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Thomas Benedikter, 100 Years of Modern Territorial Autonomy. Autonomy around the World. Background, Assessments, Experiences, Lit Verlag, 2021, pp. 314, € 29.90. Il 2021 ha segnato il centenario dell'autonomia delle isole Åland, un piccolo arcipelago situato nel Golfo di Botnia, fra Svezia e Finlandia. Appartenente al secondo paese, ma abitato da svedesi, questo gruppo di isole gode di un'autonomia che viene considerata la migliore in assoluto, tanto da sfiorare la perfezione. Dato che si tratta della prima autonomia territoriale moderna, il 2021 ha segnato contemporaneamente due centenari.

In occasione di questa doppia ricorrenza è uscito il libro 100 Years of Modern Territorial Autonomy. Autonomy around the World. Background, Assessments, Experiences. L'autore è Thomas Benedikter, studioso sudtirolese di livello internazionale. Nessuno meglio di lui poteva offrire un panorama ampio e aggiornato della materia, data la sua ampia produzione sui problemi delle minoranze, che include il monumentale The World's Working Regional Autonomies: An Introduction and Comparative Analysis (Anthem Press, 2007), purtroppo mai tradotto in italiano.

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Dalla Corsica al Kurdistan turco, da Hong Kong agli Ungheresi della Romania, il volume non si limita a parlare delle autonomie vigenti, ma include molti casi in cui l'autonomia è ancora un obiettivo da raggiungere. Per scrivere il libro l'autore ha compiuto numerosi viaggi, molti dei quali nei mesi più segnati dalla pandemia. Ha intervistato alcuni esponenti dei movimenti autonomisti, affiancando a questi contributi un vasto quadro teorico e politico, talvolta battendo sentieri nuovi.

Il risultato è un mosaico coerente che chiarisce una materia spesso trattata in modo confuso e frettoloso dai media. Il libro è stato pubblicato in inglese, in tedesco e in italiano.

Alessandro Michelucci

Luc Vandeweyer, Karl Scheerlinck et alii, 100 jaar IJzerbedevaarten in affiches, 1920-2020. Een bronnenuitgave van het ADVN i.s.m. Museum Aan de Ijzer, Peristyle, Antwerpen 2021, pp. 192, € 25.

Nel 2020 ha compiuto un secolo l'IJzerbedevaart (pellegrinaggio dell'Yser), il grande raduno organizzato ogni anno a Diksmuide (Belgio) in memoria dei soldati fiamminghi morti nella Prima guerra mondiale. Per l'occasione è stato pubblicato un bel libro che raccoglie i manifesti di ogni raduno, disegni e altro materiale d'archivio. Completano il volume alcuni testi in fiammingo, ma la parte grafica è così ricca che il libro resta di grande interesse anche per chi non legge questa lingua.

I Fiamminghi non sono un popolo minoritario, e tanto meno minacciato, ma ci sono comunque diversi motivi per parlare di questo libro. Anzitutto perché la comunità fiamminga è storicamente legata alle rivendicazioni delle minoranze europee e collabora spesso con le loro organizzazioni. Si devono a due fiamminghi, Wim Kuijpers e Maurits Coppieters, alcune iniziative che hanno cercato

di smuovere l'inerzia del MEC e dell'UE sui problemi delle minoranze linguistiche.

Il Belgio è nato bilingue, ma soltanto in teoria, perché per circa un secolo la componente francofona della Vallonia ha goduto di una posizione dominante. La lingua fiamminga si è affermata soltanto negli anni Trenta del secolo scorso. Questo ha gettato le basi per la trasformazione del paese in senso federale, obiettivo che è stato raggiunto nel 1993. Una scelta insolita, dato che in genere la forma federale caratterizza un paese fin dall'inizio, e non dopo un secolo e mezzo, quando molti equilibri politici sono già consolidati e difficilmente modificabili. Tanto è vero che il federalismo belga non funziona in modo soddisfacente e certi ambienti politici fiamminghi guardano con interesse alla secessione, galvanizzati anche dai fermenti catalani e scozzesi degli ultimi anni.

