Il Confronto - dicembre 2018

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Anno 45 N°2 dicembre 2018

L'EDITORIALE GUSTO ARTE LIBRI LEGGENDE

Proteggiamo la Costituzione per i nostri nipoti Il cibo e la tutela del consumatore Fotografia e scultura nelle opere di Francesco Seggio I consigli natalizi de Il Confronto Le Janare d' Irpinia

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L' Editoriale

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Il sindacato dei nostri nipoti

on potrò mai dimenticare il discorso adirato di Ugo La Malfa, quando ci comunicò che sarebbe uscito dal Governo, e, per non far precipitare le cose italiane, avrebbe vigilato, criticato o appoggiato, dalla finestra, quello che avrebbe fatto il Governo da quel momento in poi. "Questi stanno spendendo le risorse dei nostri nipoti, dopo aver speso quelle dei nostri figli" diceva rivolgendosi al "partito degli Assessori" che, dall'interno del Pri, cercavano di evitare le conseguenze per gli assessorati, che, per via dell'alleanza quadripartita al governo, essi avevano ottenuto nelle realtà amministrative locali. La nostra critica all'attuale gestione governativa ha avuto e continua ad avere, tre punti fermi: la proiezione dell'Europa , da quello che realmente è oggi, all'Europa politica e della solidarietà tra le Nazioni; la difesa della Costituzione, che questo governo, un giorno si e un giorno no, va offendendo approvando articoli di legge anticostituzionali, e la difesa dei diritti di quegli Italiani che ancora non sono presenti sul territorio, i nostri nipoti, perchè non si trovino nelle condizioni dei nostri figli di essere costretti a trovar lavoro fuori d'Italia. Il quarto punto fermo che qui richiamiamo soltanto, è quell'Unità d'Italia, da 150 anni promessa e non ancora realizzata. Se ci pensate bene, questi obiettivi sono molto coerenti tra loro e sottendono tanti altri obiettivi che non è il luogo o il momento di affrontare in questo fondo. Con piacere abbiamo visto che l'ombra dell'Europa un po' di deterrente al disinvolto programma di spesa dei Dioscuri al potere l'hanno sparso. E anche pare che stia consentendo una qualche sperimentazione economica diversa dal passato che accende un maggiore speranza alle classi ultime di rientrare nel livello della dignità sociale. Non possiamo accettare, però, che la Costituzione sia svenduta all'intemperanza di qualche capopolo e all'ignoranza di qualche sprovveduto sognatore di mondi fuori della realtà. Pensate: si stanno approvando leggi in qualche modo incostituzionali: non tengono conto che la Costituzione è il patto fondamentale tra gli Italiani, quella che consente di tenerli uniti e protetti. Pure le sentenze nei Tribunali si danno in nome del popolo italiano. Ci sono dei saccenti al governo che non si rendono conto che fare leggi che, in qualche modo, contraddicono la Costituzione, significa ridicolizzare il Patto Primo tra gli Italiani, significherà far contraddire i giudici, contraddire e danneggiare gli Italiani, quelli stessi che essi dicono di voler difendere. E l'Europa? E' il luogo dove si va a sbattere i pugni sul tavolo o il luogo dove si vanno a cercare le alleanze congrue con gli interessi del Paese e a rafforzare le visioni sociali e politiche dell'Italia? Ma pare che, su quest'ultimo punto, qualcuno al governo abbia capito che è tempo di convergere. Elio Notarbartolo

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Il cibo e la tutela del consumatore

ltre vent’anni fa ebbi modo di collaborare con il presidente di una associazione tutelante i diritti dei consumatori, arrivavo da esperienze, all’epoca, significativamente formative come il corso a Parigi “Servi compris” e lo studio dell’evoluzione della legislazione francese che, con la legge del “debat pubblique“ apriva nuovi orizzonti al processo di democratizzazione delle opere pubbliche. La nostra pretesa era quella di dare una nuova consapevolezza alla collettività nazionale sull’obbligo di fornire al cittadino garanzia di dignità e protezione dall’ormai dilagante fenomeno della lobby industriale, in presenza di legislazione non tutelante. Producemmo interrogazioni al Parlamen-

to Europeo su vari temi, denunciando, per quanto concerneva il cibo , quelle che ci apparivano aberranti situazioni di profitto a tutela di poteri forti configgenti anche con la salute della gente (ivi inclusi i criteri di allevamento dei maiali in Emilia, dei polli in Veneto, l’uso incontrollato di pesticidi e fitofarmaci in agricoltura, lo sfruttamento amorale della manodopera). In Occidente, le associazioni di settore divennero condizionanti per la produzione legislativa ed anche in Italia, sulla spinta della denuncia e della legislazione comunitaria, si potenziarono i ruoli degli organi di controllo che dovevano garantire la salute della collettività. La protezione dei consumatori rischiava di divenire condizionante dell’ extra profitto delle grandi lobby: era il 2005 e con D. Lgs. 206 venne varato il Codice di Consumo dove vennero riconosciute agevolazioni e contributi alle associazioni a condizione che aderissero ad organismo appositamente costituito presso il Ministero dell’Industria. Era un raffinato strumento per tentare di “imbavagliare” la dilagante protesta. Ed infatti ci fu grande adesione (salvo rare eccezioni) ed una notevole proliferazione di nuove associazioni di settore. In sede di razionalizzazione della spesa pubblica, fu deciso di destinare ai beneficiari solo i fondi derivanti dalle sanzioni comminate dall’Antitrust. In conseguenza, molte grandi organizzazioni dichiararono pubblicamente di rinunciare ai finanziamenti pubblici, affermando

indipendenza da qualsiasi potere. Indipendenza, purtroppo, parzialmente condizionata da eventi politico-clientelari che tuttora forniscono immagini compromissorie. Valutiamo, per esempio, alcune vicende economico-politiche che contribuirono all’affermazione dei prodotti dell’agricoltura biologica. Nel 2007 la Comunità Europea emetteva regolamento disciplinante la produzione agricola biologica e la etichettatura dei prodotti sia di origine vegetale che animale, nonostante il voto contrario di quasi tutti i parlamentari italiani a Bruxelles. In Italia Palazzo Chigi ed il Ministero delle Politiche Agricole istituivano organismi di controllo e certificazione col compito di verificare il rispetto dei regolamenti attuativi da parte delle aziende biologiche. Tali organizzazioni dovevano rispettare il principio di “terzietà” e non intrattenere rapporti commerciali o di consulenza con le aziende certificate. Ma dieci giorni prima dello scorso 4 marzo, il Governo Gentiloni, ancora in carica, emetteva decreto che conferiva legittimità al conflitto di interesse: i controllati possono detenere fino al 50% del capitale sociale dei controllori. Inaudito! Bisognava denunciare in ogni sede l’abominio costituendosi parte civile a difesa del diritto dei consumatori! Ma eravamo a pochi giorni dalle elezioni! Peraltro, già due anni prima era esploso lo scandalo della “zucchina infame”. Le Autorità Inglesi denunciavano l’importazione dall’Italia di enormi lotti di ortaggi biologici contenenti pesticidi ben superiori ai limiti di legge. Trattavasi di ortaggi coltivati con eclatante tradimento del “bio” esportati anche in Germania e Francia. L’Italia era venuta meno all’obbligo di controllo e verifica con gravi

danni per i paesi importatori anche sotto il profilo economico (elevati extra-costi rispetto alla colture tradizionali). Partiva l’indagine della Guardia di Finanza che scopriva presso la aziende produttrici l’esistenza di decine di che tonnellate di prodotti chimici, concimi, pesticidi e sementi alterate. Venivano scoperte col-

lusioni ed omissioni che avrebbero richiesto il potenziamento della “terzietà" degli organi di controllo. Ma ancora una volta la “politica”, ignorando gli interessi dei cittadini, omologava il comportamento delle lobby, proteggendole dai rischi di controllo efficace e privilegiando il profitto senza etica. Le brevi considerazioni

fornite rispondono al tentativo di dare un breve e non esaustivo quadro di alcuni problemi riguardanti i prodotti agricoli bio, (peraltro contestati da molti ricercatori scientifici di settore anche in presenza di prodotti conformi alla normativa) e la inadeguata tutela del consumatore; ma è doveroso evidenziare che l’argomento del cibo necessita di ben altre approfondite analisi su temi quali: - l’allevamento del bestiame che ha generato la condivisibile indignazione degli animalisti; - l’importazione di prodotti agricoli che, con artifizi procedurali di itinerario, non garantiscono contenuti qualitativi al consumatore; - l’abnorme incremento di prezzo dei prodotti agricoli rispetto alla remunerazione del produttore (trasporto, distribuzione e vendita); - lo sfruttamento incontrollato del lavoro; - la drammatica mediazione malavitosa (dice Gian Carlo Caselli che il prezzo della nostra spesa è deciso dai clan). L’Italia è un Paese straordinario per le sue eccellenze agricole, i suoi vini, una cultura culinaria regionale di indiscusso pregio, non merita tanta arretratezza nella tutela del consumatore e delle proprie tradizioni. Tutti gli organi preposti al benessere della collettività hanno il dovere di contribuire a disincrostare questo indegno connubio tra affari e politica perché “non c’è sviluppo senza etica” (Draghi 2006). Vincenzo Caratozzolo

