Dal balcone in giù

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Il motore rombava tranquillo, il cielo, screziato da nuvolette, riluceva dei raggi di un gaio sole d’aprile, l’aria profumava di erba tenera e di fiorellini primaverili, mentre l’incantevole terra scura, lavorata con cura, cominciava a ricoprirsi di una leggera e verde lanugine che prometteva abbondanti raccolti. A Marthe sarebbe piaciuto gironzolare per le stradine che si aprivano all’improvviso a destra e a sinistra, evidenziate da zone più ombreggiate fra le siepi: si poteva persino immaginare la fresca rugiada sulle tenere foglioline e i mille incantesimi della natura in pieno risveglio. Ma era inutile chiedere a Jean di fermarsi un momento. «Un’automobile», affermava, «serve per andare e non per fermarsi». – Boris Vian, Marthe e Jean


Gli disse del libro e di una frase che aveva letto e che l’aveva fatta sobbalzare – usò proprio questa espressione. La frase era: «Se mai amerò ancora, non aspetterò più di amare al mio meglio. Pensavamo di essere giovani e che questo significasse avere tempo per amare meglio in futuro. E’ un modo terribilmente sbagliato di pensare. Aspettare di amare non è un modo di vivere». Fu così che quella parola, amore, fece irruzione in quello che avevano, che stavano sempre molto attenti a non definire con maggior precisione di questa. Lui disse che messa in quel modo sembrava banale ma forse inserita nel contesto… – Banale un cazzo –, disse lei. – Una volta non li leggevi nemmeno, i romanzi. Questo te l’ho prestato io. – E allora? Lui si alzò dal letto e andò a riaprire gli scuri delle finestre della camera. La siepe di alloro giù in cortile gli sembrò venire da chissà quale mondo. Si voltò verso di lei, seduta sulla poltrona tra la scrivania e la libreria. Per un attimo si chiese perché fosse lì. – C’è una mostra, al Museo del Corso –, disse. – Su chi è? – Il pittore giapponese, Hiroshige. Potremmo andarci. – Quando? – No lo so –, disse. Tornò a sedersi sul letto. Le lenzuola avevano stampate strane stelle colorate su campo rosso. Lui gliele aveva presentate come «Le mie lenzuola Stelle di David». Le Stelle di David erano gialle rosse e blu. Ce n’era una gialla, enorme, sul cuscino. Aveva anche un set di “lenzuola cristiane”, coperte di croci azzurre e verdi. Stirò una piega con una mano. Lei gli chiese cosa avesse intenzione di fare. – A che ora ce l’hai il treno? – Non lo so, credo alle sei –, disse. Si levò dalla poltrona e chiese il permesso di andare in bagno.


Lui la seguì con lo sguardo. Come sentì l’acqua scorrere dall’altra parte del muro, pensò al modo in cui voleva farsi trovare al suo ritorno. Si alzò con una specie di scatto e corse fino alla poltrona. Prese un volume a caso dalla libreria e iniziò a sfogliarlo. Voleva che lei si trovasse davanti un accanito lettore? Un distinto gentiluomo al gabinetto di lettura? Chiuse il libro e lo rimise sullo scaffale appena in tempo per vederla entrare in camera. Sorrideva, ma non sembrava farlo di proposito. – Forse abbiamo aspettato troppo –, disse, – o troppo poco. – Non credo troppo poco. La guardò sedersi sul letto. Le piaceva farlo. Avrebbe voluto vederla ancora sedersi sul letto, di sicuro. – Cosa vuoi fare? –, gli chiese. – Possiamo far finta che non sia successo niente –, disse. – Che idea cretina. – Non lo so. Tu ne hai altre? Lei non rispose. Si chinò per prendere la sua borsa, a terra, vicino al letto. La poggiò sulle gambe incrociate e iniziò a controllare che dentro ci fosse tutto. – Facciamo così –, disse lui, – Facciamo finta che non esistiamo. Guardava in basso le punte dei suoi piedi che si toccavano. Poi guardò lei. – Non per sempre. Solo per un po’. Per un po’ noi non esistiamo. Non è che facciamo finta che quello che è successo non sia successo. Proprio non esistiamo, e basta. Lei lo guardò fisso, poi chiuse la borsa e si alzò in piedi. Andò verso la finestra e la aprì. Il sole di Roma a marzo non sembrava mai vero. **** I rumori di un gioco nella camera arrivano fuori e filtrano attraverso la coperta. Risate, piccoli passi veloci senza scarpe, breve apnea, un tonfo, risate liberatorie. Qualcuno salta in lungo sul letto in più. Qualcuno andrà oltre e una doga di legno si spezzerà. Che scemi – penseranno i proprietari dell’albergo – che scemi a sprecare letti così buoni per le scolaresche. Ma tutto questo loro due lo sapranno dopo. La loro unica preoccupazione, adesso, è di vedere come andrà a finire.