Di questo panorama politico-culturale l'Ijzerbedevaart è stato testimone attento e costante. Aperta a persone e movimenti di ogni tendenza politica, in passato la manifestazione aveva rischiato di diventare una vetrina della destra radicale, ma ha saputo isolare i movimenti che spingevano in questa direzione. Dal loro distacco è nata nel 2003 una manifestazione annuale apertamente xenofoba e separatista. In questo modo il raduno ha riaffermato la propria ispirazione originaria, pacifista e inclusiva, che la rende patrimonio non soltanto del popolo fiammingo, ma di tutti gli europei.

Alessandro Michelucci

Bobby Sands, Scritti dal carcere. Poesie e prose, PaginaUno, Vedano al Lambro (MB) 2020, pp. 270, € 18.

La fama mondiale di Bobby Sands (1954-1981) fu innescata dal lungo sciopero della fame (66 giorni) che si concluse con la sua morte. L'esperienza carceraria, segnata da condizioni igieniche e umane ripugnanti, è fondamentale per comprendere questa figura che è stata considerata un modello ideale dagli ambienti politici più diversi, ma spesso a torto, se non addirittura con evidente malafede. Il lettore italiano che voleva conoscere la vicenda politica e umana di Bobby Sands disponeva già di vari testi, ma questo nuovo libro si impone come il documento più prezioso e più utile per inquadrare nel modo migliore la statura del militante irlandese.

Questa prima edizione italiana del diario che Sands scrisse in carcere è il frutto dell'appassionata competenza di Riccardo Michelucci, che ha tradotto le parti in prosa, e di Enrico Terrinoni, che ha curato quelle poetiche. I due, che collaborano da tempo, si stanno imponendo come un marchio di qualità per quanto riguarda le questioni politiche e culturali dell'isola verde. Arricchisce il libro la prefazione inedita di Gerry Adams, figura storica del movimento repubblicano nordirlandese.

Il testo raccolto nel libro è stato scritto da Sands su minuscoli pezzi di carta che venivano portati fuori dal carcere con mille peripezie. Dalle pagine traspaiono chiaramente le condizioni disumane nelle quali il militante era costretto a vivere, ma al tempo stesso queste finiscono per far risaltare ancora meglio la pulizia morale e la sincerità ideale del giovane repubblicano.

Gli stereotipi fabbricati dai mezzi d'informazione ci hanno indotto a pensare che certe situazioni disumane generate dalla politica potessero esistere soltanto fuori dall'Europa. La questione nordirlandese, ultimo resto europeo del colonialismo britannico, ci dimostra che non è cosi. Bobby Sands, che compare sulla copertina, non era diverso da un qualunque coetaneo di Firenze, Parigi o Berlino, ma un destino infame lo ha costretto a vivere in un contesto intossicato dall'apartheid. Molti non se sono accorti, forse perché non aveva la pelle nera, ma grazie a questo libro potranno finalmente comprendere l'ampiezza della sua tragedia e la profonda dignità con la quale l'ha vissuta.

Antonella Visconti

Sebastiano Ghisu e Alessandro Mongili (a cura di), Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, Meltemi, Roma 2021, pp. 232, € 19.

"La nostra finalità è quella di portare la discussione sulla Sardegna e sul suo essere nel mondo al centro del dibattito teorico, in maniera autonoma e autodeterminata, utilizzando tutti gli strumenti

e i risultati offertici dal complesso delle scienze umane. Nostro obiettivo è quello di promuovere in tal modo uno sguardo filosofico, critico e non subalterno sulla realtà sarda". Si presenta con queste parole Filosofia de Logu, un gruppo di studiosi sardi nato nel 2020 per sviluppare una riflessione innovativa e concreta su un'ampia gamma di temi storici, sociali, politici ed economici. Dopo varie iniziative diffuse attraverso la Rete – attività che continua con costanza – il gruppo ha realizzato questo libro con undici saggi di altrettanti autori che tra filosofia, storia, sociologia e architettura si concentrano su alcuni aspetti delle relazioni di subalternità e dipendenza cui l'isola è sottoposta.

Il volume, curato da Sebastiano Ghisu, professore associato di Storia della filosofia all'Università di Sassari, e da Alessandro Mongili, che insegna Sociologia generale e Processi di modernizzazione e tecnoscienza all’Università di Padova, è strutturato in tre parti, ciascuna delle quali ha un titolo evocativo. La prima, "Ideologia", comprende i saggi di Sebastiano Ghisu, Omar Onnis e Cristiano Sabino, che rispettivamente si confrontano con l'identità sarda in termini filosofici, storiografici richiamandosi al pensiero di Gramsci, che viene definito "sardista popolare".

