"Il re cominciò a conoscere che il principe era un altro re".

Page 1

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

00-pp.romane.indd 3

10/03/2015 08:32:36


— CENTRO DI STUDI ORSINIANI —

FONTI E STUDI PER GLI ORSINI DI TARANTO STUDI 2

Fonti e studi sugli Angiò, gli Orsini e gli Aragona nel Principato di Taranto

2014

00-pp.romane.indd 4

10/03/2015 08:32:36


ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO CENTRO DI STUDI ORSINIANI

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO CENTRO DI STUDI ORSINIANI CENTRO DI STUDI ORSINIANI

“IL RE COMINCIÒ A CONOSCERE CHE IL PRINCIPE ERA UN ALTRO RE” “IL A CONOSCERE PRINCIPATO DI “IL RE REILCOMINCIÒ COMINCIÒ ATARANTO CONOSCERE EPRINCIPE IL CONTESTOERA MEDITERRANEO CHE IL UN CHE IL PRINCIPE ERA UN ALTRO ALTRO RE” RE” (SECC. XII-XV) IL PRINCIPATO DI TARANTO IL CONTESTO PRINCIPATO DI TARANTO E IL MEDITERRANEO Da Storia del di Napoli di Angelo Di Costanzo, Napoli 1572 E regno IL CONTESTO MEDITERRANEO (SECC. XII-XV) (SECC. XII-XV)

Da Storia del regno di Napoli adicura Angelo Di Costanzo, Napoli 1572 di Da Storia del regno di Napoli di Angelo Di Costanzo, Napoli 1572 GEMMA TERESA COLESANTI a cura di a cura di GEMMA TERESA COLESANTI GEMMA TERESA COLESANTI

ROMA NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI – PIAZZA DELL’OROLOGIO

R 2014 OMA ROMA

NELLA SEDE DELL’ISTITUTO NELLA SEDE– DELL ’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI PIAZZA DELL’OROLOGIO PALAZZO BORROMINI – PIAZZA DELL’OROLOGIO

2014 2014

00-pp.romane.indd 5

10/03/2015 08:32:37


FONTI E STUDI PER GLI ORSINI DI TARANTO

collana diretta da

Benedetto Vetere

Pubblicazione finanziata con i fondi di ricerca Prin 2008, coord. naz. Prof. E. Cuozzo “Il Principato di Taranto (secc. XII-XV)” Unità di ricerca locali: Università Suor Orsola Benincasa (Napoli), Università degli Studi del Molise, CNR, Istituto di Studi sulle società del Mediterraneo

Comitato scientifico: Rosario Coluccia Isa Lori Sanfilippo Carmela Massaro Anna Maria Oliva Francesco Somaini Giancarlo Vallone Benedetto Vetere Centro di studi orsiniani - Lecce Coordinatore scientifico: Isa Lori Sanfilippo Redattore capo: Salvatore Sansone ISBN 978-88-98079-28-5 Tutti i diritti riservati Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2014

00-pp.romane.indd 6

10/03/2015 08:32:37


PRESENTAZIONE

Il rinnovato interesse sul Principato di Taranto, dopo i contributi risalenti alla prima metà del secolo scorso, e dopo altri succedutisi nel tempo, è testimoniato dagli studi apparsi molto più di recente, ad iniziativa del Centro di Studi Orsiniani, nella cui serie si inserisce questo volume curato da Gemma Colesanti, che raccoglie gli Atti del Convegno organizzato all’interno delle attività del PRIN coordinato dal Prof. E. Cuozzo. Il titolo è “Il re cominciò a conoscere che il principe era un altro re (1). Il principato di Taranto e il contesto mediterraneo (sec. XII-XV)”. Il tema di impianto del Convegno e del volume è, dunque, quello della “sovranità”, della plenitudo potestatis come peculiare attibuto della regalità. Dopo i contributi iniziali, infatti, di Errico Cuozzo e di Marcello Pacifico sulle origini del Principato (ma, sul tema, bisogna ora leggere l’importante contributo di Hubert Houben nel volume Un principato territoriale nel Regno di Napoli appena edito dal Centro di Studi orsiniani) vero e proprio avant propos, la centralità del tema dibattuto viene affrontata nei rispettivi contributi di Andreas Kiesewetter (Princeps est imperator in principatu suo. Intitulatio e datatio nei Diplomi dei principi angioini di Taranto (1294-1373), e di Rosanna Alaggio (La città del principe. Vita cittadina e prerogative feudali a Taranto in età anioino-aragonese). Non può sfuggire innanzitutto la complessità e delicatezza del problema soprattutto se affrontato sulla base dei criteri della giuspublicistica moderna per la quale risulta difficile riconoscere la presenza nel Medioevo degli elementi necessari alla definizione di “sovranità”, nel senso maturato appunto nell’epoca della modernità politica, e delle prerogative riconosciute nel concetto di Stato moderno. Esula, però, tale aspetto dalle problematiche prese in considerazione in questa sede. L’argomento, tuttavia, non può prescindere  Da Storia del regno di Napoli di Angelo Di Costanzo, Napoli 1572.