Sono arrivati verso le cinque e mezza del pomeriggio in questo ex-convento che i frati, o chi per loro, hanno adibito ad hotel. La spartizione delle stanze era stata già oggetto di lunghe discussioni, nelle settimane precedenti. Ognuno ha saputo con largo anticipo con chi avrebbe diviso la stanza e non ci sono stati cambiamenti dell’ultimo minuto. Hanno posato la loro roba, qualcuno si è fatto una doccia in fretta, poi sono andati a cena in quello che era stato il refettorio del convento ed era rimasto tale, nonostante gli sforzi di renderlo il più possibile simile ad una tavola calda stile tex-mex-napoletano. Hanno mangiato penne al pomodoro, cotolette alla milanese e patatine fritte. Hanno bevuto acqua e, chi voleva, aranciata. Hanno riso parecchio, stanchi per il viaggio non troppo lungo ma incredibilmente scomodo in pullman, eccitati per quello che sapevano – soprattutto speravano – sarebbe successo di lì a poco. Dopo essersi congedati dai professori (quella di greco e latino, quella di educazione fisica e quello di arte), dopo aver fatto finta di andare da bravi ognuno nella propria stanza a dormire sonni tranquilli, si sono riuniti tutti – esclusi i tre più sfigati – nella stanza toccata in sorte a due di loro, esageratamente grande: due letti matrimoniali, un bagno, un balcone con vista sulla baia. Si passano due bottiglie di Bacardi Breezer che sono riusciti a prendere senza farsi scoprire dai professori all’unico autogrill in cui hanno fatto tappa. Sgranocchiano patatine, arachidi e altra roba salatissima. Hanno paura quando sentono bussare alla porta. È la professoressa di greco e latino che vuole sapere se qualcuno è interessato alla messa che i frati dicono domani mattina. Nessuno risponde – troppo occupati a nascondere dietro schiene scosse dal tremore di risate trattenute le bottiglie che potrebbero costar loro se non una punizione, minimo una filippica di venti minuti. Attirato dalla porta aperta, entra anche il professore di arte. Nella sinistra tiene un pacco di bicchieri di plastica, nell’altra mano troneggia una bottiglia di spumante. Brindano tutti insieme, i professori e la quinta D ginnasio. Hanno capito un sacco di cose. Hanno quindici anni, qualcuno addirittura sedici. Quando i professori tolgono il disturbo, viene deciso che è ora di scoprire cosa riserva il balcone. A prima vista: il fresco delle sere dei primi di aprile, un po’ di silenzio, molta penombra – anzi quasi buio totale –, le luci di Napoli riflesse sul mare sotto di loro, infinite possibilità di sfregamenti. Loro due hanno deciso che almeno tentare è doveroso. Mentre lei lo aspetta seduta a terra fingendo di perdere il suo sguardo nella notte mediterranea, lui torna nella stanza per prendere una coperta di pile marrone dall’armadio e in tempo per


