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Autori Appesi

Frigo Tales Storia di un espatrio

ILLUSTRAZIONI DI Gianni Cusumano

2010 Autoproduzioni Appese



Frigo Tale’s

Spiragli di Democrazia (Amoddio)

Qualcuno era ancora intento a preparare la borsa e qualcun’altro la vita ma tutti sapevamo che nessun inferno sarebbe rimasto vergine e le nostre madri avevano già sognato per noi un altro futuro. Baluardi di ricordi archiviati, pessime concezioni di fottuti legislatori o ricerca spasmodica di una vecchia chimera: la democrazia ! Senza nomi e senza pretese ma con una sola necessità: comunicare. Ci diamo dentro sull’asfalto, nessuno di noi ha la certezza dell’arrivo e le birre stappate sono una semplice ninna nanna, dormi un poco dai. Quattro animali feriti per le vie di una città dal sorriso bizantino e la voce fioca di un impero sepolto dalle vecchie pietre. Le scalinate della cattedrale sotto il sole cocente come a Melito P.S. focacce al formaggio che mi fanno vomitare, vorremmo dormire tutti ma dobbiamo cantare le nostre bugie, tanto dio è ubriaco e se ne fotte. Certi titoloni sui giornali li ho letti davvero ma ero un ragazzino ateo bevevo e fumavo, portavo i capelli lunghi e mi nutrivo di minchiate. Poi ho incontrato Dio e non posso dire che l’evento mi ha lasciato indifferente il fatto è che avevo un casino di cose da fare e coltivavo anche gelsomini. Ma tu che sei un’ impiegato di questa democrazia, taci un poco dai. È tempo di elezioni, tempo di numeri e di verità, tempo di prese per il culo. E anche tu compagno sovversivo, cerca di svincolarti dalle retoriche, dalle grandi puttanate, da un sogno che non hai mai sognato. Fottiti ! Giù con le nostre bugie, vino bianco se ricordo bene e poi un passo un grande passo indietro di trent’anni, io tredicenne e un po’ anche voi fratelli miei bastardi. Si riparte, ma stavolta con spiragli di democrazia.

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Calante Vs Perugia (C. Calante)

Scontro impari, vittoria schiacciante 5 a 0 a favore di Perugia. Insomma, una vittoria a tavolino. Precisamente quello che Frigidaire ci aveva riservato come spazio per il nostro materiale, di cui solo 1/5 era occupato dai nostri libri ed opuscoli. L’area restante era ricoperta da bottiglie di vino e, a tratti, anche da democrazia spicciola. E carta-filtro. Serve sempre quello pacato del gruppo perché per quanto possa essere il più rompicoglioni di certo è l’unico in grado di fare un minimo ragionamento in certi casi. Quei casi in cui è così necessario farli perché si è troppo ubriachi, tanto da considerare esperienze avvincenti l’assideramento in un bosco o il gettarsi sotto la rotaia di un tram elettrico di cui si ti teme che il conducente sia Gesù. Quel pomeriggio passai a prendere in un punto non ben definito di Reggio Calabria Carnera, la persona che devi temere di più al mondo se si trova sulla macchina, -la tua-, quella piena di birre nel retro. Capii che la faccenda avrebbe potuto complicarsi in un attimo se non avessi preso in mano la situazione. Acquistai, consapevole e previdente, 4 pacchetti di cartine, 2 scatole di filtrini ed infine 2 pacchi di tabacco Pueblo. Uno per me e uno per Carnera, così in caso l’avesse smarrito (cosa tra l’altro verificatasi), gliel’avrei potuto rinfacciare con fare da fratello maggiore, cosa che mi diverte parecchio visto che adoro infamarlo gratuitamente. Era chiaro che il passo successivo sarebbe stato quello di andare a salutare le nostre rispettive ragazze prima di partire. Optammo per incontrarci presso un bar, il Royal, il posto peggiore se hai deciso di essere felice ed in pace con te stesso, perché lì qualcuno non lo sarà mai con te. Patatine e drink di terza scelta come pasto serale ci sembrò un’ottima idea. Quando ci congedammo dalle ragazze, le svariate affermazioni dislessiche del tipo: “amore non siamo proprio ubriachi ubriachi ubriachi... si forse un po’ brilli, ma non ubriachi!” oppure: “ti prometto che farò attenzione alla guida”, non le convinsero per nulla. Ricordo di esser partito sgommando con i One Dimensional Man a palla e la rassegnazione sul volto delle nostre rispettive consorti. Andammo a prendere il compagno democristiano zz Lo sguardo impaurito di una coppietta che passava di lì fece rinsavire Amoddio che in teoria doveva essere il più responsabile del gruppo. In teoria. Così salirono in macchina. Ripensai a quella scena. Fu più raccapricciante di Berlusconi quando parla di legalità e amore, cosa che succede 20 volte al giorno. Il quadro: Carnera super-intostato ululava alla luna; Amoddio bestemmiava senza vergogna e apparentemente senza un motivo; io gridavo cose irripetibili alla

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gente per strada. Un trittico di merde pronte a conquistare la collina. Arrivammo allo svincolo che porta a casa del professor Needermayer. Eravamo in ritardo di almeno un’ora e mezza. Caso volle che ad attenderci ci fossero 2 posti di blocco contemporaneamente. Presa visione di ciò 20 metri prima delle pattuglie. Voltai molto lentamente lo sguardo verso Carnera che sedeva alla mia destra, così tanto per capirne lo stato. Quando lo vidi aprire il porta filtri di latta coi denti e dalla parte sbagliata, capii che eravamo fottuti. Dieci secondi dopo il tipo con la fiamma in testa alzò la paletta, segnando inesorabilmente la fine di un viaggio mai iniziato e il sequestro del mezzo, il mio unico, povero, sporco mezzo di locomozione. L’agente alla richiesta di patente e libretto fu rapido a capire a pieno la situazione, anche perché gli diedi la carta di identità. Mi puntò un faro sulla faccia, poi verso gli altri due, e con voce tonante mi chiese: «Signor Calante lei dove andava alle superiori?». Risposi abbastanza preoccupato: «Al liceo Volta, agente». Mi disse di guardarlo in faccia. Incredibile! Lo sbirro era un mio ex compagno di classe. Anni e anni di duro lavoro nel cercare un po’ di fortuna e, per Dio!, eccola. Tre ubriachi strafatti e rilasciati tranquillamente per un viaggio di 10 ore sull’autostrada con una cassa di birra nel retro e tanta voglia di acquistare vino negli autogrill. Non succederà mai più. Il calcolo delle probabilità è inesorabile.

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Scampati alla Legge: sulla scia del Vecchio Testamento (J. Carnera) L’ago puntava a Nord. Needermayer guidava, io farneticavo, Amoddio e Calante, seduti dietro, ci passavano da bere. L’avevamo scampata. Stabilimmo, senza doverne mai parlare apertamente, che 8 litri di birra e 3 di vino sarebbero bastati per affrontare i primi 200 chilometri di viaggio. Superati quelli ci saremmo fermati a fare il pieno, Dio solo sapeva dove. La cosa, in realtà, non mi preoccupava granché. Oltre a uno zaino con pochi stracci mi ero preparato a dovere al viaggio, e molto prima di mettere piede su quella macchina. Quello che mi preoccupava sul serio, pochi minuti dopo la mezzanotte di quello strano venerdì sera delirante e speranzoso, era Amoddio. La contrazione muscolare simile a un sorriso vagamente eccitato che gli disegnava i lati della bocca era una chiara presa di posizione. Di tanto in tanto mi voltavo indietro a guardarlo, Amoddio, il nostro carpentiere della parola bellica. E lui mi restituiva quel suo sorriso sbilenco che solo, chi come noi in quella macchina densa di brutalità aveva conosciuto prima, poteva tradurre in un modo e uno soltanto: guerra. Segnavamo una linea di confine nell’asfalto freddo di una notte appena cominciata, che bruciavamo ogni secondo a più di 100 chilometri orari sul manto catramoso di un autostrada che col Sole aveva ben poco a che spartire. Delimitavamo in modo netto e irreversibile quello che eravamo da quello che saremmo stati da lì a poco. Non stavamo oltrepassando il confine. Non noi. Perché non c’era alcun confine da superare e, se c’era, era lui a venirci incontro e nessuno l’aveva invitato. Non in quella macchina almeno. Cercavamo solo di tenerci lontani abbastanza da certe frenesie voyeuristiche di Reggio Calabria. Da certe propensioni radical chic che, a nostro modo di vedere, avrebbero più che legittimato l’estinzione di buona parte del genere umano sulla faccia della Terra. Ma con quello che stavamo per fare, con quel viaggio diretti 900 chilometri più su, più in alto, nel cuore più anarchico dell’Umbria nascosta, a incontrare un pezzo di storia ancora in vita, stavamo per compiere una strage attitudinale. E in fondo al cuore, forse, ne eravamo consapevoli. FRIGIDAIRE. FRIGIDAIRE. FRIGIDAIRE. La più rude, blasfema, esplosiva violenza della parola scritta e vissuta senza censure e senza correzioni. Andavamo dritti a combattere la nostra personale battaglia al mondo mentre altri se ne stavano sicuri, al riparo nei loro pub alla moda, a bere birra e ballare stupida musica aspettando di potersi abbeverare allo stesso tavolo dei soldati al loro ritorno. Del resto, ogni popolo ha i suoi martiri e i suoi codardi di corte. Noi, che con la storia con la S maiuscola centravamo ben poco. Nessuno, chiuso in quella scatola di latta sparata sulla strada, ha mai conosciuto il fascismo “di marca”. Non Needermayer, con i suoi due metri di stazza e una

