Ovidio Capitani, Da Dante a Bonifacio VIII

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Giunta scientifica Maria Andaloro Ovidio Capitani Federica Colandrea, Segretario tesoriere Maria Consiglia De Matteis Raffaele Farina Carla Frova Silvia Maddalo Michael Matheus Massimo Miglio, Presidente

Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO Redazione: STEFANIA CAMILLI, CHIARA DI FRUSCIA, SILVIA GIULIANO, CLAUDIA GNOCCHI, ALESSANDRO PONTECORVI

ISSN 1826 - 1973 ISBN 978-88-89190-41-8 Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2007

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Premessa

L’intento di questa piccola raccolta di saggi, già apparsi, ma, forse non del tutto noti, specialmente quello edito nella Miscellanea Mordek, non è stato certamente quello di dare un qualsivoglia seguito alle mie precedenti Chiose minime dantesche, del 1983, nate da occasioni e curiosità disparate, non da convinzioni o, meno che meno, da maturati disegni esegetici, organici e reconditi. Non sono mai stato un dantista, non lo diverrò ora, alla fine della mia vita. Ma questa volta un convincimento, sempre più netto – almeno per me – c’è ed è rappresentato dalla viva percezione che, per uno storico del Medio Evo (non solo e non tanto della cultura medievale, ma degli scenari politici e istituzionali, in qualche modo strutturali dell’epoca, in cui Dante operò e scrisse) l’affidamento tradizionale dell’esegesi della Commedia, soprattutto, alla sottile intelligenza degli studiosi di letteratura o alla indefessa acribia di filologi raffinati, potesse lasciare ancora spazi interpretativi e, talora, diversi agli storici tout court. Specialmente quando si tratti di avvicinarsi a temi e personaggi di grande levatura e valenza storica, come spesso è avvenuto nei saggi qui raccolti. Chiedersi che cosa fosse oggi l’esegesi tradizionale “corrente” di fronte ai progressi compiuti negli studi relativi a un Bonifacio VIII, a un S. Bonaventura, a un Matteo d’Acquasparta o anche a personaggi di minor calibro, come Jacopone o Remigio de’ Girolami (quest’ultimo ancora quasi ignorato nella contestualità delle sue idee, rispetto a quelle di un supposto, ma poco probabile discepolato di Dante Alighieri) questa sì è stata una “necessaria curiosità professionale” per chi scrive. Che è ben lungi dall’averla soddisfatta: e mai lo sarà. D’altro canto, quella contestualità di lettura soprattutto in anni di celebrazioni bonifaciane non pare abbia stimolato a fondo gli storici, anche se per limitarsi ad una sola citazione 1’occasione celebrativa bonifaciana ha visto la pubblicazione di un libro di riferimento indispensabile, pur nelle ovvie cautele su alcuni punti, come quello del compianto Jean Coste, Boniface VIII en procès del 1995, e di una monografia, quella di Paravicini Bagliani, che si è cimentato, dopo decine di anni dall’apparizione del volume del Boase, London 1933, in un’impresa di grande momento cui non sempre poteva adeguatamente rispondere la “voce” biografica (Di-


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zionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia dei Papi), probamente scritta, ma ormai troppi anni fa, da un grande maestro quale Eugenio Duprè Theseider. Suggestioni appena catturate in minima parte, lo ripeto, ma da non trascurare, mi è parso. E che rinviano alle aperture delle valenze semantiche di un linguaggio politico medievale rivisitato e rinnovato completamente da Paolo Grossi e da Pietro Costa. Suggestioni esistenziali, anche, e a me care: il ricordo di Bruno Nardi, che mi fu maestro e che la costituzione di un centro dantesco a lui dedicato obbligava moralmente e scientificamente ad una particolare attenzione, allorché vecchi e nuovi amici romani, gravitanti in vario modo e varia funzione intorno all’Istituto storico italiano per il Medio Evo (l’attuale Presidente Massimo Miglio, Gennaro Sasso, Girolamo Arnaldi, Giorgio Inglese, Achille Tartaro) vollero che fossi compartecipe dell’iniziativa. La mia gratitudine è certa, al di là da divergenze di giudizio (non dantesche) sulla validità e significato di certi storici e di certa storiografia e dalla precarietà, grave e pesante, delle mie condizioni attuali di salute che mi rendono assai faticoso ogni spostamento da Bologna a Roma: per questi motivi ho chiesto di non volermi più considerare ufficialmente nello “staff” del circolo Bruno Nardi. Dove, comunque, apparirò, spero, qualche volta, senza correre il rischio di far più rumore del gatto che calpestava i morbidi tappeti del Reform Club, ma ne impermaliva i soci, assorti nella lettura de The Times.


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I testi qui raccolti sono – salvo alcune eccezioni di cui si renderà avvertito il lettore – riprodotti come sono apparsi nella loro veste originaria: quindi, stante il carattere prolusivo del I capitolo (pp. 11-27) senza indicazioni specifiche di bibliografia nelle note, che per altro sarà facile rintracciare, sia per la notorietà dei lavori citati, sia per la menzione che, per molti di essi, è fatta nella bibliografia generale posta alla fine dello stesso I capitolo (p. 25). Per quanto concerne Bonifacio VIII (pp. 29-44), si vorrà citare il volume pubblicato presso l’Istituto storico italiano per il Medio Evo nel 2006, comprendente gli Atti del Convegno organizzato nell’ambito delle celebrazioni per il VII Centenario della morte di papa Caetani: Città del Vaticano-Roma, 26-28 aprile 2004. Il capitolo concernente Bonifacio VIII è appunto la prolusione di quel Convegno, che venne pubblicata nel Bullettino dell’Istituto storico Italiano per il Medio Evo, 107 (2005), pp. 229-245. Di quegli Atti vanno ricordati, per qualche attinenza con quanto qui stampato, i saggi di P. Herde, Bonifacio VIII canonista e teologo? Dal Consilium (ca. 1277-1280) alla bolla Unam Sanctam (1301), e di T. Schmidt, Critica e revoca dei documenti: il pontificato di Bonifacio VIII, un’eredità condizionante, stampati in Bonifacio VIII. Ideologia e azione politica. Un altro volume, stampato per l’occasione, è rappresentato dall’opera assai scrupolosa ed utile di Thérése Boespflug, La Curie au temps de Boniface VIII, 2005, contenente una completa recensio delle personalità che, a vario titolo, si mossero nell’ambito dell’azione di governo – e spesso la promossero – di Bonifacio VIII: segno dell’accresciuta importanza che la Curia, nei suoi molteplici organi costitutivi, aveva assunto come moderna funzione politico-amministrativa dello Stato pontificio. Per gli altri casi, si rimanda a quanto eventualmente aggiunto e discusso alla fine di ogni capitolo, in corpo minore.


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Gli scritti qui raccolti erano stati pubblicati in: Da Innocenzo III a Bonifacio VIII, in Bonifacio VIII. Atti del XXXIX Convegno storico internazionale (Todi, 13-16 ottobre 2002), Spoleto 2003, pp. 1-20 Bonifacio VIII, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 107 (2005), pp. 229-245 L’allusione dantesca a Matteo d’Acquasparta in Matteo d’Acquasparta, francescano, filosofo, politico. Atti del XXIX Convegno storico internazionale (Todi, 11-14 ottobre 1992), Spoleto 1993, pp. 291-310 La polemica antibonifaciana, in Iacopone da Todi. Atti del XXXVII Convegno storico internazionale (Todi, 8-11 ottobre 2000), Spoleto 2001, pp. 127-148 Una debita reverentia per Bonifacio VIII? (Pg. XX, 85-93; Pd. XXVII, 2224): relazione letta il 10 novembre 2006, a Roma, nella sede dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, nell’ambito del V seminario dantesco “Bruno Nardi” Cupidigia, avarizia, bonum commune in Dante Alighieri e in Remigio de’ Girolami, in Scientia veritatis Festschrift für Hubert Mordek zum 75. Geburtstag, a cura di O. Münsch – Th. Zotz – J. Thorbecke Verlag, Freiburg 2004, pp. 351364


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Senza un’adeguata ermeneutica, il titolo di questa Introduzione potrebbe apparire una grave provocazione: verso la scienza storica, verso il lettore, e, mi sia permesso, verso chi scrive. Oltre un secolo di vicende tra le più complesse, non solo per la storia del papato, ma per la storia stessa d’Europa; l’alternarsi di ben diciotto pontefici romani, le cui biografie occupano centosessantasette pagine in 4° della recentissima e, per molti aspetti, monumentale Enciclopedia dei papi; la crisi dell’impero medievale e l’avviarsi della crisi del papato da delineare in un contributo che occuperà solo alcune pagine, sono elementi che a prima vista dovrebbero consigliare una saggia dichiarazione di “forfait”. Ma, nella mia ingenuità, ho interpretato la proposta ed il titolo come un invito a soffermarmi su di un topos della storiografia medievistica, dai confini cronologici anche più dilatati, quello che in qualche modo finalizza un secolo di storia al verificarsi di un unico fatto conclusivo, nella fattispecie il pontificato di Bonifacio VIII, la cui azione ed i cui progetti, intorno agli anni compresi tra la fine dei Quaranta e la metà dei Cinquanta, sono stati affermati come il naturale e logico coronamento di un disegno consapevole di attuazione di plenitudo potestatis che prendeva le mosse non da Innocenzo III, ma addirittura da Gregorio VII. Un volume della Miscellanea Historiae Pontificiae, apparso nel 1954, aveva per titolo Il papato da Gregorio VII a Bonifacio VIII e conteneva all’interno un saggio di Gerhart Ladner divenuto famoso, che ribadiva nel titolo un percorso continuo, pur se con “variazioni” in tema di plenitudo potestatis, appunto, dal pontificato di Ildebrando a quello di Lotario dei Conti di Segni (e so benissimo che non esiste una contea di Segni, ma che si tratta di appellativo di nobiltà fondiaria: «de comitibus Signie»). Né sostanzialmente aveva arrecato, pochi anni prima, una essenziale articolazione e differenziazione di impostazione storiografica un altro celebre saggio di Giovanni Tabacco, del 1950, su La relazione fra i concetti di potere temporale e spirituale nella tradizione cristiana fino al sec. XIV, in cui si poteva leggere: «E da lui [= Gregorio VII] s’inizia il lavoro dei commentatori e degli interpreti per darle una formulazione [all’idea del papato] teorica persuasiva e adeguata allo sviluppo delle istituzioni politiche: in ciò soltanto consiste l’evoluzione manifesta da Gregorio VII a Bonifacio III»: dove è da sottolineare quel “sol-


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tanto”, come se tutto il resto, cioè quanto concerne l’atteggiamento dei papi da Gregorio VII in poi, anche nei confronti del problema affrontato della relazione tra potere temporale e potere spirituale, fosse rimasto identico: è difficile convincersi che un Pasquale II, un Innocenzo II, un Celestino III, un Onorio III, un Gregorio X e perfino un Niccolò III o Niccolò IV – lasciamo stare Celestino V – possano essere assunti sulla stessa linea “concettuale” di un Gregorio VII o di un Bonifacio VIII. Pure a livello di informazione corrente la «lunga linea rossa dell’interpretazione» appare essere quella della continuità. E ancora nel 1996 nel libro di Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro, l’universalità del papato da Alessandro III a Bonifacio VIII diventava un punto di arrivo di un processo, visto prevalentemente dall’interno dell’amministrazione pontificia, con lo sfondo della relazione tra spirituale e temporale. A questa presentazione delle vicende del papato si devono aggiungere – oltre a considerazioni sull’attuale validità della stessa – alcune precisazioni di non poco rilievo. La storia del papato nel sec. XIII (1198-1303) non può essere inverata solo come storia dei rapporti con l’impero, anche se, indubbiamente, almeno sino alla morte di Federico II, quei rapporti costituirono una sorta di fattore condizionante per tutti i molteplici aspetti della vicenda del papato romano: ma quei molteplici aspetti che proprio da Innocenzo III erano stati in un certo modo inaugurati e sanciti nel IV Concilio Lateranense (riforma istituzionale ecclesiastica, lotta all’eresia che non vedeva – come non aveva visto Lucio III nel 1184 verso Federico Barbarossa – Innocenzo III su posizioni opposte a quelle del potere imperiale, rapporti con gli Ordini religiosi, problemi sacramentali etc.) rappresentarono pure un impegno comunque sussistente, la cui soluzione – o mancata soluzione – contribuì a fare del papato romano nel sec. XIII quello che fu, dialetticamente, ma anche parallelamente al processo del contenzioso con l’impero: o anche indipendentemente da quel contenzioso. Ciò premesso, ritengo che della linea che abitualmente si propone da Innocenzo III a Bonifacio VIII non solo si debbano metodologicamente vagliare i reali elementi di consistenza, i tempi, le motivazioni profonde, ma stabilire sino a qual punto sia lecito assumere l’operato di Innocenzo III come un “programma” e per di più un “programma-modello” per i successori, la cui azione dovesse essere giudicata positivamente o negativamente a seconda della maggiore o minore corrispondenza al modello. Basti pensare per quanto tempo si è ritenuto di dover giudicare Onorio III schiacciandone, quasi, la figura su quella del predecessore per quello che riguardava i rapporti con l’Impero; basti pensare a tutta la vicenda francescana; basti pensare ai diversi significati che assunse, nel corso dei pontificati susseguitisi al suo, la Crociata; basti pensare ai modi tenuti nel rendere controllabile la città di Roma, prima ancora del Patrimonio. Non penso minimamente di negare il significato di apertura di una nuova fase della politica della Chiesa e dell’Europa che ha rivestito il pontificato di


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Innocenzo: ma un’apertura problematica estremamente complicata dalla molteplicità delle questioni che gli si affacciarono e che sarebbe assolutamente riduttivo ricomprendere entro i limiti di una sola idea dominante, prevalente: oserei dire che si deve tentare di porsi nella posizione di chi debba e/o voglia indicare tutti i problemi, anziché stabilire una gerarchia di essi. Ovviamente, dato lo spazio, di cui si è già detto, si indicheranno solo brevissimi tratti. E cominceremo proprio dal «negotium Romani imperii». Anche se Innocenzo aveva lo svantaggio di essere nel governo della Chiesa e negli affari temporali che la coinvolgevano un “foglio bianco”, come si esprime il Maleczek, egli fu posto dalla sorte al vertice della Cristianità in una situazione di capacità decisionale quale mai si era verificata nella lunga storia dei rapporti con l’altra potestà universale. Innocenzo III si trovò ad essere papa senza il corrispettivo di un imperatore († Enrico VI: 28 settembre 1197; Innocenzo III: el. 8 gennaio 1198; cons. 22 febbraio 1198) e ciò per tutta la durata del suo pontificato. Anche senza attribuire eccessivo peso a questa circostanza, sembra difficile dimenticare che essa non poté che rafforzare in lui quel senso di assoluta disponibilità nei confronti di tutta la società cristiana che si espresse nelle sue formulazioni teoriche, indipendentemente da concrete finalità di dominazione universale: ed in tal senso oggi si intendono i legami che egli ebbe, come signore feudale e no, con i regni di Sicilia, di Inghilterra, di Norvegia, di Ungheria e di Aragona, nel corso del suo pontificato. Altissimo il senso della responsabilità cristiana nei riguardi della società: vicarius Christi, perché privo di senso l’attributo di vicario di Pietro, in quanto egli, successore di Pietro, non poteva essere vicario di se stesso; conseguentemente il suo si configura come un ministerium, non come un dominium. Ma un ministerium così singolarmente specifico da diventare cogente per sé e per gli altri. Su questo piano si collocano sostanzialmente i postulati del pensiero ecclesiologico innocenziano, specie quello espresso nella Venerabilem, nella Per venerabilem e nella Novit, che troveranno in quella che è stata chiamata la «common law of the Church» un inserimento e una diffusione: ed io aggiungerei anche un’applicazione estensiva al di là dell’occasione che aveva determinato la loro promulgazione. Ma detto questo, non si può, come un allievo di Walter Ullmann, il Watt, propone, ritenerlo «responsible in one way or another» dell’immissione nel circolo dei futuri metalinguaggi giuridico-politici dei segni dominativi contenuti nelle espressioni «plenitudo potestatis e iudex ordinarius omnium». È fondamentale aver presente che l’identità anche letterale delle espressioni non significa – nel linguaggio canonistico-politico medievale – identità di significati. Colgo l’occasione per ripetere una considerazione che ho più volte manifestato: è semplicemente incredibile che sia in Italia sia, soprattutto, all’estero i cultori di questa parte


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della medievistica abbiano ignorato e continuino ad ignorare un’opera fondamentale per l’intelligenza di certi contesti linguistici quale è quella di Pietro Costa, Iurisdictio, che da poco abbiamo in seconda edizione dopo oltre trent’anni. Ciò crea quel disagio o contraddizione apparente che provano, più o meno, gli interpreti del pensiero “teocratico” di Innocenzo III, di cui si è potuto dire che porta argomenti a favore del “monismo” e del “dualismo”, con riferimento all’annoso dibattito circa la potestas directa o indirecta. Nello scontro con la “Realpolitik” si evidenzia, peraltro, l’ambiguità di certe formulazioni, come quella dell’advocatus Ecclesiae, che pure, in maniera eminente rispetto al compito spettante ai re, concerneva l’imperatore, come si ricordava nella Venerabilem essere un diritto della Chiesa avere un difensore ed un advocatus, del quale non avrebbe potuto fare a meno solo perché i principi elettori non si accordavano sulla persona dell’eligendo: ma questo diritto non era biunivoco, perché – come avrebbe rammentato nel maggio 1226 Onorio III a Federico II, che tanto reclamava l’esercizio di questo suo diritto da non chiedersi se l’advocatus si ricordasse di difendere ciò per cui lo si richiedeva di essere difesi – «si defensoris omittis officium, nomen improprie retines advocati». Ora è pur vero che Onorio III scriveva in un momento di particolare tensione con l’imperatore, per quelli che apparivano essere dei soprusi compiuti dallo Svevo nella “tutela” dei diritti della Chiesa nell’Umbria e nella Marca anconetana, in molti punti occupate dalle milizie imperiali; ma all’uopo, e sempre nella prospettiva delle variazioni di significato che assumono certe espressioni, si devono fare due osservazioni. La prima è che nella Venerabilem, in un discorso di carattere assolutamente generale, Innocenzo III invoca la necessità di un advocatus, sollecita la presenza di un defensor – per Onorio i termini sono sinonimici, nella citata lettera – per la Chiesa, che dall’indecisione dei principi elettori avrebbe da soffrire una pena, essendo priva di un aiuto che sia stabilito naturaliter come tale; la seconda è che Onorio nella certezza specifica del caso (mi riferisco alle note vicende susseguitesi nel Ducato e nella Marca dal 1222 in poi, per le imprese di Corrado di Urslingen e di Gunzelino di Wolfenbüttel, su cui rapidamente torneremo), contesta il carattere abusivo che assume la funzione di advocatus et defensor Ecclesiae nella forma di quella che oggi chiameremmo una “difesa preventiva” mediante occupazione del territorio di comuni e signori ribelli alla sovranità del pontefice. Lasciamo da parte ogni discorso sulla ruserie di Federico II: anche nel 1244, nella lettera enciclica a tutti i fedeli, lo Svevo ribadiva il suo modo di intendere la “difesa preventiva”: «Volumus etiam declarari et specificari iura nostra que habemus et habere debemus in Marchia et Ducatu et alia terra quam ecclesia tenet, videlicet de cabalcata et parlamento et mercato et procuratione, que nos tamquam advocati, patroni et defensores ecclesie habere debemus de terra predicta» (Goez, p. 328). Diritti connessi con la carica, non soggetti ai condi-


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zionamenti; al limite «contenti sumus quod serventur nobis ea omnia que principes imperii habent in terris ecclesiarum, quarum ipsi sunt advocati» (ibid.). Non solo advocatus ecclesiae, ma advocatus delle terre della chiesa di cui l’imperatore è avvocato e difensore. Il discorso è molto concreto e ci illumina sul vero problema dei rapporti tra papa e imperatore, che è quello dei territori in Italia. Federico non fa questione della alta sovranità: non la fece mai, formalmente, nemmeno per il Regno di Sicilia; ritenere che tutte le sue profferte di riconoscimento della medesima alta sovranità della Chiesa sulle terre dell’Italia centrale fossero frutto di inganno è una banalizzazione del problema, che consiste nella possibilità del mantenimento di un controllo militare, che la Chiesa non poteva assicurare né ai tempi di Innocenzo III, né in quelli di Onorio III, né in quelli di Gregorio IX, né in quelli di Innocenzo IV, né per salvaguardare i territori da attacchi diversi da quelli “imperiali”, né per i ribellismi autonomistici che erano ricorrenti. A ben guardare, Federico II aveva in mente un disegno che era quello che l’avo, Federico I, aveva cercato di attuare con i Comuni dell’Italia settentrionale. Il suo era un problema politico, quello del papato – in questo sì, in una linea di continuità, da Innocenzo III a Innocenzo IV – finiva con l’essere quasi soltanto ideologico, che, da Federico I a Federico II, attraverso una serie di proteste di riconoscimento di alta sovranità della Chiesa, gli imperatori svevi e lo stesso Ottone IV di Brunswick mai disconobbero (Tregua di Venezia, Eger, Neuss, Spira etc. etc.: e se ne farà un brevissimo cenno dopo). Così anche per questo aspetto, assai specifico e territorialmente definito, si svela la differenza di piani su cui progressivamente si muove ogni idea papale di giurisdizione. Quando nella Venerabilem di Innocenzo III si afferma di non pretendere di eleggere l’imperatore, ma di consacrarlo, non si fa un discorso di riconoscimento condizionato. Ebbene io ritengo che proprio su questo piano vada intesa anche la base giuridica dei diritti della Chiesa alle recuperationes connessi con la funzione di advocatus: sono sostanzialmente d’accordo con Werner Goez quando afferma «Die Geschichte ist über den Anspruch Friderichs II. hinweggegangen das Wort vom Kaiser als dem adovcatus Romanae ecclesiae im Rechtssinn der fränkisch-deutschen Kirchenvogtei lesen zu wollen. Nicht als schützende Herrschaft über den Apostolischen Stuhl und seine Gerechtsame hat die Folgezeit die kaiserliche advocatia verstanden, sondern als einen verpflichtenden Dienst, der dem Nachfolger Karls d. Gr. statt vermehrter Macht ausschliesslich eine einzigartige Würde verleiht». E mi sia lecito, in proposito, solo accennare ad un altro topos storiografico che va corretto o, per lo meno, inteso in maniera precisa. Sulle recuperationes, di cui si parla un po’ più tardi al posto di restitutiones, nella storia infinita delle relazioni tra papato e regno, poi impero franco, sassone, giù sino agli Svevi, c’è un equivoco da chiarire: e non mi risulta che certe osservazioni del compianto


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Ottorino Bertolini – di cui peraltro non condivido alcune tesi generali, ma ho sempre ammirato lo scrupolo nella lettura delle fonti – siano mai state riprese. Si restituisce qualcosa che non è propria al legittimo proprietario; si recupera ciò che era proprio e poi è andato perduto, per cause di vario tipo. La persuasività di tale idea (la recuperatio, prima la restitutio) ha agito con tale forza che ha consentito alla moderna storiografia sul cosiddetto “stato pontificio” (intendiamo soprattutto The Papal State, di Daniel Waley) di scrivere appunto di uno “stato”: del suddetto autore leggiamo, nella trattazione relativa all’Italia centrale nel periodo che va dal sec. XI al sec. XV, in relazione all’opera di Innocenzo III, queste parole: «Le origini del primo vero e proprio Stato papale furono in un certo senso negative, in quanto esso nacque nel vuoto di potere creatosi in Italia centrale dopo l’improvvisa morte di Enrico VI avvenuta nel settembre del 1197». Lasciamo perdere la dichiarazione di un atto di nascita di “un vero e proprio stato” in un vuoto di potere: quello che non è accettabile è che si voglia ufficializzare come nascita di uno stato ciò che era un processo plurisecolare di spostamenti di significati da patrimoniali a politici, iniziatisi ai tempi di Stefano II – di qui l’utilità tuttora permanente del saggio di Bertolini circa i presupposti teoretici del potere temporale; diverso il discorso sulle sue conclusioni – e certamente proseguiti sino alla morte di Federico II. In realtà, allorché si parla, all’inizio del pontificato di Innocenzo III, di atto di nascita dello stato pontificio, di politica delle recuperationes, si deve limitare la portata di queste affermazioni, nel senso che, morto Enrico VI, in una zona in cui la presenza militare sveva era stata assai forte e, nonostante tutto, si appoggiava ancora alle dominazioni di Corrado di Urslingen, per il Ducato, e di Marcovaldo di Anweiler, per la marca di Ancona, gli elementi che potevano opporsi al riconoscimento di una piena autorità, intesa anche come forza coattiva nel territorio, della Sede apostolica non erano solo i capisaldi svevi, ma soprattutto le leghe tra comuni, che avevano giocato sulle continue rivalità tra papato e impero per consolidare i propri particolari spazi di autonomia. Da ciò la sostanziale, ambigua e velleitaria politica delle recuperationes, almeno a considerarla nella prospettiva universalmente accettata della costituzione di uno stato, dai successi – peraltro non duraturi – di Innocenzo III ai travagli susseguenti, anche limitando, per ovvi motivi, la nostra attenzione al pontificato di Clemente IV († 29 novembre 1268), con il quale si chiuse la saga degli Svevi. Alcune brevi notazioni che desumo da considerazioni fatte alcuni anni or sono ad Ascoli Piceno, in occasione delle celebrazioni federiciane. Tanto poco è pensabile che si dovesse parlare genericamente di recuperationes, quanto più è evidente che non si aveva nemmeno sicurezza dell’entità delle terre da recuperare e dei diritti sui quali si dovesse “pretendere” una “restituzione”, che verso la fine del sec. XII si doveva necessariamente compilare un Liber Censuum, di cui si è potuto scrivere giustamente da parte di


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Thérèse Montecchi Palazzi: «Ce livre de la Chambre n’est [...] pas exclusivement un document d’administration financière. La charge du camérier, l’institution de la Chambre sont des nouveautés qui marquent un certain moment de l’évolution du pouvoir pontifical et le Liber censuum nous donne l’image d’un tournant décisif où l’autorité du successeur de Pierre tend à dépasser celle d’un grand propriétaire foncier, pour s’élargir à la dimension des Etats de la Chrétienté occidentale [...]». E aggiungo che questo documento è la prova di una ricerca di certezze possessorie che non ci sono mai state prima. Altro che recuperationes! Basterà solo ripensare a tutta la vicenda dei falsi ravennati, alla cosiddetta Cessio donationum, che pur sono falsi di parte imperiale o assimilabili, per rendersi conto che gli spiriti più politicamente cauti della Chiesa romana volevano agire con tutta la prudenza del caso, affinché su quel famoso “atto di nascita” dello “stato pontificio” non si dovesse scrivere «figlio di N.N.». E perché non si dovessero invano vantare dei diritti nel bel mezzo di un «bellum omnium contra omnes», che è quanto avvenne tra il 1198 e 1202 nelle Marche. Se soltanto per esemplificare si ponga mente alla vera e propria confederazione (Ancona, Osimo, Fermo e Senigallia, cui si aggiunsero Civitanova, Macerata, Montelupone, Potenza Picena, Numana e Fano) che si costituì contro Marcovaldo di Anweiler, all’indomani della morte di Enrico VI, ci si accorgerà che essa non pensava minimamente a “ristabilire” il dominio della Curia papale nelle Marche, ma a trarre il massimo profitto da un atto ostile al nemico del papa, e ad ottenere da quest’ultimo ampie concessioni di privilegi amministrativi e giurisdizionali. Già nel 1202, all’atto della famosa pacificazione di Polverigi – oggetto di un Convegno organizzato dalla Deputazione di storia patria per le Marche –, si poteva constatare che si erano costituite due coalizioni contrapposte, comprendenti, tra le maggiori città, da un lato Fermo, Jesi, Osimo e Fano, dall’altro Ancona, Recanati, Senigallia e Pesaro: il riconoscimento dell’alta sovranità pontificia durò sino a quando la Marca non venne concessa da Ottone di Brunswick ad Azzo d’Este, che fu poi reinvestito dal papa. Non si capisce, allora, che cosa s’intenda con il giudizio dell’Abulafia, quando si parla di incoerenza e ambiguità da parte di Federico II nella condotta della sua politica marchigiana. Avrebbe più senso parlare di ambiguità e incoerenza in tutto il gioco politico che si svolge nella regione. Né diverso può essere il giudizio ove si accolga la proposta avanzata da J. C. Maire Vigueur, di porre a confronto i due sistemi di dominazione – papale e imperiale – prescindendo da ogni esame delle basi giuridiche delle rivendicazioni e dalle considerazioni della “politica” perseguita, con elargizioni, interdizioni, aiuti, maneggi e iniziative di ogni genere, e badando invece alla composizione dei ceti dominanti, destinati ad assumere una valenza autonoma rispetto alla politica generale (di papato e impero): ebbene non è forse questa una forma di politica?