vedere il primo salto di quella che viene annunciata come una imperdibile gara che metterà a dura prova il materasso – alle doghe non pensa nessuno. Senza farsene accorgere, chiude la porta dietro di sé, svolge la coperta, se la appoggia sulle spalle e si siede accanto a lei, che subito si intrufola tra la spalla e il pile. Vogliono ammirare il panorama, parlare, avere l’illusione di essere soli e di trovarsi lì, insieme, su quel balcone, del tutto casualmente. Vogliono vedere quello che succede. **** – L’Interrail esiste ancora? L’oggetto della conversazione era la sua proposta di un viaggio in Interrail per la Normandia, sulle tracce della Balbec di Proust – ok, quest’ultima parte era stata omessa (ciò che era alquanto strano, dato che lui aveva letto Proust solo per poterlo dire. È probabile che si aspettasse che lei ci arrivasse da sola). – Certo che esiste. – L’Interrail? – Sì. – Ti vuoi riprendere dagli esami con l’Interrail? Guardarono fuori dai rispettivi finestrini: lui quello del guidatore, lei quello del passeggero. La pioggia battente impediva di andare con lo sguardo al di là di qualche metro, il rumore affatto coperto dalla musica nell’abitacolo. Nel parcheggio grigio e verde, anche l’auto doveva avere l’aspetto di uno sorpreso per strada da un temporale improvviso. – Le casse non funzionano. La musica non si sente nemmeno e il volume è a quindici. Lei non disse niente, si limitò a guardarlo mentre toccava tasti della cui funzione evidentemente non aveva alcuna idea. Si aggiustò i capelli facendo particolare attenzione a isolare a metà della fronte, in orizzontale, l’unica ciocca che sembrava essersi bagnata. – I miei in realtà vogliono che vada a Malta –, disse. – In vacanza studio? – No. – E allora a fare cosa? – Ho uno zio, a Malta. Dovrei stare da lui.


Lui si sistemò sul sedile così da poterla guardare bene. Azionò i tergicristalli e per sbaglio avviò la pulizia del parabrezza. Quattro scie di sapone bianco formarono due “v” che si sciolsero tra la pioggia. – Sta per morire? – chiese. Non che avesse voglia di scherzare. – No –, rispose lei. Non si poteva dire che avesse voglia di ridere. – E allora perché devi stare da lui? – Be’, perché sono mesi che me lo chiede e adesso i miei vogliono che ci vada. – Non hai mica dieci anni. Lei si tolse la ciocca bagnata dalla fronte e la confuse con gli altri capelli. – Lo so –, disse. – E allora perché ci vai? – Non ho detto che ci vado. Gli cominciava a mancare l’aria. Nonostante la pioggia, era metà luglio. Aprì lo sportello ma fu costretto a chiuderlo quasi subito. Nemmeno trenta secondi e il suo braccio sinistro era fradicio. Propose di accompagnarla alla fermata dell’autobus, anche se era ancora presto. Per evitare che lei pensasse che fosse un modo per dirle che la sua compagnia non era più gradita – cosa tutto sommato non vera –, aggiunse che era solo per fare qualcosa e che con la macchina in moto potevano aprire un po’ di più i finestrini. Lei non disse che era d’accordo, né che la faccenda la infastidiva. Partirono. – Non sapevo che avessi uno zio a Malta. – In genere preferisco non parlarne. – Perché? – Be’, ecco, è un tipo strano e non è che mi stia tanto simpatico. Adesso che ha Messenger poi mi assilla. Te l’ho detto, è da almeno due mesi che ogni volta che lo trovo in linea inizia a trillarmi e mi manda gli smile e mi scrive cose tipo “come sta la mia bellissima nipotina?” e attacca a dirmi che devo assolutamente andare da lui questa estate, che lì c’è gente che ci va apposta per imparare l’inglese e invece io ci posso andare quando mi pare perché ho, parole sue, “uno zio mitico”, a Malta. – Oddio. Quanti anni ha? – Di preciso non lo so, ora. Credo una sessantina. – E usa Messenger? – Sì –, rispose, vagamente sconsolata, e aggiunse sottovoce: – Come se non bastasse…


