Cheerleader

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CHEERLEADER di ALESSANDRO MILANESE [

I RACCONTI della COLLANA DELLA REGI N A #10]


Il limoncino le ha fatto perdere di vista Giulia tre volte nell'ultima ora. Dapprima l'ha intravista vicino all'altalena, con un gruppetto di ragazzine che più che dondolarsi volevano parlare di cose loro. Poi senza che se ne accorgesse se la ritrovò alle sue spalle che spiegava a Carla, che in teoria resterebbe la sua migliore amica dai tempi delle elementari – fatte proprio un isolato più a sud – dicevo, le spiegava il modo in cui, a volte, sua madre cade come in catalessi, addormentandosi davanti alla tv, e che una volta le uova si sono bruciate tutte, puzzando per ore. Usa e enfatizza la frase puzzando per ore, e la mamma si è allontanata per non dover affrontare né lo sguardo né le domande di Carla. Ed eccola all'ultimo avvistamento, con una delle sue due mani nella mano di un certo ragazzotto paffuto come quello della pubblicità progresso, che potrebbe essere il figlio di Turchi, quell'idiota figlio di avvocati, avvocato pure lui. Il manuale della brava madre single prevede: un sorriso, passi lenti, un approccio dolce e, dopo un saluto di commiato all'hamburger con le gambine, il ritorno al tavolo – ormai un foglio di carta bianco con cento macchie di colori diversi. Vini, grappe, amari, limoncini, la loro tavolozza dei colori. E invece da buona madre single – che si è ampiamente rotta i coglioni di ‘sta stupida rimpatriata e che ha furbescamente bevuto, mischiando rosso a alcolici vari, dopo aver preso la dose giornaliera di ansiolitici – beh, questo tipo originale di genitore fa queste cose in sequenza:


Prende per un braccio la undicenne che dorme nella stanza accanto alla sua, guarda negli occhi senza aprir bocca il povero palloncino di carne con i primi segni testosteronici, e di forza si riavvicina al gruppo ormai sparuto che era la sua vecchia compagnia, da tempi immemori. Il gruppo riaccoglie l'esemplare unico di mamma + figlia che sta crescendo (madonna, quando sei cresciuta, la colonna sonora della serata. Ti sei fatta una bella ragazzina) a braccia aperte, offrendo quello che per tutti era l'ultimo giro di grappe. I bicchierini bianchi vengono sparpagliati in circolo e, con la nuova bottiglia di grappa al moscato, arriva anche una sorpresa non annunciata. Un ragazzo che dimostra 28/30 anni e che se non sembrasse così giovane la nostra mamma single avrebbe già ampiamente riconosciuto come Mattia. Il mistero si infittisce quando tutti o quasi i commensali urlano all'unisono: Mat Mat Mat, prima che il piccolo biondino ingurgiti tutto d'un fiato il contenuto di ben tre bicchierini. Ora, la sedia di plastica bianca accoglie il culo tremolante della mamma single – fino ad un paio di anni fa un discreto 42 ottimistico, ora un 44 abbondante. Stenta a crederci, afferra un bicchiere pure lei e in barba ai barbiturici butta giù al brucio la bianca. Dalla sua destra si ode un certo disappunto, qualcosa tipo: ma cazzo mamma, o: ‘sti cazzi mamma. Lei non risponde, è troppo impegnata a fissare quello che secondo i suoi amici era il suo compagno di classe nel 1987, terza media, e che secondo lei rimane la più grande cotta non corrisposta della sua vita. Poi, un attimo prima che risponda alla sua erede qualcosa a scelta tra: non rompere le balle a tua madre, almeno stasera; o un più deciso: fatti i cazzi tuoi, giusto in quell'istante la tavolata, ormai deposito spazzatura, si anima e partono vocine e ridolini costanti. Una ragazzina, forse ventenne, arriva alle spalle del Conti (sì, lui, la cotta 1987) e lo abbraccia sussurrandoli qualcosa all'orecchio. Jeans stretti – che nel lato b mostrano un paio di centimetri del perfetto taglio del sedere – stivaletti scamosciati neri, una polo con i bottoni ovviamente aperti, un’acconciatura modaiola tutta sghemba e due occhioni scuri truccati che fanno sembrare Bambi un dilettante. La mamma cerca, non facendo trapelare il nervoso in aumento, di incrociare lo sguardo del suo centravanti preferito di quegli anni, mentre la figlia parte esterna per la quarta fuga della serata;