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D’altronde non si fanno molti passi avanti allorché si riconosce, a proposito dei successi iniziali di Innocenzo III, che «i compromessi con le città dell’Umbria e delle Marche furono le condizioni preliminari essenziali della formazione del nuovo Stato», per poi concludere che essi «avrebbero potuto avere conseguenze positive soltanto se le nuove promesse imperiali fossero state mantenute e se i Comuni fossero stati inquadrati entro una forte struttura amministrativa». Ma così, per tutto il Duecento, non fu: e quanto ricorderemo in modo estremamente breve, per forza, dovrebbe bastare a confermarlo. La stessa organizzazione della giustizia, che per alcune città dell’Italia centrale si comincia da qualche anno a studiare – e penso ai lavori di Massimo Vallerani –, lascia intravvedere che, nonostante la proclamazione dell’esercizio del mero e misto imperio e l’avocazione ai tribunali papali delle cause d’appello, nelle città più grandi non si tenne conto di questa circostanza, talché i tribunali papali provinciali furono oberati di cause relative a condanne di Comuni ribelli. Anche se le nomine dei Rettori, lasciati quasi sempre arbitri della loro condotta politicoamministrativa, furono fatte almeno sino a Martino IV prevalentemente tra gli ecclesiastici – per Innocenzo III tutti cardinali –, non si poterono contare grandi risultati sul piano amministrativo. Non solo perché nella seconda metà del secolo XIII i Rettori furono o affiancati o sostituiti di fatto nelle loro sempre più larghe incombenze, cui attendevano abitualmente da lontano, da vicari (Rettori in spiritualibus a parte, quando si trattò di laici), ma anche perché gli interessi personali che potevano guidare il pontefice nella nomina di un Rettore erano insiti nelle sue funzioni stesse: basti pensare che sino al tempo di Gregorio X, l’amministrazione delle finanze dei governi provinciali sarebbe stata di spettanza diretta dei Rettori: solo nell’ultimo quarto del secolo – ma J.-C. Maire Vigueur indica nel 1237 il nominativo di un responsabile delle finanze pontificie – quell’amministrazione venne affidata a tesorieri della Camera apostolica, autonomi rispetto al Rettore e spesso rappresentanti di banche, per lo più toscane, che agivano come tesorieri provinciali. Né la cosa può stupire, ove si pensi per un attimo all’enorme esposizione finanziaria del papato nel periodo della lotta contro Federico II e Manfredi. Saltuarie, prevalentemente provinciali, le occasioni di dibattito collegiale dell’amministrazione attraverso l’istituzione del parlamento: uno si riunì sotto Innocenzo III nel 1207 ed ebbe carattere generale; un altro, per il Ducato, nel 1220 a Bevagna e, per la Marca, nel 1249; soltanto sotto Niccolò III (1279) le assemblee si riunirono con maggiore regolarità. E bisogna aggiungere che proprio i parlamenti erano le occasioni per legiferare in materia di richieste fiscali da parte del Rettore. Ora volendo riconoscere, com’è giusto, che la microanalisi condotta su quelli che potremmo chiamare gli agenti giudiziari ai livelli inferiori, analisi


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condotta da J.-C. Maire Vigueur negli archivi marchigiani con molta attenzione e sensibilità, ha consentito di stabilire i tempi di una penetrazione capillare del controllo pontificio sull’apparato giudiziario nella Marca, molto maggiore di quello che poté esercitare il potere imperiale, con correzione opportuna di certe presentazioni schematiche di Daniel Waley, si deve comunque ammettere che non è in ogni caso più possibile accettare storiograficamente la tipologia statuale che connoterebbe l’impresa delle recuperationes innocenziane, che non solo conobbero interruzioni e ripiegamenti anche nella prima metà del sec. XIII, ma della cui attuazione appunto, si rimase – nella prospettiva della costruzione cosciente di uno stato pontificio – in attesa per lo meno sino all’Albornoz; per non spingersi a Sisto V, come ammette lo stesso Maire Vigueur. A livello di consapevolezza di un disegno politico, papato e impero poterono muoversi secondo linee che possono anche indurre a ipotizzare vicendevoli imitationes – il che non sarebbe poi una novità assoluta, visto che nessuno contesta una imitatio imperii –: lo studioso francese suggerisce un’immagine che viene mutuata da una celebre affermazione di Aldo Moro: «Continuità o imitazione? [...] Non escluderei che ci sia spazio per una terza via, quella di una convergenza o di un parallelismo (mi viene in mente una celebre formula di Aldo Moro, tutto sommato non priva di una certa espressività)». Moro, vorrei aggiungere, non era molto versato in geometria analitica e Maire Vigueur non ha avuto torto nell’invocare quella formula pur senza ricorrere al termine scientificamente corretto e che io ho già usato: asintoto. Imitatio imperii o ecclesiae indicava – vista la naturale non coincidenza assoluta dei due termini – una situazione che matematicamente è un asintoto. In ciò, credo, sta l’incisività dell’espressione di Aldo Moro: e anche l’ambiguità conclusiva. Ma tutto questo, allora, rimanda a visioni di politica generale, che anche dopo gli Hohenstaufen restava una preoccupazione, se ancora Rodolfo d’Absburgo, all’atto della incoronazione da parte di Gregorio X, doveva impegnarsi a salvaguardare i diritti della Chiesa da Radicofani a Ceprano, negli stessi ambiti geografici che si ritrovano nei vari giuramenti di Spira, Neuss, Eger etc. e, aggiungerò io, nel cosiddetto testamento di Enrico VI. Se gli Svevi erano stati debellati, si era profilato come altrettanto pericoloso il tentativo egemonico angioino, in concomitanza o in contrasto con l’espansionismo aragonese. L’impero poteva rappresentare ancora una sponda già nota e in condizione di ricevere un’offerta che non si poteva rifiutare. Problemi politici, ecclesiastici e religiosi avviati da Innocenzo III, quasi mai portati a termine, sia per la defatigante lotta contro gli Svevi, sia per il travaglio spirituale che la stessa religiosità intima della società occidentale conosceva nella crisi dei punti di riferimento cui proprio la Chiesa l’aveva abituata ad affidar-


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si, sia per la complessa dialettica in cui la Chiesa stessa si trovava coinvolta nel mantenere la duplice funzione di vertice spirituale e di monarchia temporale, faticosamente e a volte contraddittoriamente costruita; quei problemi conobbero, in un papato, un tentativo di riflessione, di ripensamento, di riproposizione: è questo il senso che penso si possa e debba dare al pontificato di Gregorio X ed al Concilio di Lione del 1274. Dopo i pontificati “prevedibili” di Jacques Pantaléon (Urbano IV) e di Guy Foulques (Clemente IV), segnalato giustamente da Norbert Kamp più che per la canonizzazione di Edvige di Polonia per la bolla Licet ecclesiarum, relativa alla riserva dei benefici minori, la lunga durata del conclave di Viterbo sembrò riportare la politica pontificia su percorsi più abituali, anche se, alla fine, riconsiderati! Infatti, considerazioni analoghe a proposito di imitationes si devono fare per le iniziative della Crociata, sulla quale mi fermerò il tempo strettamente necessario a confermare l’impressione di una rincorsa tra papato e impero, in tempi e con modalità e contesti diversi, nel corso del secolo. Vorrei intanto notare che, ancora una volta, non si può banalizzare a semplice gioco di false promesse, di diffidenze reciproche, un reale impegno politico, travalicante lo scopo dichiarato delle imprese, ed estremamente funzionale a palesare la natura universalistica del potere di chi avesse assunto l’iniziativa. Mi pare innegabile che, fatto ogni debito conto circa la scarsa affidabilità se non di tutti gli imperatori svevi almeno di Enrico VI e di Federico II, soprattutto dopo i fallimenti della cosiddetta crociata di S. Bernardo – che aveva visto in primo piano Luigi VII di Francia – e quella dei Veneziani del 1202-1204, fallimenti che erano anche dovuti alla scarsa persuasività che gli sforzi rispettivamente compiuti da Eugenio III e da Innocenzo III presso le monarchie europee avevano incontrato –, ben diversa constatazione tocca fare per l’impresa di Federico I: la Crociata era stata decisa dalla Dieta di Magonza, la Dieta di Cristo, come venne chiamata, del 1188, che non si concluse con il recupero di Gerusalemme, caduta nel 1187, né di parte rilevante della Terrasanta, né con una vittoria dell’imperatore, morto in Cilicia, nel fiume Salef, nel 1190. L’unica conquista, com’è noto, fu quella di S. Giovanni d’Acri, destinata a cadere nel 1291; ma il sovrano svevo aveva mantenuto a costo della vita l’impegno particolare spettante unicamente all’imperatore: aveva cioè corso il rischio di agire da solo. Almeno per lui sarebbe difficile pensare ad un pretesto, che invece coinvolse Filippo II Augusto e Riccardo Cuor di Leone, che, tardivi compagni del Barbarossa, avevano colto l’opportunità per discutere dell’eredità di Guglielmo II d’Altavilla. La Crociata come occasione d’incontro al di fuori di ogni tematica propriamente crociata. È pur vero che Enrico VI, che aveva iniziato i preparativi per la Crociata, fu prevenuto dalla morte: ma non si può dimenticare che alla richiesta avanzata dall’imperatore a Celestino III, il papa aveva risposto in maniera


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elusiva e riluttante, lasciando il compito della predicazione ad alcuni cardinali. Era la prospettiva degli sviluppi che avrebbe avuto la questione della Crociata con Federico II e con Gregorio IX. Personalmente, credo che la reazione assai dura al primo tentativo compiuto da Federico II di partire per la Crociata nel 1227, rientrato per lo scoppio di un’epidemia e perciò scomunicato dal papa, che aveva peraltro dovuto registrare il fallimento dell’azione di “recupero” nella Marca della piena sovranità compiuto dal legato Alatrino, fosse dovuto ad una sorta di gioco d’anticipo del papa, che probabilmente temeva che effettivamente l’imperatore si sarebbe impegnato per la Crociata, come in effetti avvenne, con grave scacco per lo stesso Gregorio IX, che da Onorio III era stato, come cardinale, preposto ai preparativi dell’impresa, e che non poteva apparire, proprio lui, come causa del ritardo che specialissimamente sarebbe dovuto toccare al vertice della Christianitas. Comecchessia, la Crociata poteva assumere ben altri significati, dopo la conclusione del drammatico rapporto tra papato e Svevi. Si trattava di riconsiderare tutti i presupposti che soggiacevano, dal punto di vista morale, ma soprattutto dal punto di vista pratico, ad un’impresa quale era la Crociata medesima. Non a caso ciò avvenne in occasione del II Concilio di Lione del 1274, che fu quasi un bilancio dei risultati – o non risultati – del IV Concilio Lateranense, Crociata compresa. E non a caso abbiamo adoperato il verbo “riconsiderare”, dacché la Crociata aveva assunto caratteristiche del tutto inusuali, proprio dagli inizi del secolo XIII, nella campagna contro gli Albigesi, com’è notissimo, per mantenerle e in qualche modo esasperarle nel periodo della lotta contro gli Svevi, soprattutto in virtù dell’intensa partecipazione dei frati minori all’attività politico-militare nel corso delle crociate antisveve dal 1228 in poi. Sono proprio i Mendicanti e in particolar modo i Minori che si fanno promotori di una crux cismarina nell’Italia del Nord, in Francia e in Inghilterra, mentre sempre ai Mendicanti vengono affidati, nel I e nel II Concilio di Lione (1245, 1274) «incarichi di missioni asiatiche, di trattative diplomatiche con l’Impero greco e di iniziative per il rilancio di una crociata transmarina». Questo “versante” della Crociata è stato oggetto tra gli anni Ottanta e fine Novanta di studi innovativi, anche sulla scorta di rapide ma stimolanti osservazioni fatte nel 1982 dal compianto Raoul Manselli: ad essi di necessità si deve rimandare, solo dedicando una menzione a parte al volume di Paolo Evangelisti dedicato a Fidenzio da Padova e alla letteratura crociato-missionaria minoritica. Ove si pensi al progetto fidenziano – tutto teorico, s’intende, ma rivelatore se non di un effettivo disegno politico papale, dato che non si poté verificare, né prima, né dopo la caduta di S. Giovanni d’Acri, di un diverso tentativo di approccio da parte di Gregorio X al problema, visto che fu proprio Gregorio X a commissionarlo nel 1274, anche se venne presentato soltanto nel 1294, al primo papa francescano Niccolò IV – ove si pensi al progetto fidenzia-


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no, dicevo, non sarà difficile cogliere un superamento notevole della logica egemonica papale tradizionale, attese le commissioni militari e organizzative che, con il supporto esterno di tutti i principi occidentali, pariteticamente considerati, si ipotizzava dovessero essere affidate ad una forza militare super partes, in una prospettiva che ha molto di più recenti concezioni coloniali, che non i tratti della conquista decisamente predatoria di certe crociate. L’importanza che assunse nel 1274 il Concilio di Lione, d’altra parte, dipese più dalla constatazione dei vari parziali successi e parziali fallimenti che nel corso di circa un sessantennio s’erano prodotti in seno alla Chiesa rispetto alle aspettative lasciate intravvedere dal IV Concilio Lateranense, che dalla personalità di Gregorio X. In un contesto europeo in cui non si poneva più in assoluta, se non esclusiva, eminenza la vicenda della lotta contro gli Svevi e la dialettica di una supremazia europea per il papato o per l’impero, la prospettiva di successo era rappresentata dal raggiungimento di un equilibrio tra le monarchie dell’Europa occidentale, alle quali sottrarre la tentazione di un recupero selettivo da parte di una di esse dell’impero greco restaurato di Michele VIII: i piani per la grande coalizione cristiana da impegnare in una Crociata non patriottico-nazionalistica (se mi passate l’espressione) come erano state quelle variamente svoltesi degli Svevi o dei sovrani francesi (Luigi IX era morto appena un anno prima della faticosa elezione di Tedaldo Visconti come Gregorio X) ha il suo risvolto progettuale proprio nel De recuperatione Terrae Sanctae di Fidenzio. Altri, percorrendo lo stesso genere letterario, avrebbero, come Pierre Dubois, privilegiato la Francia: il che sarebbe stato un gravissimo errore ed avrebbe condannato al fallimento anche soltanto il disegno teorico. Ma il Concilio di Lione aveva anche esaltato la funzione dell’attivismo francescano, che certamente era ben lontano dalle prospettive di Innocenzo III. Un attivismo e un ribaltamento della visuale del mondo cui, in chiusura di questa fin troppo fugace carrellata, vorrei accennare, con riferimento a quanto avvenne dopo il pontificato di Gregorio X, in quanto, sostanzialmente, le linee perseguite dai suoi successori, Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI, morti tra il giugno del 1276 ed il 20 maggio 1277, furono quelle indicate da Tedaldo Visconti. L’eredità difficile di Francesco, nell’ultimo quarto del sec. XIII, dopo aver conosciuto un suo primo e pesante profilarsi subito dopo la morte del Santo, consistette principalmente nella definizione dell’identità in seno alla storia del sec. XIII e nella Chiesa del ruolo del francescanesimo. Di questo ruolo mi vado convincendo sempre di più: che la meditata riflessione sia quella di Pietro di Giovanni Olivi, di cui si auspica oggi una capacità di comprensione da parte degli storici, dopo quanto è stato scritto e detto negli ultimi venti/venticinque anni, anche e soprattutto in Italia, da Manselli, da Todeschini, da Lambertini,


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da Tabarroni ed anche da parte di chi scrive, più approfondita e in senso precipuamente globalizzante. Mi spiego: non è certo più il caso, dopo quanto è stato appunto appurato e sceverato, ripetere che non si deve vedere nessun contrasto tra la professione di povertà rigorosa della corrente spirituale cui Olivi apparteneva – ed anche qui con necessari, non banalizzanti distinguo – e la sua etica economica, per più aspetti rivoluzionaria e perciò passata adespota nell’opera di Bernardino; non dovrebbe essere più il caso di contestare le accuse di doppiezza mossegli anche non molti anni fa da francescanisti e studiosi, per aver egli difeso la rinuncia di Celestino V al papato – il che non ne faceva un sostenitore di Bonifacio VIII, alla stregua di Egidio Romano che si sarebbe occupato di accusarlo –; non dovrebbe essere più il caso di postulare un collegamento tra le manifestazioni di eremitismo francescano e lo stesso Celestino V ed i suoi seguaci, dopo quanto autorevolmente dimostrato alcuni anni or sono da Peter Herde. Non è forse nemmeno la discussione sempre ritornante sul rapporto tra il pensiero di Gioacchino e l’escatologismo dello stesso Olivi: è soprattutto la proposta innovativa della concezione del tempo come sviluppo. Proprio il concetto radicato in Olivi, sin da quando operava la fondamentale analisi di dominium e ius e soprattutto la distinzione tra dominium – identificato con ius – e usus, contribuendo ai tentativi di soluzione definitiva della questione dell’usus pauper e coadiuvando, pur solo parzialmente consentendo, Niccolò III nella stesura della bolla Exiit qui seminat, insieme con Girolamo da Ascoli, futuro papa Niccolò IV, proprio quel concetto di relativizzazione del tempo avrebbe da un lato consentito l’insospettabile disponibilità di un certo francescanesimo a guardare alle cose del mondo e della storia con occhi diversi. E proprio il convincimento della non esistenza di tanti tempi quanti sono i movimenti, ma dell’esistenza di tanti tempi quante sono le realtà esistenti, avrebbe dato una soluzione al problema aristotelico dell’unità del tempo che raccoglie tutti i tempi nell’intelletto, ma che non ha, essa unità, nessuna realtà extramentale. È stato detto assai bene da Paolo Vian, proprio a Todi, tre anni fa, a proposito del contrasto insanabile tra due modi di concepire il tempo, quello statico, sostanzialmente immobile, destinato a trascorrere uniformemente vecchio, tipico di una concezione disperata altomedievale e sostanzialmente conservatrice, e uno dinamico di acquisto, di crescita e di mutamento propria di un certo Francescanesimo e dell’Olivi in particolare: «nel tempo la Chiesa non si estende solo nello spazio; matura anche nella comprensione e nella consapevolezza del mistero sino a viverne, nel sesto stato, una sua nuova manifestazione. Fra conservazione e acquisto nella dimensione del tempo l’enfasi della Chiesa avignonese è decisamente sulla prima, quella di Olivi sul secondo. La prospettiva dominante della prima, sottesa per esempio alle bolle di canonizzazione, è in definitiva quella altomedievale».


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Ci si può chiedere, allora, se per Olivi la Chiesa del sesto stato viva una nuova manifestazione, un’innovazione e una nuova fase della storia e la debba vivere collettivamente, visto che l’istanza di questo particolare francescanesimo è un’istanza sociale. Sottolineavo nuovamente questo aspetto della teologia oliviana, e di un francescanesimo per così dire avanzato, presentando uno stimolantissimo libro di Giacomo Todeschini, I mercanti e il Tempio, in cui si affronta il problema della prospettiva della costituzione di una comunità cristiana “virtuosa” nella definizione dei compiti che alla società sono affidati, in una scansione e progressione del tempo “a spirale”, che conserva e innova e si accresce di significati. Sono allora evidenti alcuni punti essenziali: 1) se l’assunto oliviano è quello del «ripercorrere la gloria di Cristo nel corso della storia della Chiesa» – concordo con queste parole di Vian –, non ha luogo il cammino dell’anima verso la salvezza individuale, ed ogni moto di religiosità popolare collettiva non potrà essere appagato da interventi dall’alto, mediazioni carismatiche di un’istituzione immobile. In questo senso Olivi ed una mentalità ed una cultura che si manifestarono come proprie del mondo bonifaciano-avignonese non si sarebbero mai incontrate; 2) il confluire di vari fattori che permisero l’elezione unanime di PietroCelestino V – e cioè, come ricorda Peter Herde nella sua voce dell’Enciclopedia dei papi e come indicherà nel corso di questo Convegno, attese escatologiche, conflitti interni tra Orsini e Colonna, diversità di vedute circa la soluzione della contesa tra Aragona e Regno angioino e l’eventualità della cessione della Sicilia emergenti in seno ai cardinali, crescita dell’influenza angioina negli affari di Curia nel luglio del 1294 – poteva, dato il personaggio, sembrare come l’avverarsi di una attesa diffusa del papa angelico in qualche modo confortata dalla notizia del racconto di Latino Malabranca di un sogno in cui un vecchio eremita minacciava il castigo di Dio se i lavori del conclave per l’elezione del successore di Niccolò IV († 4 aprile 1292) non si fossero conclusi. Proprio per quanto si è accennato circa le idee dell’Olivi su tempo escatologico e tempo della Chiesa, e per il sostrato filosofico che esse implicavano, sembra estremamente difficile che le profezie relative al papa angelico, applicate nel 1295-1296 a Celestino V da un domenicano, Roberto da Uzès, siano uscite dalla Comunità degli Spirituali della Marca di Ancona; 3) è certo che non Celestino V, ma Pietro da Morrone fu canonizzato il 5 maggio 1313 da Clemente V: ma ciò era la dimostrazione che aveva avuto ragione Olivi, che non poteva giudicare Pietro da Morrone pari al pesantissimo compito di reggere il papato, a valutare valida la sua abdicazione, senza perciò dare nessuna patente di positività a Bonifazio VIII, un papa necessario a caratterizzare i tratti di quello che avrebbe dovuto essere il sesto stato. Se si riuscirà


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a convincere l’autore, Alberto Forni, a pubblicare una ponderosa ricerca che da lustri è in cantiere, concernente l’esplorazione capillare degli elementi di quella che viene chiamata la metamorfosi della Lectura super Apocalipsim nella Divina Commedia – testo che è stato affidato a me come pegno di una edizione che io non manco mai di sollecitare – si potranno probabilmente definire molto meglio certe ascendenze e certe fonti del Poema sacro, e soprattutto il senso del venturo kairòs che si trova nella prospettiva dantesca. Eredità difficile anche per Benedetto Caetani, di un secolo tra i più complessi della storia medioevale e della storia europea, qui appena accennato negli elementi che sono parsi essere particolarmente significativi per ovvie ragioni: se e come Bonifacio VIII l’abbia accettata, se senza riserve o con beneficio d’inventario, sta ora a Noi stabilirlo.

Nota Bibliografica Come si è detto, questa relazione introduttiva è propriamente il titolo di un libro; per ogni singolo punto toccato, infatti, occorrerebbe un capitolo a se stante di trattazione. Poiché così non è possibile fare, e poiché molti di questi argomenti sono stati da me ripresi ed ampliati abbondantemente per una pubblicazione destinata all’Atlante del Cristianesimo diretto, per il Medioevo, da Roberto Rusconi, prima per la casa editrice UTET, poi, come mi si dice, per la casa editrice De Agostini, pubblicazione che dovrebbe avere per titolo L’impero cristiano medievale (il condizionale è giustificato dal mancato invio, a distanza di anni, di bozze), preferisco, ad orientamento del lettore e proprio a guisa di introduzione problematica, concentrare i riferimenti a fonti e letteratura storica in un’unica nota. Superfluo, sembra, richiamare, oggi, l’opportunità, specie per il lettore italiano, ma non solo per esso, di rinviare al II volume dell’Enciclopedia dei papi citata anche nel testo – Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2000, da p. 326 a p. 493 –, le cui voci, sino a papa Gregorio XVI, ma non in ordine cronologico, come nell’Enciclopedia, ma in quello alfabetico, sono state “desunte” dal Dizionario biografico degli Italiani, se alla data del 2000 già pubblicate (= *), o in esso “inserite”, magari in forma abbreviata, se elaborate ex novo; non sempre gli aggiornamenti bibliografici apportati nelle voci “desunte” sono stati completi o soddisfacenti. Ne faremo cenno, di volta in volta, ma preferiamo, intanto, segnalare gli autori delle voci dei singoli papi che nell’arco preso in considerazione saranno oggetto di attenzione, sebbene men che cursoria, da parte nostra. La voce Innocenzo III (Enciclopedia dei papi – d’ora in poi EP, II, pp. 326-350) è dovuta ad uno specialista come W. Maleczek; Onorio III (EP, II, pp. 350-362) a S. Carocci - M. Vendittelli; Gregorio IX (EP, II, pp. 363-380) a O. Capitani; Celestino IV* (EP, II, pp. 380-384) ad A. Paravicini Bagliani; Innocenzo IV (EP, II, pp. 384-393) ad A. Paravicini Bagliani; Alessandro IV* (EP, II, pp. 393-396) a † Raoul Manselli; Urbano IV (EP, II, pp. 396-401) a Simonetta Cerrini; Clemente IV* (EP, II, pp. 401-411)


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a N. Kamp; Gregorio X (EP, II, pp. 411-422) a L. Gatto; Innocenzo V (EP, II, pp. 423425) a Paolo Vian; Adriano V (EP, II, pp. 427) a L. Gatto; Giovanni XXI* (EP, II, pp. 427-437) a J.F. Merinhos; Niccolò III (EP, II, pp. 437-446) a F. Allegrezza; Martino IV (EP, II, pp. 446-449) a S. Cerrini; Onorio IV (EP, II, pp. 449-455) a M. Vendittelli; Niccolò IV (EP, II, pp. 455-459) a G. Barone; Celestino V (EP, II, pp. 460-472) a P. Herde; Bonifazio VIII (EP, II, pp. 472-493) a † E. Duprè Theseider. Per il saggio di G. Ladner, nella Miscellanea Historiae Pontificiae, 18 (1954), si veda G. Ladner, The concepts of “Ecclesia” and “Christianitas” and their relations to the Idea of papal “plenitudo potestatis” from Gregory VII to Boniface VIII, pp. 49-77. Per il saggio di G. Tabacco ed alcune considerazioni in proposito, rinvio alla commemorazione da me letta all’Accademia Nazionale dei Lincei nell’adunanza del 14 febbraio 2003. Per il rilievo della figura di Onorio III – difficilmente oggi ascrivibile ai Savelli o ai Capocci, cfr. voce citata in EP, II, pp. 350-362 – si rimanda, per i rapporti con gli Svevi, a R. Manselli, Onorio III e Federico II (revisione di un giudizio?), in «Studi Romani», 11 (1963), pp. 142-159, nonché agli scritti e alla bibliografia ivi citata di Ovidio Capitani: O. Capitani, Disegni imperiali e politiche locali: Federico II e l’Italia centro-settentrionale, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia patria per le Province di Romagna», 46 (1995), pp. 61-79; O. Capitani, Problemi di giurisdizione dell’ecclesiologia di Innocenzo IV, in Friedrich II, Roma 1996, pp. 150-162; O. Capitani, Federico II e le Marche: illusioni e delusioni, in Esculum e Federico II, Spoleto, 1998, pp. 3-30, dove si leggerà anche J.-C. Maire Vigueur, Impero e Papato nelle Marche: due sistemi di dominazione a confronto, pp. 381-403, lavori tutti che nascono dalla riconsiderazione dell’opera indispensabile di W. Hagemann e che sono stati, a torto secondo me, sottovalutati: cfr. Capitani, Federico II e le Marche cit., pp. 14 ss. Ulteriori considerazioni si leggeranno nella voce Celestino III pubblicata nell’Enciclopedia Fridericiana, I, Roma 2005, edita dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Il saggio, importante, di T. Montecchi Palazzi, Cencius Camerarius et la formation du “Liber Censuum” de 1192, in «Mélanges de l’École francaise de Rome. Moyen Age et Temps modernes», 96/1 (1984), pp. 49-93. Di A. Paravicini Bagliani, si veda Il trono di Pietro, Roma 1996, che dedica alcune pagine, molto sintetiche, al problema della plenitudo potestatis (pp. 93-96), per il quale, comunque, rimane ancora da tener presente il lavoro di J. Watt, The Theory of Papal Monarchy in the XIIIth Century, London 1965. Acute e originali le osservazioni di P. Costa, Jurisdictio, Milano 20022, con le Prefazioni di O. Capitani e B. Clavero: in particolare le pp. 262 ss. Per la citazione di W. Goez, cfr. W. Goez, Imperator advocatus Romanae Ecclesiae, in Aus Kirche und Reich: Festschrift fuer F. Kempf, Sigmaringen 1983, pp. 326-328; le parole nel testo si leggono a p. 328. Tutte le indicazioni relative agli antecedenti delle pretese papali sulle terre oggetto delle recuperationes, con relativi rinvii bibliografici a cominciare da quello all’opera di O. Bertolini, nonché quelle concernenti le posizioni di Waley, Maire-Vigueur, Kamp e l’azione di personalità come quelle di Marcovaldo di Anweiler e Corrado di Urslingen, così come il rinvio ai testi delle varie tregue e promesse di Enrico VI e di Federico II si troveranno nel saggio di Capitani, Federico II e le Marche cit., in particolare da pp. 10 ss. Si veda anche La Marca d’Ancona fra XII e XIII secolo. Le dinamiche del potere. Atti del convegno per l’VIII centenario della Pace di Polverigi: 1202-2002 (Polverigi, Villa Nappi, 18-19 ottobre 2002), a cura di G. Piccinini, Ancona, Deputazione di storia patria


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per le Marche, 2004. Di M. Vallerani, si tenga presente Il sistema giudiziario del Comune di Perugia: conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia 1991. Di T. Kölzer è da tener presente la voce Costanza d’Altavilla in Dizionario Biografico degli Italiani, 30 (1984), pp. 346-359. Unica opera monografica su Gregorio X, ancora utilmente consultabile rimane quella di L. Gatto, Il pontificato di Gregorio X, Roma 1959. Per il genere letterario-pubblicistico sul recupero della Terra Santa e per Fidenzio di Padova, cfr. P. Evangelisti, Fidenzio da Padova e la letteratura crociato-missionaria minoritica, Bologna 1998; P. Evangelisti, I “pauperes Christi” e i linguaggi dominativi, in La propaganda politica nel basso Medioevo, Spoleto 2002, pp. 315-392; O. Capitani, La polemica antibonifaciana, in Jacopone da Todi, Spoleto 2001, pp. 129 ss., ora infra, pp. 61-79. Per le importanti osservazioni di Paolo Vian circa i tempi della storia nella prospettiva escatologica dell’Olivi, cfr. P. Vian, Tempo escatologico e tempo della Chiesa: Pietro di Giovanni Olivi e i suoi censori, in Storiografia e periodizzazione nel Medioevo, Spoleto 2000, pp. 137-183. Di P. Herde è indipensabile citare, oltre alla monografia Celestin V. (1294), Peter vom Morrone, Stuttgart 1981, la già ricordata voce nell’EP, II, pp. 460-472. Per un aspetto fondamentale dell’azione di governo di Innocenzo III, si veda, da ultimo, M. Meschini, Innocenzo III e il negotium pacis et fidei in Linguadoca tra il 1198 e il 1215, Roma 2007 (Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie. Classe di scienze morali, storiche e filologiche, ser. IX, 20/II). Per puntuali osservazioni e corredo informativo, si veda anche M.P. Alberzoni, Dalla regalità sacra al sacerdozio regale. Il difficile equilibrio tra papato e impero medievale, in L’equilibrio internazionale dagli antichi ai moderni, a cura di C. Bearzot - F. Landucci - G. Zecchini, Milano 2005, pp. 85-123. Per le problematiche dei rapporti politici tra Papato e Comuni nel Duecento, si veda l’ampio volume di L. Baietto, Il papa e la città. Papato e Comuni in Italia centrosettentrionale durante la prima metà del secolo XIII, Spoleto 2007.


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Che i centenari, delle nascite come delle morti, siano forieri, nella storiografia, di una produzione abbondante, specie se il personaggio da commemorare è di notevole rilievo – e Bonifacio VIII lo è da qualsiasi punto di vista lo si consideri –, è cosa normale; che quelle circostanze anniversarie possano coincidere con la necessità di un ritorno ad interrogarsi su questioni molto dibattute, spesso non definitivamente risolte, è evento meno frequente. Questo è il caso di Bonifacio VIII, a considerare la recentissima storiografia che lo riguarda1. E ciò è vero certamente anche in ragione del fatto che una monografia complessiva su papa Caetani, non potendosi ritenere tale quella, pur aggiornata, di Eugenio Duprè Theseider, nell’Enciclopedia dei papi, desunta dall’omonima voce del Dizionario biografico degli Italiani, non c’era, sino a pochi mesi or sono. Ci sono almeno tre volumi da prendere in esame, soprattutto – non esclusivamente, si badi - per le proposte problematiche e abbraccianti l’insieme delle urgenze che si affollavano su un pontificato che ormai poteva ritenersi libero di agire, dopo la fine della preoccupazione sveva e il conseguente, complesso avvio di una definizione dei rapporti tra la Sede Apostolica ed il regno di Francia, deliberato a far valere, almeno come controaltare, il peso del potere “laico” (tra virgolette) all’interno di una società europea bisognosa di credere in sim-

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Il presente testo è stato letto il giorno 5 dicembre 2003, a Roma, nella sede dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, come relazione di apertura delle celebrazioni per il VII centenario della morte di papa Bonifacio VIII. Su alcuni aspetti delle valutazioni qui espresse l’autore è tornato in una “lectura Dantis” tenuta alcuni mesi dopo nella stessa sede, nell’ambito dei seminari promossi dal circolo “Bruno Nardi” costituitosi in Roma, con la partecipazione di un consiglio scientifico rappresentato da Massimo Miglio, presidente dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, Girolamo Arnaldi, Gennaro Sasso, Giorgio Inglese, Ovidio Capitani, Achille Tartaro, nonché di relatori scelti per le singole sedute tra studiosi interessati alla tematica del circolo medesimo.


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boli, che il papato non rappresentava oggettivamente più, ma ai quali non poteva dare dei sostituti credibili. Già in passate occasioni, ho ritenuto che l’epigrafe, oggi, più veritiera, se letta con animo completamente libero, che si possa dedicare a Bonifacio VIII, sia quella che Jean Coste, nella sua Introduction générale – e giustamente ricordata nell’Avant-propos di André Vauchez – al libro Boniface VIII en procès, apparso nel 1995, al di fuori di ogni occasione celebrativa, riteneva di dover dare: «un homme qui a senti mourir en lui la foi du moyen âge tout en portant au paroxysme la théorie du pouvoir qui en constituait l’héritage le plus caduc»2. Meno convincente appare l’interrogativo subito seguente: «Est-on innocent ou coupable pour avoir vécu dans la contradiction le crépuscule de son propre univers?»: meno convincente, perché riporta il problema sul piano di quelle «notions juridico-morales» che giustamente erano state definite «les moins aptes à nous introduire à la compréhension»3 di Bonifacio VIII. In fondo, il libro del Coste può porre esattamente il problema del papato di Bonifacio VIII nel quadro di ciò che ancora ci si aspettava che doveva essere un papa, senza interrogarsi sul come, non solo di ciò che era, senza interrogarsi sul perché. Questo è, a mio sommesso avviso, il pregio maggiore del pregevolissimo lavoro di Coste, ma altri due volumi sono stati dedicati a papa Caetani, in questi ultimissimi anni, quello degli Atti del XXXVII convegno internazionale dell’Accademia Tudertina (8-11 ottobre 2000, editi nel 2001) e quello quasi fresco di stampa di Agostino Paravicini Bagliani, tradotto dal francese, lingua della versione originale uscita per i tipi di Payot et Riages nel 2003 e, in italiano, nello stesso 2003, per i tipi Einaudi. Tenterò, dunque, nella prospettiva indicata dal Coste, cui specialmente il volume di Paravicini Bagliani si rifà, di valutare le tematiche affrontate per rispondere all’«intérêt de l’historien moderne de se déplacer du detail des accusations à l’analyse des représentations culturelles et des motivations de qui a conduit l’affaire». Chi può informarci su quello che si aspettassero i contemporanei da Benedetto Caetani, quale papa e come? Un problema che la storiografia s’è riproposta è quello dei cronisti e non solo e non tanto per la loro attendibilità in 1 La voce di Eugenio Dupré Theseider, già nel Dizionario Biografico degli Italiani, si legge ora, con un aggiornamento bibliografico, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma 2000, pp. 472-493; la monografia recente, sia pure relativa al solo processo intentato contro il papa su iniziativa di Filippo il Bello, è quella di J. Coste, Boniface VIII en procès, Roma 1995 (d’ora in poi Coste); ancor più recente quella di A. Paravicini Bagliani, Bonifacio VIII, Torino 2003 (d’ora in poi Paravicini-Bagliani). Si veda inoltre Bonifacio VIII (= Atti del XXXIX convegno storico internazionale dell’Accademia Tudertina, 13-16 ottobre 2002), Spoleto 2003 (d’ora in poi Bonifacio VIII, Todi 2002). 2 Coste, p. XVIII. 3 Ibid., p. XX.


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merito ai fatti narrati, in quanto, salvo qualche rara eccezione, essi scrissero après coup, dopo i fatti del 1297/1303, dacché sia nell’intervento di Maria C. De Matteis4 sulla “memoria” lasciata da papa Bonifacio, sia nelle parti riservate ad essi nel libro di Paravicini Bagliani, si è sottolineata la buona dose di ambiguità e, soprattutto, di perplessità – forse fino a rasentare lo scetticismo – sulla persona, sulle accuse, sulle difese. Una storiografia che oggi definiremmo una raccolta di gossips, ma rarissimamente capace di esprimere una valutazione complessiva, pur se non priva, come nel caso di Giovanni Villani, Dino Compagni, Tolomeo Lucense, Ferreto de’ Ferreti di valutazioni penetranti. Ma sono veramente gossips o nascondono sentimenti diversi? Ci aiutano, cioè, a rispondere alla nostra prima domanda? Anche perché, per parlare di contraddizione, ci si deve volgere a chi l’avverte, ma certamente non a Bonifacio. E soprattutto si deve di necessità distinguere tra valutazione del suo operato politico specie prima del caso Colonna e valutazione successiva ad Anagni e contemporanea allo svolgimento del processo. Accogliere, cioè, l’interruzione proposta da Giovanni Villani5 nella narrazione della vicenda del Caetani, che viene tagliata, momentaneamente, s’intende, al momento dell’elezione di un uomo che «seppe bene mantenere e avanzare le ragioni della Chiesa […]; pecunioso fu molto per agrandire la Chiesa e’ suoi parenti, non facendo coscienza di guadagno, che tutto dicea gli era licito quello ch’era della Chiesa». Giovanni Villani aveva capito quasi tutto6. Ovviamente non sarò proprio io a sostenere che l’ondata di accuse contro papa Caetani sia sorta solo al momento dello scontro con i Colonna: ma vorrei affermare che, con l’abdicazione di Celestino V e l’immediata elezione di Bonifacio, il rifiuto di un papa siffatto, per le prove fornite durante la sua carriera in Curia e il cardinalato, intraprese a battere un sentiero che era destinato all’insuccesso con un avversario come papa Caetani, quello della legittimità contestabile e contestata per la supposta precedente illegittimità dell’abdicazione celestiniana. Per questo aspetto del suo pontificato, papa Caetani aveva un punto di forza assolutamente incontestabile ed una assunzione degli aspetti potestativogiuridici della sua posizione tanto originali, quanto ben definiti, come si vedrà. «Le ragioni della Chiesa», quali si erano manifestate proprio allorquando, come si è detto, il prestigio pareva incontrastato e lo spazio vitale rappresentato

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La relazione di M.C. De Matteis, Bonifacio VIII nella memoria, si legge in Bonifacio VIII, Todi 2002, pp. 521-539; Paravicini-Bagliani, pp. 160-162 e 355-366 (per l’attentato di Anagni). 5 G. Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, II (libro IX, vi), Parma 1991, p. 20. 6 O. Capitani, La polemica antibonifaciana, in Jacopone da Todi (=Atti del XXXVII convegno storico internazionale dell’Accademia Tudertina, 8-11 ottobre 2000, Spoleto 2002, pp. 127148: 145-148) [ora infra, pp. 61-80].