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Francesco Seggio e la poesia ritrovata lotta, di un mondo in cammino, che con quella falce ha aperto strade e tracciato sentieri. Per non parlare poi di quella figura d´uomo con la testa reclina che, pur in quella positura di quiete, contiene e trasmette tanto di quel dinamismo da far pensare a certe statue greche. Siamo nel mondo mitico della nostra Terra che dobbiamo veramente ritrovare nei suoi valori di poesia e di comunicazione; che dobbiamo prendere e riprendere con le nostre mani riappropriandoci di quel gusto che delizia il nostro palato ma anche le corde del nostro animo. Dobbiamo ritrovare la coralità dell´essere e del ridare musica a un mondo del silenzio. Grazie, Maestro Seggio, per avercelo ricordato con questa mostra esposta a Lascari, nel mese di novembre u.s., presso lo Spazio Polifunzionale dell´ Associazione Culturale “Il Girasole” di via Leonardo da Vinci. Grazie per averci donato emozioni che ci nobilitano e che, forse, per una certa nostra disaffezione politico - sociale al dibattito culturale, avevamo dimenticato. Grazie all´amministrazione comunale di Lascari nella persona del suo sindaco, Pippo Abbate, del vicesindaco Marilena Amoroso e dei consiglieri Caterina Provenza e Salvo Ilardo, fine conoscitore del mondo artistico e dei valori che esso trasmette. Teresa Triscari

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culture o grafiche, o poesie intorno a canti del mondo agreste? E´ tutta una veicolazione di linguaggi che ci porta e ci riporta ai valori delle nostre tradizioni campestri, ai significati e ai significanti di un mondo contadino che, tra spighe e canti, sotto il sole o la pioggia, con attrezzi semplici, chiedeva alla Terra di produrre il cibo che era, soprattutto, il nutrimento dei poveri ma era anche espressione dei valori di un mondo che, agli albori degli anni Cinquanta, cominciava a seguire i drappelli delle lotte agrarie di Campofiorito e Bisacquino con un Pio La Torre in testa, con le donne che issavano le bandiere e con la forza pubblica che sparava sulla folla armata solo di attrezzi da lavoro. Potremmo pensare a Rosa Balistreri, ai suoi canti tra campi di grano, mentre mieteva sotto il sole; ma penserei soprattutto, guardando le foto intense di Seggio, a figure mitologiche e liriche, a Cerere innanzitutto, a quella divinità dei Campi presente in mostra che porta un bouquet di spighe e veste una mantiglia di sacco (in effetti una griglia sottilissima), che potrebbe essere una sposa in tutta la sua purezza incontaminata e che, comunque, in ogni caso, è l´espressione della madre, della donna, della casa, dell´approdo, di una Nausicaa ritrovata sulla sperduta isola dei Feaci. E qua tutto si fonde e si confonde tra figure chagalliane (il viso sormontato da un gallo); guttusiane (l´uomo con la mazza); con elementi virginei di una primordialitá incontaminata dell´amore dove il bacio tra due donne è la ricerca di se stesse come se si guardassero allo specchio più che se si toccassero. “Noli me tangere” potrebbe essere il titolo di questo quadro, ai limiti dell´assurdo, ma certamente fluttuante nella sfera del poetico. Certe liriche di Saffo potrebbero esserne il superbo commento. E l´uomo con la falce. Che dire? Un´espressione di dolore o di rabbia? Di tensione o di ritrovata fiducia? Sicuramente di

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ra nuovi saggi e nuovi metodi di diagnostica applicata alle immagini, la figura di Caravaggio attrae sempre di più, non solo gli studiosi ma il grande pubblico consumatore. L’interesse limitato solo alla sua opera e non esteso anche alla tormentata vicenda esistenziale dell’artista oggi appare quasi una “mutilazione conoscitiva”. Dalla riscoperta del pittore da parte di Roberto Longhi, in un progressivo crescendo, l’attenzione degli storici e la curiosità dei lettori è aumentata notevolmente; ora Caravaggio è diventato un divo seguito da appassionati. Intanto, la ricerca

si è estesa in maniera considerevole abbracciando recenti ambiti scientifici quali, ad esempio, quelli relativi alle nuove tecnologie applicate alle immagini. Fu proprio il grande storico e critico d’arte Longhi che riportò alla ribalta Caravaggio, studiandolo a fondo, rigorosamente, già dalla sua tesi di laurea discussa con Pietro Toesca. Pubblicherà, poi, nel 1952, il volume “Caravaggio e i caravaggeschi”, cui farà seguito la definitiva edizione del 1968, un po’ prima della sua morte. Due edizioni con varianti e integrazioni che hanno costituito e ancora costituiscono il riferimento fondamentale per qualunque ulteriore studio e approfondimento sulla pittura di Caravaggio. Intanto, accanto agli studi filologicamente corretti, la fama dell’artista contraddistinta dalla grande, innovativa pittura si è indirizzata progressivamente sulla sua vita segnata da violenze, intemperanze, da un carattere inquieto, tale da assimilarlo alla figura stereotipata del cosiddetto “artista maledetto”. E allora ecco i film, gli sceneggiati, i fumetti che hanno ampliato

Ancora Caravaggio la base dei fruitori, accanto agli storici, agli esperti, ai saggisti. Quello che prevale è proprio questa sorta di “topos interpretativo”, relativo alla sua vicenda esistenziale, al suo carattere inquieto e rissoso che ne fa una figura quasi di artista scandaloso: un’opinione polemicamente discussa e sostenuta da molti dei biografi che si sono succeduti nel tempo, ben inserendosi poi nella condizione cultural-romantica del tardo Ottocento. Nella prima metà del Settecento, Francesco Susinno, pittore e scrittore di cose d’arte di Messina, descrive con efficacia pittoresca il carattere irrequieto e alterato di Caravaggio: Per l’inquietudine dell’animo suo più agitato che non il mare di Messina colle sue precipitose correnti che or salgono or scendono. Calca poi la mano definendolo addirittura mentecatto pittore e inquietissimo contenzioso e torbido. Bernard Berenson, importante critico e storico dell’arte, collezionista e autore di fondamentali saggi sul Rinascimento, nel 1954 scriverà un saggio dal titolo “Caravaggio. Delle sue incongruenze e della sua fama”. Non meno pungente è il titolo del recentissimo libro di Valentina Certo sul periodo messinese dell’artista: “Caravaggio a Messina. Storia e arte di un pittore dal cervello stravolto”. Probabilmente, appare più aderente alla forte personalità del pittore la descrizione che ne dà Claudio Strinati nella sua introduzione del fortunato primo volume (andato letteralmente a ruba) del fumetto “Caravaggio La tavolozza e la spada”; bella e documentata opera grafica di Milo Manara. Lo storico così scrive: Caravaggio suscettibile, impetuoso, edonista e rissoso, diventerà uno dei più grandi pittori della storia”. Le citazioni potrebbero continuare, ma servono unicamente per indicare alcuni motivi che hanno fatto di Caravaggio una figura popolare, oscillante a tratti, leggendaria nella rivoluzionaria ricerca artistica, fino a rivestire i panni dell’assiduo frequentatore di bettole, giocatori, prostitute,

fino a quella dell’assassino, del fuggiasco con condanna capitale sulla testa. Anche questa copiosa produzione di letteratura specifica ondeggia tra chi lavora su Caravaggio con rigore filologico, recuperando documenti e tracce iconiche e chi trasforma l’identità del pittore costruendo un “proprio” Caravaggio. Forse sarà un dato strutturale quello che connette la narrazione dell’arte con le vicende umane. Hobbes e Vico sostenevano che memoria e immaginazione sono dimensioni piuttosto affini, se non gemelle. Spesso però capita di leggere chi, unicamente, si sforza di rintracciare “l’uomo che è dietro l’artista”. Un esercizio, come ho scritto per un artista contemporaneo, Giuseppe Antonello Leone, che potrebbe essere definito schizoide per il semplice motivo che la personalità creativa è unica, singola e singolare. Soltanto una deformazione cognitiva può immaginarla sdoppiata nei ruoli distinti dell’artista, da una parte, e dell’uomo, dall’altra. Come si può osservare, la copiosa produzione editoriale su Caravaggio presenta autori di diversa formazione che trattano, con punti di vista e interessi diversi, il grande pittore. Tutto questo può essere disorientante; pertanto, consiglierei al lettore di esaminare i vari saggi e narrazioni con un po’ di attenzione perché spesso non mettono nel dovuto risalto l’esperienza artistica dell’artista. Alcuni autori cercano di far rivivere l’uomo e l’artista esaltandone “enigmi e misteri”, spesso costruiti artatamente, come ad esempio la morte di Caravaggio trattata e drammatizzata come un giallo poliziesco. Per fortuna, i valori della buona cultura storico-artistica italiana sono ancora presenti tra non pochi autori e ciò costituisce un sicuro riferimento per tutti gli appassionati del grande pittore. Franco Lista