Nella seconda, "Provincializzare l'Italia", Giada Bonu, Gianpaolo Cherchi, Alessandro Derrù e Cristian Perra si occupano di visioni, miti e luoghi comuni che promuovono una Sardegna arretrata e subordinata. Nella terza, "Paesaggi e pratiche della subalternità", Andrìa Pili, Alessandro Mongili, Federica Pau e Riccardo Onnis continuano l'analisi utilizzando le chiavi delle scienze filosofiche, dell'urbanistica e dell'architettura. Argomenti e riflessioni che convergono sul fatto che un'altra Sardegna è possibile: viva, vera, emancipata. In estrema sintesi, una "Sardegna sarda" da pensare, da studiare, da vivere.

Marco Stolfo

Olesya Karemchuk (a cura di), Our Others: Stories of Ukrainian Diversity, Ibidem Verlag, Hannover 2021, pp. 170, € 16,80.

Olesya Yaremchuk, una giovane giornalista ucraina, ha percorso 11000 km per parlare con 14 persone appartenenti alle minoranze del suo paese. In questo libro ha raccolto storie personali che si intrecciano con storie collettive, fornendo un panorama unico di questa ricchezza culturale dimenticata. Con lei hanno collaborato due colleghi ucraini, Marta Barnych e Anton Semyzhenko. Questo piccolo mosaico non presenta soltanto popoli dai nomi conosciuti, come Polacchi, Slovacchi e Ungheresi, ma anche altri che ci proiettano in un passato poco conosciuto, se non ignoto.

Emergono i Gagausi, turcofoni presenti anche nella vicina Moldavia, dove godono di una buona autonomia territoriale; i Tartari della Crimea, originari della penisola annessa dalla Russia nel 2014; i Valacchi, inseriti nell'immaginario popolare soltanto a causa del principe Vlad III, meglio noto come Dracula. Accanto a questi troviamo anche Bulgari e Greci, Moldavi e Tedeschi, Armeni e Russi. Molte testimonianze provengono da cittadine vicine a paesi limitrofi, come Hertza e Vynohradivka, situate nei pressi della Romania, o Novooleksiyivka, villaggio sul confine con la Crimea. Un paese è addirittura diviso in due: da una parte Mali Selmenci, che si trova in Ucraina in seguito alla divisione del 1945, dall'altra Veľké Slemence (in ungherese Nagyszelmenc), situato in Slovacchia ma abitato in prevalenza da ungheresi. Come questa, molte località vengono chiamate con nomi diversi. Si tratta di piccoli universi che si sono costruiti in seguito alla caduta degli imperi europei, da quello asburgico a quello sovietico. Tutti più o meno segnati dalla persecuzione. Queste minoranze non avanzano pretese territoriali né minacciano la secessione. Chiedono soltanto il rispetto di una diversità culturale che l'Ucraina non ha ancora garantito appieno.

Alessandro Michelucci

Franco Nerozzi, Nascosti tra le foglie, Altaforte, Cernusco sul Naviglio (Milano) 2019, pp. 444, € 25.

Il colpo di stato che l'esercito birmano ha realizzato nel 2021 ha risvegliato il profondo torpore dei media, stimolando anche un'attenzione per le minoranze che lottano contro il potere centrale da ol-

tre mezzo secolo. Questo non significa che in precedenza questi popoli vivessero in condizioni migliori: sappiamo bene che la persecuzione delle minoranze, in genere, preoccupa i media soltanto quando viene realizzata da una dittatura o da un regime inviso agli Stati Uniti.

Lo sa bene Franco Nerozzi, fondatore dell'associazione Popoli, che si autodefinisce "comunità solidarista" per mettere in evidenza un sincero coinvolgimento umano in alternativa alla logica aziendale-societaria di molti altri organismi. Nerozzi non compare nelle trasmissioni televisive "di approfondimento", perché ha scelto di impegnarsi concretamente, magari rischiando anche la vita, per aiutare i Karen, un popolo indigeno della Birmania che si batte contro un regime disumano. Il suo impegno esemplare, che ci racconta in questo bel libro autobiografico, merita il massimo rispetto.

