al più presto alle urne, ma il Presidente del Consiglio. Perciò, se noi gli agevoliamo il cammino, tutti arriveremo prima al traguardo. Berlusconi si è lasciato convincere da ‘Pinuccio’ – scrive Cristiana Cimmino dalla redazione romana della Gazzetta – le elezioni anticipate a giugno non sono più un totem e il voto ad ottobre non è più considerato ‘drammatico’. Berlusconi è fiducioso e ai giornalisti che gli chiedono se è stata concordata una data precisa, il Cavaliere risponde… non ce n’è bi-

Giuseppe Tatarella scomparso l’8 febbraio 2001.

sogno. Fra galantuomini e patrioti, basta la parola. Il primo marzo, i capigruppo del Polo delle libertà, guidati da Tatarella, salgono al Quirinale per offrire a Scalfaro, che è informatissimo, il ‘calumet’ della pace. Ma prima che ‘Pinuccio’ cominci ad illustrare il ‘nuovo corso’ del Polo, il Capo dello Stato gli rende un pubblico elogio… le faccio i complimenti per la sua grande capacità di mediazione… un’abilità che le è riconosciuta da tutti, anche dagli avversari. Ma è tutto inutile. Il 3 marzo, a Palazzo Madama, Dini cambia le carte in tavola. Dopo aver illustrato la manovra economica e chiesto la delega al Governo sulle pensioni… il Presidente del Consiglio – scrive ancora la Cimmino – non ha pronunciato le due parolette magiche che voleva sentire Berlusconi: dimissioni irrevocabili. Non solo, ma correlando il sì ad una legge delega sulle pensioni al consenso dei Sindacati, che com’è noto non c’è, Dini ha praticamente negato al Polo delle libertà ogni certezza sulle elezioni anticipate. Fine dell’armistizio. La ‘guerra’ riprende e questa volta è totale. Tornano le parole grosse: Parlamento delegittimato, trasformismo, democrazia in pericolo, dittatura delle minoranze, complotto comunista e via dicendo. Il disegno è ormai evidente – afferma Berlusconi – prolungare il più possibile il 425


Una finestra sulla storia - 1995

‘Governo ribaltone’ per portare ad ogni costo le sinistre al potere. Siamo al centro di un complotto antidemocratico; si voterà solo quando i comunisti saranno sicuri di vincere. Non è un ritorno alla Prima Repubblica: è peggio. E’ peggio perché, caduta la Prima Repubblica, le elezioni politiche non sono più un’esercitazione per determinare i rapporti di forza all’interno di una coalizione ‘costretta’ a governare. Caduta la Prima Repubblica le elezioni politiche diventano un’occasione per passare dall’‘alternanza’ all’‘alternativa’. E se l’alternanza non ha mai impensierito il sistema economico e finanziario, i cosiddetti ‘poteri forti’ – dopotutto si trattava solo di un ‘avvicendamento’ sulle poltrone – l’alternativa spaventa. Spaventa a tal punto che in cinque mesi il ‘movimento’ di un ‘parvenue’ della politica, stravolge ogni previsione. Nel segreto delle urne l’elettorato italiano ha scelto di votare per ‘le forze della conservazione’, si diceva un tempo riferendosi ai partiti tradizionalmente al Governo. Ha scelto di votare per il Polo delle libertà non tanto e non solo per le promesse di Silvio Berlusconi, ma perché non era pronto ad accettare un Governo di sinistra. Il ‘tradimento’ di Bossi e la caduta del Cavaliere appena nove mesi dopo la sua elezione, riapre i giochi, riaccende la lotta politica, quella dura, vera, che ripropone l’Alternativa. Questa volta la sinistra non commette l’errore dell’anno prima. Il PDS ha capito che se vuole governare un Paese industrializzato, non basta rigenerarsi, definirsi ‘progressisti’ e cambiare nome. Ma deve dare prospettive al mondo imprenditoriale, agli investitori, ai mercati finanziari nazionali e internazionali che non vogliono più saperne di strategie e tattiche politiche. Perché ormai è chiaro che, pur nella diversità, è nella capacità di gestire le risorse economiche del Paese, nel dare sicurezza alla gente, nel migliorare lo stato sociale 426 che destra e sinistra si giocano tutto.

Così, questa volta, il PDS compie tre operazioni: ‘emargina’ il partito di Bertinotti; accetta di sostenere, in Parlamento, un Governo di transizione guidato dall’ex banchiere Lamberto Dini e nella prospettiva, questa volta più fattibile, di vincere le elezioni anticipate, candida alla presidenza del Consiglio il moderato Romano Prodi, un manager sensibile alle politiche sociali ma pur sempre ‘attento’ alle esigenze dell’imprenditoria e della finanza. Ma se il Professore con il suo Ulivo è la garanzia di equilibrio al centro, la polizza di assicurazione che la sinistra offre ai ‘poteri forti’ per dimostrare che la Quercia si avvia verso il superamento di vecchie logiche dirigiste e stataliste, il Governo Dini è la ‘cartina di tornasole’. In attesa di capire se con i voti della sinistra il Governo Dini supererà gli esami, la ‘commissione giudicatrice’, gli industriali, bloccano ogni iniziativa. E il Paese va a rotoli. Al ‘fermo’ degli investimenti pubblici e privati – non c’è una lira, il deficit pubblico, a gennaio, è arrivato ai due milioni di miliardi – si aggiungono le ‘tempeste’ monetarie internazionali che colpiscono la Borsa e la Lira ad ogni nube che si addensa sul Governo. Da gennaio a marzo il Marco passa da una quotazione di 1.055 lire a 1.290; il Dollaro da 1.100 a 1.770; per arginare l’indebolimento della Lira, la Banca d’Italia prima si svena poi aumenta dello 0,75 il tasso di sconto. Le continue flessioni della nostra moneta e l’aumento del tasso di sconto sono la miccia di una reazione a catena: diminuisce il potere di acquisto delle famiglie, aumenta il costo del denaro, torna a salire l’inflazione, il debito pubblico e riprende, rigoglioso, l’esodo dei capitali. Accade che la Lira debole produce un aumento delle esportazioni e le imprese, in attesa di capire come si acconcia il Governo di un banchiere sostenuto dagli ‘infidi’ leghisti e dai voti del PDS, si fanno pagare i proventi delle merci esportate su banche estere, preferibilmente in marchi.


La Banca d’Italia ha calcolato che l’ammontare dei pagamenti dell’export rimasti nelle banche d’Oltralpe, nel periodo ottobre ’94marzo ’95, ammontano a 12mila miliardi… le ricchezze perdute con la crisi monetaria di questi mesi – sostiene il ministro del Bilancio, Rainer Masera, alla vigilia del voto della manovra finanziaria aggiuntiva – equivalgono al doppio dell’intera manovra tanto contestata… se non diamo segnali di responsabilità e di governabilità, pur in un Governo di transizione, rischiamo di mettere a repentaglio la consistenza dei risparmi finanziari accumulati dalle famiglie italiane nella loro storia. E i segnali arrivano. Attraverso la nuova manovra economica; attraverso le norme per dare vitalità e dinamismo – leggi ‘flessibilità’ – al mercato del lavoro e attraverso un sensibile calo dei conflitti di lavoro: le tre organizzazioni sindacali hanno scelto di avere, con il Governo Dini, quella che chiamano ‘linea partecipativa della concertazione’. Detto più terra terra: il quieto vivere; segni di buona volontà in attesa di altrettanti segni quando si aprirà il confronto sulla riforma pensionistica. In soldoni, in questo 1995 gli scioperi diminuiscono del 76% rispetto al 1994.

La manovra finanziaria Il 15 marzo il Presidente del Consiglio interrompe l’ostruzionismo del Polo delle libertà e di Rifondazione e lancia un drammatico appello… la situazione di emergenza che stiamo affrontando esige che la manovra venga approvata nella sua interezza… non vi è chiesto – dice Dini rivolto ai deputati del Polo e di Rifondazione che hanno già annunciato il loro voto contrario – di aderire ad una maggioranza di Governo, ma di rendere un servizio al nostro Paese. Poi, riesumando una celebre frase di John F. Kennedy, continua… quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Perciò, domani, il Governo porrà il voto di fiducia. Il Polo berlusconiano esulta. Messo alle corde Dini ha lanciato la spugna poiché è

certo che l’indomani il suo Governo sarà battuto. A conti fatti, i voti contrari al Governo dovrebbero essere 327 a fronte dei 301 favorevoli… la fiducia chiesta da Dini è un atto liberatorio per tutti – sostiene Tatarella – siamo già in campagna elettorale. Ma in politica, affidarsi ai ‘numeri’ sulla carta è pura utopia. Infatti, la manovra finanziaria passa con 315 voti a favore del Governo e 309 contro: 16 deputati di Rifondazione hanno deciso di ignorare le direttive di Bertinotti ed hanno votato a favore del Governo sanzionando, così, la spaccatura che li porterà alla scissione.

La scissione dei Popolari Anche Buttiglione, l’11 marzo, è convinto di avere dalla sua parte la maggioranza del Consiglio nazionale del Partito Popolare quando sottopone la proposta di schierare il Partito con il Polo delle libertà alle prossime elezioni regionali. Ma la ‘sinistra’ del Partito che fu di Luigi Sturzo, si oppone: Buttiglione è sconfitto per 3 voti di scarto. La scissione nel Partito Popolare è inevitabile. Il 16 marzo, lo stesso giorno in cui Dini chiede la fiducia sulla manovra-bis, la ‘sinistra’ vincente dei Popolari, elegge un nuovo segretario: Gerardo Bianco. Buttiglione non si dimette e nella grande sede di Piazza del Gesù, lo storico Palazzo Cenci che ha visto i fasti della Democrazia Cristiana, prima si dividono stanze e suppellettili, poi comincia la battaglia legale per il simbolo, il nome e la proprietà. L’accordo è siglato il 16 giugno: patrimonio e debiti – più debiti che patrimonio – saranno divisi in parti uguali; alla ‘sinistra’, guidata da Gerardo Bianco andrà il nome ‘Popolari’ e l’antico quotidiano della DC, ‘Il Popolo’; a Buttiglione il simbolo, lo scudo crociato con la scritta ‘Libertas’, e il settimanale politico ‘La Discussione’. Gli uffici di entrambi i partiti restano a Piazza del Gesù. I due piani di Palazzo Cenci saranno resi indipendenti e agibili da due ingressi separati e gli ex DC vivranno, per qualche anno, da perfetti ‘separati in casa’. 427


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Rocco Buttiglione con il glorioso simbolo della DC.

Fino al 16 marzo, gli osservatori economici hanno sempre ritenuto che la costante caduta della moneta italiana e il continuo deprezzamento dei titoli di Borsa, erano causa diretta della instabilità politica. L’ultima spiaggia, si dice, è nel varo della manovra finanziaria-bis. Se non passa l’esame del Parlamento, la Lira crollerà ancora. Ma il 16 marzo, il Parlamento non solo vara la manovra-bis, ma offre un serio supporto di stabilità al Governo Dini. Eppure, venerdì 17 marzo, Lira e Borsa subiscono il più grave rovescio degli ultimi 10 anni. Nessuno sa con esattezza cos’è accaduto e perché. La Banca d’Italia parla di ‘bolla speculativa’; altri di ‘insider trading’ cioè divulgazione di informazioni riservate utilizzate da speculatori senza scrupoli; altri ancora suggeriscono ‘oscure manovre’ negli ambienti finanziari della Germania il cui Marco è schizzato a 1.280 lire. Quale che sia la verità… quello che è accaduto ieri 17 marzo – scrive la Gazzetta – è così grave che fa pensare alle vicende delle monete sudamericane. Una tempesta improvvisa e per certi versi imprevedibile ha portato la lira a perdere il 5% e più verso tutte le valute, comprese quelle in grosse difficoltà. Ma è veramente così drammatica la situa428 zione? Non proprio. Perché se la perdita di

valore della Lira è, in generale, un danno per l’economia nazionale, in particolare è una manna per il triangolo più industrializzato del Paese che aumenta produzione ed export a livelli del boom economico-industriale degli anni Sessanta. Già a fine gennaio la produzione industriale è del 7% in più rispetto all’anno precedente; il 29 marzo è salita al 12,3% e a maggio arriva addirittura al 18%. In soli 5 mesi, le aziende che producono macchine di precisione hanno avuto un balzo del 29% rispetto allo stesso periodo del ’94; il settore auto del 12%; le macchine per ufficio, gli apparecchi meccanici del 16%; gomme e materie plastiche del 12%; il settore della moda e dell’abbigliamento dell’11%. In soli 4 mesi, il fatturato industriale è cresciuto del 17% rispetto al ’94; gli ordinativi del 26%. Un terzo di tutta la produzione industriale italiana è richiesta dal mercato estero che, proprio a causa della svalutazione della nostra moneta, compra prodotti finiti dall’Italia a prezzi stracciati. Dove finisce tanta ricchezza? Una parte cospicua, s’è già detto, resta nelle banche d’Oltralpe; l’altra, torna nelle zone di produzione, cioè nel ‘triangolo industrializzato’ del Nord.

Ricchezza e povertà Eppure, il Paese, nel suo insieme, è alle pezze. Il dato generale è che l’Italia, con i suoi 6 milioni di individui che vivono al di sotto della soglia di povertà, è il Paese più povero della Comunità europea. Il dato reale è che nel Centro-Nord il reddito procapite è del 30% più alto che nel Mezzogiorno. Il dato generale è che il tasso di disoccupazione del Paese è del 12,1%, pari a 2 milioni e ottocentomila disoccupati, la media più alta di tutti gli altri Paesi della Comunità. Il dato reale è che al Nord la disoccupazione è al 7% a gennaio e vicino al tasso zero a dicembre; al Sud è stabilmente al 22%. Il dato generale è che fra disoccupati ‘puri’ e lavoratori in Cassa


integrazione ordinaria, straordinaria, speciale e in mobilità, il totale delle ‘braccia conserte’ è di 5 milioni e duecentomila addetti. E’ un’Italia che sembra florida come una ‘matrioska’, la simbolica bambola russa notoriamente cava, ma non vuota: la apri e ci trovi il magro Sud; apri il Sud e ci trovi un Sud ancora più magro. Nel Sud ‘magro’ c’è l’Abruzzo, il Molise e la Puglia. In quello più magro, quasi rachitico, c’è la Campania, la Calabria, la Basilicata e la Sicilia. Fare una graduatoria di chi sta peggio fra le quattro regioni anzidette è difficile. Ma la Basilicata, per esempio, è passata da una prospettiva di sviluppo che la indicava come la ‘California del Sud’ ad una condizione di emarginazione economica e sociale paragonabile ad una regione da Terzo Mondo. In un biennio, la piccola regione meridionale è passata da ‘regione modello’ a regione disastrata; da terra di grandi risorse a terra di fallimenti; da zona pilota ad area di crisi. L’unica ‘azienda’ in crescita è la criminalità. Lodata dalla Comunità europea per la capacità gestionale e amministrativa nell’utilizzo delle risorse comunitarie; indicata dal Governo Amato come esempio da imitare per le opportunità che la Giunta regionale offriva all’iniziativa privata, quando migliaia di piccoli imprenditori si svenano per avviare progetti approvati dalla legge 64 – Intervento straordinario – i contributi dello Stato si bloccano. La legge 64 non funziona, le procedure per l’assegnazione dei contributi sono complesse e, comunque, le casse dello Stato sono vuote. Per duemila piccoli imprenditori è il fallimento. Se non ci fosse la FIAT e il comparto del mobile, l’intera regione potrebbe chiudere i battenti. Anzi, peggio: potrebbe diventare la più grande discarica inquinante abusiva del Paese. E’ una regione che ‘non conta’, una regione così lontana e insignificante che perfino lo Stato può consentirsi di trattarla come un sito per lo smaltimento di rifiuti inquinanti.

In una regione in cui le strade ferrate sono un optional, le Ferrovie dello Stato riescono a farvi arrivare e parcheggiare decine e decine di carri ferroviari imbottiti del micidiale amianto. Cos’è accaduto dunque in Basilicata per subire un così radicale cambiamento? Nulla di diverso che non sia accaduto nel resto del Paese: corruzione, arresti, crisi economica e politica, blocco dei finanziamenti pubblici e privati e stasi amministrativa in attesa che passi l’uragano Tangentopoli. La differenza nella capacità di ripresa fra le diverse regioni, è tutta nelle basi di partenza. Le regioni con solide basi economiche e produttive, sopravvivono e si riprendono – come sta accadendo nel ‘triangolo industriale’ – quelle con un’economia debole, collassano. L’escalation della disoccupazione, in questa martoriata regione, è impressionante: 55mila nel ’92; 86mila nel ’93; 95mila nel ’94 e ben 108.305 quest’anno. L’Ufficio regionale del lavoro denuncia che al Collocamento provinciale di Potenza sono iscritti 72.269 lavoratori disoccupati; in quello di Matera gli iscritti sono 32.626. A questi vanno aggiunti migliaia di altri lavoratori che non sono mai stati in un Ufficio di Collocamento. In pratica, il 26% della popolazione attiva della Basilicata è senza lavoro… una situazione che nel complesso non conosce arresto – scrive Andrea Lauria dalla redazione della Gazzetta di Potenza – e diventa di giorno in giorno sempre più insostenibile. Soprattutto nelle aree più interne dove si raggiungono percentuali di disoccupazione pari al 50% e dove il lavoro è ormai un miraggio. Se la Basilicata, dunque, non è più sul punto di essere la ‘California del Sud’, la Puglia non è più la Lombardia del Mezzogiorno e Bari è men che mai la Milano del Meridione.

Bari come Milano Accomunati dalle stesse vicende che hanno travolto l’intero sistema politico e imprenditoriale del Paese, Milano e la Lombardia stanno 429


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recuperando rapidamente; Bari e la Puglia sono ancora in discesa libera. La discesa del capoluogo lombardo è iniziata nel ’92 con Tangentopoli; la discesa del capoluogo pugliese è iniziata nel ’91, con l’incendio del Teatro Petruzzelli, e non accenna ad arrestarsi. Per cinque anni, l’Amministrazione regionale e quella del Comune di Bari – ma le altre quattro città capoluogo di provincia di Puglia non sono state da meno – hanno fatto una sorta di gara allo sfascio, tanto da fare, della Puglia, la Regione più indebitata di tutte le regioni d’Italia. Centinaia di amministratori, apparentemente intenti a fare gli interessi della comunità, in sostanza hanno sempre difeso, con le unghie e con i denti, il loro orticello, i loro privilegi, i loro interessi di partito, di correnti e personali. L’Amministrazione comunale di Bari è stata capace di eleggere 5 sindaci in cinque anni. L’ultimo, Giovanni Memola, implicato nella vicenda delle Case di Cura Riunite – come scriviamo nel capitolo precedente – è arrestato mentre è in carica e poi assolto dall’accusa di corruzione. Stessa solfa alla Regione: ha eletto 5 presidenti di Giunta in cinque anni con l’aggravio di frequenti e pesanti interventi della Magistratura. Fra prima, durante e dopo la ‘discesa’ di Tangentopoli in Puglia, sono finiti in carcere, o ai domiciliari, un numero indefinito di assessori, consiglieri e funzionari insieme ad un presidente di Giunta e un vice. Una strage. E ciò non di meno, a gennaio di quest’anno, cioè a tre mesi dalle elezioni regionali, è già pronta una nuova crisi: popolari e pidiessini, che alle amministrative di novembre del ’94 hanno corso insieme e vinto, vorrebbero inaugurare, alla Regione Puglia, il ‘nuovo corso’ politico nazionale con un nuovo Governo regionale composto unicamente dal Partito Popolare e dal PDS. Il proposito sfuma perché all’ultimo momento Buttiglione decide che, alle ormai imminenti elezioni regionali, il PPI – o meglio quel che resta al ‘filosofo’ del PPI 430 – correrà col Polo del Cavaliere.

In sintesi, ecco come si presenta la città di Bari alla vigilia delle nuove elezioni amministrative. Distrutto il Teatro Petruzzelli, l’ultimo contenitore culturale e simbolo mondiale della città; non funzionano, per usare un eufemismo, le istituzioni locali; non funzionano i servizi pubblici; langue il commercio, l’industria e l’iniziativa privata; crolla l’occupazione, aumenta la micro e la macro criminalità – quei pochi turisti che arrivano a Bari sono costretti a visitare la città vecchia scortati dalla polizia per la piaga degli scippi – crolla il più florido comparto sanitario privato d’Italia – le Case di Cura Riunite – perde di credibilità l’ultracentenario quotidiano di Puglia e Basilicata per l’arresto del suo direttore, Franco Russo, accusato e poi assolto dall’imputazione di corruzione; arrestato il Sindaco in carica e, quando si comincia a parlare e a protestare per i carri ferroviari imbottiti d’amianto che le Ferrovie dello Stato parcheggiano nelle nostre stazioni – soltanto in Campania ce ne sono 310, sostengono gli ambientalisti di Greenpeace, e almeno altrettanti sono sparsi in Puglia e Basilicata – si scopre che Bari ha, in casa propria, nel popoloso rione Japigia, una vera e propria bomba ecologica nella Fibronit, una grande fabbrica piemontese di manufatti in fibrocemento che utilizzava fibre di amianto per la produzione di tubi e tegole. Chiusa in fretta e furia nel 1985, la Fibronit ha lasciato, nel grande capannone abbandonato, tonnellate di tubi all’amianto senza che nessuno si sia mai preoccupato di bonificarlo. Ecco dunque il ‘quadro’ di Bari e della industriosa Puglia. Certo, ci sono carenze che vengono da lontano, ma ci sono anche… incrostazioni nelle istituzioni locali da ripulire – scrive Giuseppe Gorjux – da decenni in balia del clientelismo, di strutture burocratiche spesso infingarde, spesso incompetenti, spesso corrotte, comunque viziate da grandi e cronicizzati vuoti di efficienza salvo oasi di eccezione. In breve, una classe politica e amministrativa lontana


dalle esigenze della gente e del territorio, che si traduce in un disastro socio-economico senza precedenti. E la Puglia conta, al 30 giugno di questo disgraziato anno, 522.113 disoccupati così distribuiti: 181.752 nella provincia di Bari; 112.992 nel Leccese; 98.055 in Capitanata; 66.383 nella provincia di Taranto e 62.931 nella provincia di Brindisi. Bari è, dopo Napoli e Palermo, la città con il maggior numero di disoccupati; Bari è, su un campione di 95 città, al 94.mo posto per qualità della vita. Fanalino di coda per quantità di affari, carenza di lavoro, servizi, ambiente e ordine pubblico. Bari è la città che si indigna quando quotidiani nazionali – Stampa e Corriere della Sera – pubblicano pagine intere di cittadini piemontesi e lombardi scippati in pieno centro; Bari è la città che nel gennaio del ’92 ha avuto in consegna il più grande centro direzionale dell’ASI di Puglia – Area di Sviluppo Industriale – costruito con denaro pubblico e lo ha abbandonato ai vandali che in due anni hanno portato via, comodamente, condizionatori d’aria, porte, finestre, sanitari e perfino ringhiere; Bari è la città in cui quattro famiglie malavitose si sono praticamente assicurate il controllo di altrettanti quartieri popolari – San Paolo, Japigia, Enziteto e la città vecchia – costituendo addirittura una rete di ‘servizi di sicurezza’ per proteggere traffici illeciti e territorio da concorrenti e, naturalmente, dalle forze di polizia. Bari è, dopo Napoli e Palermo, la città con il maggior numero di morti ammazzati; Bari è la città che finisce su ‘Smemoranda’ – un diario per ragazzi a diffusione nazionale – che sulla pagina del 10 marzo ’96 scrive: se il mondo fa schifo, figuriamoci Bari. Bari sta diventando un mito oscuro – scrive Oscar Iarussi il 31 agosto sulla Gazzetta – se giri un po’ l’Italia e l’Europa, t’accorgi che Bari rischia di diventare sinonimo di scippi e aggressioni. Dobbiamo rassegnarci? No… Bari è bella, ha detto il nuovo sindaco

Simeone Di Cagno Abbrescia. D’accordo, è bella. Ma la bellezza non basta al futuro di questa città se non suffragato da un progetto… da un ‘patto’ fra imprenditori locali e pubblica amministrazione, un patto fra ‘volenterosi’… un patto che non è detto funzioni, ma che produce intanto una cosa importantissima, mai iscritta finora nei bilanci burocratici o nelle promesse elettorali: produce identità, senso di appartenenza alla propria città, desiderio di riscatto, promessa di futuro… certezza di diritti e doveri, capacità dei cittadini di recuperare fiducia in se stessi, felicità di vivere qui ed ora. E’ questa la sfida che attende Bari e che la città, la sua egemone borghesia troppo spesso apatica, i suoi intellettuali eburnei ma inerti, devono raccogliere. Sarebbe ora di passare dal mito oscuro alla storia. Quando Iarussi scrive questa ‘provocazione’ – che pochi mesi prima nessuno avrebbe raccolto tanto era profondo il senso di rassegnazione e impotenza dei cittadini di fronte ad una minoranza arrogante – la città, i ‘volenterosi’, reagiscono come chi, senza ragione, prima si vede scaraventare addosso un secchio d’acqua gelida e poi schiaffeggiato. Di colpo, orgoglio, identità, senso di appartenenza e riscatto, diventano patrimonio da salvaguardare; di colpo, ci si accorge che il vento è cambiato e che, grazie a Tangentopoli e al nuovo sistema elettorale amministrativo, alcuni ‘volenterosi’, accomunati dallo stesso amore per Bari, scendono in campo. La ‘provocazione’ di Iarussi è raccolta da una valanga di contributi fra professionisti, intellettuali, imprenditori, commercianti e semplici cittadini. E allora il Sindaco insiste: attenzione – scrive Di Cagno Abbrescia – lo slogan ‘Bari è bella’ non è un richiamo all’estetica. E’ un tentativo di fare appello ai baresi affinché comincino seriamente ad amare questa città. E’ un modo di immaginare come Bari potrebbe essere se si instaura un circuito virtuoso di rinascita. E dunque chiedo, ai giovani baresi che Oscar Iarussi ha chiamato in causa, di restare qui, in trincea, a combattere 431



per una Bari più bella. Dico a tutti i cittadini ‘volenterosi’ che la città gli appartiene e che non possiamo fare a meno di loro per reggere la sfida… senza un ‘patto’ con i cittadini, i ceti produttivi, i volenterosi e i politici, Bari non si farà mai bella. Ma Bari, la Puglia, il Mezzogiorno non hanno ancora raggiunto il fondo del pozzo. Perché se l’Italia economica, sociale e geografica non è mai stata né quella di Garibaldi né quella di Pasquale Saraceno – tanto per citare due personaggi che non erano neppure meridionali – ancora meno lo è oggi che c’è in giro un personaggio come Umberto Bossi che, attraverso il federalismo, mira ad introdurre il separatismo economico e sociale, godendo delle ‘attenzioni’ della destra, della sinistra e delle grandi imprese settentrionali che, con l’alibi di sventare la minaccia leghista, chiedono mobilità, flessibilità e gabbie salariali. Qui non siamo più di fronte ad una ‘normale’ e secolare diversità territoriale – scrive la Gazzetta – qui siamo di fronte ad una vera e propria ‘esclusione sociale’… siamo di fronte ad un esercito di senza lavoro che nessuna ripresa sembra frenare, un’emorragia che il Sud paga ad un prezzo sempre più alto. La disparità produttiva, occupazionale ed economica fra Nord e Sud è così sproporzionata che il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, suggerisce di… rallentare la crescita del Nord e destinare parte degli investimenti al Sud… diversamente, il Mezzogiorno rischia di sprofondare nel Mediterraneo. La tesi opposta, invece, è quella di sempre: il Sud cresce solo se cresce il Nord. Il 30 marzo, il presidente della Confindustria, Luigi Abete, intervenendo in un convegno dell’Associazione industriale, afferma che… gli imprenditori non sono restii ad investire nel Mezzogiorno, a condizione però che ognuno faccia la sua parte: lo Stato colmando la secolare carenza infrastrutturale; il Sindacato concedendo flessibilità e salari più bassi; le banche contenendo il costo del denaro che al Sud è di 3-4 punti più alto che al

Nord. Discorso vecchio. Tanto quanto è vecchia la ‘Questione meridionale’. Il giorno dopo, Gianni Agnelli gli dà man forte… in un Paese in cui un giovane su 3 non trova lavoro, non solo viene meno ad un suo preciso dovere civile – afferma il Presidente della FIAT – ma compie uno spreco assurdo di energie… bisogna accrescere la flessibilità e adottare tutta la gamma di stimoli possibili, compreso la riduzione del costo del lavoro poiché un livello di disoccupazione pari al 21% nel Mezzogiorno, è assurdo. Solo a queste condizioni – conclude Agnelli – la creazione di nuovi posti di lavoro nel Sud, non è né un miraggio né un sogno. Indignazione e condizioni. Una mano dà e l’altra prende. L’Avvocato sa come si fa. Per aprire il nuovo stabilimento a San Nicola di Melfi, in Basilicata, la FIAT ha chiesto e ottenuto ingenti contributi dello Stato a fondo perduto, infrastrutture a spese della Regione, terreni a prezzi stracciati e un accordo sindacale che stabilisce, per i 6.000 dipendenti di Melfi, salari più bassi del 20% rispetto a tutti gli altri dipendenti del gruppo. E non di meno, la condizione goduta dalla FIAT nel ’93 in Basilicata oggi non basta più. Senza una diversa ‘filosofia’ del lavoro, senza ‘flessibilità’, ‘mobilità’ e salari più bassi, non se ne fa niente: il Sud dovrà rimanere a rimorchio del Nord. Il gioco, insomma, s’è fatto duro e il Governo tecnico di Dini scende in campo. Il primo marzo, il ministro del Bilancio, Rainer Masera, annuncia in Parlamento che la Commissione europea ha recepito la richiesta italiana di erogare contributi per 32mila miliardi finalizzati allo sviluppo delle aree depresse del Paese per il quinquennio ’95-’99. Ma quello che Masera non dice in Parlamento è che a Bruxelles hanno posto all’Italia due condizioni per sborsare quei quattrini: il cofinanziamento dello Stato e la conseguente verifica della copertura economica. Pena l’annullamento dei contributi o la restituzione in caso di anticipazioni. Fra l’Italia e Bruxelles, infatti, c’è un 433


Una finestra sulla storia - 1995

grosso contenzioso: la Comunità europea ha chiesto all’Italia la restituzione dei fondi erogati, sia alla Cassa per il Mezzogiorno che alla successiva legge 64 – Intervento straordinario – per progetti e interventi il cui cofinanziamento dello Stato non è mai stato erogato. Urge, dunque, la conversione in legge del decreto – Intervento, questa volta ‘ordinario’ – a favore del Mezzogiorno e delle aree depresse che destinava al Sud la favolosa cifra di 65mila miliardi per il quinquennio ’94-’98. E, incredibile ma vero, il fantomatico decreto per l’Intervento ordinario, approvato nel ’94, è stato reiterato per ben 11 volte. Dopo l’accordo con Bruxelles, non c’è più tempo da perdere. Il 2 marzo il decreto è ripresentato alla Commissione speciale per le politiche comunitarie di Montecitorio… e lì rimane per altri 6 mesi. Il 16 marzo, intanto, con l’approvazione della manovra-bis, vengono stanziati 3mila miliardi a sostegno dell’economia nelle aree depresse. Il 19 aprile il Consiglio dei ministri vara un decreto che accelera le procedure per sbloccare 20mila miliardi già stanziati nella defunta legge 64; l’8 maggio, Governo e Sindacati siglano la riforma delle pensioni; il 9 giugno, il Consiglio dei ministri vara le nuove norme per il lavoro, il noto ‘pacchetto’ del ministro del Lavoro, Tiziano Treu, il quale vanta di… aver rimesso in moto il Sud… nel senso che il precariato da malattia stagionale diventa cronica. Così, fra un decreto e l’altro, fra un provvedimento e l’altro, il 23 aprile 43 milioni di italiani tornano alle urne per il rinnovo dei governi regionali e delle amministrazioni comunali e provinciali. Improvvisamente, sarà perché i dati sull’occupazione nel Sud sono veramente drammatici, sarà perché una nuova classe imprenditoriale e politica sta già pensando a come mettere le mani su quel fiume di denaro, improvvisamente il Mezzogiorno diventa… una priorità assoluta e permanente. Improv434 visamente tutti, da Fini a Buttiglione, da Segni

a Prodi, da D’Alema a Bertinotti, fino a Pannella, che addirittura si candida alla presidenza della Giunta regionale pugliese, improvvisamente, tutti vogliono… ripartire dal Sud. Perfino il Sindacato ha deciso di celebrare a Brindisi la manifestazione nazionale del Primo Maggio… per celebrare la festa del lavoro che non c’è – scrive Lino Patruno – e speriamo che Governo, Sindacati e Imprenditori se ne ricordino, altrimenti sarà stata una bella gita in una terra ospitale. Ma quando mai. Tre mesi dopo, Clemente Mastella, già ministro del Lavoro nel Governo Berlusconi, lancia un drammatico appello… il Meridione è a rischio ‘insurrezione’… è necessario un ‘piano Marshall’ – il generale americano che nel ’47 offrì a De Gasperi un fiume di dollari a condizione di sbarcare i comunisti dal suo Governo – un piano straordinario – continua Mastella – per l’occupazione, interventi sul costo del lavoro e del denaro. Altrimenti il Mezzogiorno rischia la bancarotta. Mastella è tacciato di ‘protagonismo estivo’ e di eccessivo allarmismo. Ma tra il primo e il 3 agosto, la Camera prima e il Senato poi, trasformano in legge il famoso decreto 244 che assegna 65mila miliardi per l’Intervento ordinario nel Sud e nelle zone depresse per il quinquennio ’94-’98.