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dallo speciale patrimonium del Regno meridionale riposto sotto un controllo meno insidioso di quello svevo, non potevano, al momento della morte di Niccolò IV (1288-1292), suscitare maggiori perplessità. La prova, se vogliamo, consiste proprio nel fatto che il papato del primo francescano a salire sul soglio di Pietro fu uno dei più politici e, conseguentemente, preoccupato di resistere sul terreno di una deriva di pressioni contingenti di una Europa che aveva perso qualsiasi non dirò senso di realtà unitaria, ma la stessa volontà di tentarla. Pochi anni or sono, pensando proprio a Niccolò IV, si poteva scrivere che la grandezza politica di Niccolò IV si era rivelata allorché egli si era preoccupato di «bloccare la situazione, cercando di fare sì che nessuna pedina dello scacchiere si muovesse, o si muovesse il meno possibile»7: e si aggiungeva che in ciò egli era stato acuto e lungimirante, anche se poi con Celestino V e con Bonifacio VIII le cose sarebbero andate per proprio conto, non realizzandosi con il primo la preferenza accordata ad una Chiesa meno legata al potere ed assumendo con Bonifacio VIII i caratteri di uno Stato come la repubblica di Venezia. Claudio Leonardi riferiva un giudizio del cardinale Bellarmino. Ma è lecito, penso, anche chiedersi se la lungimiranza nelle cose di una realtà effettuale non fosse stata quella di un Bonifacio, peraltro collaboratore stretto di Niccolò IV, tutto proteso a salvaguardare e ad affermare il carattere comunque “imperialmente divino” dell’auctoritas et potestas papale (inutile dire che sono parole dell’Unam Sanctam, su cui brevemente torneremo), da tradursi con ogni mezzo, poiché solo una totale politicizzazione della funzione della Chiesa di Roma poteva conseguire quello scopo: nella dimensione, come diceva Villani, di un tornaconto personale, che perdeva – o si presumeva perdesse – ogni carattere circoscritto per il fatto che lo stesso tornaconto era sublimato dalla individualità che ne fruiva. È verissimo che Niccolò IV cercava di far sì che nessuna pedina si muovesse: ma in ciò stesso riconosceva un “primato” della politica. Un solo esempio. Era stato proprio Girolamo Masci ad avviare la trama dell’intricato affaire rappresentato dalla vicenda di Margherita Aldobrandeschi, la “Rossa”, in cui parvero incontrarsi tutte le diverse trame degli strumenti politici del tempo: anticipazione sui tempi di possibili rivendicazioni imperiali sulla Toscana, controllo di un’enclave orvietano/maremmana, rapporti con Siena e Orvieto, rivalità e nepotismo tra Orsini e Caetani8. Ma i fatti, raccontati nella loro pur oscura complicazione, non basta-

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C. Leonardi, Niccolò IV e la fine della Chiesa medievale, in Niccolò IV, a cura di E. Menestò, Spoleto 1990, pp. 223-228. 8 Si rimanda alla parte “storica” della voce Bonifacio VIII dell’Enciclopedia dantesca, curata da E. Sestan, solitamente ignorata, pur presentandosi con efficacia sintetica non solo in relazione all’atteggiamento di Dante verso il Caetani: v. sub voce, I, Roma 1970, pp. 675-678; L. Marchetti, Aldobrandeschi Margherita, in Dizionario Biografico degli Italiani, 2 (1960), pp. 98-99.


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no a rendere da soli pienamente comprensibile il senso della vicenda: la gravitazione delle terre di Margherita verso ambiti romani – dopo la morte di Guido di Montfort – assume già con Niccolò IV il carattere misto di un’operazione di tipo nepotistico ed espansionistico, a favore degli Orsini, e della Chiesa di Roma, allorché Margherita, a parte la relazione con Nello dei Pannocchieschi, si sposò con il fratello di Napoleone Orsini, cosa che consentì l’affermarsi di una situazione relativamente stabile sulla linea Orvieto/Siena, particolarmente delicata per la Tuscia romana e per il Patrimonio. Quando con il matrimonio con Loffredo Caetani, le terre di Margherita rientrarono nell’orbita dei Caetani, l’influenza di Bonifacio VIII – si era già nel settembre 1296 – fu mantenuta fino a quando un legame, che significava anche un appoggio, agli Aldobrandeschi non risultò pericoloso o per lo meno poco affidabile, perché gli Aldobrandeschi di Sovana avevano pur mantenuto una qualche potenza, destinata a sollecitare appetiti e rivalità specie con Siena, sommamente cara, con Firenze e Pistoia, a Bonifacio. Margherita fu isolata con lo scioglimento del matrimonio con Loffredo, in quanto – dopo un discreto numero di anni – era stata scoperta bigama e, dopo altre vicende politico/militari e matrimoniali, privata a beneficio del Caetani, di ogni diritto feudale (marzo 1303). Ma i pericoli di rivendicazioni feudali gravavano anche d’altra parte sulla Toscana ad intralciare un piano politico che era, si ripete, sia di Bonifacio, sia della Chiesa: ed intendo riferirmi alla presa di posizione del papa circa i dissensi emersi tra il vicario imperiale Giovanni di Chalon e le città della Toscana della lega guelfa, a proposito di antichi diritti rivendicati dall’impero e assorbiti, da molto tempo, nell’ambito dei Comuni. Bonifacio si interpose come mediatore, ottenne un accordo, previo l’esborso di 80.000 fiorini, che non andarono, comunque all’Impero, ma rimasero presso la Sede Apostolica, in quanto Adolfo di Nassau, re dei Romani, non era stato ancora incoronato! Confesso di capir poco l’accusa violentissima di uno storico come Ernesto Sestan9, che, per questi fatti, taccia l’opera di Bonifacio di «rapacità, prepotenza e spregiudicatezza politica», specialmente quando si ponga mente che quella somma poteva costituire una sorta di “partita di giro” per i banchieri fiorentini e pistoiesi (Spini, Mozzi e Chiarenti) nominati mercanti e camerari della Chiesa. Né guelfismo, né ghibellinismo, in Toscana, per Bonifacio, ma saldo rapporto con i ceti bancari di Firenze, quegli stessi che si opposero agli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella e che, grazie al suo intervento, dopo la condanna a morte e la scomunica (1295), ottennero che il papa minacciasse di inter-

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Sestan, Bonifacio VIII cit., p. 676. Ibid.; G. Pinto, Della Bella, Giano, in Dizionario Biografico degli Italiani, 36 (1988), pp. 680-686: 684-685; Paravicini-Bagliani, pp. 37, 48, 140. 10


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detto Firenze qualora il Della Bella fosse stato riammesso in città10. Si sarebbe esposto un po’ meno per Corso Donati che, sbandito da Firenze, ottenne di diventare podestà di Orvieto e rettore di Massa Trabaria11. Lasciamo stare scelleratezze e non parliamo di spregiudicatezza, ma constatiamo, piuttosto, che perseguire lo scopo di mantenere salda ogni pedina – o quasi –, come si è detto a proposito di Niccolò IV, significava lasciarsi sempre aperta la possibilità di una scelta di campo. Questa la vera “novità” di una politica che sfugge al tracciato dell’abituale politica pontificia, che correva su binari abbastanza tradizionali, in un contesto che non aveva più nulla di tradizionale. E se non fossero cose notissime e più volte rammentate, basterebbe ripensare al carattere che assunse il suo orientamento favorevole agli Angioini, che non fu mai di appiattimento sulla condotta della dinastia e instaurò – almeno per un certo periodo – sì una “special relationship” ma non tale che togliesse spazi di manovra al Caetani. In proposito, vorrei osservare che, molto di recente, si è dato forse eccessivo spazio a considerazioni di carattere temperamentale, nel giudicare i rapporti tra Bonifacio e Carlo II d’Angiò, per spiegare l’andamento progressivamente negativo delle relazioni tra i due personaggi. È indubbio che, a considerare complessivamente il panorama storiografico relativo a Bonifacio, la questione del regno angioino di Sicilia, poi di Napoli, non ha assunto quel rilievo che una sorte diversa dei registri angioini ed una minore attrazione delle grandi dispute con Filippo il Bello avrebbe consentito di esplorare e valutare. In linea di massima – e su questo piano – anche l’ultimo intervento del Kiesewetter a Todi merita la dovuta attenzione, senza peraltro indurre ad accettare il giudizio che quello angioino «sia stato il problema centrale del pontificato bonifaciano»12. Ma al di là delle gerarchie e della problematica storica di quel pontificato – e qui ci riportiamo a considerazioni fatte in precedenza – il regno meridionale, proprio in quanto speciale patrimonium, così come era stato considerato sin dai tempi della lotta contro gli Svevi, rappresentava l’ambito di elezione per l’esercizio incontrastato – almeno in ipotesi – di un potere assoluto di intervento, il campo ideale per far valere una discrezionalità piena dell’infeudante sull’infeudato, non in senso teorico, ma in senso reale. A tacer d’altro, si pensi che nel caso del Regno, il “pecunioso” Bonifacio poté anche concedere tutte le dilazioni di pagamento del censo dovuto dal re angioino come feudatario; tentò piuttosto di trovare soluzioni di compromesso con Filippo il Bello per la questione sollevata – e proprio per le 11 Sestan, Bonifacio VIII cit., p. 676; Sestan, Donati, Corso, in Enciclopedia dantesca, II, Roma 1970, pp. 558-560; S. Raveggi, Donati, Corso, in Dizionario Biografico degli Italiani, 41 (1992), pp. 18-24. 12 A. Kiesewetter, Bonifacio VIII e gli Angioini, in Bonifacio VIII, Todi 2002, pp. 171-214: 172-173, con rinvio ai giudizi della bibliografia più recente in proposito.


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spese relative alla guerra del Vespro – dalla Clericis laicos; minacciò, di fronte a ondeggiamenti di Carlo II, incapace di condurre una campagna militare e di Giacomo II, riluttante a combattere contro il fratello Federico III d’Aragona, di affidare a persona terza il regno, forse – ma bisogna usare cautela – il nipote Pietro Caetani; esplicò, in questo anche in concomitanza con gli altri protagonisti della vicenda, un’attività politico-diplomatica sul teatro euromediterraneo tanto impressionante da forzare l’immaginazione dello studioso a pensare ai grandi quadri dello scenario europeo dell’età moderna13. Per conservare tutte le pedine, Bonifacio non pensava di combattere una battaglia di retroguardia, ma di mantenere sempre il ruolo di protagonista. Pietro Caetani sarebbe stato certamente un altro elemento strutturale nella dinastia politico-territoriale della famiglia: ma lo sarebbe stato ancora di più nella costituzione di un formidabile background per la Chiesa di Roma, vanamente perseguito dal momento stesso dell’arrivo dei Normanni in Italia. Se proprio si vuole accettare in sede di giudizio storiografico una valutazione psicologico-caratteriale e spiegare con fenomeni di recrudescenza di calcolosi renale e di acciacchi senili l’ostinazione nella difesa del regno, si dimentica che il mantenimento di posizioni di principio circa l’autorità papale, che i dissidi con Filippo il Bello avevano minacciato e avevano provocato la Clericis laicos (1296) e l’Ausculta fili (1301), risultò oggettivamente agli occhi di Bonifacio, da sempre fondamentale proprio per l’esplicazione di una politica di respiro tanto ampio quanto necessariamente scevro da ogni preoccupazione che non fosse il conseguimento dello scopo. Non si dirà mai abbastanza che per sostenere “ideologicamente” la sua politica Bonifacio aveva bisogno di una totale autoreferenza. La richiesta di un senso certo da dare alla propria storia porta fatalmente alla denuncia di una tradizione adulterata, di un’autoreferenzialità sempre maggiore: si pensi soltanto all’attenzione alle prerogative dei cardinali, alla progressiva specificazione degli Uffici della Curia, alle suggestioni che poterono avere durante la prigionia di Carlo II lo Zoppo e poi nella vicenda di S. Ludovico d’Angiò e di Roberto, futuro re di Napoli i contatti con gli spirituali di un francescanesimo gioachimita: si pensi alla richiesta assolutamente non negabile di riscatto che è dietro le perdonanze, si pensi al trionfo di una mentalità mercantile che esaspera o interpreta per la prima volta in maniera onnivalente la

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Per la politica europea, mediterranea e italiana – che non può non anticipare nella memoria dello storico il ricordo di quelle che sarebbero state le principali direttrici dell’azione di un Alessandro VI – si rimanda alla bibliografia citata nel saggio del Kiesewetter citato alla nota precedente e al saggio di Berardo Pio, contenuto nello stesso volume celebrativo dell’Accademia Tudertina, oltre che, evidentemente, alle opere generali citate in principio: B. Pio, Bonifacio VIII e il Patrimonium beati Petri, ibid., pp. 117-144; P. Corrao, Il nodo mediterraneo, ibid., pp. 145-170.


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realtà sociale in termini che si possono senza alcuna tema di smentita definire di capitalismo virtuoso e si comprenderà un po’ meglio che la ricomposizione di un mondo che ha smarrito ogni sentimento – non concetto – di unità passa attraverso scelte di campo drastiche, quali furono appunto quelle che si verificarono ai tempi di Bonifacio e per lui si determinarono: ed è ovviamente questa una delle componenti decisive che mi sembra oggi si sia concordi nell’attribuire alla proclamazione del Giubileo14. È stato detto che con esso papa Caetani incanalava a favore del papato molte delle attese escatologiche del tempo e conferiva alla Roma pontificia una nuova centralità nei confronti della Cristianità intera: «Roma sostituiva Gerusalemme»15. Il che è indubbiamente vero, ma, anche se non penso minimamente di ritornare in questa sede sulla questione dei Giubilei e del Giubileo, dopo quanto se ne è ancora scritto pochi anni or sono, vorrei soltanto aggiungere che non si può banalizzare tutto l’evento come avrebbe fatto di lì a non molti anni Pietro Colonna (1306) che vedeva nell’iniziativa di Bonifacio la prova di un’insicurezza personale e un mezzo per battere cassa «Item probabitur quod tempore illius sue indulgentie quod fecit ad solidandum statum suum omnino de iure vacillantem et ad vana lucra sectanda ...»: dove peraltro non è questione di “posizione vacillante persino sul piano giuridico”, come si è tradotto il passo della memoria di Pietro Colonna, 14

Ampia bibliografia in Paravicini-Bagliani, cap. XVII, pp. 244-255. Ibid., p. 253. 16 Per il testo di Pietro Colonna, si veda Coste, pp. 259-357, specialmente per il passo, p. 301, H 89: «Item probabitur quod tempore illius sue indulgentie quam fecit ad solidandum statum suum omnino de iure vacillantem». L’interpretazione data dal Coste di questo passo («ce n’était pas l’état pontifical [...] mais le status personnel de Boniface c’est-à-dire son titre même de souverain pontife [...]») ci sembra aver dettato quella fornita da Paravicini-Bagliani, p. 253 («che vacillava persino sul piano giuridico»), per l’implicito sottinteso che Bonifacio si sarebbe sentito oppresso pesantemente dall’accusa di invalidità della rinunzia di Celestino V, sì da promulgare il giubileo per trarne prestigio, stima e riaffermazione del proprio potere. Ma al tempo del giubileo (inizi del 1300), Bonifacio VIII aveva già predisposto la costituzione Quoniam aliqui curiosi, comunque si voglia risolvere la questione della composizione e della datazione della norma entrata a far parte del Liber sextus, tit. VII, art. 1, se cioè effettivamente voluta e promulgata da Celestino con l’accordo dei cardinali (tra i quali lo stesso Caetani) come vuole il testo della costituzione o semplicemente inserita da Bonifacio VIII affinché il ricordo non ne andasse perduto: v. Paravicini-Bagliani, p. 61 nota 62. Vero è che Giovanni di Andrea nel suo commento al Sesto osserva: «Cum dignitas vacat alias quam per mortem, successor non congrue dicitur praedecessor: sed dicere deberet praecessor. Praedecessor enim idem quod praedecedens»; e vero è anche che lo stesso Giovanni di Andrea afferma che Celestino V non avrebbe mai potuto promulgare la costituzione, una volta rinunciato al papato: il che da un lato consente a Bonifacio di attribuire a Celestino quella decisione, dall’altro legittima il provvedimento sul piano giuridico formale, senza coinvolgere nella responsabilità diretta della decisione la figura di Bonifacio VIII. Ma il Liber sextus è del 1298, quando la prima consapevole reazione di Bonifacio all’accusa di illegittimità dell’abdicazione si era già manifestata! Circa la formazione del Liber sextus, le 15


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ma di “uno stato [personale] del tutto giustamente vacillante”16. Né si può pensare che – in certi ambienti del gioachimismo francescano – la proclamazione del giubileo rappresentasse una adeguata risposta, visto ciò che avvenne di lì a non molti anni. Il Giubileo veniva indubbiamente incontro a molte aspettative, come abbiamo detto: ma doveva assumere una forma solenne ed esaltante rispetto alle perdonanze, specie quella di Celestino V, perché manifestazione suprema della potenza papale: perciò con cadenza centenaria, perciò con la capacità di concedere l’indulgenza più completa, condonando la pena eterna in temporanea; poteva colpire anche solo temporaneamente la fantasia e dare una risposta all’ansia delle folle – e colpì la fantasia di Dante –, pur potendosi ancora recepire per valido il giudizio di Arsenio Frugoni circa l’atmosfera in cui tutto questo sarebbe caduto, un’atmosfera da mondo laico. Occorrerebbe, tuttavia sondare in questo senso le opinioni, poiché in casi come questo si conoscono molto più facilmente le voci del dissenso. Quante testimonianze di larga, ingenua adesione e lode per papa Bonifacio si potrebbero trovare oltre quella del medico ligure Galvano di Levanto, sul cui Liber fabrice corporis mystici et regiminis eius circa quarant’anni or sono Jean Leclerq17 attirava, senza nessuna supervalutazione, l’attenzione degli studiosi e nel quale le attribuzioni della potestas bonifaciana non erano certamente inferiori a quelle attribuitesi dal Caetani nell’Unam Sanctam: per dire che in questo senso c’è forse ancora qualcosa da esplorare. E veniamo ad altri aspetti, abitualmente considerati più tradizionali, della sua azione di governo: quelli che chiameremo “teorici”. Quello più significativo è sempre apparso, ovviamente, il canonistico per la volontà di far compilare il Liber sextus in aggiunta al Liber extra: ma alla luce di alcune recentissime e, per me, molto importanti osservazioni di Carlo Dolcini stampate nel predetto volume degli Atti del Convegno tudertino del 2002, circa i caratteri essenziali dello stesso Liber sextus e dell’Unam Sanctam, meglio si dovrebbe dire di dar luogo ad una raccolta molto originale e sostanzialmente e deliberatamente non collegabile allo spirito del Liber extra. Prima di fare una proposta di lettura di un passo dell’Unam Sanctam, come mia ipotesi interpretativa, consentitemi di riassumere brevemente i risultati delle osservazioni di Dolcini. Il Liber sextus abrogava tutte le norme dei pontefici immediatamente predecessori del Caetani, cioè costituzioni e decretali del periodo compreso tra la promulgazio-

sue fonti ed i suoi significati, oltre a C. Dolcini, Bonifacio VIII e i suoi predecessori, in Bonifacio VIII, Todi 2002, pp. 355-364, si veda da ultimo F. Bertelloni, Sobre las fuentes de la Bula Unam Sanctam, «Il pensiero politico medievale», 2 (2004), pp. 89-122. Sul problema, torneremo nel saggio annunciato nella nota 22. 17 Cfr. J. Leclercq, Galvano di Levanto e l’Oriente, in Venezia e l’Oriente fra Tardo Medioevo e Rinascimento, a cura di A. Pertusi, Firenze 1966, pp. 403-416.


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ne del Liber extra (1234) e l’elezione di Bonifacio VIII (dicembre 1294), meno cinque fra costituzioni e decretali decisae, di Celestino V (che erano poi di Bonifacio VIII circa il diritto di rinuncia al trono pontificio); una di Niccolò III, che, molto significativamente, era la Exiit qui seminat, alla quale, oltre Olivi, aveva forse posto mano anche il Caetani; una di Alessandro IV circa la tutela degli ecclesiastici in viaggio; una de haereticis, circa la liceità della procedura segreta nei processi contro eretici, norma che confermava disposizioni di Innocenzo, Alessandro e Clemente IV; un’ultima che ribadiva nella sostanza le disposizioni della Super specula di Onorio III, in materia di scuole universitarie. A parte le prime due, si trattava di cose di relativamente modesto rilievo. Il resto doveva e voleva essere assolutamente innovativo, a mo’ delle codificazioni moderne, come già aveva rilevato lo Stickler, che aboliscono i precedenti. E giustamente rilevava Dolcini la “teoria politica” rimaneva un capitolo aperto e vuoto. Si era nel 1298: a definire il pensiero politico di Bonifacio VIII, nel novembre 1302, giungeva18 l’Unam Sanctam. Dolcini lo ha già detto, ma io vorrei vieppiù ribadirlo che le vicende formali della trasmissione dell’Unam Sanctam, entrata tardivamente in corpore iuris e nelle Extravagantes communes, in questa prospettiva, hanno poco rilievo: proprio perché – rapporti con Egidio Romano a parte e da non esagerere – l’Unam Sanctam era nata per intervento diretto di Bonifacio (dictator), essa, analizzata nella sua essenza, ci svela una totale frattura con tutto il mondo delle teorie politiche di Innocenzo III o di Innocenzo IV: direi di più ci svela una cesura sostanziale con le tradizioni “politologiche” tradizionali ed anteriori, con le sottili distinzioni del ratione peccati, della potestas directa e indirecta. Veramente da Innocenzo III a Bonifacio VIII non vi era un nesso di continuità e nemmeno una congiuntura di evoluzione verso atteggiamenti estremi, come talvolta si è pensato. Nulla dei princìpi e delle risorse politiche di Innocenzo III rimaneva nelle compilazioni di Bonifacio VIII, il cui spirito era fin dalle origini radicalmente diverso. Depurate dallo spessore polemico e guardate in controluce, le accuse dei cardinali Pietro e Iacopo Colonna descrivono la portata innovativa degli orientamenti di Bonifacio VIII: negatore e sovvertitore dei canoni e dei concili19. Baccelliere o magister che fosse diventato a Bologna, lo studio del diritto canonico era stato talmente consapevolmente finalizzato alla funzione di supporto per reggere il carattere esclusivo dell’autorità del papa da indurre Bonifacio, dopo le vicende dello scontro con i Colonna, a rivedere drasticamente tutto il “sistema” giuridico che costituiva l’ordinamento a piramide del gover-

18 19

Dolcini, Bonifacio VIII cit., p. 363. V. supra nota 16; Dolcini, Bonifacio VIII cit., p. 364.


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no pontificio. L’esperienza personale in Curia, tra le rivalità dei gruppi cardinalizi più potenti, a lui, che non poteva essere annoverato tra quelli, aveva fornito il senso del compromesso, magari ammantato dalle sottigliezze dell’aequitas, come strumento, mai come fine. Assumendone direttamente la responsabilità – perché tale è la mia – vorrei qui esprimere un’ipotesi che una rilettura dell’Unam Sanctam – sul piano di queste considerazioni circa i presupposti teorico-giuridici del papato di Bonifacio – mi ha suggerito. Al di là della notissima e significativa insistenza sul concetto di “unità” e “unicità” della Chiesa, mi ha colpito un passo, circa a metà di questa che impropriamente è stata considerata una decretale: poco prima della metà dello scritto si legge: «Igitur ecclesiae unius et unicae unum corpus, unum caput, non dua capita, quasi monstrum, Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor, dicente Domino ipsi Petro: “Pasce oves meas”. Meas inquit et generaliter, non singulariter has vel illas […]»20.

Traduzioni accreditate e recenti, come quella di Jurgen Miethke e dello stesso Paravicini Bagliani hanno inteso quel «Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor» come appositivo di «unum caput»: «Dunque questa Chiesa una ed unica non ha che un corpo e una testa e non due teste, il che farebbe di lei un essere mostruoso; e questa è il Cristo e il vicario di Cristo, Pietro e il successore di Pietro, poiché il Signore ha detto allo stesso Pietro “Pascola le mie pecore”». Orbene io credo che questa traduzione non sia esatta e che «Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor» sia appositivo di «quasi monstrum». Cristo dice a Pietro «pascola le mie pecore» e i Greci o altri (si è ipotizzato i Colonna) non possono sottrarsi all’autorità di Pietro e dei suoi successori, affermando di non essere stati affidati a Pietro, a meno che non vogliano dichiararsi estranei al gregge di Cristo (non di Pietro!). Intendo dire che nella monolitica concezione di Bonifacio non v’ha luogo per nessuna dualità; alla fine della stessa Unam Sanctam si legge «Est autem haec auctoritas etsi data sit homini et exerceatur per hominem non humana sed potius divina ore divino Petro data [est …]». Tutto il discorso ha senso solo a patto di concludere che l’essenza divina dell’auctoritas e della potestas si sovrappone nel papa alla natura dell’uomo. E così io posso veramente spiegare le preoccupazioni – di segno opposto, ma coincidente – di chi in anni non lonta-

20

Cfr. Extravagantes communes, in Corpus Juris Canonici, ed. Ae. Friedberg, II, Graz 1959, coll. 1245-1246; per una interpretazione-traduzione dell’Unam Sanctam - che è quella corrente si veda Paravicini-Bagliani, pp. 305-307; J. Miethke – A. Buehler, Kaiser und Papst im Konflikt, Düsseldorf 1988, pp. 121-124.


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ni dall’Unam Sanctam si preoccupava di distinguere tra vicariante e vicario, come ad esempio il domenicano fra’ Remigio de’ Girolami che, nel suo Contra falsos Ecclesiae professores al c. 27 scriveva: «Et propterea dicendum quod licet Christus fuerit dominus temporalium, tamen noluit vicario suo pape commictere istud dominium, ut scilicet magis spiritualibus posset intendere, ad quod ecclesia principaliter ordinatur. Unde hoc non fuit indiligentie vel insipientie […] Papa autem non eo ipso quod in dominio suo ordinatur ad Deum, propter hoc discendus est Deus proprie, sed eo ipso minus posset assequi Deum et finem suum, quo magis per dominium suum esset principaliter et directe in temporalibus occupatus sicut patet ex dictis […]».

E se quella del Girolami era valutazione ispirata alla cautela, polemicamente decisa era, com’è noto, quella di Dante che nel III, vi della Monarchia poneva un’esplicita gerarchia dei poteri tra vicariante e vicariato: «Unde sciendum est quod aliud esse vicarium, aliud est esse nuncium sive ministrum; sicut aliud est esse doctorem, aliud est esse interpretem. Nam vicarius est cui iurisdictio cum lege vel cum arbitrio commissa est […] Multa enim Deus per Angelos fecit et facit et facturus est, quae vicarius Dei, Petri successor, facere non posset [al. non potest]»21.

Il Contra falsos è datato dalla critica più recente tra il 1302 e il 1304 e nonostante dissensi ostinati, pur se autorevoli, non è irragionevole – comunque si voglia datare la Monarchia, il che peraltro, nel caso ha poca importanza, poiché non si è pensato mai di datarla prima del 1302, se questo fosse argomento bastevole – non è irragionevole, dicevo, che Dante avesse contezza di certi contenuti dell’Unam Sanctam, visto che ne parlava esplicitamente in contraddittorio22. Tutto ciò era indubbiamente contrario ad una tradizione, per lo meno alla tradizione che si era consolidata, specialmente da Innocenzo III in poi. Era ciò sufficiente per suscitare, a parte le ragioni personali, un fronte antibonifaciano che si costituisse gradualmente tra Spirituali e “celestini”, Colonna e re di Francia? Se per fronte si deve intendere soprattutto un coagularsi di interessi etero-

21 Fra Remigio dei Girolami, O.P., Contra falsos ecclesiae professores, ed. critica di F. Tamburini, Roma 1981, pp. 65-67; Dante Alighieri, Monarchia, a cura di B. Nardi, Milano 1979, pp. 458-459. 22 Su recenti proposte e riproposte di datazione per la Monarchia, rimandiamo, in vista di un più ampio intervento, a C. Dolcini, Sul tempo della Monarchia: ?-1314, «Il pensiero politico medievale», 2 (2004), pp. 33-40, con rinvio a M. Palma di Cesnola, «Isti qui nunc». La Monarchia e l’elezione imperiale del 1314, in «Studi e Problemi di critica testuale», 57 (1998), pp. 107 ss., ora in Questioni dantesche. Fiore, Monarchia, Commedia, Ravenna 2003, pp. 43-62.


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genei, ma convergenti nell’ambito di un mutevole e vorticoso quadro di eventi sollecitati dallo stesso “imperialismo” – se mi passate la parola – di papa Caetani risponderei di sì: e ciò appare chiaramente, nonostante ritornanti preoccupazioni apologetiche, di cui non è qui il caso di parlare: perché lo si è detto altrove e più, forse, lo si dirà nel corso di questo lungo convegno. Se invece per fronte si deve intendere il farsi di un “progetto” deliberato e consapevole, che sorga ad impedire quel sovvertimento della tradizione di cui si diceva poc’anzi e di cui Bonifacio fu apertamente accusato dai Colonna e, dopo la morte, nel corso del processo, mi sentirei di affermare, con relativa tranquillità, che esso non ci fu mai realmente nella contestualità e simultaneità degli eventi. E mi rifarò soltanto ad un punto di quel possibile “fronte” antibonifaciano che chiameremo “ideologico”: l’illegittimità, che in fondo è anche comprensiva, per conseguenza, di altri aspetti. Voglio ripetere – perché l’ho già accennato – che respingo di delibare ogni idea degli “innocentisti” o dei “colpevolisti”, ma che voglio, ancora una volta, limitarmi a valutare la fattispecie giuridica dell’illegittimità, per concludere se essa esistesse o non esistesse. In quest’ordine di idee voglio precisare che recentissimi accenni ad un climax di “fanatismo ierocratico”, espressione non mia, cui sarebbe giunto il “parossismo del potere”, anche questo non giudizio mio, ma del pur sorvegliatissimo Conte, hanno in qualche modo influenzato le considerazioni circa il “fanatismo ierocratico”, che sarebbe esploso non dall’inizio del pontificato, ma con la presa di posizione dei Colonna e col conflitto con Filippo il Bello, non mi trovano consenziente23. Se si tien conto della logica di puro potere che, sia pure per cenni, abbiamo esemplificato nell’azione del Caetani già prima della sua ascesa al soglio pontificio; di dichiarazioni del tipo di quelle rese dinanzi all’Università di Parigi, a proposito della Ad fructus uberes e dello scontro con Giovanni Peckham prima e con Enrico di Gand (1290/91), poi; della circostanza che all’atto stesso dell’abdicazione di Celestino V si levarono più voci e pareri circa l’impossibilità per un papa di abdicare, immediatamente ribattute dall’Olivi, da Goffredo di Fontaines, da Pietro di Alvernia e il fatto che l’Olivi stesso indichi la speciosità del pretesto dell’illegittimità della rinunzia di Celestino V per dichiarare l’impossibilità di un’abdicazione – e ciò morto da poco Celestino: «renun-

23

Cfr. E. Conte, La bolla Unam Sanctam e i fondamenti del potere papale fra diritto e teologia, «Mélanges de l’École française de Rome», 113 (2001), pp. 663-684; l’espressione “fanatismo ierocratico” che – non importa se prima o dopo il conflitto con Filippo il Bello – si trova attribuita a papa Caetani a p. 663.