– A questo punto –, disse lui con un certo vigore, in parte sorpreso dall’aver usato quella locuzione, – rilancio la mia proposta. Pensaci bene: hai da una parte una vacanza avventurosa ma anche, volendo, tranquilla in giro per l’Europa con meta la Normandia, e dall’altra una settimana –, inciampò nello slancio oratorio, – quanto ci dovresti stare da questo zio a Malta? – Almeno due settimane. – Dunque –, riprese, – Normandia o due settimane su un isola piena di studenti dell’EF, in compagnia di un sessantenne che manda trilli e smile su Messenger e che è anche tuo zio? Fermò la macchina poco prima della pensilina sotto la quale un paio di persone umidicce già aspettavano l’autobus. I parcheggi in sosta vietata possono sembrare meno gravi quando piove. Accese le quattro frecce. – Mi sa che mi devo bagnare tutta per forza –, disse lei. Raccolse i capelli in una mano e li posò sulla spalla sinistra. – In macchina non c’è nemmeno un ombrello. In genere sotto i sedili se ne trova sempre uno. Sicuramente quando sarò tornato a casa ne usciranno fuori a migliaia. – Non fa niente –, disse lei. **** Lui pensa che non può baciarla. Ha l’apparecchio fisso. L’apparecchio fisso ai denti, cazzo. Non può e basta. Pensa che con ogni probabilità lei si starà chiedendo com’è baciare uno con l’apparecchio e si sarà risposta che non lo vuole sapere. Intanto parlano. – Dove ci tocca andare, domani? – Non lo so. Pompei? Così non va bene, lo sanno. Lui capisce che deve assolutamente inventarsi una storia, una storia che lo faccia apparire forte ma anche sensibile, deciso ma insicuro, figo ma goffo. Sa che lei ama le contraddizioni. Si chiede però se non conceda solo a se stessa di essere così meravigliosamente imperfetta, incoerente. Si chiede se da lui non voglia invece solo sicurezza, virile sicurezza. Lui non è un tipo virile - non lo sarà mai, lo sa. Lui, quando i suoi compagni di classe di sesso maschile (sei in tutto) dibattono su quale sia il modo migliore per farsi fare una sega al primo appuntamento o ritardare al massimo l’eiaculazione


(«Io penso a mia nonna», «Io penso alla faccia pietosa che faccio quando trattengo un’eiaculazione»), annuisce e sorride e nient’altro. Eppure la situazione è così perfetta. Il buio, il tepore sotto la coperta, la gita, il mare davanti a loro, le cose fatte di nascosto. La luna non si vede ma di sicuro c’è ed è piena, splendida, magari proprio dietro le loro teste. È obbligatorio fare qualcosa. Lui lo sa, lo sa anche lei. – Da quant’è che hai l’apparecchio ai denti? – Mah, non me lo ricordo di preciso. Credo tre anni, più o meno. – Perché così tanto? – Perché i miei denti sono molto storti. – Adesso non lo sono. – No, infatti. – E allora perché non te lo tolgono? Lui non lo sa e non risponde. Lei non riesce a capire come si possa essere così stupidi da fare certe domande, certi discorsi. Cerca di guardarlo negli occhi ma non vede niente, solo due puntini brillanti. Non capisce nemmeno come possa piacerle. Non è bello ed è incredibilmente imbranato – e non imbranato divertente. Non riesce a non guardarlo. Non riesce a smuoversi da quella posizione, seduta su quel balcone, tra una coperta di pile e la sua spalla destra. Potrebbe rimanerci per sempre. Lui profuma di cose appena lavate. Comincia a parlare. – Quando ero piccolo pensavo che non mi sarei mai trovato così bene con qualcuno. Voglio dire, non quando ero piccolo. Lo pensavo, lo penso da sempre. Adesso però è diverso, così, con te. Lei non fiata. Tutto il suo essere è impegnato ad ascoltare. – Certe volte penso che non sarò mai come gli altri. Che è una cosa che ho voluto e che voglio, in un certo senso, però, ecco, certe volte no, mi manca essere come gli altri. Fare le cose che fanno tutti e sembrare così naturale, spontaneo. Ti stai addormentando? – No, ti ascolto. Ma c’è qualcun altro, qui fuori? Lui dice di no ma si alza in piedi lo stesso per ispezionare. Il balcone gira attorno al palazzo, potrebbe esserci qualcuno nella parte che dà sulle colline, ma ovviamente non è così. Lei lo sa, lo sa anche lui. Torna a sedersi accanto a lei, un po’ più distante. Sembra essersi sistemata, sembra più bella, un’altra. Sedendosi il volto di lui le è passato ad un