Un mare di soldi Così, facendo un po’ di conti sulle dita, ecco quanto dovrebbero incamerare il Sud e le zone depresse, in un quinquennio: 32mila miliardi dalla Comunità europea; 3mila miliardi, praticamente sull’unghia, dalla manovra-bis di marzo; 20mila miliardi di ‘arretrati’ e 65mila miliardi di nuovi finanziamenti. Totale: 120mila miliardi dei quali, 23mila dovrebbero essere disponibili da un giorno all’altro. Il primo a non credere che a breve pioverà sul Mezzogiorno tutta quella grazia di Dio, è il prof. Francesco Tagliamonte, ex direttore della defunta Cassa per il Mezzogiorno e massimo esperto per gli interventi comunitari e na-


I segretari nazionali della Uil, Cisl e Cgil - Larizza, D’Antoni e Cofferati - alla festa del 1° Maggio a Brindisi.

zionali nel Sud. Già all’indomani del decreto che accelerava le procedure per sbloccare i 20mila miliardi di arretrati della legge 64, il professore aveva scritto: Non c’è dubbio che il riordino della disciplina dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno va, sul piano teorico, nella direzione giusta… ma sul fronte della concreta operatività riuscirà il Governo Dini a corrispondere alle legittime attese dei meridionali? E lui stesso commenta: Aspetta e spera! Tanto per cominciare, dei 3mila miliardi stanziati a marzo nella manovra-bis, nessuno mai ne parlerà più. Neppure la Gazzetta, che pure è sempre attentissima e puntuale a registrare queste cose, ne darà notizia: niente, dispersi, svaniti nel nulla. Il decreto dei 20mila miliardi di arretrati, invece, che dopo 60 giorni scade se non tramutato in legge, sarà reiterato a giugno e il 27 luglio, lo stesso giorno che il Governo diserta la conferenza programmatica con la Regione Puglia per impegni parlamentari, la Camera non ha avuto il tempo di votarlo: era stato inserito al sesto posto dell’ordine del giorno e, si sa, i nostri deputati sono abituati a fare le cose per benino: più di un ordine del giorno per volta, onestamente, non si può discutere e votare. Diciamo la verità – scrive De Tomaso – a leggere certi annunci sembrerebbe che ogni giorno scenda sul Sud una pioggia di soldi… a chiacchiere. E’ solo effetto annuncio.

Abbiate pazienza – replica Tiziano Treu – la macchina fa fatica a mettersi in moto perché per molto tempo è stata ferma… siamo passati dalla logica dell’Intervento straordinario a quella dell’Intervento ordinario, per forza di cose più lento. Allora vediamo. Se con l’Intervento straordinario l’accordo di programma fra la Basilicata e lo Stato, firmato nel 1987, ha ottenuto il via libera il 15 settembre di quest’anno – appena 8 anni dopo – quanto ci vorrà con l’Intervento ordinario per realizzare l’accordo di programma fra lo Stato e la Regione Puglia? Troppi adempimenti, troppe scartoffie, troppa burocrazia e soprattutto leggi troppo complicate… prima che gli investimenti produttivi beneficino delle agevolazioni promesse – scrive ancora Tagliamonte – occorreranno una serie di atti che il Governo e le Amministrazioni locali potrebbero, per ragioni diverse, compreso le crisi e i risvolti elettorali, non adottare o rendere difficilmente applicabili. Inoltre, nella legge 244, che assegna alle zone depresse i 65mila miliardi, è inserito uno strumento nuovo: la ‘cabina di regia’ che, a detta dei tecnici, dovrebbe promuovere, coordinare, monitorare e correggere le azioni programmate, allo scopo di facilitare il cofinanziamento dei fondi strutturali. Ma molte Regioni non la pensano allo stesso modo. Temono che la ‘cabina di regia’ possa sostituirsi ad esse nella fase progettuale, temono che diventi un altro filtro burocratico. Intanto, il 7 agosto – fra l’allarme ‘insurrezione’ lanciato da Mastella, il peggiorare dei dati sull’occupazione e le vibrate proteste della Regione Puglia al Governo che ha disertato il tavolo della trattativa del 27 luglio – il 7 agosto si precipitano a Bari quattro ministri: Treu, Masera, Luchetti e Clò titolari, rispettivamente, del Dicastero del Lavoro, Bilancio, Risorse agricole e alimentari e Industria. Quattro ministri per chiedere, in sostanza, di aggiornare la Conferenza Stato-Regione a settembre senza mancare di puntualizzare quattro cose: sono ingiustificati gli allarmismi su peri- 435



coli di ‘rivolta’ nel Mezzogiorno; non c’è un problema di risorse, ma di deficit progettuale della Regione; prendiamo atto che la Regione Puglia, al pari di altre Regioni meridionali, è contraria alla ‘cabina di regia’ e tuttavia, ora come ora, non c’è una lira. Il 9 agosto, il meridionalista Vittore Fiore scrive… ho avuto la fortuna di trovarmi testimone di questa contingenza. Per quanta esperienza abbia accumulato, non ero mai arrivato a immaginare che in poco meno di un’ora si sarebbero concentrate, nella sala consiliare della Regione Puglia, tutte le contraddizioni che ci affliggono, bruciando in una sola volta e relegandole nel regno dell’utopia o dell’ingenuità, se non della follia, tutte le speranze di cambiare musica. Non c’è una lira, hanno detto. Come parlare allora del futuro produttivo e civile della Puglia? E comunque – scrive ancora Fiore – noi dobbiamo crederci. La legge c’è, i fondi – se non immediatamente disponibili – ci sono. Ma noi ci siamo? Siamo in grado cioè di dar vita a strumenti che ci consentono di utilizzare le risorse messe a disposizione dall’Unione europea? Saremo capaci, finalmente, di colmare il deficit progettuale e programmatico degli Enti locali? La domanda che pone Vittore Fiore non è retorica. E’ il cuore del problema. Da anni il CIPE – Comitato interministeriale per la programmazione economica – revoca a decine di Amministrazioni locali, finanziamenti per centinaia di miliardi. In una nota della Corte dei Conti si fa rilevare che il 68% delle convenzioni stipulate dalla ex Agensud e sottoposte a verifica dai nuclei ispettivi del Ministero del Bilancio, sono irregolari. E la Puglia risulta fra le Regioni più censurate per superficialità e inefficienza. Dunque non è casuale la denuncia del ministro Masera sul ‘deficit progettuale’ delle Regioni. E’ una chiamata di correità. Come dire: il Governo non ha né la voglia né la possibilità di tirare fuori tutti quei soldini, ma gli Enti locali, le Regioni, non è che facciano salti mortali per ottenerli. Insomma, qualcuno, da qualche parte,

bara: se soldi non ce ne sono è normale che i nuclei ispettivi del Ministero del Bilancio boccino il 68% delle convenzioni e dei progetti. Ci sono due banche, nel Mezzogiorno, che non chiudono mai i battenti. Una è quella delle promesse, l’altra è quella dei sogni. E il Presidente del Consiglio Lamberto Dini, inaugurando a Bari la Fiera del Levante, alimenta entrambe. Dal 1993 non è stato finanziato un solo progetto, una sola opera pubblica e quelli finanziati sono stati bloccati dall’uragano Tangentopoli. Dal 1993 al Sud non arriva un centesimo, né si sa quando si potrà cominciare a disporre dei fondi bloccati dell’Intervento straordinario e di quelli stanziati ad agosto dall’Intervento ordinario. E cosa dice il Presidente del Consiglio inaugurando la Fiera? Annuncia che nella Finanziaria del 1996 ha previsto un finanziamento ‘aggiuntivo’ di 11mila miliardi di incentivi da destinare alle aziende del Sud per il triennio ’96-’98. Tanto a lui che gli costa, ha già detto che dopo il varo della Finanziaria si dimette. Altro giro altra corsa, dice il ‘giostraro’ alle fiere paesane. Più il Sud ‘grida’ di voler uscire dalla vecchia logica assistenziale e clientelare, più il Mezzogiorno chiede parità di trattamento infrastrutturale con il resto del Paese, e più è trattato da parente povero: prendete questi per adesso, poi vediamo. A che servono gli incentivi alle aziende se poi i loro prodotti non riescono ad arrivare sui mercati per carenza di strade, ferrovie, comunicazioni e collegamenti aerei e navali? A che serve produrre se non si riesce ad essere competitivi? Le soluzioni a disposizione sono due – scrive Marcello Veneziani sulla Gazzetta il 14 novembre – modernizzare o colonizzare. O si disegna una via meridionale alla modernizzazione, attingendo a risorse creative, patrimoni storici e naturali che indubbiamente esistono, oppure si consegna il Mezzogiorno ad una vita coloniale aspettando che dal Nord, anzi dal Nord Europa, scendano benéfici barbari o 437


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nuovi svevi e normanni ad occupare il balcone affacciato sul Mediterraneo… se l’Italia è davvero un’infelice due-pezzi, se la forbice tra disagio pubblico e benessere privato dovesse ulteriormente divaricarsi, allora c’è da aspettarsi che dopo l’esplosione del pezzo di sopra nei primi anni Novanta, possa seguire l’esplosione del pezzo di sotto nella seconda metà di questo decennio. Per fortuna, il pessimismo di Veneziani, che pure è pugliese, non è un sentimento diffuso nel popolo meridionale afflitto, da sempre, da due malattie contrastanti: speranza e scetticismo. Non è un caso che la massima abilità dei governi nazionali, dall’Unità ai giorni nostri, è sempre stata la capacità di alimentare, nel Sud, le speranze. E’ per infondere la cultura della speranza che nasce la ‘Questione Meridionale’, la Cassa per il Mezzogiorno, l’Intervento straordinario, ordinario e i finanziamenti ‘aggiuntivi’. E’ per alimentare la speranza che il 20 settembre di quest’anno il direttore generale del Ministero dell’Industria annuncia di aver disposto il pagamento degli ‘incentivi’ a 5mila delle 22mila aziende meridionali che hanno ottenuto contributi per nuovi investimenti dell’abrogata legge 64. Peccato che, nel frattempo, la gran parte di quelle aziende sono fallite. Ed è ancora per alimentare la speranza che il 18 dicembre viene siglato a Roma l’accordo di programma fra lo Stato e la Regione Puglia che prevede finanziamenti per 6mila miliardi. L’intesa sarà sottoscritta entro la fine di febbraio ’96, dirà soddisfatto, ai giornalisti, il nuovo presidente della Giunta regionale, Salvatore Distaso. Presidente, gli chiedono, che succede se il Governo Dini si dimette? Eh no – ribatte Distaso – è finito, finalmente, il gioco delle tre carte. Soldi che in passato apparivano e sparivano, impegni annunciati da vari organismi e non mantenuti. Oggi abbiamo una certezza: la Puglia avrà a che fare con un solo interlocutore, cioè lo Stato. Le premesse per ottenere quei finanzia438

menti ci sono – commenta Michele Cozzi sulla Gazzetta – ma la fase più difficile sarà quella dell’attuazione. C’è un nemico ‘invisibile’ contro il quale, in passato, sono naufragate tante illusioni: la macchina burocratica, la tortuosità delle procedure, la ‘resistenza’ di organismi obsoleti. I lacci e lacciuoli di vecchia memoria. Ma forse, questa volta, l’atavico scetticismo meridionale è destinato ad essere smentito… faremo una legge che sbloccherà i lavori nel Sud – assicura il giovane ministro della Funzione pubblica e Affari regionali, Franco Frattini, al giornalista della Gazzetta Domenico Castellaneta – sarà un provvedimento ‘rivoluzionario’ mirato a dare procedure più semplici, a snellire le autorizzazioni creando corsie preferenziali, che consentirà di sbloccare lavori per migliaia e migliaia di miliardi… un provvedimento sicuramente destinato a fare un po’ di storia del nostro Paese – aggiunge Frattini che si è già fatto la fama di ministro ammazza-burocrati – perché se la pigrizia, l’inerzia e l’indifferenza degli Enti locali continuerà, lo Stato avocherà l’esecuzione delle opere. Poco più di un mese dopo questa dichiarazione d’intenti, il Governo Dini si dimette e del ‘provvedimento rivoluzionario’ di Frattini non si parlerà mai più. Tutto come prima, dunque, anche in questo 1995. E intanto, in attesa di tempi migliori, dalla Basilicata e dalla Puglia, migliaia di giovani – diplomati, laureati e semplici operai – partono, non più con la valigia di cartone, ma con zaini e trolley, per il Nord o per la più vicina Emilia Romagna ‘assetata’ di mano d’opera, di braccia non specializzate. Chi resta dovrà accontentarsi delle nuove forme di lavoro del ‘pacchetto Treu’ che, pensato per far emergere il sommerso, diventa un sistema di lavoro precario, legale e aggiuntivo, al lavoro nero. Aboliti gli uffici di collocamento, nascono agenzie private che forniscono lavoratori, anche ad ore, ‘chiavi in mano’. Si chiama lavoro in affitto. Funziona come un autonoleg-


gio. L’imprenditore che necessita di un prestatore d’opera chiede e paga la prestazione direttamente all’Agenzia che a sua volta retribuisce il lavoratore e provvede al versamento degli oneri contributivi e assicurativi. Poi ci sono i contratti per lavori stagionali – a termine – contratti per lavorare solo il sabato e la domenica – contratti week end – e perfino il job-sharing, cioè due lavoratori che si dividono lavoro e retribuzione. Infine, c’è il metalmeccanico che, scaduta la Cassa integrazione, gli viene offerto un lavoro ‘socialmente utile’: assistere anziani, diserbare giardini pubblici, pulire spiagge e, di straforo, anche qualche villa privata. Se dunque, in generale, per il terzo anno consecutivo, è buio a Mezzogiorno, alla Gazzetta è notte fonda.

La ‘notte’ della Gazzetta Come una regione a sud del Sud, l’ultracentenario quotidiano pugliese subisce, in tre anni, tre crisi: la prima è dovuta alla crisi nazionale dell’Editoria; la seconda è societaria, l’ultima, la più devastante, è di immagine. Quest’anno la Gazzetta è seriamente danneggiata nel suo valore più alto: la credibilità. La crisi nazionale dell’Editoria, in particolare della carta stampata, porta due date distinte: 1° gennaio 1988 – cessazione del regime ‘amministrato’ del prezzo di vendita dei quotidiani – e 1° gennaio 1993: entrata in vigore della legge Mammì, la legge per il riordino del sistema radiotelevisivo nazionale. Con la liberalizzazione del prezzo di vendita dei giornali, lo Stato cessa di erogare all’editoria nazionale contributi sul costo della carta e agevolazioni varie, dalle tariffe postali a quelle fiscali. Negli anni Ottanta la stampa quotidiana stava vivendo il suo momento magico: era stata sfondata la soglia di 5 milioni di copie vendute al giorno, sino ad oltrepassare i 6 milioni e, dunque, quelle ‘provvidenze all’Editoria’ – introdotte decenni prima per garantire il diritto all’informazione, sancito

Con i ‘gadget’ le edicole diventano bazar dove la vendita di un quotidiano è un optional.

dalla Costituzione – divennero, per molti quotidiani, una fonte di ricchezza aggiuntiva. Tuttavia, la liberalizzazione del prezzo dei giornali, ancorché voluta dagli Editori, pose subito, alla Federazione degli Editori, un problema serio: c’erano, è vero, grandi gruppi editoriali che producevano sostanziosi profitti, ma c’erano anche molti quotidiani, regionali, provinciali e la cosiddetta stampa di partito, che a malapena riuscivano a chiudere i bilanci in pareggio. Cosa sarebbe accaduto, dunque, a quegli Editori ‘meno ricchi’ se si fosse scatenata una guerra al ribasso del prezzo di vendita dei giornali? La decisione della Federazione degli Editori fu salomonica: il prezzo di vendita dei quotidiani sarebbe rimasto uguale per tutti, ma ogni ‘testata’ era libera di adottare forme di concorrenza, attraverso nuove iniziative editoriali, a seconda delle proprie capacità produttive e finanziarie. Comincia così la caccia al Lettore. Prima attraverso inserti settimanali, bisettimanali e ‘magazine’ illustrati, questi ultimi con un pic- 439


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colo sovrapprezzo, poi con i ‘gadget’, piccole cose di basso costo sfornate dalle industrie tecnologiche come calcolatori solari, musicassette, dizionari tascabili, ricettari e perfino accendini. In breve, la gamma delle ‘offerte’ divenne così vasta che ben presto si trasformò in un mercato aggiuntivo al giornale. Era la ‘guerra dei gadget’ denunciata, proprio quest’anno, dallo stesso quotidiano che l’aveva introdotta: la Repubblica di Eugenio Scalfari. Nonostante la ‘guerra dei gadget’, tutti i quotidiani riuscirono a conservare la loro quota di mercato, poiché nel frattempo l’industria della carta stampata era stata massicciamente investita dalle nuove tecnologie, una ‘rivoluzione’ nel modo e nella qualità della produzione: consentiva di raddoppiare e spesso triplicare la foliazione dei giornali offrendo al Lettore più informazione, agli inserzionisti pagine di pubblicità a colori. Ma ugualmente non bastava, perché, se i quotidiani a diffusione regionale e locale offrivano giornali sempre più ricchi di pagine e informazioni, i quotidiani dei grandi gruppi editoriali cominciarono ad invadere anche il mercato locale. Prima attraverso centri stampa per la teletrasmissione, poi aprendo, nelle grandi città, corpose redazioni giornalistiche. Va da sé che il costo delle nuove tecnologie fu pagato, in buona parte, dallo Stato e, in massima parte, dagli addetti alla produzione dei quotidiani. Estromessi dalle aziende a migliaia – nel 1985 e nel 1989 – alcuni con ‘incentivi’, altri, molti altri, con il ricorso alla legge 416/81 che prevedeva, e prevede, un abbuono contributivo fino ad un massimo di 5 anni per ottenere la pensione di anzianità che, all’epoca, non poneva limiti d’età. Molti lavoratori si ritrovarono in pensione quando ancora non avevano compiuto cinquant’anni, mentre oggi si può godere della pensione di anzianità soltanto a 57 anni compiuti. E tuttavia, ancora una volta, nonostante tutto, i quotidiani senza grandi mezzi econo440 mici alle spalle riuscirono a sopravvivere.

C’era un solo modo per restare sul mercato: investire continuamente in nuove e purtroppo devastanti tecnologie.

La legge Mammì Questa legge prende corpo nella mente del suo proponente e relatore, Oscar Mammì – ministro delle Poste repubblicano – all’indomani della liberalizzazione del prezzo dei quotidiani, nel 1988. Dopo due anni di gestazione e sotto la continua pressione di Bettino Craxi, a sua volta pressato dall’amico magnate delle Tv private nazionali, Silvio Berlusconi, la legge Mammì è varata dal Parlamento, come tutte le leggi molto controverse, nell’agosto del 1990, pochissimi giorni prima che la Camera chiuda per ferie. La legge Mammì, che ha un lungo periodo di sperimentazione, entra in vigore il 1° gennaio del 1993. Si propone di regolamentare il sistema radiotelevisivo nazionale che, nonostante l’abnorme diffusione di network privati, è ancora monopolio esclusivo dello Stato. Solo alla RAI, infatti, è consentita la diffusione di programmi e notiziari ‘in diretta’. I cardini della nuova legge sono essenzialmente due: consentono a emittenti private capaci di coprire il 60% del territorio nazionale, la trasmissione ‘in diretta’ dei loro palinsesti, compresi i telegiornali; inoltre, come per il servizio pubblico, la legge sancisce che nessun gruppo televisivo privato possieda più di tre emittenti nazionali. Un trionfo per Berlusconi che ha vissuto mesi di autentica angoscia. Ma all’epoca, il Cavaliere era solo un imprenditore rampante senza ambizioni politiche e anche se l’opposizione già lo guardava con sospetto non riuscirà a stoppare la legge. La RAI, però, non molla il suo ‘status’ di monopolio senza contropartite: ottiene, infatti, un cospicuo aumento di quota nella raccolta della pubblicità. Se qualcuno si sia chiesto, all’epoca del varo della legge Mammì, quali conseguenze


E’ la televisione, ormai, la nuova frontiera della comunicazione e pubblicità.

avrebbe potuto produrre alla carta stampata, non è dato sapere. Resta il fatto che, prim’ancora che la legge entri in vigore, inizia, per i quotidiani, un periodo di confusione e incertezza specie nel reperimento della pubblicità, fonte primaria della loro sopravvivenza. Gli inserzionisti, infatti, scoprono che il messaggio pubblicitario televisivo rende di più e costa meno di quello sui giornali; i network privati scoprono che il costo dei Tg è di gran lunga superiore alle loro previsioni e per finanziarli svendono la pubblicità; la RAI in qualche modo si adegua, ma finisce per sforare la sua quota di raccolta pubblicitaria: deve far fronte ai maggiori costi della produzione per poter competere, specie con i programmi di intrattenimento, con le Tv private. In breve, per i quotidiani a diffusione regionale e locale è una falcidia. Dopo aver perso una bella fetta di pubblicità locale, sottratta da emittenti televisive regionali e provinciali, ora si vedono ridurre anche grosse quote di mercato pubblicitario nazionale. Ma è nel 1992 che i quotidiani ricevono una serie di colpi devastanti. Prima ci si mette lo Stato che abolisce le agevolazioni postali e impone l’IVA sul prezzo delle copie vendute, rendendo così proibitiva la spedizione dei giornali in abbonamento; poi, a giugno, le Società concessionarie di pubblicità decidono di abolire, dal 1° gennaio del 1993, il sistema contrattuale del ‘minimo garantito’.

Funzionava così: le concessionarie di pubblicità garantivano agli Editori, per la durata dei singoli contratti, un ‘minimo’ annuo, superato il quale i concessionari riconoscevano agli Editori solo una piccola percentuale in più. Naturalmente si trattava di un ‘minimo’ che assicurava somme cospicue che spesso raggiungevano anche il 50% del fatturato dell’Azienda editrice. La formula, consolidata nei decenni, era vantaggiosa per entrambe le parti. Le aziende della carta stampata disponevano di introiti certi per programmare il proprio futuro; le concessionarie di pubblicità, salvo rare eccezioni, spesso e volentieri si leccavano le dita. Poteva accadere che i quotidiani avessero flessioni nelle vendite, ma la pubblicità era in continuo, costante aumento. Anche in presenza di recessione economica. Anzi, meglio: era proprio in contingenti momenti di crisi che la domanda pubblicitaria aumentava. Con la disdetta del ‘minimo garantito’, dunque, finiva per i quotidiani un periodo storico. Il futuro dei giornali ora apparteneva al ‘mercato’, alla libera concorrenza. Ma alle già nere prospettive della carta stampata, confermate nel corso del 1993 da ingenti perdite di introiti pubblicitari, si inserisce un altro evento nazionale destabilizzante: l’esplosione di Tangentopoli. Per i quotidiani, di nuovo, c’è un solo modo per uscire da un imbuto senza luce: tornare ad investire in nuove tecnologie divenute, nel frattempo, così sofisticate da rendere obsoleti interi cicli produttivi e tali da colpire, indiscriminatamente, tecnici, amministrativi e giornalisti. Molti quotidiani, quelle devastanti innovazioni tecnologiche le hanno fatte gradatamente nel corso degli anni ’91, ’92 e ’93 e, gradatamente, hanno sfoltito gli organici, altri no. E quando lo faranno sarà come aver svuotato un’azienda della propria anima. E’ in questo quadro che matura, nei primi mesi del 1993, la crisi del gruppo societario che gestisce la Gazzetta del Mezzogiorno dal 441


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1978 e il Mattino di Napoli dal 1985, i cui maggiori azionisti sono Giuseppe Gorjux e Stefano Romanazzi. Come è nata la Società di gestione dei due maggiori quotidiani del Mezzogiorno si è già accennato nelle cronache precedenti di questi volumi. Quello che in questo contesto è utile sottolineare è che, nel 1993, il rapporto gestionale, imprenditoriale e fiduciario di Gorjux e Romanazzi entra in crisi. Con le prime incertezze sul futuro della carta stampata, con le prime falle nei bilanci delle Società di gestione e, soprattutto, con il dilagare di Tangentopoli – in Campania prima e in Puglia poi – quell’insieme di regole e condizioni non scritte che aveva messo insieme Gorjux e Romanazzi per acquisire, principalmente, la gestione della Gazzetta del Mezzogiorno, s’incrinano e l’uno comincia a far pesare sull’altro le scelte che pure erano state fatte di comune accordo. I primi screzi, ‘messaggi’ a mezze labbra lanciati qua e là nelle rare occasioni in cui Romanazzi incontra Gorjux, iniziano nel 1992. Ancora il ’92. Cinque anni prima, nel 1987, Gorjux, già Amministratore delegato della Gazzetta e del Mattino, assume anche la direzione politica del quotidiano pugliese in piena sintonia con Romanazzi. Ma questi non immaginava che dal 1990 in poi Gorjux avrebbe assunto posizioni estremamente critiche nei confronti delle Amministrazioni locali. E di quei ‘Palazzi’ – Regione, Provincia e Comune – Romanazzi è un frequentatore assiduo per le sue molteplici attività imprenditoriali. Dopotutto egli non aveva certo deciso di improvvisarsi Editore perché colto dalla passione per la carta stampata: possedere il più importante quotidiano politico di Puglia e Basilicata, significa godere di vantaggi e frequentazioni non certo secondarie per un imprenditore. Per Gorjux, invece, la Gazzetta in particolare è la sua ragione di vita. Amministrare e dirigere il giornale che nel 1922 aveva fonda442 to suo padre, Raffaele, è il coronamento di un

sogno, è un ritorno alle origini, un’ideale continuità dell’opera iniziata dal padre: fare della Gazzetta il veicolo di crescita civile e sociale del Mezzogiorno. Quando, però, appare evidente che la classe politica locale è completamente indifferente alle sorti della società pugliese, Gorjux prima comincia ad appellarsi alla loro responsabilità poi, non riuscendo ad ignorare in quale degrado sta precipitando l’intera Regione, comincia ad ‘aggredire’, in toto, i gestori dei ‘Palazzi’ pugliesi che, ovviamente, protestano con l’altro editore, Stefano Romanazzi, il quale, fino al ’92 si guarda bene dall’intervenire: il giornale non solo è apprezzato, ma vende oltre 80mila copie e produce cospicui profitti. Ma con la disdetta del ‘minimo garantito’, bastano pochi mesi, nel corso del 1993, per capire le dimensioni del disastro economico che incombe sulla carta stampata. La sola Gazzetta perde mezzo miliardo di lire al mese di introiti pubblicitari; il Mattino perde pubblicità e, diversamente dalla Gazzetta, migliaia di Lettori. Con la ‘discesa’ di Tangentopoli nel Golfo di Napoli, il direttore del Mattino, Pasquale Nonno, decide di schierare il prestigioso quotidiano napoletano in difesa della compromessa classe politica partenopea. E i Lettori cominciano a lasciare il giornale nelle edicole. Gli editori, Gorjux e Romanazzi, corrono ai ripari e, nel luglio del 1993, Pasquale Nonno è avvicendato, alla direzione del Mattino, da Sergio Zavoli, firma autorevole nel panorama giornalistico nazionale. Tre mesi dopo, il 30 ottobre, anche Gorjux lascia la direzione politica della Gazzetta. Gli succede il giornalista-scrittore Antonio Spinosa. Due avvicendamenti frettolosi che ben presto si risolvono, per il Mattino e per la Gazzetta, in due ulteriori disastri economici e d’immagine. Nello stesso periodo in cui Gorjux e Romanazzi concordano che per il bene del quotidiano napoletano è ormai indispensabile avvicendare Nonno alla direzione politica del Mat-


tino, Romanazzi tornerà a sollecitare Gorjux ‘rivoluzionato’ il ciclo produttivo con conseaffinché anche lui, lasci la direzione politica guente, notevole ridimensionamento degli della Gazzetta, ufficialmente per occuparsi a organici in tutti i settori dell’azienda. Gli investimenti necessari per realizzare il tempo pieno della direzione amministrativa: occorrono nuove strategie d’impresa, nuovi piano editoriale sono, per contratto, a carico investimenti e nuovi contributi professionali del Gestore, ma la Proprietà deve darne il ‘placet’. per fronteggiare la grave crisi dell’Editoria. Le firme, sui due atti, sono solo formali. Era vero? Non proprio. Anzi, fra le due vicende c’è addirittura un paradosso: Pasquale Intanto, perché nessuna delle due parti ha Nonno è rimosso perché si ostina a difendere disdetto il contratto di gestione e, in quanto l’ormai compromesso gruppo parlamentare agli investimenti per il piano editoriale, non è la prima volta che la Gazzetta campano facendo perdere, al procede nel realizzare le innovaMattino, credibilità e Lettori; zioni necessarie dopo aver avuto Gorjux, a Bari, è sollecitato a un consenso magari anche verbadimettersi non perché la Gazzetta le. Dopotutto, i rapporti fra la perde Lettori, ma perché divenuto Proprietà e i Gestori della intollerante nei confronti della Gazzetta sono sempre stati classe politica locale, di quei improntati alla massima corret‘Palazzi’ in cui Romanazzi ha tezza. accesso e interessi. Che poi Ma nel corso del 1993, con il Gorjux fosse diventato ‘insoffedilagare di Tangentopoli nel rente’ verso chiunque mettesse in Paese, tutti quei rapporti fra le discussione le sue scelte editoriali persone e le Istituzioni, ritenuti e di management, non è un fatto solidi prima, cominciano a scricsecondario del suo avvicendachiolare. Né fanno eccezione i mento. Romanazzi voleva contare La sede della Gazzetta rapporti fra Gorjux e Romanazzi; di più nelle scelte del giornale fra loro e la Proprietà dei quotispecie in presenza di forti perdite. Dopotutto eraera lui lui cheche garantiva, in in solido, la diani che gestiscono; fra loro e il Direttore Dopotutto garantiva, solido, ‘Proprietà’ della Gazzetta – la–Fondazione del responsabile del Mattino specie a causa delle la ‘Proprietà’ della Gazzetta la Fondazione pesanti perdite dei due quotidiani meridionali. Banco di Napoli – e le del Banco di Napoli – ebanche. le banche. In breve, breve, Sergio Sergio Zavoli Zavoli subentra subentra aa Pasquale Pasquale Così, dal giorno in cui Gorjux lascia la In Nonno alla direzione politica del Mattino Andirezione politica della Gazzetta, quel rappordirezione politica della Gazzetta, quel rappor- Nonno alla direzione politica del Mattino ee Antonio Spinosa succede a Gorjux alla Gazzetta. to di fiducia e interessi che ha tenuto insieme to di fiducia e interessi che ha tenuto insieme tonio Spinosa succede a Gorjux alla Gazzetta. Sergio Zavoli, Zavoli, aa Napoli, Napoli, non non riuscirà riuscirà aa ferferGorjux ee Romanazzi Romanazzi per per 17 17 anni, anni, finisce. finisce. Gorjux Sergio mare l’esodo dei Lettori del Mattino e, il 15 Peggio, nel 1994 i due Editori entrano in aperPeggio, nel 1994 i due Editori entrano in aper- mare l’esodo dei Lettori del Mattino e, il 15 settembre del ’94, si dimetterà. to conflitto e, nel marzo di questo ’95, il loro to conflitto e, nel marzo di questo ’95, il loro settembre del ’94, si dimetterà. Antonio Spinosa, Spinosa, aa Bari, Bari, farà farà di di peggio. peggio. rapporto si si rompe rompe definitivamente. definitivamente. rapporto Antonio Ombroso, diffidente diffidente ee narcisista, narcisista, Spinosa Spinosa Ma torniamo torniamo al al febbraio febbraio 1992. 1992. Verso Verso la la Ma Ombroso, incrina i rapporti umani e professionali della fine di quell’anno, la Società di gestione della fine di quell’anno, la Società di gestione della incrina i rapporti umani e professionali della redazione; trasforma la Gazzetta in una specie Gazzetta invia alla Proprietà del quotidiano Gazzetta invia alla Proprietà del quotidiano redazione; trasforma la Gazzetta in una specie di ‘bollettino’ ‘bollettino’ delle delle sue sue numerose numerose pubblicaziopubblicaziopugliese –– la la Fondazione Fondazione del del Banco Banco di di Napoli Napoli di pugliese ni, compreso compreso ‘carteggi’, ‘carteggi’, ricordi ricordi personali personali ee la richiesta richiesta di di sollecito sollecito aa firmare firmare il il contratto contratto ni, –– la lunghi epistolari con personaggi dimenticati di gestione per gli anni ’93-’97 e un dettagliadi gestione per gli anni ’93-’97 e un dettaglia- lunghi epistolari con personaggi dimenticati to piano editoriale inteso a potenziare e am- dalla storia; poi, ragguagliato adeguatamente to piano editoriale inteso a potenziare e am- dalla storia; poi, ragguagliato adeguatamente modernare il parco tecnologico che avrebbe da Franco Russo, da qualche anno ormai gli da Franco Russo, da qualche anno ormai gli 443 modernare il parco tecnologico che avrebbe