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tiatio nuper facta» – speciosità contestata con argomentazioni sia teologiche sia giuridiche, più che storiche, in cui la figura di Bonifacio è soltanto sullo sfondo, se si tien conto di tutto ciò non può esservi dubbio che tutta la questione dell’illegittimità dell’abdicazione e conseguentemente dell’illegittimità dell’elezione di Bonifacio, per un caso che si sarebbe manifestato de ambitu, nasce su di un terreno squisitamente politico, in ambienti che avevano sperimentato il forte decisionismo di Bonifacio nella volontà di raggiungere i propri scopi, e in quelli che, nella svolta impressa dal Caetani, avevano sperimentato una sostanziale innovazione della gestione di un potere papale, assolutamente autogiustificato, anche prima che il Caetani stesso divenisse papa – non a caso abbiamo ricordato gli episodi degli anni ‘80 e ‘90: ci si ricordi che di questo profondo convincimento, a tacer d’altro, fu, per Dante, vittima Guido di Montefeltro! – in quella svolta, dicevo, certi ambienti vedevano minacciate le posizioni di inevitabile equilibrio all’interno del cardinalato raggiunte forzatamente, anche se coralmente per l’elezione di Pietro da Morrone e, diciamo pure per paura, anche per lo stesso Bonifacio VIII24. Un atteggiarsi politico che rispondeva, almeno dal XII secolo exeunte, alla logica di partiti che non erano più – per l’affermarsi della Chiesa di Roma come organismo anche fattualmente universale – quelli della nobiltà romana dell’alto medioevo, ma quelli cardinalizi che rappresentavano gli interessi degli stati europei. Una logica statica, tuttavia, che voleva “francofilo” Bonifacio o “filoaragonesi” i Colonna, una logica, vorrei dire, non spregiudicata, duttile, in una parola moderna. Celestino poteva certamente rinunziare al papato: gli argomenti dell’Olivi sono inoppugnabili e lo prova la circostanza che sono sostanzialmente quelli di Egidio Romano: ne ho scritto altrove e a ciò rimando. Ma non ho mai detto che Olivi difese Bonifacio VIII, come si potrebbe pensare da certi accenni contenuti in una citazione – che mi onora – dell’ultima biografia bonifaciana25. Olivi difese una procedura canonica, ma indicando – non senza intenzione, io credo – nel contempo tutta la casistica che determinava la decadenza di un papa, casistica non comprendente soltanto l’eresia, si badi bene. Anche Egidio Romano, come è stato osservato, sosteneva la legittimità della rinunzia di Celestino, ma ad maiorem gloriam di Bonifacio, mostrava, cioè, che dietro la questione della legittimità o meno di un’elezione papale non era im-

24 Paravicini-Bagliani, pp. 67-72; P. Herde, Celestino V, L’Aquila 2004, pp. 155 ss.: 173-176. Per il collegamento fra la Monarchia e l’autoreferenzialità del potere assoluto del papa, che ebbe le ben note conseguenze per Guido di Montefeltro, si veda Monarchia cit., III, viii, 6, p. 464 «Posset enim solvere me non penitentem: quod etiam facere ipse Deus non posset». 25 Paravicini-Bagliani, p. 101.


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portante, per lui e per il suo committente, l’aspetto canonistico/teologico procedurale, quanto la riaffermazione della plenitudo potestatis, che comprendeva anche la possibilità di rinunziare al papato pur in presenza di una volontà negativa dei cardinali, laddove per Olivi si era parlato di Concilio. Non per nulla Egidio aveva distinto tra renunciacio e deposicio26. E solo per richiamare anche in questa sede un diverso atteggiamento dell’Olivi verso possibili sacramentalizzazioni del potere papale ricorderò che lo stesso sottolineava fortemente il carattere non sacramentale della mera funzione giurisdizionale del papa. Nessuna possibile influenza di opinabili, pur se possibili, collaborazioni antiche per la Exiit qui seminat, nessun banale calcolo di salvaguardare l’Ordine nel mantenerlo legato al papa, che una volta aveva difeso in Francia, da legato, le prerogative dei Francescani, sono assumibili per spiegare la cosiddetta “difesa” compiuta dall’Olivi: semplicemente perché non è una “difesa”, ma una memoria canonico/teologica per ogni possibile eventualità. E allora è giusta l’epigrafe del Coste per Bonifacio, come condivisibile la valutazione di Leonardi, di cui si diceva all’inizio: ancora più giusta, ancor più condivisibile, credo, tuttavia, se, da storici, con gli occhi ben asciutti di fronte ad una crisi di lunga durata, vorremo vedere nella solitaria, terribile, tremenda figura di Bonifacio un lampo che getta una luce diversa su di un mondo diverso, quale appunto si annuncia il mondo moderno.

26 Per la distinzione ed il contesto argomentativo in Pietro di Giovanni Olivi e in Egidio Romano si rimanda a O. Capitani, La polemica antibonifaciana cit., p. 140, per relativi rinvii alle edizioni del De renunciatione di Oliger (= Olivi) e di Eastman (= Egidio Romano), ora infra, pp. 61-80.


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L’allusione dantesca a Matteo d’Acquasparta*

Nella «classificazione e regesto» de I personaggi della Divina Commedia di Bernard Delmay1, Matteo d’Acquasparta appartiene a quelli che l’autore sigla con A2-S, cioè presenti che non parlano: e presente Matteo d’Acquasparta – com’è arcinoto – è in Pd XII 124/126, nel giudizio negativo di Bonaventura. La menzione di Matteo, d’altra parte, accompagnata con quella di Ubertino da Casale, ha dato un rilievo al ricordo dantesco che ha fatto fino a tempi relativamente recenti (voce di R. Manselli nell’Enciclopedia dantesca del 1976 e, ancor più recentemente, A. Mellone, Il s. Francesco di Dante e il s. Francesco della storia, del 1986) discutere, più per rendere coerente l’interpretazione dei versi ricordati del Paradiso con il giudizio corrente circa i rapporti generalmente supposti fra Dante e gli Spirituali, che per l’individuazione puntuale di concreti atteggiamenti dottrinali e pratici dei due personaggi invocati dal Poeta2. Il quale peraltro aveva sì, con quasi assoluta certezza, conoscenza di scritti e persone, ma non così specifica e “tecnica”, come se la immaginano i nostri moderni specialisti, sì da far dubitare dell’affermazione «nella ricerca del pensiero dantesco riguardo alla controversia nell’interpretazione della Regola francescana, dobbiamo badare più alle idee delle opposte correnti che alle idee dei singoli autori citati dal Poeta»3. Un’affermazione che implica una totale svalutazione dell’impegno morale da recepire nei ricordi storici di Dante: «Dante scelse i tre personaggi per motivi estranei al ruolo che assegna loro nella Commedia»4. Un’affermazione che

* Questo breve saggio è dedicato a F. Prinz. 1 Cfr. B. Delmay, I personaggi della Divina Commedia, Firenze 1986, pp. VII, 245; per il testo della Divina Commedia ci serviamo, ovviamente, dell’edizione della Società Dantesca Italiana, curata da G. Petrocchi, Milano-Torino, 1966-1967. 2 Cfr. Dante e il Francescanesimo, Cava dei Tirreni 1987 (Lectura Dantis Metelliana, 1), pp. 13-73: A. Mellone, Il san Francesco di Dante e il san Francesco della storia, Cava dei Tirreni 1986; per le voci di R. Manselli, Spirituali; Ubertino da Casale e di A. Frugoni, Matteo d’Acquasparta cfr. Enciclopedia dantesca, rispettivamente V (1976), pp. 392-393, 782-783; III (1971), pp. 868-869. 3 Mellone, Il san Francesco cit., p. 39. 4 Ibid., p. 38.


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nasce dal presupposto molto discutibile di cogliere il senso della storia in Dante chiedendosi se il Poeta sia esatto o no. E negandosi tale circostanza, dell’esattezza, rampollata da precauzioni a dir poco positivistiche, si lascia libero il lettore di ipotizzare una qualsiasi ragione per spiegare quelle presenze: forse assegnò a Matteo la rappresentanza dei lassisti della Comunità per rancore politico; forse accolse Bonaventura come interprete equilibrato della regola per il prestigio goduto dal doctor seraphicus presso qualche “Spirituale influente”; forse attribuì l’esagerazione del rigorismo a Ubertino per le sue «sfasature ecclesiastiche o per motivi personali a noi ignoti»5. Voglio dire con forza che, se mi importa relativamente stabilire l’esatta corrispondenza della presentazione di Dante con la “reale” figura storica dei personaggi invocati, non posso accettare, non possiamo accettare di disinteressarci del perché Dante abbia fatto certe scelte. Aggiungasi che, se è da rivedere – almeno io ritengo che sia da rivedere – il presupposto dottrinale attribuito a Dante, si deve ritornare al testo da cui hanno preso le mosse i commenti e le valutazioni. Non sarà inopportuno rileggersi i vv. di Pd. XII, 121-126: Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta u’ leggerebbe ‘I’ mi son quel ch’i ‘soglio’ ma non fia da Casal né d’Acquasparta, là onde vegnon tali a la scrittura ch’uno la fugge e altro la coarta’ 6[...]

Anche se con pareri isolatamente contrari, esiste un’esegesi per così dire “vulgata” di questi versi, in cui Bonaventura esprimerebbe una condanna eguale per il non retto intendere della Regola che estremisti di opposta tendenza avrebbero operato nel difenderne interpretazioni lassiste o rigide: lassiste come quella che avrebbe scelto Matteo d’Acquasparta o rigide come quelle di Ubertino da Casale. Nei commenti della Divina Commedia più accreditati e recenti, da Scartazzini a Steiner, da Sapegno a Pasquini, non vi sono dubbi: a tal segno che non in questi commenti, ma in alcune voci dell’Enciclopedia dantesca curate da Raoul Manselli (Spirituali; Ubertino da Casale) viene registrata un’esegesi

5 Ibid., p. 39. Anche se vi torneremo, è opportuno segnalare come indizio di una mentalità positivistica tutta la nota 122 di p. 38, in cui si discute sino a qual punto gli Spirituali che «giudicavano Bonaventura deformatore dell’ideale di s. Francesco» potessero avere ragione, alla luce di alcuni scritti della più recente storiografia (Odoardi, Potestà). 6 I versi si leggono – com’è noto – in Pd. XII, 121-126; per l’unicità dell’uso di «coarta» – oltre quanto si dirà in seguito – cfr. L. Lovera - R. Bettarini - A. Mazzarello, Concordanza della Commedia di Dante Alighieri, I, Torino 1975, p. 429.


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che, pur risalendo a Cristoforo Landino ed avendo avuto consensi da parte di Ambrogio Donini e di qualche altro, non solo è parsa “perdente”, ma addirittura questione insostenibile: anche se non a tal punto da non dover essere ripresa, come già ricordato, dal padre Mellone7. È l’esegesi che, rifiutando il postulato del “chiasmo” nei versi danteschi, per il quale si collega Ubertino a «coarta» e Matteo d’Acquasparta a «fugge», mantiene l’ordine logico delle parole dantesche e intende riferito a Ubertino il «fugge» e a Matteo il «coarta». Ma a rendere “perdente” la “costruzione” del Landino non è l’accettazione o meno del chiasmo, che è piuttosto il corollario di un presupposto: ed il presupposto è che le simpatie di Dante verso gli Spirituali, in primis l’Olivi, e, peraltro, l’ossequio dimostrato dallo stesso Poeta verso Bonaventura, combinati con il ben noto rapporto dottrinale tra l’Olivi stesso e Ubertino, avrebbero indotto lo stesso Dante a mettere in bocca a Bonaventura una condanna paritetica solo in apparenza delle due correnti, perché tra un’interpretazione “rigida” della Regola da parte degli Spirituali ed il lassismo della Comunità, impersonata da Matteo d’Acquasparta addirittura “dimentico” («fugge») della Regola, non è chi non veda che ben più grave era il rimprovero di Bonaventura per quest’ultimo. Tanto più che in Dante poteva in qualche modo albergarsi un qualche sentimento di biasimo per Ubertino dati i suoi eccessi, che lo avevano portato anche al di là delle stesse posizioni oliviane, per eccesso di rigorismo8. Così si salvava tutto: l’equidistanza di Bonaventura, il sentimento di favore profondo di Dante verso gli Spirituali, l’irrimediabile condanna di Matteo d’Acquasparta, tanto più comprensibile, in Dante, per l’operato del Cardinale a Firenze9. 7 Per una sintesi delle varie posizioni, cfr. oltre a Mellone, Il san Francesco cit., pp. 35 ss.; Manselli, Ubertino da Casale cit., p. 783; L. Mauro, Matteo d’Acquasparta: il Cosmo la Legge, Firenze 1990, p. 36 nota 9 e M. D’Alatri, L’allusione dantesca a Matteo d’ Acquasparta, «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 62 (1965), pp. 177-183, saggio, quest’ultimo, che, pur con una diversa soluzione data al problema del riferimento dei due verbi «fugge» e «coarta», contiene osservazioni che ci trovano, come si dirà, molto consenzienti. E proprio per la nostra diversa soluzione alla questione del riferimento dei due verbi! Sul «chiasmo» (Ubertino-coarta; Matteo-fugge) ha richiamato la figura retorica, tra i più recenti, Frugoni, Matteo d’Acquasparta cit., p. 869a. 8 Di parere contrario – e giustamente, pur se per motivi autonomi rispetto ai nostri – si mostra D’Alatri, L’allusione dantesca cit., pp. 179 ss. Ma vedi oltre. 9 Sui risentimenti di Dante verso Matteo d’Acquasparta per motivi personali insistono tutti gli autori citati: Frugoni, Manselli, Mariano D’Alatri, Mellone, oltre che l’autore di quella che rimane tutt’ora la migliore biografia di Matteo d’Acquasparta, quella di E. Longpré, in Dictionnaire de Théologie catholique, 10 (1928), coll. 375 ss. Ma nella Commedia l’unico esplicito riferimento a Matteo d’Acquasparta si inscrive nella concezione del francescanesimo che ha Dante, per bocca di Bonaventura. A proposito del quale, dacché usualmente si pone in evidenza l’ostilità degli Spirituali nei suoi confronti, non sarà inopportuno rifarsi alle considerazioni di R. Manselli, oggetto delle prossime note.


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Non dirò che in tutto ciò non possa esservi del vero, e lo vedremo: ma contesto che si possa ridurre il giudizio dantesco sul Francescanesimo dei suoi tempi, ancor più travagliato che non in quelli del generalato di Bonaventura, ad una moderna disputa ideologica, svincolata da un giudizio morale, che è sempre prevalente nella “storia/profezia” dell’Alighieri10. Non le idee dei singoli autori citati dal Poeta, è stato proposto, ma le idee delle opposte correnti; oppure non allusione a due correnti, ma a due individualità: il tutto nel mantenimento del «chiasmo», dacché elude la regola Matteo, la costringe («coarta») Ubertino11. Ma veramente Dante presenta in Matteo e in Ubertino le idee di due opposte correnti? Che cosa Dante sapesse di Matteo, in fatto di suoi scritti è molto incerto, poiché anche a voler continuare a credere che in Mn III, iii, 9-10 nel «protervo decretalista innominato» si possa scorgere il ministro generale e poi cardinale Matteo – o il ministro di «tal che testé piaggia» (If VI, 69) – si raccoglierebbe scarsissimo bottino, come ha dimostrato tutta l’esegesi dantesca, che non starò a ripetere o riassumere12. Semmai, Dante poteva conoscere – che volesse renderne conto ai suoi lettori è altro, diverso discorso – le vicende e le azioni. Matteo era stato discepolo di Bonaventura; Matteo s’era adoperato per mandare Pietro di Giovanni Olivi a Santa Croce nel 1287, quando era generale dell’Ordine; Matteo, già cardinale di S. Lorenzo in Damaso e poi di Porto e S. Rufina, era stato indicato, in una lettera di Carlo II d’Angiò, molto opportunamente sottolineata, diversi anni or sono da Edith Pásztor, a Giovanni «de Roca Guillelmi», come punto di appoggio per l’inizio del processo di canonizzazione di Ludovico d’Angiò, il 27 gennaio 1300, stanti i suoi ottimi rapporti con la linea bonifaciana anticolonnese: e non ho bisogno di ricordare i profondi convincimenti «spirituali» di Ludovico d’Angiò13. Che ciò indicasse una propensione esplicita di Matteo per gli Spirituali non affermo di certo: ma se

10 Sulla “storia/profezia” in Dante sono tornato di recente nella Premessa alla ristampa di B. Nardi, Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’, Roma 1992 (Nuovi Studi Storici, 18), pp. V-XXIX. 11 La prima affermazione si trova nel lavoro ricordato del Mellone, Il san Francesco cit., p. 39, passo ricordato anche supra a nota 3; la seconda, invece, si trova nella voce di R. Manselli, Spirituali cit., p. 393a. 12 Per la questione del «protervo decretalista innominato», oltre alla voce già citata del Frugoni relativa a Matteo d’Acquasparta (p. 869), si vedano i commenti di G. Vinay, in D. Alighieri, Monarchia, testo, introduzione traduzione e commento di G. Vinay, Firenze 1950, p. 204, nota 10 e quello, che deliberatamente non riaffronta nemmeno la questione, di B. Nardi, in D. Alighieri, Opere minori, II, Monarchia, Milano-Napoli 1979, pp. 440-441. 13 Per Ludovico d’Angiò, si rimanda a E. Pásztor, Per la storia di san Ludovico d’Angiò (12741297), Roma 1955 (Studi Storici, 5), pp. 23-27 e E. Petrucci, Angiò, Ludovico di, vescovo di Tolosa, in Enciclopedia dantesca, 1 (1970), pp. 274-275, con bibliografia aggiornata, anche a proposito di un improbabile accenno allo stesso in Pd VIII, 145-147.


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Dante avesse voluto mettere in bocca a Bonaventura un giudizio così severo circa la indifferenza o, meglio, la trascuratezza di Matteo nei riguardi della Regola, si sarebbe dovuto dimenticare di tutti questi fatti. Molto difficile, tanto più che chi parla, profetando, («fia») non è il Poeta, ma la più insigne personalità dell’Ordine, dopo Francesco. Tanto più che di Bonaventura, com’è notissimo, si parlava da entrambe le parti, Comunità e Spirituali, col massimo rispetto. Chiedo: poteva immaginare Dante di dar valore ad un giudizio così negativo sull’operato di un successore di Bonaventura alla guida dell’Ordine, facendolo apparire come uno che «fuggisse», addirittura (non stravolgesse, si badi bene) il vero senso della Regola? Molto, molto difficile: per non dire assurdo. Ma rimane invece certo che Matteo – pur con gli atteggiamenti concreti a favore di alcuni dichiarati esponenti degli Spirituali, che abbiamo ricordato – non era uno spirituale. E Dante – animosità politiche a parte, che però non credo abbiano l’importanza che Arsenio Frugoni ha attribuito ad esse per spiegare la famosa terzina di cui ci stiamo occupando14 – doveva essere profondamente convinto che Matteo, non fosse stato uno «spirituale», nemmeno in pectore. Ce lo dimostra, anche a prescindere, per ora, dalla soluzione del problema interpretativo che ci siamo posti relativamente al supposto «chiasmo», proprio la circostanza che lo indichi nelle parole di Bonaventura come confrontato ad Ubertino: della cui «ideologia» – chiedo scusa per l’uso del vocabolo – non poteva certissimamente avere dubbi15. Ma ecco: io ho usato confrontato, non contrapposto, per rendere evidente una distinzione molto netta, non necessariamente una contrapposizione. E l’ho fatto a ragion veduta. In primo luogo, parlare di correnti contrapposte, blocco contro blocco, nella profezia di Bonaventura che è ancora una profezia ottimistica («ancor troveria carta/u’ leggerebbe «I mi son quel ch’i’ soglio»), sarebbe improprio: l’autodefinizione di Bonaventura («nei grandi offici, sempre pospuosi la sinistra cura») è già una forte precisazione di quello che il francescano che voglia dire di sé «I’ mi son quel ch’i’ soglio» deve fare, anche se posto in «grandi offici», come era avvenuto per Bonaventura; il ricordo di personalità ecclesiastiche, Cfr. la voce Matteo d’Acquasparta, ricordata più volte nelle note precedenti. Il giudizio complessivo più calzante – oltre a quanto scritto da Manselli nella voce enciclopedica Spirituali cit. – è ancora quello che si legge in B. Nardi, Dante e la cultura medievale, nuova ed. a cura di P. Mazzantini, introduzione di T. Gregory, Bari 1983, pp. 272-275; si veda anche la citata mia Premessa alla ristampa dell’opera nardiana Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’, Roma 1992, pp. XXII-XXIII seguito di nota 35. Specificamente sul problema dei rapporti tra Dante e Olivi e Dante e Ubertino si veda R. Manselli, Pietro di Giovanni Olivi ed Ubertino da Casale, «Studi medievali», III ser., 6/2 (1965), pp. 95-122: 121-122; C.T. Davis, Ubertino da Casale and his Conception of «altissima paupertas», ibid., 22/1 (1981), pp. 1-56. 14 15


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accanto a due dei primi discepoli di Francesco (Illuminato e Agostino), tutte di elevato impegno morale, religioso, culturale e pastorale, rafforzano il paradigma prospettato da Bonaventura. Dal confronto tra «uno che la fugge (la scrittura, cioè la regola) e l’altro (che) la coarta», da un lato, e Bonaventura ed i suoi compagni nella gloria del cielo del Sole, dall’altro, risalta la traccia da seguire per l’Ordine, impastoiato dalle aporie interne del confronto tra due interpretazioni della Regola. Due ordini di confronti allora: uno, di carattere generale, che è quello che abbiamo testé illustrato; un altro, all’interno dell’Ordine, che potremmo chiamare la disputa instauratasi sull’intentio regulae, sull’usus pauper distinto della paupertas, dopo la morte di Bonaventura, che avvenne, come si sa, nel 1274: il punto di partenza ufficiale delle distinzioni è certamente da fissarsi al 14 agosto 1279, data della promulgazione della Exiit qui seminat, di Niccolò III: veramente è da sottoscriversi ancora una volta in pieno la definizione datane da Paolo Grossi anni or sono: «la Exiit qui seminat, come atto dottrinale e normativo insieme, rappresenta per noi la confluenza di due filoni di pensiero, quello rigorosamente giuridico di marca squisitamente medievale, e quello teologico-filosofico gremito di fermenti nuovi; tanto più che venendo promulgata nel 1279, essa si pone in un terreno sì ancora formativo della grande controversia, ma già sufficientemente segnato dai primi ampli trattati sulla povertà come quelli di S. Bonaventura, di Giovanni Peckham, di Pietro Olivi»16. Considerazioni che sono recentissimamente – ed autonomamente – confermate da quanto scrivono David Flood e, soprattutto, Andrea Tabarroni negli Atti del Convegno Dalla sequela Christi di Francesco d’Assisi all’apologia della povertà17. La Exiit qui seminat è lo spartiacque definitivo tra la fase della discussione sull’autenticità della Regola e quella sull’autenticazione della medesima18. In altri termini, per Bonaventura che non aveva partecipato per motivi naturali alla preparazione della stesura della Exiit qui seminat, a differenza di altri protagonisti della disputa sulla povertà francescana accesasi nell’ultimo quarto del sec. XIII quali Girolamo Masci (Niccolò IV), Bentivegna de’ Bentivegni, Bonagrazia da S. Giovanni in Persiceto, Pietro di Giovanni Olivi e Benedetto Caetani, siamo in una fase in cui la discussione sull’intentio regulae non è ancora vincolata da un documento pontificio che risultò essere – magari

16 Cfr. P. Grossi, «Usus facti», in P. Grossi, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano 1992, p. 134. 17 Cfr. D. Flood, The Order’s Masters. Franciscan Institutions from 1226 to 1280, in Dalla «sequela Christi» di Francesco d’Assisi all’apologia della povertà, Atti del XVIII Convegno della Società internazionale di studi francescani (Assisi, 18-20 ottobre 1990), Spoleto 1992, pp. 41-78. 18 Cfr. A. Tabarroni, La Regola francescana tra autenticità ed autenticazione, ibid., pp. 79-122: in particolare le pp. 105 ss., con riferimenti testuali all’uso di intentio regulae.


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al di là delle intenzioni – un complesso tentativo di compromesso tra posizioni molto diversificate ed articolate: e si chiarisce così ancora meglio il «I’ mi son quel ch’i’ soglio», rivendicato da chi proprio ufficializzando la sua biografia di Francesco aveva tentato di prevenire la tempesta che già si annunziava ai suoi tempi e che avrebbe preso le mosse proprio dalla Exiit. Matteo d’Acquasparta non aveva potuto sottrarsi a quella tempesta poiché come sappiamo da una notizia del Catalogus ministrorum generalium, non sempre presa nella dovuta considerazione, nel 1287 aveva assunto aperta posizione contro uno scritto di frate Nicola Ghistelle, provinciale di Francia, che aveva discusso la bolla di Niccolò III: dal Catalogus noi apprendiamo soltanto che l’opuscolo del provinciale francese – che era stato, tra l’altro, penitenziere di papa Niccolò III, prima di assurgere alla carica di provinciale all’interno dell’Ordine – fu condannato da Matteo, dopo che tesi in esso esposte avevano raccolto numerosi consensi19. Dell’opuscolo condannato non conosciamo il testo perché venne distrutto per ordine dello stesso Matteo d’Acquasparta, probabilmente nel corso del capitolo generale di Montpellier del 128720. Indipendentemente dalla questione relativa all’allusione dantesca, non si può non rilevare che Nicola di Ghistelle, proprio in quanto penitenziere di Niccolò III, era in ottima posizione per valutare le intenzioni che avevano mosso il papa a promulgare la Exiit qui seminat, oltre che a conoscerne i precedenti. L’Elizondo – non si riesce a comprendere bene su quale fondamento – scrive che Matteo d’Acquasparta impose la «puram observantiam» della normativa contenuta nella bolla: ma quanto è certo è che – già a pochi anni dalla promulgazione – la bolla papale aveva trovato un’opposizione di rilievo, sì da indurre il ministro generale, appena eletto, ad intervenire. Segno indubbio che la Exiit qui seminat non aveva sortito gli effetti sperati, soprattutto perché aveva fornito delle spiegazioni (declarationes come si solevano chiamare) giudicate limitanti il senso della regola. La lettera di Pietro di Giovanni Olivi a Corrado di Offida21 è una testimonianza irrefragabile circa il dissenso creatosi intorno alla Exiit qui seminat sul pericolo che il lasciarsi coinvolgere nella dialettica delle

19 Sulla vicenda si veda F. Elizondo, Bulla «Exiit qui seminat» Nicolai III (14 Augusti 1279), «Laurentianum», 4 (1963), pp. 59-117: 108 e nota 217; per il Catalogus Ministrorum Generalium cfr. Cronica fratris Salimbene de Adam, a cura di O. Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores, XXXII, Hannoverae 1963, pp. 668-669. 20 Cfr. Elizondo, Bulla cit., p. 108 e nota 217. 21 Per la lettera a Corrado da Offida cfr. L. Oliger, Petri Johannis Olivi De renuntiatione papae Coelestini V. Quaestio et Epistola, «Archivum Franciscanum Historicum», 11 (1918), pp. 366 ss.; il riferimento nel testo è a p. 366; sul senso generale della lettera si rimanda a R. Manselli, La «Lectura super Apocalipsim» di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medievale, Roma 1955 (Studi storici, fasc. 19-21), pp. 171 ss.


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precisazioni e delle controprecisazioni relativamente all’interpretazione della Regola, poteva rappresentare per l’Ordine. Non è questo il luogo per discutere dell’importanza della lettera a Corrado nell’economia del pensiero oliviano: ma è opportuno sottolineare la preoccupazione eminente che guida l’Olivi nello scrivere a Corrado sin dalle prime battute: «Fide digna relatione percepi et etiam per litteras michi missas quosdam sub zelo et specie altissime paupertatis in errores varios incidisse et suos ordines exivisse»22. Tutto il contesto della lettera puntualizza che l’interpretazione della regola è un impegno personale, di ogni singolo frate, di cui va valutata la pia intentio, esattamente come era stata pia l’intentio dello stesso Francesco nello stilare il Testamento, che, secondo i destinatari del rimprovero dell’Olivi, sarebbe stato addirittura cassato dalla declaratio papale. E questo impegno volontaristico, non rapportato ad una normativa esclusiva, conta in maniera definitiva: la spiegazione che l’Olivi rende del carattere non coartante delle bolle papali – Quo elongati; Exiit qui seminat – non può non configurarsi se non come la preoccupazione di esaltare al massimo le capacità perfettive del singolo francescano, le quali capacità, così come non sono state quantificate esclusivamente dalle declarationes papali, giusta l’interpretazione che ne dà l’Olivi, non possono essere quantificate da coloro cui si accenna nella lettera, pur animati da «zelo [...] altissime paupertatis». Essi per ciò stesso sono «usciti dall’Ordine»: l’uscita dall’Ordine – e cioè la «fuga» – è una conseguenza che non può essere tratta dalle argomentazioni degli zelanti. Si tratta di un modo di approccio all’interpretazione della Regola che viene nettamente ripudiato: ma non perché si rinunzi alla tensione dell’«altissima paupertas». Se ciò è vero, come io credo, ne deriva una sorta di sottile, ma stringente interpretazione dei testi delle varie declarationes papali, che, mentre le difende «oggettivamente», altrettanto oggettivamente le vincola ad un codice interpretativo ben diverso da quello della Comunità. Ed allora non conta – per comprendere l’atteggiamento degli Spirituali più pensosi, tra i quali era certamente l’Olivi – l’affinità di tematica (altissima paupertas, innanzi tutto!) che si riscontra negli scritti di contrastante tendenza, o il richiamarsi alle stesse bolle papali o a Bonaventura, da tutti rispettato e citato, o l’applicazione a Francesco della figura dell’angelo del sesto sigillo, che è propria anche di Matteo d’Acquasparta, come già rilevava Raoul Manselli una quarantina d’anni fa23. Ma ciò premesso, non siamo ancora riusciti a risolvere il problema del “chiasmo”; perché, accertato che Matteo era stato implicato nella disputa sulla Exiit qui seminat, rimane da stabilire vieppiù se Dante avesse voluto vedere, 22 23

Cfr. nota precedente. Cfr. Manselli, La «Lectura super Apocalipsim» cit., p. 212 nota 2.


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proprio in quel coinvolgimento, una sorta di «trascuratezza» della Regola da parte del cardinale e prima ministro generale: voglio dire che «fugge» può bene addursi di un atteggiamento di netto schieramento a favore delle definizioni papali circa l’intentio della stessa, che Dante ripudiava, sia pure per bocca di Bonaventura e sia pure per bocca di chi alla diatriba sull’usus pauper non aveva potuto prender parte. Accertata la «contestualità» della scelta dantesca dei personaggi (Ubertino e Matteo), non ne consegue che il Poeta non volesse riferirsi all’accusa di eccessiva «rigidità» delle posizioni degli Spirituali e di Ubertino in particolare. È il ben noto problema del significato da attribuire a «coarta», che, come si è detto, anche al principio di questa comunicazione, costituisce lo scoglio contro il quale si è infranta la sensibilità di storici del calibro di Raoul Manselli, nel concedere una qualche udienza alla ricostruzione del senso della nostra terzina famosa e famigerata. Scriveva infatti il nostro carissimo amico: «questa ipotesi (quella dell’ordinamento non “chiastico” di «fugge» e di «coarta», che era già stata avanzata da Cristoforo Landino) [...] purtroppo non spiega come e perché Matteo avrebbe potuto coartare la regola; e ci sembra, perciò, insostenibile»24. Manselli scriveva queste parole nella voce dell’Enciclopedia dantesca dedicata ad Ubertino da Casale: ma già prima, nella voce della stessa Enciclopedia dedicata a Matteo d’Acquasparta, Arsenio Frugoni – non ricordato dal Manselli – aveva sottolineato il carattere tecnico dell’uso di “coartare”, rinviando all’Expositio quatuor magistrorum, capp. II e IX, in cui «coarctare» vuol dire «determinare restringendo ciò che la regola non precisa e non determina»25. Già: ma al solo patto di scegliere come termine sul quale misurare la «coarctatio» un’accezione per così dire «comunitaria» della regola stessa. Il che, ci sia concesso chiosare, non è proprio il caso di Bonaventura e, soprattutto, non è il caso di Dante. Chi aveva voluto determinare, restringendo, ciò che nella regola non era detto, al tempo di Dante, nella contestualità dei termini del suo ricordo storico, non era certamente Ubertino: quello intendo, dell’Arbor vitae crucifixae, cap. IX, in cui erano appunto le distinzioni tra paupertas e usus pauper a determinare ciò che nella regola determinato e precisato non era. Ma di ciò dopo. Verifichiamo la rispondenza del rinvio del Frugoni all’Expositio. Il cap. II affronta il problema «quibus solummodo et non aliis recipiendi fratres licentia concedatur». Si era dubitato da parte dei «fratres» se fosse possibile concedere ai vicari del ministro la facoltà di accogliere nuovi fratelli nell’Ordine: e la risposta della Curia papale era stata negativa: «Et apostolica expositio dicit quod non, quia nec hoc ipsis ministris permittitur, nisi eis super hoc specialis licentia concedatur, quibus generalis 24 25

Cfr. Manselli, Ubertino da Casale cit., p. 783a-b. Cfr. Frugoni, Matteo d’Acquasparta cit., p. 869a.


