Broker-cliente come film-spettatore? Pump and dump movie.

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Il presente saggio è tratto dalla rivista Segnocinema, 2014, n. 189, sett.-ott.

Broker-cliente come film-spettatore? Pump and dump movie. Bolle speculative e asimmetrie informative nello stile e nella forma narrativa di “The Wolf of Wall Street” di Adriano D’Aloia e Michele Riccardi

È lecito chiedersi se la parabola criminale di Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese non sia a ben vedere un’allegoria del mercato finanziario, costruita sulle stesse manipolazioni e la stessa capacità persuasoria di cui anche la narrazione cinematografica è capace. Una parabola del sogno americano o solo il racconto di un’allucinazione collettiva? Frode finanziaria, manipolazione del mercato, riciclaggio di denaro, associazione a delinquere... Sono solo alcuni dei capi di imputazione per i quali Jordan Belfort, il “lupo” di Wall Street, è accusato e rinviato a giudizio al termine della sua parabola criminale. Belfort è certamente uno dei migliori broker in circolazione ma anche, e soprattutto, un delinquente in campo finanziario: grazie alle proprie doti persuasorie è in grado di rifilare a qualsiasi risparmiatore azioni di società “spazzatura”. Ciò che vende promettendo enormi margini di profitto è una storia fasulla. In questo saggio proveremo a unire l’approccio narratologico al cinema e l’approccio criminologico all’economia per dimostrare la seguente intuizione: non solo Belfort è inaffidabile in qualità di venditore, egli è inaffidabile anche come narratore. Il mondo che viene raccontato allo spettatore attraverso la voce narrante del protagonista è esso stesso manipolato e deformato. Come se le pratiche fraudolente messe in atto dal broker in campo finanziario fossero usate dagli autori del film quale espediente stilistico e narrativo.

Il lupo nel bosco del cinema Nell’operazione di trasposizione per lo schermo del libro autobiografico del vero Jordan Belfort, lo sceneggiatore Terence Winter e il regista Martin Scorsese restituiscono un criminale dai tratti più simili a quelli del Tony Montana di Scarface di De Palma che a quelli del Gordon Gekko della Wall Street di Stone, nonostante quest’ultimo venga esplicitamente menzionato, anche se a solo scopo citazionistico più che come reale riferimento. Belfort non è un semplice broker senza scrupoli mosso da avidità e bramosia per il denaro, ma un truffatore professionista. Nel corso del film infatti “Wolfie” usa in maniera spregiudicata una serie di espedienti tipici della criminalità in campo finanziario, in particolare quella cosiddetta “dei colletti bianchi” (white collar crime): corruzione, corrieri, prestanomi e conti e società registrati in Paesi off-shore, soprattutto a Montecarlo e in Svizzera. Il suo profilo criminale è ufficializzato dalla visita dell’agente Denham dell’Fbi, il quale sottolinea che il suo non è un semplice controllo amministrativo (in capo invece alla SEC, Securities and Exchange Commission, l’autorità di regolamentazione dei mercati) bensì un’indagine penale. Il film inoltre attribuisce al personaggio di Belfort una serie di tratti caratteristici dell’immaginario criminale cinematografico. Per prima cosa è circondato da collaboratori (una serie di bravissimi caratteristi) che provengono dall’illegalità o che si comportano come malavitosi. Anche Brad, il prestanome di fiducia di Belfort, sembra un picchiatore uscito da Pulp Fiction di Tarantino o Machete di Rodriguez e Maniquis. Le abitudini di consumo e la bramosia per i beni materiali di Belfort sono le stesse di gangster come Tony Montana di Scarface o Frank Lucas di American Gangster: la gigantesca villa, munita di piscina, ranch, campo da tennis e spiaggia privata, l’elicottero, le automobili di lusso (prima una Ferrari bianca, richiamo a Don Johnson e ai narcotrafficanti di Miami Vice, e poi