Una finestra sulla storia - 1995

‘occhi e la mente’ di Romanazzi all’interno del giornale, si allea con il cavallo vincente allo stesso modo in cui, all’indomani delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, Spinosa porta la Gazzetta, d’un sol colpo, da un’attenta politica di equidistanza dai due Poli ad una sfacciata adesione al centro-destra berlusconiano. Spinosa non ha mai chiesto alla redazione di adeguarsi alla sua politica – dirà Lino Patruno all’inizio di aprile del 1995 all’inviato dell’Espresso, Antonio Carlucci – ma bastava che il Cavaliere facesse la pipì perché Spinosa sparasse titoli su sei colonne. Venne così a crearsi una situazione imbarazzante: la redazione romana della Gazzetta scriveva quotidianamente articoli e commenti critici contro il centro-destra; gli editoriali domenicali di Spinosa magnificavano Berlusconi e ogni lunedì, l’editore Gorjux cercava, con un proprio editoriale e con molta cautela, di non far apparire il giornale la tromba squillante del capo di Forza Italia. Sarà Spinosa, il 29 agosto del ’94, a gettare la spugna. Un po’ sconcertati per l’improvvisa decisione, un po’ sollevati per una situazione che non poteva durare, Gorjux e Romanazzi – ma ormai era quest’ultimo a proporre e pretendere soluzioni editoriali – prima decisero di affidare ‘pro-tempore’ la direzione politica della Gazzetta a Franco Russo – nomina confermata il 12 ottobre ’94 – poi, perdurando la crisi dell’Editoria, misero mano a quel piano d’impresa, mai approvato dalla Fondazione del Banco di Napoli, che prevedeva, entro marzo ’95, l’introduzione di innovazioni tecnologiche così avanzate da ‘saltare’ interi cicli produttivi. Il crollo degli introiti pubblicitari era divenuto così insostenibile da mettere in ginocchio persino i grandi gruppi editoriali. Bisognava diminuire il costo del lavoro e ormai si poteva farlo soltanto attraverso il ridimensionamento degli organici. Una scelta dolorosa, ma onestamente per gli Editori è l’ultima spiaggia: non hanno alternative. Nel corso del ’94 e ’95 molti 444 quotidiani, anche prestigiosi, chiusero, passaro-

no di mano, riaprirono e richiusero senza appello. Per la stampa di partito poi, specie quelli già ‘cancellati’ da Tangentopoli, sarà la fine. All’inizio di questo 1995, dunque, la Società di gestione della Gazzetta e del Mattino, ha ancora la possibilità di tirarsi fuori da una crisi drammatica. Ma due mesi dopo, di colpo, crolla tutto. Nel mese di marzo, Stefano Romanazzi rinuncia alla sua quota azionaria della Gazzetta in cambio di quella di Giuseppe Gorjux al Mattino. Una settimana dopo Romanazzi cede l’intero pacchetto azionario del Mattino al cognato, Francesco Gaetano Caltagirone, noto imprenditore edile che sta rastrellando quote di maggioranza di diversi quotidiani in difficoltà, a prezzi stracciati. Con l’uscita di scena di Romanazzi dalla Società di gestione della Gazzetta, Gorjux è in palese difficoltà: ha perso l’azionista di riferimento, il ‘garante’ finanziario sia della Proprietà della Gazzetta – la Fondazione del Banco di Napoli – sia degli istituti di credito. Tuttavia, nulla è ancora compromesso. Il primo gennaio Gorjux ha firmato un buon accordo con la Publikompass – la grande concessionaria di pubblicità del gruppo FIAT – e sono già in corso trattative per acquisire nuovi soci. Per la primavera, è prevista un’assemblea della Fondazione del Banco di Napoli che ha preso un impegno formale per quella che Gorjux ritiene una legittima aspettativa: il rinnovo del contratto di gestione, o quanto meno una proroga dello stesso sino al 2001, alla Società di cui egli è ormai l’unico azionista di riferimento. Ma, come si dice, il diavolo ci mette la coda. Il 14 marzo il Consiglio di Amministrazione del Banco di Napoli denuncia che l’antico istituto di credito ha chiuso il bilancio del 1994 con una perdita di 995 miliardi. La ragione principale di questo risultato negativo – afferma il presidente del Banco di Napoli, Luigi Coccioli – va ricercata nei 3.090 miliardi di sofferenza della Banca. Crediti – aggiunge Coccioli – che potranno essere recuperati


solo con grande fatica o non potranno essere recuperati affatto. Il 21 marzo l’intero Consiglio di Amministrazione del Banco di Napoli si dimette. Il 3 aprile, in sede di approvazione del bilancio, si scopre che nel 1994 la perdita totale del Banco è stata di 1.147 miliardi. Se non è un ‘crack’ poco manca. E la Fondazione del Banco, che possiede il 71% del pacchetto azionario della banca napoletana, è totalmente impegnata nel tentativo di evitare il fallimento del Banco di Napoli. Cinque giorni prima l’approvazione del bilancio del Banco di Napoli, anche la Gazzetta è posta davanti ad una nuova, grave emergenza.

Il ‘caso’ Bari Il 28 marzo esplode, a Bari, l’Operazione Speranza: è l’ultimo atto di quell’inchiesta giudiziaria che ha travolto il presidente delle Case di Cura Riunite, Francesco Cavallari, il quale, secondo gli inquirenti, avrebbe stretto un… inossidabile patto di ferro inquinante con i ‘poteri locali’, la criminalità e perfino con lo stesso apparato giudiziario… per creare illecitamente il più imponente comparto sanitario privato del Paese. Cavallari – s’è già scritto compiutamente nel capitolo precedente – è arrestato il 3 maggio del ’94. Nel novembre successivo il ‘Re Mida’ della sanità barese decide di collaborare con la giustizia e a seguito delle sue rivelazioni, quattro mesi dopo, la Procura Distrettuale Antimafia vara l’Operazione Speranza. E’ la più grande ‘retata’ politico-amministrativa nella storia della città di Bari: 35 arresti fra cui due ex ministri, un vicepresidente della Giunta regionale in carica, il Sindaco in carica, diversi politici locali, funzionari regionali e il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo, con l’accusa di corruzione. L’arresto di ministri, politici e amministratori, imperante Tangentopoli, non scandalizza più nessuno. Ma l’arresto del Direttore di uno dei più importanti e autorevoli quotidiani del

Avvicendamento alla Gazzetta: Franco Russo, in piedi, ‘consegna’ il giornale a Lino Patruno.

Mezzogiorno produce un clamore così assordante da sollecitare l’interesse di tutta la stampa nazionale. E’ nato il ‘caso Bari’ e infangare l’immagine della Gazzetta, del suo Direttore e della città, è tutt’uno. Il 29 marzo Franco Russo si autosospende. Lo stesso giorno, la Società di gestione della Gazzetta nomina Lino Patruno direttore responsabile ‘reggente’. Russo torna libero il 18 maggio. Rinviato a giudizio, il 10 giugno annuncia le sue irrevocabili dimissioni da Direttore responsabile della Gazzetta… voglio affrontare il processo da semplice e comune cittadino… sono certo che riuscirò a convincere i giudici della mia innocenza. Così è, infatti. Ma per la Gazzetta, l’arresto del Direttore è un colpo da far tramortire un toro. L’immagine, la credibilità del giornale scende a picco: nel corso del 1995 la Gazzetta perde 8mila copie al giorno. Neanche le innovazioni tecnologiche che consentono, dal primo aprile, di ridimensionare l’organico dei giornalisti di 20 unità, riesce a fermare l’emorragia finanziaria e diffusionale del giornale che, nonostante la perdita di un notevole patrimonio professionale, riesce a consegnare ai Lettori un quotidiano ricco di pagine con contributi di valore: da Enzo Biagi a Guido 445


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Gerosa; dai sociologi Domenico De Masi, Sergio Quinzio e Sabino Acquaviva; da Bruno Vespa a Luciano Violante; dagli economisti Roberto Bencivenga, Francesco Tagliamonte e Gaetano Veneto. E poi ancora il meridionalista Vittore Fiore, l’opinionista Giuseppe Giacovazzo fino ai massimi esperti dello sport nazionale, Massimo De Luca e Gianni Antonucci, storico appassionato e inguaribile dei Biancorossi baresi. Ma quella della Gazzetta è una crisi che va oltre la crisi nazionale dell’Editoria, aggravata, quest’anno, dal rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei giornalisti e dal costo spropositato della carta per giornali, aumentata, nel corso del 1995, del 147,4% il chilogrammo. La situazione della stampa nazionale si fa ogni giorno più drammatica – denuncia il presidente della Federazione degli Editori, Giovanni Giovannini – il prezzo della carta ha ormai assunto una dinamica rovinosa mettendo a rischio l’equilibrio di tutte le imprese editrici, anche delle più solide e sane, senza che nessun partito, nessun ministro, nessun Governo abbia mosso un dito per evitarlo. Il settore si sta lentamente ma inesorabilmente dissanguando. Al Sud è peggio. E nel Sud del Sud, dove sembra essersi collocata la Gazzetta del Mezzogiorno dopo l’arresto del suo Direttore, l’orizzonte è totalmente buio. Il 28 aprile, la Fondazione del Banco di Napoli rinnova il Consiglio di Amministrazione della banca partenopea. Nella stessa assemblea, la Fondazione esprime il proprio ‘gradimento’ per il nuovo assetto azionario della Società di gestione del Mattino che ha, come nuovo azionista di riferimento, Francesco Gaetano Caltagirone, ma della Gazzetta e delle continue richieste di sollecito della Società per ottenere il rinnovo o quantomeno la proroga del contratto di gestione, non si fa cenno. Il 26 ottobre, il nuovo presidente del Con446 siglio di Amministrazione del Banco di Napo-

li, prof. Carlo Pace, denuncia che la situazione finanziaria del Banco è disperata: nei primi 6 mesi del ’95 ha prodotto un ulteriore deficit di 1.560 miliardi mentre le ‘sofferenze’, ‘pressoché inesigibili’, ammontano a 4.867 miliardi: si tratta di anticipazioni a oltre settemila clienti ancora in attesa di ricevere contributi dalla ex legge 64 per l’Intervento straordinario. Morale: il Banco di Napoli naviga in un mare forza nove e la Fondazione ha un bisogno disperato di fare ‘cassa’. Il 17 aprile del 1996, finalmente, la Edisud – la Società di gestione della Gazzetta – è convocata all’assemblea della Fondazione per discutere la richiesta di rinnovo del contratto di gestione. Ma non c’è niente da discutere: la Fondazione aveva già deciso di… non aderire alla richiesta di rinnovo del contratto di gestione alla Edisud non riscontrandone i presupposti. Ventiquattro ore dopo, il 18 aprile, i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Bari assolvono Franco Russo da ogni addebito… perché il fatto non costituisce reato. Ancora un anno dopo, la Fondazione del Banco di Napoli decide di liberarsi definitivamente delle proprietà editoriali e, il 20 dicembre del 1997, la Edisud, l’ex società di gestione del giornale, rimpolpata di nuovi soci che garantiscono alla Fondazione la solidità economica, esercita il diritto di prelazione e si aggiudica la proprietà della Gazzetta. Il nuovo azionista di riferimento della Edisud Spa è Mario Ciancio Sanfilippo, proprietario e direttore del quotidiano catanese La Sicilia da un trentennio. Finanziere, proprietario terriero, collezionista appassionato di ceramiche, Ciancio vanta partecipazioni azionarie nei maggiori quotidiani siciliani… in Sicilia io mi occupo solo di giornali e arance… e, dalla metà di giugno del 1995, anche di tutta la stampa nazionale avendo avvicendato Giovanni Giovannini alla presidenza della FIEG, la Federazione italiana degli editori. Gli altri azionisti della Edisud sono: Giuseppe Lobuono, barese, la sua famiglia distri-


Svolta alla Gazzetta: dopo 70 anni, nel dicembre del ‘97 il Banco di Napoli cede, immobili e testata del giornale, a imprenditori pugliesi e siciliani.

buisce da oltre un secolo, in gran parte del Mezzogiorno, tutto quello che viene stampato; gli Editori della Gazzetta del Sud di Messina e Giuseppe Gorjux, con il figlio Giacomo, che conservano una quota azionaria di minoranza. Due mesi dopo, il 13 febbraio del 1998, i nuovi proprietari della Gazzetta tolgono a Patruno l’anomala dizione di ‘reggente’ e gli conferiscono il mandato pieno quale Direttore responsabile. Comincia il ‘nuovo corso’ della Gazzetta. Ma questa è un’altra storia. Nel frattempo, però, uno dei protagonisti di questo tormentato periodo della Gazzetta esce di scena. Il 9 ottobre del 1995, Stefano Romanazzi, colpito da un tumore al fegato, si spegne in una clinica privata milanese… con lui scompare una delle figure più rappresentative dell’imprenditoria italiana… scrive la Gazzetta, in prima pagina, il mattino successivo. E non manca di elencare, in un commosso ricordo, capacità e riconoscimenti. L’ultima immagine pubblica di Giuseppe Gorjux e Stefano Romanazzi risale al 12 febbraio precedente, in occasione della visita alla Gazzetta del nuovo presidente della Fiera del Levante, Francesco Divella.

Torniamo dunque alla cronaca di questo lungo, straordinario, disgraziato e ‘rivoluzionario’ 1995. Un anno lunghissimo per Berlusconi: che si vede, di mese in mese, procrastinare la data delle elezioni politiche anticipate; lungo per il PDS che, pronto ad andare alle urne in autunno, comincia a non gradire l’interferenza del Capo dello Stato nella vita politica e parlamentare del Paese, le sue pressioni sul Governo Dini e i suoi richiami continui al senso dello Stato, al bene comune… bisogna mettere da parte – afferma Scalfaro – posizioni personali e di partito… il Paese vive in emergenza continua e sciogliere il Parlamento senza un valido motivo, equivale ad un colpo di Stato. Un anno straordinario per l’imprenditoria settentrionale e per gli speculatori finanziari che ad ogni crollo della moneta italiana, la prima aumenta le esportazioni, i secondi il volume dei loro portafogli; disgraziato per il Mezzogiorno dove, invece, diminuisce tutto: redditi – il 26% in meno rispetto al CentroNord – e occupazione. In compenso aumentano: il lavoro nero, il caporalato, i cassintegrati, i lavoratori in mobilità, gli addetti ai lavori socialmente utili e i centri di assistenza per gli extracomunitari. E’ un anno ‘rivoluzionario’, infine, per il nuovo metodo elettivo delle Amministrazioni regionali, provinciali e comunali. Il 19 aprile, Giuseppe Gorjux scrive: fra quattro giorni si voterà per eleggere gli uomini che amministreranno Regioni, Province e Comuni. Si sono candidati a migliaia. Ma chi li conosce? Chi ha potuto conoscere i ‘nuovi’ che tutti invocano? Il cosiddetto decreto sulla ‘par condicio’ ha praticamente vietato ai singoli candidati di presentare attraverso i mezzi d’informazione i loro propositi, i loro precedenti, le loro maggiori o minori credibilità. Tutto è stato affidato a un po’ di manifesti e volantinaggio… in pratica, non si voterà per questo o quel Sindaco, Presidente della Provincia o della Regione. Si voterà per Berlusconi o D’Alema, per Fini o Bertinotti, per 447


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Buttiglione o Bianco… si voterà per stabilire se rivotare per le ‘politiche’ a giugno – come vorrebbe il centro-destra – oppure a ottobre – come vorrebbe il centro-sinistra – oppure ancora… chissà, forse, vedremo, come infine sostengono i molti ‘cespugli’ degli opposti schieramenti. C’è, insomma, un dibattito aperto su un insieme di questioni nazionali mentre la gran parte della gente vorrebbe sapere cosa si propongono di fare le Regioni di Puglia e Basilicata per il rilancio dell’economia, per lenire la tragedia della disoccupazione, per reprimere il lavoro nero, per frenare l’emigrazione di braccia e di cervelli, per rendere più sicure le nostre strade, per rendere accettabile il sistema sanitario e, soprattutto, per dire basta al viavai di TIR carichi di rifiuti che fanno del Mezzogiorno la discarica inquinante, abusiva, del Paese. Il 23 aprile, dunque, 42.978.945 elettori tornano alle urne per eleggere, per la prima volta direttamente, 15 presidenti di Regione – nelle rimanenti 5 Regioni a Statuto speciale non si voterà –; 75 presidenti di Provincia e 5.136 Sindaci. Per l’elezione del presidente della Giunta regionale, si vota in un solo turno: vince il candidato che ha preso più voti anche senza aver raggiunto il 50% dei suffragi. Potrà governare avvalendosi del ‘premio’ derivante dalla quota maggioritaria che gli assegna fino al 60% dei seggi. Anche per i Comuni con meno di 15mila abitanti il turno è unico e vince il candidato Sindaco che ha ottenuto più voti. Per le Province e gli altri Comuni, invece, c’è il ballottaggio: se nessuno fra i candidati Sindaco e presidenti provinciali ottiene il 50% + 1 dei suffragi, i due più votati vanno all’‘appello’ due settimane dopo. Candidato alla Presidenza della Giunta regionale pugliese, per il Polo di centro-destra è il prof. Salvatore Distaso, docente di Statistica presso l’Università di Bari. Politicamente ‘nessuno’, tant’è che lui stesso si definisce 448 ‘apolitico’. Il candidato di centro-sinistra, in-

vece, è Luigi Ferrara Mirenzi, un funzionario della Regione che si propone di ‘rifondare’ l’Istituzione regionale. Facce nuove, volti diversi ed ‘estranei’ a ‘quella’ politica che in cinque anni è stata capace di provocare cinque crisi. Facce nuove anche al Palazzo comunale del capoluogo regionale. Candidati sindaci per il Comune di Bari sono: Simeone Di Cagno Abbrescia, imprenditore di 51 anni, appassionato maratoneta, che ‘corre’ per il Polo delle libertà, e Rosina Basso Lobello, laureata in Giurisprudenza, docente di Storia e Filosofia con una lunga militanza in vari movimenti cattolici. La prof. Basso Lobello, che ha aderito ai Popolari di Gerardo Bianco, è candidata alla poltrona di Sindaco per l’area di centro-sinistra. Volti fin troppo noti, invece, alla Presidenza della Provincia di Bari. Per il Polo di centro-destra si candida il sempiterno liberale, giornalista in perenne polemica con il mondo intero, Franco Sorrentino. L’avvocato Gianni Di Cagno, invece, già capogruppo del PDS al Comune, è candidato per il centro-sinistra. Facce nuove anche in Basilicata dove si vota in 73 comuni – ma solo Potenza supera i 15mila abitanti – e per il rinnovo del Consiglio regionale. Candidato per il centro-destra, alla Presidenza della Giunta, è il giovane ricercatore-economista Giampiero Perri; per il centro-sinistra è Angelo Raffaele Dinardo, 63 anni, già insegnante e ispettore scolastico. La mattina del 24 aprile, tutti i quotidiani annunciano la vittoria del centro-destra. Ma è un clamoroso ‘flop’ degli esperti e delle agenzie specializzate in exit-poll che si basano sulle indicazioni di voto degli elettori appena usciti dai seggi. Secondo i loro sondaggi, il centro-destra si sarebbe aggiudicato 8 Regioni su 15. Secondo il vero responso delle urne, il 25 aprile, il centro-sinistra vince per 9 a 6 e, peggio ancora per le speranze di rivincita di Berlusconi, il PDS è diventato il primo partito del Paese: ha ottenuto il 25,2% dei suffragi rispetto al 22,4% di Forza Italia e Popolari di Buttiglione insieme.


Come sempre accade nei commenti politici del giorno dopo, hanno vinto tutti. In realtà hanno perso tutti. Intanto perché la deliberata e tenace politicizzazione del turno amministrativo ha vanificato il senso istituzionale del voto: gli elettori sono stati ‘costretti’ a votare non per eleggere i loro amministratori con i loro programmi e i loro propositi di governo delle Regioni, Province e Comuni, ma per i ‘rappresentanti’ di Prodi e Berlusconi. E hanno perso tutti perché oggi, più di ieri, i grandi partiti sono diventati ‘ostaggi’ dei loro ‘cespugli’. L’unico ‘vincitore’ è Fausto Bertinotti che ha portato il suo partito dal 6,6 all’8,4%. E, euforico, il leader ‘rosso’ lancia subito un messaggio forte e chiaro all’Ulivo: senza di noi la sinistra non vince. E non ha torto perché nei ballottaggi del 7 maggio, quando cioè bisognava scegliere fra due opposti candidati, l’apporto di Rifondazione al centro-sinistra, ancorché scontato, è determinante: i progressisti si aggiudicano l’80% di tutte le Amministrazioni provinciali e comunali in ballottaggio. Ma l’ampiezza del successo del centrosinistra, specie nei Comuni, si annuncia ‘trionfale’ fin dal primo scrutinio: delle 11 città capoluogo che hanno eletto il Sindaco al primo turno, soltanto la città di Bari ha eletto un Sindaco di centro-destra. Stessa musica nel primo turno per l’elezione dei presidenti di Provincia: su 21 eletti, solo 2 sono espressione del centro-destra. Il presidente della Provincia di Latina e il Presidente della Provincia di Brindisi, Nicola Frugis. ‘Strana’, invece, l’Italia uscita dalle elezioni regionali. Il centro-destra vince nelle regioni più importanti del Nord – Piemonte, Lombardia, Veneto – e del Sud – Campania, Calabria, Puglia – l’intero centro del Paese – Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise – è, invece, ‘monopolio’ del centro-sinistra. Unica eccezione la Basilicata, passata da feudo inespugnabile della Democrazia Cristiana fino al 1992 ad avanguardia della sinistra nel profondo Sud. Conquistata Matera e decine di altri

La triade vincente del centro-destra in Puglia. Da sinistra: Franco Sorrentino, presidente della Provincia di Bari; Simeone Di Cagno Abbrescia, sindaco e Salvatore Distaso, presidente della Giunta regionale.

Comuni nel ’94, quest’anno il centro-sinistra conquista il Comune di Potenza, le Province di Matera, Potenza e la Regione dove Angelo Raffaele Dinardo ottiene il 54,5% dei suffragi. Per la prima volta nella storia di questa piccola Regione del profondo Sud, il PDS è il primo partito della Basilicata. In Puglia, dunque, ha vinto il centro-destra. Salvatore Distaso è il nuovo presidente della Giunta regionale; Simeone Di Cagno Abbrescia è il nuovo Sindaco di Bari e Franco Sorrentino la spunta per un soffio su Giovanni Di Cagno alla Provincia di Bari. Al centro-destra vanno anche: la già citata Provincia di Brindisi; la Provincia di Lecce, presidente Lorenzo Ria, e la Provincia di Taranto con Marcello Cantore. A Foggia si è votato nel ’94 ed è l’unica Provincia pugliese guidata dal centro-sinistra. Nei cinque capoluoghi pugliesi, invece, la situazione è di parità: 2 al centro-destra, il già citato Comune di Bari e il Comune di Foggia, sindaco Paolo Agostinacchio; 2 al centro-sinistra, il nuovo sindaco di Lecce è Stefano Salvemini, mentre Michele Errico, sindaco di Brindisi, è stato eletto il 5 dicembre del ’94 e un ‘outsider’ a Taranto, Giancarlo Cito, eletto 449


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con una lista propria nel dicembre del ’93, prossimo, come vedremo, ad appuntare la stella di ‘sceriffo’ della città jonica, sul petto del suo vice. Salvo in Puglia, il centro-sinistra ottiene, in questo turno elettorale amministrativo, una vittoria schiacciante: ha vinto in 9 Regioni su 15; in 64 Province su 75 e in 31 capoluoghi su 35. Per il centro-destra è peggio della disfatta di Napoleone a Waterloo e, nondimeno, per onore di bandiera, continua a chiedere elezioni politiche anticipate a giugno… ma senza insistere troppo. Ora, invece, è il centro-sinistra che vorrebbe andare alle urne ad ottobre, ma anche loro, dopo il successo elettorale, hanno due belle gatte da pelare: Rifondazione e Lega. Il successo di Bertinotti e la ‘tenuta’ della Lega non li hanno agevolati di certo. Bertinotti torna a insistere sulle sue ‘ricette’ estreme – tassa sul patrimonio, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, aumenti salariali per tutti e così via – e Bossi ha informato Prodi che per ora la Lega non intende schierarsi… vogliamo giocare a tutto campo. Il 17 giugno, alla Convention dell’Ulivo, Romano Prodi afferma… Bossi sappia che l’Alleanza non è un treno su cui si sale e si scende dopo aver usufruito del servizio… e a Bertinotti fa sapere che… con le sue ricette, un accordo di Governo con l’Ulivo è impossibile. Poi, di getto, dice… noi possiamo vincere anche senza la Lega e Rifondazione. Pronta la risposta di Bertinotti… la convinzione di Prodi ha già portato il centro-sinistra a perdere le elezioni regionali in Lombardia, Piemonte e Veneto… sarebbe bene non ripetere questi errori perché sbagliare è umano, perseverare no. La verità, purtroppo, è che l’Alleanza vuole i nostri voti ma continua a discriminarci. Pur con questi contrasti, tutti vogliono andare alle elezioni politiche anticipate, tranne il Capo dello Stato che proprio dalle Amministrative ha tratto la convinzione che non vi è alcuna necessità di mandare a casa il Governo 450 Dini. L’arma del ‘Ribaltone’ usata dal centro-

destra è stata vanificata il 23 aprile. Ora il centro-sinistra è maggioranza e, dunque, che motivo c’è di affossare un Governo sostenuto da una solida maggioranza? Nessuno, tranne il fatto che Dini sta a Bertinotti come il diavolo sta all’acqua santa. Al leader di Rifondazione la sola idea che il Governo di un ‘Banchiere’ abbia l’appoggio del centro-sinistra, gli è proprio insopportabile. E dunque, quando il 21 ottobre il Polo di centro-destra annuncia una mozione di sfiducia al Governo Dini, Bertinotti sorprende tutti e afferma che Rifondazione voterà con il centro-destra… tagliare la strada a Dini e andare alle elezioni anticipate è sicuramente il miglior servizio che noi possiamo fare al centro-sinistra… Dini, assolutamente e inderogabilmente, se ne deve andare. E Armando Cossutta rincara la dose… il Governo Dini rappresenta oggi l’ostacolo più grave per lo sviluppo democratico del Paese. E’ il motivo di imputridimento della vita politica. Sgomento nell’Ulivo e nel PDS… avevamo iniziato un dialogo fra ‘culture diverse’ – sostiene Romano Prodi – ma se Rifondazione vota la sfiducia non sarà più possibile trovare un accordo. E D’Alema conferma… se si andrà alle elezioni immediate sulla base della mozione che travolge il Governo Dini, è chiaro che non potremo allearci con Bertinotti. Non si può per nessuna ragione e in nessun momento fare causa comune con la destra. Il 26 ottobre si vota… e Dini ottiene la fiducia. Al momento della votazione i deputati di Rifondazione escono dall’aula di Montecitorio e la mozione di sfiducia è respinta… abbiamo deciso di non votare la sfiducia – dirà Bertinotti ai giornalisti – perché il presidente del Consiglio ci ha promesso che dopo l’approvazione della legge Finanziaria, al massimo entro il 31 dicembre, darà le dimissioni. Una scusa? Una millanteria per giustificare l’improvviso voltafaccia? Niente affatto. Il 31 dicembre Dini si dimette per davvero, solo che ‘l’Uomo del Colle’ gli dice di no, e lo rinvia alle Camere. Magra soddisfazione per


Bertinotti che nel frattempo ha vinto l’Oscar della critica di tutta la stampa nazionale. Che spettacolo – commenta Giuseppe De Tomaso sulla Gazzetta il 27 ottobre – che giorno ‘Fausto’ per Dini. Il Rivoluzionario in soccorso del Banchiere. Un nuovo choc, dopo quello di Bossi per i signori del centro-destra. E’ la fenomenologia del ‘compagno Fausto’ in movimento. Pacione. Telegenico. Cortese. Duro. Deciso. Controcorrente. Contraddittorio. Imprevedibile. Inaffidabile. Ma super-corteggiato a destra e a sinistra. Per Luciano Lama – continua De Tomaso – che lo sperimentò nei ranghi della CGIL, Bertinotti è ormai ‘irrecuperabile’. Per Gianpaolo Pansa, penna critica della sinistra-senza-palle-che-ha-paura-di-vincere, il ‘compagno F’ è il Parolaio Rosso. Enzo Biagi, invece, lo ‘elogia’… bravo Bertinotti, ha deciso di scappare quando scocca l’ora della responsabilità. Lui è uno che sale sui treni senza sapere neanche dove lo porteranno.

L’Inquisitore… inquisito Il 4 aprile la Gazzetta pubblica, in prima pagina su 6 colonne, la notizia dell’addio ufficiale di Antonio Di Pietro alla Magistratura… che cosa ha indotto l’ex magistrato-poliziotto, il giudice-contadino, il vendicatore della gente comune, il Davide che ha abbattuto Golia, ad affrettare le tappe di una scelta ormai scontata, non sappiamo – commenta Giuseppe De Tomaso – forse i favori dei sondaggi alle prossime elezioni. Corteggiato, tirato per la manica da destra, da sinistra e dal centro… Di Pietro ha fatto bene a rompere anche l’ultimo filo che lo legava all’ordine giudiziario – prosegue De Tomaso – ma sappia il buon Tonino che da adesso nessuno gli farà più ‘sconti’. Ogni sua frase verrà radiografata, sminuzzata sillaba per sillaba. I cronisti non gli daranno respiro. Alleati e avversari dissemineranno di trappole e lusinghe il suo percorso: smetterà di essere il Tonino nazionale per diventare il Tonino di una parte. Cominciano gli avversari. Nella stessa edi-

zione della Gazzetta del 4 aprile, in quarta pagina c’è una notizia di venti righe proveniente dal Tribunale di Brescia, dove è stato trasferito il processo per le tangenti alla Guardia di Finanza di Milano. L’inchiesta, avviata dal pool milanese di Mani Pulite nel ’94, è poi approdata a Brescia, ma tutta la parte istruttoria è stata svolta dal pool Mani Pulite nel carcere di Peschiera del Garda dove erano rinchiusi i numerosi inquisiti. La notizia è che il principale inquisito, generale Giuseppe Cerciello, avrebbe riferito al pubblico ministero di Brescia, Fabio Salamone, che durante gli interrogatori nel carcere di Peschiera, i magistrati del pool milanese avrebbero fatto pressioni, promettendo indulgenze, a che gli imputati facessero il nome di Silvio Berlusconi. Chi è stato oggetto di queste pressioni? Il maresciallo Francesco Ranocchio. Da chi sono venute le pressioni? Dal giudice Antonio Di Pietro. Da questa breve notizia nascono due inchieste. Una da parte del Tribunale di Brescia, che il 7 aprile iscrive nel registro degli indagati sia Di Pietro – per abuso d’ufficio – sia il generale Cerciello, per calunnia. La seconda

Antonio Di Pietro... anche lui nel mirino degli inquirenti.