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Paleontologia: una scienza molto vicina alla vita quotidiana

otto le spettacolari guglie delle Dolomiti, per 240 milioni di anni, è rimasta nascosta, agli occhi del mondo, la "Megachirella Wachtleri" la più antica lucertola fossile finora conosciuta, la madre, cioè, di tutte le lucertole e serpenti fossili. Non c'è solo questa: intorno a questo esemplare rarissimo si nasconde un ricchissimo universo di resti paleontologici, in quantità così elevata da consentire agli appassionati di poter toccare con mano la storia della Italia per milioni e milioni di anni, seguendo le trasformazioni che gli esseri viventi, animali o alberi, hanno subito nel corso e nella profondità del tempo che ci ha preceduto. La presenza di ammoniti, lucertoloni, rettili, crostacei, inglobati in rocce sedimentarie ha dato vita alla "paleontologia" la scienza che classifica e studia ogni traccia di vita di organismi vegetali o animali che si rinviene nelle rocce. La fossilizzazione è un evento piuttosto raro ed è quello che si ottiene da un organismo sepolto dopo la sua morte in seguito alla mineralizzazione dei tessuti organici. A testimonianza del fascino che scaturisce dai fossili, nei secoli ci fu una corsa all'ideazione di di teorie, le più strane e cervellotiche che generarono, nelle menti di letterati, filosofi e scienziati, miti, leggende e racconti fantastici intorno a creature remote quali draghi, giganti, sirene, e influssi siderali, mentre il volgo

li considerò prodotto naturale e causale di una forza che li aveva amalgamati alla roccia. Già nell'antichità Greci e Latini erano andati vicini alla vera essenza dei fossili: da Aristotele al poeta Ovidio che nelle "Metamorfosi", sospettò che essi fossero trasformazioni di antichi animali. Leonardo da Vinci nel "Codice Atlantico", approntò una sua teoria in merito: che essi fossero residui di antichi animali marini. Aldrovandi, con il suo "Museum metallicum" (1590) teorizzò, avanzi di animali, erano stati sorpresi dal fango prodotto durante il "diluvio universale" e rimasti in essi inglobati. I fossili sono stati protagonisti nella letteratura, nel folklore e nella simbologia nella magia, e persino nella medicina avendo alcuni medici attribuito ad essi capacità di guarire alcune malattie della colonna vertebrale.

Il Medioevo creò tutta una serie di interpretazioni fantastiche che impedì a lungo di conoscere la vera natura dei fossili parlando di esalazioni terrestri, influssi stellari e magie varie. Nella nostra epoca, incastonati in tanti palazzi nobiliari ricchi di marmi di ogni colore, i fossili offrono straordinari spunti di ricerca paleontologica, conservando essi tantissimi reperti di antichi animali o di antiche essenze floricole o arboree. Ci sono tanti pavimenti, anche nelle nostre case, che, se aguzziamo la vista, potrebbero farci scorgere fossili piccoli o meno piccoli nei pezzi di marmo che li compongono. Piccole conchiglie lucertole e tanti piccoli animali stanno forse facendo bella mostra di sè, sfidando il tempo e regalando ai possessori di tanta preziosità, una "paleontologia domestica". Il famoso "Scipionix Samniticus", il piccolo dinosauro trovato proprio nel Beneventano, a Pietraroja, alcuni anni fa e che fu chiamato dai paleontologi che lo trovarono, "Ciro", ci ha fatto scoprire che l'Italia finiva propri o là, a Pietraroja, conclusa da una laguna,'all'altra vicinissima sponda della quale si era avvicinata una nuova zolla spinta in avanti dall'Africa che, nei 113 milioni di anni dalla morte di Ciro ad oggi, ha saldato la Calabria al resto dello Stivale. Silvana D' Andrea

Direttore responsabile Iki Notarbartolo Direttore editoriale Elio Notarbartolo Hanno collaborato: Franco Ambrosino, Umberto Amicucci, Raffaele Bocchetti, Margherita Calò, Vincenzo Caratozzolo, Silvana D’Andrea, Antonio Ferrajoli, Paolo Gravagnuolo, Raffaele Graziano, Antonio La Gala, Franco Lista, Gianluca Mattera, Gilda Kiwua Notarbartolo, Ernesto Paolozzi, Mimmo Piscopo, Massimiliano Quintiliani, Giacomo Retaggio, Maria Carla Tartarone, Teresa Triscari, Girolamo Vajatica, Sergio Zazzera Periodico autofinanziato a distribuzione gratuita confronto@hotmail.it elio.notarbartolo@live.it www.ilconfronto.eu Registrazione n° 2427 Trib. di Napoli del 27/09/1973 Casa Editrice Ge.DAT. s.r.l. Via Boezio, 33 Napoli Attività di natura non commerciale ai sensi del DPR 26/10/1972 n° 633 e successive Stampa: AGN s.r.l. via Vicinale Paradiso 7 80126 Napoli

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La sinestesia del gusto

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atto, udito, olfatto, gusto e vista: ecco i cinque sensi che, per secoli, sono stati considerati canali ben distinti tra loro. Oggi però, lo stesso linguaggio quotidiano smentisce questa credenza. Il fatto stesso che si possa descrivere un colore come squillante o un aroma come pungente, ossia esprimere una sensazione relativa alla vista o all’olfatto con termini propri del vocabolario dell’udito o del tatto, dimostra come le percezioni siano molto più complesse. Negli ultimi due secoli numerosi studi psicologici e fisiologici hanno dimostrato che i sistemi percettivi dell’essere umano sono strettamente correlati tra loro e,

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rima di tutto complimenti al ristorante Caracol di Bacoli che si è guadagnato la stella delle Guide Michelin: cucina di altissimo livello, eleganza, panorama spettacolare gentilezza, e lusso. In campagna, a Serino (AV), la musica è tutta diversa: cucina casereccia, cordialità, tradizione, vino buonissimo ma non di etichetta altisonante (non per altro siamo nella provincia dei vini più famosi della Campania e oltre), tranquillità, formaggi

per questo, le sensazioni non riguardano quasi mai un solo senso. Un corto circuito tra i sensi: ecco cos’è la sinestesia, dal greco sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo». Un “termineombrello” che raccoglie quei fenomeni di interazione sensoriale, interni ad un soggetto, per i quali uno stimolo induttore, cioè una percezione reale relativa a un senso, causa una sensazione indotta, ossia non realmente presente nello stimolo esterno, ma avvertita dal soggetto e facente riferimento allo stesso o ad un diverso sistema percettivo. Fisiologicamente parlando, infatti, i sistemi percettivi sono isolati soltanto in parte: a monte, a livello sottocorticale e della corteccia celebrale, i segnali provenienti dai ricettori sensoriali vengono in realtà elaborati congiuntamente. É così che i sensi interagiscono nell’apprendimento, secondo un processo di transfert intersensoriale. La percezione di un oggetto avuta tramite, ad esempio, il tatto entrerà a far parte della propria esperienza e della pro-

pria competenza, influendo successivamente sul modo di percepire quello stesso oggetto, attraverso le altre modalità sensoriali. La sinestesia ha assunto, nel corso dei secoli, diversi significati, ricevendo di volta in volta differenti attribuzioni valoriali. Per lungo periodo è stata considerata una sindrome, una sorta di devianza, genetica o acquisita, rilevata in un numero ristretto di persone e, in molti casi, trattata come una vera e propria patologia. Ad oggi invece, viene concepita come una necessità imprescindibile, data la sempre più frequente mediazione delle esperienze sensoriali attraverso la televisione, la radio e le foto sulle riviste e su internet. Le impressioni olfattive, gustative e tattili, infatti, non potendo essere mediate tramite lo schermo di qualsivoglia medium, devono essere rappresentate attraverso quelle uditive o visive. Massimiliano Quintiliani

Eccellenze culinarie del contado, salumi fatti dagli stessi ristoratori. E’ un diverso, altro, tipo di lusso: ti dona serenità, e ti senti a casa. Dopo la stagione del mare, ecco la stagione colorata dell’autunno e della campagna serinese: che cosa di più bello per i Napoletani che hanno casa nel Serinese della trattoria “da Settimio” in via Renato Rocco 46?