(1)

00-pp.romane.indd 7

10/03/2015 08:32:37


VIII

PRESENTAZIONE

dalla prospettiva della teoria giuridica medievale, alla quale ci si deve necessariamente rifare se si vuol portare la questione nel suo giusto contesto. Si ricorda solo, traendola da studi troppo noti per essere citati, la Scuola dei Glossatori e la complessa dottrina sintetizzata nella formula rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator. In essa l’Impero, definito di natura sacra (Sacro Romano Impero Germanico) sembrava rivestire della sua sovranità le nascenti monarchie nazionali. La maniera con cui si giunse alla definizione dottrinale della questione non fu del tutto semplice anche per la serie di problematiche connesse, prima delle quali, come si potrebbe dimostrare con riscontri dalla storiografia più attenta, il ruolo del Re legislatore in ordine alla natura della legge. L’imperium, perciò, è solamente e davvero del Re che ordina attraverso la lex sostanziata dall’equitas, qualità della ragione di Dio, di cui il monarca dispone per partecipationem. La sovranità medievale è nel proporsi della volontà regia come giustizia e manifestazione della ragione di Dio, alla quale il popolo non può che consentire. Tutto il corso dell’Alto Medioevo è attraversato da questa certezza; così nel IX secolo l’attività per eccellenza del re, quella legislativa sembra quasi partecipata al popolo: « Quondam lex consensu populi et constitutione regis fit ». Celebri e più tardi principi come il « quot omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet », sembrano dare altro rilievo specifico a questa partecipazione. ‘Assise’, ‘Parlamenti’ rimandano ad un potere esclusivo del sovrano, quello cioè del ricorso alla partecipazione più allargata all’atto del condere ius. Per avvicinarsi alle nostre storie, Ugo Falcando si rifugiava nell’ottativa per auspicare il più largo consenso alla successione di Tancredi a Guglielmo II. « O utinam », perciò, « plebis ac procerum Christianorum et Sarracenorum vota conveniant ut regem sibi concorditer elegissent ». Non si trattava di un semplice passaggio formale svuotato oltretutto di forza, se il filosvevo Pietro da Eboli riferisce di un Tancredi attento a riscuotere il consenso dei diversi ceti sociali: « Pollicitis humiles, prece magnos, munere faustos / Vincit, et antistes simplicitate ruit ». Viene fatta salva, implicitamente, l’imprescindibilità della funzione rappresentativa (ob vicem) del re. L’unctio, poi, posta a coronamento di un disegno evidentemente preordinato, ricondurrà in maniera ancor più definitiva il condere ius alla filiazione dalla iustitia, qualità della