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barba così folta da non lasciare spazio al dubbio. Nessuno di noi ha mai sparato un colpo alla fine dei ‘70. Neppure Amoddio, col suo cuore quarantenne maledettamente più rosso e consapevole degli altri. Nessuno di noi ha mai lanciato 100 lire contro l’auto blu di Craxi fuori da quell’albergo nel centro di Roma. Nemmeno Calante e il suo scalpo rasato per errore. Nessuno di noi ha mai subìto prima alcuna violenza indiscriminata da parte di una gallina. Non io, col mio impermeabile blu sporco di cenere. Ci restava solo la consapevolezza che, superato quel limite, una volta fuori da quelle oscure mura medievali affacciate sulla pozzanghera umida dello Stretto, il mondo sarebbe stato ad attenderci voglioso, ebbro di peccato. Come una puttana in calore della quale nessuna Bibbia avrebbe mai parlato. Non come si dovrebbe. Né ora, né mai. Eccoli, i nuovi farisei suburbani. E quello che stringevano tra i pugni era molto più pesante e duro di qualsiasi pietra.

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...ubriachi, strafatti e rilasciati tranquillamente per un viaggio di 10 ore sull’autostrada con una cassa di birra nel retro e tanta voglia di acquistare vino negli autogrill. Non succedera’ mai piu’.

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In cerca della democrazia

Cercammo la democrazia alle 2 del mattino dentro un umido Autogrill sperduto chissà dove, superato il confine con la Basilicata. Scendemmo dalla macchina inciampando su un tappeto di bottiglie morte sparse qua e la sotto i sedili. L’olocausto del vuoto a rendere. Calante e Amoddio si precipitarono fuori in cerca del cesso e poi avrebbero fatto il pieno. Io e il professor Needermayer, invece, andammo dritti al sodo. Con le luci anemiche dei neon appiccicate addosso, come fantasmi ubriachi nel cuore di una notte indecente e senza senso, inalando benzina e tabacco a pieni polmoni aprimmo la porta del bar e fummo immediatamente travolti da una folata d’aria tiepida e dolciastra, tipica di posti come quello. Respirammo a fondo un attimo di delicatezza. Un istante gentile e accomodante. Poi la porta vibrò chiudendosi lentamente alle nostre spalle e tornammo a essere degli estranei dalla meta misteriosa che strisciavano pesanti verso il bancone. Ordinammo al barista “caffè e democrazia”. Nient’altro. Laconici e decisi. Con gli occhi abbastanza lucidi e le facce sufficientemente rosse da non lasciare nessun dubbio sul fatto che stessimo affrontando un viaggio tendenzialmente mortale, non tenendo assolutamente conto delle nuove disposizioni del codice stradale in fatto di guida in stato d’ebbrezza. La porta dietro di noi tornò a vibrare, questa volta emettendo una specie di squillo elettronico. Un Di-diiiing! atonale. Amoddio e Calante si fecero avanti a testa bassa, come ciechi che conoscevano a memoria la strada da fare. Come se non avesse bisogno di occhi Amoddio ci superò, mettendosi tra me e Needermayer, chiedendoci cosa avessimo ordinato. Aveva ancora quel terribile sorriso che gli tagliava la bocca da parte a parte, mentre dell’acqua non potabile gli gocciolava giù dalle tempie pallide, inzuppandogli il giubbotto di piume d’oca da quattro soldi. Quando la porta tornò a chiudersi, rendendoci tutti maschere tragiche dentro quella specie di teatro dell’assurdo dal menù fisso, il diaframma di Needermayer disse: «Caffè e Democrazia». Il barista sembrava essere nel pieno di una violenta crisi di coscienza. Un birillo colpito da una palla da 5 chili, che barcolla e viene giù. In quel suo mondo diabetico al gusto di glucosio, fatto di piccole certezze e poche, semplici regole da rispettare non più di 8 ore al giorno, tra un caffè corretto e un cappuccino alla crema venuto male, una pizzetta di gomma e un panino vegetariano appena scaldato, tutto poteva servire tranne quello che ora, quattro figure scure e insidiose gli chiedevano da non più di 5, lenti, lentissimi minuti: Democrazia. Amoddio si avvicinò ancora un po’ al bancone mentre con una mano si asciugava le tempie bagnate. Adesso stava guardando la vetrinetta tiepida dei cornetti.

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Dagli aloni di vapore che si stendevano sul plexiglas si riusciva a malapena a distinguere quello che c’era dentro. Poi rantolò qualcosa, come: «Quelli sono cornetti?». Il barista annuì, sforzandosi di essere l’ultimo a distogliere lo sguardo dagli occhi. «Va bene. Allora dammi uno di quelli… alla democrazia.» Furono parole violente e inaspettate. La prova concreta di un delirio di massa che aveva distrutto gli argini e che ora minacciava di invadere quel poco che restava ancora intatto dell’ordine sociale precostituito. Il rombo minaccioso della tempesta quando il sole è ancora alto nel cielo. Glielo ripetemmo, di nuovo, stavolta con calma risoluta: «Quattro caffè, un cornetto e un po’ di democrazia, per favore». Calante, con altrettanta gentilezza, aggiunse: «E un paio di bicchieri d’acqua, grazie». Il povero Cristo dall’altra parte del bancone si rifugiò nell’unico posto dove sapeva sarebbe potuto sopravvivere: l’indifferenza. “Ignora questo terribile incubo”, sembrava ripetersi in cuor suo. Sul cartellino che aveva attaccato al petto c’era scritto qualcosa, qualcosa che esibiva con la stessa fierezza di certi cani da riporto che ciondolano felici la medaglietta del loro bel collare di cuoio. Di sicuro c’era il nome che gli aveva dato la corporazione alimentare dopo l’assunzione. Si, probabilmente quello, sotto la scritta “Autogrill”. Si fosse perso avrebbero saputo a chi restituirlo. Sarà stato, che so, AutoMario? AutoFabio? AutoCarlo? AutoUgo? Chi poteva dirlo? L’unica cosa certa in tutta quella faccenda nervosa e incerta era la sua completa incapacità sul da farsi in un caso come quello. Quando un branco di loschi bastardi calabresi fossero entrati nel bel mezzo di una notte qualsiasi chiedendoti esplicitamente “caffè, cornetti e democrazia”. Affrontare una rapina, forse, sarebbe stato più facile. O almeno, più comprensibile. Ma quando c’è di mezzo la democrazia, beh, non è proprio la stessa cosa. Frustate di sguardi isterici tra noi e il barista richiedevano un intervento immediato. Perché ci sono dei momenti nella vita, quando si fanno certe domande, in cui è sempre meglio chiarire subito la tua posizione, scegliendo con cura dal vocabolario le parole più appropriate da dire, prima che la situazione precipiti, lasciandoti alle corde. «NON PREOCCUPARTI», gridai, «SIAMO SOLTANTO UBRIACHI. NON C’E’ STATO VERSO DI TROVARE DELL’ERBA PASSABILE A BUON PREZZO. ALTRIMENTI... CAPISCI, NO?». Cominciai a lacrimare, soffocando la parola “cazzo” tra le risate. Risate amare. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo! Dove cazzo era la democrazia? Dove? Mi contorcevo come un verme in cerca d’aria, piegato, abbattuto, vinto dal silen