Computer da Zero E’ rivolto ad adulti che vogliono imparare a usare il pc, navigare in internet, scrivere una mail, il corso “Computer da Zero”. Presso l 'Istituto Scolastico Errekappa a Piazza Vanvitelli, avrà cadenza settimanale e permetterà di imparare ad usare il computer in maniera semplice ed efficace, senza dover più chiedere a qualcuno come si prenota la propria vacanza online, come si utilizza Skype per contattare amici o parenti all’estero, come funziona facebook ecc. Un vero e proprio corso di alfabetizzazione, utile e divertente.

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La nascita del museo di Villa Floridiana

a palazzina della Villa Floridiana al Vomero, sistemata nelle forme definitive nel 1818-19 dall’architetto Antonio Niccolini come elegante residenza della seconda moglie di re Ferdinando I, ospita uno dei più importanti musei d’Italia di arti cosiddette minori, il “Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina”, aperto al pubblico il 10 giugno 1931. La denominazione ricorda Placido de Sangro, duca di Martina, un nobiluomo napoletano che nella seconda metà dell’Ottocento mise insieme una collezione che poi i suoi eredi donarono alla città, quella che oggi è ospitata nel museo. Placido de Sangro iniziò la sua raccolta nei primi anni della seconda metà dell’Ottocento, quando lo troviamo impegnato ad acquistare, spendendo gran parte delle rendite del suo ricco patrimonio, un gran numero di rari e preziosi oggetti d’arte, seguendo una moda che si era affermata in Europa dagli anni Trenta di quel secolo. Raccolse maioliche, tabacchiere, vetri, cofanetti, porcellane, in massima parte all’estero, in tutta Europa e soprattutto nelle città dove la celebrazione di Esposizioni Universali e la presenza di Musei specifici per le arti applicate (cioè per gli oggetti artistici aventi una funzione ed un uso), rendevano molto vivace il mercato antiquario del settore (Parigi, Londra, Bruxelles). A quei tempi a Napoli era piuttosto diffusa presso i nobili l’abitudine di tenere nelle proprie dimore raccolte di quadri e altri oggetti d’arte, una specie di museo privato. Il nostro don Placido conservava la sua collezione nel primo piano di palazzo de Sangro, in Piazza S. Angelo a Nilo. Nel 1881 durante l’assenza da casa del duca, moralmente distrutto dalla prematura perdita dell’unico figlio Riccardo, suicida per amore, una banda di ladri penetrarono con la “tecnica del buco” attraverso il soffitto nella sala del suo appartamento che accoglieva gli oggetti, e as-

portarono un gran numero di gioielli e la collezione di orologi. Sia per la morte del figlio che per il furto, il duca per cinque anni smise di comprare altre cose, ma alla fine cedette alle esortazioni del fratello Nicola a riprendere a raccogliere. Il figlio Riccardo aveva espresso in una lettera il desiderio di donare il “museo di famiglia” alla città di Napoli, ma don Placido, nel 1891, morendo, lasciò la collezione ad un nipote omonimo (ne era zio), Placido de Sangro conte de Marsi, il quale la incrementò. Questi, però, volendo esaudire il desiderio di Riccardo, una ventina d’anni dopo ne fece lascito testamentario alla città di Napoli, lasciando l’usufrutto alla moglie contessa Maria Spinelli di Scalea, con facoltà di conservare presso di sé la collezione. Quando il Ministero della Pubblica Istruzione, allora diretto da Giovanni Gentile, dopo aver acquistato la Floridiana in un primo momento per adibirla ad istituto d’Arte, individuò nella villa il luogo più adatto ad ospitare la collezione, la contessa Spinelli acconsentì a cederla subito allo Stato. Affidò

al duca Carlo Giovene di Girasole il compito di trasferire in Floridiana la collezione, che nel frattempo era stata sistemata nel palazzo Spinelli al Rione Sirignano. Il trasferimento avvenne nel 1924-25. La contessa oltre a cedere la collezione contribuì ad incrementare la raccolta, donando mobili ed oggetti di sua proprietà, e contribuì pure alla realizzazione del museo, facendo eseguire a proprie spese le vetrine che dovevano accogliere gli oggetti e regalando 200.000 lire. Nel 1925, quindi, cominciarono i lavori per allestire un primo nucleo del Museo che due anni dopo fu inaugurato dal Re. Al momento della regale inaugurazione erano pronte solo sette delle ventidue sale previste, in attesa delle ulteriori donazioni di donna Maria Spinelli. La sistemazione definitiva della raccolta avvenne nel 1931. Il 10 giugno di quell’anno la collezione fu aperta al pubblico. Antonio La Gala

Porta San Gennaro in via Foria a Napoli

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’ la più antica porta della muratura greca: in origine era più in alto, all’altezza della chiesa di Caponapoli. Fu Pedro da Toledo, il vicerè urbanista, che la volle spostare più in basso sulla murazione aragonese. Era chiamata la porta del tufo per-

chè da lì passavano le pietre di tufo che venivano cavate nella Sanità. Proprio di fronte porta San Gennaro a piazza Cavour, c’è, sul marciapiedi di fronte, una porticina dove si è collocato il museo del Sottosuolo: se chiedete di vedere dietro, troverete una scalinata che scende


Libri

Il Maestro Piscopo e il Professore Ferlita

per 25 metri nelle viscere della terra; era la cava di tufo più vicina. Vi si trovano anche ossari e colombari del tempo greco romano, ma vorrebbero sfruttare i luoghi per mostre artistiche e spettacoli. Non crediamo sia la migliore scelta per questa interessantissima cava. La porta San Gennaro ha preso questo nome perchè dalla detta porta si andava alle catacombe di san Gennaro. Sul frontone c’è ancora un affresco di Mattia Preti con le immagini di Santa Rosalia e san Francesco Saverio posti a tutela dai guai della città. Non bastava san Gennaro: in occasione della peste del 1636 che portò la popolazione di Napoli da 450.000 cittadini a circa 200.00, crearono la cosiddetta cappella di porta san Gennaro, proprio sotto la porta, ma vi posero dentro la statua di San Gaetano a maggiore tutela della città. Sarebbe bastata una migliore attenzione alla igienicità delle abitazioni perchè tutti questi difensori angelicati, della città pare si siano spesso fatta ampia dimenticanza della funzione a cui i Napoletani li avevano chiamati. Infine ci hanno posto una statua della madonna. I guai continuano ad entrare nella città, forse da un’altra porta.

Poesia SBOCCIA Sboccia la vita, Sboccia la gioia, Sboccia il mio cuore, Sboccia per te. Antonio Ferrajoli (scritta a 10 anni e rinvenuta in un quaderno)