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inchiesta parte dal ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, che avvia un procedimento disciplinare contro il pool di Mani Pulite perché, secondo il Ministro, il pool avrebbe… esorbitato dai suoi poteri violando gravemente i basilari doveri di correttezza morale che incombono sui magistrati, compromettendo così la considerazione che questi devono meritare dalla società. E come il suo predecessore, Alfredo Biondi, il nuovo Guardasigilli dispone per una ispezione alla Procura milanese. La sera del 13 aprile, Silvio Berlusconi, intervenendo telefonicamente alla trasmissione televisiva ‘Tempo Reale’, condotta dal giornalista Michele Santoro, trova il modo per tornare sul suo famoso avviso di garanzia del 21 novembre precedente per affermare che… sì, è vero, Di Pietro firmò quell’avviso contro di me, ma di malavoglia. E’ consuetudine che i provvedimenti si firmino collegialmente, ma Di Pietro non avrebbe voluto. Me l’ha detto lui personalmente. Di Pietro smentisce… non ho firmato ‘avvisi’ che non condividessi e non ho incontrato personalmente Silvio Berlusconi. Ma per il procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli, non è abbastanza… Di Pietro ha smentito troppo poco… dirà, infuriato, Borrelli ai cronisti che sono andati in Tribunale per fargli gli auguri di Pasqua. Poi, a testa bassa, attacca… non mi stupisco e non mi scandalizzo tanto del fatto che uomini politici come Cesare Previti, Francesco Cossiga e Silvio Berlusconi diffondano delle menzogne sui rapporti tra Antonio Di Pietro e i colleghi del pool di cui faceva parte… mi stupisce invece e profondamente mi amareggia che queste menzogne siano state rese possibili a causa del silenzio che Antonio Di Pietro mantiene sull’argomento fin dal giorno della sua defezione… un silenzio carico di equivoci e che purtroppo getta una luce enigmatica sul suo stesso gesto di uscita dalla Magistratura e sui propositi che posso452 no averlo dettato. E preso dall’ira, licenzia i

cronisti con un’ultima battuta… siamo profondamente grati a Di Pietro per quanto ha fatto, ma per ciò che non ha detto ci sentiamo in qualche misura traditi. Intanto, il 18 aprile a Brescia, durante una nuova udienza del processo per le tangenti alla Guardia di Finanza, altri due imputati confermano di aver avuto dal maresciallo Ranocchio le stesse ‘confidenze’ che ha rivelato il generale Cerciello: Di Pietro voleva a tutti i costi il nome di Silvio Berlusconi. A quel punto, l’avv. Carlo Taormina, difensore di Cerciello, chiede che il Tribunale di Brescia convochi Antonio Di Pietro in qualità di testimone indagato in procedimento connesso… perché se riusciamo a stabilire – dirà Taormina – che Di Pietro ha commesso un abuso di potere, possiamo dimostrare che il generale Cerciello è innocente. Ma Taormina non si limita a chiamarlo in causa nel processo Cerciello. Vuole anche una serie di risposte su tante voci circolanti sul più famoso ex magistrato d’Italia. Si tratta – scrive Frank Cimini sulla Gazzetta del 19 aprile – di un elenco di storie sussurrate a mezza bocca nei corridoi del Tribunale di Milano fin dal giorno in cui fu chiaro a tutti che Antonio Di Pietro era diventato un personaggio. Ora, però, non è più magistrato e, rese pubbliche in un’aula di Tribunale, bisognerà chiarirle. Che risposte vuole l’avv. Taormina da Antonio Di Pietro? Queste: quali sono i suoi rapporti con il costruttore milanese Antonio D’Adamo, già incriminato ed arrestato per corruzione. Che rapporti ha avuto con il maggior azionista della Maa Assicurazioni, Giancarlo Gorrini, già condannato per appropriazione indebita e falso in bilancio. Come mai la Maa ha affidato il ‘portafoglio’ dei sinistri allo studio legale Mazzoleni i cui titolari sono Arbace e la figlia Susanna Mazzoleni, seconda moglie di Di Pietro. Cosa sa Di Pietro di un debito di gioco di Eleuterio Rea, comandante dei vigili urbani milanesi, ripianato da Gorrini e D’Adamo per intercessione di Di Pietro. Come mai Gorrini si sarebbe offerto di presta-


re a Di Pietro 20 milioni per l’acquisto di una Mercedes e poi altri 100 milioni per ristrutturare la sua abitazione a Curno. La reazione di Di Pietro non si fa attendere… è scandaloso quanto sta accadendo a Brescia… ora basta con queste pagliacciate, li denuncio. L’avv. Taormina, ripescando vecchi e nuovi anonimi e illazioni attacca me e la mia famiglia sul piano personale, su fatti totalmente inventati senza alcuna carta processuale di riscontro e che comunque nulla avrebbero a che vedere con l’economia processuale. Infatti, il 20 aprile, il Tribunale di Brescia rigetta la richiesta dell’avv. Taormina definendola ‘inammissibile’. Ma dal 20 aprile, la vita di Di Pietro, pubblica e privata, non sarà più la stessa. Le presunte illazioni, i ‘veleni’, le ‘mezze verità’ sul conto del più lodato magistrato d’Italia, sono solo all’inizio. E’ come se si fosse aperto l’ingresso di un vasto terreno di caccia in cui tutti, procuratori e giornalisti, si affannano a seguire le tracce del ‘giustiziere’ più amato e odiato del Paese. Dal 20 aprile la vita pubblica e privata di Di Pietro… è rivoltata come un calzino, per usare le parole che pare abbia pronunciato lui stesso riferendosi a Berlusconi. Il 21 aprile, intanto, scoppia un’altra grana. Di Pietro smentisce di aver smentito l’incontro con Berlusconi… sì, l’ho visto, ma solo per ribadirgli che non intendo entrare in politica… non mi candiderò alle elezioni politiche, né sosterrò alcuna formazione. Avrò pure il diritto di dirlo di persona a chi me lo chiede. Poi è tutto un crescendo di accuse. Il 29 aprile Giancarlo Gorrini è interrogato dal pm di Brescia Fabio Salamone; esattamente un mese dopo, il 29 maggio, Antonio Di Pietro invia a Brescia un suo ‘esposto-querelamemoria’ di 21 cartelle in cui scrive la ‘sua’ verità circa le accuse indirette rivoltegli dall’avv. Taormina; il 2 giugno si sparge la voce che Di Pietro è iscritto nel registro degli indagati della Procura bresciana per concussione; il 3 giugno Di Pietro scrive, su Repubblica, i motivi che lo hanno indotto a lasciare la

Magistratura… sono stato io stesso a denunciarmi e a denunciare. Questa storia dei dossier costruiti su di me deve finire. Mi sono dimesso proprio per affrontare con serenità questa battaglia… sulla mia vita privata stanno cercando di gettare fango… ho deciso di affidarmi ai giudici affinché valutino ogni mio comportamento passato e presente e soprattutto perché individuino chi, come e perché costruisce nell’ombra accuse e veleni. Il 5 giugno tutti i quotidiani pubblicano ampi stralci del ‘memoriale’ di Di Pietro… un memoriale – scrive Cimini da Milano – che invece di dissipare aumenta gli interrogativi in una vicenda che diventa sempre più inquietante. Nella ‘memoria’, Di Pietro, prima attacca… ho già riferito, in un esposto, che era stato offerto denaro a giornalisti e conoscenti affinché mi calunniassero; poi si difende… Giancarlo Gorrini non è mio amico, l’ho incontrato quattro, cinque volte perché amico di Osvaldo Rocca, mio compagno di caccia; è da Rocca che ho ricevuto i soldi per l’auto e per ristrutturare la mia abitazione; solo in seguito ho saputo che quei prestiti erano di Gorrini, un debito che comunque ho già estinto. Non ho mai sollecitato l’assegnazione del ‘portafoglio sinistri’ della Maa di Gorrini allo studio legale di mio suocero e mia moglie, semplicemente perché questi ne erano i titolari da anni. E’ falso che io abbia chiesto a Gorrini e D’Adamo di risanare i debiti di gioco dell’amico Eleuterio Rea anzi, proprio perché conosco Rea da molti anni, mi sono permesso di affrontarlo ricordandogli la sua immagine di dipendente pubblico. In altre parole, le amicizie, le frequentazioni ci sono, il contesto è tutto falso. Che peccato – scrive De Tomaso nell’editoriale del 5 giugno – per anni Antonio Di Pietro è stato il mito del Bene, il Buono che ha sconfitto i Cattivi, la consolazione e la speranza di chi non voleva arrendersi alla vittoria del Male e all’effetto metastasi del tumore corruzione. Tonino il Giusto stava lì a dimostrare che era possibile una nuova Resistenza, contro l’ille- 453



galità diffusa e l’arroganza del potere. Da qualche anno, forse, non è più così. Forse Di Pietro rimane al primo posto nel cuore della maggioranza degli italiani, forse i più pensano ad un complotto ordito sulla pelle del Davide che ha colpito i Golia del malaffare. Fatto è – continua De Tomaso – che l’iscrizione dell’ex magistrato di Mani Pulite nel registro degli indagati a Brescia, ferisce Di Pietro nella sua dote più cara – la credibilità – e nel suo patrimonio più prezioso – la trasparenza. Un tipo come Di Pietro deve averne pestati di piedi. Qualcuno può, anzi deve, avergliela giurata. E in queste settimane ha deciso di presentargli il conto… lui stesso ha lasciato intendere di essere sottoposto a un logoramento fatto di ricatti, insinuazioni, mezze parole. Perché allora, lui così sanguigno e coraggioso non ha affrontato il toro per le corna, sbugiardando questi tentativi di delegittimazione e costringendo gli autori della ‘congiura’ ad uscire allo scoperto? Tutti gli avrebbero creduto. Oggi, invece, il clima sta cambiando – conclude De Tomaso – nessun cittadino è sceso in piazza per gridare ‘viva Di Pietro’, o ‘Di Pietro non si tocca’. Tonino il Giusto, scommettiamo, uscirà indenne dalla tempesta. Ma per lui e per noi, non sarà come prima. Peccato. No, non sarà più come prima anche se, ancora ad ottobre, dopo voci di un imminente arresto e dopo un interrogatorio di 18 ore alla Procura di Brescia, un sondaggio indica Di Pietro come l’uomo più popolare del Paese. Contrapposto a Berlusconi in una ipotetica corsa al Quirinale, Di Pietro otterrebbe il 64,5% dei suffragi; contrapposto a Dini, per la Presidenza del Consiglio otterrebbe il 60%. Uno schieramento politico guidato da Di Pietro, avrebbe il 41,2% dei suffragi. Ma i sondaggi, si sa, vanno presi con le pinze. La gente della strada ritiene che Di Pietro, e con lui il pool Mani Pulite, siano vittime di una persecuzione politico-imprenditoriale – specie dopo aver rotto i ponti con il Polo berlusco-

niano – e quindi si schiera dalla sua parte. Nel gennaio del 2002, in occasione del decennale di Mani Pulite, il mensile politicoculturale ‘Micromega’ ospita una lunga intervista ad Antonio Di Pietro a cura di Carlo Lucarelli il quale, dopo aver citato pochi dati sull’attività di Mani Pulite – 25.400 avvisi di garanzia, 4.525 arresti, 1.069 uomini politici coinvolti e 5 partiti completamente cancellati dalla geografia politica del Paese – chiede a Di Pietro quando, secondo lui, inizia l’opera di delegittimazione del pool milanese. Inizia nel ’95 e comincia da me – replica Di Pietro – comincia il giorno successivo alle mie dimissioni dalla Magistratura ed è andata avanti per ben cinque anni. Nel ’95 inizia la stagione degli anonimi e dei dossier su tutti, ma soprattutto su di me. Dal ’95 sono stato costretto a difendermi, a Brescia, da accuse di ogni genere, compreso le molestie sessuali. Dal momento in cui le indagini di Mani Pulite sono cresciute a dismisura, qualcuno ha capito che bisognava fermare uno dei gangli fondamentali di quella macchina tritasassi che era diventato il pool di Mani Pulite… ed io, purtroppo, ero il capro espiatorio ottimale perché ero il mentore dell’inchiesta e, allo stesso tempo, anche l’anello più debole… a causa delle mie frequentazioni e dei miei rapporti personali con persone disponibili a vendersi per trenta denari… io non sono né l’unto del Signore né un santo in terra. Sono un figlio del proprio tempo che, quando è stato chiamato a fare il proprio dovere, non si è tirato indietro, né ha fatto sconti a nessuno, nemmeno alle persone che conosceva… sono sempre stato una persona normale con rapporti personali e amicizie che ho creduto sincere… la mia vita è stata sviscerata, modificata e artefatta. Ho subìto 27 inchieste per poi accertare, 27 volte, che i fatti non sussistevano. C’è tuttavia un’autocritica che si può fare – conclude Di Pietro – Mani Pulite esplode per il rigore delle indagini, ma implode quando in alcune altre procure si è voluto emulare il pool milanese con metodi investigativi 455


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azzardati e indagini esplorative su fatti che si supponevano soltanto.

La Giustizia… sfiduciata La scintilla che fa scattare l’avvio di una nuova ispezione alla Procura di Milano, da parte del ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, nasce proprio dal clamore che sta suscitando nel Paese la vicenda dell’ex pm Antonio Di Pietro. Lo ‘spettacolo continuo’ della Legge data in pasto al pubblico attraverso il pool di Mani Pulite è, per Mancuso, insopportabile. Per il nuovo Ministro della Giustizia, già procuratore generale della Corte d’Appello di Roma in pensione, tutte quelle interviste, le apparizioni Tv, i titoli sui giornali, le fotografie, non sono degne di un magistrato che, per sua concezione, deve essere discreto fino al mutismo. A Bari, dove Mancuso è stato primo presidente della Corte d’Appello dal 1982 al 1986… avvocati e magistrati – scrive Carmela Formicola – lo ricordano come un ‘osso duro’. Rigoroso, integerrimo, preparatissimo, in qualche modo ottocentesco nell’interpretazione del suo ruolo, Mancuso è soprattutto alieno da ogni protagonismo. Per Mancuso, dunque, è tempo di scrivere la parola fine alla ‘Giustizia spettacolo’. Per cui il nuovo Guardasigilli va a rileggersi le 700 pagine della relazione degli ispettori inviati alla Procura di Milano dal suo predecessore Alfredo Biondi. Relazione che il CSM non ha mai esaminato né resa nota; va a rileggersi la lettera del procuratore capo Borrelli, inviata al Capo dello Stato quale presidente del CSM e divulgata dallo stesso pool di Mani Pulite in cui si chiede quali siano i limiti dell’attività degli ispettori di Biondi e se possono essere messi sotto inchiesta qualora commettessero… anomalie penalmente perseguibili o si trovassero in palese conflitto di interessi con la Procura di Milano… e ravvisa gli estremi per una nuova ispezione… poiché gli ispettori inviati dal ministro Biondi – dirà 456 Mancuso l’11 maggio in una semideserta aula

del Senato – si trovarono ad agire in una situazione di grave disagio e furono assoggettati a una concorsuale e mirata azione, psicologicamente complessiva, tanto che, tornati a Roma tutti, indiscriminatamente turbati, diedero le dimissioni. Traduzione: gli ispettori di Biondi furono ‘intimiditi’ dalla lettera del pool di Mani Pulite – che Di Pietro non volle firmare – e quindi le… acquisizioni che si sono potute compiere in quella fase, sostanzialmente irregolare – sostiene Mancuso – risultano obiettivamente tutt’altro che complete e tutt’altro che esaurienti. Esse appaiono abbisognevoli, in maniera evidente, di ulteriori attività da svolgersi in un clima di altro tipo, senza le quali l’ispezione non può dirsi realmente e veramente ultimata. Solo questo ‘passaggio’ della lettera che Mancuso sta leggendo in aula basta e avanza per allarmare i pochi senatori presenti a Palazzo Madama. Improvvisamente, l’aula del Senato si rianima. Qualcuno grida all’indirizzo del ministro ‘dimissioni’; altri ‘viva Di Pietro’; altri ancora ‘viva Mani Pulite’. Ma Mancuso, imperterrito, continua a leggere,

Il Guardasigilli Filippo Mancuso.


citando ‘I promessi sposi’ senza citare Manzoni e citando la Procura di Milano senza mai citare Tangentopoli e i componenti del pool di Mani Pulite. Alla fine, non solo ribadisce la necessità di una nuova ispezione, ma indica addirittura su cosa gli ispettori dovranno investigare e verificare: se ci sono stati eccessi nell’utilizzo della custodia cautelare; se c’è stato un prevalente disimpegno nei confronti di spunti rilevanti di indagini riferibili a taluno dei filoni; se c’è stata una sistematica e diffusa violazione del dovere di riserbo con riguardo persino a vicende processuali di particolare delicatezza; se c’è stata inosservanza di principi e di norme processuali con pregiudizio per la tutela dei diritti di difesa e delle libertà delle persone; fino alla verifica di una presunta chiusura esclusivistica e di fatto verso controlli di legittimità e amministrativi aventi esiti non conformi alle tesi perseguite dall’ufficio. Succede il finimondo anche se, a causa del linguaggio tutto particolare di Mancuso, molti non hanno capito se le ispezioni sono il cauto preannuncio di future indagini oppure un’esplicita sentenza di condanna. Per diversi giorni non si capisce nulla. Alcuni magistrati plaudono all’iniziativa di Mancuso, altri no. Alla Procura di Milano sono sereni… non abbiamo nulla da rimproverarci – sostiene il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio – abbiamo avuto la visita degli ispettori di Biondi, avremo quella degli ispettori di Mancuso. Ma questa volta è diverso. Biondi era parte di uno schieramento politico, Mancuso no. Il nuovo Guardasigilli è un ex magistrato in pensione e basta. Non è collegabile a nessuno schieramento. E’ amico personale del Capo dello Stato e alcuni dicono che sia stato proprio Scalfaro ad indicare il nome di Mancuso a Dini. Per il centro-sinistra è un vero rompicapo: sono tutti solidali con il pool di Mani Pulite, ma sono anche sorpresi e meravigliati per la clamorosa iniziativa di Mancuso. Non posso-

no e non vogliono chiedere le dimissioni del Ministro perché significa mettere in difficoltà sia il Governo che sostengono, che il Capo dello Stato; la Lega, come al solito, prima chiede le dimissioni di Mancuso, poi fa marcia indietro. A Rifondazione, invece, non par vero di avere l’occasione buona per ‘affossare’ il Governo Dini e subito preannuncia una mozione di sfiducia. Ma anche il centro-destra è diviso. Fini tace; La Russa sbotta… Mancuso ha preso un granchio colossale… gioisce invece Berlusconi che continua a denunciare di essere lui, il suo gruppo imprenditoriale e i suoi dirigenti, vittime di una persecuzione del pool di Mani Pulite. Il 23 marzo, infatti, la Procura milanese ha chiesto il rinvio a giudizio per Marcello Dell’Utri, amministratore delegato di Publitalia, la società pubblicitaria della Fininvest, per false fatturazioni e frode fiscale. Il 14 maggio, intanto, la ‘bomba’ Mancuso sembra disinnescata. Una serie di ‘interventi’ di Dini e Scalfaro a cui si è appellato il centrosinistra, sfocia in un comunicato del Ministero di Grazia e Giustizia… l’azione del Ministro è costantemente ispirata al rispetto di ogni legittima potestà pubblica, prima fra tutte quella che risiede nel Parlamento. Neppure il tempo di tirare un sospiro di sollievo che Mancuso torna sui suoi passi. Il 15 maggio, nuova dichiarazione… si esclude ogni recesso dalla osservanza degli individuati doveri del Ministro che sono anche di rango costituzionale – scrive Mancuso – è fuor di dubbio che l’attuale Guardasigilli intenda infrangibilmente attenersi a tali criteri fino a quando vorrà mantenere la titolarità del Ministero di Grazia e Giustizia. A questo punto, anche Scalfaro, come Dini, passa la palla al Parlamento. Il Ministro ha il diritto/dovere di adempiere ai propri compiti – sostiene il Capo dello Stato – ma è incontestabile che la Procura di Milano ha il merito storico di aver saputo affrontare le deviazioni della classe politica italiana. Ma nessuno è infallibile, tocca quindi al Parla- 457


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mento fare la sintesi e trovare la via d’uscita. Il 20 maggio, mentre il pool di Mani Pulite chiede il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi per concorso in corruzione – è l’atto consequenziale all’avviso consegnato a Napoli il 21 novembre ’94 – la Procura generale presso la Corte di Cassazione invia un ‘avviso di incolpazione’ ai firmatari – Borrelli, D’Ambrosio, Davigo e Colombo – della famosa lettera ‘intimidatoria’ contro gli ispettori inviati da Biondi. Il pool di Mani Pulite dovrebbe rispondere di… aver gravemente violato i basilari doveri di corretta morale e di lealtà di condotta che incombono sui magistrati; di aver agito animati da pura e semplice tendenziosità fino ad arrivare all’intimidazione degli ispettori e al condizionamento della libertà psicologica e funzionale. Se c’era un modo per affossare l’intera vicenda, quel modo l’ha trovato lo stesso ministro Mancuso che non ottiene dalla Cassazione l’avvio dell’indagine contro il pool di Mani Pulite, finisce per inimicarsi il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e, il 19 ottobre, infine, il Senato vota e approva la mozione di sfiducia personale contro il Guardasigilli presentata dal centro-sinistra e, naturalmente, da Rifondazione. Con il rinvio a giudizio del Cavaliere e l’‘avviso di incolpazione’ al pool di Mani Pulite, le polemiche sulle iniziative del Guardasigilli si stemperano: si è riacceso il dibattito politico per l’imminente, nuovo, ricorso alle urne.

I referendum della discordia L’11 giugno, 48 milioni di italiani dovranno tornare nella cabina elettorale per pronunciarsi con un SI o con un NO su 12 referendum, otto dei quali importantissimi. I quesiti numero 1, 2, 3 e 7 riguardano le organizzazioni sindacali e i loro limiti di rappresentanza alla contrattazione collettiva e nelle aziende; i quesiti numero 5, 10, 11, 12 riguardano il sistema radiotelevisivo pubblico e privato per 458 i quali, se vincessero i SI, specie nei quesiti

10, 11 e 12, Berlusconi sarebbe costretto a ridimensionare fortemente il suo potere imprenditoriale nell’emittenza televisiva con danni economici incalcolabili. Così, subito dopo le elezioni amministrative, al fine di evitare che il Cavaliere possa continuare a cantare il ritornello del ‘perseguitato’, si tenta una mediazione: con il varo di una leggina abrogativa di alcune norme della legge Mammì – di cui si è già fatto cenno – i quattro referendum sul sistema radiotelevisivo potrebbero essere cancellati. Ma il 26 maggio, il gip di Torino, Piero Caprioglio, ordina l’arresto di Marcello Dell’Utri… potrebbe inquinare le prove… e l’accordo sfuma. Il primo a commentare negativamente l’arresto di Dell’Utri, rinchiuso nel carcere di Ivrea, è proprio D’Alema … nessuna strumentalizzazione… sarebbe barbaro se gli avversari di Berlusconi usassero questo argomento per fini politici in vista dei prossimi referendum così come sarebbe ridicolo che per suffragare la sua tesi sulle toghe rosse lo usasse il Cavaliere. Ma Berlusconi non raccoglie e si scatena… è una plateale ingerenza nella campagna referendaria… a due settimane dal voto, l’Azienda che le sinistre più oltranziste vogliono distruggere, viene criminalizzata per vie legali. Ormai è chiaro – scrive il sociologo Sabino Acquaviva – la tornata referendaria dell’11 giugno si è trasformata in una specie di giudizio di popolo pro e contro Berlusconi anche se è difficile capire cosa cambierebbe, concretamente, in caso di vittoria dei SI o dei NO… si tratta di aiutare o combattere il Cavaliere, e la gente sa cosa fare. E lo sa così bene che Berlusconi vince aggiudicandosi un round decisivo per il rilancio delle sue aziende e il rientro nell’agone politico. Ma procediamo con ordine. Il quesito numero uno propone l’abolizione dei limiti di rappresentanza sindacale nella contrattazione collettiva stabilito dallo Statuto


Nuova ondata referendaria: si vota per un SI e un NO a dodici Referendum.

dei lavoratori. Com’è noto, tutti i contratti collettivi portano le firme dei datori di lavoro e delle tre sigle sindacali nazionali riconosciute dallo Statuto: CGIL, CISL, UIL. L’obiettivo dei promotori di questo quesito – Lega, Riformatori di Pannella e Rifondazione, a cui hanno aderito Forza Italia e Alleanza Nazionale – è quello di togliere il monopolio della rappresentatività alle tre organizzazioni nazionali. In pratica, se vincono i SI – ed è quello che chiedono i promotori – qualunque gruppo di lavoratori di base, costituitosi in Sindacato, potrebbe partecipare alla trattativa contrattuale con i datori di lavoro. I fautori del SI sostengono che si attuerebbe una maggiore democrazia; i fautori del NO – PDS, Patto dei democratici, i due partiti popolari e naturalmente CGIL, CISL e UIL, sostengono che, se vincono i SI, si rischia la polverizzazione della rappresentanza sindacale, la paralisi della contrattazione collettiva con conseguente indebolimento della tutela dei lavoratori. Vincono i NO, ma proprio per un soffio, con il 50,01% contro il 49,99%. Il secondo quesito è simile al primo, ma più ‘morbido’. Non a caso alle ragioni del SI aderisce anche il PDS. In questo quesito si chiede l’abrogazione parziale degli stessi limi-

ti del primo. Si potranno, cioè, costituire, nelle aziende, sigle sindacali autonome purché ‘collegate’ con i sindacati firmatari dei contratti nazionali. In pratica, saranno sempre CGIL, CISL e UIL ad andare al tavolo delle trattative, ma non senza prima aver consultato le cosiddette sigle ‘autonome di base’. Vincono i SI con il 62,1%. Il terzo quesito riguarda il pubblico impiego. Il decreto legge numero 29 del 1993 demanda al Presidente del Consiglio la scelta degli interlocutori – le organizzazioni sindacali ‘maggiormente rappresentative’ – nella trattativa contrattuale nazionale. Il comitato promotore del SI – quasi tutti i partiti meno i Popolari – vorrebbero invece abrogare la legge per averne un’altra che garantisce ai lavoratori del pubblico impiego la stessa ampiezza di diritti del settore privato. Vincono i SI con il 64,7%. Infine, per concludere i referendum in materia sindacale, il quesito numero 7 mira all’abrogazione della trattenuta sindacale, operata dai datori di lavoro sulla busta paga, per delega dei dipendenti. I promotori del SI – praticamente solo i Riformatori di Pannella a cui aderiscono Forza Italia e Alleanza Nazionale – propongono che sia il lavoratore a versare 459


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direttamente alle organizzazioni sindacali il proprio contributo. In alternativa, la delega all’Azienda deve essere confermata di anno in anno. Vincono i SI con il 56,2%, ma non è mai cambiato nulla. Nessuno, o quasi, ha mai versato i contributi sindacali direttamente all’organizzazione di appartenenza né tanto meno ha rinnovato la delega all’Azienda annualmente. A raccogliere le firme per il referendum numero 4, invece, è stata la Lega a cui si sono associati tutti i partiti tranne il PDS che ha lasciato libertà di scelta. Il quesito ha per titolo l’abolizione del potere del Procuratore Nazionale Antimafia di ordinare il soggiorno cautelare a presunti componenti della criminalità organizzata in località lontana da quella d’origine. L’abrogazione di questa norma della legge 356, sostengono i ‘lumbard’, impedirebbe ai mafiosi camorristi di inquinare il limpido cielo del Nord dai germi malavitosi delle terre meridionali. Vincono i SI con il 63,7%. I referendum numero 6 e 9 riguardano le licenze commerciali e gli orari di apertura e chiusura degli esercizi. Promotori di entrambi i quesiti sono i Riformatori di Pannella. L’intento è quello di liberalizzare l’assegnazione delle licenze – pianificate dai Comuni – e degli orari degli esercizi – stabiliti dalle Regioni – per garantire il massimo della concorrenza. La battaglia di Pannella è persa in partenza. Sono contrari all’abrogazione di leggi e regolamenti in materia, non solo tutte le associazioni di categoria, ma anche tutti i partiti. La concorrenza incontrollata, dicono i sostenitori del NO, avrebbe costi insopportabili per i piccoli esercenti che sarebbero costretti a chiudere favorendo così la grande distribuzione. Prevalgono le ragioni del NO. Gli elettori bocciano sia la proposta di abolire la pianificazione delle licenze – con il 64,4% – che la liberalizzazione degli orari con il 62, 5%. Ma forse Pannella aveva visto giusto. E’ vero che le ‘regole’ sono rimaste, ma nel corso degli ultimi dieci anni gli esercizi della grande 460 distribuzione sono aumentati a dismisura;

migliaia di negozi ‘sotto casa’ hanno abbassato per sempre le saracinesche e gli orari di apertura e chiusura, specie dei super e ipermercati, sono diventati un ‘optional’. I Comuni non hanno saputo resistere alle sirene della grande distribuzione, disposta a pagare decine di miliardi per una licenza, senza contare gli enormi investimenti produttivi, l’indiscutibile aumento della concorrenza e, non di rado, la riqualificazione di aree urbane altrimenti abbandonate a se stesse. Al referendum numero 8, sempre promosso dal Club Pannella, hanno aderito Forza Italia, Alleanza Nazionale e CCD. La richiesta è l’abolizione del ballottaggio per l’elezione dei Sindaci, previsto per i Comuni con più di 15mila abitanti. Turno unico per tutti, insomma: il candidato che ottiene più voti, con qualunque percentuale, vince. Anche questo quesito è parecchio contrastato. Gli elettori contrari all’abolizione del doppio turno, infatti, vincono con il 50,6%. Ed eccoci all’essenza vera della battaglia referendaria, ai quesiti numero 5, 10, 11 e 12, incentrati sulla richiesta di abrogare alcune norme del sistema radiotelevisivo pubblico e privato e che, grazie ad alcuni incidenti di percorso – la richiesta di rinvio a giudizio a carico di Berlusconi e l’arresto di Marcello Dell’Utri – il Cavaliere saprà trasformare a suo vantaggio. Ma la vera carta vincente di Berlusconi è una sentenza della Corte Costituzionale che alla vigilia dell’applicazione delle regole sulla ‘par condicio’ – divieto di ogni forma di propaganda trenta giorni prima di ogni consultazione elettorale – sancisce che quelle regole non sono valide per i referendum. Una manna per il Cavaliere che farà inondare di spot pubblicitari le sue reti facendo infine prevalere le ragioni che gli consentono di conservare il suo impero imprenditoriale e il suo potere mediatico. Nel referendum numero 5, proposto dalla Lega e dal Club Pannella, si chiede l’abolizione di quella parte della legge Mammì che definisce la proprietà della RAI a totale partecipazio-


E’ per la Tv pubblica e privata lo sconro referendario.