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minister sicut concedere, sic negare potest licentiam supradictam, cum tamen ante expositionem habitam ipsi ministri ex hoc capitolo auctoritatem ordinariam recipiendi fratres habere putarent. In quo articulo videtur expositio intellectum regulae coartare [...]»26. Quindi l’expositio – che pure era una apostolica expositio – era un restringimento del senso (leggi intentio regulae) del capitolo della regola: sì che successivamente fu concesso un privilegio che consentiva ciò che prima era stato “coartato”27. Nel cap. IX relativo alla predicazione dei frati senza il consenso dell’ordinario diocesano, l’expositio corrente era stata di non accogliere un’interpretazione più ampia: ed anche in questo caso si sottolineava che «in qua expositione videtur intentio regulae coarctari»28. Quindi «coarctare», ben prima della questione della paupertas e dell’usus pauper e della stessa Exiit qui seminat, era riferito all’intentio regulae, unico parametro che poteva stabilire se ci fosse o meno un «restringimento» nell’interpretazione. Ora in quella che abbiamo chiamato la «contestualità» del dibattito ai tempi di Dante, nella dimensione «profetica» di Bonaventura, l’intentio regulae è commisurata all’estensione dell’osservanza della paupertas. Qualsiasi «riduzione» o «distinzione» di quella osservanza era una «coartactio». Non è metodologicamente lecito, allora, assumere, in senso univoco il valore di «coarctatio», essendo questo termine una variabile dipendente da una variabile indipendente che è la contestualità storica. Al tempo di Dante, ma nella prospettiva profetica di Bonaventura, si parlava dell’interpretazione della Regola avuto riguardo alla disputa sull’usus pauper distinto dalla paupertas: una distinzione che però, al tempo di Bonaventura, non era stata ancora definitivamente ufficializzata, in quanto posta ufficialmente in discussione nella stessa Exiit qui seminat29. Si aggiunga che «coartare» – e

26 Il rinvio alle Expositiones è contenuto nella voce di Frugoni, Matteo d’Acquasparta cit. dove è citata l’edizione: Expositio quatuor Magistrorum super regulam Fratrum minorum, a cura di L. Oliger, Roma 1950; ma sarà ora da vedere il citato saggio di Tabarroni (cfr. supra nota 18), pp. 106 ss., in cui si prende proprio in esame il valore «restrittivo» della precisazione di Gregorio IX. Per il rapporto Olivi/Ubertino in tema di «paupertas», si rimanda a Manselli, Pietro di Giovanni Olivi cit. 27 Tabarroni si sofferma, nel citato articolo, proprio sull’expositio relativa ai cap. II e IX della Regola bullata e nota che (p. 107) «Da un lato, infatti, non era possibile attenersi all’interpretazione restrittiva (corsivo nostro) della Quo elongati; dall’altro molti ritenevano che i privilegi papali costituissero un rilassamento della regola e i frati per questo erano restii a valersene». Si era nella prima metà del sec. XIII e già la tradizione francescana vedeva proprio nelle declarationes papali delle interpretazioni «coarctatae». Anche se Tabarroni non ha affrontato - perché esorbitante dal suo tema - la questione dell’allusione dantesca a Matteo d’Acquasparta, mi pare che la sua autonoma analisi confermi in pieno la mia interpretazione dell’attribuzione di «coarta». 28 Cfr. Expositio quatuor Magistrorum, pp. 163 ss. 29 Cfr. supra nota 16, con il rinvio alle valutazioni di P. Grossi.


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il Mellone lo ha richiamato30– appare, nel lessico dantesco, una sola volta, appunto nei versi di cui stiamo discutendo. Dante, vicino alla temperie morale degli Spirituali, avrebbe usato «coartare» nel senso che gli avversari degli Spirituali rimproveravano ai vari Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale? Par proprio illogico, soprattutto mantenendosi intatto il giudizio su quella vicinanza: anche a prescindere dal fatto che, solitamente, è «strictus» o «arctus» l’aggettivo qualificativo usato dagli Spirituali con riferimento all’usus della paupertas, non «coarctatus». A seconda di quella che si presenta come intentio regulae, si misura su quale parametro si debba recepire la «coarctatio». Essa – nel senso generale della Regola – non è il suo «usus arctus»: e perciò, secondo me, non è assolutamente possibile vedere nella Exivi de Paradiso un testo che Dante avrebbe accettato per il suo contemperamento di opposte esigenze manifestatesi nella interpretazione della regola. È assolutamente fuorviante, mi pare, scrivere, come è stato fatto recentemente, questo giudizio: «Dante [...] accettava la bolla di Clemente V, nonostante la condanna inflitta a questo papa per la sua condotta»31. Questa, sino a prova del contrario, è un’illazione: chi può infatti, provare che Dante nella Exivi de Paradiso «avrebbe vista affermata, non negata la propria concezione della povertà?»32. Non solo il «Guasco» è sempre ricordato negativamente, ma la Exivi de Paradiso (6 maggio 1312) non è mai menzionata in tutta l’opera del Poeta, proprio perché nessuna delle bolle pontificie relative alla questione della paupertas, dalla Quo elongati di Gregorio IX alla Exiit qui seminat, alla Quorundam exigit di Giovanni XXII (7 ottobre 1317) è mai menzionata33. Si dirà che Bonaventura non avrebbe potuto conoscerle – Quo elongati a parte e Nec insolitum di Cfr. Mellone, Il san Francesco di Dante cit., p. 36, nota 111; ma si veda anche supra nota 6. Del tutto inaccetabile la spiegazione di A. Mellone, Il san Francesco di Dante cit., p. 52, che interpreta le parole di Beatrice (Pd. VII, 77) «[avete] e’i pastor della Chiesa che vi guida» come attribuibili a Clemente V, poiché «Dante accettava la Bolla di Clemente V [Exivi de Paradiso], nonostante la condanna inflitta a questo papa per la sua condotta, e riteneva, pure lui, come aveva ritenuto Bonifacio VIII, che Clemente V fosse il pastor che vi guida a salvamento». C’è da allibire: Dante, per bocca di Beatrice, avrebbe in Clemente V mostrato il «pastor che guida a salvamento»: un modello per i fedeli. Ad ogni costo si vuole mostrare che anche i peggiori tra i papi meritano il rispetto, la “reverentia”: e non è, crediamo, un caso che il commentatore moderno ricordi Bonifacio VIII. E ciò per evitare una contraddizione tra l’atteggiamento condiscendente –almeno in apparenza– verso gli Spirituali da parte di Bertrand de Got e le aperte simpatie –almeno riconosciute come tali– di Dante verso gli stessi. In buona sostanza –come già avvenuto per Bonifacio VIII– per salvare il salvabile, ancora una volta, in un pontefice romano, che Dante aborriva, per lo meno quanto Bonifacio VIII (vedi la voce Clemente V in Enciclopedia dantensca, più che in Enciclopedia dei papi. 32 Ibid. 33 Il che, ovviamente, non vuol dire che l’opera giuridica di Gregorio IX, di Innocenzo IV, di Clemente V e di Giovanni XXII fosse ignota a Dante; si vuol solo notare che Dante non men30 31


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Innocenzo IV (22 dicembre 1254) a parte – e quindi Dante non avrebbe potuto commettere degli “anacronismi”: ma non era stato detto che contava in Dante non tanto la corrispondenza tra la presentazione dei personaggi di Pd XII, 124 sgg. e la realtà, quanto l’emblematicità di quei personaggi per le correnti che essi dovevano rappresentare34? Tutte le precisazioni, le determinazioni, le riduzioni («coarctationes») non avevano risolto il problema del passaggio dall’autenticità all’autenticazione della Regola. Ed allora si può comprendere che Dante, anche ammesso che conoscesse quelle bolle pontificie, volesse deliberatamente e vieppiù fermarsi all’esaltazione dell’altissima paupertas che trovava in Bonaventura, nella Legenda maior come nell’Apologia pauperum: e Bonaventura è l’unica auctoritas citata esplicitamente, anche se ciò non vuol dire affatto che il Poeta non conoscesse scritti dell’Olivi e di Ubertino da Casale35. Bonaventura, dopo Francesco, nella fedeltà al dato essenziale dell’esemplarità di vita di Francesco, cioè la povertà, è l’unico e l’ultimo parametro di giudizio che Dante accetti nel lineamento storico delle vicende dell’Ordine. Il resto, che si sussegue nella storia tormentata dell’ultimo quarto del sec. XIII non può essere che stravolgimento dell’essenza stessa del messaggio del Poverello; tutto il resto, si badi, non quello della Comunità o quello degli Spirituali: una coarctatio, appunto, una forzatura, uno snaturamento. Ecco allora che non pare abbia molto senso parlare di «equidistanza» tra due «opposti estremismi», non trattandosi né dovendosi trattare, almeno per Dante, di «ideologie»36. D’altro canto, scegliendo Bonaventura come unico vero interprete di Francesco, Dante si mostra pienamente consapevole della non identificabilità del «doctor seraphicus» con Francesco, dell’avvenuta piena storicizzazione e clericalizzazione dell’Ordine e del suo inserimento nella struttura della Chiesa: così come si mostra anche consapevole del fatto che ciò che non poteva non avvenire – cioè quella storicizzazione – non poteva costituire una spiegazione e una giustificazione per abdicare ai valori irrinunciabili del francescanesimo stesso37.

ziona quelle bolle; non si dice che non le conoscesse, anzi, se le conosceva, non le voleva citare come non adatte alla sua argomentazione! 34 Cfr. supra nota 11. 35 Basterà rimandare alle voci enciclopediche ed all’articolo di Manselli, Pietro di Giovanni Olivi cit. 36 L’idea di una consapevole avversione dantesca agli «opposti» estremismi è un topos diffuso nella letteratura dantesca; quanto qui detto dovrebbe mostrare che essa nasce dal non considerare nella sua severissima coerenza il pensiero morale di Dante. 37 Cfr. R. Manselli, La clericalizzazione dei Minori e san Bonaventura, in S. Bonaventura francescano, Todi 1974, pp. 183-208: 208.


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La povertà era impegno morale, non casistica di usus più o meno pauperes, al plurale come recitava invece la Exivi de Paradiso38. Così Dante era pienamente consapevole che Bonaventura voleva indicare come si potesse essere francescani ed essere pienamente inseriti nella struttura storica della Chiesa del tempo (=quello di Bonaventura!): una prova l’aveva data egli stesso, sempre anteponendo la sua «scelta» agli alti offici, cosa che non poteva certamente dirsi di Matteo d’Acquasparta, anche in un’ottica non viziata da pregiudiziali «politico/ideologiche» quali quelle che poteva avere Dante. Nella terzina di cui stiamo discutendo non c’è nessuna condanna della «storicizzazione» dell’Ordine, sibbene la ripulsa della contraffazione dello spirito francescano che si attua nel dedicarsi precipuo da parte dei ministri dell’Ordine francescano all’attività diplomatica della Curia: da Girolamo Masci a Matteo d’Acquasparta39. La simpatia per gli Spirituali – sempre che se ne debba parlare come di una netta e precisa corrente ideologica contrariamente a quanto da anni ormai è stato precisato40 – nasce soltanto dal prevalere che viene da essi posto (Olivi e Ubertino) sull’identità pauperistica del francescanesimo, al di là della stessa «ministerialità» per la Chiesa dell’Ordine medesimo. Rimane il «fugge» da applicarsi, se la nostra spiegazione è accettabile, ad Ubertino. L’impossibilità di un tale riferimento oltre alla pregiudiziale che era «ovvio» che a restringere la Regola dovesse essere Ubertino – è stata intravista nel fatto che se Dante avesse voluto riferirsi all’abbandono, più o meno forzato, più o meno accettato, da parte di Ubertino, dell’Ordine francescano, avrebbe dovuto scrivere il canto XII del Paradiso dopo il 1317, allorché appunto Ubertino era formalmente entrato a far parte dell’Ordine benedettino, a Gembloux41. Ma, si è detto, una tale presupposizione non è ammissibile, perché il canto XII del Paradiso era già composto a quella data e forse anche diffuso42. Donde si ricavi questa certezza non è dato di sapere: anche perché essenÈ lo stesso Mellone, Il san Francesco di Dante cit., p. 51, a ricordarlo. Per Girolamo «Masci» (Girolamo da Ascoli, poi Niccolò IV) si veda ora Niccolò IV: un pontificato tra Oriente ed Occidente, Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del VII centenario del pontificato di Niccolo IV (Ascoli Piceno, 14-17 dicembre 1989), a cura di E. Menestò, Spoleto 1991, in particolare l’articolo di M.C. De Matteis, Girolamo d’Ascoli: dall’esperienza francescana alla politica ecclesiastica, pp. 91-108. 40 Penso a quanto è stato da tempo precisato da R. Manselli e da E. Pásztor: cfr., tra le tante cose, E. Pásztor, Gli Spirituali di fronte a S. Bonaventura, in S. Bonaventura francescano cit., pp. 161-179, lavoro in cui, tra l’altro, si precisa la varietà di significati che assume la posizione degli Spirituali rispetto ai problemi posti, nella seconda metà del Duecento e poi ai tempi del Concilio di Vienne, nel collegamento con Bonaventura; il che è illuminante anche ai fini del presente articolo. 41 Cfr. Manselli, Ubertino da Casale cit., p. 783a. 42 Cfr. Mellone, Il san Francesco cit., p. 37. 38 39


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do il XII del Paradiso in stretta connessione con il precedente, che contiene l’elogio del francescanesimo da parte di Tommaso43, si dovrebbe per lo meno supporre che entrambi i canti fossero stati scritti ed addirittura diffusi prima della Ad quorundam exigit. Ora è notissimo che un conoscitore di Dante e della tradizione manoscritta della Commedia quale è stato il Petrocchi ha, con buoni argomenti, pensato ad una revisione continua del testo del Paradiso negli ultimi mesi di vita del Poeta44. Ma ciò non è bastato, in forza di un pregiudizio per il quale Dante, come si è già detto45, avrebbe condiviso in toto la Exivi de Paradiso di Clemente V46, rispetto alla quale la presa di posizione di Ubertino sarebbe stata un atto restrittivo dell’interpretazione. E non basta: Ubertino avrebbe commesso una grave colpa di disobbedienza nei confronti di una disposizione papale, incorrendo nelle più gravi sanzioni47. Ora io chiedo: ve lo immaginate voi un Dante così preoccupato di allinearsi sulle posizioni più «formali» dei canonisti, per i quali la disobbedienza al papa – e quale papa, aggiungiamo: quel Clemente V già condannato all’inferno, che ha già il suo posto all’inferno, quand’è ancora regnante, come simoniaco ricordato due volte, nell’Inferno e nel Paradiso48!– la disobbedienza al papa, si diceva, era peccato gravissimo? E via! D’altra parte, non basta supporre che la condanna di Ubertino da parte di Dante fosse dovuta al fatto che il Poeta avrebbe giudicato lo stesso come «un fazioso, che giocava con le idee», che si immaginava Bonifazio VIII e Benedetto XI quali anticristi mistici, ma poi era disposto ad accettare l’ospitalità di cardinali e dello stesso papa: un Ubertino ben diverso negli anni successivi alla composizione dell’Arbor vitae crucifixae dal maestro, di cui peraltro seguiva, in fatto di altissima paupertas, l’opera dell’Olivi49. Certo Ubertino era diverso dall’Olivi, che era rimasto, nonostante tutto, nell’Ordine, accettando anche l’imposizione del silenzio: ed aveva dovuto attendere un Matteo d’Acquasparta, così diverso da lui, per tornare ad insegnare50. Non era fuggito l’Olivi, come avrebbe fatto il suo discepolo: e Ubertino non poteva, nella profezia bonaventuriana, essere tra coloro che si sarebbero accinti a rileggere il volume «a foglio a foglio», per poter riaffermare di essere autentici francescani. 43 44

46 ss.

Cfr. Pd XI, vv. 43-117. Cfr. G. Petrocchi, Biografia di Dante, in Enciclopedia dantesca, VI (1978), soprattutto pp.

Cfr. supra nota 42. Cfr. Mellone, Il san Francesco di Dante cit. p. 52. 47 Ibid. p. 48. 48 Cfr. R. Manselli, Clemente V, in Enciclopedia dantesca, II (1970), pp. 39-40. 49 Rimandiamo al più volte citato art. di Manselli, Pietro di Giovanni Olivi cit. 50 Cfr. R. Manselli, Olivi, Pietro di Giovanni, in Enciclopedia dantesca, IV (1973), pp. 135137, in particolare la p. 135b. 45 46


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Fissato in Bonaventura – quello della Legenda maior o quello della Apologia pauperum, ha poco rilievo per Dante – il termine cronologico ed esegetico massimo per il Poeta, le discussioni successive al 1274 non sembra che possano avere avuto altra importanza per lui se non quella di una conferma che il francescanesimo nella sua essenza era ormai coinvolto nella crisi della Chiesa di cui l’Ordine, in quanto tale e in quanto clericalizzato al di là delle stesse conseguenze che aveva previsto il doctor seraphicus, era diventato parte infrastrutturale essenziale. Era cioè entrato a far parte di una storia che era contraddistinta dal segno della confusione: i vv. 115-117 («La sua famiglia, che si mosse dritta/coi piedi a le sue orme, è tanto volta/che quel dinanzi a quel di retro gitta/») ne sono la più netta esplicitazione. Né bolle papali, né discussioni teologiche o argomentazioni giuridiche, estranee al messaggio di Francesco, di cui Bonaventura si fa eco, senza ripudiare il suo stesso operare, potevano essere un rimedio: non era questo il campo in cui si sarebbe potuto avventurare chi avesse voluto, con il raddrizzamento dei Francescani, operare la palingenesi della Chiesa. Ed è perciò, io credo, che non abbia poi molto peso – ai fini dell’intelligenza della ricostruzione del lineamento storico del francescanesimo che Dante compie nel canto XII del Paradiso per bocca di Bonaventura – stabilire se l’arca in cui il loglio non entrerà debba significare l’Ordine o la salvezza eterna. L’assimilazione del francescanesimo all’essenza stessa della Chiesa consente di annullare la distinzione su cui si sono attardati tanti esegeti. Il vero Ordine è la vera Chiesa: e di essa non possono far parte né le diatribe dottrinali, né le bolle papali, né gli espedienti, come le fughe o le distinzioni giuridiche. Ormai, lasciata la strada di Bonaventura, tutto è rinviato ad una verifica che Dante stesso ha intrapreso nella sua «visione», che è la Commedia51. Ubertino e Matteo, con le ovvie gradualità di accostamento che si devono ancora riconoscere in Dante, non appartengono alla vera storia: a quella che non sia sotto il segno del traviamento, della contraffazione, ripeto, che si sta operando nei tempi del Poeta. È osservazione che non tocca soltanto l’atteggiamento nei riguardi del francescanesimo, ma tanti altri aspetti del mondo contemporaneo di Dante, come altre volte ho indicato. In particolare, per il tema del nostro incontro, Matteo non poteva, non doveva ricevere diverso giudizio dal Poeta: ma non per equilibrio tra diversi estremismi, per inspiegabili cambiamenti di campo dell’Alighieri (vedi: condanna degli Spirituali), ma solo perché la condanna di una falsa storia era stata già pronunziata da tempo. Se no, non si capirebbe la Commedia. Lo ha detto Bruno Nardi: ed a me basta questo altissimo conforto. 51 È quanto ho ampiamente discusso nella citata Premessa alla ristampa dell’opera nardiana Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ cit. supra a nota 15.


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La polemica antibonifaciana* L’assunto del tema che svolgerò ha una sua precisa connotazione giuridicoformale, pur facendosi ogni dovuto spazio a considerazioni di carattere letterario, psicologico, religioso: non è infatti senza significato, se non m’inganno, che l’ultima ponderosa monografia di Jean Coste, dedicata appunto agli atti processuali relativi a Bonifacio VIII, abbia assunto la invettiva jacoponica «O papa Bonifazio molt’hai iocato al monno», l’unica che sia stata presa in considerazione nel dossier del Coste – anche al di là della stessa consapevolezza dichiarata dell’autore, si badi! – con il valore di una pièce dal significato pubblicistico/giuridico, che non è stata mai analizzata, né dalla copiosa letteratura storica precedente, né dallo stesso Coste, come tale1. Perché metodologicamente se un testo considerato come fonte per gli stessi preamboli di un processo, alla pari con il manifesto di Lunghezza, sottoscritto da Jacopone e con gli altri documenti Colonnesi – di qui la classificazione all’interno del dossier del Coste come PR 4 – preamboli che noi potremmo facilmente indicare come fase «istruttoria» –, se un testo siffatto, dicevo, assume il valore di fonte, esso implica di necessità un collegamento con un contesto testimoniale di eguale o simile natura. E questo il pregevolissimo lavoro del Coste non ha fatto: io penso perché gliene è mancato il tempo. La sua opera rimane in ogni caso ampiamente meritoria, per il solo fatto che ha tenuto presente che l’immagine che si è tramandata alla storia di Bonifacio e con lui, in modo eminente, di Jacopone, è il frutto di un procedimento squisitamente accusatorio: in senso giuridico, intendo. E ciò, a mio parere, perché ogni altro * Desidero chiarire che l’adozione anche da parte mia dell’appellativo “manifesto di Lunghezza” non ha né vuole avere alcun carattere attualizzante, ma far intendere subito al lettore quale testo si voglia indicare tra gli svariati scritti dei Colonna, visto che la stessa storiografia corrente ne fa uso. Lo stesso dicasi per l’uso di “propaganda”, che non ha alcun riferimento – come si è paventato in uno due convegni tudertini – all’esistenza e alla funzione di una sorta di Deutsche Nachrichten Bureau! 1 Cfr. J. Coste, Boniface VIII en procès. Articles d’accusation et dépositions des témoins (13031311), Roma, 1995 (Pubblicazioni della Fondazione Camillo Caetani, a cura di L. Fiorani: Studi e documenti d’Archivio, 5). Considerazioni particolari sul libro del Coste, in relazione a Jacopone, sono state fatte da M.C. De Matteis, Bonifacio VIII e Jacopone: Prospettive storiografiche recenti, in Un francescano scomodo, ma attuale, Bologna 1997, pp. 81-92 (Quaderni della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, 1).


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procedimento di tipo inquisitorio – per continuare nell’assunzione di una terminologia giuridica moderna nella fattispecie di una casistica di indagine – il papa indagato! – ogni altro procedimento di tipo inquisitorio, dicevo, sarebbe stato formalmente impossibile, dacché il papa non poteva essere indagato2. Ogni processo accusatorio – è noto – deve essere molto circostanziato, per quanto concerne il magistrato, cui è rivolta la delatio, e il tempo: appena il caso di ricordare il Digesto, nella attestazione di Paolo «Libellorum inscriptionis conceptio talis est. Consul et dies. Apud illum praetorem etc. etc.»3. Ma è altrettanto noto che il procedimento accusatorio – a parte quanto già osservato per il pontefice romano – conobbe limitazioni sin dall’epoca Severiana (esempi appunto nel Digesto) sino a sparire quasi del tutto nelle Novelle giustinianee4. Nel diritto canonico – non dovrei nemmeno dirlo – era di estrema, se non impossibile, attuazione. Si aggiunga inoltre che proprio nel Duecento – ed ovviamente in terre italiane – non solo sparirono quasi del tutto le tracce del processo accusatorio, ma si ebbe un affermarsi larghissimo delle procedure inquisitoriali: e per ciò, come già ricordato, escludenti il papa. Preambolo, questo, necessario per collocare in una prospettiva alquanto diversa da quella tradizionale il significato ampio delle accuse jacoponiche contro Bonifacio. Una delle poche certezze biografiche relative a Jacopone è rappresentata dalla sua sottoscrizione del cosiddetto Manifesto di Lunghezza, del maggio 1297: manifesto che a sua volta nasce in un clima di forte tensione antibonifaciana e mostra negli estensori – con apparente pieno accordo dei sottoscrittori – una notevole consapevolezza delle strategie da usare per un attacco così violento contro un papa regnante5. È difficile stabilire una data esatta per il nascere di accu2 Circa il testo di Jacopone «O papa Bonifazio molt’hai iocato al monno» si può vedere che cosa ne ha scritto lo stesso Coste, Boniface VIII cit., pp. 63 ss., che ha assunto come edizionebase per la propria quella di F. Ageno, Laudi, trattati e detti, Firenze 1953, pp. 229-232, proponendo la soppressione dei vv. 47-66 e il mantenimento dei vv. 43-46, per motivazioni che discuteremo più avanti. Circa l’ingiudicabilità del papa, la letteratura storica è amplissima; si citeranno di volta in volta i testi e gli studi più pertinenti all’assunto della relazione. Buone indicazioni si trovano nelle notizie bibliografiche dell’edizione di J. Eastman, Aegidius Romanus, De renunciatione papae, Lewiston-Queenston-Lampeter 1992, pp. 393-400. 3 Cfr. D. XLVIII, 2 (a cura di P. Krüger, p. 841). 4 Novissimo Digesto, XIII, Torino 1982, sub voce processo penale. 5 Cfr. Coste, Boniface VIII cit., pp. 3-6; 32-42. Il Manifesto di Lunghezza, datato al 10 maggio 1297, rappresenta la prima presa di posizione ufficiale dei cardinali Giacomo e Pietro Colonna contro Bonifacio VIII, in una successione di eventi che, comunque, dà una falsa idea di cause ed effetti. Sette giorni prima del 10 maggio 1297, infatti, era avvenuta l’aggressione compiuta da Stefano Colonna ai danni di un trasporto di una notevole quantità di denaro che Bonifacio aveva trasferito da Anagni a Roma. Il 4, rinunciando ad un viaggio ad Orvieto, il papa intimava ai due cardinali di comparire davanti a lui per rispondere a «quid sibi placuerit et man-


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se – oltre che di rumores antibonifaciani – in certi ambienti, ma appare del tutto legittimo credere che tra la rinuncia di Celestino V e l’elezione di Bonifacio VIII dare, quod vult scire si papa est [...]». Di qui la rinunzia dei due Colonnesi a presentarsi, scusandosi, in un primo tempo, per mezzo di loro procuratori; decidendo poi di presentarsi (il 6 maggio), per ascoltare un’ingiunzione relativa alla restituzione del denaro estorto da Stefano, alla consegna dello stesso Stefano ed alla cessione dei castra di Zagarolo e Colonna, nonché della città di Palestrina. Giustamente, secondo me, il Coste richiama le diverse interpretazioni che la storiografia ha fornito alle parole «vult scire si esset papa», essendo difficile pensare, secondo l’opinione della storiografia prevalente, che proprio Bonifacio mettesse in bocca ai suoi avversari parole che facilmente potevano tradire una grave incertezza ed essendo, d’altro canto, la lettura più banale (venite a sentire ciò che gli parrà dire e richiedere ciò che vuol sapere, se è il papa: come dire, sono padrone a casa mia o no?) poco coerente con la premessa altisonante e una sanzione spropositata (la perdita del cardinalato). Premesso che il testo dell’ingiunzione ci è pervenuto attraverso transumpta, stilati negli uffici di Giacomo Colonna e che quindi non vi è assoluta certezza su di esso, si può probabilmente pensare ad una manipolazione della stessa per renderla provocatoria: una sorta, insomma, di «telegramma di Ems» 573 anni prima! Il che ovviamente non vuol dire che Bismarck avesse in mente la vicenda del Manifesto di Lunghezza, si badi bene... Quanto è certo è che nel Manifesto di Lunghezza l’interpretazione data dai Colonna all’ingiunzione è inequivoca: «ut eadem die sabbati coram eo apud Sanctum Petrum personaliter compareremus, audituri quid vellet dicere et mandare, quia volebat scire utrum ipse sit papa». Non siamo a quelle identità che il Coste vorrebbe con «les termes exacts» dell’ingiunzione citata più in alto «simplement transposés ici au style indirect». È decisivo l’uso dell’interrogativa indiretta nel Manifesto di Lunghezza: «utrum ipse sit papa», un costrutto sintattico che nei transumpta non c’è: «quod vult scire si papa est», anche perché basta porre una virgola tra «scire» e «si papa est», per cambiare totalmente il senso alla proposizione intera: testo dei transumpta testo del Manifesto di Lunghezza «A» «B» «audituri quid sibi placuerit dicere et man«quod dictus Bonifacius scire volebat utrum ipse dare quod vult, si papa est» sit papa» Incomprensibile, allora, la conclusione del Coste, secondo il quale i Colonna si sarebbero ben guardati dal commettere un falso su questo punto, per non attirarsi l’odiosità e il disprezzo di tutti i Cristiani: quindi il testo «A» va respinto e mantenuto quello «B». Ma i sillogismi di Coste non mi persuadono: egli scrive (p. 34, nota 3): «Si l’on peut à la rigueur supposer, comme l’a fait gratuitement Digard, que le texte du mandat ait été inventé ou truqué, il est impensable que dans le présent texte, destiné à la plus grande publicité, les Colonna n’aient pas rapporté fidèlement la question autour de laquelle ils organisaient toute leur argumentation. Ce faisant, ils se seraient exposés à un immédiat démenti qui aurati été pour eux désastreux. Leur intérêt était au contraire de faire fond sur une demande effectivement formulée, quitte à lui prêter le sens qui mieux leur convenait». Ma il Coste non si avvede che nessuno avrebbe potuto stabilire l’esattezza del testo: l’opinione pubblica non disponeva certo dei «media» odierni. È ben vero che il testo del Manifesto di Lunghezza rispondeva ad un preciso disegno: ma non ha alcun senso affermare che era nel loro [dei Colonnesi] interesse riprodurre esattamente una domanda che fosse stata effettivamente formulata, salvo poi ad intenderla come volevano. Ma non si tratta di mettere in dubbio la domanda, ma proprio il senso da attribuirle! Tanto più che al paragrafo (4) del testo del Manifesto essi dichiarano senza alcuna esitazione: «Respondemus ad ultimum verbum inter alia, in mandato nobis facto propositum, si tamen mandatum dici debat: “quod volebatis scire utrum essetis papa”, quod vos non credimus legitimum papam esse».


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si delinearono ben presto delle formulazioni accusatorie di ampiezza tale da giustificare una presa di posizione circa la legittimità di determinati capi di accusa. Intendo riferirmi al De renuntiatione papae di Pietro di Giovanni Olivi ed alla corrispondenza intercorsa tra lo stesso Olivi e Corrado da Offida6. 6 Per i testi, cfr. L. Oliger, Petri Johannis Olivi De renuntiatione papae Coelestini V: quaestio et epistola, in «Archivum Franciscanum Historicum», 11 (1918), pp. 309-373; l’affermazione del Coste si legge in Boniface VIII cit., p. 15, affermazione, si ripete, che non appare pienamente giustificata, dacché lo stesso Coste rimanda a scritti, oltre che dell’Olivi, anche di Goffredo di Fontaines e di Pietro d’Alvernia, come a precedenti relativi alle accuse del Manifesto di Lunghezza. Ora è vero che occorre distinguere tra impossibilità di rinunziare alla carica da parte di Celestino V e invalidità dell’elezione di Bonifacio VIII: ma ciò avrebbe un qualche senso se si trattasse di una discussione teorica e non riguardasse un caso concreto. L’impossibilità della rinuncia – a parte ogni considerazione su Bonifacio VIII – implica automaticamente l’impossibilità e la illegittimità di una surrogazione. Per poter iniziare un processo accusatorio si deve partire da una flagranza di reato: e questa è data dalla fattispecie di un crimen de ambitu. E ciò doveva essere ben presente a coloro che – come l’Olivi per primo? – si affrettarono ad affrontare il problema della liceità della rinuncia fatta da Celestino V: mostrata la liceità di essa, cadeva la possibilità stessa di iniziare un processo accusatorio nei riguardi di Bonifacio, tutelato dai principi di ingiudicabilità del papa; ove invece la rinuncia fosse stata illecita, il processo accusatorio scattava automaticamente, perché non si trattava di sottoporre a giudizio un papa, ma un qualsiasi ecclesiastico. Le argomentazioni di Olivi, Goffredo di Fontaines e Pietro di Alvernia sono riassunte da J. Leclercq, La rénonciation de Célestin IV et l’opinion théologique en France du vivant de Boniface VIII, «Revue d’Histoire de l’Eglise de France», 25 (1939), pp. 183-192; il quale Leclercq propone la posizione dei teologi francesi come sostanzialmente uniforme con maggiori o minori insistenze su certi aspetti dottrinari, ma essenzialmente decisi a difendere Bonifazio VIII: «Mis en presence de la rénonciation, cinq maîtres en théologie de l’Université de Paris en avaient successivement reconnu la liceité (si tratta, oltre ai tre citati, di Egidio Romano e di Giovanni di Parigi) [...] (ils) s’étaient monstrés unanimes sur ce point, malgré la divergence des sympathies qu’ils nourrisaient à l’égard à l’endroit des personnes en conflit et malgrés leurs dissentiment sur plusieurs points des théories politiques». Su Olivi, Goffredo di Fontaines e Pietro di Alvernia si veda il più recente J. Eastman, Papal Abdication in Later Medieval Thought, Lewiston-Lampeter 1990, pp. 37 ss.; il quodlibeto di Pietro di Alvernia, Parigi, B.N., Lat. 15 841, dato nel 1995 come inedito dal Coste (Boniface VIII cit., p. 16 nota 3), è pubblicato in appendice all’ultimo libro citato dell’Eastman: Papal Abdication cit., pp. 137-141 «Circa statum prelatorum». Nel corso delle note torneremo su quest’ultimo lavoro. Personalmente, con l’attenzione deliberatamente fissa a Pietro di Giovanni Olivi e ad Egidio Romano, penso che si possa e si debba andare più avanti, anziché indugiare, come hanno fatto molti autori anche italiani, non troppi anni or sono, a considerare le motivazioni dell’atteggiamento “cauto” dell’Olivi nei riguardi di quello che si sarebbe rivelato come un nemico irriducibile degli Spirituali: ma si veda innanzi. Circa la composizione della lettera di Pietro di Giovanni Olivi a Corrado da Offida rispetto alla quaestio De renunciatione, anche il Leclercq ritiene che la lettera del 1295 sia anteriore alla quaestio che sostanzialmente riprodurrebbe e svilupperebbe gli argomenti della lettera (Leclercq, La rénonciation cit., p. 190). L’intervento di Goffredo di Fontaines viene datato al 1295 (con ripresa degli argomenti di Olivi a Corrado da Offida: Leclercq, La rénonciation cit., p. 186); quello di Pietro d’Alvernia al 1296 (Ibid.). Olivi, pertanto, parrebbe scrivere per primo, forse perché consapevole di quanto si andava preparando a Parigi. Come si fa allora a sostenere che mentre non abbiamo testi che denun-


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Anche se rimane in qualche modo aperta la questione dell’anteriorità o della lettera o della quaestio oliviana, c’è da osservare che nel Manifesto di Lunghezza sono contenute undici più una argomentazioni contro la liceità di adbicare che proprio l’Olivi avrebbe, riproponendosele secondo il solito schema scolastico per poi confutarle, enunciato. Quindi Olivi doveva aver conosciuto delle accuse correnti prima della stesura del manifesto di Lunghezza, accuse che circolavano negli ambienti Spirituali, dacché nella lettera a Corrado da Offida che è del 14 settembre 1295 compaiono accuse e confutazioni delle accuse che sarebbero state ampliate nella quaestio: ritengo infatti più probabile che Olivi volesse precisare subito la inconsistenza giuridico-teologico delle argomentazioni degli Spirituali scrivendo alla personalità più eminente del gruppo dei Francescani che avevano avuto proprio da Celestino il permesso di staccarsi dall’Ordine per costituirsi nei pauperes eremitae7. Comecchessia, la quaestio non doveva essere stata scritta molto tempo dopo, poiché all’inizio della medesima, riferendosi alla rinunzia, Olivi ne parla come di «renuntiatio Celestini nuper facta». La rinuncia avvenne il 13 dicembre 1294 e la quaestio veniva scritta quando Celestino era ancora in vita, poiché nessun accenno si coglie alla sua morte né nella quaestio né nella lettera. Non sembri prolisso questo mio insistere su tematiche che solo per amor di tesi preconcette – come si vedrà – sono state ripetute anche di recente, in primis dal Coste, circa l’inesistenza di scritti anteriori al 1297 che mettessero in dubbio la validità dell’elezione di Bonifacio VIII, per l’impossibilità di Celestino V di rinunziare all’elezione: «Aucun écrit mettant en doute avant mai 1297 la validité de l’election de Boniface ne nous est parvenu»8. Ciò è manifestamente errato, tanto più che il zino l’invalidità dell’elezione, ne abbiamo almeno tre che sostengono la validità della rinunzia? Vogliamo accusare Pietro di Giovanni Olivi, Goffredo di Fontaines e Pietro di Alvernia di proferire una excusatio non petita? E sia pur ammissibile un intervento tardivo (ma sempre prima di Lunghezza) e indotto dallo scritto di Olivi e/o di Goffredo di Fontaines per Pietro di Alvernia: ma per Olivi e Goffredo di Fontaines che scrivono prima della denunzia del Manifesto di Lunghezza (10 maggio 1297), si deve ammettere in maniera assoluta che quel Manifesto testimoniava di una lunga discussione precedente, ed avvenuta in ambito qualificato: non per nulla nel Manifesto si afferma da parte dei Colonnesi: «Frequenter namque audivimus a plurimis non levis auctoritatis viris, ecclesiastici et secularis status et dignitatis, dubitari verisimiliter an renuntiatio facta per sancte memorie dominum Celestinum papam V tenuerit et legitime et canonica facta fuerit » (Coste, Boniface VIII cit., p. 35). Dopo tutto i teologi a favore della validità della rinunzia non sarebbero intervenuti se non ci fossero stati dei teologi contrari alla validità della rinunzia. 7 Ovvio il rinvio ai lavori di A. Frugoni, Celestiniana, Roma, 1954 (rist. anast. ibid. 1991), pp. 144-145; G. L. Potestà, Angelo Clareno. Dai poveri eremiti ai fraticelli, Roma 1990, pp. 104105, preoccupati, com’era giusto che fosse dato l’assunto del tema da loro affrontato, di stabilire l’identità spirituale degli aderenti ai movimenti spirituali, più che di percorrere le tappe di una procedura accusatoria. 8 Cfr. Coste, Boniface VIII cit., p. 15: ma si veda anche supra nota 6.