cicciobombo figlio di avvocato è appostato a lato della tensostruttura, in attesa di eventi a lui favorevoli. Erano sabati pomeriggi meravigliosi. I ragazzi, con scuse sempre più complicate, abbandonavano la scuola con almeno una mezzoretta di anticipo, e lei e Carla erano impazienti di volare a pranzo, cercare di farsi più carine possibili e portare al campo tutto il loro charme per la partita delle 14.30. Il tempo era tiranno: grandi sfuriate casalinghe, pur di non mancare al calcio di inizio. Loro, che non avevano mai visto una partita di pallone, quell'anno non ne persero neanche una, in casa, e in più di un occasione riuscirono ad aggregarsi alle varie macchinate che portavano i ragazzi a giocare al di fuori dello stretto campo parrocchiale. Carla era innamorata del Paolo Trotta, un terzino (in breve si documentarono anche sugli schemi e sui ruoli, di cui sentivano parlare in continuazione) che correva tutto un tempo (30 minuti, erano esperte) proprio sotto i loro occhi eccitati, e che portava i capelli racchiusi in una lunga coda di cavallo. Giusto il tipo per te, Carla! le ripeteva spesso, prendendola per i fondelli, la allora non mamma di nessuna figlia. Conti, invece, aveva i capelli cortissimi, rasati a zero, con solo un piccolo ciuffo biondo. Magro, leggermente più piccolo degli altri ragazzi, passava la quasi totalità della partita a parlare in maniera agitata con il signor arbitro, rimediando sempre almeno un’ammonizione. E quando questo succedeva, lei si sentiva come mancare, avrebbe voluto accorrere in suo aiuto, stropicciando quella maledetta giacchetta nera (altro vocabolo che avevano assimilato in quell'anno di terza media). Lui sembrava costantemente da un’altra parte, come se non giocasse con il resto della squadra, ma alla fine, come per magia, o come se quella fascia con la c ricamata sopra portasse fortuna, riusciva sempre – o con una punizione, o con un rigore, o con un piccolo tocco in mischia – a far battere tanto forte il cuore della sua unica cheerleader. Capitano, centravanti, capocannoniere. Un sogno di 45 chili, proprio lì, a soli dieci metri, con solo una stupida rete metallica verde a dividerli. Venti anni dopo, al suo fianco, con un paio di Diesel che costeranno un occhio della testa e una camicia nera e attillata, eccolo, il suo sogno di gioventù. Simil-brillo, guarda la sua fidanzatabambina che si allontana nella calca della compagnia, che si trascina compatta e ubriaca verso la tenda verde della pesca di beneficenza.