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una Lamborghini dello stesso colore), lo yacht (il Belfort reale lo comprò da Coco Chanel), luogo e simbolo di almeno tre svolte nella parabola del broker: l’inizio della nuova vita (è il regalo di nozze della seconda moglie), l’inizio della fine (è sede del primo incontro con l’agente dell’Fbi) e l’affondamento finale (reale e figurato). Tipicamente cinematografiche sono anche le altre dipendenze di cui Belfort è vittima: le donne, dalle prostitute di vario rango alle due mogli (l’umile e ordinaria Teresa e la più nobile, snob e internazionale Naomi) e le droghe, come il metaqualone, la marijuana, il crack e soprattutto la cocaina, assunta in dosi che avvicinano nuovamente Belfort al Tony Montana di Scarface o altri storici gangster del grande schermo. Gli stupefacenti sono il vero motore della parabola criminale di Wolfie: lo gonfiano, lo dopano, e poi lo paralizzano, fino allo scoppio della sua bolla speculativa.

“È tutto un Fugazi” Lo schema fraudolento per cui Belfort è portato in tribunale e poi condannato è in effetti quello generalmente conosciuto in campo finanziario come pump and dump (letteralmente, “gonfia e sgonfia”): Belfort pompa artificialmente i titoli piazzati dai suoi broker sul mercato per conto di ignari risparmiatori. Ma ne possiede egli stesso delle quote consistenti attraverso prestanomi (come l’amico Brad) e società di comodo. Il valore delle azioni sale fino al momento in cui i prestanomi “sgonfiano”, ovvero vendono, i titoli. Il truffatore può così realizzare una plusvalenza a svantaggio degli altri investitori. Il pump and dump è solo una delle numerose forme che può assumere il reato di manipolazione del mercato. Si tratta di fatto della diffusione di notizie false, artificiose e fuorvianti finalizzate all’alterazione del prezzo di strumenti finanziari come azioni, obbligazioni, valute e altri strumenti generalmente quotati sul mercato regolamentato. Le abilità manipolatorie di Belfort emergono già nella boiler room di una piccola società di Long Island, la Investor Center, specializzata nel trading di titoli dal valore di pochi centesimi di dollari, meglio conosciuti come penny stocks o pink sheets. È l’unico in giacca e cravatta in mezzo a una decina di improbabili broker di provincia, deciso a ripartire dopo lo sfortunato esordio caduto proprio di Black Monday (il crollo di Wall Street del 19 ottobre 1987). Con grande abilità retorica, Belfort convince un piccolo investitore dall’altra parte del telefono ad acquistare alcune quote della Aerotyne, una società sconosciuta con sede in un garage dell’Iowa, ma dall’enorme potenziale sulla frontiera dell’innovazione tecnologica nella produzione di radar a uso civile e militare: tutte balle gigantesche. Grazie a questa falsa rappresentazione Belfort non solo convince l’acquirente a investire, ma anche il datore di lavoro ad assumerlo: i suoi nuovi colleghi hanno già individuato in lui l’artista della deformazione della realtà. La frode - intesa come rappresentazione falsa, intenzionale, basata sull’“estorsione” della fiducia dell’investitore ma capace di produrre grossi danni finanziari - diviene sistematica alla Stratton Oakmont, società di trading fondata dallo stesso Belfort. In particolare quando arriva il momento di compiere the big move, il passaggio dalla vendita di blue chips, ovvero titoli dal valore riconosciuto e dall’elevata capitalizzazione come Kodak (almeno all’epoca), Disney e AT&T, al collocamento in borsa (IPO - Initial Public Offering) di società sconosciute. Esemplificativa è la IPO di Steve Madden, stilista di scarpe per donne grasse. Individuato non grazie a qualche particolare algoritmo finanziario, ma nel mezzo di un’allucinazione collettiva indotta da una combinazione di stupefacenti e alcol. Quello che importa a Belfort non è il valore intrinseco delle società da collocare, bensì la rappresentazione che i suoi broker sapranno vendere ai risparmiatori. Perché, come aveva svelato a Belfort Mark Hanna, il suo iniziatore alle speculazioni criminali in borsa, “è tutto un Fugazi”: la borsa è imprevedibile per chiunque, è polvere di stelle, è tutto falso. Funziona: il titolo Steve Madden aumenta del 300 per cento nelle sole prime tre ore dal collocamento.