00-pp.romane.indd 8

10/03/2015 08:32:37


PRESENTAZIONE IX

volontà e ragione di Dio, sempre immutabile. Per questo motivo la formula « Dei gratia », che precede il titolo del re o dell’imperatore, è esclusiva di questi, perché legata a siffatte, specifiche, prerogative, e non estensibile ad altra figura. Filippo I d’Angiò, in documenti provenienti dalla cancelleria principesca, non fa precedere il titolo di princeps Tarenti – né poteva – dal « Dei gratia » (« Philippus clare memorie illustris Ierusalen et Sicilie regis filius, princeps Tarenti »). Lo farà, invece, la moglie Caterina di Valois, in quanto « imperatrix Costantinopolitana », prima, e « principessa Tarenti », poi. Lo farà Maria d’Enghien, in quanto, a sua volta, regina di Napoli, ma non lo farà come principessa di Taranto (« principessa Tarenti, Licii et Soleti comitissa »), non lo farà Anna Colonna, moglie del principe di Taranto. Quest’ultimo, negli atti provenienti dalla sua curia, compare sempre come « princeps Tarenti, comes Licii, magnus comestabulus... ». In un atto, dato a Taranto nel 1428, è detto: « Dominante [...] in civitate et in principatu Tarenti principe, Licii et Soleti comite ». In altri documenti del 1431 e del 1443 la formula adoperata non è molto differente: « per illustrem et magnificum virum Iohannem Antonium de Ursinis, Tarenti principem », o « illustrissimo et serenissimo domino domino nostro Antonio de Baucio de Ursinis, Tarenti principe ». Il « Dei gratia » compare, invece, in documenti non provenienti né dalla curia del principe, né da quella del re. Si tratta, infatti, di documenti i cui estensori sono notai locali come Guido Ioleo, Rao Teotino, rispettivamente, notaio e iudex annalis di Nardò. Questi, nella intitulatio di un atto del 1403, riguardante il locale Monastero di Santa Chiara, fa seguire ai titoli e agli anni di regno di Ladislao quelli di Raimondo Orsini del Balzo « eadem gratia » principe di Taranto. Quello richiamato non è l’unico caso. In quattro altri documenti provenienti sempre da Nardò compare nel formulario il « Dei gratia ». Ma, come già evidenziato, nell’intitulatio dei documenti emessi dalla curia dei principi Orsini del Balzo, non ricorre mai la formula « Dei gratia ». E questo sino al periodo di massima forza e potenza dell’ultima casata infeudata del principato, vale a dire sino alla morte di Giovanni Antonio Orsini del Balzo (1463), al quale vien riservato dai suoi stessi ufficiali di cancelleria il semplice titolo « Serenissimus », « Spectabilis et Magnificus », o, più semplicemente, « Princeps Tarenti, comes Licii, magnus co-

00-pp.romane.indd 9

10/03/2015 08:32:37


X

PRESENTAZIONE

mestabulus Regni Sicilie ». Ci si aspetterebbe il contrario in chi, all’epoca, era interessato a porsi e proporsi in termini concorrenti e alternativi, anche dal punto di vista protocollare, all’unico che ne aveva giusto titolo, e cioè il re, in virtù della legittimazione conferita dal sacerdos, come puntualizzato da Innocenzo III (11981216). L’esiguo numero dei documenti neretini, al confronto della cospicua quantità di quelli provenienti dalla curia dei principi di Taranto, rende irrilevante il caso. Il formulario di questi notai locali potrebbe rispondere, infatti, a ragioni anche di eccessivo riguardo o devozione (sia pur per ragioni di opportunità), nei confronti dell’autorità più vicina e con la quale i rapporti dovevano essere necessariamente più immediati e frequenti, col risultato di indurre a “licenze”, che tali rimanevano, perché assolutamente ininfluenti sul piano dell’ordinamento istituzionale. Anzi, forse, la così evidente strumentalità nell’utilizzo della formula, indica il conto che bisogna farne. La cultura del momento, che tutto faceva discendere dalla “provvidenzialità” del disegno di Dio (R. 13, 1, « quae autem sunt, a Deo ordinate sunt »), era portata a ricondurre tutto, parimenti, ad uno stesso indice. Gli ufficiali di curia, tuttavia, come gli stessi principi, non potevano cadere (e infatti ciò non si verifica) in improprietà del genere, proprio perché consapevoli del significato di ‘scelto dal Signore’ per chi esercitava, « annuente Deo », o, che è lo stesso, « Dei gratia », autorità e potere, rappresentandolo. Avrebbero qualificato, infatti, un potere in verità derivato per concessione come fosse una sovranità altra, estranea, vale a dire ancora alternativa, al concedente. Ma i principi di Taranto non furono mai legislatori. ‘Assise’, ‘Parlamenti’ rimandano, dunque, ad un potere esclusivo del sovrano, quello cioè del ricorso, come si diceva, al popolo all’atto del condere ius. La condizione poi dello homagium ligium, e dello iuramentum, cui erano tenuti i principi di Taranto anche al tempo della dinastia angioina, in quanto investiti dal sovrano Carlo d’Angiò, padre degli stessi, era compatibile con la condizione della plenitudo potestatis (questa complessa espressione è qui usata nel senso di ‘sovranità’) riconosciuta e definitivamente ‘trasmessa’ al sovrano attraverso la consacrazione [« Per me reges regnant et conditores legum iusta decernunt » (Pr., (8, 15)]? La qualità divina, della quale si sostanziava l’ordinamento politico e sociale, rendeva granitico lo stesso. Conseguentemente, usurpa-