ne pubblica. In altre parole, la Lega, Pannella e con loro anche il centro-destra e il PDS, vorrebbero riformare la legge Mammì, prevedendo la parziale privatizzazione della RAI. I fautori del NO invece, Rifondazione in testa, vorrebbero lasciare le cose come stanno per… non svegliare inconfessabili appetiti dell’imprenditoria privata. Vincono i SI con il 54,9%. Ancora una volta, però, a 10 anni di distanza da quel referendum, la parziale privatizzazione della RAI è di là da venire. Ma è sui referendum numero 10 e 11 che si concentra la battaglia politica fra il centrodestra e il centro-sinistra. Promotori dei due quesiti sono i partiti di centro-sinistra, Lega e Rifondazione. Praticamente la maggioranza uscita dalle elezioni amministrative. Il quesito numero 10 propone… l’abolizione della possibilità di essere titolare di più di una concessione televisiva nazionale; il quesito numero 11 chiede… l’abolizione dei messaggi pubblicitari durante ciascun tempo o atto di film, opere teatrali, liriche e musicali. A voler essere ottimisti, sostiene Berlusconi, se vincessero i SI tutte le emittenti televisive private rischiano il collasso poiché, se la RAI può sempre contare sul canone, le emittenti private, che si finanziano con la pub-

blicità, sarebbero costrette a ridimensionarsi immiserendo la programmazione. Per lui, poi, che possiede tre reti, la vittoria dei SI lo costringerebbe a venderne due. Perciò l’equazione del Cavaliere è semplice: i referendum sono stati elaborati e concepiti dalla sinistra esclusivamente per danneggiare lui e le sue aziende. Dunque bisogna votare NO… per negare una vendetta politica contro le reti della Fininvest. Forse non era vero. Forse il Comitato promotore voleva veramente rompere il duopolio RAI-Fininvest per consentire una maggiore libertà di concorrenza, per garantire libertà di informazione, per migliorare i programmi – si è appena agli inizi della Tv spazzatura – per salvaguardare l’arte nei film o negli spettacoli in genere… per non interrompere un’emozione… si diceva, con gli spot pubblicitari. Ma Berlusconi saprà strumentalizzare così abilmente questi referendum sul sistema radiotelevisivo da ‘costringere’ l’opposizione a scendere sul terreno politico e personale. Accade così che, nel sentire comune, i quesiti referendari diventino un mezzo per ‘liberarsi’ definitivamente del Cavaliere. Domani – scrive Cristiana Cimmino sulla Gazzetta del 10 giugno – si decide il futuro imprenditoriale e politico di Berlusconi. Dai risultati sui referendum, soprattutto quelli sulle tivvù, dipende anche la sorte delle elezioni politiche… se il leader di Forza Italia dovesse subire una batosta domani, l’eventualità del voto anticipato sarebbe fortemente compromesso. E la conflittualità nel Polo delle libertà subirebbe una spinta centrifuga. Morale: se Sua Emittenza perde anche i referendum, dopo aver subìto l’umiliazione del ‘ribaltone’ e la pesante sconfitta elettorale amministrativa di aprile, non gli resta che ritirarsi a vita privata poiché anche il Polo… si scioglierebbe. Vince il referendum numero 10 – che gli consente di conservare le tre reti televisive – con il 57%; vince il referendum numero 11 – che gli consente di conservare e ampliare la 461


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programmazione degli spot pubblicitari – con il 55,7% e vince anche il referendum numero 12, promosso sempre dal centro-sinistra, in cui si chiede… l’abolizione, per Società pubbliche o private, di raccogliere pubblicità per tre reti televisive nazionali… come fanno la SIPRA per la RAI e Publitalia per la Fininvest. Con la vittoria del NO, 56,4%, a limitare la raccolta pubblicitaria delle due Società, gli elettori ‘salvano’ anche la chiacchierata Publitalia, il salvadanaio della Fininvest o, come sospettano i magistrati di Mani Pulite, il ‘pozzo dei fondi neri’ per corrompere i finanzieri, amministrato da Marcello Dell’Utri. Il 15 giugno Lino Patruno, in un editoriale dal titolo ‘Siamo brava gente da telenovela’, scrive… la vittoria di Berlusconi nel referendum sulle Tv private ha fatto riscoprire ai signori intellettuali che agli italiani tutti gli scherzi si possono fare, ma non togliergli le telenovele, Mike Bongiorno, Vianello e la Cuccarini. Allo stesso modo in cui, nell’altro campo, avviene per Pippo Baudo, tacciato di nazionalpopolare solo perché piace soprattutto a quella maggioranza che il sabato sera non ha né i mezzi né l’abitudine di spegnere la Tv e uscire… si ha tanto da turarsi il naso sdegnati. Ma una cosa sono i desideri dei maestri di pensiero, un’altra i gusti della gente. Questo italiano delle Tv private – continua Patruno – era stato plasmato già da un pezzo. E più volente che nolente, se non vogliamo considerarlo uno stupido. Se chi vede Beverly Hills non fa peccato, non si capisce perché a mandarlo all’inferno debbano essere gli uomini di cultura specialisti nell’immaginare sempre un mondo fuori dal mondo… è soprattutto la sinistra a pagare il fio di questa sdegnosa cecità; a furia di considerare le Tv commerciali il diavolo, ha smarrito la capacità di annusare ciò che le avveniva intorno, di offrire proposte alternative… bisogna capire, senza pregiudizi, perché e come gli italiani sono diventati canalecinque-dipendenti e perché non gliene importa niente che uno spot 462 spezzi la fragile emozione di un film… biso-

gna capire perché l’italiano medio non inorridisca nell’essere corteggiato più per la sua capacità di consumo che per il suo gusto di spettatore. Capire, non giudicare – conclude Patruno – questo il vero senso della vittoria di Berlusconi, più che il consueto significato politico che gli ha voluto dare. Il giorno dopo, 16 giugno, Marcello Dell’Utri esce dal carcere di Ivrea. Gli inquirenti hanno ritenuto superato il pericolo d’inquinamento delle prove. Ai giornalisti, in attesa fuori dal carcere, il dimissionario top manager di Publitalia sembra appena uscito da un albergo a cinque stelle. Vestito come sempre in modo impeccabile, a chi gli chiede come ha vissuto le tre settimane di reclusione risponde, con molta serenità… benissimo. Il posto non è malvagio… è stata un’ottima occasione per riposare, leggere e riflettere… peccato per l’ultimo capitolo dei ‘Promessi Sposi’, non so se avrò il tempo di finirlo. Infatti non l’avrà, perché a partire dal 1996, intorno all’uomo ritenuto il braccio destro di Berlusconi, l’unico ad averlo sollecitato a ‘scendere in campo’, si scatena l’inferno. ‘Perseguitato’ dalla Magistratura di Milano, Torino e Palermo, che lo accusa di ‘concorso esterno in associazione mafiosa’, la stessa formulata per Andreotti… il raffinato, colto, garbato ed estremamente riservato Marcello Dell’Utri – il ‘ritratto’ è di Indro Montanelli – non si abbandonerà mai alle ‘intemperanze’ di Berlusconi e Previti. Mai una volta che si dica ‘vittima di un complotto’ o che parli di ‘fumus persecutorio’. Persino quando, l’11 dicembre del 2004, è condannato in primo grado a 9 anni di reclusione dirà che… i giudici sono stati corretti… hanno solo fatto il loro mestiere… purtroppo la giustizia non è di questo mondo. Ma il collegio dei giudici che gli ha inflitto quella pena per concorso esterno in associazione mafiosa, nella motivazione pubblicata il 14 luglio 2005, scrive che … la pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la


si dice – trovando d’accordo, questa volta, anche l’opposizione-maggioranza di centrosinistra.

Mancuso-Scalfaro, amici contro

Marcello Dell’Utri: un mafioso in doppio petto?

rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di ‘Cosa Nostra’, al quale è stata, tra l’altro, offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici. Chi è allora Dell’Utri? Un raffinato lettore, un bibliofilo appassionato che ha trovato nell’amicizia e nell’impresa mediatica di Berlusconi un modo per esprimere le sue capacità di marketing, oppure un furbo e dinamico stratega, un antesignano di quella mafia in ‘doppio petto’ che va disegnando il procuratore di Palermo Aldo Grasso? Al processo di Appello e poi alla Cassazione l’ardua sentenza. Intanto, archiviati i referendum, il Cavaliere, sempre più convinto di essere come una cucina della Salvarani – ‘la più amata dagli italiani’, dice la Cuccarini, in un noto spot televisivo – torna a sponsorizzare le elezioni anticipate per l’autunno – per il 7 novembre,

Il ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, ha deciso di riprendersi le prime pagine dei quotidiani. Il 24 giugno, il Guardasigilli invia al procuratore generale di Milano, Giulio Catelani, un fascicolo relativo al caso di Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’ENI suicidatosi nel carcere milanese di San Vittore il 20 luglio del ’93, dopo il rigetto dell’ennesima richiesta di libertà, perfino promessagli, da parte del pool di Mani Pulite. Mancuso, insomma, vuole verificare se anche nel ‘caso Cagliari’ ci siano state forzature nell’uso della carcerazione preventiva e aprire un’inchiesta contro il pool milanese. Scalfaro apprende la notizia in Brasile e da lì commenta… io non posso dare nessun giudizio su cose che non conosco. Mi sento però di dire una cosa come principio: che lascia molto perplessi il fatto di vedere delle persone verso le quali, dopo che hanno compiuto il loro dovere, inizia un’azione di demolizione. Questo è un tema che dovrà essere visto con molta attenzione. Mancuso la prende male e, amico o no, gli risponde per le rime… è di interesse generale chiedersi se le dichiarazioni del Capo dello Stato, per il contenuto e l’autorevolezza della fonte… abbiano attitudine a determinare l’implicito effetto di pregiudiziale contestazione o dissenso rispetto a tutte o qualunque delle autonome iniziative, disciplinari o paradisciplinari, assunte dal Ministero in conformità alla Costituzione e alla legge ordinaria. Una forma lessicale più elegante per dire a Scalfaro che il suo commento era inopportuno e fuori dalla Costituzione, Mancuso non poteva trovarla. Incredulo – scrivono i cronisti a seguito di Scalfaro in Brasile – il Capo dello Stato ribadisce: sono intenzionato a servire sempre il 463


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Il presidente del Consiglio Lamberto Dini e il ministro della Giustizia Filippo Mancuso... insieme, ma separati!

mio popolo, rimanendo fedele ad ogni costo alla Costituzione a cui ho giurato fedeltà. E Mancuso insiste… respingete i Catoni solenni e pensosi che sostituiscono la necessità del rispetto delle leggi con la vanagloria verbale o la prepotenza di fatto. E’ una bomba. E il Presidente del Consiglio, che in un primo tempo ha minimizzato il commento di Mancuso… lo conoscete. E’ soltanto un eccesso verbale… il 28 giugno, sollecitato a prendere una posizione ufficiale, emana un comunicato in cui afferma… di condividere pienamente le valutazioni espresse dal Capo dello Stato sul tema della giustizia. Il messaggio è chiaro: la fiducia fra il Presidente del Consiglio ed il ministro della Giustizia è venuta meno. Il Ministro è invitato a dimettersi. La replica di Mancuso è immediata… l’ipotetica soluzione alternativa di forzare il Ministro alle dimissioni verrebbe comunque recisamente esclusa e subito respinta al di fuori, naturalmente, del caso di dimissioni governative. Traduzione: io non me ne vado. Dovrete cacciarmi. E per farlo c’è un solo modo: aprire la crisi di Governo che nessuno vuole, tranne Forza Italia. Perfino Fini si è schierato con il Capo dello Stato. Non era mai accaduto – scrive Giuseppe De Tomaso sulla Gazzetta il 29 giugno – che 464 un ministro della Repubblica fosse ‘sfiduciato’

dal Capo del Governo e dal Capo dello Stato. Non è uno scontro istituzionale. E’ un ingorgo istituzionale senza precedenti. Scalfaro contro Mancuso. Mancuso contro Scalfaro. La maggioranza di Governo contro Mancuso. Dini contro Mancuso. Mancuso contro Dini e gli ‘azzurri’ di Forza Italia a difesa di Mancuso… l’unica soluzione possibile per por fine all’ingorgo è tornare alle urne. Ma si può tornare alle urne? L’uomo del Colle dice di no, non si può mandare a casa un Governo sorretto da una maggioranza, sia pur raffazzonata. Potrebbe crearsi un vuoto istituzionale. Dini dice di no, non ha ancora varato la legge più importante del suo programma: la riforma pensionistica. Gli imprenditori dicono di no, temono la reazione dei mercati finanziari internazionali. Alleanza Nazionale comincia a frenare: meglio aspettare che le acque si plachino; i Popolari, che hanno appena sancito il loro divorzio, hanno bisogno di tempo per capire chi sta con chi; la Lega sta per conto suo. Il 28 maggio, Bossi annuncia, da Torino, l’avvio di un ‘evento straordinario’… progettiamo di istituire un Parlamento al Nord con capitale Mantova, e un Parlamento al Sud. Dove? Si vedrà, non è rilevante! Il Parlamento del Nord – prosegue il Senatur – avrà l’esclusivo compito di verifica e controllo non certo quello di legiferare. Controllo e verifica su quello che viene deciso nel Parlamento


centrale di Roma. Se il minimo comune denominatore è lo sdegno – scrive Cristiana Cimmino che a Roma raccoglie i commenti dei politici – quello che certamente manca, nelle reazioni, è lo stupore. Perché l’Attila del Nord, da tempo ha abituato i suoi ‘colleghi’ politici, avversari ed alleati, ad ogni sorta di ‘stramberie’. Più divertito che sdegnoso il commento di Clemente Mastella… credo che Bossi abbia preso una sbornia e voglia giocare facendo divertire sé e gli altri. Ma allora chi vuole le elezioni anticipate? Forza Italia e Rifondazione. Pochi, troppo pochi perché il Capo dello Stato possa decidere di sciogliere le Camere. E poi, c’è sempre la ‘mina’ Mancuso da disinnescare. Il 29 giugno Massimo D’Alema annuncia che anche il PDS – dopo il gruppo progressista della Quercia, Rifondazione e Verdi – presenterà una mozione di sfiducia personale contro Mancuso, che accusa di comportamento patologico. Il Guardasigilli, invece, invita i giornalisti a non badare ai pupazzi di cenere e paglia. Il primo luglio, Scalfaro, tornato dal Sudamerica, concorda con Dini che il caso Mancuso può attendere… la priorità del Paese è la riforma delle pensioni. Il dibattito sulla ‘sfiducia’ al Guardasigilli è fissato per giovedì 19 ottobre nell’aula del Senato. Un po’ di tregua. Una pausa per rivedere, limare, mettere a punto la riforma pensionistica, l’ultimo dei quattro punti del Governo Dini. Poi se ne andrà? Non si sa. Il Capo dello Stato gli ha chiesto di far approvare il decreto sulla ‘par condicio’; di preparare e far approvare la legge Finanziaria per il 1996 e di gettare le basi per un ‘tavolo delle regole’ per le riforme istituzionali.

La ‘madre’ di tutte le riforme L’incontro preliminare fra Governo e Sindacato per la riforma globale del sistema pensionistico è del 7 marzo. Il Presidente del Consiglio vorrebbe licenziarla entro la fine di

aprile, ma il Sindacato non è andato al tavolo della trattativa per stabilire una data… non c’è fretta – sostiene Cofferati – prima vediamo cosa avete in pentola, poi discutiamo. E intanto, pongono sul tappeto quattro questioni ‘irrinunciabili’ e non trattabili. Primo: le pensioni in essere non si toccano; secondo: i tempi perché la riforma vada a regime devono essere più lunghi; terzo: i 35 anni di contributi per il godimento della pensione di anzianità, non sono trattabili… al limite possiamo prevedere un innalzamento graduale dell’età anagrafica; quarto: la rendita del 2% per ogni anno di contribuzione, non è in discussione. Stabiliti questi principi – sostiene il leader della UIL, Pietro Larizza – possiamo iniziare il negoziato poiché… le angherie sociali che avevamo rifiutato con il precedente Governo, non le accetteremo da questo né da qualunque altro Governo. Cosa resta, dunque, da ‘trattare’ per ridurre il deficit dello Stato, soprattutto il deficit dell’INPS, e salvaguardare il futuro pensionistico della prossima generazione? C’è ancora molto da negoziare, dicono gli esperti, ma i risparmi dell’INPS saranno esigui e quando la riforma andrà a regime, bisognerà farne un’altra ancora più drastica. Stabilite dunque le cose che non si toccano, il 24 marzo si apre ufficialmente il ‘tavolo della concertazione’ fra Governo, Sindacato e Confindustria. I cardini della riforma Dini – ma il termine è improprio, dicono Forza Italia e AN, si dovrebbe parlare di riforma ‘dettata dalla Triplice’ – poggiano su tre punti: innalzamento graduale dell’età pensionabile per il conseguimento del diritto alla pensione di anzianità; adozione di un nuovo sistema di calcolo – dal retributivo al contributivo – e utilizzo di quote del TFR – trattamento di fine rapporto – da destinare ai fondi per la previdenza integrativa. Segue, inoltre, l’equiparazione di trattamento fra dipendenti pubblici e privati. I dipendenti pubblici godono di un trattamento pensionistico più vantaggioso rispetto ai privati – da qui il dissenso di AN 465


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che ha nel pubblico impiego un vasto seguito elettorale – e poi, abolizione delle pensioni baby; revisione delle pensioni di reversibilità e invalidità – a seconda del reddito del superstite e dell’invalido – e la rivalutazione delle pensioni al costo della vita, che nel Governo Berlusconi il ministro del Tesoro Dini avrebbe voluto abolire, sarà calcolata una volta l’anno non sull’inflazione reale, ma su quella programmata. Infine, incentivi per chi resta al lavoro oltre i limiti d’età, disincentivi per chi lascia prima. In concreto, gli obiettivi sono tre: abolizione totale delle pensioni di anzianità; uniformare il trattamento pensionistico italiano agli altri Paesi della Comunità europea che pagano pensioni non superiori al 60, 65% della retribuzione – da qui l’esigenza di istituire pensioni integrative – e alleggerire la spesa previdenziale dell’INPS contribuendo così a diminuire il deficit dello Stato. Il primo obiettivo sarà raggiunto nel 2008 quando si potrà godere della pensione di anzianità con 35 anni di contributi e 60 anni di età, oppure senza il minimo di età, ma con 40 anni di contributi. In pratica, gli stessi anni di contributi necessari per il godimento della pensione di vecchiaia che non è materia di discussione in quanto, il 31 dicembre ’92, Giuliano Amato aveva già provveduto ad innalzare, gradualmente, l’età pensionabile di vecchiaia a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini a partire dal primo gennaio del 2000. Il secondo obiettivo – uniformare le pensioni italiane a quelle degli altri Paesi della Comunità – è così aleatorio, visti i chiari di luna occupazionali, che la prossima generazione di pensionati rischia di prendere una pensione di fame. L’accordo sulle pensioni integrative, invece, è rimasto fermo per 10 anni e soltanto nel 2006 sarà possibile – ma non obbligatorio – renderlo operativo. La spesa previdenziale, poi, è passata da un fabbisogno di 80mila miliardi del 1995 466 all’incredibile cifra di 326mila miliardi del

2001 poiché, nonostante gli appelli dei Governi e dei Sindacati a non lasciare il lavoro, nonostante gli incentivi, a partire dal 1996 ci sarà un vero e proprio esodo dalle aziende. L’ultima trattativa della riforma pensionistica, che Dini ha affidato alla competenza e alla grande capacità di mediazione del ministro del Lavoro, Tiziano Treu, inizia alle 18 di domenica 7 maggio e termina alle 8.30 del mattino di lunedì 8 maggio. L’accordo porta la sigla del Governo e dei tre leader sindacali, ma non quella di Luigi Abete… questo testo non lo posso firmare: è vergognoso… neppure in Unione Sovietica avrebbero fatto slittare la riforma delle pensioni di 13 anni – commenta, furioso, il presidente della Confindustria – se questo accordo passerà, il Governo si ritroverà, nel giro di due, tre anni, nella stessa situazione di oggi. Sarà vero? Forse. Ma prima che cominci l’estate, la riforma delle pensioni ‘s’ha da fare’ perché fra Berlusconi e D’Alema è scoppiata la pace: si sono messi d’accordo per tornare alle urne in autunno. Intanto, mentre Dini snocciola cifre per dimostrare la bontà della riforma… consentirà di risparmiare 10mila miliardi l’anno da qui al 2004… smentito, un mese dopo, dai tecnici dell’INPS… saranno appena 560 miliardi nel ’96 e non più di 4mila negli anni successivi… Sergio D’Antoni, il leader della CISL, esulta: è una svolta storica… abbiamo trovato soluzioni che ci hanno consentito di ristrutturare il sistema previdenziale senza danneggiare troppo i lavoratori. Più cauto il leader della CGIL, Sergio Cofferati… è un buon accordo… l’intesa è importante per due ragioni: ha criteri evidenti di equità e solidarietà e consente, contemporaneamente, di attuare i risparmi previsti. Per il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, invece, la riforma… contiene elementi di novità, ma è troppo lenta. In definitiva, tutti contenti tranne Fini e Bertinotti. Il leader di AN ritiene che i dipendenti pubblici siano stati discriminati e sostie-


ne che la riforma è anticostituzionale; il leader di Rifondazione è contro la riforma per principio… i diritti dei lavoratori conquistati con le lotte, non si toccano. Anche a costo di affossare il ‘sistema’ previdenziale… non è un accordo. E’ una controriforma. E Rifondazione si mobilita per bocciare l’intesa promuovendo lotte nel Paese e nel Parlamento, allo scopo di difendere le fondamentali conquiste dei lavoratori e un modello sociale di solidarietà. Il 12 maggio, a Milano, 40mila lavoratori scendono in piazza per protestare contro la riforma; il primo giugno CGIL, CISL e UIL ottengono, attraverso un referendum, il 70% dei consensi dei lavoratori alla riforma; il 15 giugno la riforma approda alla Commissione lavoro della Camera appesantita da una richiesta di 3.500 emendamenti. Solo Rifondazione ne ha presentati 2.700. Il 24 giugno Bertinotti porta in piazza, a Roma, un corteo di protesta con 50mila lavoratori. Il 3 luglio inizia il dibattito alla Camera. Lo scontro fra il Governo, Rifondazione e AN è durissimo, ma ormai è tutto deciso. Il 4 luglio Polo e Ulivo s’incontrano, per la prima volta, intorno al ‘tavolo delle regole’ per le riforme istituzionali; il 7 Berlusconi è ospite d’eccezione al Congresso del PDS… siamo diversi su tutto – dirà il Cavaliere alla platea – ma possiamo, dobbiamo dialogare, specie sulle regole, il cui tavolo è il benvenuto. Poi, rispondendo a D’Alema che gli aveva chiesto di riconoscere la leadership di Romano Prodi, Berlusconi replica: no, non è lui il mio interlocutore. Prodi non è pronto a fare il Premier perché non è il segretario del partito più forte della coalizione… la mia controparte è D’Alema. E il professore, che non ha gradito l’affermazione del Cavaliere, il giorno dopo lo ripaga definendolo un ‘liberista incompetente’… non ho bisogno di riconoscimenti né di essere unto da qualcuno, tantomeno da chi ha della democrazia un concetto che prescinde dal ruolo e dalla presenza dei cittadini, di chi crede che la leadership sia qualcosa che venga dall’alto… poi l’affondo… i mercati finanziari sono

Bossi: Lega Nord, alzati e vai all’assalto.

letteralmente terrorizzati dalla possibile vittoria di questo incompetente liberista. Ma non bisogna rompere il ‘disgelo’, gli accordi presi con il Polo per approvare la riforma delle pensioni e andare alle urne in autunno. Così, nel discorso di chiusura del Congresso, D’Alema è… duro solo a tratti. Cortese nella forma e mite nei contenuti… il Cavaliere ha smesso di evocarmi come un segretario dai baffi sottili con un ghigno sardonico… ora si è aperta l’era del dialogo… e lancia appelli a Bossi… credo abbia capito che noi siamo persone serie e se diciamo federalismo è perché lo vogliamo veramente… e a Bertinotti… non ci ostacolare… la questione sociale è al primo posto del nostro programma… la riforma delle pensioni non ha tradito l’autunno dei lavoratori… noi vogliamo provare a governare e trasformare questo Paese. Siamo una forza adulta e chiediamo al popolo di metterci alla prova. E’ sabato 8 luglio. Il 9, Bossi, da Pontida, lancia un nuovo proclama: Lega Nord, alzati e vai all’assalto. Abbiamo fatto l’esame di federalismo sia a Prodi, sia a D’Alema, sia a tutti gli altri. Il voto è fortemente negativo. I due Poli sono inaffidabili. Dunque di Poli ce ne sono tre: c’è il polo politico del buon governo ladro, il polo dell’Ulivo appassito e il polo del guerriero… tra Berlusconi e Prodi io scelgo il ‘guerriero’… i nodi sono arrivati al pettine e 467


Una finestra sulla storia - 1995

né Prodi né Berlusconi potranno risolverli… c’è una sola via da percorrere: quella del taglio dell’assistenzialismo al Sud. Se non sarà questa la via, noi andremo da soli. Il 10 luglio inizia in Parlamento l’ostruzionismo alla riforma delle pensioni da parte di Rifondazione e AN. Ma ancora una volta, la riforma ‘s’ha da fare’ e il 14 luglio, a forza di ‘voti di fiducia’, la Camera l’approva. Passata al Senato, dove vengono accolti alcuni emendamenti a favore dei lavoratori autonomi, la riforma pensionistica è varata a maggioranza il 3 agosto e nel pomeriggio del 4, tornata alla Camera, è legge dello Stato. Alle urne in autunno, allora? Sì, forse, sentiamo, vediamo, ragioniamo. Per quanto ci riguarda – scrive D’Alema in un editoriale dell’Unità il 26 agosto – convertita in legge la ‘par condicio’, Dini avrà esaurito il programma sul quale ha avuto la fiducia. Allora dovrà venire in Parlamento. E si vedrà quale Governo verrà… la mia opinione è questa: o si riuscirà a dar vita a una larga maggioranza disposta a trasformare questa in una legislatura costituente, o l’impresa fallirà e sarà chiaro che si va verso le elezioni… ma non saremo certo noi a votare contro il governo Dini. Noi siamo qui, pronti ad andare avanti per fare cose serie. Dica piuttosto Berlusconi cosa intende fare. Ma le cose non stanno esattamente così – commenta Giuseppe Mazzarino dalla redazione romana della Gazzetta – la verità è che ora i ‘cespugli’ di entrambi gli schieramenti non vogliono saperne di elezioni anticipate, vogliono tentare di ‘ricostruire’ il Centro. Temono, insomma, di venire fagocitati dai due ‘estremi’. E D’Alema, quasi sprezzante, commenta ancora Mazzarino, scrive… proprio non capisco che cosa significhi questo tentativo di ricostruire il Centro. Con un sistema elettorale che spinge verso il bipolarismo, tutto questo sa di trasformismo, di ricattuccio, di nostalgia della politica dell’ago della bilancia: una sorta di 468 craxismo della Seconda Repubblica.

Morale, ora non solo sono tutti cauti verso le elezioni anticipate, ma se Dini dovesse dimettersi, tutti auspicano un Dini-bis. Sono pronti alle urne D’Alema e Prodi, ma l’accordo nell’Ulivo è lontano. Bossi vuole ‘correre’ da solo; Bertinotti continua a fare proposte inaccettabili – aumenti salariali di 2 milioni l’anno per tutti, tasse sui Bot superiori ai 200 milioni come primo passo sulla tassa patrimoniale e riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di retribuzione – i popolari di Gerardo Bianco, Rosy Bindi e Ciriaco De Mita scalpitano e cercano un’intesa con i Pattisti di Segni, per costruire un ‘forte Centro’; Segni, a sua volta, contesta a D’Alema di corteggiare Bertinotti e Prodi, infine, ritiene che l’Ulivo può vincere le elezioni anche senza Bossi e Bertinotti. Sono pronti alle urne anche Berlusconi e Fini, ma Buttiglione e Mastella, che il 23 luglio hanno dato vita al CdU – Cristiano democratici Uniti – quale primo nucleo per rifondare la Democrazia Cristiana, preferiscono un rinvio. In breve, a meno di un mese dall’approvazione della riforma delle pensioni, i temporali estivi hanno raffreddato quella corrente calda che aveva dato inizio al ‘disgelo’ fra il Polo e l’Ulivo.

Affittopoli Il primo ‘temporale’ lo scatena il quotidiano di famiglia di Berlusconi denunciando, verso la fine di agosto, che diversi istituti di previdenza ospitano, in migliaia di immobili di proprietà dello Stato, diverse centinaia di inquilini ‘eccellenti’ ad ‘equo canone’ o con un ‘canone agevolato’. E’ nata ‘affittopoli’. Ciò che disturba l’opinione pubblica, però, non è tanto il ‘canone’ più o meno equo, quanto il ‘privilegio’ che godono quanti, per la loro posizione, hanno ‘violato’ le leggi del mercato: si sono cioè accaparrati gli appartamenti più appetibili di un Ente pubblico a prezzi spesso stracciati… il danno maggiore – scrive


Lino Patruno – è la constatazione che la furbizia è ancora vincente in questo Paese che fatica a diventare moderno. E’ la convinzione che la raccomandazione valga più di una legge, anzi che la legge sia lasciata rispettare dagli sciocchi. E’ la conferma che il potere attribuito ai nostri rappresentanti è troppo spesso usato non per il benessere pubblico, ma per quello privato… che molti degli inquilini eccellenti siano personaggi noti della Prima Repubblica rimasti tali anche nella Seconda Repubblica, la dice lunga sui tempi necessari per respirare aria finalmente depurata. Quanti sono i privilegiati? Pochi. Meno dell’1% dei 70.000 immobili disponibili di proprietà di Enti previdenziali pubblici. Chi sono? Non è certo il caso di pubblicare l’elenco che pure è fornito dal ministro Tiziano Treu. Ma i beneficiari sono per lo più ex sindacalisti, sindacalisti in carica, deputati della Prima e della Seconda Repubblica, nonché congiunti di questo o quel personaggio eccellente, appartenenti, senza distinzioni, a tutti i partiti dell’arco costituzionale specie della Prima Repubblica. Per farla breve segnaliamo solo due nomi: Clemente Mastella e Massimo D’Alema. Ex democristiano il primo, ex comunista il secondo e segretario del PDS, gli unici due che, alla fine, decidono di lasciare gli immobili… la prego di portare a conoscenza dei suoi lettori – scrive D’Alema al direttore della Gazzetta – che, come affittuario dell’INPDAP, non ho goduto di alcun privilegio particolare, ma la campagna sugli alloggi di proprietà degli Enti pubblici è sacrosanta se davvero si intendono colpire privilegi e favoritismi, indegna quando alimenta polveroni, mescolando disinformazione e demagogia. Ma quando la campagna di stampa si fa più insistente, D’Alema perde le staffe… questo non è giornalismo, è squadrismo… un milione di famiglie vive in case pubbliche ad equo canone. Si può per questo considerare un delinquente? Si può parlare di ‘affittopoli’? Si può dire che io vivo a sbafo dei pensionati? E’

aberrante, è qualunquismo indecente. Soprattutto quando a lanciare la campagna è un giornale il cui proprietario – Paolo Berlusconi – è stato condannato per corruzione, per traffici con Enti previdenziali. Ma io sono il segretario di un grande partito popolare che non può essere macchiato dal sospetto… perciò, ho deciso di lasciare l’alloggio. Il 6 settembre anche Mastella decide di ‘sfrattarsi’… per la verità io ho deciso l’abbandono prima di D’Alema – dirà ai giornalisti – ma è curioso: se io compio un gesto sono il solito riciclato della Prima Repubblica, mentre se lo fa D’Alema, tutti inneggiano al grande gesto di coscienza. Ma non è vero, anzi. Il Popolo, il quotidiano dell’ex DC assegnato ai Popolari di Gerardo Bianco, pubblicherà un lungo, duro corsivo sulla vicenda, accusando la sinistra di ‘qualunquismo’. E’ il primo passo verso l’allontanamento dalle elezioni anticipate. Il secondo ‘temporale’ che minaccia il processo di ‘disgelo’ fra i Poli, arriva il 14 settembre. Il sostituto procuratore di Venezia, Carlo Nordio, invia una informazione di garanzia a Massimo D’Alema e Achille Occhetto con l’accusa di violazione della legge sul finanziamento ai partiti e ricettazione nell’ambito dell’inchiesta sulla Lega delle ‘cooperative rosse’ del Veneto. Secondo Craxi, anch’egli latore di un ‘avviso’, ma anche secondo alcuni testimoni rimasti anonimi, anche il PCI e poi il PDS avevano ricevuto tangenti pari al 20% su appalti pubblici assegnati alle Cooperative rosse. L’accusa, perciò, ricalca il teorema applicato a tutti gli ex segretari di partito. E che cioè essi, in quanto tali, ‘non potevano non sapere’. Una tesi storico-politica – commenta Franzi de Palma sulla Gazzetta – che non dimostra nulla! E D’Alema aggiunge: se mi trovassi di fronte ad accuse serie, potrei pensare di dimettermi per difendermi meglio. Ma francamente, di fronte a queste, non saprei neanche come difendermi. Nel centro-destra, ovviamente, si brinda a 469


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champagne. I più ‘morbidi’ invitano D’Alema ad ‘autosospendersi’. Berlusconi, invece, si è dato la consegna del silenzio. Ma il segretario del PDS non ha gradito il ‘brindisi’ di alcuni deputati di Forza Italia nella ‘buvette’ di Montecitorio, dopo l’avviso di garanzia. E sabato 16 settembre si sfoga … non si può pensare che questi fatti – affittopoli e avviso di garanzia – non facciano parte della politica. Non tanto le cose che certo io chiarirò, o meglio il nulla che si deve chiarire, quanto la campagna pianificata che tende a distruggere gli avversari. Una campagna che penso non si fermerà… certo – aggiunge D’Alema – è stata un’ingenuità pensare ad un avvenire di dialogo civile e democratico con questa Destra… la Sinistra non ha sbagliato ad aprire il confronto con la Destra, ma penso che non ci si debba fare illusioni perché questa Destra mantiene un volto e una concezione della politica che in molti casi non hanno niente a che fare con la democrazia e la civiltà. Il 28 settembre D’Alema e Occhetto sono interrogati dal pm Carlo Nordio nella caserma Piave a Roma. Nel pomeriggio, sereni e scherzosi, s’intrattengono con i giornalisti nella ‘buvette’ di Montecitorio… non c’è granché da dire – comincia D’Alema – si è trattato di un momento importante del dibattito sul surrealismo, un dibattito culturale. Poi, più serio, continua… rispetto al documento che ho ricevuto non c’è nessun indizio, nessun elemento che possa ricondurre alla mia persona. E Occhetto incalza… è stata una conversazione tranquilla, serena. A mio avviso, i magistrati potrebbero anche archiviare l’inchiesta, ma ovviamente la decisione spetta a loro. Sarà infatti chiesta l’archiviazione, da parte del legale del PDS, Guido Calvi, e ai presunti addebiti della Procura di Venezia a D’Alema e Occhetto, non ci sarà seguito. E le elezioni anticipate? Non se ne parla più. Ormai, perfino il Cavaliere si è convinto che prima della primavera del ’96 non sarà possibile tornare alle urne. Allora ecco, di nuovo, Filippo Mancuso, il 470

Guardasigilli ‘fondamentalista’.