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zio e dall’indifferenza di quel maledetto Autogrill divora uomini. Quando mi ripresi 4 tazzine fumanti attendevano immobili sul bancone. A quanto sembrava, il barista aveva affrontato la cosa da barista. Ma niente democrazia. Bevemmo i caffè, poi rubai una barretta di “cioccolato-al-latte-senza-nocciole”. Il barista si accorse di tutto e prese a correre come un matto dall’altra parte del bancone per raggiungerci. Allora buttai a terra la mia barretta di “cioccolato-al-latte-senza-nocciole” e con un piede cominciai a calpestarla nel tentativo completamente insano di nasconderla sotto un cestino dei rifiuti. Ma non feci in tempo, perché il surrogato servilista a ore mi aveva raggiunto mentre continuavo senza ritegno a prendere a calci quella maledetta tavoletta di “cioccolato-al-lattesenza-nocciole” che non voleva saperne di infilarsi sotto il cestino del cazzo. Vidi un fascio di nervi agitato chinarsi dabbasso. Poi un grembiule e un cappellino amaranto perfettamente intonati. Ci mancò poco che gli maciullassi la mano sotto gli anfibi. Calante e gli altri presero le distanze. Troppo poco spazio per gestire in quattro quella storia. Il barista si rialzò e mi porse la barretta con fare gentile. Non aveva occhi. Era come fossero stati risucchiati dietro le orbite. Non c’era più molto della dignità di un uomo in lui. Né c’era molto della barretta di “cioccolato-al-latte-senza-nocciole” che volevo rubare. Ecco il risultato di una vita privata della democrazia in tutta la sua materiale violenza, o Signore! Mi ripresi la barretta, sorridendo. L’orgoglio distrutto del barista disse: «Questa però dovete pagarla…». Le labbra gli tremavano. Non so se pagai io la barretta e i caffè o se fu qualcun altro a farlo. A quel punto aveva poca importanza. Quando la porta fece ancora Di-diiiing! e noi eravamo ormai in macchina, sputati di nuovo come globuli rossi impazziti nelle arterie buie di una penisola corrotta fino al midollo, della democrazia ancora nessuna traccia.

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Turbo Skunk e premorte sulla Salerno – Reggio Calabria

Poche ore dopo ero la preda agonizzante di una piovra allucinata. Senza speranza, prigionieri di una frastornante babele a benzina fatta di accordi distorti e discorsi più o meno interessanti, eravamo sul palco con un bel po’ di gente grossa quella sera. Aprimmo assieme ai Nirvana e tornammo a sentirci sporchi di fango, proprio come una volta. Poi attaccarono i Mad Season e furono brividi gelidi a percorrerci le vene. Quando Elio e le Storie Tese uscirono di scena devo essere svenuto, senza più voce e, soprattutto, con un forte mal di stomaco. Avevo mischiato di tutto: 2 arancini, 1 cornetto, 1 cappuccino, molti caffè e una considerevole quantità di birre e alcolici della cui provenienza stento a ricordare. E adesso stavano tuffandosi, a turno, dal trampolino che oscillava minaccioso sulla bocca del mio esofago. Un motivo in più per non rispondere al telefono. Si dice che parlare troppo al cellulare faccia venire il cancro al cervello. Io sono del parere che non importa se muori: basta aver vissuto senza la spiacevole sensazione di essersi presi per il culo. Completamente inghiottiti dall’atmosfera sulfurea di un ecosistema ambulante che avevamo contribuito a creare, eravamo spettri deformi e inconsistenti soffocati da una nebbia densa come sangue sporco. Ci rivelavamo al mondo falciati dai lampi bluastri dei lampioni che ci si schiantavano addosso dalla strada, senza pietà, uno dopo l’altro. In quella coltre di prepotenza malcelata distinguevo chiaramente la barba di Needermayer guidare. Quando si muoveva su e giù nella nebbia, squarciandola come una lama organica fatta di peli, capivo che l’uomo a cui stava avidamente aggrappata mi stava parlando. Parole che toccavano i 130 chilometri all’ora in meno di 5 secondi. E dentro quel vortice incontrollabile di nevrastenìa senza senso, l’unica speranza che avevo di salvarmi veramente era nuotare più veloce che potessi verso l’occhio dell’uragano. Quando finalmente lo raggiunsi, bevuta l’ultima bottiglia carica, trasmigrai pacificato fuori dal mio corpo. L’aria era torbida. I bastardi c’erano ancora tutti. All’orizzonte il cappellaccio infeltrito di Calante galleggiava solitario nel fumo, come una boa a mezz’acqua nel più dimenticato degli oceani. Nient’altro intorno, se non lampi rossastri che si riverberavano nella foschìa, disegnando nel cielo il sorriso di Amoddio nella versione sovietica dello Stregatto. Ricordo che la cosa mi fece ridere. Ero come una mosca impazzita che sbatteva violentemente contro il confine di vetro del totale caos umano in cerca d’una via di fuga. Nessuna stella polare da seguire, nessuna bussola. Perso nell’entropia di un corpo svenuto sul lato passeggeri in posizione fetale. Non so per quanto mi aggirai a quel modo dentro la macchina, nella versione eterea di me stesso, a galleggiare sopra quel mare infestato di fumo, in

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balìa del vento alcolico che soffiava peccaminoso dalle bocche dei miei compagni. Situazioni come quella ridurrebbero qualsiasi orologio a un mucchio di cera sciolta. Circostanze nelle quali il tempo è solo una scialuppa che imbarca acqua da tutte le parti, lasciandoti da solo ad affogare nel buio, senza salvagente né la pallida speranza di un tronco marcio a cui aggrapparti. Ero la metafora incorporea dell’impotenza. Dalì ci aveva avvisati a riguardo, molti anni prima, ma eravamo stati tutti troppo distratti per dargli retta. E avevamo sbagliato. A quel punto non mi restava altro da fare che annegare. Lasciarmi annegare placidamente nella calma piatta di quell’allucinazione rivelatrice, con qualche nozione in più sul Surrealismo. Poi un lampo, uno squillo di tromba supersonico, ed eccomi risucchiato di nuovo nel vortice. In un attimo mi disgregai, esplodendo in miliardi di particelle sub atomiche, finché ogni brandello di me non fu spinto via da una corrente invisibile e incanalato in un flusso d’aria discontinuo che portava dritto ai miei polmoni, accasciati insieme al mio corpo in stato vegetativo sul sedile davanti. Attraversai innumerevoli volte i labirinti pelosi del mio naso. Scivolai giù per la trachea come un bambino sulla giostra. Vidi da vicino i satelliti bronchiali e poi i pianeti polmonari, fin quando non precipitai sulla superficie di mercurio di un globulo rosso appena rinato. Riaprii gli occhi in quell’istante, con un rivolo di bava alla bocca e le tempie schiacciate contro il vetro freddo di una Ford grigia lanciata nel buio a poche ore dall’alba. Nelle mani di un dio col vizio del gioco e poco propenso alla sconfitta, stavamo seguendo una piccola luce verde che lampeggiava continuamente sopra la linea ormai grigia dell’orizzonte laziale. E proprio come Jay Gatsby dall’altra parte della baia, anche noi levavamo freneticamente le braccia al cielo, come se questo ci avrebbe aiutati a raggiungerlo prima, saziando una volta per tutte quel maledetto desiderio isterico di vita che ci consumava le ossa da ormai 8 ore.

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Prove di rivolta nel cesso dei gentiluomini