«Allora Mat, che racconti di bello? Caspita, sei sempre il solito!». L'ex prima punta tossisce, si riassesta la camicia che non ha intenzione di restare intrappolata nei pantaloni. «Mi conosci, le solite cose, ormai sono una macchietta vivente, guardami! Guarda come sono conciato». «In che senso? Appena sei arrivato si è ravvivata questa idiota e triste festa di rione». Il Conti si gira, la squadra, guardandola dritta negli occhi. «Perché triste? È bello potervi rivedere una volta ogni tanto, sai, a volte sono anche quasi preoccupato perché vorrei sempre sembrare in uno stato migliore di quanto sia; sai cosa intendo, vero? ». «Sì, cristo, guarda i due gemelli Capanna [chiamati così per l'abitudine a trascorrere più tempo sulle rive del fiume che a casa], santo dio!, sembrano due sessantenni in una casa di riposo». Lui annuisce. «C'è anche il rovescio della medaglia, però…». La mamma finisce la grappa che sporcava ancora il bicchiere, poi continua a fissare il suo primo vero amore. «E quale sarebbe? ». «Lei! Ma l'hai vista bene? Potrebbe essere mia figlia». «Sì che l'ho vista, è bellissima, quando siete arrivati non volava una mosca, non parlava nessuno, penso che tutti i maschi della tavolata avrebbero voluto vederti morto in quel momento». Anche qualche donna, a dir il vero – ma lei non lo disse. «Sì, è bella, ma il conto da pagare è alto, molto alto, e sai perché sono disposto a pagare un conto così? ». La madre si versò nuovamente da bere, cominciava a muovere ritmicamente la gamba sinistra, la figlia ormai perduta nel buio dietro al campetto, un pallido ricordo. «No. Il sesso, immagino. La figura che fai quando ti presenti in un posto con una ragazza del genere. Davvero, non saprei». «Ma che sesso, niente di tutto questo. È solo la sensazione di non dover pensare ad altro, a quello che verrà. In quasi vent'anni di lavoro non ho messo da parte una lira, cambio continuamente, sto in cinquanta metri in affitto, con più vestiti che mobili, e quando mi vedo con lei faccio finta di non avere trentasette anni a Gennaio». Lei ingoia ancora il liquido bianco, ed è combattuta tra insultarlo, urlando tutto il suo disprezzo, o baciarlo, lì su quelle ridicole sedie bianche.


«Come la fai grossa! Secondo me è solo una storia un po' particolare, e dovresti essere contento e pensare a quanti ti invidiano». Il ragazzo che nel 1988/89 realizzò ventidue reti (con cinque rigori) nel campionato giovanissimi afferra direttamente la bottiglia a un quarto e a canna la finisce, in un sol colpo, mentre i ragazzini che stanno sparecchiando lo osservano come si guarda una scimmia allo zoo. «Mi invidiano? ». La fissa, in profondità, prima di pulirsi la bocca con la mano e ripartire. «E cosa mi dovrebbero invidiare? Il fatto di dover guardare a volte Uomini & Donne? In diciannove mesi mi ha lasciato tre volte, non è innamorata di me, mentre io farei qualsiasi cosa per lei, vuole stare con me perché fa fico stare con uno più vecchio, quando incontrerà qualcuno che le piace veramente mi manderà a fare in culo in un quarto d'ora, e neanche di persona ma con un sms, di quelli con le abbreviazioni». «Ma figurati, cazzo, passano gli anni ma sei sempre il solito catastrofico». Lo dice e con lo sguardo cerca di capire se Giulia sia ancora viva da qualche parte, in quella che è ormai una sagra agli sgoccioli. Dopo un rapido 360° ritrova gli occhi di lui, quasi lucidi. «Mat, visto che in pratica siam tutti e due ubriachi posso farti una domanda del cazzo? ». Si ricompone, cercando un sorriso e una risposta. «Sì, ovvio». «Però mi vergogno, dimentica per un secondo che ho una figlia di undici anni imboscata da qualche parte con un ladro di merendine». «Ok, me ne sono dimenticato, siamo in classe all'ultima ora, e prendiamo in giro la professoressa Cassinera e la sua parrucca marrone». Ora ridono. «Per quale motivo non mi hai mai preso in considerazione, dico, cioè, a parte il fatto, sì, a parte che magari non ti piacevo, ma andavamo d'accordo, e presumo tu sappia che avevo una cotta super per te». Sospiro, prima di formulare la domanda diretta. «Insomma, come mai io no? ». Conti, cerca qualcos'altro da bere, come per tergiversare. «Lo vuoi sapere davvero? Sono passati una ventina d'anni». «Sì».