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a maestra portava carbone, di Maurizio Piscopo e Salvatore Ferlita é un libro che, nella sua veste grafica, si presenta come una favola. Ma la favola la conosciamo: può essere una semplice storiella e può assumere l´aspetto di un apologo politico nel cui campo Menenio Agrippa, in primis, ci ha fatto da Maestro. E forse tutti avremmo voluto un maestro come lui o come il grande Leonardo Sciascia. Tutti noi, eredi diretti e indiretti del Sessantotto. Ma la dolce e ingenua bambina della riuscitissima copertina (un disegno di Salvatore Ferlita), ci accompagna subito nei meandri di una scuola dove regnano sovrani, dominanti e dominatori, ignoranza e indifferenza; qualunquismo e arroganza; negazione dei valori e di ogni conquista sociale. “Questo libro va letto al rovescio”, si legge in quarta di copertina ma, comunque lo si legga, è ben integrato e compendiato. Due racconti di Maurizio Piscopo (“La maestra portava carbone” e “Storia di Faustina”) e un breve saggio, sintetico, colto, raffinato e incisivo, di Salvatore Ferlita (“Piantare un paio di lorde al primo che capita”), che è un´analisi serrata di uno storico iter di malcostume accreditato, prima di tutto, nella scuola. L´accoppiata Piscopo - Ferlita la conoscevamo già e, sine dubio, rappresenta una carta vincente. La conoscevamo soprattutto per quell´affresco – gioiello di “Merica, Merica” dove il critico, analizzatore Ferlita si fonde e si confonde con lo scrittore, ricercatore e musicista Giuseppe Maurizio Piscopo. Un´accoppiata vincente, un

duo direi, visto che, tutto sommato, nel sottofondo senti sempre, e comunque, i diagrammi musicali della fisarmonica di Piscopo. Maurizio Piscopo ci racconta due storie vere e tristemente credibilii ma, soprattutto, paradossalmente attuali. Erano gli anni Sessanta, era il periodo delle conquiste sociali e delle lotte al potere. Il libro diventa subito un´analisi sociale e antropologica; una lettura dei nostri retaggi che ancora esistono e persistono in una Sicilia che pure è stata fulcro di grandi pensatori e scrittori, addirittura culla del sapere. Ma in una Sicilia in cui una maestra sale in cattedra con un titolo di studio comperato e con una graduatoria di concorso dove i titoli di invalidità trionfano con documenti “sapientemente” creati all´uopo, il percorso della crescita educativa diventa un discorso al contrario. “Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è da considerarsi casuale” si legge nel colophon, ma casualità del genere le conosciamo e le leggiamo sempre più spesso sui giornali. Purtroppo! E´ il trionfo dell´ arroganza, della superficialità, della corruzione. E´ tutta una gerarchia di indifferenti e opportunisti dove il trionfo peggiore è quello che leggiamo nella chiusa del racconto: la protagonista, la Maestra Giovanna, viene rimossa d´ufficio per pessimo comportamento e viene assegnata a una scuola in provincia di Agrigento. Di fatto un trasferimento dalle brume nordiche che la protagonista mal sopportava, a casa sua, una punizione - promozione! La “Storia di Faustina”, invece, è proprio una chiosa autobiografica che, di fatto, è una rivalsa storica e professionale dell´insegnante. Una storia che l´Autore avrebbe voluto “scrivere anche sul registro di classe, ma il Ministero dell´istruzione prevede solo le pagine della programmazione”… Grazie, Piscopo per avercelo ricordato. Grazie, Ferlita, per averci riproposto le parole di Montaigne che, nei suoi Saggi, scrive che la scuola appare come una sorta di “carcere di gioventù prigioniera”. Teresa Triscari

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L’ ultimo libro di Almerico Realfonzo, “Il tempo giovane”

’ uscito da qualche mese, per i tipi di MIMESIS Meledoro, “Il Tempo giovane”, il quarto libro sulla Resistenza di Almerico Realfonzo, un autore vincitore del Premio “Repubblica partigiana dell’Ossola 2017 Il volume raccoglie in parte, come indica il titolo, i ricordi della sua infanzia e dell’ adolescenza, dell’ambiente, della vita sociale, ma soprattutto la narrazione de-

gli avvenimenti storici della prima e della seconda guerra mondiale, trascritti con precisione e con riferimenti agli storici che se ne sono occupati. Anni difficili che interferirono nella vita e nella formazione dei giovani. L’autore trascorse quegli anni tra Napoli, Milano e Domodossola, passando al Nord il periodo più difficile per un adolescente: quello della guerra, dell’odio e della resistenza, acquisendo un giusto amore per i luoghi sommersi dal dolore e dalle difficili scelte che si riflettevano sulla vita dei giovani in formazione. I riferimenti agli avvenimenti storici sono trascritti con grande precisione, ricchi di annotazioni tratte dai numerosi studiosi che si sono occupati di quei difficili periodi. I ricordi familiari vengono trasmessi dall’autore con estrema sensibilità nei confronti dei parenti e degli amici che vissero con lui quegli anni. Ha introdotto l’opera Guido D’Agostino che conclude scrivendo: “…Una relazione stretta e feconda tra storia e memoria, insomma, collegata a sua volta alla felice disposizione a ricordare e a far rivivere i ricordi, come a volerli mettere una volta di più alla prova, alla prova di ciò che si è stati e che si è o che si è diventati. Ritengo

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stia qui il meglio, il significato, anche in termini di pedagogia civile, della quadrilogia di Almerico Realfonzo…”. Hanno commentato il libro numerosi critici che avevano già letto e riferito sugli altri tre libri (“I Giardini Rosminiani”(2008),”I giorni della libertà”(2013), ”Milano 1944”(2015). Nell’appendice del volume aggiungono le loro osservazioni che aiutano a comprendere il carattere e lo stile dell’autore, nonché il valore della sua opera. Inizia Fulvio Papi che afferma come in Realfonzo, sia rimasta accesa la memoria di quegli anni “come una radice fondamentale del proprio senso, una forza viva nei confronti delle lacerazioni del tempo”. Emma Giammattei nel suo interessante scritto dice: ”L’opera di Realfonzo appare costruita come un puzzle di tessere combinatorie in una sequenza non cronologica ma ideale e strutturale, perché la memoria rielabora gli eventi secondo la sua gerarchia, secondo un suo intimo ordine, che isola taluni particolari, e nello stesso tempo li rende esemplari e simultanei, in una visione da lontano. … Un’approfondita conoscenza storica, tanto più preziosa in una stagione come quella odierna in cui non accennano a dileguarsi riletture distorte e prive di fondamento del nostro recente passato… Una testimonianza, infine, esemplare del rapporto fecondo che si può instaurare tra memoria e storia, e tanto più necessario in un momento in cui l’una e l’altra paiono esposte a pericoli e rischi nient’affatto trascurabili”. Segue Francesco Soverina che scrive: “In tre densi libri-I Giardini Rosminiani (2008), I Giorni della Libertà (2013), Milano 1944 (2015)- in cui il suo percorso individuale si intreccia con la Grande Storia, Realfonzo si concentra soprattutto sul fatidico biennio ’43-’45, muovendosi sul filo tra memoria e storia. Una testimonianza, infine, esemplare del rapporto fecondo che si può instaurare tra memoria e storia, e tanto più necessario in un momento in cui l’una e l’altra paiono esposte a pericoli e rischi nient’affatto trascurabili”. Fiorella Franchini sostiene, a proposito delle opere dell’autore: “Ricchi di note e di digressioni, non sono solo un trasferimento di ricordi ma un atto di partecipazione umana, morale, politica, un notevole impegno culturale di pensiero autobiografico che esercita uno straordinario valore educativo e creativo”. Raffaele Manica cita il premio “Repubblica partigiana dell’Ossola”, ricevuto da

Realfonzo nel 2017, ricordando il titolo dell’articolo “Domodossola entra nella Storia” che scrisse Gianfranco Contini nel 1944 in occasione dei preziosi “Quaranta giorni di libertà” vissuti a Domodossola con l’augurio che gli avvenimenti appena trascorsi venissero ricordati nelle scuole. Ed è ciò che i domesi ancora insegnano. Umberto Ranieri: “Realfonzo, senza mai assumere toni retorici…fa sfilare dinanzi al lettore l’incalzante succedersi degli avvenimenti che hanno interessato “la piccola città di frontiera” di Domo, Napoli dall’occupazione nazista all’amministrazione anglo-americana, Milano avvolta nella cappa plumbea dello scontro tra gappisti e seguaci dell’agonizzante e truce nazifascismo”. Federica D’Alfonso: “… il premio “Repubblica partigiana dell’Ossola” …conferito all’autore nel settembre del 2017 realizza concretamente l’esigenza di conservare e raccontare la memoria storica alle nuove generazioni: la costante riaffermazione dei valori di libertà e democrazia è l’eco ultima in opere come quelle di Almerico Realfonzo e lo scopo principale per il quali eventi come quello del premio devono continuare ad esistere”. Carlo Bologna: “…Un premio ha senso se diventa l’occasione per trasmettere un messaggio. Realfonzo lo ha affidato ai suoi libri nel modo più chiaro: le scelte, quelle importanti, non devono aspettare. I giovani devono essere protagonisti del loro destino, decidere da che parte stare”... Pier Antonio Ragozza conclude le note degli scrittori, da me riassunte, accennando al filo della memoria disteso dallo scrit-

tore tra Napoli e Domodossola. Novecento chilometri collegati da un “filo ideale che passa attraverso il tempo e la storia. A stendere questo filo è stato Almerico Realfonzo che sfollato negli anni della guerra, fu a Domodossola fino all’agosto 1944 quando-proprio alla vigilia della


prima liberazione dell’Ossola- si trasferì a Milano dove visse gli ultimi mesi del conflitto, prendendo parte alla liberazione della città nell’aprile del 1945”. Ragozza pone infine l’accento sulle iniziative promotrici dei ricordi domesi di Realfonzo come promotore del convegno di studi ”’L’esperimento di democrazia della Repubblica partigiana dell’Ossola” organizzato dalla Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Facoltà di Scienze Politiche, svoltosi a Palazzo du Mesnil nell’aprile del 2010. E gli incontri non si fermarono qui,

altre iniziative tennero desti i rapporti tra Domodossola e Napoli, fino a giungere al premio, ed ora alla pubblicazione dell’ultimo libro rigorosamente attento al racconto storico. Il 7 dicembre il libro è stato presentato, per la prima volta, presso la “Università Suor Orsola Benincasa”, con il contributo letterario della Preside Emma Giammattei, dello scrittore Francesco Durante e dello storico Eugenio Capozzi. Anche in questa circostanza, i relatori hanno sottolineato unanimemente la qualità letteraria

del libro ed il suo valore storico-sociale, come un pacato monito per le future generazioni a non cadere in nuovi inciampi extrademocratici della storia, dai quali si rischia di uscire faticosamente ed a costi sociali elevatissimi. Maria Carla Tartarone