Il Ministro ‘licenziato’ Negli anni Settanta e Ottanta, molti imprenditori sostenevano che con la legislazione vigente – lo Statuto dei lavoratori che tuttavia non è cambiato – era più facile chiudere un’azienda che licenziare un dipendente. Negli anni Novanta, invece, a partire dal Governo ‘tecnico’ di Dini e nelle successive legislature progressista e liberista, gli imprenditori hanno smesso di fare le vittime: hanno scoperto che le nuove, numerose leggi sull’occupazione consentono di fare di un dipendente un ‘precario’ per tutta la vita. Ma questo è un altro discorso. Per tornare a Mancuso, invece, la Costituzione sancisce, per i componenti l’Esecutivo di Governo, lo stesso paradosso: è più facile affossare il Governo stesso che ‘licenziare’ un Ministro. Nessun componente dell’Esecutivo, infatti, può essere ‘dimissionato’ senza le dimissioni del Governo stesso. Come liberarsi allora di un ministro divenuto scomodo e, per giunta, insistente nel voler esercitare le sue funzioni a dispetto e al di sopra delle ‘esigenze’ politiche o non in linea con gli indirizzi


generali del Governo? Semplice: lo si sfiducia, lo si esautora dalle sue funzioni e lo si ‘congela’. Così, il Governo Dini è salvo e il ministro Mancuso, che aveva già un ‘contratto a termine’, diventa un ‘precario’. Il 21 settembre, dunque, il Guardasigilli torna alla carica. Alla domanda… Ministro che fine ha fatto la ‘mozione di sfiducia’ nei suoi confronti… Mancuso replica… deve definirsi dolorosamente inadeguato l’atteggiamento supino assunto dalla Presidenza del Consiglio, la quale ha palesato di non comprendere e non saper garantire il carattere autonomo e non condizionabile della posizione del Guardasigilli. Dini, che ha ben altro a cui pensare – l’economia, l’occupazione, le fibrillazioni fra i Poli, l’elaborazione della legge Finanziaria – mantiene un gelido silenzio, ma D’Alema commenta: il Governo è supino? Sciocchezze. Un ministro che non ritiene di avere la fiducia del Presidente del Consiglio si deve dimettere perché chi ha la fiducia del Parlamento è il Presidente, non i singoli ministri. Intanto, le ispezioni alla Procura di Milano sono riprese nonostante la Cassazione prima e il CSM poi, abbiano disposto, il 29 settembre, l’archiviazione della richiesta del Guardasigilli di avviare un’azione disciplinare nei confronti del pool di Mani Pulite perché… gli ispettori inviati dal ministro Biondi alla Procura di Milano, non hanno subìto alcuna intimidazione da parte del pool. Il 3 ottobre il Presidente del Consiglio, dopo aver illustrato nell’aula di Palazzo Madama la legge Finanziaria, si sofferma brevemente sul ‘caso Mancuso’… il Guardasigilli ha insistito perché vengano discusse in tempi brevi le mozioni di sfiducia individuali… il problema esiste… il Governo si rimette alle decisioni del Senato. Il 4 ottobre Dini illustra la Finanziaria alla Camera. Ma il clima non è dei migliori. Al Senato il Presidente del Consiglio ha ribadito che il suo Governo non è espressione di alcun colore politico… mi ritengo un ‘traghettato-

re’… appena avrò esaurito il mio programma mi recherò dal Capo dello Stato. Una dichiarazione che non ha soddisfatto il centro-sinistra. Alla Camera, dunque, c’è fibrillazione e quando la discussione passa dalla Finanziaria alla conferma di un’elezione contestata, scoppia la rissa. La contestazione riguarda Nichi Vendola, deputato di Terlizzi eletto nella lista di Rifondazione nel ’92 e riconfermato nel collegio uninominale di Bitonto-Terlizzi, nel ’94, con 191 voti di scarto da Felice Trotta esponente di AN. Trotta presentò subito ricorso alla Giunta per le elezioni della Camera, sostenendo che erano state annullate troppo frettolosamente alcune schede in cui risultava chiaramente danneggiato. La Giunta della Camera riesaminò le schede nulle e poi attribuì a Trotta 45 voti in più di Vendola. Ma il regolamento vuole che sia il Parlamento, attraverso il voto, a decidere chi deve essere eletto e la Camera, ribaltando il risultato di verifica della Giunta, vota per la riconferma di Nichi Vendola: 306 a favore, 237 contro. Succede il finimondo: Carte che volano dappertutto, spintoni, sputi, insulti, urla. Deputati che salgono sul proprio seggio, microfoni che volano… una bagarre incredibile – commenta Franzi de Palma – Montecitorio è trasformato in un ring… un film già visto altre volte, purtroppo. La seduta è sospesa. Tornata la calma, D’Alema commenta… è sbagliato che il Parlamento decida sulla correttezza dell’elezione di un deputato perché c’è l’interferenza della valutazione politica. Spetta alla Magistratura, ma poiché le regole ci sono, vanno rispettate. Due giorni dopo, il Senato fissa per mercoledì 18 ottobre la data del dibattito sulla mozione di sfiducia individuale a Filippo Mancuso. Ma nel frattempo, il Guardasigilli continua, imperterrito, a chiedere azioni disciplinari contro gli uomini del pool di Mani Pulite. Il 9 ottobre chiama in causa il procuratore Gherardo Colombo; il 10 ottobre tocca al procuratore aggiunto Ilio Poppa. E’ un fiume in 471


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piena e il ministro della Giustizia rema contro corrente come nulla fosse. Si è inimicato tutti. L’Associazione nazionale dei magistrati, in un documento, lo accusa di ‘intralcio’ all’attività della Magistratura… l’azione del Guardasigilli è inadeguata e controproducente. Mancuso è riuscito a convergere sulla sua persona un tale movimento di ‘opinione contro’ che perfino fra molti deputati di Forza Italia – Berlusconi escluso – si comincia a dubitare sulla sua serenità di giudizio. Come risponde Mancuso? Inviando il giorno stesso in cui al Senato si apre il dibattito sulle mozioni di sfiducia nei suoi confronti, un’altra richiesta di procedimento disciplinare questa volta contro il capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, al quale contesta di aver violato il segreto istruttorio telefonando al Capo dello Stato ‘prima’ che fosse recapitato al Presidente del Consiglio Berlusconi l’ormai famoso avviso di garanzia del 21 novembre del ’94. Borrelli, che ha saputo la notizia dai giornalisti, è quasi divertito… non mi stupisco più di nulla, queste sono cose che non passano sopra la mia testa ma sotto i miei piedi… spero che il ministro della Giustizia non avvii un’azione disciplinare anche nei confronti del Capo dello Stato per non essersi sottratto alla telefonata… il moltiplicarsi di queste iniziative – conclude Borrelli – potrebbero alla fine portare a un risultato diverso da quello che taluni si augurano. Lungi dall’essere delegittimati noi siamo forse rilegittimati con l’aureola di martiri. Dalla movimentata mattinata della Procura milanese, all’aula solenne e ovattata del Senato nel pomeriggio. Poco dopo le 16,30 di mercoledì 18 ottobre, Mancuso… impassibile come sempre – scrive Franzi de Palma sulla Gazzetta – entra a Palazzo Madama, si piazza sul lato destro del banco del Governo e tira fuori dalla voluminosa 24 ore una cartellina di appunti. Per quasi tutto il dibattito – uno scontro durissimo 472 fra il centro-destra e il centro-sinistra – conti-

nua imperterrito a correggere e limare la requisitoria che pronuncerà l’indomani. Nessun commento, nessun cenno alla reazione del mattino di Borrelli. Per la sua replica il Guardasigilli ha chiesto tre ore, ma il presidente del Senato, Carlo Scognamiglio, informa l’Assemblea che il tempo per la replica di Mancuso sarà di 60 minuti. Ma il 19 ottobre la Federazione nazionale della stampa – il sindacato dei giornalisti – rompe la trattativa con gli Editori per il rinnovo del contratto e proclama tre giorni di sciopero. Quando lunedì 23 ottobre i quotidiani tornano nelle edicole, Mancuso è già stato ‘sfiduciato’ ed ha già passato le consegne al presidente Dini che ha assunto l’interim della Giustizia. Mancuso non solo non si è dimesso… vado via dal Ministero solo fisicamente… considero la mia estromissione come qualcosa di totalmente contrario alla Costituzione… ma non avendo avuto il tempo materiale di leggere tutta intera la sua replica, ne stralcia quattro pagine – dalla relazione letta e divulgata mancano infatti le pagine dalla 11ma alla 14ma – le fa fotocopiare e le distribuisce a tutti i senatori in aula. Non sono ‘pagine d’amore’ – come dice la canzone – ma pagine di sfida. Un attacco indiscriminato e violento contro la massima autorità dello Stato, contro l’amico di un tempo, contro Oscar Luigi Scalfaro. Ecco, in sintesi, il testo di quelle quattro pagine, pubblicamente disconosciute da Mancuso e che tutti gli attribuiscono. Fu per me un vero e proprio scuotimento interiore quando, non molto tempo fa, dovetti fronteggiare la insistita pretesa, proveniente dal Segretario Generale del Quirinale – Gaetano Gifuni – perché, quale Guardasigilli io concedessi l’autorizzazione a procedere indiscriminatamente per tutti i casi in cui il Presidente della Repubblica risultava persona offesa. Criterio, questo, ovviamente inammissibile, ma è da notare, però, che i procedimenti di


Il ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, ‘sfiduciato’, è rimasto desolatamente solo sul banco del Governo.

cui ho detto vedevano indagati o denunciati, tra gli altri, gli Onorevoli Silvio Berlusconi – in due procedimenti – e Gianfranco Fini, politici notoriamente tutt’altro che consenzienti a talune posizioni politiche del Presidente della Repubblica. Questa pretesa che concedessi comunque l’autorizzazione a procedere affinché i suddetti politici potessero essere condotti a giudizio, fu certo da me respinta, ma mi confermò in una sgradevole sensazione di intrigo che suscitò in me una crisi fortissima sia come Ministro sia come cittadino. Tanto che decisi, fin da allora, che avrei colto la prima occasione istituzionale per rendere nota questa vicenda, certo non perseguibile, ma certo non edificante. Ed è proprio questa di oggi la prima e più adeguata sede nella quale potere adempiere al dovere di riferire sia l’episodio di cui sopra, sia altri due della medesima origine e natura. Fra l’estate e la fine dell’autunno 1993, già pensionato – prosegue il testo non letto – presiedetti il Comitato di inchiesta amministrativa sulla gestione dei fondi del Sisde. Uno dei capi conclusivi della relazione sarà in questo senso: le acquisizioni compiute ‘non

hanno posto in essere ragioni che consentano di dichiarare… che somme di denaro, appartenenti ai fondi riservati Sisde… siano state versate, a titolo di personale profitto, a Ministri dell’Interno della Repubblica succedutisi nella carica’. Una formulazione, come si vede, in negativo e di portata relativa, ma che non dovette piacere del tutto. E così, una sera fui amichevolmente prelevato a casa, dal Segretario Generale del Quirinale e, per la prima e ultima volta, condotto nella abitazione privata dell’On. Scalfaro. Entrambi, mostrandosi scontenti e preoccupati della formulazione anzidetta mi parlarono in conseguenza. Concordemente e insistentemente dissero che avrebbero preferito che quella formula, data la impossibilità di revocarla o di modificarla, venisse integrata in una nuova riunione del Comitato. Integrata in maniera che venisse invece esplicitato che era stato accertato che i Ministri medesimi non avevano mai percepito nessuna somma di provenienza Sisde. Affermazione, in positivo e in assoluto, questa, che era stata però dal Comitato esclusa in quanto contraria alle obiettive risultanze. Né 473


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la differenza concettuale e giuridica fra le due formule apparve irrilevante. E questo fu l’ostacolo, e non l’altro della riconvocazione del Comitato, che mi portò subito ad apporre un fermo diniego. Chiusi il discorso definitivamente e me ne tornai a casa sempre accompagnato da un luttuoso Segretario Generale. Ignoro, naturalmente, se la storia patria si occuperà di questo caso che resta, però, deontologicamente almeno, tutt’altro che esemplare. Oltretutto, conosco la grande prudenza del Segretario Generale e la sua fondamentalistica aderenza ai voleri e agli interessi del Capo dello Stato. Immediata la replica del Quirinale: Premesso che rispondere ad accuse mancanti di qualsiasi paternità sarebbe fatto contrario ad ogni civiltà giuridica e che, dunque, si risponde soltanto per un doveroso chiarimento di fronte alla pubblica opinione, frastornata da interessate manovre che aggrediscono le istituzioni, si precisa quanto segue: 1) secondo il testo predetto, sarebbero state esercitate indebite pressioni sul ministro Mancuso, affinché egli concedesse ‘indiscriminatamente per tutti i casi’ le autorizzazioni a procedere richieste per il reato di vilipendio al Capo dello Stato. A prescindere dall’esistenza o meno del reato medesimo, si rende noto che, fin dal maggio 1993, il presidente Scalfaro inviò una lettera al ministro di Grazia e Giustizia di allora, prof. Giovanni Conso, nella quale sosteneva doversi interrompere la prassi da molto tempo seguita, secondo la quale il Ministro guardasigilli, prima di decidere, chiedeva su ogni denunzia per vilipendio il preventivo parere del Capo dello Stato. Poiché il codice penale attribuisce la responsabilità dell’autorizzazione al ministro di Grazia e Giustizia, il presidente Scalfaro volle che, senza alcuna preventiva consultazione con il Quirinale, il ministro decidesse nella sua autonoma responsabilità: e così da allora è stato fatto e si continua a fare. Ogni eventuale colloquio tra il Guardasi474

gilli e il Segretario Generale non può aver avuto altro significato che quello di un rispettoso richiamo alle prerogative del Parlamento, al quale – nel caso di concessione dell’autorizzazione ministeriale – spetta il definitivo giudizio. Al riguardo non si può, quindi, ragionevolmente configurare elemento alcuno di faziosità nei confronti di singoli parlamentari. 2) A proposito dell’accusa di intervento arbitrario per modificare le conclusioni del comitato di inchiesta amministrativa sulla gestione dei fondi Sisde, presieduto dal dott. Mancuso, si fa presente che dette conclusioni affermano che ‘le acquisizioni compiute non hanno posto in essere ragioni che consentano di dichiarare che somme di denaro, appartenenti ai fondi riservati Sisde siano state versate, a titolo di personale profitto, a ministri dell’Interno succedutisi nella carica’. Le stesse conclusioni, limpide ed esaustive, sono del tutto coincidenti sia con le dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica sin dall’ottobre-novembre 1993, sia con quelle, ancor più dettagliate, rilasciate successivamente alla stampa nelle quali affermò, tra l’altro: ‘sfido chiunque al mondo a dimostrare che io abbia speso una lira fuori dei fini istituzionali’. Alle medesime conclusioni – si legge ancora nel comunicato del Quirinale – era giunta la Procura della Repubblica di Roma la quale, dopo aver premesso che ‘l’ufficio ritiene legittima la disponibilità dei fondi riservati del Sisde da parte dei ministri dell’Interno per l’impiego ai fini istituzionali’, precisò che ‘nei confronti dell’onorevole Scalfaro non sussiste alcun elemento di fatto dal quale emerga un uso non istituzionale dei fondi Sisde’. Infatti la normativa vigente prevede che il ministro dell’Interno ha la piena disponibilità di impiego dei fondi riservati e che di essi – secondo l’art. 19 della legge n. 801 del 1977 – non ha obbligo di rendicontazione; e ciò perché, se lo facesse, potrebbe mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, i rapporti internazionali e l’incolumità delle persone. E’ vero – è anche detto nel comunicato del


Quirinale – che, terminati i lavori del comitato da lui presieduto, il dott. Mancuso, accompagnato dal dott. Gifuni, si recò nell’abitazione del presidente Scalfaro per metterlo al corrente delle conclusioni del medesimo Comitato: ma questo gesto, che ha avuto forma e sostanza di un atto di attenzione e che non mutò di una virgola quanto il Comitato stesso aveva ormai deciso, non può ora essere valutato come una pressione indebita, né come il tentativo di minare quelle conclusioni che erano e rimangono in totale coincidenza con quanto sempre sostenuto dal Capo dello Stato. La vita democratica – conclude il comunicato – deve essere da tutti difesa dalle insinuazioni e dai veleni, condannabili in ogni caso e verso chiunque siano rivolti, poiché costituiscono sempre grave danno alla libertà e alla serena e civile convivenza. Paradossalmente, la ‘granata’ del Guardasigilli che doveva esplodere sul Quirinale scoppia in Borsa e travolge la moneta italiana… il caso Mancuso non doveva mai scoppiare – commenta De Tomaso sulla Gazzetta il 24 ottobre – troppo delicata era la posta in gioco. In politica, il ‘processo’ a Mancuso, nel giro di qualche ora si è trasformato in un tentato ‘processo’ a Scalfaro; in economia, la Lira ha ripreso a precipitare, mortificando in un sol giorno tutti i tentativi di sostentamento avviati con la cura Dini. Valeva la pena? A detta degli operatori economici della Banca d’Italia e di Piazza Affari, lunedì 23 ottobre la Lira ha perso l’equivalente di una Finanziaria. E non è finita. Il 26 ottobre, si vota alla Camera la mozione di sfiducia al Governo Dini sostenuta dal Polo delle libertà e da Rifondazione Comunista. Prodi e D’Alema invitano il leader di Rifondazione a desistere… altrimenti sarà impossibile trovare un accordo con l’Ulivo. Ma Bertinotti è irremovibile… Dini, assolutamente e inderogabilmente, se ne deve andare. Senza elezioni il Paese e le istituzioni sono condannati a un grave deterioramento. Poi, però, ci ripensa e al

Fauso Bertinotti... Dini se ne deve andare!

momento del voto – l’abbiamo ricordato in precedenza – i deputati di Rifondazione escono dall’Aula, fanno abbassare il quorum e la mozione di sfiducia del Polo è bocciata. E il ministro Mancuso? Il 27 ottobre l’ex Guardasigilli, intervistato da Bruno Vespa, ammette che quelle 4 cartelle erano parte integrante della sua replica in Senato… ma non le ho lette perché ho avuto la precisa sensazione che la lettura non mi sarebbe stata consentita. Fine del ‘caso Mancuso’. Il Governo Dini è salvo. L’ultimo tentativo di metterlo alle corde è dato dall’approvazione della legge Finanziaria, ma ormai perfino Berlusconi si è ‘piegato’ alla logica del Capo dello Stato. La politica è in movimento, i ‘cespugli’ dell’Ulivo sembrano non gradire la folta chioma dell’albero piantato dal ‘Professore’. Ai Verdi non piace il programma di Prodi… se non lo cambia noi siamo fuori; i Socialisti italiani di Boselli e i Pattisti di Segni hanno deciso di riprendersi la propria autonomia sostenendo che l’Ulivo è troppo egemonizzato dal PDS. Antonio Di Pietro ha deciso di scendere in campo e dopo aver elaborato un suo programma di 12 punti dichiara che… ci sono convergenze profonde con l’Ulivo. E tuttavia, anche nel centro-destra non c’è concordia. Casini e Buttiglione – CCD e CdU 475


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– si sentono ‘oppressi’ dagli alberi di alto fusto del Polo delle libertà. Berlusconi minimizza, Fini spazientito sbotta… per i ‘cespugli’ infestanti occorre diffondere forti dosi di diserbante; Prodi che vorrebbe usare lo stesso trattamento per Bertinotti e Bossi è smentito dal designato-vice, Walter Veltroni… senza l’unità della sinistra non si vince. Si dice che sia Scalfaro, insieme a De Mita, a movimentare il sottobosco delle due coalizioni. Vorrebbero creare un ‘forte centro moderato’ capace di condizionare, alle prossime elezioni, destra e sinistra. Ma il ‘bipolarismo’ non si cambia. Così, la Quercia comincia a corteggiare Di Pietro e Berlusconi corteggia Segni che è tornato a riproporre l’elezione diretta del Premier. Bisogna ricompattarsi, dunque. Bisogna, quantomeno, realizzare un ‘cartello elettorale’. E ci vuole tempo. Tanto che sarà lo stesso Berlusconi a proporre un Governo di ‘larghe intese’ che resti in carica due anni per varare le necessarie riforme istituzionali. D’Alema è scettico. Dubita che il Cavaliere abbia rinunciato a disarcionare Dini. Ma c’è la controprova: l’approvazione della legge Finanziaria, azzavorrata da 5.000 emendamenti e che per quelli che sono i ‘numeri’ di Montecitorio dovrebbe essere bocciata. Invece passa. Il Governo ha posto, per due volte, il voto di fiducia e al momento del voto i deputati di Forza Italia e di AN fanno come Rifondazione: escono dall’Aula, fanno abbassare il quorum e la Finanziaria ottiene il via libera. E’ il 15 dicembre. Lo stesso giorno, a Madrid, i 15 componenti dell’Unione Europea danno un nome alla futura moneta unica: si chiamerà EURO ed entrerà in vigore il primo gennaio 2002 rinviato, poi, al successivo mese di febbraio. Il 22 dicembre, mentre la Finanziaria passa anche l’esame del Senato, una delegazione del Polo guidata da Silvio Berlusconi incontra, per la prima volta, una delegazione dell’Ulivo guidata da Romano Prodi. Tema: il prossimo futuro del Governo Dini.

Il faccia a faccia fra i due leader opposti si conclude con un solo punto fermo: Dini resta… a condizione – sostiene Berlusconi – che sia disponibile a guidare un Governo di ‘larghe intese’ a tempo indeterminato… altrimenti si va alle urne a febbraio. Prodi, invece, è d’accordo ad un nuovo Governo guidato da Dini, ma fino a giugno del 2006, cioè fino alla scadenza del semestre di turno della presidenza italiana dell’Unione Europea. In totale disaccordo con i propri leader Fini e D’Alema che, al contrario, vorrebbero tornare alle urne in primavera. Il 29 dicembre, il coordinamento del PDS decide di mettere alla prova la ‘svolta buonista e moderata’ del Cavaliere e si dice disponibile al ‘governissimo’ con verifica entro marzo: senza un accordo complessivo per un Governo di ‘larghe intese’ che dia vita ad una fase costituente, a giugno si torna alle urne. Il 30 dicembre Dini, col reincarico in tasca, si reca al Quirinale per presentare le dimissioni del Governo: l’aveva promesso, il 26 ottobre, a Bertinotti e il Presidente del Consiglio non si rimangia le parole date.

Taranto, Cito e dintorni Quando Giancarlo Cito fu eletto sindaco di Taranto, il 5 dicembre del ’93, la città ionica era la terzultima città italiana – su un campione di 95 – per degrado sociale, amministrativo ed economico; quando Cito sarà sospeso dall’incarico, il 19 dicembre di quest’anno – rinviato a giudizio per associazione a delinquere di stampo mafioso – Taranto è salita, in quella graduatoria sulla qualità della vita, all’81° posto. Merito di Cito? Forse. Qualcosa sono disposti a riconoscergli persino i suoi oppositori politici più accaniti… al di là di una certa capacità realizzativa sul piano della manutenzione della città – e non di tutta la città – che è un dato positivo rispetto al ‘sonno amministrativo’ delle precedenti giunte – dirà il segretario provinciale del PDS, Nino Palma, commentando il provvedimento di sospensione di Cito – la sua Amministrazio- 477


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Una spettacolare panoramica di Taranto con l’antico ponte girevole che divide il Mar grande dal piccolo.

ne non ha fatto vedere altro. Ciò significa che chiunque sarebbe stato capace di conseguire quel piccolo salto di qualità al punto in cui si era ridotta Taranto. Ma significa anche che senza quel ‘sonno amministrativo’, cui nessuna classe politica può chiamarsi fuori, Cito non sarebbe mai diventato sindaco della seconda città della Puglia, la città che, fino alla metà degli anni Ottanta, aveva uno dei più grandi centri siderurgici d’Europa, una prestigiosa azienda internazionale per la costruzione di piattaforme petrolifere, cantieri navali, raffinerie, immensi agrumeti, una fiorente industria ittica, la base della Marina italiana, il più grande indotto industriale del Centro-Sud e il più alto reddito pro-capite della Regione. Taranto, insomma, era il simbolo dell’industriosità e della laboriosità del Mezzogiorno pur operando al centro di un deserto infrastrutturale che da sempre caratterizza il Meridione. Come nasce, allora, il ‘fenomeno’Cito? Nasce dalla crisi dell’acciaio, dalla crisi dell’indotto, dalla conseguente disoccupazione, dal proliferare della criminalità, dalla dif478 fusione della droga, del contrabbando e

soprattutto per le… inefficienze e le miserie del vecchio ceto politico, immobilizzato nei giochi di potere – scrive Tonio Tondo sulla Gazzetta – sordo di fronte alla gravissima crisi sociale ed economica di Taranto. Dal 1990 al 1993 al Comune di Taranto si alternano tre Giunte: una di centro-sinistra, la seconda di ‘collaborazione democratica’ con l’appoggio organico del PDS, la terza centrista, scivolata poi verso lo scioglimento anticipato e alle elezioni del novembre del ’93. Ma è con l’approvazione della legge per l’elezione diretta del sindaco, che attribuisce al primo cittadino vincente la maggioranza dei seggi e la facoltà di nominare una Giunta anche tutta di ‘esterni’ al consiglio comunale, che Cito intuisce prima di chiunque altro… che può giocare la carta della sua vita – continua Tondo – e pianifica il suo attacco contro tutti. Ripresenta la sua lista civica – l’AT6 – con cui è stato eletto consigliere comunale nel ’90; rifiuta ogni ‘apparentamento’ e sfida il ‘cartello’ della sinistra guidato dal giudice Gaetano Minervini. Nato a Taranto nel 1945, sposato, padre di due figli, Giancarlo Cito ha ‘vissuto’ ogni sin-


golo anno della sua maturità. Un diploma di geometra; giovane pompiere nel ’67; attivista sindacale nel ’70; breve militanza politica nella destra; piccolo imprenditore edile e, infine, negli anni del ‘boom’ delle Tv private, fondatore dell’emittente ‘Antenna Taranto 6’ che diventa anche il simbolo della sua lista civica. Autoritario, spavaldo, agile e forte come un toro – si porta a spasso 110 chili con notevole disinvoltura – esperto di arti marziali – è primo dan di Kendo e secondo di Judo – irruente, colorito nel linguaggio, Cito è un ‘capopopolo’, senza freni e senza riguardi per nessuno, cosa che l’espone a decine di querele per diffamazione. Oratore efficace, nel ’93, dunque, Cito si lancia nella campagna elettorale come un bulldozer… toccando tutte le corde emozionali dei tarantini – scrive ancora Tondo – richiamandoli ai valori di identità profondi della città… sollecitando gli spiriti della parte più fragile e insicura di Taranto, tradita dal regime dei partiti, soprattutto dal PDS – aggiunge Cito – voglio dare a questa città le occasioni che merita. A dare man forte al giudice Minervini, scende in Puglia l’allora direttore dell’Unità e vice di Occhetto, Massimo D’Alema, che definisce Cito… un Masaniello antidemocratico… un impasto inquietante fra eversione fascista e malavita. Parole dure, che danno al pluriquerelato Cito la soddisfazione di querelare, per diffamazione, il numero due del PDS. Ma quando Masaniello-Cito vince la competizione per la carica di primo cittadino di Taranto, D’Alema perde la sua abituale freddezza… e scaglia fendenti micidiali, colpi di sciabola che lasciano presagire un furore polemico difficilmente destinato a placarsi, commenta Marcello Cometti sulla Gazzetta, a seguito delle dichiarazioni di D’Alema dopo i risultati del ballottaggio del 5 dicembre ’93. Il risultato elettorale di domenica notte – dice infatti D’Alema – pone la città di Taranto fuori dal consesso civile… neanche il MSI ha voluto imparentarsi con Cito. E’ uno condan-

nato per ricettazione, rinviato a giudizio per violenza carnale ed è dentro ad una inchiesta sulla mafia. Cito non è il MSI – continua D’Alema – il MSI io lo combatto, è una forza politica nazionale. Quello di Cito è un caso drammatico, un fenomeno sudamericano, frutto del crollo della presenza operaia nella città che ha lambito le basi sociali. Purtroppo Taranto è una città dove il riciclaggio del denaro è diventata un’attività di cui vive l’economia e il consigliere politico-ideologico di Cito – conclude D’Alema – è uno che è stato espulso dal MSI perché di Ordine Nuovo, è uno che è a cavallo fra la delinquenza e lo squadrismo extraparlamentare. Improvvisamente Cito passa da piccolo, oscuro e discusso personaggio locale, agli onori della cronaca nazionale. Tutti vogliono sapere chi è colui che ha scosso in quel modo la fredda compostezza del numero due di Botteghe Oscure, che da solo ha osato sfidare e vincere contro un candidato supportato da un ‘cartello’ di 7 partiti: PDS, Rifondazione, Rete, Verdi, Sole che Ride, Unione Federativa Democratica e Lista Pannella. Cos’è accaduto, dunque, fra il primo turno elettorale e il ballottaggio? E’ accaduto – sostiene D’Alema – che una parte della DC si è schierata con il candidato progressista, ma i vecchi potentati democristiani si sono messi con Cito e le vecchie cordate elettorali sono risultate vincenti. E’ accaduto, infatti, che il 21 novembre Gaetano Minervini, con 43.886 voti, pari al 33,7%, ha ottenuto più voti di Cito – 39.555, pari al 30,3% – ma al ballottaggio del 5 dicembre, il ‘telepredicatore’ Cito, che ancora una volta ha rifiutato ogni ‘apparentamento’, supera il suo avversario e con 61.281 preferenze, contro le 55.222 di Minervini, si aggiudica il 52,6% dei voti e, eletto Sindaco, ‘s’impossessa’ letteralmente del Comune di Taranto potendo contare su una maggioranza di 24 consiglieri su 40 tutti rigorosamente della sua lista unica. E’ fatta. Ora non resta che governarla que- 479


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Il sindaco ‘sceriffo’ di Taranto Giancarlo Cito, al centro, con i suoi ‘aiutanti’.

sta grande città pugliese. Mantenere le promesse, ‘ripulirla’, come dice lui, dalle scorie della ‘malapolitica’, dall’abusivismo, dagli scippatori, dalla criminalità, dalla prostituzione e da migliaia di zingari ed extracomunitari che affollano le strade di Taranto. Il 1994 è per Cito e la Giunta da lui guidata un anno di rodaggio. Tranne lui e il fedelissimo Mimmo De Cosmo – che si dice sia la ‘mente’ politica di AT6 – chiamato ad assumere la carica di vicesindaco, tutti gli altri consiglieri di ‘Antenna Taranto 6’ sono di prima nomina, compreso quell’ideologo-politico, Pietro Cerullo, cui ha fatto riferimento D’Alema. Nessuna esperienza amministrativa, nessuna esperienza politica, approssimata o nulla la conoscenza di tutte quelle regole, leggi e cavilli burocratici che attengono all’amministrazione di una città di oltre 200mila abitanti. Cito pretende di amministrare Taranto da padre-padrone, più o meno allo stesso modo in cui amministra la sua piccola emittente 480 televisiva e quando la Commissione regionale

di controllo gli annulla decine di delibere, diventa un ‘bufalo’. Se la prende con i burocrati, con i parassiti e gli azzeccagarbugli che popolano gli uffici regionali, che non si rendono conto delle necessità di Taranto. Ma lui non si ferma, neppure quando cominciano a piovergli addosso altre decine di denunce e rinvii a giudizio. Ormai Cito è così popolare, a Taranto e in tutto il Paese, che non c’è organo di stampa capace di ignorarlo. Inviati di quotidiani e riviste nazionali scendono in Puglia a frotte. Tutti vogliono notizie del Sindaco ‘telepredicatore’, del Sindaco ‘sceriffo’, del Sindaco che ha liberato le strade di Taranto dalle prostitute, dai tossicodipendenti, dagli scippatori, dagli zingari e dagli immigrati, in regola e non. Tutti vogliono sapere com’è possibile che un uomo con decine di procedimenti per diffamazione, calunnia, ricettazione, rissa e perfino in odore di contiguità con la mafia, possa essere diventato Sindaco di una grande città come Taranto. Piaccia o meno – scrive il giornalista della Gazzetta, Alberto Selvaggi, in una nota per Panorama – in questa città ridotta dalle precedenti amministrazioni a un set da film western, Cito ha rimesso a nuovo buona parte della città. Con soli 300 milioni ha ripulito Villa Peritato – i suoi predecessori avevano previsto una spesa di svariati miliardi – ha fatto sgombrare il magnifico lungomare da decine di chioschi abusivi e lo ha addobbato di fioriere; ha promesso che farà resuscitare il teatro greco; ha ridato luce a decine di strade buie… tanto che adesso i cantori gli dedicano laudi vernacolari. E ancora – scrive Tonio Tondo – ha infiorettato e reso isola pedonale la centralissima via d’Aquino; ha fatto rimettere in funzione, con pochi soldi, la storica fontana ‘Rosa dei Venti’ in piazza Ebalia, muta da oltre 10 anni e per la quale i politici precedenti volevano spendere un miliardo. Azioni semplici di grande impatto visivo sull’opinione pubblica, ma che di fronte all’incapacità dei vecchi politici


diventano salvifiche per l’orgoglio della città. E le associazioni gli consegnano targhe – scrive Selvaggi – nel suo studio campeggia una statuetta che lo ritrae con la pancia stretta dal Tricolore e con una dedica che recita: sindaco Cito, porterai Taranto ai valori della Magna Grecia. Tutti vogliono sapere del Sindaco che si improvvisa vigile urbano, vigile notturno, che all’occorrenza fa il capocantiere… sono geometra, sostiene; che segue gli operai mentre cambiano le lampadine, che guida i vigili nella rimozione coatta delle auto – soltanto nel mese di ottobre di quest’anno ne vengono rimosse 1.093 – che aiuta i netturbini a svuotare i cassonetti, costantemente seguito da una telecamera… perché i cittadini devono sapere ciò che questa Amministrazione sta facendo per Taranto. Ma il suo capolavoro amministrativo è una delibera del 20 luglio: il Consiglio approva la proposta del Sindaco per l’acquisto di manganelli da dare in dotazione ai vigili urbani… solo per scoraggiare i più indisciplinati… sono una forma di prevenzione… non li useremo mai. E così è, infatti. Sei giorni dopo, su disposizione della Magistratura, i manganelli sono sequestrati e il Sindaco riceve un avviso di garanzia per abuso d’ufficio. Poi, il 9 settembre, Cito… questo genio primitivo della comunicazione – scrive ancora Selvaggi – compie un’impresa che fa impazzire tutti quanti. Munito di cuffia, spalmato di grasso di foca, con occhialini e pinne, scende

Cito durante la maratona di nuoto.

