Confronto ottobre 2016

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molti detenuti cucinano essi stessi i propri pasti su fornelli rudimentali nei bagni. Il forte sovraffollamento e le scadentissime condizioni igieniche facilitavano la diffusione di malattie. Ecco che i suicidi iniziano a spuntare: le condizioni disumane sono tali per cui chi vive dentro Poggioreale poi non ce la fa più. In due anni poco è cambiato tra le mura di questo mostro di pietra, rispetto il rapporto della Commissione. Certo, i detenuti possono incontrare i familiari in sale da colloquio più confortevoli. Anche l’attesa si è ridotta al minimo

e il rapporto con i custodi è in parte migliorato. Ma è un goccia nel mare sconfinato dei diritti e delle garanzie negate ed in termini di dignità del detenuto. Esistono anche le «celle lisce» o cosiddette «zero»? Sì, queste celle sono esistite e lo dimostrano, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, due indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Alcuni detenuti avrebbero subito in segreto violenza da parte degli agenti di custodia. A gennaio 2014 un ex detenuto sporge la prima denuncia per i maltrattamenti subiti nel carcere, segnalando

anche la presenza della cosiddetta «cella zero» o «liscia». È una stanza vuota, senza videosorveglianza. A quella denuncia, rispetto ai fatti allora avvenuti, se ne aggiunsero moltissime altre. Circostanze confermate anche da alcuni detenuti che ho assistito. Sono stata testimone, in sede di convalida in carcere, delle condizioni di qualche detenuto. Sono cose che non si dimenticano, facilmente: isolamento, pestaggio per chi crea qualche problema di troppo; la sola speranza è che in pochi giorni vengano trasferiti in cella con altri detenuti.

Rispetto alla «cella zero», oggi, non si hanno episodi, d’altro canto quello che accade all’interno del carcere, è questione che solo i detenuti possono riferire e denunciare. Tuttavia da oltre un ventennio le violenze che sono stante perpetrate ai danni dei detenuti nessuno ne sapeva niente o comunque tutti sapevano ma si preferiva tacere. Insomma le cattive pratiche sono dure a morire e anche la più rigorosa delle gestioni richiederà del tempo, perché la cose cambino del tutto. Mario Conforto

Giuseppe Antonello Leone (1917-2016)

La

scomparsa di Giuseppe Antonello Leone segna un gran vuoto non solo nell’arte italiana. Il maestro, infatti, nei lunghi anni della sua vita, dedicati principalmente all’arte, alla formazione artistica dei giovani e alla poesia, ha condotto numerose ricerche che spesso precorrono quelle di altri importanti artisti. Un solo, significativo esempio è il cosiddetto décollage, tecnica artistica la cui iniziale sperimentazione è attribuita a Mimmo Rotella e ad altri artisti stranieri. A ben guardare, alcuni décollage di Leone sono stati realizzati con largo anticipo, così come è accaduto per altre tecniche e modalità artistiche, tra le quali quella che lui definiva risignificazione: una tecnica d’invenzione che gli consentiva di dar nuova vita ai rifiuti e agli scarti dell’uomo e della natura. Sono solo pochissime citazioni di quell’immenso patrimonio di ricerche e sperimentazioni creative del maestro, sorrette dalla piena conoscenza di tutte le tecniche artistiche; cosa questa che appartiene solo a pochissimi artisti e

rappresenta, in qualche modo, il tratto singolare e introvabile di Giuseppe Antonello Leone. Di origine irpina, Antonello si formò all’Accademia di belle arti di Napoli, con illustri docenti che spesso citava; ma il suo ricordo, in più occasioni, andava a Settimio Lauriello, un pittore futurista, pressoché sconosciuto ma di sicuro talento e, soprattutto, un ottimo formatore che spingeva gli allievi a produrre in modo creativo. Forse da questa prima esperienza gli derivava quella passione per la formazione artistica che lo ha visto dirigere con vigore, competenza e dedizione diversi Istituti d’arte, da Potenza a Napoli, passando per Cascano di Sessa Aurunca e San Leucio, creando delle vere e proprie comunità di artisti-docenti. Penso che questo non comune impegno nel trasmettere passione e abilità artistiche abbiano altruisticamente sottratto un tempo notevole alla sua attività di artista e di poeta; ma Leone era così!: generoso, moralmente onesto, disinteressato ai

guadagni del sistema mercantile dell’arte. Il suo obiettivo, espresso ultimamente nella partecipazione ai progetti di didattica della bellezza, era costantemente teso all’educazione attraverso l’arte e alla formazione estetica soprattutto dei giovani. Mi è caro ricordare, in proposito, la stretta collaborazione tra noi, per “Scuola Viva” della SEI di Torino, dove nei nostri scritti argomentavamo una nuova educazione artistica che fosse materia prima per la piena formazione dell’uomo. Questo breve e scarno ricordo di Giuseppe Antonello Leone, limitato a poche notazioni, spero di poterlo ampliare, intraprendendo un vero e proprio viaggio (con i miei ricordi e le sue poderose tracce) sulla vita e sull’opera, ricca e appassionante, dell’amico e maestro della cui scomparsa sono profondamente rattristato. Franco Lista