00-pp.romane.indd 10

10/03/2015 08:32:37


PRESENTAZIONE XI

zioni, prevaricazioni, non scalfivano assolutamente quanto tradotto in ordinamento, rimanendo, ove si verificassero, solo dei tentativi di eversione politica. Se, poi, il « Dei gratia » (‘per grazia di Dio’ ancor oggi ricorrente) rispondesse a normale invocazione bene augurante, in quanto rendimento di grazie, nello stesso tempo, all’« annuente Deo », la formula non costituisce un particolare elemento indicativo. Con questa e non con altra accezione può essere intesa l’introduzione di tale formula in un documento leccese di epoca normanna (1137) in riferimento ad Accardo II « gratia Dei dominator civitatis Licii » – neppure conte – « civitatis Licii ». Se, viceversa, dovesse riguardare la persona scelta, che regna, perciò, per la ‘grazia di Dio’, deve riportare necessariamente al fondamento dell’intervento-guida di Dio nella elevazione al massimo livello della gerarchia sociale e politica. « Per me reges regnant et conditores legum iusta decernunt » [Pr., (8, 15)]. Il sovrano, cioè, è già nella volontà di Dio; con la consacrazione essa discende sull’eletto, al quale viene così trasmessa. L’unctio riguardava direttamente e unicamente, quindi, il sovrano. L’imperium, dunque, nella sua duplice componente profana e divina, quale pienezza di poteri, non ammette limitazione di sorta. Esso esprime la presenza della sovranità in ogni parte del Regno dalla sede della magna curia, che eleva la località a “capitale”, perché accoglie, insieme alla corte, la pluralità di poteri e di giurisdizioni del re, e in particolare gli appelli provenienti dai territori provinciali o periferici, come distretti feudali o demaniali, terre e città. E qui forse è opportuno un rapido esame del ruolo delle universitates, cioè dell’amministrazione di ogni nucleo abitativo (casale, terra o città) infeudato o demaniale. Si valuti anzitutto il pensiero dei giuristi. Cassandro richiamava al riguardo il pensiero di Matteo de Afflictis, il più significativo giurista dell’età aragonese. Matteo, a sua volta, si richiamava ad autori classici del diritto comune e tra questi ad Andrea d’Isernia († 1316). Per entrambi “le res dell’università” consistono nel « facere statutum » sulle vettovaglie (« supra victualibus ») e sulle cose che sono « ad usum universitatis », una formula abbastanza ampia, ma poi limitata dall’affermazione che segue « sine quibus non potest vivere »; può stabilire il prezzo delle merci, non soltanto dei victualia, ma anche dei vestimenta, che devono ritenersi ricompresi in quelli; e delle pensiones domorum sull’esempio di Carlo d’Angiò [...]. Insomma, se si guarda bene,