Cito, presidente e primo tifoso del Taranto calcio.

in mare nei pressi di Marina di Pulsano e, alle 18,30 di domenica 10, approda all’imboccatura del Mar Piccolo salutato da migliaia di persone lungo corso Due Mari: ha nuotato per 24 ore percorrendo 50 chilometri, seguito e controllato da medici e da uno specialista come Paolo Pinto… è stato eccezionale… dirà il nuotatore barese. Perché? Perché – aveva detto Cito annunciando la maratona – voglio richiamare l’attenzione del Governo e della Comunità europea sulla necessità di contrastare con tutti i mezzi l’inquinamento del nostro mare. E’ un’apoteosi. Un successo personale che lo avvicina al mito. E quando infine, il 23 novembre assume anche la presidenza del Taranto Calcio, in gravi difficoltà economiche e di classifica – il Taranto è quart’ultima in C2 – la notorietà di Cito è da ‘stadio’. Tanto che un’indagine di ‘Datamedia’ lo colloca al quarto posto fra i sindaci ‘più amati’ d’Italia. Ma Taranto non è Cito – commenta Marcello Cometti della redazione di Taranto della Gazzetta – viviamo in una società in cui chi più urla, più raccatta audience. Chi per primo balza al collo dell’interlocutore meglio e più rapidamente si imprime nella memoria della gente. No. Taranto non è Cito. Non si può amministrare una città a colpi di clava, randellando giudizi, esternando a voce alta e facendo maquillage… i bisogni di Taranto non lasciano troppi spazi alla fantasia o ai voli pindarici… ieri – 24 novembre, sciopero generale provinciale – erano in piazza più di 481


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ventimila lavoratori – scrive Domenico Palmiotti – dov’era Cito, dov’erano gli assessori comunali, dov’era il Gonfalone municipale? Assenti: come se quella di ieri non fosse la protesta d’una città che vede crollare tutto attorno a sé, che vede l’industria ridimensionarsi, il commercio arretrare, il numero dei disoccupati crescere. Il 16 marzo, intanto, l’IRI ha firmato il contratto di cessione dell’ILVA al gruppo imprenditoriale di Emilio Riva per 2.500 miliardi. Il gruppo lombardo eredita una forza lavoro di 13.800 dipendenti ma l’accordo prevede un esodo di 4.500 lavoratori, attraverso i prepensionamenti, entro la fine del 1996. La verità – scrive ancora Cometti – è che siamo al tramonto di un’era nella quale hanno dominato le grandi cattedrali industriali e non si vede l’alba di un nuovo, serio processo che punti a salvare il salvabile. La Taranto delle tute operaie – solo l’Italsider prima e ILVA poi, fino all’inizio degli anni Ottanta occupava 21mila dipendenti con una ricaduta di altri 10mila lavoratori nell’indotto – non può finire così. E’ vero, è crollato il mercato dell’acciaio, la CEE ci ha imposto di ridimensionare la produzione, ma i tanti accordi fatti per Taranto a Palazzo Chigi sono ancora lì, pezzi di carta chiusi e dimenticati nei cassetti. E’ necessario uno sforzo corale, un intervento massiccio calibrato e globale… Taranto andrebbe riprogettata, anche a livello di classe politica locale, la cui rappresentatività è, oggi, molto bassa. E questo lo vede anche un cieco. Ma Cito è Cito. Lui se ne infischia dei commenti salaci e dell’ironia non tanto sottile di cui è oggetto da parte di tutta la stampa locale e nazionale. Sembra non si accorga che Tv, riviste e quotidiani gli sollecitano interviste al solo scopo di ‘arricchire’ le loro rubriche del tempo libero, dello spettacolo e del folklore. Sembra, si è detto. Ma lui lo sa. Cito è tutto, meno che stupido. Si lamenta spesso di non avere un quotidiano suo, di dover 482 dipendere dalla ‘penna’ degli altri. Ma gli

‘altri’ sono diventati tanti e a lui va bene così. Scrivete, parlate, denigrate, qualcosa resterà. Ma restano anche le sue invettive, gli insulti, le spacconate, le diffamazioni e le pendenze giudiziarie. E prima che il più ‘amato’ Sindaco di Taranto finisca il secondo anno del suo mandato, la Magistratura gli presenta il conto. Il 19 settembre il Tribunale di sorveglianza di Lecce decide, su istanza dello stesso Cito, l’affidamento del Sindaco di Taranto ai servizi sociali per scontare una pena definitiva di 70 giorni per aver diffamato, nella campagna elettorale amministrativa del 1990, l’ex sindaco di Taranto, Giuseppe Cannata, divenuto poi senatore dell’allora PCI. Il 3 maggio del 1990, Cito avrebbe definito Cannata, gli ex consiglieri comunali della sua Giunta – 1976-1982 – e gli organi direttivi del PCI… delinquenti comuni che avrebbero speculato sulla pelle della povera gente rubando a quattro ganasce. Querelato dai famigliari di Cannata – il senatore nel frattempo era morto – e dal PCI, il 20 novembre del 1990 Cito è condannato dal Tribunale di Taranto a due mesi di reclusione per la sola diffamazione ai danni di Cannata. Ma il PCI ricorre in Appello e il 14 gennaio del ’94 la Corte di Lecce riconosce che Cito ha diffamato anche il gruppo PCI del Comune di Taranto e gli aumenta la pena di 10 giorni. Cito ricorre in Cassazione e il 9 gennaio di quest’anno la Suprema Corte respinge il ricorso e conferma la condanna. Per Cito, che non può godere dei benefici di legge per gli incensurati – perché già condannato ad 1 anno e 2 mesi di reclusione, interamente condonati, per ricettazione – si aprono le porte del carcere. Ma Cito è Cito. Chiede e ottiene dai giudici di sorveglianza di Lecce l’affidamento ai servizi sociali, promette di adempiere scrupolosamente ai limiti imposti dal giudice e venerdì 6 ottobre comincia a scontare la ‘pena’ di 70 giorni.


E’ solo l’inizio di una lunga serie di nodi allineati sul cordone della Giustizia che stanno per venire al pettine. Il più grosso di tutti è quello che lo vede inquisito in un presunto concorso per omicidio e associazione a delinquere di stampo mafioso: un voluminoso dossier istruito dalla Procura distrettuale antimafia di Lecce che l’8 marzo ha chiesto, per il sindaco Cito, il rinvio a giudizio. Il concorso in omicidio riguarda l’assassinio del pregiudicato Matteo La Gioia, ucciso il 25 settembre del 1990 da due killer in motocicletta. L’agguato mortale avviene a Taranto in via Elio: vicino all’abitazione della fidanzata del La Gioia e proprio dinanzi alla sede di Antenna Taranto 6 dove l’emittente di Cito ha sempre una telecamera accesa. La tesi dell’Antimafia è che Cito avrebbe avvertito il commando omicida della presenza del La Gioia in quei paraggi. L’accusa di contiguità con la mafia locale, invece, è storia vecchia, nota, arcinota e mai provata. Ma quando si diffuse il fenomeno del pentitismo mafioso, la storia di Cito tornò a galla e per il Sindaco telepredicatore sarà la fine. Ad inchiodare Cito ci sarebbero le testimonianze di 15 pentiti, fra cui quella di Salvatore Annacondia – ancora lui, ‘mano mozza’ – di Marino Pulito, il superpentito di Pulsano, e persino quelle dei fratelli Modeo – Riccardo, Gianfranco e Claudio – una famiglia di pregiudicati che ha spadroneggiato e insanguinato Taranto per un decennio e divenuti poi ‘pentiti’ per evitare anni di isolamento in un carcere. Tuttavia, a mettere in moto la Procura distrettuale antimafia di Lecce, che l’8 marzo di quest’anno ha chiesto il rinvio a giudizio di Cito, è un’audizione di Salvatore Annacondia, il 30 luglio del ’93, davanti alla Commissione parlamentare Antimafia: il ‘tranese’ dagli occhi di ghiaccio dirà all’ufficio inquirente parlamentare di essere stato presentato a Cito in quel di Montescaglioso, nel 1989, da Riccardo Modeo… me lo presentò come suo compare.

E quando si presenta una persona come compare, nel nostro ambiente – testimonia Annacondia – significa una persona ‘innalzata’, battezzata. L’udienza preliminare per il rinvio a giudizio è fissata per il 27 giugno ’95, ma Cito a cominciare da quest’anno ha così tante udienze processuali che bisogna fare la coda per avere l’onore della presenza sua o dei suoi difensori: esce ed entra da un Tribunale come da casa sua. Proprio il 27 giugno, infatti, Cito è dinanzi al Tribunale di Taranto per rispondere di oltraggio, violenza e minacce a pubblici ufficiali: nel febbraio del ’93, per protestare contro la Giunta dell’allora sindaco, Roberto Della Torre, si incatenò alla poltrona e alla scrivania del Sindaco e ci volle del bello e del buono per convincerlo ad abbandonare la ‘postazione’ e l’aula consiliare. Il 29 settembre, la Procura di Taranto chiede il rinvio a giudizio di Cito per abuso d’ufficio: nell’estate del ’94, durante l’emergenzarifiuti, Cito ha autorizzato lo stoccaggio di 24mila tonnellate di rifiuti in una discarica, a ridosso del popolare quartiere Tamburi, non autorizzata. Il 3 ottobre Cito è al Tribunale di Bari per rispondere dell’accusa di diffamazione nei confronti di due magistrati; tre giorni dopo è a Lecce per il citato affidamento ai servizi sociali. Il 3 novembre il GIP di Taranto riceve una nuova richiesta di rinvio a giudizio del Sindaco per diffamazione ai danni di una giornalista; sette giorni dopo Cito e tutti i 23 consiglieri di AT6 ricevono un avviso di garanzia per la vicenda dei ‘manganelli’. Salta, intanto, la seconda udienza preliminare per il rinvio a giudizio dall’accusa di associazione mafiosa e concorso in omicidio rinviata, ancora una volta, al 16 dicembre. Ma il 6 dicembre Cito è di nuovo in Tribunale, a Taranto, per il processo conclusivo del plateale ‘incatenamento’ al Comune. Il pubblico ministero ha chiesto due anni di reclusione, ma il giudice è di tutt’altro avviso e collocan- 483


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do la protesta… nell’ambito di una normale dialettica politica… lo assolve. Adesso – dirà Cito trionfante ai cronisti – mi aspetto di vedere sui giornali gli stessi titoloni che ho visto per la richiesta di condanna. Li avrà, ma undici giorni dopo. Il mattino di domenica 17 dicembre, il Sindaco di Taranto è sulle prime pagine di tutti i quotidiani italiani. Cito rinviato a giudizio per mafia… è il vistoso titolo della Gazzetta e nel sommario che rimanda i Lettori nelle pagine interne, scrive… ieri, il gip di Lecce, Francesco Positano, a seguito di una udienza preliminare durata tutta la giornata, ha prosciolto Cito dall’accusa di concorso in omicidio di Matteo La Gioia e lo ha rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Sarà sospeso dall’incarico di Sindaco. Oggi è domenica – dirà conciliante Cito all’inviato della Gazzetta, Stefano Boccardi – non voglio fare commenti… è il compleanno di mia moglie e poi devo andare allo stadio ad incitare i ragazzi del Taranto. Domani farò una conferenza stampa. Quella cui abbiamo assistito – scrive Roberto Aquaro il 19 dicembre – non era una conferenza stampa, era una intervista a se stesso condita di turpiloquio. Cito è scatenato. Contro gli inquirenti che hanno istruito l’accusa… hanno messo insieme mezzo metro di carte piene di puttanate; contro i pentiti… sono assassini, non si può dare ascolto agli assassini; e soprattutto contro l’opposizione di sinistra… che non avendo avuto il coraggio di sferrare un’offensiva diretta perché non hanno le ‘cose sotto’, hanno creato i pentiti. E aggiunge… non fatevi illusioni. Dopo la mia sospensione, per legge, mi subentra il vicesindaco, ma qui a Taranto non si sposterà una virgola se non lo decide Giancarlo Cito. Non sono un folle… scatenerò il finimondo… poi, sempre rivolto all’opposizione ‘comunista’ lancia un’ultima minaccia… se torno in Consiglio vi posso assicurare che 484 saranno cazzi vostri.

Cito è sospeso dalla carica di Sindaco con decreto del prefetto di Taranto, Alfonso Noce, la stessa mattina del 19 dicembre. Contestualmente le funzioni di Sindaco vengono svolte dal vicesindaco Mimmo De Cosmo. Intanto è annunciata, per il 21 dicembre, una manifestazione popolare di solidarietà al Sindaco uscente. Ed è una manifestazione così imponente e partecipativa che persino Marcello Cometti – il capo della redazione della Gazzetta di Taranto che non ha mai lesinato critiche al Sindaco-telepredicatore – è colpito. Sfilano sotto le luminarie natalizie di via D’Aquino – scrive Cometti – centinaia di bandiere bianche con il simbolo di AT6. Sfilano, nel salotto buono della città, i pretoriani di Giancarlo Cito, ma sfilano anche le facce della gente normale, facce di pensionati, di casalinghe, facce di giovani. Ci sono le signore in pelliccia trasformate da un’abile coreografia in ‘donne-sandwich’; ci sono anziani con in mano enormi fiaccole accese; ci sono cospicui gruppi di giovani con manifesti e striscioni… il più significativo è quello che attribuisce a Cito quattro supreme qualità, una per ogni lettera che compone il suo cognome: C come carisma, I come inventiva, T come tarantinità, O come onestà. Alla testa del corteo – continua Cometti – c’è la banda ‘Paisiello’ con i maestri di musica in divisa di gala che soffiano negli ottoni l’Inno di Mameli… e sui balconi, asserragliati nello stretto budello che porta verso piazza della Vittoria, la gente assiste allo spettacolo. Il corteo sfila tra due ali di folla, la folla della borghesia tarantina che unisce l’utile dello struscio al dilettevole di vedere quanta gente sarà capace di portare in piazza il tele-sindaco-sospeso… una borghesia che lancia occhiate non malevoli verso quel corteo e quegli slogan… una borghesia che nella mutazione antropologica prepotente subita dall’elettorato di Cito, rappresenta forse oggi la spina dorsale del serbatoio di voti di AT6: non più i diseredati e i disoccupati della prima ora, insomma, ma la ‘middle class’ del centro città,


gli orfani della Democrazia Cristiana e dei partiti moderati tradizionali, i delusi di destra e di centrosinistra… e dal palco, in attesa che cominci il comizio di Cito – conclude Cometti – lo sguardo spazia sull’immensa piazza che pullula di teste. E’ impressionante – sussurra il questore, Raffaele Valla, al suo vice – mai vista tanta gente… saranno dieci, quindicimila persone. Cito è raggiante. Neppure lui, dopo il rinvio a giudizio, si aspettava una manifestazione così imponente. Sembra un invasato. Sale e scende dal palco come un furetto… lanciando invettive contro tutti – scrive l’inviato della Gazzetta, Gaetano Campione – è un discorso senza fronzoli, dai toni accesi, intervallato da colorite espressioni in vernacolo… polemizza con magistrati, giornalisti, pentiti e politici. Ma quando parla della sua attività amministrativa, la folla s’accende… ‘mi hanno chiamato sceriffo. Io ho solo applicato la legge. Vi siete dimenticati quanti scippatori, borseggiatori e spacciatori giravano in città? Ho dato a questa città orgoglio e vivibilità… e mi hanno detto che sono mafioso… non sapevo di essere mafioso e non potevo dirlo, ma voi che stasera siete qui con me, siete tutti collusi con la mafia… non si può calpestare in questo modo la dignità di un uomo: non ve la passerete liscia… quei manganelli sequestrati ai vigili urbani, dovete decidere voi come utilizzarli… io continuo ad essere anticomunista’. La sera del 21 dicembre la stella di Cito è la più splendente nel cielo di Taranto. Poi, man mano che la cruda luce dell’alba inonda il cielo, anche la stella-Cito si fa fioca, balugina e lentamente scompare. Il 24 febbraio del 1996 Giancarlo Cito si dimette dalla carica di Sindaco di Taranto per candidarsi alle elezioni politiche del 21 aprile. Le sue dimissioni comportano, per legge, lo scioglimento del Consiglio comunale e nuove elezioni amministrative. Il decreto di scioglimento, firmato dal Ministro dell’Interno e dal Presidente della Repubblica, arriva a Taranto il 23 marzo. Ma due giorni prima la Corte

La stella-Cito ha smesso di brillare a Taranto.

Costituzionale, in risposta ad un quesito sulla legittimità di sospensione di Cito, sancisce che il decreto che lo ha sospeso dalla carica di Sindaco è incostituzionale. Cito si sente beffato, torna sul ritornello della ‘congiura’… se la Corte si fosse pronunciata prima, non mi sarei candidato alle politiche e oggi sarei ancora Sindaco di Taranto. Il 21 aprile ’96, Cito si presenta candidato al Parlamento, con il solo simbolo AT6, nel collegio maggioritario numero 15 di Taranto. Aveva tentato di stringere un accordo politico con il Polo delle libertà, ma questa volta è il Polo a rifiutare. Cito non solo vince – con 33.918 voti di preferenza, pari al 45,9% degli elettori del collegio – ma dei 7 deputati spettanti alla provincia di Taranto, lui è l’unico che sia riuscito a contrastare il trionfo dell’Ulivo che ha eletto i restanti sei. Due mesi dopo, il 9 giugno, Taranto torna alle urne per rinnovare il Consiglio comunale. Questa volta il Polo di centro-destra non commette l’errore delle politiche. Giuseppe Tatarella cerca e trova l’accordo di ‘cartello’ con AT6 che candida, alla poltrona di Sindaco di Taranto, l’uscente vicesindaco, Gaetano De Cosmo, opposto al candidato Sindaco dell’Ulivo, Ippazio Stefàno. De Cosmo manca l’elezione al primo turno per una manciata di voti. Ma vince al ballottaggio del 23 giugno con uno scarto del 9% su Stefàno. 485


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Gli accordi presi con Tatarella prevedevano che in caso di vittoria, AN avrebbe avuto il vicesindaco. Ma lo scarto fra i consiglieri eletti con il simbolo di AT6 e i cinque partiti ‘apparentati’ è così enorme – AT6 ne ha eletti 15 su 25 – che Cito si rimangia tutto… Sindaco e vicesindaco sono nostri… voi avete portato gli ‘spiccioli’, vi daremo qualche assessorato e qualche presidenza delle municipalizzate. Ma non è con i ‘cespugli’ che stanno sotto le bandiere di AT6 che presto Cito dovrà fare i conti, ma con il suo stesso ‘braccio destro’ Gaetano De Cosmo. Facciamo un passo indietro. In una intervista del 19 dicembre, Roberto Aquaro chiede a De Cosmo in che cosa lui si differenzia da Cito. Ecco la risposta dell’allora vicesindaco… sotto il profilo politico e caratteriale io e Cito siamo perfettamente in simbiosi… solo che in due non si può esprimere lo stesso personaggio… anch’io sono animato dallo stesso decisionismo, ma siccome i consensi della maggior parte dei tarantini sono per Cito, io opero sulla sua scia. E ora? Che succede adesso che i consensi dei tarantini sono, per De Cosmo, superiori – 54,8% – a quelli ottenuti da Cito – 52,6% – nel dicembre 1993? Succede che l’idillio col suo mentore comincia a vacillare – scrive Marcello Cometti – la personalità del tele-parlamentare è ingombrante, la sua presenza a Palazzo di Città diventa ogni giorno di più un’ombra sulla testa di De Cosmo chiamato troppo spesso a ratificare decisioni già prese da Cito. Nell’agosto del 1999 il sodalizio si rompe definitivamente. Sarà lo stesso Cito a promuovere la raccolta di firme per sciogliere anticipatamente, per la seconda volta, la Giunta del comune di Taranto guidata dal suo ‘indocile’ ex delfino, Gaetano ‘Mimmo’ De Cosmo. Intanto, il 15 marzo del 1996, si è tenuta presso il Tribunale di Taranto la prima udienza del processo più devastante della vita di Giancarlo Cito: dovrà difendersi dall’accusa 486 di concorso esterno in associazione mafiosa.

Un’accusa da ergastolo, aveva detto lui stesso. Ma i giudici saranno più clementi. Tre anni dopo, il 30 giugno del 1999, Cito è condannato a 4 anni di reclusione. Il 16 marzo del 2002, la sezione di Taranto della Corte di Appello di Lecce, conferma la condanna che diventa definitiva il 25 novembre del 2003. La Cassazione ha sancito che Cito è colpevole e deve scontare in carcere la pena inflittagli. Cito, nel frattempo, ha tentato di tutto per evitare il carcere. Si è candidato, prima alle Europee del 1999, poi alle elezioni politiche del 2001, ma senza successo. L’era di Cito a Taranto è finita. Due giorni prima della sentenza definitiva l’ex deputato si ricovera in una clinica per gravi motivi di salute; chiede e ottiene 6 mesi di arresti domiciliari e, il 26 maggio del 2004, un Cito smagrito, confuso e piangente entra nel carcere di Taranto dove attende la richiesta di grazia dal Capo dello Stato.

Sport, cinema e Tv Cominciamo dalla Tv. Che c’è di nuovo? Poco, pochissimo, anzi nulla. In RAI non c’è una lira e senza soldi non si fa niente. Il cervello non si accende, le idee non vengono. Bisogna arrangiarsi con quello che passa il convento e, per fortuna, nel convento della RAI c’è San Pippo Baudo e, in autunno, arriva anche Santa Raffaella Carrà di ritorno da quattro anni di esilio volontario in Spagna. Pippo e Raffa sono gli unici che per esperienza e professionalità possono risolvere la crisi della Tv pubblica; gli unici capaci di fare audience e incassi pubblicitari astronomici; gli unici ancora capaci di inchiodare di fronte ad un televisore 21 milioni di telespettatori nelle serate dedicate al ‘rinato’ Festival di Sanremo e non meno di 11-12 milioni per un normale programma di intrattenimento. Una manna per la nuova dirigenza RAI succeduta agli scialacquoni ‘professori’ nel luglio del ’94. L’austera e pragmatica Letizia Moratti, la prima donna Presidente nella storia dell’Ente pubblico, aveva ricevuto la consegna precisa: ‘mettere ordine’, soprattutto ‘contenere’ le spese del


A Giorgia il Festival di Sanremo ‘95.

carrozzone pubblico. E donna Letizia si applica con il solito impegno e rigore. Dopo Baudo e la Carrà, dunque, c’è il vuoto. O meglio, c’è la solita Mara Venier, il solito Fabrizio Frizzi, l’eclettica Milly Carlucci, il solito indefettibile ispettore Derrick e il consueto ciclo dei film di James Bond. Il telespettatore allora, che crede di avere in mano lo strumento per annullare il vuoto della RAI, spinge il pulsante, passa sull’altra sponda… e si trova in un altro vuoto: faccia a faccia con l’inossidabile Mike Bongiorno, con la ‘robusta’ Iva Zanicchi, rassicurante con il suo Ok. Il prezzo è giusto; con il solito Gerry Scotti; con la ‘svampita’ Antonella Elia, che neppure lei sa… se ci è o ci fa; con al solita Corrida del pur bravo Corrado; con l’ennesimo passaggio di tutti i film della coppia Terence Hill e Bud Spencer; con l’immortale soap-opera Beautiful, giunta alla puntata 2.100, e con i telefilm del tenente Colombo, riproposti in maniera così ossessiva, anno dopo anno, da trent’anni che l’UNESCO finirà per inserirli nei monumenti del ‘patrimonio universale’. L’unica ‘novità’ nel palinsesto delle reti del Cavaliere è Maurizio Costanzo, l’uomo della

‘camicia coi baffi’, l’inventore del ‘talk-show’, della ‘seconda serata’, di Vittorio Sgarbi e di Maria De Filippi, così rigida, austera e ‘fredda’ che al suo confronto la ‘gelida manina’ della pucciniana Mimì è un tizzone ardente. Ma la De Filippi è la nuova compagna di Costanzo e il noto conduttore, un maestro della comunicazione, le affianca specialisti dell’immagine i quali, a forza di ‘consigli per gli acquisti’, alla fine riescono a farle tirare fuori talento e ‘calore’, imponendola al grande pubblico televisivo. Ad operazione riuscita, Costanzo e De Filippi si sposano. Il 25 agosto il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, li unisce in matrimonio. Maria De Filippi ha 34 anni, Maurizio Costanzo ne ha 57 ed è alla sua quarta esperienza coniugale. Non è stato un anno di grande televisione… dirà lo stesso Costanzo in una sintesi benevola di fine anno. E se lo dice lui che in Tv vi ha allestito tre camere e cucina con annesso il teatro Parioli, non meraviglia che i suoi colleghi della carta stampata, e non solo loro, siano molto meno indulgenti… la Tv ha contribuito al ‘prodigioso nulla’ di programmi che hanno formato l’‘homo italicus’ più di quanto fossimo riusciti a cogliere – scrive Patruno – stare davanti al video non è solo un passatempo: è ormai una trasfusione di sangue che pesa su tutto… la Tv non solo registra una realtà sempre più senza significato, ma addirittura la crea… e per arrivare alla disintegrazione di ogni facoltà critica, al prosciugamento idraulico dei cervelli, è stato ideato un breviario ideologico-spettacolare da premio Nobel: ritmo veloce, distruzione di ogni filo logico e giochi a tutto spiano con promesse di vincite che risolvono ogni problema. E’ un coro. Famiglia Cristiana se la prende con Ambra… cambiate canale – scrive il diffuso settimanale cattolico – Ambra non è un fenomeno. E’ una ragazza sveglia teleguidata dall’alto e telegonfiata dal basso… durerà fino a che decideranno che non funziona più. Avvenire, il quotidiano cattolico, se la 487


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prende con Fiorello, conduttore di Karaoke, colpevole di… portare i cervelli all’ammasso. A Berlusconi, invece, la televisione piace. Certo, qualche ritocco non guasterebbe e, dunque, si munisce di una corposa agenda e comincia ad annotare: nelle pagine a sinistra i ‘cattivi’, nelle pagine a destra i ‘buoni’. Già da quest’anno – ben prima dunque del famoso ‘editto bulgaro’ – nelle pagine di ‘sinistra’ il Cavaliere scrive i nomi di Enzo Biagi, Michele Santoro, Piero Chiambretti e l’intera redazione di Blob; nelle pagine di ‘destra’ ci sono Emilio Fede e Paolo Liguori. Negli anni a venire, le pagine a sinistra dell’agenda di Berlusconi si arricchiranno di altri nomi: Daniele Luttazzi, i fratelli Sabina e Corrado Guzzanti, Serena Dandini, Gene Gnocchi e perfino Adriano Celentano; le pagine di destra, invece, avranno sempre un solo nome: Emilio Fede – scritto in grassetto e tutto maiuscolo – Paolo Liguori, minuscolo, e di tanto in tanto Bruno Vespa, sempre seguito da un punto interrogativo. Il Cavaliere non ha mai deciso se tenerlo nelle pagine di ‘destra’ o se trasferirlo in quelle di ‘sinistra’. La Tv – scrive Oscar Iarussi sulla Gazzetta – sta modificando l’antropologia stessa di questo Paese… sospettiamo da tempo che più si è inetti più si ha successo in questo magnetico stupidario patrio che è la televisione, un mezzo che era stato inventato per portare il mondo in casa nostra e non casa nostra nel mondo. Invece – continua Iarussi – senza pudore, cioè con la spensierata spudoratezza che pare ormai un carattere nazionale, commesse e professioniste, impiegate e casalinghe accorrono a sgambettare e a sghignazzare, a cangurare e a sbugiardarsi, pur di conquistarsi un posticino sotto i riflettori… per una volta siamo con il Presidente della Camera Irene Pivetti quando afferma che è giunto il momento di inserire sul piccolo schermo: attenzione, nuoce gravemente alla salute. Insomma, una Tv che insegue l’effimero, che abbaglia gli albanesi mostrando un Paese falso, privo di sacche di miseria, di emargina-

zione e degrado ma anche di storia e cultura. Il 29 gennaio muore, a Reggio Emilia, Ferruccio Tagliavini. Aveva 81 anni ed era considerato il miglior tenore leggero del mondo. Interprete magistrale delle opere di Puccini, Tagliavini aveva raggiunto fama internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta esibendosi in tutti i teatri d’Italia – dalla Scala al Petruzzelli – e del mondo: l’Opéra di Parigi, il Covent Garden di Londra, il Metropolitan e la Carnegie Hall di New York dove aveva tenuto concerti fino agli anni Settanta. Un gigante del melodramma che aveva contribuito alla diffusione della cultura italiana nel mondo per decenni. Circa 5 mesi dopo, il 12 giugno, si spegne a Lugano Arturo Benedetti Michelangeli, uno dei più grandi pianisti del secolo. Aveva interpretato, in modo eccezionale, i compositori più famosi. I suoi concerti – è venuto più volte anche a Bari – erano, e sono ancora oggi, leggendari. Di Tagliavini, la RAI farà appena un cenno all’interno di un Tg e per ricordare il grande pianista trasmetterà un concerto alle due di notte. E’ troppo per Riccardo Muti che commenta amaro… un Paese dove si trasmette un concerto di A. Benedetti Michelangeli alle 2 del mattino – dirà il noto Direttore d’orchestra – è un atto profondamente mortificante; è un vero insulto alla memoria del più grande pianista del nostro tempo… sono indignato per il trattamento riservato dalla Tv alla cultura del nostro Paese. Le malattie della Tv pubblica – sostiene il medievalista Franco Cardini, componente il CdA della RAI – sono il riflesso di quelle della società civile. Ma siamo guariti? No, non siamo guariti. Siamo peggiorati. Siamo passati dalla lettiga di emergenza in corsia, direttamente in sala rianimazione dove viviamo, da un decennio ormai, in coma profondo. Abbiamo fatto una tale overdose di nulla, fra la Tv di fine secolo e quella del nuovo secolo, che quanti appartengono alla generazione di chi scrive, non hanno più speranza di svegliarsi. 489


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Facciamo voti per i nostri nipoti, ammesso che riescano a sopravvivere a Beautiful, Elisa di Rivombrosa, Un posto al sole, Incantesimo, il Grande Fratello, l’Isola dei famosi, la Fattoria, la Talpa e a Walker Texas Ranger oltre a Luca Giurato, Aldo Biscardi, Mara Venier, Simona Ventura, le sorelle Lecciso e Porta a Porta che non avendo più la concorrenza del Maurizio Costanzo Show è destinato a rimanere nei secoli dei secoli.