“Le” Napoli

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i ricreda chi è convinto che Napoli abbia un solo volto; il che è proprio ciò che io stesso pensavo, fino a pochissimo tempo fa, identificandolo con l’immagine che me n’ero formata. A farmi convincere del contrario sono state alcune letture degli ultimi tempi, dalle quali emergono più volti della città, e non tutti positivi, né tutti positivamente apprezzabili. La prima di queste letture è la “Napoli. Nostalgia di domani” di Paolo Macry, vera e propria filippica contro una “identità napoletana” fatta soltanto di negatività, che si sviluppa, con accentuato provincialismo, quasi per l’intero volume, affidando soltanto alle ultime quattro o cinque pagine una di quelle, che i napoletani definiscono “pezze a culore”, che, tuttavia, non produce l’effetto che l’autore sembrerebbe avere desiderato (ma potrei anche sbagliarmi; non sull’effetto, beninteso, ma sul desiderio). La seconda lettura è “Il fallimento della consapevolezza” di Raffaele La Capria, che consta di due parti, nella prima delle quali egli rimanipola le idee espresse in tutti i suoi scritti successivi a “Ferito a morte”, ma, addirittura, abbandona

quella sua apprezzabile distinzione fra “napoletanità” e “napoletanitudine”, per negare ogni utilità all’esistenza di un’“identità napoletana”. Più valida, semmai, risulta la seconda parte del volume, nella quale la pubblicazione delle lettere da lui indirizzate a Giuseppe Patroni Griffi, durante la seconda guerra mondiale, ha permesso – almeno a me –, insieme con il colloquio con Mimì De Masi, che chiude la prima parte, di comprendere meglio la sua personalità. Intendo dire che dalle une e dall’altra si coglie il temperamento dell’autore sostanzialmente autoreferenziale, da una parte, e, dall’altra, pronto a sputare nel piatto nel quale ha mangiato per decenni. Per intenderci, alla fine, a sentirsi “ferito a morte” è stato il sottoscritto.A tirarmi su, per fortuna, è intervenuta la terza lettura, “Napoli. 14 voci e uno sguardo in giro per la città”, un volume collettaneo, curato da una équipe guidata da Guido d’Agostino, che, attraverso un’ideale passeggiata per luoghi, o un altrettanto ideale incontro con personaggi e con eventi, dei quali essi siano stati protagonisti, propone quattordici immagini di Napoli. Anzi, a ben guardare, ne prospetta un numero

maggiore, ove si consideri che uno dei contributi è dedicato alle descrizioni della città negli scritti di viaggiatori inglesi. In proposito, devo rilevare, per prima cosa, la sostanziale omogeneità qualitativa degli scritti, tutt’altro che comune nei volumi collettanei, segno del pari alto livello dei loro autori. I quali, poi, raccontano la storia, piuttosto che limitarsi a scriverla, rendendola quasi il pretesto della narrazione. In definitiva, si tratta di quattordici “voci” che, a differenza di quelle dei primi due volumi ai quali ho fatto riferimento, si esprimono con grande pacatezza, senza gridare, e contribuiscono a convincere il lettore del fatto che esistono tante Napoli, per quanti sono coloro che le si avvicinano, siano essi gli autori del libro o i suoi lettori, facendo, per tal modo, della città il riflesso, in termini microcosmici, di quel macrocosmo degl’“infiniti mondi”, che fu affermato da Giordano Bruno. Sergio Zazzera

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Il coro muto di D’ Alessandro

on é facile parlare di una personalità composita e poliedrica come quella di Nicolo´ D´Alesssandro, artista, scrittore, critico d´arte, conoscitore di culture straniere; persona impegnata politicamente e nel sociale; intellettuale attivo, sin dagli anni Sessanta, nel dibattito culturale; autore, solo in quest´ultimo anno, di ben tre libri: “La favola del persiano guerriero”, “Carezza” e “La cantatrice muta e altri racconti”. Fermiamoci qua, a “La Cantatrice muta”.

Storie, storie del vissuto; storie di fatti di cronaca narrate, a volte, tra ironia e sogno, tra realtà e fantasia; con peregrinazioni nel surreale. Ma sempre pensate e soppesate. Dodici racconti che tracciano la geografia del disagio, ma anche della semplicità quasi primordiale, della nudità dell´essere, e, pur tuttavia, della gaiezza che, paradossalmente, è spesso compagna di strada della povertà. Dodici storie che si dipanano tra Santa Elisabetta, un minuscolo paesino dell´entroterra agrigentino, e Palermo disegnando un itinerario di ricordi e di ritrovamenti di brandelli di vita ancora carichi di sentimenti ma delinea anche la mappatura dei problemi umani e delle atrocità delle mafie legate a certi raccapriccianti traffici internazionali. Dall´entroterra agrigentino a Palermo; da ieri a oggi, la realtà difficile e miserevole, inquieta e grottesca dell´ incomunicabilità e della prevaricazione rimane una costante. Dalla “Ciavola agrigentina” (unica amica di un bambino muto), che ci riporta semanticamente, e non solo, al “Ciaula” pirandelliano; alla verdissima “Alga “ – di un verde smeraldo trasparente – con cui

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s´instaura un canto d´amore con la voce narrante; alla “Guardatrice dell´acqua” la cui trasparenza si riflette e si risciacqua nei suoi stessi occhi di bambina; alla “Seppia” che dovrebbe essere soltanto un piatto appetitoso e invece diventa protagonista tentacolare di una banale controversia; ai “Senza mani”, mutilati romeni, nati così senza mani, senza qualche arto … e allevati per l´accattonaggio; al “Gene dei siciliani” e della sicilianità; al “Compleanno” con la domanda “Ma perché si festeggiano i compleanni?"; all´ ultima storia, “Alle ore sette e venti”, dove si sciorinano tante informazioni culturali ma dove il dialogo non esiste perché è sempre la stessa persona a parlare. Dall´inizio alla fine del libro, la realtà è sempre quella dell´incomunicabilità, del monologo, del vuoto, del silenzio. Eppure, paradossalmente, è proprio con il silenzio che si comunica come la cantatrice muta, come la guardatrice dell´acqua, come “ínnamorato di un´alga”, come la stessa “ciavola”.. Quelli che non comunicano sono proprio i verbosi, gli esagitati come il barone Cachia; come Claudio, il protagonista delle “Ore sette e venti”; come i commensali del racconto “La seppia”. Il rifugio, pertanto, è sempre lì, nella trasparenza dell´acqua che, tremolando e formando tanti cerchi, si trasforma lentamente in carta e in segno grafico: segno o scrittura? o l´uno e l´altro? Di fatto, non saprei parlare di D´Alessandro scrittore senza avere sotto i miei occhi i i suoi disegni che sanno tanto di quel grafismo e calligrafismo tipico degli artisti del Quattro- Cinquecento Non saprei parlare di D´Alessandro saggista senza pensare ai drammi ancestrali della Sicilia, a quel concetto di sicilianesimo, sicilianità e sicilitudine di cui ci parla Sciascia; non potrei parlare di D´Alessandro senza andare con la mente al “Meriggiare pallido e assorto”di un Montale o a certi canti di Terre lacerate e laceranti come “Amara terra mia” e “Creuza de ma´”. Eppure i suoi racconti hanno sempre un andamento leggero, tra fantasia e sogno, tra mito e bellezza. Sono disegnati, stilizzati, più che scritti. Sono tappe di una sorta di nomadismo poetico. E il dolore è spesso superato con il sorriso di una sottilissima ironia. Sono racconti disegnati, dicevo, e, nella composizione delle linee si cela sempre un palcoscenico dove i personaggi si assiepano tutti lì, ancora da allora, in