palmo dal naso. Si è riempito dell’odore della sua bocca. Profuma di aranciata. – Non c’è nessuno –, dice, e lei torna ad appollaiarsi sulla sua spalla destra. Sentono passare un treno. Sono lì da venti minuti, oppure un’ora, o due. Lui pensa a cosa diranno gli altri, dopo, quando li vedranno rientrare in camera – gli occhi rimpiccioliti dal buio, la coperta di pile ancora sulle spalle di entrambi – e il giorno dopo, e tutti quelli della gita. Dice: – Forse l’unica cosa da fare è rimanere qui per un sacco di tempo. Anche dopo. Lei annuisce. Gli tocca una mano, come se accarezzasse un animale. – Hai delle mani liscissime e morbide come quelle dei bambini –, dice. A lui non sembra una gran cosa, ma è contento lo stesso. Lui è contento: è questo il punto. Per un attimo non gli interessa nient’altro. Scivola giù. Vuole portare la sua testa all’altezza di quella di lei. Stende una mano, quella che lei stava accarezzando. La apre davanti a sé – davanti a loro – come a mostrarla in tutto il suo essere infantile. La riporta a posto, ma, come se lo facesse per errore, la poggia tra le gambe di lei e inizia a massaggiarle l’interno coscia. Non riesce a credere a quello che sta facendo. Semplicemente non ci riesce. Si sente come gli omini nel cervello di Woody Allen, in quel film. Lei è come scomparsa. C’è il suo corpo – maestoso, caldo, vivo – ma lei non si sente. Alla fine parla. – Hai mai baciato qualcuna, con l’apparecchio ai denti? **** La trovò nella palestra deserta che non usavano né quelli del liceo classico, né quelli del linguistico, ma che – a orari che nessuno capiva e per lo più con una frequenza che rasentava lo zero – era occupata dai ragazzini di chissà quale scuola media. – Se la Facchini scopre che siamo qui ci uccide a colpi di quadro svedese. – Ti ha mandato a cercarmi? – chiese. Si era seduta su un materassino, la schiena appoggiata a uno strano attrezzo ginnico all’apparenza rimasto inutilizzato dagli anni Quaranta, in attesa della condanna. – No –, disse. – Mi avevi messo paura. – La Facchini fa paura. Sorrisero. – Ti ricordi di quella volta che ha trovato quei due che fumavano nello spogliatoio?


Lei annuì e aggiunse: – Avevo pregato per le loro vite. Si sedette accanto a lei, sul materassino, non tanto per starle più vicino, quanto perché in tuta si sentiva più goffo e brutto del solito. Aveva addosso una t-shirt bianca con su scritto, rosso e arancio, SWOOSH. Prima di realizzare – dopo aver speso una ventina di euro – che lo faceva sembrare il rappresentante di una ditta di detersivi per la casa, quella maglietta gli era sembrata divertente. – Adesso manderà sul serio qualcuno a cercarci –, disse. – Quella donna mi mette i brividi. Lei inarcò le spalle e iniziò a grattarsele contro lo strano attrezzo. Dall’alto in basso, poi da destra a sinistra. Quando fu soddisfatta sollevò il ginocchio destro all’altezza del mento e, curvandosi, ce lo poggiò sopra. – Che fai qui, tutta sola? Portò il ginocchio sinistro dov’era già l’altro e disse: – Sono pigra –, e aggiunse: –Tu invece? Lui incrociò le gambe. – Credi di essere l’unica persona pigra, qui dentro? –, disse, tornando a distendere le gambe. Non riusciva a tenere quella posizione nemmeno per pochi secondi. – Sei preoccupata per gli esami? –, chiese. Lei rispose secca di no. Ma non volendo che pensasse che la sua domanda era stata del tutto inutile e fuori luogo, disse: – Cioè, non proprio. Credo di essere preoccupata il giusto. – Cioè? – Cioè, insomma, è chiaro che un po’ sono agitata, ma non mi metto certo a fare delle scenate da folle, tipo la Briziarelli l’altro giorno. L’hai vista? Sembrava che la testa le stesse per esplodere. Dio santo! E per cosa, poi? –, si interruppe in attesa di una risposta che non venne. Proseguì: – Voglio dire, alla fine è un voto, non saremo mica marchiati a vita. Io poi lo so che farò schifo. – Ah sì? – Sì. Ti ricordi l’interrogazione di arte? Parlavo e il professore diceva che mi stavo arrampicando sugli specchi e io dissi che invece era lui che non capiva e non mi lasciava spiegare e poi mi misi a piangere e a un certo punto non riuscivo più a respirare e dicevo che stavo soffocando e tu mi hai preso in giro. Ecco: agli esami mi succederà la stessa cosa. – Io non ti ho preso in giro, quella volta. – Sì, invece.