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Libri Povertà,

“Merica, Merica” Il tango drammatico della “spartenza”

analfabetismo arretratezza; l’unità d‘Italia tradita, quel “Mare del colore del vino” che è la Sicilia dell’emigrazione narrata da Sciascia; il viaggio che è attesa, poesia, ma anche dramma. Come in Omero, come sempre. E, al centro, la Sicilia, questa Terra di sogno e di dolore, di canto e disincanto, come ci viene descritta in “Merica, Merica”, il libro di Salvatore Ferlita e Maurizio Piscopo pubblicato di recente per i tipi dell’Editore Sciascia. Un libro che è un viaggio nella letteratura, nel cinema, nel costume, nella musica; un compendio di saggi ben curati e accompagnati da un corredo fotografico e di ascolto. Il libro, con il suo taglio antropologico che affonda le origini in esperienze familiari, è un disilluso “cunto”, è il dramma della “spartenza”, parola del nostro dialetto arcaico, non traducibile in italiano ma che, comunque e sempre, come dice il Mortillaro, è il “partire, il dividersi l’un altro con pena”. “Spartenza”, lacerante strappo, sradicamento. “Spartenza”, segnata dalla roca sirena della nave. La Merica dall’altra parte. Il libro, presentato di recente al Centro Culturale Di Francesca di Cefalù, ha chiuso un trittico iniziato l’anno scorso con il libro di De Aglio, “Storia vera e terribile tra Sicilia e America”, e con lo spettacolo “Storie di tanti, Storie di migranti” aprendo un dibattito interessantissimo sul dramma della “spartenza”, vera filologia linguistica che ha avvinto tutti. Sul tema della “spartenza”, appunto, Caterina Di Francesca l’anno scorso, in “Storie di tanti”aveva declinato tutti i suoi linguaggi, non solo d’interpretazione e di mimica, ma anche di ricerca d’archivio come quella che ha portato alla splendida stesura del testo “Donna Angelini”, e non solo. Quella “spartenza” che, in quell’occasione, era stata commentata dalla musica struggente e robusta, carica di amara nostalgia, vibrante e scandita, secca a tratti, che si sprigionava dai tasti guidati con maestria e passione – vero esempio di agilità di linguaggio musicale!- da Liana D’Angelo; note che sono tornate l’altra sera con “Merica, Merica”. Una sinfonia di linguaggi, un’articolazione

di dati. Quel dramma della “spartenza” che suona tanto forte anche in quella poeticissima declinazione linguistica

la bambina che muore durante una traversata e cui la madre è costretta a dar sepoltura in mare.

di Borgese a proposito di quel “mare d’Imera tagliato a spicchio dietro l’ultima quinta” dove si legge tutta l’amarezza di chi è costretto a lasciare la sua Polizzi, arroccata lì, sulle sue acropoli, con tutte quelle bellezze di architetture irripetibili. Lui, Borgese, che rifiutò di firmare l’atto di fedeltà al fascismo. Quella “spartenza” di cui ha saputo ben parlare Giuseppe Saja nella sua fine e composita analisi di critica letteraria che ha ricordato anche l’emigrazione in Germania. Note di andata e di ritorno, un trittico che ha preso forma trasformandosi in un unicum; un itinerario storico- musicale guidato con sapere da Salvatore Ferlita e interpretato con passione da Maurizio Piscopo che, con quella carrellata di canzoni e ricordi, in simbiosi con la sua fisarmonica danneggiata da un rocambolesco viaggio in aereo, ha voluto restituire la Sicilia alla Sicilia. Un dialetto, quello siciliano, cui Piscopo ha fatto ricorso per esprimere la forza dei suoi sentimenti, un dialetto che ha tutta la pregnanza del greco, del persiano e delle lingue indoeuropee. Un dialetto che è quello dei luoghi, dei barbieri innanzitutto, dove lui ha raccolto materia ed emozioni, odori e colori, che è quello delle aule delle scuole elementari di una cinquantina d’anni fa, dove lui è stato insegnante emerito, con i banchi scalfiti e i calamai con l’inchiostro nero e i pennini che sembravano punteruoli. Il siciliano, una lingua nella lingua. Simpatia e poesia, quella che ha trasmesso Piscopo ma, soprattutto, drammatica verità. Come quella di Margherita,

“Questa di Margherita è la storia vera” direbbe De Andrè. Questa di Margherita è un pezzo di storia che tristemente si ripete ai nostri giorni. “E la storia continua…” direbbe Elsa Morante, mentre Ida continua a cantare filastrocche a Useppe… Tanti gli episodi, anche divertenti, accattivanti e pregnanti di nostalgia, che ci ha raccontato Piscopo. Abbiamo riso e applaudito, soprattutto partecipato. Ma non ci è sfuggita la sfumatura della sua voce quando ha ricordato che il suo primo Amore è partito, e non ha fatto più ritorno, per l’America, per gli States, come si direbbe oggi. Ma allora era solo la “Merica”, mito e paura. La Merica che oggi, per quelli che arrivano sui barconi, è casa nostra. La Merica, mito e paura, immagine emblematica dell’attesa spasmodica, della fiducia stimolata dalla fama non usurpata dell’America come di una promessa vera, come quella di Charlie Chaplin nel film “ Charlot emigrante”(1917) in cui il grande artista, nei panni di un emigrante con bombetta, in mezzo ad altri migranti, guarda la famosa Statua della Libertà con gli occhi del desiderio e del sogno che diventa seducente visione di libertà e scommessa sul domani. Quella scommessa che, un secolo dopo, il nostro Giuseppe Tornatore propone nella stessa scena, con gli occhi di una moltitudine di italiani che si affollano sul ponte della nave su cui si sono imbarcati, nel film “La leggenda del pianista sull’oceano” (1998), per specchiarsi nella famosa Statua.

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12/12/2016 Napoli - Teatro Mercadante

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