L’ultima pisciata in autostrada fu intorno alle 8 del mattino. Ancora un’area di sosta prima di calare l’ancora, almeno per le prossime ventiquattrore. Il professor Needermayer parcheggiò nei pressi della toilette per signori, dietro al bar. Io mi ritrovai ancora vivo, seduto dietro accanto Amoddio. Scendemmo dalla scatola affamati d’aria come se avessimo trascorso l’intera notte dentro un polmone d’acciaio senza corrente. Più simili alla versione malriuscita di un origami nelle mani di un malato d’Alzheimer che a giovani spiriti poetici decisi a conquistare il mondo. Accartocciati nelle pieghe sfatte dei nostri corpi, illuminati dai raggi di un sole che era nuovo come tutto il paesaggio intorno. Sembravamo le comparse semi nascoste di un quadro paesaggistico di fine Rinascimento. Macchie scure miscelate male al verde e all’ocra dell’ambiente intorno. Il colpo d’occhio della prossima uscita a destra, prima di fare colazione, fermi davanti all’unico cesso utile occupato da ormai quindici interminabili minuti dall’intestino crasso di Calante. Respirai quell’aria gelida come se dovessi chiedere scusa all’umanità prima di decidere di cambiare sesso, giusto il tempo di una pisciata e di una lavata di denti. In fondo, con Needermayer e Amoddio fermi come totem ad aspettare il loro turno, nessuna donna con un briciolo di buon senso avrebbe corso il rischio di avvicinarsi a quei bagni. Finito di restituire al mondo la sua materia prima affrontammo gli ultimi chilometri prima di raggiungere la “Città di cioccolato”. Lo stomaco mi faceva ancora male e non andò meglio quando Calante mi informò che, durante la notte, avevo masticato il suo portasigarette di latta fino a distruggerlo; mi ero lanciato fuori dalla macchina in corsa per pisciare, sbattendo lo sportello contro un guardrail; cercato invano e con una certa dose di irruenza la democrazia in buona parte degli Autogrill in cui ci eravamo fermati, senza mai trovarla. Da parte mia ricordavo quasi tutto, anche con una certa dose d’amarezza, tranne la faccenda del portasigarette. Per quello mi scusai. Ero tornato a sedere davanti. Needermayer aveva ripreso a guidare dopo aver condotto la nave per più di dieci ore furenti prima di decidere di cedere il timone a Calante per tentare di chiudere occhio. Amoddio, dietro, stava scartando l’ennesimo pacchetto di Camel blu mentre io facevo esercizi di respirazione per calmare i violenti attacchi peristaltici di cui ero preda, mentre mi sforzavo di pensare ad altro. Cercai di mettere a fuoco il nuovo mondo che scorreva fuori dal finestrino. Un mondo diverso da quello abusivo da cui provenivamo. Un mondo ordinato e tecnicamente perfetto, abbandonato nel silenzio dei suoi piccoli borghi di pietra sparsi qua e la tra montagne ancora vergini, dentro boschi così fitti da non tradire nulla di quel loro antico

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segreto. Qualcosa di così bello da farti provare soltanto invidia. Ci lasciammo alle spalle l’uscita per Perugia, mentre un tipo alla radio sputava merda contro un nano, un principe esiliato e la loro maledetta filastrocca patriottica. Quell’inaspettata dose di odio in FM ci restituì la voglia di uscire fuori e combattere. Di andare a riprenderci quello che ci avevano rubato con la forza quando eravamo stati troppo giovani per comprendere. L’ultima traccia ancora visibile della democrazia segnata sulla sabbia, prima che l’ultimo colpo di coda di una tempesta iniziata vent’anni prima la cancellasse per sempre. 900 chilometri dopo, col sole alto nel cielo, chiudemmo la bocca alla signorina del navigatore satellitare prima che qualcuno di noi bastardi decidesse di farle veramente del male. Lasciammo la nave da qualche parte, su una strada che sembrava uscita fuori da una di quelle pubblicità bucoliche di automobili che includono nel prezzo anche l’assicurazione furto e incendio, a far da guardia al diavolo, affacciata sul balcone del paradiso inviolato.

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Prove di rivolta nel cesso dei gentiluomini

L’ultima pisciata in autostrada fu intorno alle 8 del mattino. Ancora un’area di sosta prima di calare l’ancora, almeno per le prossime ventiquattr’ore. Il professor Needermayer parcheggiò nei pressi della toilette per signori, dietro al bar. Io mi ritrovai ancora vivo, seduto dietro, accanto Amoddio. Scendemmo dalla scatola affamati d’aria come se avessimo trascorso l’intera notte dentro un polmone d’acciaio senza corrente. Più simili alla versione malriuscita di un origami nelle mani di un malato d’Alzheimer che a giovani spiriti poetici decisi a conquistare il mondo. Accartocciati nelle pieghe sfatte dei nostri corpi, illuminati dai raggi di un sole che era nuovo come tutto il paesaggio intorno, sembravamo le comparse semi nascoste di un quadro paesaggistico di fine Rinascimento. Macchie scure miscelate male al verde e all’ocra dell’ambiente intorno. Il colpo d’occhio della prossima uscita a destra, prima di fare colazione, fermi davanti all’unico cesso utile occupato da ormai 15 interminabili minuti dall’intestino crasso di Calante. Respirai quell’aria gelida come se dovessi chiedere scusa all’umanità prima di decidere di cambiare sesso, giusto il tempo di pisciare e sciacquarmi la bocca. In fondo, con Needermayer e Amoddio fermi come totem ad aspettare il loro turno, nessuna donna con un briciolo di buon senso avrebbe corso il rischio di avvicinarsi a quei bagni. Finito di restituire al mondo la sua materia prima affrontammo gli ultimi chilometri prima di raggiungere la “Città di cioccolato”. Lo stomaco mi faceva ancora male e non andò meglio quando Calante mi informò che, durante la notte, avevo masticato il suo portasigarette di latta fino a distruggerlo; mi ero lanciato fuori dalla macchina in corsa per pisciare, sbattendo lo sportello contro un guardrail; cercato invano e con una certa dose di irruenza la democrazia in buona parte degli Autogrill in cui ci eravamo fermati, senza mai trovarla. Da parte mia ricordavo quasi tutto, anche con una certa dose d’amarezza, tranne la faccenda del portasigarette. Per quello mi scusai. Ero tornato a sedere davanti. Needermayer aveva ripreso a guidare dopo aver condotto la nave per più di 10 ore furenti prima di decidere di cedere il timone a Calante per tentare di chiudere occhio. Amoddio, dietro, stava scartando l’ennesimo pacchetto di Camel blu mentre io facevo esercizi di respirazione per calmare i violenti attacchi peristaltici di cui ero preda, mentre mi sforzavo di pensare ad altro. Cercai di mettere a fuoco il nuovo mondo che scorreva fuori dal finestrino. Un mondo diverso da quello abusivo da cui provenivamo. Un mondo ordinato e tecnicamente perfetto, abbandonato nel silenzio dei suoi piccoli borghi di pietra sparsi qua e la tra montagne ancora vergini, dentro boschi così fitti da non tradire nulla di quel loro antico segreto. Qualcosa di così bello da farti provare soltanto invidia. Ci lasciammo alle spalle l’uscita per Perugia, mentre un tipo alla radio sputava merda contro un nano, un principe esiliato e la loro maledetta

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filastrocca patriottica. Quell’inaspettata dose di odio in FM ci restituì la voglia di uscire fuori e combattere. Di andare a riprenderci quello che ci avevano rubato con la forza quando eravamo stati troppo giovani per comprendere. L’ultima traccia ancora visibile della democrazia segnata sulla sabbia, prima che l’ultimo colpo di coda di una tempesta iniziata vent’anni prima la cancellasse per sempre. 900 chilometri dopo, col sole alto nel cielo, chiudemmo la bocca alla signorina del navigatore satellitare prima che qualcuno decidesse di farle veramente del male. Parcheggiammo la nave da qualche parte, su una strada che sembrava uscita fuori da una di quelle bucoliche pubblicità di automobili che includono nel prezzo anche l’assicurazione furto e incendio. La lasciammo lì, a far da guardia al diavolo, affacciata sul balcone del paradiso inviolato.

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L’uomo nero, tortino di formaggio e stato d’incoscienza ai piedi di Fontana Maggiore Ci arrampicammo su strade di pietra in cerca di un bar. Bere caffè era ormai solo una scusa per fumare sigarette senza necessariamente aprire le ultime bottiglie di vino scampate alla notte. I buoni propositi, almeno da parte mia, c’erano tutti ma il professor Needermayer non la pensava allo stesso modo. Era profondamente convinto che avremmo dovuto cercare al più presto una taverna, per sederci e riprendere le forze. Era in uno stato di veglia autoindotta da più di ventiquattr’ore e, arrivato a quel punto, l’ipotesi di dare uno sguardo all’orologio non lo sfiorava nemmeno. Io e gli altri evitavamo di rispondergli direttamente perché, se lo avessimo fatto, ci saremmo ritrovati a vomitare bile e vino nel cesso di una anonima osteria perugina alle nove di uno strano mattino di fine febbraio. Tenevamo lo sguardo fisso sui ciottoli della strada, io, Calante e Amoddio. Provavamo a non dar fiato alle trombe, a concentrarci su cose positive: il canto degli uccelli, l’eco di un cane che abbaiava chissà dove, il panorama, cose così. Perché sapevamo bene che, su una ipotetica scala temporale, un alcolizzato precede sempre di almeno mezz’ora un alcolista. O “forte bevitore”, come ci piaceva definirci. Non ci sarebbe dispiaciuto quindi, almeno per una volta, arrivare dove saremmo comunque arrivati con un po’ di ritardo. Ci limitammo a ignorare Needermayer perché, credo, non avevamo abbastanza palle da ignorare la scimmia isterica che ci ballava sulle spalle. Giocammo a fare i turisti. Attraversammo un labirinto di stradine che si incrociavano come tessuti nervosi, fino a ritrovarci a percorrere il corridoio di un grande edificio che portava a un belvedere. Da lassù era come poter stringere tra le dita il mondo intorno. Foligno, Assisi, Spoleto, punti scuri su una distesa di terra verde senza fine. Dominavamo il Trasimeno ruttandoci contro senza troppe implicazioni morali. Conquistavamo la collina e, soprattutto, del nostro inferno nemmeno l’ombra. Assorbivamo ossigeno e imprecavamo contro Amoddio e la sua stupida macchina fotografica. Sì perché, come ogni buon testimone di passaggio, anche noi ci mettemmo in posa. Ghigni deformi impressi nella memoria digitale di una fotocamera in mano a un collerico schizzato del cazzo che non vedeva l’ora di poter gridare in pubblico la sua personale visione dell’animalesco universo femminile e della cristianità in generale. Non c’era poi molto di che fidarsi di uno che scambiava una donna per una vacca con la stessa -e a tratti innocente- facilità con cui era capace di scoparsela, magari sull’altare maggiore di una tranquilla Chiesa di paese. In senso letterario, ovviamente. Concedemmo qualche scatto anche a Calante prima di rimetterci in cammino. Calante era il più silenzioso tra noi. Con quel suo cappello di lana nero tirato giù sulla faccia e l’impermeabile di finta pelle era la variante gotica di un postumo di sbronza a base di vodka e Campari preparato ad arte da una misteriosa quanto