– No, stavamo ridendo tutti e due. Io ti avevo detto di bere e che però non dovevi darti all’alcol e tu avevi riso. – Io mi ricordo che Sara voleva menarti. – Perché credeva che ti stessi prendendo in giro. Poi tu devi averle detto qualcosa, che non ti stavo prendendo in giro, e lei si è calmata. Altrimenti avrei ancora i segni delle botte. Lei si alzò e gli si mise davanti, in piedi. La luce che entrava dai finestroni in alto dietro la sua testa impediva di capire che espressione avesse. Gli disse che era incredibile le cose che riusciva a ricordarsi. – Nemmeno tu ti sei dimenticata di quando stavi per morire. – Sì, ma tu sai tutti i dettagli. Ti ricordi ogni cosa. – Be’, in un certo senso non è che lo faccia apposta. Ogni tanto mi vengono tipo dei flash e mi torna tutto in mente, i dettagli e il resto. – Sei una specie di veggente al contrario? – Più che altro sono una specie di Proust senza tè e biscotti. E senza talento per la scrittura. – Lo dici solo per farti dire che non è vero. – Puoi anche non dirmelo, se vuoi. Gli diede un calcio leggero al piede più vicino a lei. – Deficiente –, disse, – Lo sai. Si alzò dal materassino anche lui e provò subito a risedersi, stavolta sullo strano attrezzo ginnico, che però, a quanto pareva, non era fatto per sedercisi sopra. Si chinò e rimase per qualche secondo così, indeciso sul da farsi. Alla fine tornò sul materassino. Lei lo guardava senza fare niente. Poi disse: – Anch’io qualche volta ho pensato alla storia del balcone. Anzi, ultimamente spesso. – Così leggi davvero le cose che ti mando. – Idiota –, disse. Si mise di nuovo sul materassino accanto a lui. Sentirono dei passi, poi una voce di donna. Temerono che fosse la professoressa, magari avvolta da una nuvola nera, circondata da saette freddissime. Non era lei. Nemmeno era una della loro classe. – Certe volte penso a come poteva essere andata –, disse lui. ****


Quando lei rientra nella camera sono tutti accalcati attorno al letto rotto e nessuno la nota. Quando rientra lui, sì. Avevano deciso di fare così, di rientrare separati, per non dare nell’occhio, ma si sbagliavano. Loro li aspettavano. Qualcuno spiega che all’ultimo salto una doga ha ceduto, qualcun altro dice: – Ma cos’è che facevate voi due da soli là fuori? –, in un tono esageratamente malizioso. La faccia di lei lascia intendere che dovrà essere lui il bersaglio addosso al quale deve essere scaricata la curiosità dei suoi compagni di classe. Lei davvero non ne ha voglia. Dà la buona notte a un paio di amiche e se ne va nella sua stanza. – Allora, zozzoni? Lui non risponde. Si nasconde nel capannello attorno al letto. Dà consigli su come riposizionare la doga, ma ormai è sicuro che non c’è più nulla da fare. Hanno rotto un letto e domani qualcuno si arrabbierà e dovranno pagare il danno di tasca propria. Uno di loro dice: – Al limite diciamo che l’hanno rotto Eva e Giulio! Tutti ridono. A lui dispiace che lei sia andata via. Dice che non hanno fatto niente. Nessuno ci crede.


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