«Beh, non lo so, penso un mix di cose. Mi spaventavi un po', eri sempre così perfetta, a scuola, in giro, a casa, eri talmente più intelligente delle altre, e poi lo sai, ti avrei trattato male, come ho sempre trattato le persone che mi han voluto bene, forse sono attratto da chi mi ferisce, boh... ». Lei vorrebbe dargli uno schiaffo, ma è talmente colpita da tutta quella sincerità che non apre bocca se non per far scendere altro liquore. «E poi Chiara, insomma, lo sai benissimo, ai tempi Massimo ci rompeva talmente i coglioni con te, che era quasi impensabile che qualcuno del nostro gruppo ti si avvicinasse». Le viene una vampata, come uno sbuffo, e a stento riesce a non vomitare quel poco che le avevano servito nel piatto di plastica. «Vuoi dire che già allora mi stava dietro? No, è assurdo, tu mi stai dicendo che ci ha messo cinque anni per uscire allo scoperto, e poi, una volta che ci siam messi insieme ed è nata Giulia, in un paio di mesi è scomparso nel nulla? ». Conti fa per appoggiare la mano destra sulla sua spalla, per cercare di calmarla. «Brutto figlio di puttana, grandissimo codardo, ha fatto in modo che nessuno si interessasse a me per poi lasciarmi con una bambina di tre mesi che piangeva tutto il santo giorno? Bastardo! ». «Chiara, forza, non dire così, sai bene che era innamorato di te, poi è successo qualcosa, la pressione o qualcos'altro, non so spiegarmelo neanch'io, ma ti amava davvero». Una lacrima, ma una sola, spunta da sopra il naso e cade sulla tovaglia pluri-macchiata. «Dài, non fare così, e poi, maledizione, tua figlia è meravigliosa, tutte le volte che la vedo penso che abbia almeno un paio di anni in più, parla un italiano splendido... ». «Sì, come no. Puttana, Vecchia, Sgualdrina, dovresti sentire come parla forbita con sua madre! ». «Lo sai che non è sempre così, è l'età, ma davvero, guarda che tutti ne parlano stra-bene, è così maledettamente intelligente. L'anno scorso mi parlava di un libro di Calvino come se fosse una lettura troppo scialba per lei. Vedrai, farà strada, è in gamba». «Mattia, ma io che strada farò? ». Lui, in silenzio, le prende la mano, sotto il tavolo, lontano da sguardi indiscreti e alcolici. «Sei sempre stata la persona migliore del rione, e non te lo dico perché abbiam appena bevuto una bottiglia di grappa di moscato in mezzora». E in quel momento, quando due sorrisi ben distinti spuntano sui loro volti, lui ritrae la mano di fretta, richiamato da una specie di urlo che suona come un amooooo’. Il brusio aumentò e le dieci persone che prima occupavano il tavolo ritornarono con pupazzi e piatti, palloni e ceramiche finte, tutte cose onestamente vinte alla squallida pesca della bontà.