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abile barista magrebina in un sordido bar di Reggio Calabria. Perché le cose andarono così la sera prima di partire. Come quando strappi via un adesivo da un foglio di carta, frammenti essenziali dell’umanità di Calante erano rimasti appiccicati sul tavolo di quella bettola, 900 chilometri più a sud. In più, a differenza di Amoddio, la macchina fotografica di Calante, con quello schermo così piccolo, non era davvero all’altezza della situazione. Per gente come noi, abituata a vedere Dio fin nei più piccoli dettagli della vita, quella non era una cosa da poco. Proseguimmo la nostra avanscoperta a piedi e arrivammo nei pressi di una piazza. Tutt’intorno eravamo circondati da blocchi di pietre e mattoni assemblati uno sull’altro che ospitavano una delle più antiche università del Paese. Gente d’ogni età, razza e colore saltava fuori dal nulla per poi sparire, completamente assorbita dai viottoli da cui erano comparsi. Facevano questo senza alcuna fretta. Ci passavano accanto con passo lento, sfiorandoci senza timore, incuranti dell’indecenza che trasudavamo sotto quei vestiti male assemblati. La percezione che avevo era quella di un posto dove la propaganda del terrore non aveva ancora attecchito o, se lo aveva fatto, non era scesa poi così in profondità da sfigurarlo del tutto. Non è un caso che negli ultimi 10 anni fossero stati proprio un pugliese e un’americana del cazzo a importare violenza e terrore in quella pacifica comunità umana. Visitammo ancora un negozio di dischi jazz e un mercatino dell’usato. Ci facemmo largo tre le strade antiche scansando clown in cerca di denaro e una pittrice ambulante col culo grosso, fino a un piccolo market nascosto in un vicolo. Prima di entrare Needermayer disse che la gita era finita. Che avevamo visto tutto quello che c’era da vedere. E che era ora di bere. Tutta quella dose di novità cominciava ad annoiare. “Ci siamo”, pensai. Ancora poche ore e avremmo seminato panico e blasfemìa in nome della buona letteratura. Non restava che aspettare e godere ancora un po’ di quel sole e di quell’aria prima che marcissero, come tutto il resto, nella nostra memoria breve. Finimmo di mangiare panini e tortini al formaggio seduti sulle gradinate di una vecchia cattedrale, o una cosa del genere. L’appuntamento col nostro contatto era fissato per mezzogiorno. C’era ancora un’ora buona da sopportare. Per ammazzare il tempo, la barba umida di birra di Needermayer iniziò a chiedere ai passanti delle indicazioni da turismo ossessivo: «Scusi, per casa Guede?» Nella sua mente distorta, suonò come il sanguinario equivalente senegalese di “Casa Vianello”. La battuta non era male, devo riconoscerlo, non fosse stato per quella sfumatura pulp che la gente interrogata sembrava non apprezzare. Fu in quel momento che iniziai a sentirmi veramente osservato. Osservato male. Alla

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fine mi sdraiai su quelle scale di pietra, col sole tiepido che mi batteva in fronte. Guardai per un po’ il cielo, poi girai la testa verso la piazza, e Calante e Amoddio andavano via chissà dove. Li vidi allontanarsi mentre le mie palpebre calavano il sipario sulla prossima mezz’ora. L’aria sapeva di vomito fresco. Del vomito che qualcuno aveva lasciato a seccare a pochi centimetri dal mio letto di pietra.

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Molto vino, troppe parole, e una Chiesa sconsacrata Andy Zampata, il nostro contatto, ci aspettava sulla soglia di una Chiesa sconsacrata pochi minuti dopo mezzogiorno. Andy portava i capelli sulle spalle, lisci, neri. Un cappello a tesa larga, una giacca di velluto scadente, jeans scuri, roba da poco. Quell’aria che aveva, da fighetto radicale con lo stomaco pieno, non lasciava sperare niente di buono per il prossimo futuro. Eppure, se è vero quello che si dice sulla natura ingannevole delle apparenze, beh, Andy vuotò subito il sacco dicendo: «Ci sarebbero 10 litri di vino da prendere giù ai parcheggi. Se la cosa non vi stanca troppo, qualcuno potrebbe venire con me a darmi una mano». Inutile dire che facemmo a gara. Alle 15 di quel pomeriggio troppo caldo per essere febbraio, la metà di quei litri erano già a far festa nelle nostre vene. Dopo aver risalito più volte la città su una giostra di latta senza pilota, con Andy, il nostro contatto, e un grasso napoletano ridanciano, godevamo finalmente del riposo dei guerrieri, seduti intorno a un tavolo di plastica bianco, a bere del buon vino e fumare erba. M-A-R-I-J-U-A-N-A. Si dissero cose e se ne fecero altrettante, ma non potete pretendere troppo da questo povero testimone. Ricordo Calante, che cercava di far venire fuori note da una chitarra elettrica spenta. Amoddio, che andava e veniva da un negozio di dischi lì di fronte, sperando di capirci quel tanto che bastava sull’hip hop da non fare un regalo di merda al figlio adolescente. Il professor Needermayer, che si tratteneva dallo stappare le ultime bocce di rosso di casa per far piacere al nostro ospite, l’ispiratore del nostro viaggio, la meta ideale delle nostre vite: Vincenzo Sparagna. C’erano dei banchetti ordinati lungo le mura, sotto le volte affrescate della Chiesa. Banchetti di plastica dura, bianca. Banchetti di Frigidaire. Sopra, gli sforzi intellettuali di una intera generazione che aveva colpito più duro possibile negli anni ‘80. Qualcuno adesso era morto, e quelli rimasti cercavano di capire di chi potevano fidarsi. Ce n’era di che vagliare. Scrittori, disegnatori, cineasti, musicisti, ognuno poteva dirsi parte di un “collettivo” di guerrieri. Certo anche noi, non fosse stato per il terribile aspetto che aveva il nostro tavolo di plastica, dura e bianca. Macchie di vino, peperoni fritti offerti dal napoletano ridanciano sparsi un po’ ovunque, semi di canapa, cicche, e, naturalmente, la nostra proposta culturale: il numero 00 della Pergamena Appesa. Nient’altro che un resoconto accurato delle derive alcoliste di un branco di uomini senza speranza. Appestammo di quella roba buona parte dei banchetti intorno senza troppi problemi. Poi brindammo a qualcosa. E poi a un’altra ancora. E un’altra ancora, e l’ultimo bottiglione da 5 era