00-pp.romane.indd 11

10/03/2015 08:32:37


XII

PRESENTAZIONE

il riferimento è alla sfera di competenze del baiulus, alle potestà comprese nella baliulatio, ch’è la giurisdizione territoriale minima, cioè propria a diverso titolo di ogni distretto territoriale. Non che il diritto cittadino si riducesse a questo, ma quel che ne restava fuori trovava la sua fonte quasi tutto nella consuetudo rationabilis et approbata, nelle grazie e privilegi conseguiti”. I limiti posti alle università discendono dalla ‘dottrina’ che « considerò la civitas come persona privata, unica persona pubblica essendo la civitas per eccellenza, Roma ». In definitiva « Tutte codeste limitazioni si verificano, ed è ciò che qui importa principalmente, nelle università che non hanno giurisdizione “sicut communiter sunt universitates terrarum huius regni quae non habent iurisdictionem”, dato che la iurisdictio per intero su tutte le civitates, su tutte le terrae, su tutti i castra del Regno spetta al Re ». Palermo, prima, e Napoli, poi, avevano la piena iurisdictio su tutte le città del Regno, in quanto sedi e centro del complesso di giurisdizioni, che facevano di quelle, in tempi diversi, i punti convergenti dell’intero Regno. Nel periodo di passaggio tra dinastia angioina e dinastia aragonese, l’identità e il ruolo di Napoli come capitale incomincerà a chiarirsi sempre meglio, anche se l’iteneranza della curia, in virtù della quale la sede del potere è là dove, al momento, è la curia, non era ancora del tutto desueta, soprattutto all’interno dei distretti feudali. L’attività del principe Giovanni Antonio Orsini del Balzo ne dà un chiaro riscontro: « tenente iam pridem curia nostra in quoddam locum in civitate Mathere ». Lo si vede tenere curia a Bari, Oria, Taranto, Brindisi in centri minori come Bisceglie, Capurso o Acquaviva, in quelli dell’attuale Salento ecc. Ciò non significa che non vi fosse una sede di elezione della curia e della corte principesca, la quale, per esser tale dovrebbe rispondere, senza però esserlo, ai criteri che definiscono la capitale, allorquando quella è sede degli articolati poteri e funzioni esercitati dal principe per concessione regia, quali, come nel caso di Lecce, gli uffici di tesoreria, di erariato, di bagliva, di razionale, di zecca con il personale per il conio, del consiglio, dell’archivio di curia (« mensis octobris decime indictionis Licii intus in principali archivio castri civitatis eiusdem »). La moglie dell’Orsini, Anna Colonna, risiedeva, infatti, a Lecce insieme alla suocera. I documenti della principessa Colonna sono dati sempre, infatti, in Lecce, come la maggior parte di quel che è pervenuto di Maria d’Enghien. La sede di elezione potrebbe

00-pp.romane.indd 12

10/03/2015 08:32:37


PRESENTAZIONE XIII

avere, nel caso specifico, una sua ragion d’essere nella posizione strategica di Lecce, in quanto centro della omonima contea confinante con l’altra contea di cui lo stesso principe era signore, Soleto; in quanto, ancora, prossima a Brindisi, importante centro portuale dell’Adriatico, di non scarso rilievo per la flotta orsiniana, che si spingeva sino alle coste dell’Asia Minore, oltre che verso quelle molto più vicine dei Balcani. L’immediato intervento, ancora, in Lecce di Ferrante d’Aragona, che vi giungerà pochissimi giorni dopo la morte di Giovanni Antonio Orsini del Balzo, con i suoi ufficiali, con il figlio Federico in qualità di luogotenente, non fu probabilmente priva di significato. La città, capoluogo della omonima contea, doveva effettivamente essere il cuore del principato. Era ben consapevole il sovrano, nipote dello stesso principe per aver sposato la figlia di una sorella dello stesso, di entrare nella parte nevralgica del principato, anche per i legami stabilitisi nel tempo tra la famiglia principesca e la popolazione locale. Per quale ragione, altrimenti, l’Università di Lecce dieci giorni dopo la morte del principe Orsini del Balzo, vale a dire il 26 novembre 1463, sarebbe dovuta intervenire presso lo stesso Ferrante in favore di Anna Colonna, perché le fosse dato il tempo necessario per organizzare la partenza alla volta della sua nuova destinazione? Se, nonostante l’innata spinta ad essere sul carro del vincitore, l’Università di Lecce farà appello al sovrano in nome dei « boni et optini regimenti » della principessa, per cui le si portava « devotissima affeccione e devoccione », la forza del rapporto rimanda ad una lunga, costante e sperimentata consuetudine con il governo della principessa esercitato in nome del marito. Molto opportunamente nel volume l’azione politica del principe di Taranto viene riportata alla giusta misura di emulazione di forza e di potere, sia pure sino alla provocazione e alla sfida aperta. Viene detto: « [...] governò quasi come un sovrano autonomo ». Il « quasi come » impedisce di immaginare un’interruzione (impossibile proprio sul piano dell’ordinamento e della dottrina su cui questo poggiava) della natura del rapporto di subordinazione così fissato tra principi e sovrani. Ad esempio, la consistenza del contingente militare dell’Orsini, incrementata da numerose condotte al suo soldo, non esimeva lo stesso dall’impegno assunto al momento dell’infeudazione di rispondere all’appello del sovrano, riconoscendo, così, l’ininterrotta continuità di un rapporto non mutato, conseguentemente, nella sua natura. Tentativo in senso