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Coste stesso cita l’edizione dell’Oliger della lettera a Corrado di Offida e della quaestio De resignatione: ma può essere che non l’abbia letta. Olivi, in siffatta questione, d’altro canto, non ha avuto, fatta eccezione per la storiografia italiana e per quella tedesca, grande risalto, ove si pensi che ancora nel 1994 la posizione dell’Olivi veniva ricordata, nel volume XI della traduzione italiana del Fliche e Martin, solo come sintomo della discordia esistente tra gli stessi Spirituali9. In realtà sin dal tempo della rinunzia di Celestino V s’era creato un movimento di opinione contrario a quella abdicazione e dalla stessa precocissima partecipazione al dibattito dell’Olivi trovano conferma le affermazioni contenute nel testo del Manifesto di Lunghezza circa i pareri espressi «a plurimis non levis auctoritatis viris, ecclesiastici et saecularis status et dignitatis dubitari verisimiliter an renuntiatio facta per sanctae memoriae Celestinum papam V tenuerit et legibus et canonice facta fuerit, cum verisimiliter contrarium videatur ex eo quod papatum ex solo Deo etc. etc.»10. Né vale l’implicita obiezione del Coste che un conto sono gli scritti, un conto sono i rumores, circa l’invalidità dell’elezione di papa Bonifacio, giacché nello stesso paragrafo 9 del Manifesto di Lunghezza invalidità della rinuncia e invalidità dell’elezione sono ovviamente ed esplicitamente collegate11. Ci chiediamo chi abbia mai potuto scrivere quella famosa cedola di tesi contrarie all’abdicazione che il Manifesto di Lunghezza enumera e che inspiegabilmente il Coste non ha riprodotto nella sua edizione: a meno di non voler immaginare che i rumores raccolti dai Colonna non avessero trovato forma scritta, forma accusatoria, appunto, ad opera degli stessi Colonna! E in quanto tempo, se gli screzi espliciti tra i due cardinali ed il papa s’erano manifestati – a detta degli stessi interessati – il giorno 7 maggio del 1297? O forse i Colonna trovavano già elaborata la materia accusatoria ed in forza di questa materia potevano non solo addurre il materiale della cedola, ma impostare tutta la questione assumendo come argomento dell’accusa stessa la domanda provocatoria che sarebbe stata loro posta dall’emissario di Bonifacio VIII «utrum papa esset», non temendo di rispondere in senso negativo? Quindi sin dall’inizio – oltre che dell’invalidità della rinuncia di Celestino V – si discuteva della validità del papato di Bonifacio VIII. Ed anche così, da chi poteva venire quella materia accusatoria, quella conseguenza inesorabile? Certamente precedente la rottura esplicita tra i due cardinali e il papa? Si è ipotizzato che questo materiale dovesse costituire il contenuto di una Determinatio di magistri parigini, di cui è menzione nella deposizione di Pietro 9

Cfr. A. Fliche - V. Martin, Storia della Chiesa, XI, Torino 1994, p. 118. Cfr. Coste, Boniface VIII cit., p. 35: ma si veda anche supra nota 5. 11 Cfr. nota 6. 10


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Colonna del 1306 e del 1311 al processo intentato contro papa Caetani: una Determinatio di cui non ci è giunto il testo, come espressione dei magistri parigini, ma che era stata compresa nel Manifesto di Lunghezza e che in edizioni diverse da quelle del Coste compare12. Anche ammettendo – per absurdum, dato il carattere manifestamente apologetico, in questo punto specifico, dell’esegesi del Coste – che non si trattasse di una Determinatio in senso propriamente scolastico, sta di fatto che nel 1311, con esplicito riferimento al Manifesto di Lunghezza, Pietro Colonna ricordava che Bonifacio aveva saputo che dalla Francia s’era indirizzata a lui un’accusa dei magistri immediatamente prima della citazione del 4 maggio 1297: «citando Columpnenses quia volebant scire utrum esset Papa»13. A meno di non voler negare l’evidenza a distanza di anni (1297-1311), Pietro Colonna puntualizza una serie di eventi cui si accennava nel Manifesto di Lunghezza, ma non nega nulla dell’essenziale. Non si trattava di rumores, ma di pareri di magistri parigini, non invocati nel 1297, perché allora non c’era ancora un consesso che potesse giudicare delle accuse (le testimonianze, in un processo accusatorio, sono prodotte dopo la costituzione di un collegio giudicante: di qui l’insistenza per la convocazione di un concilio), ma che potevano e dovevano – come infatti avvenne – essere invocati a processo già iniziato. E l’accusa era non solo quella della nullità dell’abdicazione di papa Celestino, ma della nullità dell’elezione di papa Bonifacio come era stato sin dall’inizio14. All’inizio del 1295, come era stato denunciato, ripeto, dal solo Pietro di Giovanni Olivi. Il perché questo avvenisse lo ipotizzeremo poi; esaminiamo adesso i capi d’accusa contro l’abdicazione contenuti nella cedola

12

Cfr. Coste, Boniface VIII cit., p. 35, nota 2): «Qu’une contestation de la validité de la démission de Célestin ait existé avant mai 1297 est un fait acquis». Ma aggiunge: «La question qui se pose est celle de savoir si en ce mémoire (= Manifesto di Lunghezza) et dans le troisième les Colonna font seulement allusion à des opinions répandues parmi les spirituels ou en d’autres milieux ou s’ils se refèrent au contraire à la Determinatio des maîtres parisiens, dont Pierre (= Colonna) parlera en 1306 et en 1311». L’atteggiamento del Coste, in proposito, è di un formalismo apologetico incomprensibile. Che significa, infatti «C’est un fait en tout cas que les deux Colonna font ici allusion à des doutes exprimés par diverses personnes autorisées, non à une prise de position nette d’un groupe déterminé» (ibid.)? E la circostanza che un Pietro di Alvernia avesse formulato, sin dal 1296, delle prese di posizione dottrinali circa l’insostenibilità della invalidità della rinunzia al trono papale, esattamente, anche se con minore articolazione, come aveva fatto l’Olivi, sia nella lettera a Corrado di Offida, sia nella quaestio, non significava che ci si doveva trovare ad un contraddittorio molto preciso di «obiezioni e risposte»? O vuol dire il Coste che personalità come Olivi, Goffredo di Fontaines, Pietro di Alvernia si fossero mosse concordemente e con argomenti specifici per contrastare dei rumores? E ciò a tacer della Determinatio, per la quale si rimanda a Eastman, Papal Abdication cit., pp. 60-62, intimata ai maestri parigini da Filippo il Bello nel 1297! 13 Cfr. supra nota 5. 14 Cfr. supra nota 6.


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del Manifesto di Lunghezza e quelli contenuti sia nella lettera a Corrado da Offida (versione succinta) sia nella quaestio (versione distesa) dell’Olivi. Premessa del confronto è la circostanza che della cedola noi sappiamo che le tesi erano dodici, quante noi troviamo oggi nell’edizione del De renunciatione pape di Egidio Romano (scritta sul finire del 1297 «upon papal command», secondo l’Eastman, la cui opera non è stata consultata dal Coste, che comunque non ha dubbi che Egidio Romano la scrivesse dopo il Manifesto di Lunghezza)15. Se è verosimile – secondo la tesi dell’Eastman – che Bonifacio VIII incaricasse Egidio Romano di scrivere il suo trattato De renunciacione per impedire l’affermarsi delle tesi dei Colonna – secondo quanto sostengono gli stessi Cardinali nella terza memoria scritta del 15 giugno 1297, una vera e propria requisitoria – il tenore e i contenuti specifici dei capi di accusa dei fautori dell’illegittimità dell’abdicazione dovevano essere già noti in Curia, anche indipendentemente dal Manifesto di Lunghezza ed è più che naturale che così fosse anche in relazione alla presa di posizione che i magistri parigini dovevano avere assunto da tempo (per lo meno dagli inizi del 1295): è significativo che uno dei sei originali della terza memoria dei Colonna fosse inviato al Cancelliere dell’Università di Parigi e gli altri cinque a cinque arcivescovi francesi16. Si ammetta pure che – come vuole il Coste – i sei originali, che si trovano tutti presso l’Archivio Segreto Vaticano, siano stati sequestrati da quelli che vengono chiamati «les sbires di Boniface»: non sembra verosimile che Egidio Romano potesse predisporre e sviluppare il suo trattato solo sulla base delle accuse contenute nei testi della terza memoria o, peggio, sulla base dei famosi dodici capi d’accusa riprodotti nel Manifesto di Lunghezza, tanto più che di dodici punti era costituito il telaio dimostrativo del De renunciatione dell’Olivi, non coincidenti in maniera puntuale con quelli dei Colonna17. Si è detto del confronto tra la lettera Corrado di Offida e quaestio oliviana. I punti toccati nella lettera sono sostanzialmente quattro: 1) impossibilità di rinunciare al papato e di essere sostituito ad un papa vivente, poiché il rapporto tra papa e Chiesa è identico a quello tra marito e moglie. La Chiesa non può essere sposa di due mariti viventi;

15

Cfr. Eastman, Aegidius Romanus cit., p. 368. Cfr. Coste, Boniface VIII cit., p. 51. 17 Ibid.; Eastman, Aegidius Romanus cit., p. 148: «Capitulum tertium, in quo ponuntur duodecim raciones, quas faciunt adversarii veritatis, quod papa renunciare non potest» . Per le coincidenze, cfr. Eastman, Papal Abdication cit., p. 39: «Question XIII corresponds to the later Colonna Manifesto in some points: Olivi’s articles one two, three and four are equivalent to the Colonna objections two, eight, ten and one. Therefore it is probable that the Colonna were familiar either with the Question or were in contact with Spirituals, who had knowledge of it». 16


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2) impossibilità per gli Apostoli di mutare il papato di Pietro, pur con il proprio assenso, poiché il papato imprime un carattere indelebile; 3) stravolgimento del significato della Redenzione; 4) negazione dell’unicità dell’immagine di Cristo, che è unica, come è unico il papa. Per il resto, Olivi dopo aver confutato i quattro punti toccati che hanno un evidente carattere riassuntivo di una questione che già appare molto complessa agli occhi del frate di Narbona, aggiunge che è falso che il papa non possa rinunziare alla carica non avendo come superiore se non Dio e che l’accoglimento di questa rinunzia non potrebbe mai essere appurato, come non potrebbe essere appurata la deposizione per eresia di un papa, se essa dovesse essere approvata da Dio: il che è falso18. Nella quaestio, i capi di accusa contro l’abdicazione di un papa sono dodici e per quanto concerne la loro rispondenza con quelli del Manifesto di Lunghezza, che sarebbero stati ripresi da Egidio Romano, è stato notato dall’Eastman che v’è analogia tra i punti 1, 2, 3, 4 della quaestio oliviana e i punti 2, 8, 10, 1 del Manifesto di Lunghezza e, conseguentemente, dell’elencazione dei capi d’accusa fatta da Egidio Romano19. Non escluderei che ad una lettura sistematica dei due testi affrontati si potrebbe ricavare qualche altra analogia: ma per il momento ci basti prendere atto del fatto che – anche a prescindere dalle argomentazioni svolte dai due autori per ribattere le argomentazioni dei Colonnesi, che sono spesso differenti: 1) non c’è una dipendenza testuale diretta fra i due trattati né una disposizione analoga della materia, pur nell’ovvia complanarità delle argomentazioni; 2) i due testi, esattamente come quello del Manifesto di Lunghezza, espongono dodici capi d’accusa, sia nel 1295 sia nel 1297; 3) i due testi dell’Olivi e di Egidio Romano si propongono di esporre prima le accuse da ribattere e poi di procedere alla loro confutazione, fornendo spiegazioni di questa procedura, assolutamente usuale nella trattazione scolastica, che lascia alquanto stupiti20. Mentre in Olivi noi leggiamo un preambolo brevissimo che punta direttamente sull’individuazione dell’argomento da affrontare (De resignatione o De renunciatione), determinato dall’abdicazione di Celestino, in Egidio Romano l’opportunità di dichiarare prima i capi di accusa – come immediatamente aveva fatto Olivi – e poi la loro refutazione vengono sviluppate attraverso una digressione estremamente prolissa che occupa un intero capitolo e pare quasi intesa a scusarsi del fatto di dover preporre all’enunciazione della verità l’esposi18

Cfr. Oliger, Petri Johannis Olivi cit., pp. 366 ss. Cfr. Eastman, Aegidius Romanus cit., pp. 29 ss. 20 Si fa questa osservazione perché si ritiene che i due sostenitori della liceità della rinuncia di Celestino V vogliano mostrare di essere bene al corrente delle obiezioni degli avversari, al momento in cui si accingono a ribatterle. 19


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zione delle tesi false di coloro che impugnano l’abdicazione di Celestino e perciò tentano di invalidare l’elezione di Bonifacio. Leggiamo brevemente. In Olivi: «Quia propter renuntiationem Celestini nuper factam quidam dubitaverunt an papa possit renuntiare papatui ita quod ipso vivente alter sibi substituatur, idcirco ad maiorem huius evidentiam quanto fortius poterimus, primo pro parte contraria arguamus. Facio igitur ad hoc XII argumenta ut tandem [...]». Ben lontana da questa essenzialità l’impostazione di Egidio: «Quidam moderni temporis de suo sensu nimium presumentes quasdam raciones sophisticas ad includendum mentes fidelium ediderunt. Exinde confidentes de sua vecordia in summum nostrum pontificem sanctissimum patrem dominum Bonifacium papam VIII divina providencia verum Dei vicarium ac sacrosante Romane et universalis ecclesie sponsum legitimum impugnare sunt conati». E ancora «Certum est enim quod declarare veritatem est prius quam extirpare falsitatem, sed non oportet, quod sit prius tempore vel prius in execucione, sed est prius in intentione. Nam extirpacio falsitatis est propter seminare et inserire veritatem. Et quia declaracio veritatis in hoc negotio se habet, finis oportet quod hoc sit prius in nostra intencione, quia prius debet esse intentus finis quam ea que sunt ad finem» . E finalmente – dopo ben sei pagine a stampa nell’edizione Eastman – «His itaque omnibus enarratis hoc ordine procedemus in hoc tractatu quia primo enarrabimus argumenta opposita huic veritati, quod papa renunciare potest. Secundo illa argumenta opposita dissolvemus»21. La ragione di tanto “barocchismo” – se mi passate l’anacronismo – appare comunque ben chiara: mentre in Olivi la rinuncia di Celestino apre un dibattito che va immediatamente al di là della stessa causa scatenante, vale a dire investe un intero sistema, in Egidio – già certo di difendere una verità prima ancora di averla provata – la confutazione

21 Per i due testi, cfr. rispettivamente Oliger, Petri Johannis cit., p. 340: «Quia propter renuntiationem Celestini nuper factam quidam dubitaverunt an papa possit renuntiare papatui, ita quod, ipso vivente, alter sibi substituantur, idcirco ad maiorem huius evidentiam quanto fortius poterimus, primo pro parte contraria arguamus. Facio ad hoc duodecim argumenta [...]» e Eastman, Aegidius Romanus cit., pp. 139-152, dove sono notevoli queste affermazioni «Quidam moderni [...] nimium presumentes quasdam raciones sophisticas ad includendum mentes fidelium ediderunt [...] in summum nostrum pontificem sanctissimum patrem dominum Bonifacium papam VIII, divina providencia verum dei vicarium ac sacrosancte Romane et universalis ecclesie sponsum, legitimum impugnare sunt conati» (p. 139, capitolo I, con dichiarazione specifica della difesa di Bonifacio e senza menzione di Celestino, esattamente il contrario di quanto aveva fatto Olivi); «capitulum II. Quid sit ordo dicendorum» (pp. 141-148); «capitulum tercium, in quo ponuntur duodecim raciones, quas faciunt adversarii veritatis, quod papa renunciare non potest» (pp. 148-151). È da notare che sia per Olivi, sia per Egidio Romano si parla di «argumenta» e di «raciones», termini che mal si comprederebbero se ci si riferisse a semplici «rumores», senza netta presa di posizione, come vuole il Coste.


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dell’impossibilità di un papa di rinunziare alla propria cattedra nasce esplicitamente dalla necessità di difendere la validità dell’elezione bonifaciana. È innegabile che l’affermazione, più in alto ricordata circa la compilazione del De resignatione egidiano «upon papal command» sia più che giustificata22. Ma c’è di più: anche se non è certamente questa la sede per un’analisi contenutistica comparativa dei due trattati aventi lo stesso scopo – peraltro non fatta nemmeno dall’Eastman che, probabilmente, sarebbe l’unico oggi a poterla svolgere – ad una semplice lettura cursoria appare evidente che esiste una finalità diversa fra le due trattazioni, apparentemente simili nello scopo di respingere l’abdicazione. La stessa impostazione di Olivi induce l’autore a sviluppare tutta la tematica della deposizione papale e conseguentemente dei compiti spettanti ai cardinali e quella di una retta delimitazione della plenitudo potestatis; a questo scopo Olivi deve scendere nel dettaglio circa la casistica della deposizione di un papa, andando al di là della clausola procedurale solitamente addotta, «nisi a fide», e aggiungendo un elenco abbastanza significativo di eccezioni all’ingiudicabilità del papa: che comprendono deficienze di mente e di corpo, al punto tale da rendere una persona, anche il papa, «omnino inutilis et nociva et etiam periculosa ad regimen ad quod est assumpta, puta si in perpetuam amentiam aut in pertinacem heresim cadat aut si omnem impudicitiam impudenter et ribaldice et incorrigibiliter prosequatur aut ecclesiam lupina rabie vastet et exterminet aut si fiat cecus et mutus et sordus et sic de aliis consimilibus»23. Anche Egidio riprende l’argomento della necessaria mutevolezza della giurisdizione, ma essenzialmente come espressione della libera e imprescrittibile plenitudo potestatis del sommo pontefice, che non come riconoscimento di carenze oggettive della persona, distinguendo tra renunciacio e deposicio, la prima libera espressione della volontà, la seconda imposizione contro la volontà. Non a caso Egidio Romano si diffonde nello stabilire parallelismi e differenziazioni tra la figura di Cristo e quella del pontefice romano. Ripeto che una collazione tra i due testi recanti il medesimo titolo, e che hanno fatto dire a tutti che Olivi ed Egidio avrebbero trovato un punto di incontro nella difesa del diritto di abdicare del papa, mostrerebbe ad abundantiam che quella era stata l’occasione comune per l’uno, di prospettare il quadro delle possibilità di una messa sotto accusa di un papa, per l’altro, di riaffermare vieppiù l’estensione della plenitudo potestatis24.

22

Cfr. Eastman, Papal Abdication cit., p. 71. Cfr. Oliger, Petri Johannis cit., p. 356. 24 Cfr. Eastman, Aegidius Romanus cit., pp. 293 ss. Ripeto che i testi di Olivi e di Egidio Romano dovrebbero essere affrontati e discussi circa l’insistenza o meno di determinate argomentazioni. 23


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Certo, esistevano dei pericoli e ben se ne avvide lo stesso Bonifacio allorché nel Liber Sextus, I.7.1. inseriva un articolo De resignacione in cui, richiamando la rinuncia di Celestino accolta da tutti i cardinali – quindi anche dai Colonna – dichiarava che a voler troncare ogni iterarsi della disceptatio «ipsum [statutum] inter constitutiones alias ad perpetuam rei memoriam de fratrum duximus redigendum». Egidio Romano, dal canto suo, si affrettava a precisare che, in presenza di una abdicazione, del pontefice «plus credimus quod si prefecientes aliquem in papam nullo modo assentirent, quod prefectus renunciaret, ipse tamen sic prefectus libere et sponte renunciaret coram eis, qui eum prefecerint, non ulterius esset papa, quia non oportet quod tot requirantur ad destruendum quot ad construendum»25. Una volta stabilito tra le costituzioni di Bonifacio il principio della legittimità dell’abdicazione, esso non potrebbe essere sottoposto a nessun vincolo dell’assenso dei cardinali, che lo hanno eletto papa. E si potrebbe continuare a rilevare tutta una serie di divergenze dall’intento oliviano rispetto a quello egidiano, così come si potrebbe spendere anche qualche parola sulla circostanza che essendosi sviluppata tra la fine del 1294 ed il 1297 una così complessa ed elaborata discussione circa le implicazioni giuridiche e teologiche della Renuntiatio celestiniana essa fosse effetto di precise prese di posizione di Pietro d’Alvernia o Goffredo di Fontaines e di altri magistri parigini collegabili con la Determinatio (o con le Determinationes) di cui si è detto sopra26. Ma il tempo stringe: e dobbiamo chiederci in qual modo Jacopone potesse essere stato coinvolto nell’adesione al partito dei Colonnesi o addirittura a quello dei teologi/canonisti sostenitori dell’invalidità della rinunzia di Celestino V, per quanto concerne la sottoscrizione al Manifesto di Lunghezza e, verosimilmente, nell’adesione implicita ai contenuti degli altri scritti, di poco successivi, dei Colonnesi, datati da Palestrina, nel corso dello stesso mese di maggio e della prima quindicina di giugno del 1297, dacché Jacopone fu catturato dopo l’espugnazione di Palestrina insieme con i Colonna medesimi27. Desidero precisare che la mia prima domanda concerne la natura dell’adesione al Manifesto di Lunghezza ed agli altri documenti colonnesi, non la famosa lauda «O papa Bonifazio». Concerne cioè documenti sostanziati di eccezioni giuridiche, ma sempre più densi di accuse circa il comportamento di Bonifacio VIII e di Benedetto Caetani, prima, poi pontefice Romano. Considerando la serie dei documenti Colonnesi, sarà facile accorgersi che, al di là delle casistiche giuridiche, le accuse che si vanno sempre più condensando, esulano da quelle

25

Ibid., p. 168. Cfr. supra nota 6. 27 Cfr. Coste, Boniface VIII cit., p. 64. 26


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che potevano essere state derivate dalla Determinatio parigina: nel primo documento – Manifesto di Lunghezza – si legge che nella rinunzia di Celestino erano intervenute frodi e macchinazioni che, ove anche la rinunzia fosse stata ammessa, l’avrebbero resa illegittima e si legge altresì che la stessa elezione di Bonifacio era stata viziata da molte irregolarità; nel secondo documento colonnese (11-16 maggio) si aggiunge l’accusa di omicidio e di prevaricazione; nel quarto si adombra l’assassinio di Celestino, l’accusa di concussione, di manipolazione delle prebende ecclesiastiche, di cupidigia, di turbativa dell’ordine ecclesiastico, di simonia, di falsa incriminazione di eresia o di scisma ai danni dei due cardinali Colonna. Un materiale accusatorio che, nonché Egidio Romano, nemmeno lo stesso Olivi ritiene di dover indicare, se non in modo generico, nella sua tipologia, ovviamente astratta, di un papa da dover deporre. A quale serialità di accuse si accostava, nella lauda dell’invettiva antibonifaciana, Jacopone? Basterà un piccolo raffronto28. accuse contenute nel «Manifesto»:

accuse contenute nell’«Invettiva»:

cupidigia nepotismo Celestino non poteva dimettersi simonia le procedure nei riguardi dei Colonna arroganza superbia sono illegittime comportamento disdicevole la stessa rinunzia, ammesso che fosse le- «invettiva» gittima, è stata inficiata da macchinazioni non è vero papa

la stessa elezione di B. VIII è stata inficiata da errori che la rendono inefficace si convochi un concilio altri documenti colonnesi PR2 e PR3: non è vero papa ha arrestato e fatto morire Celestino V ha sottratto l’oro dei poveri, delle chiese e degli ecclesiastici ha esercitato abuso di potere nei confronti dei Colonna 28

Per il testo di Jacopone, si rimanda all’edizione del Coste cit., con le riserve di cui si dirà innanzi; per gli altri testi dei Colonna (che il Coste sigla con PR 2 e PR 3 – essendo il PR 1 il Manifesto di Lunghezza ed il PR 4 l’invettiva jacoponica contro Bonifacio VIII), si rinvia a Coste, Boniface VIII cit., pp. 43-63.


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sia convocato un concilio non è vero papa [ci si rivolge per la prima volta a re e prin- imperatori e principi sono stati sempre offesi cipi] ha commesso ogni delitto per eccesso di il mondo (= la società cristiana) non ha mai tollerato oltre una certa misura quecarnalità sti comportamenti: quindi su Bonifacio ha indotto Celestino V ad abdicare, conincombe una vendetta divina. tro ogni legge, divina, umana e canonica ha pensato di porsi super astra ha imprigionato Celestino e lo ha fatto morire ha derubato, con finte accuse, prelati ed ecclesiastici impediva la legittima successione alle sedi resesi vacanti, per riservarle al suo arbitrio ha trasferito arbitrariamente presuli e clerici da una chiesa ad un’altra, sostituendoli con persone che non solo non erano degne, ma erano disposte alla simonia in nome della plenitudo potestatis, ha usurpato ogni diritto anche in temporalibus ha sovvertito lo stato generale della Chiesa ha commesso abusi di potere nei confronti dei Colonna sia allontanato dal seggio papale mediante la convocazione di un concilio

Per chi aveva seguito i Colonna, compromettendosi fino al punto di essere testimone alla stesura del manifesto di Lunghezza è davvero, per l’aspetto giuridico-accusatorio, un riscontro deludente; ancor più, se si pone mente alla circostanza che Jacopone aveva seguito i Colonna da Lunghezza a Palestrina, vi era stato assediato e alla fine catturato. Mai, nella invettiva, si coglie il più piccolo accenno all’argomento fondamentale addotto dai due cardinali non solo a Lunghezza, ma anche dopo, come si è visto, e cioè all’invalidità della rinunzia di Celestino V, motivazione principe dalla nullità delle decisioni di Bonifacio, sia contro i Colonnesi, sia contro altri. Jacopone poteva sapere che la questione era


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dibattuta ancor prima del 1297, che era stata oggetto non solo di rumores e murmurationes – cui certamente egli prestava ascolto, come attesta la stessa invettiva, per quanto concerneva le dissolutezze di Bonifacio – ma anche di discussioni tra gli stessi Spirituali ai quali sia i Colonna, sia egli stesso erano vicini. Ma, a parte ogni impossibilità di dimostrare un coinvolgimento ed una partecipazione personale al dibattito procedurale – come si deduce, oltre che da quanto si è or ora accennato, dalla minuziosa analisi dell’Ageno29 che tuttavia deve estendere il suo riscontro a tutte le accuse contenute negli atti processuali dell’istruttoria contro Bonifacio, sino alle testimonianze rese da Nogaret e dal Plaisians del 1310, che possono comunque tollerare un raffronto solo con le quartine espunte dalla stessa Ageno, per me con ragione, dal resto di un testo autenticamente iacoponico – a parte quell’impossibilità, dicevo, rimane la mancanza di ogni decantazione della rampogna, che appunto non appartiene al genere dell’accusa di una Determinatio o degli stessi scritti dei Colonnesi del periodo 1297-1298, ma si configura eminentemente come invettiva. Non questo è il problema, bensì quello della singolarità delle accuse di Jacopone che riguardano aspetti del comportamento morale del papa: ciò sarebbe vero anche se, per ipotesi estrema, dovessimo considerare il testo dell’invettiva jacoponica pervenutoci nella tradizione manoscritta più estesa, che ha accolto il Mancini, tutta scritta e simultaneamente (ma allora mai nel 1297, perché il ricordo esplicito dello schiaffo di Anagni del 7 settembre 1303, lo escluderebbe!). È infatti estraneo ogni accenno alla rinunzia di Celestino ed alla conseguente invalidità dell’elezione di Bonifacio VIII anche nelle quartine che vanno dal verso 47 («Punisti la tua sella [...]») al verso 66 («ché tal la t’à arrobbata [...]»). Né allo scopo vale argomentare, come fa il Contini, che non di versi apocrifi trattisi, perché l’alterazione di ordine espositivo/narrativo (Anagni prima di Palestrina!) è attribuibile «a disordine nell’antenato comune [della tradizione manoscritta]: disordine che è forse lecito far risalire alla composizione originale, se è vero, come è vero, che quelle quartine sembrano incuneate in un testo precedente». E poi: «L’ipotesi corrente dell’apocrifia di quelle strofi, interpolate successivamente da altra mano, non ha ragion d’essere». Ma Contini non spiega perché non v’abbia ragion d’essere30. E deve, anche se implicitamente, ipotizzare, che in carcere jacopone avesse appreso dello schiaffo di Anagni e della morte di Bonifacio. Ed allora le cose sarebbero andate così: un blocco originario del 1297, senza le quartine incriminate; poi un’aggiunta, posterio29 Cfr. F. Ageno, Sulla invettiva di Jacopone da Todi contro Bonifacio VIII, «Lettere Italiane», 16 (1964), pp. 373-414. 30 Per Mancini, cfr. Jacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Roma-Bari 1980, pp. 248250; per Contini cfr. Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, II/1, Milano-Napoli 1960, pp. 139 ss.