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ormai bello che andato. Vino bianco di Napoli. Guardai l’orologio. Mancavano pochi minuti alle 4. Il sole si ostinava a bruciare su in cielo, mentre gente d’ogni specie entrava e usciva dalla Chiesa. Gente curiosa, gente che supportava, gente che forse non aveva niente di meglio da fare. Uno dopo l’altro passavano distrattamente davanti il nostro miserabile banchetto. Facevano passerella mentre in testa mi andava senza sosta la 4a di Mahler. Una coppia di hippie profumati, un giovane intellettuale in giacca di velluto, qualcun’ altro che non ricordo, ma tutti bevevano dal nostro vino. Si fermavano giusto il tempo d’un bicchiere, ci squadravano con fare saccente, lo sguardo di chi non ha niente da dire, e poi andavano così come erano venuti. Ma noi offrivamo. Offrivamo a tutti. Poi, non so quando, il sipario si aprì. Tornai dal cesso con la patta ancora slacciata e dall’altra parte del banchetto, del nostro sguaiato banchetto, c’era questo vecchio barbone adorabile. Una giubba di piume d’oca malconcia, un pantalone di tuta grigio e un cappello di lana rosso che a malapena riusciva a coprirgli una testa piena di capelli lunghi e bianchi. Needermayer stappò il vino di casa. Ebbene, eccoci! Fiato alle trombe! S’alzi il maledetto sipario! Ode al Re! Ode al Re! Il Re beveva esattamente come tutti gli altri e finimmo nel cesso della Chiesa a fumare erba e a maledire i cineasti di prima leva che avevano rubato il tempo alle letture del professore. Fumammo M-A-R-I-J-U-A-N-A. Poi persi di vista i miei compagni. Troppo fatto d’erba e vino per poter dare una descrizione accurata di quello che avvenne da lì in avanti. C’era una ragazza, nel cesso dei maschi, con me e Calante. Una ragazza con i denti consumati dall’odio che chiedeva cartine e sigarette come fossero aria. C’era Calante, di sicuro... Needermayer non lo vidi. E poi ancora il barbone adorabile, che mi passava da fumare. Fuori, fuori da quel ridicolo delirio d’onnipotenza letteraria, altri continuavano a leggere sui troni consacrati all’innocuo. Per noi, chiusi in quel cesso, la verità era lì dentro. Sporca e dritta al cuore. Come si doveva. «Sparagna, il nostro reading lo facciamo nel cesso!», dissi. Sparagna rise. Ma insistetti: «Noi, il nostro cazzo di reading lo facciamo qui in questo cesso!». Poi le urla di Amoddio si riverberarono sulle piastrelle annerite del WC e tutti uscimmo fuori ad ascoltare il nostro nuovo profeta.

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Ebbene, eccoci! Fiato alle trombe! Autori S’alziAppesi il maledetto sipario! Ode al Re! Ode al Re! Il Re beveva esattamente come tutti gli altri e fiFinimmo nel cesso della Chiesa a fumare erba

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Peste e cornuti siete i benvenuti

(F. G. Needermayer) Che cos’è la peste? È una virgola prima della frase “si sta morendo”. Era il XIV secolo dopo la crocifissione del figlio di cotanto padre e la città era invasa dai batteri. La quarantena era un modo di dire. La lotta alla cosiddetta peste nera era una battaglia persa in partenza. Chi se non i soldati della confraternita potevano pensare ai corpi e alle anime dei dannati in un momento come quello? Santa Maria della Misericordia li avrebbe potuti abbracciare tutti con il suo amore e ne avrebbe di certo rallegrato gli umori nel cammino terminale. Santa Maria della Misericordia meritava di avere una casa tutta sua. Quando costruirono i miei fianchi, quadrati ed alti a sufficienza per creare attorno un ambiente ospitale, cominciai davvero a sentirmi parte di qualcosa. Qualcosa di reale, non nel senso regale del termine perché la mia confessione ne va fiera della propria indipendenza da ciò che è materiale. Qualcosa di reale perché tangibile. Come il coccobacillo psicrofilo conosciuto come Yersina Pestis. Lo scopo era quanto di più terreno si possa pensare per una figura tanto mistica come la mia. La causa è l’effetto ma se poi è effettivamente la causa a creare lo sproloquio cosa avrei dovuto pretendere dai miei ospiti? Devozione? A volte. Compartecipazione del bene? Una volta alla settimana. Proselitismo? C’era un incaricato, un amanuense, che ne disegnava un grafico al giorno fino all’avvento del chip che avrebbe rivoluzionato il mondo per come lo conoscevamo. La pioggia ha solleticato i miei decenni. La neve mi ha coperto le spalle più di quanto non possiate immaginare, leggera e bianchissima nelle notti più buie e fresca ma acida dalle inquinanti fattezze progressiste. Ho baciato il sole e me ne innamorai. Ne ho sentite di stronzate in tutti questi anni ma che dire di quella mattina di un ultimo sabato di Febbraio (sarà stato il 2010) in cui sento bussare alla porta quattro stranieri? «Ma… possibile che sia chiuso?» (Certo, coglioni, è proprio chiuso, vi sembra aperto?) «Ma… come fa una Chiesa ad essere chiusa? Se fossi un pellegrino in cerca di carità devo pensare di aver sbagliato a bussare a questa porta?» (Mi sa che siete davvero all’indirizzo sbagliato, sarò anche un Chiesa ma sono sconsacrata: vedete crocifissi qui fuori? Vedete per caso l’orario delle funzioni?) «Ma che cazzo, Dio si riposerà di tanto in tanto in tanto, no?» (No, Dio non riposa mai e comunque anche se si concedesse una pennichella non lo farebbe dentro queste quattro mura) «Andy!» «Ehilà!» «Andy, wow!» «Cazzo, ce l’abbiamo fatta!»

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(Se c’è una cosa che non ho mai capito è il rafforzare i concetti con osservazioni stupide: se siete qui, qualunque sia il motivo per il quale siete qui, mi sa proprio che ce l’avete fatta.) Le mie pareti erano trafitte da chiodi per una mostra che, stando a quel che mi era sembrato di capire, raccoglieva parte della sterminata opera culturale di personaggi tanto improbabili da farli apparire maledettamente veri. Vignette e parole, quadri e sculture, rottami riadattati all’occorrenza e forse anche una teca con dei serpenti, non ho capito bene… «10 litri di vino.» «Minchia Andy, sei un amico.» «Chi viene con me? Sono in macchina, ho bisogno di aiuto.» «Eccomi Gennaro.» «Arrivo.» «Non c’è bisogno di tutti, sono solo 10 litri..» «Appunto! Dobbiamo venire tutti.» «Dai io sto qui. Ti fermi pure tu?» Credetemi, non ho mai capito perché l’uomo debba per forza complicarsi la vita. Io sto qui da quando ne ho memoria e sto bene: mai rotto i coglioni a nessuno, io. Mai avuto a che ridire sulla quantità di zucchero dentro una tazza di caffè perché il concetto di dieta non l’ho ancora capito del tutto. Io non qui. Questo è il mio posto e ho imparato a rispettarlo. Gli uomini sono gentaglia, per quanto mi abbiamo fatto così grande e bella, per quanto possano aver adornato la mia pancia con pitture che il tempo ha portato lentamente via, come polvere, gli uomini sono gentaglia. E penso proprio che il concetto che ho sentito mille volte, quello sì che l’ho veramente capito, del “Polvere sei e polvere ritornerai”, sta tutto in questa breve intromissione nel mondo di carne. “I poesii non su poesii.” “Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino.” “Marx non ha mai coltivato gelsomini.” Ne ho sentite davvero tante di stronzate nel lungo trascorrere il mio tempio al mio posto ma stasera qualcuno ha tutte le carte in regola per cadere sotto i colpi del mio nefasto crollo. Nefasto e liberatorio. Un pasto anche un po’ libertario. Un masso al tuo breve frasario. Collasso al mio lungo inventario. Crollerò e sarà carne tra la carne. Crollerò sulle frasi di carne di questi peccatori. Beoni. Bestemmiatori. Pragmatici. Ossessivi. Compulsivi. Capelloni. Occhialuti. Stonati. Sbarbati. Negati. Barbuti. Infiammati. Infettati. Dogmatici. Pervertiti. Devoti. Ammaliati. Ingobbiti. Soggiogati. Cassintegrati. Approfittatori di sorta. Cornuti. Crollerò. E tu, piccolo topolino crocifisso proprio di fronte al mio enorme portone sulla volta centrale, non potrai fare nulla per salvarli.

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CrollerO’. E tu, piccolo topolino crociFisso, non potrai far nulla per salvarli.