La giovane, ormai completamente ubriaca, gli saltò in braccio, dimenando il fondoschiena sulle gambe del suo lui, baciandolo ripetutamente. La mamma li fissò per un secondo e quando vide un piccolo scintillio negli occhi del suo centravanti preferito si alzò, quasi di scatto. «Qualcuno ha visto quella disgraziata di mia figlia? ». Risero tutti, e indicarono il retro del campetto da calcio. L'equilibrio era difficile, ma in qualche minuto la figlia fu intercettata, mentre cercava goffamente di dare qualche bacino a quello che ormai sembrava sicuramente il suo fidanzatino, e riportata sotto le luci di alcuni lampioni che indisturbati troneggiavano sulla festa. Il tavolo, anche se erano passati pochi attimi, era deserto. Chiara sospettò che la compagnia intera si fosse buttata diretta al bar per il caffè finale, e invece seguendo il rumore delle loro urla e dei loro schiamazzi li trovò impegnati nella ormai classica partita a bocce da ubriachi. Una tradizione nata pochi anni fa, quando uno dei due gemelli Capanna volle a ogni costo provare a bocciare alle tre del mattino, finendo poi per vomitare due piatti di agnolotti al ragù sul perfetto brecciolino del campo. Avvicinarsi, lentamente. Mat e un gemello Capanna, contro l'altro gemello (quello che ora aveva un quasi-riporto sconvolgente) e il Gallo (Gallinotti Silvio, all'anagrafe). Giulia sembrava divertita e si posizionò giusto di fianco alla fidanzatina del Conti che urlava e faceva strani gesti nel vano tentativo di fare il tifo. Chiara, calcolò, senza neanche accorgersene, che tra Giulia e la ragazza (che adesso cercava, soffiando, di fermare una boccia del suo amato) c'erano meno anni che tra lei e la ragazza. Soffocò una risata e cercò di concentrarsi sulla partita, tenendosi bene alla balaustra alta un metro che divideva il campo. Aveva voglia, tra le altre mille cose, di rimettere. Di portare a casa Giulia, rimboccarle le coperte, darle un bacio in fronte, e dormire per mesi. Questo era quello che desiderava quando il Gallo partì non particolarmente convinto nel bocciare un difficile e combattuto punto. Il pallino era assediato dalle bocce degli altri contendenti e l'unica maniera di risolvere la questione era un bello sparigliamento definitivo. Erano lì, immobili, nelle vicinanze di quelle stupide palle grigie. Mat che parlava con un Capanna, e l'altro gemello pronto con l'asta per misurare un punto che sembrava di vitale importanza per l'intera tenzone.


La boccia partì. Un po' troppo forte. Un po' troppo in alto. Veramente troppo forte e in alto. Cocciando contro i faretti che illuminavano il campo e cadendo in picchiata sulla nuca di Matteo, girato di schiena. Poi, dopo un decimo di niente, alcune urla, la rete che si muove come colpita da un terremoto, tutti che si agitano e la sua testa, sparpagliata per terra, piena di colori nuovi. Il rosso del sangue, il rosa del suo interno. Lo stomaco si contorce. Buio. Alcuni colpi, degli schiaffi. Dell'acqua in faccia e, riaprendo gli occhi, lo stupore di Giulia, giusto sopra di lei – le facce attonite e stupite degli altri, e una risatina lontana. Matteo era inginocchiato, al suo fianco, le teneva una mano sotto la testa e con una bottiglia di naturale cercava di farle bere un sorso. «Chiara stai bene? Come ti senti? ». Avrebbe voluto dirgli che aveva visto il suo cervello spappolato, come poltiglia buttata sulla ghiaia. Non disse nulla. «Hai avuto un abbassamento di pressione, sei svenuta, magari un bicchiere di troppo, magari uno di questi virus influenzali». Giulia la fissava, pietrificata, con gli occhi rossi rossi. «Cazzo, ci hai fatto prendere un bello spavento». Si tirò a sedere, appoggiando la schiena al reticolato, passò una mano sulla guancia della figlia. «Scusa piccolina, tua madre è una stupida, va tutto bene, non ti preoccupare, ok? ». «Ok mamma, però promettimi che non lo farai mai più». La mamma la tranquillizzò, ringraziò tutti, compreso Mat, avvinghiato dalla sua metà, e si diresse a casa senza problemi, anticipando la fine della rimpatriata annuale. Più tardi, mentre Giulia ormai dormiva senza incubi, prese un vecchio borsone e tirò fuori alcuni almanacchi e vecchi album fotografici. Ispezionò per bene foto, diari, libri, tutto.


Erano quasi le due del mattino, quando con una borsa del ghiaccio appoggiata alla testa aprÏ il bidone dell'immondizia, quello giusto sotto casa, e ci riversò dentro un sacco nero, enorme, pesante, pieno all'inverosimile. C'era un gatto, a pochi metri, ma non la degnò di uno sguardo.


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