cerca d´ autore e non sono più soltanto sei ma tanti, di più, tutto uno stuolo, spesso di derelitti; sono un coro; un teatro dell´assurdo alla Jonesco; un teatro della rievocazione alla Tadeusz Kantor inquadrato, questa volta, su uno sfondo di templi greci, tra colonne doriche di rastremata asciuttezza, tra acropoli e pianori, in mezzo a una pioggia improvvisa di cavallette; tra fiumi e fiumare, alghe avvinghianti, seppie che allungano i loro tentacoli e donne che affogano in un pozzo. Un coro di voci strozzate, di braccia mutilate che si sollevano, imploranti. E, al di sopra di tutto, coro nel coro, la cantatrice muta che, nel corso di una festa di matrimonio di tanti anni fa, si alza lentamente tra gli invitati, si avvicina all´orchestrina mentre tutti le fanno spazio e il musicista inizia a suonare facendole cenno con la testa che può iniziare... Non parole escono dalla sua bocca, ma sillabazioni mimate: è un canto muto, una danza di parole in libertà alla Marinetti, parolibere soffiate, tutta una gestualità segnica, una mimica che si estende ed espande a tutto il suo essere, che la vede stringersi con le braccia e avvitarsi su se stessa come in una elegantissima “danza del cigno”. Siamo solo all´inizio, ma, alla fine del libro, ci accorgiamo che l´Autore ha dato voce a un mondo di muti: muta è la cantatrice; muto è il bambino amico de “La ciavola”; muta è “La guardatrice dell´acqua”; muto è persino il protagonista di “Alle ore sette e venti”; muti sono tutti coloro i quali

subiscono le telefonate di certe persone che parlano solo loro. E quando qualcuno parla, sarebbe meglio che tacesse come la moglie testarda de “La seppia” che viene affogata in un pozzo, o come la bambina cocciuta che viene derisa. Guarda caso, le cocciute sono tutte donne!...


Muti, un mondo di muti. Muta è la stessa compagna dell´autore che tollera… tollera… fa finta di nulla. Finzione o amore? o missione civile? O subdola costrizione? Ne vogliamo parlare? Muti? Oppure un mondo dell´incomunicabilità? Ci sono anche i sordi come quella figura goffa del barone Cachia in “Cavallette ad Agrigento” e degli altri nobili e nobilastri che compaiono a poco a poco di qua e di là... cavallette anche loro. Ma l´esito è lo stesso: se non si sente non è possibile comunicare. Poi, nel corso della lettura, ci si accorge che, in questa pletora di diversi, nessuno è cieco, e ciò è ancora più

frustrante perché vedere e non potere (o non sapere) raccontare è di per sé lesivo della propria dignità. E´ qua che tra Pirandello e Jonesco; tra Sciascia e Tomasi di Lampedusa; tra Pier Paolo Pasolini e Aristofane si dipana tutto il filone della narrazione che, più che una serie di storie, diventa una commedia tragicomica, un atto unico con personaggi vari che si inseguono e susseguono e dove la “ciavola” potrebbe essere il filo conduttore con il suo essere uccello del malaugurio che potrebbe interpretare persino parenti e vicini di casa. Ne vogliamo parlare? Non ci sono voci, dunque; e l´unico

essere che comunica, alla fine, é proprio la “ciavola”, che in realtà non sentiamo neppure fare “crah-crah”, eppure, è un essere che ti guarda, rotea la testa, ti gira intorno con il suo “linguaggio ciavolesco”. Non ci sono voci nel mondo che ci presenta D´Alessandro, eppure è un mondo vivo e vivido dove ci sono odori e sapori, fragranze e colori, ricordi di piaceri e piacevolezze ancestrali. Ed è proprio qua che avviene il miracolo dell´artista che, ad un certo punto, si sostituisce allo scrittore. Ricordo, a tal proposito, che il grande Alberto Savinio superava i drammi del vuoto con la musica. Allo stesso modo D´Alessandro supera l´horror vacui della comunicazione con la parola gettata nell´acqua e poi ripresa sulla carta. Che poi, è anch´essa musica. E´ a questo punto che si crea una felice sintesi tra arte, scrittura e musica che è poi il linguaggio universale che si alza al di sopra del silenzio dei Vinti di verghiana memoria, come una mano, tante mani, in cerca di aiuto. Ed è proprio su queste mani imploranti che si cala impietosamente (o, forse, pietosamente) il sipario. Teresa Triscari

“La bellezza del nulla” di Luca Moretti Tra le novità natalizie della Marlin Editore un libro che porta il lettore in Africa e ricorda che la felicità è una scelta

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a mia nuova vita non era più artificiale. Era naturale, ora. Tutto scorreva lento, tranquillo, pacifico. E tutto mi sembrava più

vero e più mio. (…) Avevo la sensazione di vedere il nulla e, contemporaneamente, il tutto.” E’ un viaggio, una scoperta e una rinascita vera e propria quella del protagonista de “La bellezza del nulla”, che improvvisamente decide di abbandonare la sua regolare, comoda e ricca vita per un più prezioso ed autentico vivere. Umberto Proncati, affermato commercialista di Varese, decide di partire per l’Africa e di non tornare più. Sceglie di ricominciare da zero, cambiare nome, far perdere ogni traccia di sè per cercare quella felicità che tanto fa paura, di cui solitamente si legge solo in articoli di giornale o in alcuni romanzi. Atterrato in Africa, terra di magie e tradizioni rare, cambia più volte itinerario e nazionalità, fingendosi di origine egiziana. Incontra il luogo e la donna che riescono a dargli tutto, senza che mai si stanchi di loro: “La verità è che solo qui, in questa terra arida, bruciata dal sole, dove lo scorrere del tempo non esiste, ho veramente vissuto”. Per trent’anni tutto procede come previsto, fino a quando un detective privato, pagato da un lontano parente, interes-

sato solo ad ereditare i beni di Proncati, lo cerca e rintraccia nel piccolo villaggio dove vive con la sua bellissima compagna e figli. L’affascinante Africa ammalierà anche il cinico investigatore? o predominerà la crudele ipocrisia del mondo al quale erano abituati i protagonisti della storia? L’incontro dei due lascia con il fiato sospeso fino all’ultima pagina dell’avvincente libro di Luca Moretti, che intreccia i tramonti e i ritmi di vita africani con esperienze spirituali e psicologiche profonde. Una narrazione coinvolgente ed interessante, una scrittura scorrevole ed accurata, a prova di mal d’Africa. Luca Moretti è nato nel 1968 a Sondrio dove vive e lavora. Laureato in Storia Moderna all’Università Statale di Milano, ha esordito come narratore con il romanzo Anima in viaggio (Nuovi Autori, 2009), a cui sono seguiti La vita dentro (Robin, 2012), La locanda delle trote blu (Robin, 2014) e Titanic(Robin, 2016). Iki Notarbartolo

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Leggende

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Janare d’ Irpinia: La vendetta di Maria D’ Avalos

i ricordate Carlo Gesualdo e l’ uxoricidio che fece a piazza San Domenico di Napoli? Riuscì a farla franca e si rifugiò nel suo castello avito di Gesualdo. Fece di più: si scelse un’altra nobile moglie della famiglia nobilissima dei d’Este di Ferrara e continuò nella sua carriera di affermato musico, autore di madrigali. Qualcuno, oggi, dice che può essere annoverato addirittura come predecessore dello stile Jazz. La musica era una passione secondaria a quella per le donne. Si prese, sposato e buono, una bella donna del popolo alla quale non par vero essersi preso l’uomo più importante del paese. Se lo voleva tenere, con le buone o con le cattive. La nobile Isabella d’Este cominciò ad avere malori e febbri che i medici non riuscivano a domare. Si pensò subito che era stata oggetto di un sortilegio, ma le ispezioni nel materasso dove dormiva non fecero trovare nessun segno di mala magia. Infatti il popolo mormorava che la bella amante Aurelia con l’aiuto della janara del luogo ed una terza fattucchiera, Totia, aveva lanciato una “fattura” contro la principessa, e aveva fatto perdere la testa al principe Carlo Gesualdo, propinandogli una pozione in cui aveva sciolto il sangue mestruale. La principessa d’Este, di fronte agli insuccessi dei medici locali, chiese ed ottenne

di tornare a Ferrara dai suoi medici. Così non solo si salvò ma riconquistò tutta la sua avvenenza e la sua libertà. Il principe di Gesualdo invece, continuava a mangiare qualche ”fetta di pane che l’amante poneva preventivamente” dentro al natura sua e huntata con quel seme veniva coperta di salsa. E la giovane Aurelia D’Errico, tronfia del suo successo amoroso, non disdegnava di dire alle amiche “Che mi vuol fare la principessa! Il principe sarà dalla centura a bascio, lo mio; e dalla centura ad alto, della principessa.” Ognuno fa i conti come

li sa fare, e Aurelia non aveva messo in conto la maledizione che il buon Carlo portava da quando la prima moglie, la bellissima Maria d’ Avalos, riconoscendo dietro i suoi aggressori, la mano vile del marito, aveva invocato l’intervento di tutte le donne contro il bieco marito. E’ per mano di fattucchiere, maghe e donne di malaffare si consunse la storia personale di questo grande artista di poesie e musica, tra pozioni e mestrui, finì la vita di Carlo Gesualdo: tristemente tra solitudini, malattie e malinconie un giorno dell’anno del Signore 1613.