Giovanna Marconi

Matteo Incerti, I pellerossa che liberarono l'Italia, Corsiero, Reggio Emilia 2020, pp. 392, € 18.

Frutto di una ricerca archivistica lunga e complessa, il libro di Matteo Incerti rischiara di una luce inedita le vicende umane e culturali degli indiani che combatterono come volontari nell'esercito statunitense e in quello canadese durante la Seconda guerra mondiale. In particolare, l'opera ricostruisce le storie di 55 soldati che tra il luglio 1943 e il gennaio 1945 si sacrificarono per donare all'Italia libertà, democrazia e diritti civili. Lo fecero quando a loro, discriminati in patria, non era permesso votare alle elezioni federali, bere con i bianchi, possedere terreni, parlare le proprie lingue.

Gli indigeni non combattevano una sola guerra: talvolta il nemico si annidava dentro loro stessi, in ferite dello spirito e dell'immaginario causate da anni di separazione coatta, discriminazioni e umiliazioni. Molti di loro provenivano dalle residential schools, collegi gestiti da varie Chiese cristiane. Mirate a distogliere i bambini nativi dall'influenza delle famiglie e dalle tradizioni ancestrali, e far loro assimilare, anche con le maniere forti (come dimostrano i cimiteri rinvenuti di recente), la cultura dominante, privandoli delle loro lingue. A sterilizzarli e ad esporre molti di loro ad abusi fisici, morali e sessuali pedofili: un oijbiwa, medaglia d'onore e poi capo tribù, ha raccontato di essere stato lo schiavo sessuale di un prete cattolico. Tutto questo nella prospettiva dell'affrancamento profilato dal Gradual Civilization Act del 1857.

Si tratta di un'opera ben costruita e magnificamente strutturata in pagine intrise di partecipata tenerezza, dolorosa consapevolezza, empatico e commosso rispetto. Piacevole la lettura grazie a una scrittura stratigrafica, fluida, nitida, compatta, evocativa, talora icastica, urticante e abrasiva. Un contributo notevole e davvero lodevole, inscritto nel quadro teorico e nel movimento storiografico della Nouvelle Histoire. Una vera e propria pietra miliare, una fonte ineludibile per ogni futura ricognizione del tema.

Vincenzo Durante

David Young, Wai Pasifika: Indigenous Ways in a Changing Climate, Otago University Press, Dunedin 2021, pp. 288, $60.00.

I problemi innescati dal cambiamento climatico sono sempre più evidenti, ma al tempo stesso è altrettanto evidente l'impossibilità di risolverli utilizzando i convenzionali strumenti basati sulle conoscenze scientifiche delle società industriali. Un'interessante alternativa è quella proposta nel libro Wai Pasifika: Indigenous Ways in a Changing Climate da David Young, uno dei più autorevoli scrittori ecologisti neozelandesi.

Lo scrittore ci invita a imboccare un'altra strada prendendo spunto dall'approccio dei popoli po- linesiani. Questi popoli, come quelli dell'Oceania in generale, hanno sempre avuto una visione olistica della natura e quindi una piena consapevolezza del proprio legame con questa. Riccamente illustrato, il volume si concentra sul pericolo derivante dal progressivo esaurimento dell'acqua dol-

ce, mettendo in evidenza quello che le società "sviluppate" possono imparare dai popoli autoctoni del Pacifico. Combinando fonti indigene con studi moderni, integrati da molti incontri personali, lo scrittore delinea una visione alternativa della questione, dimostrando che i popoli indigeni offrono un ricco bagaglio di cognizioni scientifiche e filosofiche di grande interesse. Aö tempo stesso, Young contesta i sistemi attuali di gestione dell'acqua, che non sono soltanto dispendiosi e distruttivi, ma in certi casi addirittura mortali.

Il libro si chiude comunque con una nota di speranza, sostenendo che esiste ancora il margine per compiere una svolta radicale, a patto che si sviluppi una disciplina di profondo rispetto per il luogo, per il pianeta e per la vita in tutte le sue forme. Il nostro futuro dipende dalla volontà politica di farlo.

Anthony Gordon

THE INDIGENOUS WORLD 2022

Un'opera indispensabile per conoscere la questione indigena Un panorama completo e aggiornato unico al mondo www.iwgia.org