Il cinema Nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita del cinematografo, domina la mediocrità. Poche, pochissime pellicole offrono qualche spunto di novità e genialità. Domina la cinematografia catastrofica, i serial, l’horror e la comicità demenziale i cui massimi esponenti sono l’americano Jim Carrey – uno straordinario camaleonte che guadagna 20 milioni di dollari a film – e la più modesta coppia italiana De Sica-Boldi, i quali sicuramente non guadagnano quanto il prodigioso trasformista di Hollywood, ma i loro film sono quasi sempre campioni d’incasso. Quest’anno, con il mediocre S.P.Q.R., sono riusciti ad incassare 19 miliardi di lire; 6 miliardi in più de Il postino del compianto Massimo Troisi. La qualità non paga, tant’è che il miglior film dell’anno, Underground del bosniaco Emir Kusturica, non è un successo di pubblico… Underground è una pellicola che non esiteremo a definire un capolavoro assoluto – scrive Oscar Iarussi sulla Gazzetta – un film sospeso tra storia e leggenda, fra tristezza e gioia di vivere. Un’opera di grande intensità figurativa e di rara poesia… Emir è un artista vero, forse l’unico erede di Fellini nella capacità di orchestrare le emozioni, di impastare ricordi personali e memorie collettive e di reggere, per quasi tre ore, uno ‘spettacolo’ che coniuga la leggerezza di una favola, seppur crudele, con la forza irruente della storia. Con altrettanto entusiasmo è accolto il film 490 Lo zio di Brooklyn di Daniele Ciprì e Franco

Maresco… un cinema meridionale originale – scrive Lietta Tornabuoni – trasgressivo, fantasioso, comunque anticonformista e creativo. Fotografato in uno straordinario bianco e nero da Luca Bigazzi. Ma si sa, più i film sono osannati dalla critica, più sono disertati dagli spettatori. Ciò vale anche sia per Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller, sia per L’amore molesto del regista napoletano Mario Martone.

I lutti del grande schermo Sono in tanti, nel mondo del cinema e del teatro, a lasciare quest’anno il palcoscenico della vita. Il 13 gennaio muore a 84 anni Tino Carraro, una vita fra teatro, cinema e televisione; il 12 febbraio si spegne a 75 anni, Donald Pleasence, grande interprete shakespeariano e noto ‘cattivo’ del cinema; il 9 aprile scompare a Varese l’attrice più longeva e ‘scandalosa’ del cinema e del teatro italiano: Paola Borboni. Aveva 95 anni. Lo stesso giorno muore a Roma Edda Ciano, la figlia primogenita di Benito Mussolini, moglie di Galeazzo Ciano. Aveva 85 anni. Con loro scompare un secolo – scrive Lino Patruno accomunandole in un unico ricordo – un secolo di immani tragedie e di stupefacenti conquiste del quale sono state ribelli protagoniste… e se altre loro compagne di strada avrebbero poi inventato il femminismo degli slogan e delle chiassate, Edda e Paola ne avevano già vissuto uno non meno dirompente seppur meno chiacchierato… e in che tempi. Edda Ciano la prima a mettere i pantaloni e a guidare un’auto. Paola Borboni il primo seno nudo, nel 1925, in teatro. Edda spregiudicata, un po’ matta, passionale, eccentrica. Paola col gusto dello scandalo, indomabile, dissacratoria, irriverente. Edda giocatrice incallita. Paola amante instancabile. Tutte e due capaci di tenere la scena come se non fossero mai in scena, di recitare un’esistenza controcorrente senza recitare affatto. Muore a Roma, il 14 aprile, Mario Carotenuto, l’ultimo grande caratterista di quella


Mario Carotenuto

Gorni Kramer

bella stagione della ‘commedia italiana’. Romano ‘de Roma’, l’imponente e occhialuto Mario, aveva 79 anni. Ottantaquattro ne aveva, invece, la ‘biondona’ con gli occhi azzurri Ginger Rogers quando si spegne a Los Angeles il 25 aprile. ‘Regina’ del ‘Musical’ hollywoodiano, partner di Fred Astaire in dieci film passati alla storia, vincitrice di un Oscar per una pellicola drammatica, la Rogers era un’attrice versatile e completa. Aveva iniziato la sua carriera a 13 anni e a 18 calcava già i palcoscenici di Broadway. Ma era Lana Turner la più conturbante di tutte le bionde mai sfornate dallo star system di Hollywood. Distrutta da un cancro alla gola, la più sensuale e affascinante diva americana degli anni Cinquanta e Sessanta, si spegne il 29 giugno all’età di 75 anni. Lutti anche nel mondo della musica leggera. Il 14 maggio la cantante Mia Martini viene trovata senza vita nella sua casa di Cardano al Campo, in provincia di Varese. Mimì – scrive Francesco Costantini sulla Gazzetta – era una delle voci più belle della musica leggera italiana… ma le avevano appiccicato addosso l’etichetta di iettatrice e lei, sensibile e riservata, incline a perdere la bussola delle emozioni, lottò contro quell’assurda diceria, ma poi si arrese… ‘sono stanca di questa vita – aveva scritto su un foglietto – voglio morire, non vale la pena di vivere’. L’autopsia accerterà in seguito che la sfortunata Mimì era morta per un’overdose di cocaina.

Achille Togliani

Il 12 agosto muore a Roma Achille Togliani. Aveva cantato, con la sua voce calda e confidenziale, motivi senza tempo: Signorinella, Parlami d’amore Mariù, Come pioveva. Bello, discreto, elegante, aveva conservato un aspetto giovanile fino a 71 anni quando è stroncato da un infarto. Due mesi dopo, il 26 ottobre, muore a Milano il grande compositore e direttore d’orchestra Gorni Kramer. Aveva 82 anni. Fisarmonicista ineguagliabile, appassionato di jazz, Kramer importò e vestì di ‘swing’ la musica leggera italiana ben prima di Renzo Arbore. E sarà ancora un infarto a stroncare la vita del regista e attore Nanni Loy, morto a Fregene, il 21 agosto. Nato a Cagliari 70 anni prima, Loy era diventato popolare nell’autunno del ’64 con la trasmissione televisiva Specchio segreto, il primo esperimento nazionale di tivvùverità che utilizzava una telecamera nascosta. Era la versione italiana della Candid Camera americana. Ma Loy era già un regista noto e apprezzato. Aveva diretto il seguito del film di Mario Monicelli Audace colpo dei soliti ignoti e due film sulla dimenticata resistenza al nazifascismo dei meridionali: Un giorno da leoni e l’indimenticabile Quattro giornate di Napoli. Loy era il regista che meglio di tutti seppe rievocare il neorealismo dei grandi maestri – De Sica, Rossellini, De Santis – negli anni Settanta e Ottanta con opere di grande impegno umano e sociale come Il padre di famiglia, Detenuto in attesa di giudizio, Café Express e Mi manda Picone. 491


Una finestra sulla storia - 1995

Il 24 novembre scompare il grande regista francese Luis Malle considerato allo stesso tempo scandaloso, eclettico, incoerente e classico. Aveva 63 anni. L’ultimo a lasciare questo infelice 1995 è Dino Crocetti, in arte Dean Martin, scomparso a 78 anni il giorno di Natale a Los Angeles. Figlio di un barbiere italiano Dino nasce in America. Fino all’incontro con Jerry Lewis e Frank Sinatra, Martin era uno dei tanti cantanti ‘confidenziali’ che vivacchiavano nei nightclub della costa orientale degli Stati Uniti. E’ in un locale di Las Vegas che Jerry Lewis lo incontra accorgendosi subito delle potenzialità di quel ragazzone italiano e gli propone di fare cinema con lui. Dino e Jerry faranno insieme 14 film, poi Martin, stanco di fargli da ‘spalla’, rompe il sodalizio. Dino, che con Jerry Lewis era divenuto un cantante popolare ma un attore senza futuro, si unisce al ‘clan’ di Frank Sinatra e l’amicizia con ‘The Voice’ segnerà una svolta nella carriera di attore di Dean Martin. Indissolubilmente legate alla sua voce, calda, pastosa, ‘rotolante’, sono due motivetti: That’s amore e Everyday loves somebody; come attore, la sua più bella interpretazione è legata allo sceriffo ubriacone Dude, nel capolavoro western di Howard Hawks Un dollaro d’onore nonostante il protagonista fosse quel mostro sacro del cinema americano John Wayne.

Lutti della cultura e dell’arte Il 23 marzo si spegne a Roma Albino Pierro, il poeta di Tursi in provincia di Matera. Aveva 79 anni. Più volte candidato al premio Nobel, Pierro era considerato l’ultimo, struggente cantastorie lucano. Muoiono i più celebri disegnatori del nostro secolo: Hugo Pratt, riminese, è stroncato da un tumore il 20 agosto. Era il padre di Corto Maltese, il fumetto ‘cult’ non privo di valore culturale. Diversa la matita del disegnatore Franco Bonvicini, in arte ‘Bonvi’, travolto e ucciso da un’auto a Bologna il 10 dicembre. Era noto in tutto il 492 mondo per aver creato Sturmtruppen, le ‘stri-

Si spegne a Los Angeles Dean Martin.

sce’ che irridevano il nazismo. Bonvi aveva 54 anni. Il 13 febbraio si spegne, a 80 anni, il pittore Alberto Burri, considerato un maestro dell’arte contemporanea. Emilio Greco, scultore catanese di 82 anni, muore a Roma il 5 aprile. Tra le sue opere più famose le Bagnanti e le porte del Duomo di Orvieto. Aveva invece 94 anni quando si spegne a Milano lo scultore Francesco Messina. Un genio del Novecento italiano. Immensa la galleria delle sue opere. La sua materia prima era il marmo. Messina prediligeva il classico, ma aveva un debole per i cavalli. Suo il monumentale cavallo davanti alla sede romana della RAI in viale Mazzini. Il 2 giugno muore a New York lo storico giornalista Ugo Stille. Aveva 76 anni e dal 1987 al 1992 aveva diretto il Corriere della Sera. Il 4 marzo si spegne, a 74 anni in Svizzera, la ‘giallista’ americana Patricia Highsmith. Alcuni suoi thriller avevano ispirato il grande regista Alfred Hitchcock. Il 19 settembre, infine, dopo un lungo, tormentato periodo della sua vita e una dolorosa malattia, muore a 71 anni Vincenzo Muccioli, il carismatico e discusso fondatore di San Patrignano, la comunità che continua a dare a


migliaia di giovani la speranza di uscire dal tunnel della droga. Anche Bari, quest’anno, perde alcuni dei suoi figli migliori. Il 25 agosto si spegne Alfredo Giovine. Per tutti, specie per noi della Gazzetta, semplicemente ‘don Alfredo’. Con lui – scrive Giuseppe Gorjux – scompare l’ultimo ‘cantastorie’ di una Bari che non c’è più. Autore di numerose pubblicazioni, fondatore de l’Archivio delle Tradizioni Popolari Baresi, poeta dialettale, appassionato cultore di opere liriche, di canti e racconti popolari raccolti direttamente nei ‘bassi’ della città vecchia, titolare di una seguitissima rubrica domenicale sulla Gazzetta – l’Angolo di Alfredo Giovine – il suo vecchio cuore… un cuore da bersagliere… ha cessato di battere a 88 anni. Con una acuminata coscienza della Storia come cosa viva – scrive Michele Mirabella sulla Gazzetta – don Alfredo amava predisporre le ragioni della identità di un popolo nell’ordine orgoglioso della consapevolezza e non nel ripostiglio pigro e laconico degli archivi… sono stato un tuo allievo e non l’hai mai saputo – continua Mirabella nel commosso ricordo – io e tutti noi che abbiamo armeggiato con la cultura popolare, abbiamo imparato da Lui… adesso la sua opera sta lì, è nostra, come avrebbe voluto: una famigliare ‘Monumenta Historiae nostrae’ in cui risuonano affettuosamente lessico e accenti vernacolari, nomi desueti, cedui intercalari, toponimi e proverbi, adagi e soprannomi, nenie e canti, nell’affresco puntiglioso e fecondo giganteggiano eroi del vicolo e protagonisti della piazza nella immancabile policromia della grande scena popolare. L’ultimo ‘dolore’ della sua vita, in una società che in nome del progresso cancella tutto, è stato l’incendio del teatro Petruzzelli. Esattamente tre mesi dopo, il 25 novembre muore, stroncato dalla leucemia a 75 anni, il prof. Luigi Sada, altro noto studioso di storia e

tradizioni popolari della Puglia. Autore prolifico di volumi in storia dei dialetti, folklore e gastronomia pugliese. Il 6 dicembre, infine, un infarto spezza la vita di Pietro Leonida Laforgia. Già noto e stimato penalista; primo e ultimo Sindaco ‘comunista’ di Bari – 3 gennaio, 9 settembre 1993 – e senatore del PDS nel collegio di Bari-centro dal ’94… prima di essere avvocato, sindaco e senatore – scrive De Tomaso sulla Gazzetta – Laforgia era un gentiluomo, un signore sensibile e generoso. Non aveva nemici, ma solo amici e avversari.

Lo sport Cioè, il calcio. E’ il pallone ormai a dominare le cronache sportive. Solo lo sci continua a resistere, con la stessa passione, ma non con le stesse folle degli stadi, grazie a quel fenomenale carabiniere, Alberto Tomba, che il 19 marzo a Bormio vince: lo slalom gigante, lo speciale e, per la prima volta nella sua carriera, la Coppa del mondo. Tutto il resto è contorno. Contorno è la medaglia d’oro conquistata da Silvio Fauner nello sci di fondo, 50 km, a Thunder Bay, in Canada, e contorno è l’altro oro di Gennaro Di Napoli ai mondiali indoor di atletica, a Barcellona, nei 3.000 metri. Sempre notizia di contorno al calcio sono gli ori di Michele Didoni – nella 20 km di marcia – e Fiona May nel salto in lungo ai mondiali di atletica di Goteborg, in Svezia. Generose, invece, le cronache delle imprese sportive delle nazionali di pallanuoto e pallavolo da anni ai vertici europei delle rispettive discipline. Il 27 agosto gli Azzurri della pallanuoto maschile, il famoso ‘Settebello’, e le ragazze del ‘Setterosa’ si aggiudicano entrambi i titoli di campioni d’Europa. Stesso titolo vince la Nazionale di pallavolo, il 16 settembre, ad Atene, dopo una lunga, memorabile partita contro l’Olanda. Ma anche il ‘povero’ Sud, anzi la più piccola e la più povera regione del Sud, la Basilicata, ha le sue ‘stelle’ sportive… è Matera la 493


Una finestra sulla storia - 1995

capitale nazionale della pallavolo femminile – scrive il capo della redazione sportiva della Gazzetta Carlo Gagliardi, un esperto in materia – le splendide atlete lucane del ‘Latte Rugiada’ guidate da Keba Phipps, impagabile ‘pantera nera’ del gioco d’attacco, si sono aggiudicate il quarto scudetto consecutivo della serie A femminile di pallavolo. Un contorno, anzi praticamente assente, il ciclismo, nonostante alcune strepitose ‘scalate’ di Marco Pantani; appena una notizia per la ciclista Fabiana Luperini che quest’anno vince Giro e Tour; qualcosa in più, due striminzite ‘colonne’, nelle varie di sport, ottiene Max Biaggi al suo secondo titolo mondiale di motociclismo nella classe 250; e mezza pagina ottiene l’automobilismo dominato da quel pilota-monstre che risponde al nome di Michael Schumacher: vince il mondiale di Formula 1 per la seconda volta. ‘Schumi’ è irraggiungibile. Dopo aver vinto l’ennesimo Gran Premio, l’esperto della F1 della Gazzetta, Amerigo De Peppo, che non a caso è anche juventino ‘doc’, scrive… per fermarlo possono solo sparargli nelle gomme, perché con quella Benetton che marcia come un orologio e quel motore Renault che di rompersi in gara proprio non vuole saperne, Schumacher se ne sta andando in carrozza verso il secondo titolo mondiale. Pochi giorni dopo lo sconsolato commento di De Peppo, l’avvocato Gianni Agnelli annuncia che la Ferrari ha raggiunto un accordo col pilota tedesco. Si parla di un contratto biennale per la modica cifra di 120 miliardi e una opzione per un terzo anno. E’ un somma stratosferica, commentano in molti. E’ il più grosso investimento mai fatto da una casa automobilistica… e sarà anche il migliore: Schumacher darà alla Ferrari cinque titoli mondiali consecutivi – 2000-2004 – farà dell’automobilismo la seconda disciplina sportiva più seguita al mondo; amplierà a dismisura il prestigio internazionale della casa di Maranello e… corre ancora per la 494 Ferrari.

Sua maestà il Calcio Quattro le novità di rilevo dell’anno: l’introduzione dei 3 punti per ogni partita vinta; il ritorno della ‘Vecchia Signora’ allo scudetto; il ritorno della famiglia Moratti alla dirigenza dell’Inter e la sentenza Bosman che determina una rivoluzione nel calcio europeo. Nel luglio del ’94 la Juventus decide di operare una svolta nel settore tecnico della squadra. Nonostante il blasone, nonostante lo sfoggio di quei ‘gioielli’ del calcio italiano che si chiamano Roberto Baggio e Gianluca Vialli, la ‘Vecchia Signora’ manca da troppo tempo all’appuntamento con lo scudetto. I nuovi arrivati si chiamano Luciano Moggi, lo scopritore di talenti che ha fatto la fortuna del Napoli, e il giovane allenatore emergente Marcello Lippi. Nove mesi dopo, il 21 maggio ’95, la Juventus si cuce sulla maglia il 23° scudetto di Campione d’Italia della sua storia dopo nove anni di digiuno. La coppia Moggi-Lippi non solo interrompe lo strapotere del Milan, ma riporterà i ‘Bianconeri’ torinesi al vertice del calcio mondiale. Esattamente gli stessi obiettivi si propone Massimo Moratti quando annuncia, il 18 febbraio, di aver rilevato l’Inter da Ernesto Pellegrini per 70 miliardi. Ma il facoltoso petroliere, figlio di Angelo Moratti, il presidente per antonomasia dell’Inter delle meraviglie degli anni Sessanta, non avrà la stessa fortuna del padre. Dopo aver speso, con grande generosità, un vagone di miliardi; dopo aver comprato, venduto e anche svenduto calciatori del calibro di Roberto Carlos, Roberto Baggio e Ronaldo – tanto per citare i più famosi – dopo aver ingaggiato ed esonerato ben 11 allenatori in 10 anni – compreso Marcello Lippi – tutto quello che Massimo Moratti e l’Inter riusciranno a vincere è una Coppa UEFA nel 1998 e una Coppa Italia nel 2005. E il Milan? Per i ‘Rossoneri’ del Cavaliere è un anno sabbatico: a gennaio Berlusconi perde la presidenza del Consiglio; ad aprile, quattro settimane prima la fine del campionato


’94-’95, il Milan è già fuori dal giro dello scudetto; a maggio perde la finale della Coppa Campioni con l’Ajax e ad agosto perde anche, definitivamente, il tre volte ‘pallone d’oro’ Marco Van Basten. La caviglia del grande attaccante olandese non vuole saperne di guarire e il 18 agosto Van Basten saluta, commosso, i 60mila spettatori presenti sugli spalti di San Siro dove il Milan, fra l’altro, perde anche l’incontro con la Juventus che si aggiudica il ‘Trofeo Berlusconi’. Ma il Cavaliere, si sa, è uomo di mille risorse e di mille denari. A maggio il Milan annuncia di aver raggiunto un accordo con il Paris Saint Germain per il trasferimento del possente calciatore liberiano George Weah e, due mesi dopo, la ‘Vecchia Signora’ divorzia da Roberto Baggio: non si sono mai amati, specie da quando l’Avvocato gli ha cucito addosso quel nomignolo di ‘codino bagnato’. A fine luglio Baggio passa alla corte del Cavaliere. Con Weah e Baggio i ‘Rossoneri’ tornano imbattibili. Il 26 dicembre una giuria di giornalisti europei assegnano a George Weah il ‘pallone d’oro’; cinque mesi dopo, mentre Silvio Berlusconi perde le elezioni politiche del 28 aprile, Fabio Capello riporta al Milan il titolo di Campione d’Italia. Naturalmente, nell’altro campionato di serie A, quello dove non si gioca per lo scudetto, ma per assicurarsi la permanenza nel salotto buono del calcio nazionale, la squadra ‘rivelazione’ è il Bari del mister Beppe Materazzi e dei più modesti ‘gemelli del gol’ Sandro Tovalieri e Igor Protti. Sono i ‘Biancorossi’ quest’anno a tenere alta la bandiera del Sud: giocano, divertono e fanno risultati spettacolari mentre il Foggia, senza più Casillo e Zeman, se ne torna mestamente in serie B. E’ stato un anno indimenticabile – commenta euforico il presidente del Bari Vincenzo Matarrese – abbiamo mancato la possibilità di disputare la Coppa UEFA per un soffio e siamo usciti vittoriosi per due volte in questo campionato dalla Scala del calcio… il Bari

Marco Van Basten saluta i tifosi milanisti: il tre volte pallone d’oro del Milan abbandona il calcio.

sta tornando forte come un tempo ed io abbandonerò la presidenza solo quando questa squadra taglierà un traguardo mai raggiunto prima nella sua storia. Infatti, 10 anni dopo, don Vincenzo sarà ancora presidente del Bari. Per Matarrese, la stagione ’94-’95 è stata esaltante e al tempo stesso ‘sfortunata’… con qualche pareggio in più e qualche ingenuità in meno avremmo potuto entrare nel giro del calcio europeo… ma per quei tifosi che hanno sempre avuto ‘Bari nel cuore’, vincere un incontro a San Siro – 16 ottobre ’94, InterBari 1 a 2 – e ripetere l’impresa contro il Milan – 28 maggio ’95, Milan-Bari 0 a 1 – è stata una soddisfazione che basta e avanza per una intera stagione. E’ la ‘magia del calcio’. Per molte persone semplici, per fior di professionisti che sulle tribune di uno stadio si entusiasmano come bambini o, come bambini chiudono gli occhi di fronte al pericolo, sono le due vittorie a San Siro a fare ‘la storia’ del 495


Una finestra sulla storia - 1995

campionato ’94-‘95. Ricorderemo per un pezzo quella stagione – scrive Gianni Antonucci che del Bari conosce vita, morte e miracoli, nel suo enciclopedico volume dedicato ai primi 90 anni di vita del Club ‘Biancorosso’ – nessuno avrebbe pronosticato un campionato così esaltate. Eravamo appena tornati in serie A e già ci davano per partenti. Diventammo, invece, la squadra rivelazione dell’anno. A Milano, i tifosi dell’Inter, finirono coll’applaudire i baresi a scena aperta e quando, infine, i ‘Galletti’ diedero una bella lezione al grande Milan, diventammo l’Ajax del Sud. Il bis con acuto nella Scala del calcio, faceva impettire d’orgoglio giocatori, tecnici e tifosi. Fu la stagione in cui i ‘Biancorossi’ s’inventarono il ‘trenino’, ogni rete un ‘trenino’, Tovalieri segnò 17 reti, riuscimmo ad arrivare al 4° posto in classifica, ma soprattutto battemmo il Milan stellare di Fabio Capello riportandoci alla memoria quell’indimenticabile partita del 30 aprile 1961 vinta dai baresi per 1 a 3, sempre a San Siro con reti di Virgili, Cicogna e Biagio Catalano. Ma gli entusiasmi si spengono presto. Ogni stagione è una storia a sé e le squadre come il Bari pensano più ai bilanci societari che ai sogni di gloria. All’inizio di luglio Sandro Tovalieri, lieri, detto detto il il ‘cobra’, ‘cobra’, èè ceduto ceduto all’Atalanta all’Atalanta ee subito dopo partono per Firenze, subito dopo partono per Firenze, Emiliano Emiliano BiBigica ee Lorenzo Lorenzo Amoruso Amoruso detto detto ‘Rambo’ ‘Rambo’ che che in in gica seguito farà una carriera strepitosa nel Glaseguito farà una carriera strepitosa nel Glasgow sgow Rangers. Rangers. In breve, Matarrese toglie al Bari la colonIn breve, Matarrese toglie al Bari la colon496

na vertebrale della squadra: difesa, stopper e centravanti. Il ‘giocattolo’ costruito da Materazzi s’ingrippa e, fin dall’inizio della stagione ’95-’96, l’esperto mister del Bari non riesce più a fare risultati. Il 3 dicembre, a seguito dell’umiliante sconfitta interna con la Sampdoria… una prestazione imbarazzante, indecorosa e per certi versi squallida… Materazzi getta la spugna. Dopo 12 gare il Bari ha raccolto briciole: 8 punti e terzultimo posto in classifica. Il 4 dicembre, della serie ‘capitano tutte a noi’, la Società ‘Biancorossa’ chiama alla guida del Bari il viareggino Eugenio Fascetti e la ‘piazza’ barese, il pubblico sugli spalti del San Nicola, la stessa Società assisteranno, più o meno passivamente, al più geniale ‘massacro’ sportivo nella storia del Bari. Fascetti è noto in Puglia per le sue tre stagioni a Lecce – che ha portato per la prima volta in serie A nella stagione ’84-’85 – e per la sua dichiarata ‘avversione’ per il Bari. Lasciando Lecce, infatti, Fascetti dichiarò… farò tutto, ma non sarò mai allenatore del Bari. Fu lui – scrive Gianni Antonucci sulla Gazzetta – a far divampare polemiche e veleni fra le tifoserie ‘Giallorosse’ e ‘Biancorosse’ fino ad allora abbastanza contenute e pacifiche… e sarà ancora Fascetti, alla guida del Verona, ad aprire una nuova serie di polemiche e veleni contro il Bari. Fascetti è un ‘toscanaccio’ per eccellenza. Molti giornalisti sportivi gli riconoscono genialità grinta, pregi pregilargamente largamenteoscurati, oscurati,pepenialità ee grinta,


rò, da un pessimo carattere: è inguaribilmente collerico, velenoso e polemico specie con i giornalisti con cui ha sempre avuto un pessimo rapporto. Fascetti – scrive ancora Antonucci – ha attitudini più alle promozioni che alla lotta per la salvezza. Infatti, retrocesso in serie B nella stagione ’95-’96, l’anno successivo riporta il Bari in serie A. Poi, però, sfascia tutto. I tifosi non lo amano, la stampa gli è ostile per la sua fastidiosa supponenza e lui farà l’impossibile per ricambiarli. Per anni sarà tutto un susseguirsi di veleni e polemiche con i giornalisti, il pubblico e la Società. La prima partita di Fascetti sulla panchina del Bari, il 10 dicembre di questo interminabile ’95, è umiliante: i ‘Biancorossi’ perdono a Cremona per 7 reti a 1; l’ultima, il 29 aprile 2001, è di quelle che lasciano cicatrici così profonde che al solo ricordo bruciano. Si gioca al San Nicola contro il Perugia del giovane Serse Cosmi. E’ stata una stagione disastrosa. La retrocessione è certa. I calciatori, il pubblico, la Società è rassegnata. Si gioca, come sempre, per l’orgoglio, per un minimo di soddisfazione. Fino al 22’ del secondo tempo il Bari conduce la gara quasi con autorità: vince con il Perugia per 3 reti a 0. Quattordici minuti dopo i perugini ribaltano il risultato e vincono la gara per 3 reti a 4: per i 209 spettatori paganti che nell’enorme ‘astronave’ barese hanno assistito all’incredibile disfatta dei ‘Biancorossi’, sono stati i 14 minuti più lunghi nella loro storia di tifosi. Che la squadra fosse assolutamente incapace di gestirsi, anche trovandosi in vantaggio – scrive il cronista sportivo della Gazzetta, Vito Marino – era un fatto risaputo. Ma che si arrivasse al colmo di farsi raggiungere e superare sul 3 a 0, è materiale per astanteria o psichiatria. Fate voi. Ieri – continua Marino – siamo stati sottoposti al ludibrio nazionale. Quello che è accaduto al San Nicola è stato semplicemente scandaloso. A destare stupore, amarezza e indignazione non è tanto la

diciannovesima sconfitta del Bari in 28 giornate quanto l’imperturbabilità di Fascetti, allenatore intenzionato a gareggiare ai prossimi mondiali di masochismo puro. Come? Se era una partita del campionato di C1? No, no. Era una partita di serie A, del massimo campionato nazionale divenuto, con la sentenza Bosman del 15 dicembre ’95, il più variegato, strampalato e ricco campionato di calcio d’Europa. La storia è questa. Il calciatore Jean Marc Bosman scaduto il contratto biennale che lo lega al Royal Liegi, trova un accordo con la squadra francese Dunkerque. Ma il Liegi, che è proprietario del cartellino di Bosman, chiede una grossa somma per il riscatto e il Dunkerque, non potendo consentirsi quell’esborso, rinuncia ad ingaggiare il calciatore. Bosman prima protesta poi si rivolge sia alla Federazione belga sia alla Corte di Liegi citando il Royal per danni. In breve, il caso Bosman finisce alla Corte Europea di Giustizia di Lussemburgo che il 15 dicembre di quest’anno emana una sentenza stravolgente: sono illegali gli indennizzi di trasferimento per i calciatori a fine contratto e sono illegittime le norme che limitano il numero degli atleti stranieri da schierare in campo nell’ambito dei 15 Paesi della Comunità Europea. Sono contrarie alla libera concorrenza e alla libera circolazione dei lavoratori sancite dall’Unione Europea. E’ una sentenza rivoluzionaria. Non solo perché cambiano i rapporti fra i calciatori e le Società, ma soprattutto perché abolisce la norma UEFA – la Federazione europea di calcio – che impone ai Club di schierare al massimo 3 calciatori stranieri. Con la sentenza Bosman insomma, a partire dal 1996 si potrebbe assistere, in teoria, ad una finale di Coppa Campioni fra una squadra italiana e una olandese in cui il Club italiano affronta con 11 olandesi il Club avversario che schiera in campo 11 italiani. E’ la ‘magia’ del calcio. 497


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