00-pp.romane.indd 13

10/03/2015 08:32:37


XIV

PRESENTAZIONE

contrario, come quelli fatti proprio dal principe di Taranto per sostenere ora l’Angiò, ora l’Aragona, nella corsa al trono di Napoli, rientrano – ma se ne è accennato – nella natura politica degli stessi, non trattandosi di cambiamenti nell’ordinamento. Appare impensabile, perciò, una equiparazione di poteri, proprio perché il « quasi come » rinvia, se mai, solo ad un ‘accostamento’. Il beneficiario – in questo caso il titolare di feudo – non aveva, oltretutto, accesso all’unctio, non godeva della electio e dell’acclamatio, rimanendo, così, escluso dalla pienezza di potestas del re. In conseguenza di tutto ciò, solo il depositario della plenitudo potestatis poteva ‘concedere’, tant’è che gli era riservato il licet per le subinfeudazioni. Non differente poteva essere la situazione nel periodo del principato angioino. Infatti quando Robertò d’Angiò infeuderà Leonardo di Tocco delle isole di Zante e Cefalonia, dipendenze feudali del principato di Acaia, elevandolo alla dignità di conte, di fatto, procede ad una subinfeudazione. Egli infatti si costituisce come principe di Acaia, non come imperatore di Costantinopoli (l’osservazione è di Andreas Kiesewetter), dunque, ma « sempre come signore feudale dipendente dalla Corona di Napoli ». La richiesta conferma dell’infeudazione alla regina Giovanna I è tutt’altro che un semplice e vuoto formalismo. E questo per due ragioni: in primo luogo, perché la forma, lungi dall’essere un artifizio, è, al contrario, garanzia del diritto, essendone la veste; in secondo luogo, perché, anche se tale, rimaneva sempre il passaggio, impossibile ad eludersi, che confermava l’azione legittimante della regina, riportando l’iniziativa del principe Roberto, ad una subinfeudazione, che richiedeva il licet. Cosa che Roberto d’Angiò fece, come si vede, sapendo di doverlo fare. Ciò è nella ratio dell’ordinamento feudale del Regno. Ambizioni – se ci furono – si fermarono, negli effetti, alla soglia del “quasi come”. Non si verificarono, infatti, episodi eversivi; i principi vissero sempre all’interno dei limiti fissati dall’ordinamento. Il contributo dato dalla dottrina della Chiesa sulla distinta natura dei due poteri, poneva l’uno, il temporale, in inscindibile rapporto di filialità rispetto all’altro, lo spirituale. « Quid enim honorificentius, quam ut imperator Ecclesiae filius esse dicatur? ». « Imperator enim intra Ecclesiam, non supra Ecclesiam est » (Am-