La Dea Mefite Fecondatrice e positiva per Osci e Sanniti, malefica per i Romani, da far dimenticare per i cristiani

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ta sempre là, nella valle irpina dell’Ansanto. quel luogo sacro agli Osci e ai Sanniti: era sacro alla dea Mefite per i misteriosi fenomeni che avvenivano colà: uccelli morti, piccoli animali improvvisamente fulminati, odori forti, e un lago dalle acque scure, colore blu scurissimo. Sapevano queste popolazioni che la dea aveva realizzato la vita nel mondo, come l’antica Cibele che dimorava su quello che fu poi chiamato monte Vergine, e sapevano che i fanghi raccolti nei pressi del lago curavano i mali delle articolazioni del corpo umano e liberavano dai parassiti uomini e animali domestici. I Romani, quando arrivarono in mezzo ai monti d’Irpinia, non tolleravano quell’odore puzzolente che emanava da quel lago, e attribuirono alla dea Mefite capacità malefiche. Non era più la dea

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che sapeva accompagnare gli uomini nel momento del trapasso, ma qualcuna a cui bisognava portare sacrifici per tenersela buona perchè, lei, di natura buona non era. Invece i Sanniti portavano doni e vittime per ringraziamento. Non uccidevano gli animali, specialmente le pecore, che portavano in offerta: li spingevano verso il lago affinchè fosse la dea stessa a provvedervi con i suoi miasmi soffocanti. Poi vennero i Cristiani: abbatterono il tempio dedicato alla dea Mefite e costruirono una chiesa che dedicarono a santa Felicita, astutamente santa ma di genere femminile come Mefite imponendo il culto di una persona resa santa per riconoscimento della Chiesa. Per molto tempo, gli abitanti del luogo fecero finta di ossequiare la santa cristiana, ma in cuore, sapevano che volevano stare ossequiando la grande madre del mondo.


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Sinuessa: la cittá romana inghiottita dalla natura

a crearono i Romani nel territorio tra Sessa Aurunca e Mondragone, al confine tra Lazio e Campania, nel 296A.C. Sorse come presidio alle incursioni dei Sanniti, ancora molto vigorosi alla fine della I Guerra Sannitica. Era troppo esposta agli attacchi e, sul principio, la sua vita fu grama. Man mano che si consolidava la superiorità bellica dei Romani, Sinuessa acquistò una certa fioritura commerciale, si produceva il vino Falerno, tanto buono che Cesare lo distribuì dopo il suo trionfo, a Roma. La città si sviluppò

notevolmente e fu dotata di porto teatro e terme. Le acque delle terme erano famose perchè combattevano la sterilità femminile e curavano tante altre malattie. Dal 200 AC al 350 dopo Cristo fu un continuo sviluppo della città. Poi, il declino dell’Impero Romano cominciò ad influire sulle sorti della città che subì le incursioni barbariche di tatissimi popoli. Improvvisamente, la Storia perse le notizie della città; un forte terremoto con conseguente tsunami. Il porto scomparve e tutta la costa si inabissó. Non fu un abbassamento lento: fu veloce e forte e, oggi il porto gi-

ace a 8 metri di profondità. Oggi cominciano a valorizzare l’area archeologica.

L’ Applauso Napoletano Dipendenti Comunali

Eccellenze Sanitarie a Napoli

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’episodio assurdo e inqualificabile verificatosi, tempo fa, all’ ospedale Don Bosco di Napoli, ha giustamente suscitato indignazione da parte di tutti. Naturalmente molti non hanno perso l’occasione per denigrare la Sanità Campana e, in primo luogo, quella napoletana. Io, però, forte della mia recentissima esperienza vissuta personalmente, sento il dovere di affermare a gran voce che esistono a Napoli, varie eccellenze sanitarie. Colpito, qualche anno fa, da una grave patologia polmonare, dovuta ad un micobatterio antibiotico resistente, sono stato costretto a ricorrere alle cure di vari ospedali. Nel primo, al pronto soccorso dei Pellegrini, ho incontrato la radiologa dott. Stefania Tamburrini, professionista di grande spessore che ha subito inquadrato il problema indirizzandomi al Monaldi, ove, ricoverato per qualche settimana presso il reparto di pneumologia del prof. Fiorentino, sono stato assistito e curato nel migliore dei modi da uno staff medico eccezionale. Pochi giorni fa, dopo 30 giorni di degenza, sono stato dimesso dall’ospedale Cotugno, reparto di malattie respiratorie infettive diretto dal prof. Roberto Parrella. Ancora oggi non trovo le giuste parole per descrivere la bravura, l’umanità, la scrupolosità di questo grande medico. La patologia era grave e non facile da affrontare e i miei 80 anni non mi aiutavano. Quando i

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miei figli, preoccupati, gli hanno chiesto notizie, con aria paterna, familiare, li ha rassicurati: “ Vostro padre lascerà l’ospedale quando gli avrò assicurato una buona qualità di vita”. Così, in un ambiente pulito e profumato da sembrare più un albergo che un ospedale, medici e personale infermieristico si sono prodigati in ogni modo, giorno e notte, assicurandomi le migliori attenzioni e cure, oserei dire con affetto, certamente con grande umanità e professionalità. Sono stato sottoposto ad ogni tipo di indagine con i sistemi più moderni ed avanzati della medicina e della chirurgia. facendo ricorso anche alla radiologia interventistica dell’ottimo dott. Venetucci del secondo Policlinico. Oggi, ancora convalescente, miglioro di giorno in giorno e posso dire di aver recuperato uno stato di salute decente. Sento il dovere, pertanto, di rendere pubblica la mia esperienza al fine di poter testimoniare con tutta onestà che la Sanità Campana possiede centri di eccellenza assoluta, tanto da poter competere con le migliori strutture sanitarie nazionali ed estere. Per concludere, sento di dover esprimere al prof. Roberto Parrella e al suo staff, dai medici agli infermieri, tutta la mia più sentita riconoscenza, sperando che chi di dovere ne prenda atto. Raffaele Bocchetti

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on sono proprio tutti i dipendenti comunali solerti a Napoli: per esempio, non ci sembrano tali quelli che non aggiornano gli indirizzi dei vari uffici sui siti del Comune “on line”, talchè un qualunque cittadino che invii una raccomandata all’Ufficio Antiabusivismo a via Diamare, si vede restituita dalle Poste la raccomandata che gli è costata, per esempio, 10 euro, solo perchè ha preso il recapito di quell’Ufficio dal sito “online” del Comune che, come altri, non è stato aggiornato in tempo. Ci sono dipendenti comunali e “indipendenti” comunali. Per questo la nostra Rivista pratica la rubrica dell’Applauso per certificare, invece, quei dipendenti comunali che, sentendosi, prima di tutto, concittadini, si applicano alle loro incombenze con serietà e competenza. Se poi, a queste doti professionali, aggiungono, di loro, la gentilezza e la disponibilità a spiegare i meccanismi della burocrazia che essi devono applicare, ci sembra doveroso elevare un Applauso, se pur virtuale a questo tipo di Risorse Umane che devono costituire vanto per l’Amministrazione e per tutta la città All’ingegnere Nicola Speranza, che opera nell’ambito della Terza Municipalità, a via S. Giovanni e Paolo. L’ Applauso e i complimenti per la competenza, la pazienza e la gentilezza che impiega ogni giorno nell’assolvimento delle sue funzioni.

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