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re di anni, che però si inserisce malamente in quel blocco. Nell’intervallo, Jacopone che nel blocco originario aveva vituperato la desolante disperazione di Bonifacio («par che ’l temor de Deo dereto aggi gettato: segno è de desperato o de falso sentire») trovava modo di chiedere a Bonifacio «Per grazia te peto che me dichi ‘absolveto’». Ma qui «gli scrupoli prudenziali» che, secondo il Contini, non avrebbero parte nell’esclusione delle quartine, in questo caso sarebbero ammissibili? Cioè Jacopone apparirebbe sorvolare sul passato, senza rinunziare al proprio orgoglio, pur di morire in prigione, ma assolto dalla scomunica? Per paragonarlo a Lucifero allorché, inascoltato, apprende dello schiaffo di Anagni e della morte del nemico? Ma, d’altro canto, mai dubitando di rivolgersi al «papa»! A quel papa al quale s’era rivolto ancora chiedendo, senza alcuna preoccupazione d’orgoglio personale nella lauda Lo pastor per meo peccato perché venisse restituito a S. Francesco, all’Ordine, alla sua «mate relione». Se le cose dovessero essere così – ma ha ragione Franca Ageno: è questione di buon senso! – avrebbe ben avuto motivo Arsenio Frugoni di estendere dubbi di autenticità a tutte le tre laude «bonifaciane», in una memorabile relazione tenuta a Todi oltre quarant’anni fa31. Tanto più che anch’egli notava che «in questa rassegna di tutte le colpe di Bonifacio non compare proprio la maggiore accusa colonnese sulla inquietante elezione del Caetani [...] così come non compare nella successiva polemica ghibellino-francese, che si nutriva appunto delle accuse ricorrenti anche nella laude [...]». Orbene, Frugoni aveva ben ragione di individuare la singolarità dell’assenza: e pochi se ne sono accorti o avvalsi; ma non aveva ragione, secondo me, di dubitare, per quest’assenza, dell’autenticità della lauda (o delle laude?!) bonifaciane. Intanto, ripeto, l’accusa principale dei Colonnesi non era stata in primis quella della invalidità dell’elezione di Bonifacio VIII, bensì quella della invalidità della rinunzia di Celestino V, donde la conseguente invalidità dell’elezione di Bonifacio VIII. In secondo luogo quell’accusa non scomparve affatto nella polemica ghibellinofrancese, come oggi sappiamo dalla possibilità di avere sotto gli occhi tutto il dossier del processo intentato a Bonifacio32. Tutti concordi, gli studiosi più accorti e interessati al ruolo giocato da Jacopone nella vicenda dell’aperta ribellione a Bonifacio VIII, da Frugoni a Manselli a, soprattutto, Gianluca Potestà, tutti concordi nel sottolineare il rapporto di stretta conoscenza e affinità religiosa esistente tra Corrado da Offida e Jaco31

Cfr. A. Frugoni, Jacopone francescano, in Jacopone e il suo tempo, Atti del I Convegno storico internazionale (Todi, 13-15 ottobre 1957), Todi 1959, pp. 75-102: 95-97. 32 Cfr. Frugoni, Jacopone francescano cit., p. 97: «non compare proprio la maggiore accusa colonnese sulla inquietante elezione del Caetani [...] così come non compare più nella successiva polemica ghibellino francese [...] (corsivo mio)». Tutto il dossier del Coste dimostra esattamente il contrario.


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pone da Todi, tutti avvertiti del peso che poteva avere lo scritto oliviano circa la «renuntiatio» di Celestino V, dell’ultimo quarto del 1295, ma tutti, comunque, decisamente disposti a collegare Jacopone, in quanto firmatario del Manifesto di Lunghezza, con i contenuti di quel manifesto, che aveva, come i successivi, diramati da Palestrina, del 1297, come punto centrale della denunzia, l’invalidità della rinunzia di Celestino V. Leggiamo alcuni giudizi: «Certamente essi non tornarono all’obbedienza dell’Ordine francescano. Per spiegare la loro inosservanza del provvedimento pontificio sono stati richiamati i dubbi sulla legittimità della rinuncia di Celestino e della successione di Bonifacio sollevati dai cardinali Colonna e accolti, in cerchie vicinissime a quella dei poveri eremiti, da Iacopone e più tardi dallo stesso Ubertino da Casale: è chiaro che se i poveri eremiti avessero condiviso l’idea dell’illegittimità, tutti i provvedimenti emessi da Bonifacio VIII sarebbero stati per loro destituiti di fondamento. Su questo punto occorre peraltro tenere presenti le cautele enunciate dal Frugoni: non è affatto certo che essi abbiano aderito a questa posizione estremista; tutto fa ritenere, anzi, che abbiano accolto l’energico richiamo contenuto nella lettera dell’Olivi a Corrado di Offida perché i compagni italiani riconoscessero l’autorità di Bonifacio VIII, rinunciando a giudizi presuntuosi e controproducenti». «Nel settembre 1295 Pietro di Giovanni Olivi dalla Provenza aveva inviato una lettera a Corrado di Offida, nel tentativo di persuadere del loro errore quegli estremisti italiani che si ostinavano a negare validità alle dimissioni di Celestino V e obbedienza al suo successore Bonifacio VIII; costoro, gli esponenti dell’ala più rigida degli Spirituali, vanno riconosciuti con tutta probabilità in quei frati, fra cui Iacopone da Todi, che due anni più tardi, incuranti degli avvertimenti dell’Olivi, sottoscrissero il manifesto antibonifaciano di Lunghezza (10 maggio 1297) di Giacomo e Pietro Colonna»33. «Il contrasto fra la posizione tradizionale dell’ecclesiologia e l’altra rinnovatrice degli Spirituali ebbe il suo momento più drammatico al tempo di Bonifacio VIII. Questi, infatti, quando si vide attaccato, appunto, dagli Spirituali che negavano la validità dell’abdicazione di Celestino e della sua elezione al pontificato, reagì sia distruggendo Palestrina ove con i Colonna vi era un gruppo di frati spirituali, fra cui fra Jacopone da Todi; sia sopprimendo quella frazione spirituale, che da Celestino V aveva ottenuto un’autonomia ed un’organizzazione a parte, col nome di «pauperes heremitae Domini Caelestini». «Un gruppo di francescani, infatti, è questo l’episodio più noto, rifiutò di riconoscere la validità di quell’abdicazione, e venne non solo duramente colpito dalla gerarchia – ad esempio, il più noto tra loro, il poeta Jacopone da Todi, 33

Cfr. G. L. Potestà, Angelo Clareno cit., rispettivamente pp. 30 e 104.


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finì per essere imprigionato, avendo firmato il manifesto di Lunghezza emanato dai Colonna contro il nuovo pontefice Bonifazio VIII – ma disapprovato da uno dei personaggi più insigni dello stesso rigorismo francescano, Pietro di Giovanni Olivi. Questi, non a caso, dedicò alla vicenda un trattato teologico nel quale difendeva il diritto di Celestino V alla abdicazione e quindi la validità dell’elezione di un successore, mentre indirizzava, appunto, a questi francescani inquieti, se non ribelli, una lettera di altissimo valore spirituale e di intensa meditazione cristiana nell’ambito della provvidenzialità della storia. Vi rimproverava, rivolgendosi a quello che era il personaggio più alto di questo gruppo, Corrado da Offida, un’impulsività e frettolosità di ribellione, priva, come era stata, di una attenta considerazione delle circostanze che avevano preceduto ed accompagnato il fatto della rinuncia di Celestino»34. La sottoscrizione del Manifesto di Lunghezza, quindi, ha svolto, nella storiografia, la funzione di un’assimilazione anche «dottrinale» dell’atteggiamento di Jacopone a quella dei Colonna e di tutti coloro che negavano la validità dell’elezione di Bonifacio VIII, in forza dell’invalidità della rinunzia di Celestino V. Lo stesso Frugoni non ha, in proposito, dubbi circa gli Spirituali che presero posizione contro Bonifacio VIII, dichiarato solennemente illegittimo nel Manifesto di Lunghezza. Tra questi doveva esserci necessariamente Jacopone: che, peraltro, non si pronunciò mai, come riconosceva lo stesso Frugoni – e lo abbiamo ricordato – circa quell’illegittimità. Lasciato cadere il solito ormai logoro argomento della «doppiezza» dell’Olivi ci chiediamo perché mai nessuno abbia voluto collegare il silenzio di Jacopone alla conoscenza dello scritto di Olivi a Corrado da Offida, noto a Jacopone, che mostrò, proprio nelle Laude «O papa Bonifazio, eo porto tuo prefazio [...]» e ancor più in «Il pastor per mio peccato [...]» di non voler considerare papa Bonifacio, ancorché degno di ogni reprimenda morale, papa illegittimo: esattamente come fecero diversi Spirituali: e tutto ciò non solo è noto, ma ricordato dallo stesso Frugoni. Come collocare allora Jacopone? La verità sta proprio nel fatto che l’unica strada da battere sarebbe stata quella di portare le accuse dinnanzi ad un Concilio, come si fece in Francia, in un processo che peraltro non finì mai e come, pur in quella che oggi chiameremmo una memoria difensiva, aveva indicato l’Olivi35. La violenza dell’invet-

34 Cfr. R. Manselli, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, a cura di P. Vian, Roma 1997, rispettivamente pp. 382 e 469. 35 Tra i tanti pareri in proposito, ci piace ricordare quello molto netto avanzato da un filoabdicazionista come Pietro di Alvernia, che nel Quodlibeto edito dall’Eastmann (cfr. supra nota 6 ), concludeva così: «Nunc autem querit: “sed coram quo renunciabit? Coram cardinalibus vel concilio generali”».


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tiva di Jacopone e il moltiplicarsi, anche dopo la caduta di Palestrina e lo schiaffo di Anagni, delle denunzie di colpe gravissime e infamanti contro Bonifacio, resero anche più facile l’infarcirsi della Lauda di altri elementi, anche più laceranti: ma non poterono determinare nessuna assimilazione dottrinale. Jacopone non era né Ubertino da Casale né Angelo Clareno, forse nemmeno Corrado da Offida, nemmeno un devoto di Pier da Morrone: restava testimone di se stesso, anelante ad un «indiamento» che forse s’era illuso di raggiungere vituperando in Bonifacio VIII tutte le colpe di un mondo incomprensibile. Di questa incomprensibilità paradossalmente poteva essere segno anche lo sconsolato rivolgersi, per essere assolto, allo stesso Benedetto Caetani: «o papa Bonifazio molt’hai iocato al monno».


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Una debita reverentia per Bonifacio VIII? (Pg. XX, 85-93 e Pd. XXVII, 22-24)

Prendendo le mosse da un punto rimasto sostanzialmente senza una vera e propria proposta conclusiva, emerso circa un paio d’anni or sono in altra occasione di seminario dantesco (Bonifacio VIII e Dante: riconsiderazioni, relazione letta il 30 aprile 2004, nell’ambito del V seminario dantesco “Bruno Nardi”), da me dedicato ad una nuova lettura dell’Unam Sanctam e sollecitato, ovviamente, dalle celebrazioni bonifaciane per il VII centenario della morte di papa Caetani, avrò l’occasione di esporre un’esegesi non preconcetta di due passi famosi della Commedia, il primo contenuto in Pg. XX, 85/93, l’altro in Pd. XXVII, 22/24, che per chiarezza leggerò dall’edizione Petrocchi: Pg. XX, 85-93 «Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un’altra volta esser deriso; veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele, e tra vivi ladroni esser anciso. Veggio il novo Pilato sí crudele, che ciò nol sazia, ma sanza decreto portare nel Tempio le cupide vele.» Pd. XXVII, 22-24 «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio»

V’è stata una singolare concordanza nel commento dei due passi, dallo Scartazzini-Vandelli al Sapegno, dal Pasquini alla Chiavacci: nel primo s’è visto un chiaro riferimento al cosiddetto “schiaffo d’Anagni”, nel secondo l’ennesima accusa a Bonifacio di usurpazione del trono di Pietro. Qualcosa non tornava, è vero, nella ricostruzione di quella costante del pensiero dantesco rappresentata dalla sua incrollabile avversione per papa Caetani (come si fa a chiamare “Cristo” chi è fatto prigioniero e, sia pure metaforicamente, è protagonista


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di una seconda crocifissione e accostarlo all’accusa, violentissima, di Pietro nei confronti di un usurpatore, quindi un “non papa”?), ma con ammirevole concordia si è ricorsi all’argomento che per Dante, nel Purgatorio, Bonifacio non era considerato nella sua persona, ma nella sua carica, cui comunque si sarebbe dovuto rispetto e riverenza, mentre nel Paradiso si sottolineava il vizio incancellabile della persona di Benedetto Caetani che nella sua bramosia di potere aveva occupato il «loco» di Pietro e lo aveva usurpato: peccato e colpa che, giuridicamente, ricadevano nella condanna di ogni fattispecie de ambitu, tanto più che il Caetani era stato eletto papa vivente ancora il predecessore, Celestino V. A solo titolo d’esempio, leggiamo due commenti, tra i più recenti, quelli del Pasquini e quello della Chiavacci: Pasquini: «Nel pontefice si rinnova infatti il martirio di Cristo»; «essere ancora una volta ucciso, ma fra due ladroni – i suoi seviziatori, il Colonna e il Nogaret – che rimasero in vita, a differenza di quelli che morirono con lui sul Golgota» (ed. cit., p. 592). «Il posto che mi appartiene, l’ufficio del vicario di Cristo, rivendicato da san Pietro come mio in quanto egli fu il primo dei pontefici [...] Il quale è vacante al cospetto di Cristo. Nell’invettiva contro Bonifacio VIII con questa precisazione Dante distingue, e quindi implicitamente oppone, al giudizio degli uomini che lo elessero, il giudizio di Dio, per il quale l’attuale papa è indegno dell’alta carica, introducendo così capi di accusa che configurano il reato di usurpazione della massima carica spirituale in terra» (ed. cit., pp. 1048-1049). Chiavacci: «La terzina descrive in forma di visione l’episodio dell’oltraggio di Anagni che aveva destato enorme impressione in tutta la Cristianità». «Il profeta (cioè Ugo Capeto, nota mia) vede rinnovarsi, nelle offese fatte al papa, quelle stesse che furono inflitte a Cristo dai giudei [...]». «Cristo fu messo in croce tra due ladroni, che morirono con lui. I “ladroni” tra cui si trovò Bonifacio, il Nogaret e il Colonna, erano invece vivi» (ed. cit. p. 599). «Colui che in terra usurpa – occupa ingiustamente – il mio posto di vicario di Cristo, posto che oggi è vacante al cospetto del Figlio di Dio [...]». «L’usurpare si riferisce qui non tanto al modo giuridico con cui il posto è stato occupato, quanto all’indegnità con cui è tenuto […]» (ed. cit., pp. 744-745).

Dico subito che non mi convince quest’ultima chiosa: l’assenza di una regolarità giuridica della promozione alla carica papale, in quanto sollecitata dallo stesso interessato, rivela ipso facto un’indegnità morale, di cui i guasti orribili patiti dalla sede papale sono conseguenza e segno evidente. Il commento che viene offerto al passo di Pg. XX – commento per altro ampio e sensibile – si regge, in ogni caso, se si collega a quello fatto a proposito dell’altro, del Pd. XXVII, preso appunto anche da noi in considerazione.


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Secondo la commentatrice il canto XX del Pg. non è il canto di Ugo Capeto, ma di Dante, che parla per bocca di Ugo Capeto, che inveisce contro la casa di Francia perché vuol assicurarsi un predominio che spetta solo all’Impero. Così Ugo Capeto «è privo di una vera dimensione storica». A questo punto, non posso fare a meno di chiedermi quali siano i personaggi della Commedia che abbiano una loro dimensione storica. Ogni personaggio ha la dimensione storica che Dante attribuisce – vorrei dire “deve attribuire” – per tutta la sua concezione della storia, come si dirà alla fine di questo intervento. Ma la commentatrice ha altro in mente: se sostanzialmente è Dante a parlare per bocca di Ugo Capeto, anche l’Alighieri mostra la «debita reverentia» verso l’ufficio del Vicario di Cristo: si salva l’interpretazione tradizionale e si attenua l’asprezza verso Bonifacio VIII. Personalmente, mentre concordo in più di un punto con l’interpretazione generale del passo data da Anna Chiavacci, non sono convinto delle motivazioni addotte per ribadire, nelle parole di Pietro, il concetto di distinzione tra persona e ufficio. Così, «che vaca» è inteso: «che di fatto è vacante al cospetto di Cristo; ciò significa che Cristo non guida misticamente la sua Chiesa, attraverso di lui [cioè Bonifacio VIII, nota mia], non riconoscendolo come suo vicario». A parte quel «di fatto», che è una zeppa posta esclusivamente dalla commentatrice, tutto il ragionamento è poco convincente, perché sovrapposto a quello di Dante. Se Cristo non riconosce come suo vicario – lasciamo stare il «di fatto» – Bonifacio VIII (sul che siamo ovviamente d’accordo), come si fa a dire: «Il posto è formalmente occupato, ma spiritualmente vacante». E chi lo dice? Non Pietro – e certo non Dante – che dichiarando che il suo posto è vuoto dinanzi a Dio, afferma con estremo vigore che Bonifacio VIII non è legittimato ad occupare il suo posto, non è quindi papa, non è quindi vicario proprio agli occhi di Colui del quale dovrebbe essere vicario. Punto e basta. Non c’è il minimo cenno di distinzione tra ufficio e persona. E, risalendo al Purgatorio, Filippo il Bello può anche credere di offendere il “Vicario di Cristo”, ma in realtà non offende nessuno, perché Bonifacio non è il vicario di Cristo. Ad invocare la punizione divina sulla casa di Francia è appunto Ugo Capeto, per le malefatte deliberate ed esplicitamente volute da Filippo («e ciò nol sazia»), travolto dalla cupidigia, dalla bramosia di potenza, dalla tracotanza. L’oltraggio di Anagni e la distruzione dei Templari sono i risultati di una stessa avidità dilagante e folle, per la quale Filippo pagherà il fio. L’apparente ripetizione del sacrificio del Golgota, perciò, nella visione di Ugo Capeto, misura unicamente la sconfinata ambizione di dominio di Filippo (posto significativamente alla fine di una serie di sovrani francesi avidi e superbi), escludendo da ogni valutazione Bonifacio VIII e palesando l’irrilevanza di ogni ipotetica distinzione tra persona e ufficio.


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Né si può estendere l’atteggiamento usato da Dante nei riguardi di Niccolò III (If. XIX, 100-102): «E se non fosse ch’ancor lo mi vieta / la riverenza per le somme chiavi / che tu tenesti nella vita lieta [...]» nei quali versi la nostra commentatrice riconosce «la distinzione posta in questo verso ‘che vaca’, (tra l’ufficio e la persona) è quella, già altrove chiaramente rispettata da Dante [...] che (come in If. XIX, 101) modera le sue parole per la reverenza delle somme chiavi». Si osserva che, intanto, nelle parole, già ricordate, di Pietro «il luogo mio, il luogo mio che vaca» non c’è l’ombra di una distinzione e quindi l’eventuale parallelismo – ove si ipotizzasse – non regge assolutamente. In secondo luogo, Dante non considera Niccolò III un usurpatore divenuto tale per simonia, ma un personaggio che, nonostante fosse nel massimo rilievo a Roma, negli ambienti di Curia, si vide preferiti ben tre papi (Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI), prima di essere eletto e conseguentemente aveva approfittato della sua carica per arricchire i suoi familiari, con una vera e propria politica di “nepotismo”. Perciò gli è più che naturale stupirsi che Bonifacio VIII si sia già stancato di disporre della «bella donna», come lui aveva fatto, ma senza l’inganno di cui si era – o si sarebbe – valso il Caetani, e cioè la simonia. Non c’è nessuno che rimproveri Niccolò III di essere un usurpatore, cioè un “non papa”. Niccolò III non ha nessun Pietro che lo accusi di aver usurpato il “loco” di Pietro, si’ da renderlo “vacante”. Il rispetto umano per le somme chiavi nell’episodio di Niccolò III – che non comprò in nessun modo la carica papale, come già fece osservare Bruno Nardi – non ha nulla a che fare con l’argomento giuridico/teologico della distinzione tra persona e ufficio. E così, per tornare al Purgatorio e ad Ugo Capeto, si capisce che, proprio se dobbiamo accogliere nel senso più ampio il giudizio della Chiavacci (Dante parla per bocca di Ugo Capeto), si spiega che il nome di Bonifacio non sia fatto nel XX del Pg: non si può e non si deve fare di Bonifacio VIII un “martire”, ma di Filippo il Bello un campione di presuntuosa tracotanza che non esita a colpire il “vicario”di Cristo come, più tardi, i Templari. L’enormità della presunzione e dell’ambizione del re di Francia è misurata oggettivamente dalla solennità dei suoi obiettivi, dalle cariche, non dalle persone. Così Dante non ha nemmeno – ove mai l’ avesse cercata – l’occasione di farla, quella distinzione, e quindi di fare di Bonifacio, come si è detto, un martire. Vogliamo ammettere l’allusione al denaro che l’Orsini – prima di essere papa – avrebbe ricevuto da Giovanni da Procida per opporsi a Carlo d’Angiò, secondo una voce raccolta anche da Giovanni Villani? E sia: ma che cosa c’entra la simonia, almeno quella che inficia tutta la personalità e la carica di Bonifacio VIII, non si riesce a capire. Nella più recente biografia di papa Bonifacio VIII, quella dovuta ad Agostino Paravicini Bagliani [Bonifacio VIII, Torino 2003], la questione che


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occupò me ed i miei ascoltatori in quel seminario dantesco è sostanzialmente elusa: si parla diffusamente dell’episodio di Anagni e dell’offesa recata a papa Caetani e si ricordano i versi del Purgatorio, ma con la preoccupazione di vagliare e, soprattutto sul fondamento del racconto di fonti cronistiche, italiane e francesi, la portata reale dell’ingiuria fisica subita dal papa (schiaffo con guanto di ferro, percosse, ferita alla testa etc.); rammentando i versi del Purgatorio, ci si limita ad affermare che: «facendo astrazione dal giudizio che egli esprime su Bonifacio VIII, in quanto papa, Dante distingue qui chiaramente tra il pontefice regnante e la “persona del papa”: catturando Bonifacio VIII [che non è qui citato col suo nome, elemento di grande importanza, come qualche anno fa è stato notato da Gennaro Sasso], Nogaret penetrato ad Anagni con le insegne della corona di Francia – «lo fiordaliso» – ha fatto prigioniero il Cristo stesso. La condanna è senza appello: ciò che è stato fatto al papa, rinnova ciò che fu fatto al Cristo». Ma questa interpretazione, dovuta a studioso di molto impegno per quanto concerne la storia della Curia romana, non mi ha convinto in modo definitivo; direi anzi che, proprio partendo dalla considerazione finale («ciò che è stato fatto al papa rinnova ciò che fu fatto al Cristo»), si può giungere a conclusioni ribaltabili, almeno relativamente al pensiero di Dante. È vero che Dante non nomina Bonifacio, ma questo non significa che egli voglia distinguere tra carica e persona. È vero che «Dante guardava alla dignità e non all’uomo che la rappresentava e la incarnava», come è vero che «l’unico risalto era dato all’istituzione, che viene prima della persona». Ma il fatto è che la “persona” era quella che era per Dante, ma anche per Filippo il Bello, al quale importava affermare la propria superiorità non solo nei riguardi dell’autorità (= “dignità”) imperiale, ma anche nei riguardi della dignità spirituale. Alla quale si poteva guardare da due punti di vista opposti: quello di Dante, che comunque non era il protagonista della “profezia” di Ugo Capeto e che, comunque, aveva una sua gerarchia di valori (superfluo ricordare i passi, tra i quali quello di Mn. III, XV); oppure si poteva guardare con gli occhi di Ugo Capeto, intento a sottolineare il destino della tracotanza della Casa di Francia e basta, mettendosi in non cale le gerarchie in cui credeva Dante, ma non Filippo e, in qualche modo, i suoi predecessori; tanto più, come si vedrà, che alla data dell’oltraggio di Anagni, non solo il re di Francia, ma gli stessi ambienti ecclesiastici dell’entourage di Filippo IV, non ritenevano che Bonifacio fosse papa legittimo: e non per l’invalidità della rinunzia di Celestino V, come si tornerà a vedere.


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Se ora ci volgiamo a valutare le considerazioni non solo dei commentatori, di cui abbiamo fornito una campionatura recente, ma della più agguerrita e altrettanto o ancor più recente letteratura storica bonifaciana, ci accorgiamo che essa non ha apportato alcun progresso ad intendere la visione drammatica di Dante. Anche qui, solo una brevissima campionatura (Paravicini Bagliani, Coste). Si è già fatto cenno ad un’affermazione del primo studioso, ma ritengo illuminante dal punto di vista metodologico soffermarmi sulle menzioni di Dante che compaiono nella monografia già citata. La testimonianza dantesca – ma sarebbe meglio dire la valutazione dantesca di Bonifacio VIII – sembra prescindere quasi del tutto dalla personalità e dai convincimenti religiosi del Poeta. Consideriamo il commento a If. XIX, 55/57 [«Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio / per lo qual non temesti tòrre a ‘nganno / la bella donna, e poi di farne strazio?»], in cui Niccolò III, equivocando sulla presenza di Dante, scambiato per Bonifacio VIII, formula l’accusa celeberrima dell’inganno bonifaciano: per Paravicini, e non solo per lui, teso a Celestino V. Ma, come subito vedremo, si tratta di un errore, così come è un errore il corollario che vittima dell’inganno sia Celestino V, che una «bella donna» sicuramente non era mai stato! Ma l’ansia di adoperare ogni “lavacro” possibile per ridimensionare le “falsità” sul Caetani fa compiere ogni ardimento al nostro commentatore. Riflettiamo. La preoccupazione costante è sempre quella di riferire puntualmente tutti i rumores per poter dimostrare la loro inconsistenza, specialmente quelli relativi alle pressioni psicologiche che il Caetani avrebbe esercitato su Celestino V «che era un uomo pio e di santa vita» (vulgo un “babbione”!) che, con sottile artificio, fu ingannato da papa Bonifacio VIII in questo modo: «durante la notte egli penetrava nella camera del pontefice (lasciamo andare che se era Bonifacio VIII a penetrare nella camera del pontefice si arriva al GrandGuignol, perché se Bonifacio era già Bonifacio VIII che bisogno aveva di entrare nella stanza di Celestino V?) con una lunga cornetta per mezzo della quale, postosi sopra il suo letto, gli parlava e lo avvertiva: “Io sono l’angelo che Dio glorioso ti invia per ordinarti di rinunziare immediatamente al papato”». Ora sta bene che in queste parole si riassume un racconto che è stato attribuito a Brunetto Latini: ma, mi chiedo, come si fa a “riempire” una intenzionalità denigratoria di Dante – che nessuno nega – con simili frottole? Veramente si pensa che Dante potesse accogliere questi rumores e non altri e più seri e consistenti? Ma c’è poi un argomento che taglia la testa al toro. In If. XIX, 56-57 il dramma di Niccolò III e di Bonifazio non è il “consiglio fraudolento” di Benedetto Caetani a Celestino V, «tolto ad inganno». Dante non nomina Celestino V; Dante parla di un inganno teso alla «bella Donna», cioè la Chiesa, e, finalmente Dante fa parlare nel canto dei simoniaci un papa, non Virgilio, come para-


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dossalmente afferma il Paravicini, che scrive: «Dante si farà eco di queste posizioni nell’Inferno, dove Virgilio rimprovererà a Bonifacio VIII di non aver temuto di «torre ad inganno» la bella Donna e poi «di farne strazio». Questa posizione, non l’accusa di simonia, fa parte delle voci messe in circolazione dai cardinali Colonna, perché, in effetti, il Caetani era tra i consiglieri di Pietro da Morrone: Dante si fa eco di convinzioni di ben altra portata, di natura giuridica e teologica, come prova l’eco immediata che suscitò non la questione del suggerimento malizioso che sarebbe stato dato a Celestino V, ma la circostanza, canonisticamente rilevante, della rinuncia da lui operata, per tutte le implicazioni che comportava e che non starò a ripetere. Ancora una volta, però, l’interpretazione che viene fornita nell’ultima monografia su Bonifacio VIII non convince, perché fuori bersaglio. Il problema che Olivi, soprattutto, e poi Egidio Romano sollevano, non è quello della possibilità di rinunziare alla giurisdizione, non di sciogliersi dall’Ordine sacerdotale, come è stato scritto. Il vero problema è proprio fornito dalla forzata coincidenza tra il potere di giurisdizione papale, che è il più ampio possibile, e l’appartenenza all’Ordine sacro dell’episcopato! Olivi è chiarissimo in proposito: quello della carica papale non è un sacramento, cui non si può rinunciare (non si può rinunciare a nessun sacramento: lo aveva già detto S. Agostino), ma solo un ambito giurisdizionale. Quindi, così come il papa può essere messo sotto accusa, non solo per la clausola nisi a fide, ma anche per altre fattispecie riprovevoli gravissime (sovvertimento dell’ordine generale della Chiesa, pazzia etc.), può rinunciare alla carica. C’è, in ogni caso, da osservare che scindere nettamente giurisdizione e sacramento ha – in Olivi credo intenzionalmente – lo scopo di spezzare quel nesso, cui prima si è accennato, tra “sacralità” in vario modo sostenuta (si ricordi la proposizione 23 dei Dictatus papae di Gregorio VII, dove l’elezione canonica rendeva sacra la persona del papa!), e ius clavium, come si osserverà a proposito di “eresia” e “scisma”. E sullo stesso piano ci troviamo per quanto concerne il commento al passo dell’If. XXVII, 108-111 [e dissi: «Padre, da che tu mi lavi / di quel peccato ov’io mo cader deggio, / lunga promessa con l’attender corto / ti farà triunfar ne l’alto seggio»]: «È questa la politica (di Bonifacio VIII, nota mia), diffondendo la leggenda secondo la quale Guido da Montefeltro, un vecchio uomo d’arme divenuto poi frate francescano, avrebbe domandato perdono a Bonifacio VIII per il consiglio che gli avrebbe dato (che Guido aveva dato a Bonifacio VIII, nota mia) di “lunga promessa con l’attender corto”» (Paravicini, p. 198). Chiariamoci le idee: Dante non aveva diffuso nessuna leggenda e la questione dell’assoluzione di un peccato, che si sarebbe commesso in futuro, ma che al momento dell’assoluzione non era stato ancora commesso, era ampiamente dibattuta: basterà rimandare al De votis dispensandis di Pietro di Giovanni


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Olivi, XIV trattato delle Quaestiones de paupertate evangelica, edito nel 2002 da Marco Bartoli, ma segnalato sin dal 1887 dagli studi di Franz Ehrle, nel III volume dell’Archiv für Literatur-und Kirchengeschichte e attestato in numerosi codici, al punto che, si diceva, vi si legge questa Responsio ad argumentum in contrarium: «Dicendum quod a transgressione futura, postquam erit facta, non tamen sequitur quod possit facere quod futura transgressio, quando fieret, non esset culpabilis, quia nec de preterito hoc potuit nec hoc etiam esset a peccatis absolvere, sed potius naturas actuum mutare; secundum hoc etiam ita posset dici quod sicut baptismus delet omnia peccata preterita, quod sic deleret omnia futura, ita quod faciendo actus peccatorum nemo peccaret». Evidentemente, ci son più cose in cielo e in terra di quante ne voglia contenere l’esegesi che stiamo analizzando. Ma c’è soprattutto l’atteggiamento “derivato” di apologia, che è la risultante oggettiva dell’affidamento completo alla esposizione “dei fatti” che Jean Coste ha fatto del processo, inteso nella sua più larga accezione, intentato a Bonifacio VIII (Boniface VIII en procès. Articles d’accusation et déposition des témoins (1303-1311). Édition critique, introduction et notes par J. Coste, Roma 1995). Ne siamo convinti proprio dalla circostanza, già sottolineata, dello schiacciamento delle testimonianze sul letto di Procuste di questo “ridimensionamento della condanna senza appello” che è stata operata, in vita e in morte, di papa Caetani. Come nel caso di Guido da Montefeltro, di cui si è fatto cenno più in alto. Ma non è tutto. È vero che Dante non nomina Bonifacio VIII (come non nomina Celestino), ma ciò non implica alcuna «reverentia» o distinzione tra persona e carica. Lo sconcertante paragone dell’episodio di Anagni con la tragedia del Golgota assume una sua plausibilità se si segue questo ragionamento. Per quanto esponga sentimenti e convincimenti di Dante, in Purgatorio XX chi parla è pur sempre Ugo Capeto, penitente in quanto radice della mala pianta e addolorato per le sorti della monarchia capetingia: troppo spesso non si è badato a questa circostanza (si ricordi il giudizio di Anna Chiavacci circa il “non-personaggio storico”), cioè che il XX del Purgatorio è sicuramente il canto della perversa fenomenologia della «maledetta lupa», che ha annullato i valori del Cristianesimo, del Cristo povero, la cui madre, Maria, fu «povera tanto / Quanto veder si può per quell’ospizio / Ove esponesti il tuo portato santo». Annullati, quei valori, per Filippo il Bello – e lo afferma Ugo Capeto –; annullati per Bonifacio VIII, e lo affermerà, nel Paradiso, Pietro. La politica e il comportamento di Benedetto Caetani, del resto, prima come cardinale, poi come papa, avevano da tempo raggiunto i limiti di una spregiudicatezza tale da costituirlo “oggettivamente” quasi soltanto una pièce politica in uno scacchiere per nulla religioso. La concezione teocratica del papato veni-