00-pp.romane.indd 14

10/03/2015 08:32:37


PRESENTAZIONE XV

brogio, Epistola XXI). Uno dei maggiori canonisti del sec. XIII, Innocenzo III, nel decreto, all’indirizzo del signore di Montpellier, « Per venerabilem », confermava la superiorità del sovrano mediante l’implicito distinguo, che escludeva categoricamente (minime) qualsiasi possibile alternativa di interpretazione: « Insuper cum rex ipse superiorem in temporalibus minime recognoscat, sine iuris alterius laesione, in eo se subicere potuit. Tu autem nosceris aliis subiacere ». Impossibile, dunque, una “quasi sovranità”. Il principato di Taranto non fu l’unico potentato, all’interno dello stesso Regno di Napoli, del quale si dicesse che “Il re cominciò a conoscere che il principe era un altro re”. Infatti, in una lettera spedita il 4 agosto 1491 a Lorenzo il Magnifico, l’ambasciatore fiorentino accreditato presso la corte Napoli, Piero Nasi, si esprimeva in identici termini riguardo ad un congiunto del principe Orsini del Balzo, Pirro del Balzo, principe di Altamura, e nello stesso tempo duca d’Andria, Venosa, conte di Acerra, Montescaglioso, Bisceglie, Copertino, signore di Mottola e San Vito. Probabilmente va posto un distinguo anche in questo caso. Un distinguo fra progetto politico tendente, comunque, a cambiamenti, realizzazione di un disegno e aspirazioni maturate nel segreto della mente. La violenza della ribellione aristocratica, inoltre, non è un fenomeno limitato all’Alto Medioevo; si pensi alla Francia del sec. XV dilaniata da Armagnacchi e Borgognoni. L’intento era sempre quello di tenere la Corona in un endemico stato di debolezza. Nel Regno di Napoli filoangioni e filoaragonesi, consapevoli in egual maniera della rispettiva indispensabilità, avevano tutto l’interesse a far ben pesare ciò sul piatto della bilancia. Il riferimento della medesima valutazione ad altri casi esclude, dunque, l’eccezionalità della situazione per il principe Orsini del Balzo, trattandosi, se mai, della diffusa consapevolezza della forza del suo contingente armato, della cospicuità delle sue risorse, della consistenza territoriale della sua (come quella del del Balzo) signoria, sempre di natura subordinata. I motivi di rancore che portarono l’Orsini a rifiutarsi di seguire con gli altri nobili il carro trionfale di Alfonso d’Aragona al momento dell’ingresso in Napoli, ritenendo dovergli spettare di precedere il corteo regale, prova come egli, al contrario, fosse tenuto a farlo. L’indispensabile unità del territorio del Regno necessitava, quindi, l’unicità della fonte legislativa. Certamente le Constitutio-

00-pp.romane.indd 15

10/03/2015 08:32:38


XVI

PRESENTAZIONE

nes di Federico II riconoscono gli ‘statuti’ ed altre fonti normative subordinate. Con un paragone che esclude ogni possibilità di interferenze, la facoltà statutaria delle amministrazioni locali, delle Universitates, è ricondotta da Andrea da Isernia alla disponibilità del privato sulle proprie cose: « Et quidem in rebus propriis possunt universitates statuere, sicut volunt, quia in re sua quilibet etiam privatus est moderator et arbiter, ut sibi placet ». Il modello è quello della complementarietà tra l’inferior e il superior, che è come dire del coordinamento tra l’ordinamento particolare e quello generale. « Dicit », dunque, « glossa, quod statutum civitatis habentis jurisdictionem contra jus scriptum Regum, vel Imperatorum non valet, etiamsi Comes, Baro, Marchio, Dominus Universitatis, qui habent jusdictionem cum causa, vel sine causa statutum tale fecerint » (Proemium, p. xxi). L’etiamsi riconduce l’attenzione sull’inefficacia di qualsiasi azione mirata ad inserirsi, interrompendolo, nel rapporto superior - inferior, sul quale si fondava l’ordinamento del Regno. In altri termini, alcun tipo di forzatura (o tentativo in tal senso) poteva pregiudicare (« non valet ») la “proprietà” della lex e della ratio per il sovrano, la cui inviolabilità e inattaccabilità proveniva dall’esser data al popolo e “data in custodia perenne e fedele” ai sudditi. L’etiamsi, ripropone, ancora l’unità dello “Stato” nell’unicità del condere ius, che, all’interno del Regno, non è proprio degli ordinamenti particolari. « Non enim possunt hi », perciò « commutare leges maiorum, quia subsunt inferiores ». Il pronome « hi » è riferito agli esponenti della gerarchia feudale immediatamente prima richiamata, a tutti i rappresentanti delle realtà territoriali (“Comes, Baro, Marchio, Dominus civitatis”). Nessuno di essi fu mai, non potendolo essere, legislator. « Inferior non potest tollere legem superioris ». Le turbolenze dell’aristocrazia feudale tendevano, è stato prima osservato, ad indebolire il potere del re; non mettevano in discussione la sua sovranità. Il radicamento nel territorio dei signori feudali consentiva, mediante il controllo e la disponibilità di risorse e di uomini, quest’azione di logoramento della Corona. La formulazione generica degli abusi feudali, dei prevaricanti atti di forza mirati a strappare privilegi in materia fiscale o pezzi dell’esercizio della giustizia, non conseguirono mai l’effetto, nel corso delle quattro dinastie succedutesi sul trono di Sicilia e di Napoli, di sostituirsi alla sovranità del re, soprattutto nella sua massima espressione, quella di fare la legge.