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Vuoti d’aria, smarrimento di massa e vino “offerto” Amoddio barcollava ai piedi dell’altare maggiore. L’asta col microfono messa da parte, una bottiglia di bianco in una mano, qualche foglio stampato nell’altra. Con le parole che gli schizzavano di bocca come se non avessero altro tempo da perdere, era il nostro personale atto d’accusa a Dio. Il nostro punto di vista privilegiato sul mondo e l’umanità in tutta la sua indecenza. Il nostro megafono generazionale. Il sogno proibito di un bimbo che si avverava. Con Calante e Needermayer salii anche io sull’altare a consumare il sacrificio. Le persone andavano e venivano come le luci dei neon sul soffitto. Se ne stavano tutti prudentemente acquattati alle pareti più esterne della Chiesa, vicino l’uscita. Intorno a noi, un vuoto semisferico di timore reverenziale. Dal mio angolino semibuio vedevo nitidamente la rabbia del ventesimo secolo abbattersi contro madri, padri e sorelle di tutti, senza distinzione di classe. Il verbo di Amoddio: la rivalsa di un povero Cristo su Cristo in persona. Eppure, nonostante le urla, le invettive, gli sputi, la canottiera sporca di vino, il “pubblico” sembrò comprendere e applaudì. Finita una poesia sembrava che avessero bisogno di averne ancora. Credo ci sia lo stesso principio dietro a questioni più complesse, come la tossicodipendenza o l’alcolismo. Forse anche le religioni. Superata la soglia della paura preventiva, alla fine comincia a piacerti e allora non ne puoi più fare a meno. Fu questo l’effetto che le parole di Amoddio fecero alla gente. Ne erano sconcertati. Profondamente sconcertati. Ma ne avevano un bisogno disperato. Come cani in cerca d’ossa. Andò avanti a quel modo per quasi un’ora, poi qualcuno dell’organizzazione disse che “bisognava lasciare spazio alla band”, la band di Andy. La stessa proposta musicale in chiave acustica sopravvissuta a “Mi scopo la vacca di tua sorella!”e “Padre! Ma che cazzo di padre sei?”. Andy attaccò a suonare ma dopo quello che era appena successo, era come assistere impotenti alla performance canora di un uomo orrendamente sfigurato da una belva infernale che tentava di non stonare sugli accordi di una chitarra acustica. Decisamente troppo per le spese che avevo preventivato per quel viaggio. Così andai a rubare del vino. Qualcuno dei ragazzi, degli altri guerrieri, ne aveva lasciate delle bottiglie ancora pronte all’uso “nascoste” nei pressi del cesso. Dovevo bere. Bere e, soprattutto, procurarmi da bere. Andy era, anzi è, senza dubbio un ragazzo a posto. Per lo meno, più a posto di tanti altri con cui ho avuto la sfortuna di avere a che fare. Ma per me, in quel momento, era davvero difficile da reggere. Sarà per la prossima, amico mio. Fu la volta del professor Needermayer sull’altare. Decise di leggere della roba in dialetto calabrese. Roba che solo noi, stretti in

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Amoddio barcollava ai piedi dell’altare maggiore. Con le parole che gli schizzavano di bocca come se non avessero altro tempo da perdere, era il nostro personale atto d’accusa a Dio.


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cerchio intorno a lui, potevamo comprendere. Alla fine di ogni lettura io, Calante e Amoddio sembravamo scimmie impazzite di fronte un casco di banane mature. Grugnivamo partecipi e solidali, con la verità nelle nostre mani. Un democratico esperimento di comunicazione tra specie che qualsiasi uomo di buona volontà si sarebbe sforzato di capire, se solo lo avesse voluto. Cose, senza dubbio, al di fuori dell’umana comprensione. Cose che mantennero la gente a una dovuta distanza di sicurezza. Needermayer lanciò i fogli per aria quando venne il mio turno. Poi lessi qualcosa. Qualcosa che, come tutti, mi era costato un sacco di vino e un sacco di tabacco. Cose che avevano a che fare col diavolo, con le mie donne passate, con i miei fallimenti. Cose del genere. Cose di tutti. Lessi quella roba guardando dritto negli occhi della gente. Gente distante e partecipe. Urlai a Sparagna, il nostro ideale di vita ben vissuta, che gli volevo bene nonostante tutto. Gli urlai di avvicinarsi, gli dedicai qualche poesia e lui ci raggiunse sull’altare. Con coraggio aprì le gabbie dello zoo, e il patto tra l’uomo e la scimmia mi sembrò finalmente completo. Non sembravamo poi così diversi adesso che mangiavamo tutti dalla stessa ciotola. Scesi dall’altare lasciando il dubbio delle “vagine vibranti” negli occhi di qualche ragazza mischiata alla “gente”. La messa era finita. Andavamo in pace. Calante scattava fotografie. Il napoletano ridanciano, l’unico a seguire tutta la funzione dalla prima fila senza timore, ci aspettava sorridente. Lo abbracciammo e andammo a rubare dell’altro da bere, prima di issare l’ancora verso la prossima meta: Frigolandia.

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Frigolandia, ovvero, come suicidarsi con un filtro Lasciammo la Chiesa e i suoi cessi occupati. Lasciammo Andy e la sua band. Lasciammo il napoletano ridanciano. Lasciammo la ragazza coi denti consumati dall’odio e penetrammo nel cuore freddo e umido dell’Umbria domenicale. Su per le colline buie, qualcuno di noi riuscì a leggere il cartello “FRIGOLANDIA” appena in tempo, prima di raggiungere le Marche. Trovare parcheggio non fu un problema. Non quanto lo fu invece trovare la porta giusta da aprire. Fino a poche ore prima, ci era stato detto che avremmo passato la notte come esuli, al riparo dentro le mura della Chiesa. Poi, non so bene come, qualcuno convinse Sparagna ad aprirci i cancelli del suo regno. Un regno abbastanza grande da confondere quattro poveri ragazzi del sud. Un regno così grande e ben organizzato che adesso, dopo anni di investimenti privati andati a buon fine, qualcuno di veramente potente ne rivendicava la proprietà politica. Era stato quello il motivo del nostro invito. Aiutare a ristabilire il concetto fondamentale di democrazia in un Paese che, nonostante tutto, continuava a definirsi democratico. Un Paese in cui il popolo è chiamato ad eleggere chi dovrà stringergli ancor di più le catene ai polsi. Un Paese in cui si elegge a maggioranza puttanieri, corruttori, delatori, ladri, collusi, pedofili, mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi. Un Paese diviso che ti manda a ‘fanculo solo perché esisti. Un Paese che ti odia perché non ha senso dell’umorismo. Un Paese malvagio e impoverito. Un Paese che ancora non ha capito che la speranza è al servizio dei padroni. Ma fintanto che c’è Sparagna un posto per dormire non lo si nega a nessuno, nella Repubblica Marinara di Montagna di Frigolandia. Anche a chi, come noi, il permesso di soggiorno non l’ha mai avuto. Sparagna ci aspettava seduto sul suo trono del cazzo, alle 2 del mattino. C’era questa grande cucina in legno, con un tavolo di massello lungo almeno due metri. Il re mandava giù sorsi di rosso accompagnati da formaggio fatto in casa. La sua casa. Ci sedemmo con lui alla mensa insieme a un vecchio tipo con la barba grigia che fino a prima non avevo notato. Si chiamava Pasquale e sedeva alla destra del re. Lasciammo il bottino alcolico da qualche parte sul tavolo. Cercai di non perderlo di vista, almeno fino alla quarta canna. Poi tutto divenne complicato. Il re e il suo vice ne avevano di storie da raccontare. Storie bellissime e piene d’azione che ci facevano rimpiangere d’avere solo trent’anni. Storie d’emigrazione, di donne orrende che l’avevano messo in culo al Sogno Americano, storie di riscatto. Ce ne stavamo lì ad ascoltare, a decifrare quello strano dialetto ibrido tra il campano e il laziale, mentre la testa girava, girava, girava, girava. Facevamo cerchi concentrici nell’aria cercando di seguire la storia della comare Nina, del compare Giuseppe che adesso, in America, si faceva chiamare Joseph, e cazzate del genere. Poi mi alzai estenuato. Il vino ancora nel bicchiere, le bocce rubate