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Pump and dump style Ma come anticipato The Wolf of Wall Street è un film esso stesso “criminale”. Nel senso che non semplicemente rappresenta alcune delle pratiche fraudolente messe in atto da Belfort: il film utilizza tali pratiche come soluzioni stilistiche e strategie narrative. La sofisticazione delle informazioni, la manipolazione del mercato, la circonvenzione dei malcapitati clienti descrivono perfettamente le modalità con cui il film si pone in relazione con lo spettatore (e si distingue dagli altri film del genere, oltre che caratterizzarsi come tipicamente scorsesiano). Proviamo allora per un momento a equiparare la relazione tra film e spettatore a quella tra broker e cliente. Una prima possibile analogia riguarda il pump and dump della frode messa in atto dal broker. Secondo una dinamica simile, il personaggio di Belfort è costruito e agisce sulla traccia di una gigantesca speculazione; il suo “valore” s’impenna e poi si sgonfia repentinamente lungo l’intero arco del film. Metaforicamente Belfort è un “titolo spazzatura” pompato, letteralmente drogato. Il suo agire segue gli effetti delle sostanze stupefacenti che incamera e usa per mentire in continuazione a se stesso e ai suoi dipendenti sul proprio “valore”. L’intero sviluppo narrativo del film è costruito secondo un ripetuto processo di pompaggio e sgonfiaggio, di high e down, di artificioso crescendo di aspettative immancabilmente abbattuto dall’avidità narcisistica del broker. La parabola di questo outlaw antihero somiglia al grafico dell’andamento dei titoli gonfiati e sgonfiati dalla stessa Stratton Oakmont. Allo spettatore è proposta la medesima relazione “lisergica” con il personaggio: l’attrazione per il fascino di una figura iperattiva ma involutiva, dominata da una frenetica attività e mai da una reale agency trasformativa, un personaggio in delirante movimento ma senza alcun cambiamento, se non appunto nella logica del pump and dump ricorsivo. Questa modalità di costruzione del personaggio e della relazione con lo spettatore è fondata proprio sulla saturazione sensazionalista, sulla scarica energetica, sull’ipertrofia narrativa. Paradossalmente l’esito dell’eccesso è il suo opposto. Dall’iperattività si giunge in fretta all’agire inconcludente, tipico dei personaggi che non evolvono interiormente e degli eroi negativi e destinati alla punizione, nonostante il loro irresistibile fascino.

Eccitazione anestetica La dinamica che sovrappone gli estremi - la droga allo stesso tempo sovreccita e paralizza - si ritrova perfettamente declinata nella sequenza in cui il metaqualone scaduto (il “Lemmon 714”), assunto in grandi quantità da Belfort poiché privo di effetti immediati, provoca l’improvvisa semiparesi del personaggio. Nella sequenza in questione Belfort si è recato in un club vicino a casa, dove può parlare con il suo avvocato senza essere intercettato. Inaspettatamente, proprio durante la telefonata, la droga fa effetto. Belfort crolla a terra, ma sa di dover tornare in qualche modo a casa e continua a tenere informato lo spettatore delle sue intenzioni in tempo reale attraverso l’espediente formale caratteristico del film: la voice over. La voice over del protagonista accompagna l’intera narrazione raccontando soggettivamente i fatti sia al tempo passato, sia al presente. Nella sequenza in questione, nel momento in cui sopravviene la paralisi, la voice over si trasforma in una “voce interiore”: Belfort smette di raccontare e comincia a parlare a se stesso, incoraggiandosi a raggiungere (strisciando) l’uscita dell’edificio, a scendere (rotolando) le scale, a risalire sulla propria automobile e guidare sino a casa. Questa soluzione retorica produce un interessante sfasamento tra la condizione fisica e la condizione mentale del personaggio: se sul piano motorio Belfort è semiparalizzato, sul piano cognitivo la sua comunicazione con lo spettatore rimane ben lucida.


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A livello puramente ottico invece il film gioca ad associare le due “versioni”, quella oggettiva (i gradini della scala d’ingresso del club sono cinque) e quella soggettivamente distorta (gradini quadruplicati in numero), a sottolineare l’impervietà conferita dalla droga all’impresa che Belfort si trova ad affrontare.