00-pp.romane.indd 16

10/03/2015 08:32:38


PRESENTAZIONE XVII

Alfonso I d’Aragona, che fece del Regno di Napoli a stampo feudale un regno rinascimentale, non smentisce la coniugazione tra legge ed esercizio dell’alta giustizia già riservata al sovrano del periodo angioino. Lo dimostra la creazione del Sacro Regio Consiglio: « Presso il re..., aveva continuato a funzionare tradizionalmente » – osservava Moscati – « senza competenza ben definita e prima ancora di assumere la veste di una corte suprema di appello a cui dovessero far capo tutti i tribunali del complesso di stati da lui posseduti, un Consiglio che nei documenti superstiti assume la qualifica di Sacro ». Ma già prima, sulla scorta del Liber Augustalis, le competenze degli ufficiali deputati nelle varie località del Regno all’amministrazione della giustizia riguardavano soltanto la prima giustizia (inferior). Le sentenze di questi venivano, infatti, impugnate dinanzi alla Magna Curia Vicarie. E per profili più particolari, si rammenta che, commentando la legislazione federiciana, Andrea da Isernia notava: « Additur quinta praeminentia Magistri Justitiarii, videlicet, quia cognoscit de iniuriis, oppressionibus, concussionibus factis per inferiores officiales, iudices durante eorum officio ». Il Magister Iustitiarius aveva anche facoltà di sospendere, annullandone l’effetto, sentenze di confisca (spolium), per esempio, emesse dai giustizieri « sine speciali mandato regis », anche se nell’interesse della stessa curia regia (« ad utilitatem regiae curiae »). La procedura prevedeva, quindi, la restituzione ad integrum con il risarcimento del danno (« faciat » – sottinteso Magister Iustitiarius – « possessionem restitui spoliato, et faciat a regia curia emendari damna »). Più in generale, Andrea d’Isernia, aveva già esplicitato, ove ce ne fosse stato bisogno, l’indiscussa attribuzione al re dell’alta giustizia e del potere di ricevere appelli o impugnazione da ogni tipo di ordinamento particolare: il che definisce a tutto tondo la plenitudo potestatis del re nella sua sovranità: « nam quando ad Principem appellatur, appellatio venit ad magnan curiam, et sic ad Magistrum Justitiarium, qui praeest magnae curiae ». I sovrani aragonesi interverranno energicamente sui componenti il Sacro Consiglio Provinciale in caso di abusi esercitati ai danni delle Università con l’avocare a sé illegittimamente competenze di quelle (« usurpare la loro iurisdicione de la cognicione de le prime cause zioe tanto civili quanto criminali »). Ferrante d’Aragona interveniva, in questo caso, nel 1472, a tutela dei

00-pp.romane.indd 17

10/03/2015 08:32:38


XVIII

PRESENTAZIONE

privilegi dell’Università « et homini » di Lecce, che ricorrevano in appello al sovrano, contro il Sacro Consiglio Provinciale di Otranto. Il sovrano rimetterà poi la causa all’ufficio del capitano (Libro Rosso di Lecce, II, XVII, p. 30; Ibid., LVI, p. 81). Scenario interessante, dunque, ed articolato negli aspetti presi in considerazione in questo volume. I contributi sugli antecedenti del principato di Taranto a partire dagli Altavilla, oltre a quello, evidentemente centrale, sulla “quasi sovranità” dei principi di Taranto in Età Angioino-Aragonese, con i contributi sul progredire della territorialità di questo grande feudo al tempo di Raimondo Orsini del Balzo, sulla sua crescita politica tramite l’articolazione e il consolidamento delle strutture amministrative, sul potenziale della flotta, che consentirà a Giovanni Antonio Orsini del Balzo una proiezione dei suoi interessi verso il Mediterraneo orientale, di cui la curatrice, Gemma Colesanti ripercorre alcuni momenti dei suoi sviluppi, riportando in Appendice quanto riferito nel Registro 241 della Camera della Sommaria, propongono una lettura dei processi di assetto politico, che interessarono il Regno di Napoli alla fine del Medioevo, prima dell’Età del Viceregno. Lecce, 31 marzo 2014 Il Comitato Scientifico

00-pp.romane.indd 18

10/03/2015 08:32:38


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.