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ancora sul tavolo, Sparagna e il suo vice ancora seduti. Dissi: “Ho sonno. Dove dormiamo?” Le spalle di Sparagna si appesantirono di 900 chilometri prima di darci finalmente la buona notte. Pasquale fece strada e uscimmo dal castello. Fuori, tutto era congelato così come lo avevamo lasciato prima d’entrare. Lo seguimmo di corsa, bestemmiando, fino ai nostri alloggi. Una casetta azzurra con degli oblò disegnati sui muri esterni. Dentro l’ambiente non aveva nulla a che fare con quello che ci saremmo aspettati. Letti rifatti, stufa a legna, bagni puliti. Insomma, niente a che fare con una vecchia Chiesa sconsacrata. Pasquale ci indicò le camere, due doppie, e poi Calante e Amoddio si chiusero la porta alle spalle. Guerrieri stanchi ma non vinti. Con Needermayer li mandammo a cagare mentre ci scaldavamo alla stufa a legna. Avete presente, quelle vecchie stufe di ferro che bruciano tizzoni roventi per tutto il tempo? Restammo lì a scaldarci le palle, mentre il vecchio Pasquale ci raccontava di quando era stato in galera e i detenuti, per non stare in cella, si tagliavano le vene con i filtri di sigaretta scaldati. Il fuoco brucia la resina di vetro dei filtri, solidificandola, e poi, appiattendola come si deve con le dita, riesci perfino a farti la barba. Cose del genere. Alcuni li usavano sulle vene, per farla finita. Storie tristi. Pasquale parlava. Storie interessanti e senza limiti. Storie noiose. Storie che prima o poi, qualsiasi persona di buon senso vivrà sulla sua pelle. Ecco perché così noiose. Pasquale rollava e passava, rollava e passava, passava e rollava. E storie su storie galleggiavano sul fumo grigio mio e di Needermayer, senza sosta. Storie senza fine. Storie nostre. Storie di cui prendere appunti, fossimo stati un po’ più furbi. Ma il sonno prevalse. Il sonno, prima di tutto. E tutto finì a letto. Finì con un sogno. Il sogno, prima di tutto. Chiudere gli occhi e ridere di Amoddio e Calante chiusi nella stessa stanza, immaginandoli uniti nell’amore. Sognare lo stronzo a cui hai chiesto un po’ di democrazia insieme al caffè e che non sa che fare. O la gente che ha paura di aver torto e per questo ti evita. O il vino che non finisce mai. Sognare noi sul palco coi Nirvana a darci dentro. O sull’altare maggiore di una Chiesa, allo stesso livello di Dio. O col vecchio barbone immortale che ti conduce in paradiso. O la frase dopo, migliore di tutto quello che hai scritto in tutta una vita. O sognare. Sognare la libertà di poterci leggere e ascoltare. Sognare. Sognare. Sognare. Sognare. Sognare. Sognare. La rivoluzione. Senza orrore. Senza orrore.

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Calante VS Perugia: ultimo giro (C. Calante) Per tutto il tragitto cercammo democrazia. Dove cazzo poteva essere? Cercammo e cercammo. In un caffè slavato. In 10 tazze di caffè d’orzo. In un mattino con un freddo cane. In un bicchiere d’acqua. In un arancino senza piselli e ragù scivolato dalle mani insensibili di Carnera e calpestato con sdegno. In un panino con la cotoletta di pollo. Nelle bestemmie senza apparente motivo. In una piazzola di ristoro. Nella pisciata di compagnia nella piazzola di ristoro. Nelle centinaia di sigarette fumate e scroccate a vicenda, soprattutto nelle piazzole di ristoro. Nelle lattine vuote che rotolavano per la macchina di Needermayer. Nel compendio sul comunismo-fancazzismo-pagnottismo-‘ndranghetismo realizzato da me e Amoddio sotto un tappeto di “vaffanculo stronzi, voi e i vostri discorsi del cazzo”. Nel realizzare che siamo tutti democristiani. Nel Kitekat disciolto, lanciato e incollato sulla porta automatizzata di un autogrill. Nelle risate intervallate da perdite di sinapsi. Nei kebab sbavati addosso. Nella scalinata del duomo di Perugia. Nel mercato delle pulci domenicale. Nei mal di testa. Nelle cagate negli autogrill. Nei “radio maghi” partenopei con doti paragonabili a quelle di un dio superiore. Nel sole che se ti arriva in faccia ti ustioni ma se ti metti all’ombra congeli. Nelle vie di una cittadina con troppe salite e nessuna fottutissima cazzo di discesa. Nei cioccolatini artigianali che costano un occhio della testa ma che vuoi portare a casa dalla tua ragazza altrimenti sei il solito stronzo e allora ne compri solo 5 pensando di fare comunque bella figura. In una chiesa sconsacrata. In parole dette troppo velocemente per capirne il senso. In un eco che ti rimbomba troppo forte in testa. In un tentativo andato a puttane di realizzare un reading alternativo nel cesso della chiesa sconsacrata. Nel silenzio di terrore creato da Amoddio e le sue preghiere rivolte al Signore, aspre, crude e nel contempo così candide da sembrare recitate da un bambino in cerca di conoscenza da suo padre, ma senza alcuna risposta. Nelle liriche di Carnera, acri e pungenti come il freddo tagliente di Gerace a Gennaio, smaliziate ma tremendamente consapevoli e quindi, per forza di cose, intrise di sdegno e rassegnazione come quella che avrebbe un ominide se si trovasse improvvisamente in un era post-industriale: non c’è un cazzo da capire. C’è solo da trovare del cibo. Nel dialetto Bagnarese di Needermayer, nelle sue poche parole che come un pugno sferrato a sangue freddo ti arrivano dritte nello stomaco e ti fanno mancare il fiato per lunghi interminabili secondi della tua miserabile vita del cazzo passata a farti le pugnette mentali senza capire neanche un pelo di quanta cazzo di bellezza circondi il tuo insulso corpicino e soprattutto perché, porco di un Dio, tu sei lì in mezzo e non guardi oltre il tuo naso. In una proiezione di videoclip di dubbia qualità ma che qualcuno riteneva intellettualmente fighi e, per questo, copiosamente fischiati da noi 4 dell’oca selvaggia. Nei 12 litri di vino che i ragazzi di Frigidaire poggiarono

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Frigo Tale’s

sul nostro banchetto, sbagliando grossolanamente. Nella chitarra che mi prestò il Pezzente per l’occasione, che non suonai per nulla, ma per scelta. Nella voglia di gustarsi il tutto stando dietro, senza esporsi, ma partecipando da dentro, viverla come faceva George Harrison durante i concerti con i Beatles: lo spettacolo di Wembley o Manchester visto dal palco, contemporaneamente spettatore ed autore di qualcosa che sarebbe rimasto nella storia, almeno nella nostra. Perché è più giusto fare così in certi casi. Non esporsi ma osservare ed ascoltare con entusiasmo. Perché cercare la democrazia è già di per sé sbagliato, ma uno che cazzo, ci prova. E forse la trova nella torta al formaggio dell’unico posto di Perugia che avesse una qualche similitudine con le usanze calabresi: una bottega di generi alimentari. La nostra identità: forse eravamo solo in cerca di questo. Non so se qualcuno di noi l’abbia mai trovata, ma so in cuor mio che oggi, ognuno di noi ha messo un tassello in più nella sua vita, e ora ci sentiamo un po’ più grandi, un po’ più adulti e democratici, quel tanto che basta per non incazzarti troppo se improvvisamente ti scoppia una bomba dritta nel culo, perché alla fine hai capito. Ci sei arrivato. Avevi solo bisogno di abituarti.

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Autori Appesi

Quattro animali feriti per le vie di una cittA’ dal sorriso bizantino e la voce Fioca di un impero sepolto dalle vecchie pietre.

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Frigo Tale’s

L’ultimo pieno democratico (J. Carnera)

L’ago puntava a sud. Inesorabile. Needermayer guidava, io farneticavo, Calante e Amoddio ci passavano da bere, seduti dietro. Mangiammo qualcosa in un Autogrill sputato da qualche parte sull’autostrada. In un altro comprammo da bere. 4 bocce di rosso e della birra. La missione era compiuta a metà. L’altra metà riguardava le nostre vite dalle prossime ore in avanti. In ogni caso, niente da prendere sottogamba. Nei pressi di Napoli ci sintonizzammo sulla frequenza di un santone che guariva “buttane e guajoni” per meno di un euro al minuto, senza scatto alla risposta. Amoddio e il suo sorriso aspiravano Camel blu. Calante e il suo cappellaccio di lana ancora in testa, una testa rasata per caso. Needermayer e la sua barba priva di dubbi. Era ormai buio quando trovammo la democrazia nascosta in una stazione di servizio nei pressi di Villa San Giovanni, travestita da benzinaio. Ci disse qualcosa come “Su’ tutti i stessi. Cu nchiana nchiana pensa sulu mi si faci i cazzi soi. Mi si faci fari nu pompinu”. “E di Callipo che ne pensi?” “Se mi rava na scatoletta i tunnu ‘o jornu… u votava!” Era molto più di quanto avessimo potuto preventivare, in quell’ultima fermata prima di rientrare ognuno dentro i propri loculi. Pagammo l’ingiusto per del diesel che non subiva i cali nonostante le basse quotazioni del petrolio e il motore della nave fece il resto.

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Autori Appesi

Amoddio, l’uomo nella botte in cerca di veritA’ All’incontro ricordo che improvviso’ un balletto a 2 con Carnera.

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