Frodi narrative L’aspetto più interessante non a caso è che il racconto (verbale e audiovisivo) dei fatti è spesso una versione assolutamente soggettiva del protagonista, assai lontana dagli accadimenti reali: una manipolazione dell’informazione, una falsa rappresentazione, una “frode narrativa”. Solo successivamente nel corso del film infatti lo spettatore viene a sapere, con una nuova esposizione del racconto che confuta e rimpiazza la precedente, che il ritorno in auto dal club era stato tutt’altro che senza intoppi: sulla strada di casa Belfort aveva in realtà distrutto la propria vettura giungendo a destinazione senza seri incidenti e danni solo per miracolo. Questa sequenza è solo la manifestazione più lampante della modalità di esposizione dell’intero racconto: la cosiddetta focalizzazione interna. Nell’analisi narratologica e semiologica dei testi letterari e audiovisivi la focalizzazione interna corrisponde al caso in cui le informazioni a cui lo spettatore ha accesso provengono dal punto di vista (in senso cognitivo e non meramente ottico) del personaggio. Le informazioni a disposizione dello spettatore corrispondono alle informazioni fornite dal personaggio. Rispetto alla dimensione “oggettiva” dei fatti quindi il racconto si pone come “parziale”, sia nel senso di limitato o incompleto, sia nel senso che è “di parte”, e dunque potenzialmente ingannevole.

Il narratore lisergico La caratteristica fondamentale della narrazione interna di The Wolf of Wall Street consiste infatti nella distorsione delle informazioni fornite dal personaggio-narratore, il quale assume le vesti di narratore “inattendibile”. Ovvero un narratore che inganna lo spettatore fornendo una versione dei fatti non veritiera ma in quel momento inconfutabile, in forza dell’evidenza visiva e veridittiva delle immagini e del racconto. Fra lo spettatore e il narratore vige dunque una condizione di forte “asimmetria informativa”, sfruttata deliberatamente per ingannare (pur sempre con un obiettivo ludico e nella sequenza analizzata persino comico). Più che una menzogna, la parzialità e la manipolazione del racconto di Wolfie sono imputabili all’estensione dal personaggio al narratore dell’alterazione percettiva dovuta all’effetto delle droghe assunte da Belfort. Un narratore “lisergico”, veicolatore di percezioni distorte, sofisticatore di informazioni spacciate per vere (salvo rettifica…). La natura subdola e fraudolenta di siffatto narratore diviene lampante nei momenti in cui il personaggio di Belfort si rivolge direttamente allo spettatore, guardando verso l’obiettivo della macchina da presa e creando una serie di maliziosi “a parte”.

Sogno (americano) o allucinazione? L’immagine del mercato finanziario offerta, più o meno volontariamente, da Scorsese è ben lontana dall’idea di mercato efficiente teorizzata dagli economisti, in cui tutti i soggetti godono delle stesse informazioni e in cui il prezzo incorpora, immediatamente, tutte le informazioni disponibili. Come abbiamo visto, nella rappresentazione scorsesiana del mercato domina l’asimmetria informativa tra broker e investitore, si fatica a riconoscere la versione fraudolenta della realtà, a distinguere tra bidoni e aziende sane. Questa stessa asimmetria informativa è utilizzata strategicamente dal film attraverso l’uso della focalizzazione interna in funzione distorsiva.


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La manipolazione del mercato e la sofisticazione della narrazione attraverso l’adozione di un punto di vista alterato e “parziale” - tendenza su cui peraltro si fonda sia il genere del cosiddetto puzzle film o (alla Memento di Nolan, per intenderci) o anche il mokumentario e tutto il cinema “falsario” - sono gli strumenti usati da Scorsese per introdurre forse un’altra deformazione: quella del mito del sogno americano di cui Belfort si fa principe. Le sue vittime sono sempre risparmiatori inconsapevoli, quelli che la letteratura definisce in genere “investitori non sofisticati”, perfetti incapaci da circonvenire… Questa è la vera frode: l’avere ingannato l’americano medio, gonfiando (e al momento giusto sgonfiando) un sogno dal valore tutto virtuale. Più che un sogno, un’allucinazione, una visione disincantata, alterata, pompata, “stupefatta” dalla sostanza tossica che trasforma l’opportunità in opportunismo senza scrupoli.


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