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va, anch’essa “oggettivamente”, ad assumere tutti i caratteri di uno strumento “ideologico”, come si ricorda nelle accuse mosse al Caetani. Per rendersi conto di ciò sarebbe bastato assumere come prospettiva per un giudizio tutto il contesto religiosamente, giuridicamente, politicamente e, perché no?, “ideologicamente” ostile che intorno alla figura di Benedetto Caetani/Bonifacio s’era creato, specialmente dopo l’abdicazione di Celestino V (non nominato da Dante proprio perché aveva fornito l’occasione di ascesa al Caetani, non perché non gli fosse concesso di dimettersi. Non c’è, su questo punto specifico, nessun contrasto tra Dante e Olivi); ma si sarebbe dovuto ripercorrere tutto il cammino di Tillmann Schmidt e riesaminare, da questo punto di vista il Coste, senza affidarsi interamente all’esposizione ampia ma tendenzialmente asettica di quest’ultimo. Ci si sarebbe accorti che accanto agli interessi politici, e alle mutevoli scelte di campo dei protagonisti, ai “conflitti di interessi” tra le famiglie romane “emergenti o resistenti”, era necessario, nel caso di Dante, valutare la richiesta di identità di una parte della società del tempo, che aveva conosciuto speranze, delusioni e modelli di vita che andavano dai movimenti spirituali al francescanesimo, all’usus pauper, di cui pure s’era occupato il tanto vituperato Niccolò III, probabilmente giovandosi proprio dell’Olivi, certo personaggio scomodo tanto da non meritare che modestissima attenzione nella monografia che stiamo analizzando. Lo stesso minuzioso elenco delle varie malefatte attribuite al papa, compilato dal Coste, risponde alla metodologia della sommatoria indiscriminata delle varie testimonianze, rumores, orientamenti ecclesiologici, interpretazioni canonistiche, favole, risponde ad uno scopo: quello di ridimensionare l’attendibilità delle decine di accuse formulate nei processi contro Bonifacio, che vengono valutate una per una, respinte, accolte, accolte con riserva, come se dalla sommatoria indiscriminata di esse si potesse desumere un giudizio definitivo. E si vorrà notare che appare più importante della discussione circa la reale “eresia” di Bonifacio VIII l’indagine su quello che, anche prima di Bonifacio, era divenuto l’atteggiamento papale nei confronti dell’eresia vera e propria. In occasione di una delle tante manifestazioni celebrative del centenario bonifaciano, è stato osservato, secondo me giustamente, che nel Caetani non traspare un accanimento particolare verso gli eretici, né tampoco una piena consapevolezza e approfondimento del concetto stesso di eresia e di atteggiamenti devianti (Si veda in proposito L. Paolini, Bonifacio VIII e gli eretici, in Bonifacio VIII cit., pp. 413-444: 427 ss.). Mi spiego: in tutta la vicenda che riguardò il Caetani nell’ultimo decennio del sec. XIII e nei primi anni del sec. XIV, ciò che appare una costante nei rapporti tra i vari protagonisti è l’imprescindibilità di un punto di riferimento – da abbattere o da sostenere, non importa – rappresentato dal papa. Se ne sarebbe potuto prescindere solo depo-


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nendolo: ma è noto che la procedura, come i fatti hanno provato, è di quasi impossibile applicazione, a cominciare dalla convocazione di un concilio generale. In questo quadro il caso di eresia da riconoscersi in concilio diventava ipotetico, poiché il concilio doveva essere convocato dal papa – e se si leggono con attenzione le cedole regie dei documenti francesi del 1303 ce ne avvediamo subito –, mentre l’espressione assoluta restava la plenitudo potestatis, arma sempre brandita dai curialisti e sempre contestata nelle sue innumeri implicazioni dagli anticurialisti o dagli spirituali. Lo ius clavium più che il nisi a fide, ormai, costituiva una “blindatura assoluta” per il potere papale. E rifiutare obbedienza al papa era negare la plenitudo potestatis, era negare lo ius clavium, era provocare uno scisma. L’assimilazione di fatto – come suggerisce Tillmann Schmidt – tra eretici e scismatici rende fortissima, sul piano dottrinale, la posizione di Bonifacio: a tal punto “blindata” e suscettibile di “espansioni interpretative” che – come scrivevo precedentemente, p. 40 – aveva suscitato perplessità anche in ambienti fiorentini moderati, in quelli che Don Michele Maccarrone definiva i fautori della potestas indirecta. A giudicare dalla scarsa o nulla attenzione ad una storiografia certamente notevole, che viene proposta dai recenti commentatori o anche autori di monografie bonifaciane, sembra che tutto un mondo culturale non esista o abbia nessuna incidenza sul pensiero, sulle passioni, sulle stesse asprezze dantesche. Un solo esempio. Tutti parlano di un possibile rapporto con l’Olivi: ma è quasi impossibile, su tanto insistere che si è fatto circa il peso della rinunzia di Celestino V e sulla trattatistica che ne seguì e sulle coincidenze o apparenti contraddizioni nell’atteggiamento dell’Olivi, che difende la scelta di Celestino V, favorendo – si fa per dire – Bonifacio VIII (uno storico della levatura di Giovanni Miccoli ha potuto parlare di ambiguità); è quasi impossibile, dicevo, trovare una meditata citazione circa i più recenti saggi sull’Olivi: non certo citato il prezioso articolo di A. Forni, apparso nel Bullettino di questo Istituto nel 1993, sul De renunciacione, o quello di M. Bartoli sul De inerrabilitate. Verrebbe fatto di pensare che la fama di cui Dante godette, oltre che di sommo poeta, anche di filosofo e teologo, fosse usurpata e che la lezione di Nardi sia assolutamente dimenticata. E a quest’ultima circostanza io credo ormai da molto tempo. Facciamo ancora qualche considerazione sul ponderoso volume di Jean Coste. Il nostro autore – lo si è già detto – cerca di attenuare in tutti i modi le responsabilità dei protagonisti del dramma: Bonifacio VIII, che non è peggiore di altri, anche se vittima della svolta epocale della storia (recentemente un giovane studioso italiano ha parlato, riferendosi alle vicende del 1301-1303, di una situazione sfuggita al controllo delle parti politiche in lotta) e, nonostante la dichiarazione iniziale di obiettività, finisce, magari senza volerlo, col proporre un quadro apologetico.


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Coste ha proposto all’attenzione degli studiosi le problematiche del documento letto dal Nogaret al Louvre il 12 marzo 1303 davanti a Filippo il Bello e ad altri dignitari della corte. Per Guglielmo di Nogaret, a quella data, Bonifacio VIII non era certamente papa. Dichiarava lo scritto: «Item propono quod dictus Bonifacius est hereticus manifestus». Certo non bastava l’affermazione del Nogaret a provare l’eresia di Bonifacio: ma è significativo che l’accusa principale sia quella (e non il suggerimento dato a Celestino V) e che questa eresia fosse la simonia, almeno per quanto ne recepiva Dante. Nogaret, del resto, non era l’unico che riferisse voci gravemente accusatorie nei riguardi del Caetani, come ho ricordato in altra sede. E d’altro canto, l’accusa di Nogaret pronunziata in una sede ufficiale; il non assenso, ma l’ascolto attento – visto che cosa ne seguì – da parte di Filippo; le vicende dei Colonna e relativi rumores; i dubbi circa la validità della rinuncia di Celestino non possono essere considerati alla stregua di avvenimenti di poco conto per la politica del re di Francia: a prescindere dalla Clericis laicos e dalla Ausculta fili. Ciò per dire che si arrivò al consiglio reale del 13 e 14 giugno 1303, in cui oggettivamente Nogaret e Plaisians – e probabilmente lo stesso sovrano – si trovavano in una posizione di forza, per imporre una decisione drastica, come un mandatum per la convocazione di un concilio generale che giudicasse il papa. Leggiamone il testo – che fu letto dal Plaisians – nell’edizione del Coste: «ad predictum generale concilium, quod instanter convocari petimus et ad verum et legitimum summum pontificem vel alios, ad quem vel quos fuerit appellandum, provocamus et appellamus in scriptis, non recedendo ab appellatione per dictum G. de Nongareto interposita, c u i e x t u n c a d h e s i m u s e t e t i a m a d h e r e m u s [...]». Quindi nel giugno 1303, per Filippo il Bello, Bonifacio non solo non era il vero papa, ma veniva affidato al giudizio di un concilio generale. Ora il Coste vuole eliminare o per lo meno ridurre il peso del documento in questione, che coinvolgeva pienamente il re, dando una particolare interpretazione al «cui ex tunc adhesimus», che chiaramente mostra come il sovrano non solo fosse a conoscenza del disegno generale del Nogaret, ma che lo appoggiasse sin dal 12 marzo 1303. Invece no: Nogaret avrebbe manipolato il documento fatto leggere dal Plaisians dando l’impressione, con quella precisazione, di un assenso del re dal marzo e non dal giugno. E ciò perché altrimenti il consiglio reale del giugno 1303 non avrebbe avuto senso, in quanto pleonastico rispetto ad una decisione già presa. Ma il fatto è che «adhesimus» indica un’adesione di principio – e magari calorosa – non un ordine preciso e deciso. E a questo punto non si comprende perché per scaricare la responsabilità di Filippo, si affermi che Nogaret aveva giocato d’astuzia sulla circostanza che: «Certainement non explicite alors, l’adhesion au plan Nogaret n’était-elle déja


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dans le coeur du roi ?». Ma né il re né Plaisians vollero dare subito l’impressione di accedere al disegno di Nogaret (uno perché sovrano, l’altro perché maestro di Nogaret). Ma tutto questo sforzo di fantasia e di ipotesi non porta acqua al mulino della tesi “minimalista” di Coste, che finisce con l’ammettere che il processo di tensione sviluppatosi tra re di Francia e Bonifacio non può essere ridimensionato dalle possibili schermaglie di corte e diplomatiche. Come si è detto il Coste non sembra tenere in gran conto il contesto culturale, religioso, ideologico in cui quei fatti si svolsero e soprattutto non sembra voler ammettere che dopo l’affermarsi del modello francescano per una vera identità cristiana della società europea, sarebbe stato impossibile portare alle estreme conseguenze il disegno politico che, per lo meno da Innocenzo IV, s’era imposto. Il contesto era complesso e ripensare ad esso significa tener conto di tutti i suoi elementi, anche di quelli, determinati proprio dal francescanesimo, che costituirono per tutti «un’eredità difficile». Difficile, e vorrei che il giovane amico e collega Roberto Lambertini mi consentisse di ulteriormente specificare, soprattutto se l’eredità – non solo Francesco e il suo modello, che è pur tanto, ma di una certa idea e prassi della società cristiana, in cui si riconoscono ed inverano i valori che Dante attraverso il lungo itinerario spirituale vuole recuperare – soprattutto se l’eredità, dicevo, si sgretola e si disarticola nella narrazione atomizzata e nel travisamento del positivo nel negativo e viceversa, che sono propri dei “fatti” avulsi da un’idea organica della storia. Per questo ho spesso ripetuto che per Dante l’ “événementiel” è contraffazione, che finisce coll’avvalorare il “sollen” del disegno provvidenziale. Non si dimentichi che nei due canti presi in considerazione il richiamo all’intervento di Dio è frequente e molto risentito: «O Segnor mio, quando sarò io lieto / a vedere la vendetta che, nascosa / fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?». «Ma l’alta Provedenza che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo / soccorrà tosto, sì com’io concipio»: nelle quali parole di Pietro, è appena da notare che il “fatto” storico – qualsiasi possa essere la “fonte” (tra virgolette e molti punti interrogativi !) – è recuperato nella sua positività dalla necessità provvidenziale ab aeterno, indipendentemente da ogni successione temporale («Scipio» e «il popol cristiano» événementiellement sono un assurdo!), che si manifesti nella riaffermazione dei valori di Pietro, Lino, Cleto, Pio, Callisto, Sisto, Urbano, non quelli di Caorsini e Guaschi o delle chiavi divenute «segnacolo in vessillo […] dei privilegi venduti e mendaci»; cose tutte che avevano fatto dire poco prima a Pietro «o difesa di Dio, perché pur giaci?» ***


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Mi proverò adesso a trarre alcune considerazioni, di carattere conclusivo, da quanto ho esposto. Relativamente alla domanda contenuta nel titolo di questa lectura – l’esistenza in Dante di un doppio criterio di valutazione (la carica distinta dalla persona), proposta dai commentatori –, mi pare di poter tranquillamente rispondere negativamente: quando Dante è chiamato ad esprimere un giudizio su papa Caetani, nella Commedia, questo giudizio è sempre nettamente negativo, esattamente com’è negativo il giudizio su Filippo il Bello e sul papato avignonese. E ciò perché papa Caetani rappresenta il punto terminale di una decadenza e l’inizio di un salto epocale, che richiede un intervento esterno, soprattutto provvidenziale, per ristabilire una humana civilitas nel senso che intendeva Dante; concetto rivisitato recentissimamente da Paola Cavina e Carlo Dolcini, nel corso di un seminario tenuto nell’ambito della I Settimana di studi medievali dell’Istituto e non ancora pubblicato. Questo è l’ovvio significato del «soccorso» auspicato da Pietro, nel Paradiso. Ma c’è un’altra considerazione che mi preme fare come corollario di queste noterelle: e riguarda la metodologia dell’approccio esegetico a Dante. Ho sempre ritenuto che sia erroneo parlare di “dipendenza” di Dante da questa o quella lettura, nel senso di una derivazione sostanziale; così come ho sempre ritenuto che il problema della relazione di Dante con la storia e con la storiografia non si debba affrontare arricchendo il numero, la qualità, la simiglianza di tutte le possibili “fonti”. La quale operazione sarà giovevole in quanto fornitrice di sempre più ampia suggestione di motivi di meditazione dantesca, non di “trasmissione” di fatti. Per Dante, i fatti, pochi o tanti che egli annoveri – che non è la stessa cosa che dire che “egli conosca” –; i fatti, si diceva, non sono “fonti”, ma sono “prove”: e i “fatti-prove” si reperiscono nei dibattiti dottrinali più che nelle esposizioni cronistiche.


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Molti anni or sono, nel corso dell’edizione di un trattato del magister domenicano di S. Maria Novella, Remigio del Chiaro Girolami, il De peccato usure, non potevo non constatare che, a differenza delle decine di opere similari, che la teologia del secolo XIII e XIV aveva prodotto, la trattazione che mi interessava si atteggiava piuttosto come occasione per descrivere l’assurdità, l’irrazionalità di una devianza delle finalità umane, insita in un’attitudine concettuale e quindi etica nella società cui il Girolami intendeva rivolgersi e che egli chiamava «usura», in qualche modo impropriamente, non perché non sapesse quale era la definizione corrente del peccato, ma perché l’usura in quanto tale gli si presentava come iponimia di un’inclinazione ben più generale e globalmente coinvolgente che era da ravvisarsi nella cupiditas sfrenata che presiedeva all’agire degli uomini1. E data l’ampiezza che assumeva, nella trattazione del Girolami, la descrizione della negatività dell’“usura” – lo diciamo tra virgolet-

1 Di Remigio de’ Girolami, frate domenicano di S. Maria Novella, morto nel 1319, la storiografia si è andata occupando, dopo brevi notazioni del Grabmann, del Federici-Salvatori e di Minio-Paluello (la cui ristampa di un saggio dedicato al Girolami in L. Minio-Paluello, Luoghi cruciali in Dante, Spoleto 1993 [Quaderni di cultura mediolatina, 6], pp. 111-129, non ha informato i lettori del lavoro compiuto negli ultimi 50 anni), soprattutto ad opera di C. Till Davis, Remigio de’ Girolami and Dante: a comparison of their conception of peace, «Studi danteschi», 36 (1959), pp. 105-136; L’Italia di Dante, Bologna 1988, pp. 201-229, M. C. De Matteis, La teologia politica comunale di Remigio de’ Girolami, Bologna 1977, E. Panella e di chi scrive: per un quadro delle problematiche, storiche e filologiche, relative alla persona ed all’opera di Remigio, si rimanda all’ottima voce, curata per il Dizionario Biografico degli Italiani (d’ora in poi DBI) da Sonia Gentili, Girolami, Remigio di, in DBI, 56 (2001), pp. 531-541. Il testo del De peccato usure è stato pubblicato da chi scrive, Il De peccato usure di Remigio de’ Girolami, «Studi medievali», ser. III, 6 (1965), pp. 537-609 [introduzione], 611-662 [testo]; per questioni relative alla biografia e ai testi editi dell’opera del Girolami, cfr. anche E. Panella, Per lo studio di Fra’ Remigio de’ Girolami, «Memorie Domenicane», 10 (1979), pp. 183-283. Ma tenuto conto dell’intento specifico di questa “lettura”, è da vedere l’insieme di considerazioni, dedicate in ben due capitoli a Remigio de’ Girolami, da M. S. Kempshall, The Common Good in Late Medieval Political Thought, Oxford 1999, pp. 203-362.


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te – mi sorgeva quasi ovvio l’accostamento con uno dei temi principali della Commedia, se non il principale, quello della cupidigia, appunto, accostamento che suggeriva, a sua volta, alcune notazioni circa il significato della posizione di secondo piano in cui la specifica casistica teologico-canonistica sull’usura veniva collocata dal domenicano, rispetto alla centralità della cupidigia come causa del disordine civile, anche se, aggiungevo, sarebbe stato erroneo e fuorviante vedere non solo nel De peccato usure, ma anche in altre opere del Girolami una condanna semplicistica ed astratta dell’attività mercantile. Osservavo in proposito che l’etica tomistica – e quindi quella del Girolami – segnava una linea di relativo possibilismo nell’ambito delle transazioni commerciali, il cui rovescio poteva consistere nell’implicito scopo di prospettare quelle transazioni come non essenzialmente dipendenti dall’apporto di ingenti capitali liquidi2. Rimaneva, tuttavia, la difficoltà di dover credere che l’astrattezza ed il dogmatismo del Girolami lo inducessero effettivamente a credere che esistesse un «luogo storico» in cui l’attività economica si risolvesse quasi interamente entro i parametri previsti – sullo sfondo dell’etica ecclesiastica del secolo XIII – del mutuo, del commodatum, del deposito, della locazione e della compravendita, in una situazione storica alquanto avulsa dalla realtà fiorentina della fine del Duecento, che il Girolami certamente non ignorava e nella quale era stato certamente coinvolto3. Oggi, confortato anche dalla pubblicazione di un altro trattato del Girolami, il Contra falsos ecclesie professores in cui ben il 14% della esposizione, che consta di novantanove capitoli, è dedicato alla negotiatio, e dalla rilettura in chiave positiva della trattatistica antiusuraria, specialmente della scuola francescana che ha preso le mosse da Pietro di Giovanni Olivi4, preciserei meglio il mio pensiero. Proprio nel Contra falsos ecclesie professores infatti – tra

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Capitani, Il De peccato usure cit., pp. 606 ss. Si rimanda per un’aggiornata messa a punto a Gentili, Girolami cit., pp. 534 ss. e a Panella, Per lo studio cit.; E. Panella, Cultura e istituzioni nell’Ordine domenicano tra Medioevo e Umanesimo, «Memorie Domenicane» 12 (1981); E. Panella, Politica e vita religiosa a Firenze tra ’300 e ’500: dal bene comune al bene del comune, «Memorie Domenicane» 16 (1985), passim. 4 Remigio dei Girolami, Contra falsos ecclesie professores, a cura di F. Tamburini, Roma 1981 (Utrumque ius, 6); Panella, Per lo studio cit., per i cc. 5-37, pp. 109-182; per la scuola francescana, in merito all’etica economica, cfr. O. Langholm, Economics in the medieval schools. Wealth, exchange, value, money and usury according to the Paris theological tradition 1200-1350, Leiden 1992 (Studien und Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 29), pp. 329-535 e, più in generale, G. Todeschini, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età moderna, Bologna 2002, passim. Dell’Olivi è particolarmente importante dal nostro punto di vista il Tractatus de emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus, cfr. G. Todeschini, Un trattato di economia politica francescana: il «De emptionibus et venditionibus, 3


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altre suggestioni di cui non è il caso in questa sede far menzione – si affacciava, sia pure quasi nascosta dall’affastellamento di argomentazioni peregrine ed ovvie, l’idea che mercari licet [...] et pro bono communi ut subveniatur defectibus regionum, ad quod principaliter instituta est mercatio. Più che lo specifico della motivazione, assumeva una sua particolarità il collegamento tra il giudizio sulla morale economica e la considerazione di una valutazione latamente “politica” generale5. Veniamo a Dante. Anche solo a fermarsi ai più recenti commenti, dopo quello di Natalino Sapegno, di Pasquini e di Anna Chiavacci Leonardi nei luoghi in cui si tocca il tema della cupidigia (o anche cupiditas – per l’usura il caso è diverso, avendo, ma nell’Enciclopedia Dantesca, io stesso curato la voce relativa – anche nei più recenti commenti, dicevo, la globalità, se così possiamo esprimerci, del peccato di cupidigia, universalmente riconosciuta nel contesto scritturistico-teologico medievale, non è mai accostata al De peccato usure6. Forse perché la cupidigia in quanto tale non rientra nell’acronimo mnemonico siiaagl di Gregorio Magno che era stato l’ovvio punto di riferimento per la disposizione della gerarchia dei peccati nell’Inferno e nel Purgatorio; non certo perché nel momento in cui le voci della Dantesca avarizia, cupidigia e cupidità venivano redatte non fosse possibile conoscere il De peccato usure (apparso nel 1965, mentre i primi due volumi della Dantesca sono apparsi nel 1970), ma forse perché proprio l’appellativo di usura, iponimico, ripeto, di cupidigia o cupidità, e dato peraltro come titolo all’opera del Girolami, costituì un motivo di distrazione per i commentatori. Sta di fatto che come cupidigia o cupidità il termine è ben presente in Dante ed in contesti che metteremo a confronto con quelli di Remigio. Cupidigia, cupiditas, propriamente, in quanto tale, non come cupido, è presente – secondo quanto informa nella voce dell’Enciclopedia Dantesca, curata da Emilio Pasquini – nella Commedia ed in particolare (tre volte su cinque) in Paradiso7: «tutti [i passi] incentrati intorno al grande tema dell’avarizia come “avidità di beni terreni”, “smania di possesso”»: ma ha sempre i caratteri di una contraffazione della razionalità e dell’umanità (If. XII 49: Pg. VI 104; Pd. V 79, XXVII 121, XXX 139). In If. XII 49 a punirla sono i Centauri, mistificazione della natura umana, invasati da una sfrenata lascivia di uccidere, derivata, come alcu-

de usuris, de restitutionibus» di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1980 (Studi Storici, fasc. 125126). Il testo citato si trova in Remigio dei Girolami, Contra falsos ecclesie cit., p. 204. 5 Si rimanda a Todeschini, I mercanti cit. e a Kempshall, The Common Good cit. 6 Quanto all’acronimo mnemonico siiaagl (= superbia, invidia, iracundia, acedia, avaritia, gula, luxuria), che esclude usura, cfr. E. Bonora, Avarizia, in Enciclopedia Dantesca (d’ora in poi ED) 1 (1970), pp. 463-464 nonché le voci moralità, peccato, vizio. 7 E. Pasquini, Cupidigia, in ED, II (1970), pp. 285-286.


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ni anni or sono ricordava Achille Tartaro, dal Policraticus di Giovanni di Salisbury8. Ma non c’è solo la Commedia: ancora cupidigia è quella che acceca la società cristiana – ed in particolare i fiorentini dell’epistola 6 mira cupidine obcaecati – che allontana da sé il proprio sostentamento, morendo di fame, ma allontanando la balia9; come cupiditas è presente, significativamente, anche in epist. 11 (ai Cardinali), lettere, cioè politicamente impegnate. Le derivazioni, segnalate in proposito dai commentatori, rimandano alla Scrittura ed ai classici, con riscontri formalmente esatti, che non spiegano, tuttavia – sul piano propriamente storico – perché cupiditas in quel determinato momento ed in quel determinato contesto politico: con qualche riduttività, secondo me, si è invocata l’autorità di Johan Huizinga, per spiegare la particolare animosità di Dante nei riguardi di questa forma esasperata di cupidigia, distinguendo tra reazione al peccato simbolo del «buon tempo antico, l’orgoglio, proprio della società feudale, e l’avarizia, propria della nuova società borghese e comunale»10. A parte la discutibile identificazione, in questo caso, tra cupidigia ed avarizia, va sottolineato che in Dante è costante l’accostamento della cupiditas come esito possibile della gestione del potere politico. Non solo, quindi, cupidigia «si connette e si circoscrive» – sto citando – «a interessi politici nell’unico luogo del Pg. VI 104 ove si condanna la miopia nei confronti delle cose italiane degli imperatori Alberto e Rodolfo d’Absburgo»11, ma in tutti i passi in cui compare cupidigia in quanto contrarietà all’ordinato vivere civile, in chi si oppone ad Arrigo VII, in chi distorce la finalità della professione dei voti, in chi, come i papi contemporanei a Dante, ha perso il senso dell’ufficio di Pietro non avendo chiara la natura stessa del tempo che affonda le radici nel Primo mobile e le cui scansioni non sono governate dall’arbitrio dell’uomo (che pretende di agire per cupidigia «che poi divora, con la lingua sciolta, qualunque cibo per qualunque luna», Pd. XXVII 132). Indubbiamente minor rilievo – a parte quanto si dirà in seguito a proposito di avari e prodighi – ha l’usura in quanto tale: l’individuazione di un Gianfigliazzi e di un Obriachi, di uno Scrovegni e di un atteso Becchi Buiamonti non dà occasione a Dante se non di biasimare una colpa che è si’ di Fiorentini

8 A. Tartaro, Il Minotauro e i centauri, in I monstra nell’Inferno dantesco: tradizione e simbologia, Atti dei convegni del Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo, Accademia Tudertina e del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale, n. ser., 10, Spoleto 1997, p. 173. 9 Epistolae, a cura di A. Frugoni - G. Brugnoli, Milano-Napoli 1997, p. 554 per l’epist. 6 e p. 586 per l’epist. 11; ma è da notare che tutta l’epistola ai Fiorentini insista sulla cupidigia come causa dei loro travagli politici. 10 Pasquini, Cupidigia cit., p. 285. 11 Ibid., p. 286.


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e di un Padovano; ma è soprattutto motivo per avvicinare l’usura alla gestione di cariche pubbliche (un podestà, un gonfaloniere di Giustizia) o a infangare una nobiltà non sentita come obbligo morale. Tutto qui: se non sapessimo che lo sfrenato desiderio del denaro è una manifestazione corrente di ben altri eccessi e cupidigie, dovremmo concludere che Dante vuole stigmatizzare un vizio fiorentino per eccellenza, il peccato di usura così grave nelle città di allora. Giustamente è stato detto «l’incontro con gli usurai non è che una parentesi nello svolgersi dell’evento principale» (la discesa a Malebolge)12. Ben altra sottolineatura riceve la colpa in If. XI 106 sgg., allorché Virgilio spiega l’ordinamento delle pene nell’Inferno, quando illustra la ragione della pena dell’usuriere, che disprezza natura ed arte, in quanto «tene altra via» rispetto a quella che deve imboccare l’umanità. E lo deve «dal principio»: non mi pare molto convincente nella terzina: «Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesi, dal principio convene prendere sua vita e avanzar la gente» che «dal principio» venga riferito a Genesi13. L’importanza del lavoro per l’uomo sta nel fatto che egli debba vivere con il lavoro e con la sua industria, non che ciò sia detto al principio della Genesi. La condizione umana, che prima dispone di tutto il creato, meno che dell’albero del bene e del male, poi, per sopravvivere, deve usare fatica ed intelletto, e quindi lavorare, è siffatta dal principio della creazione, come detto nella Genesi. Così è stato dal principio, non dal principio della Genesi, i cui passi probabilmente ricordati sono II 15 e III 17-19, come convengono i commentatori, anche quelli che uniscono a «Genesi» «dal principio». E mi conforta a scegliere questa interpunzione, proprio il fatto che, per un verso, l’uomo in stato d’innocenza, è padrone di tutte le cose – Dio ha fatto dare il nome ad esse da Adamo – dopo ne ha un uso dettato dalla sua spe-

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A. Chiavacci-Leonardi, Commedia, Milano 1991-1997, I: Inferno, p. 509. If. XI 106 (La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli 1957, p. 136; Commedia, a cura di E. Pasquini, Milano 1987, p. 69; Chiavacci-Leonardi, Commedia cit., I: Inferno, p. 349). La Chiavacci-Leonardi avverte nel suo commento: «dal principio: è riferito a Genesì: lo Genesì dal principio, cioè dal suo inizio. Altri lo riferiscono a convene, intendendo: è necessario fin dal principio del mondo. Ma la prima spiegazione dà con più evidenza a convene il valore che qui deve avere, di legge voluta da Dio per tutti gli uomini, e non di necessità pratica; per cui è così grave la colpa dell’usura». Ma la necessità – cioè la connaturalità del lavoro all’uomo, inteso come genere umano – voluta da Dio all’inizio del genere umano, si comprende proprio per quanto è detto nel Genesì; le «necessità», pratiche e non, sono tali in seguito a quanto è descritto nel libro della Genesì; tentare di evitare la condanna imposta da Dio nel momen13


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cifica condizione di mortale di cui per aver gustato dell’albero del bene e del male ha piena consapevolezza. Chi rifiuta questa consapevolezza è appunto l’usuriere, che «altra via tene». Così interpretando si conferisce alla passione che suscita – ma travalica – l’usura non solo e non tanto il connotato di una delle piaghe della società del tempo di Dante, ma la «Stimmung» di tutta la storia umana. E va bene, si dirà, ma Dante pur con la visione ed il ricordo di quella piaga non doveva scrivere un trattato sull’usura. E guardiamo allora a Remigio ed a Pietro di Giovanni Olivi. In Remigio de’ Girolami il De peccato usure consta di 36 capitoli; di essi i primi dieci affrontano la posizione delle obiezioni e soluzioni alle tesi quod omne peccatum est contro regulam nature et legis humane et legis divine et iustitie; i secondi dieci capitoli svolgono il tema dell’usura come peccato e conseguentemente della sua contrarietà alla natura delle creature celesti; i capitoli dal XXI al XXXIII affrontano il tema dell’opposizione dell’usura alle varie tipologie di ordinamenti normativi, dalla legge innata alla legge canonica; gli ultimi tre riguardano la contrarietà alla ratio della giustizia, al patto scellerato che si stabilisce tra gli homines mundani ed il diavolo e tra il diavolo ed il peccatore, per le pene che saranno espiate nell’Inferno14. Nell’elenco di questa esemplificazione, indubbiamente prolissa, al punto da suscitare l’impressione di un barocchismo ante litteram o, meglio, di un anticipo di quelle artes praedicandi in cui tra la fine del ‘300 ed il ‘400 si indugiava nel mostrare l’occasione quotidiana del peccato, contro le lettere dell’alfabeto, contro cinque sensi, contro le parti del corpo etc. etc.15, in questo elenco, dicevo, l’usura come fattispecie peccaminosa e delittuosa viene propriamente toccata nei capitoli centrali, in riferimento agli ordinamenti normativi e, soprattutto, nel c. XI Quod usura est peccatum quia est contra regulam nature elementorum16. Sia pur quanto si voglia

to stesso in cui si avviava il genere umano (Adamo ed Eva, nello stato di innocenza, non sono genere umano, come Adamo non doveva lavorare per vivere, cosi Eva non doveva partorire con dolore). Cercare di evitare la fatica del lavoro – andando così contro la natura – era offendere la volontà di Dio, dal momento che così, dopo la disobbedienza, Egli aveva voluto per il genere umano, non più allo stato edenico. 14 Capitani, Il De peccato usure cit., pp. 661 e 661-662. 15 O. Capitani, Verso un diritto del quotidiano, in Dalla penitenza all’ascolto delle confessioni, Spoleto 1996, pp 5-29 e relativa letteratura citata, con particolare riguardo ai lavori di C. Casagrande, I cataloghi dei peccati nella letteratura pastorale dei secc. XII-XV, in La pesta nera. Dati di una realtà ed elementi di una interpretazione, Spoleto 1994; cfr. anche R. Rusconi, I Francescani e la confessione nel sec. XIII, in Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel sec. XIII, Assisi 1981, pp. 531-547: 535 ss. 16 Capitani, Il De peccato usure cit., pp. 628-630; si deve correggere nell’Indice la trascrizione naturam celorum in naturam elementorum.


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avviluppato in un giro tortuoso di elucubrazioni e di distinzioni meramente formali, proprio nel capitolo XI noi troviamo l’affermazione inequivoca che fenerari est mutuare ad usuram: quindi il peccato di usura ha una sua limitazione ad una casistica precisa, che è quella del mutuo, non può, in altre parole, intervenire al di fuori di quella casistica, in quanto usura. Ma in quello stesso capitolo Remigio rovescia anche l’affermazione omnis fenerans peccet nell’altra, ben più gravida di conseguenze, omnis peccator est fenerator. E qui manifestamente – non saprei dire con quanto grado di consapevolezza – non si tratta di usura, ma di trasgressione di socialità, che è insita nello stesso ordine della natura. Non a caso viene invocato Ecl 29, 1 Qui facit misericordiam feneratur proximo, addotto non solo come esempio di un uso traslato di fenerari – osservazione piuttosto banale, invero – ma come caso in cui un prestito può arricchire l’indigente17. Non importa dichiarare che ciò avviene casualmente, ma mette conto osservare che la ditatio determinata dall’attività mercantile, di chi ha potuto operare solo grazie ad un prestito usurario è una delle possibilità lecite, ove intervenga la considerazione di un bene collettivo. Siamo molto vicini a Tommaso, Summa theologiae II II, q. LXXVII, a. 418. Si tratta, comunque, di un’eventualità che Remigio non considera frequente, almeno nel De peccato usure, e lo stesso c. XXXI in cui si affronta la tematica della contrarietà dell’usura alla legge del principato politico, si restringe ad affermare che un rex vel imperator, come un vescovo o un abate (significativamente non si fa riferimento al reggimento comunale) che si adoperassero ad usurizare ... totum populum sibi subditum, in poco tempo non esset propter subditorum utilitatem set dampnum19. Ove è comunque evidente che usurizare non può avere significato proprio (= estorcere usura su di un mutuo), ma governare in modo esoso e contrario all’utilità comune, al bene comune. Troviamo in Dante, nel Convivio, la stessa sostanziale diffidenza circa la possibilità che al possesso delle ricchezze si addivenga senza imperfezione (Convivio IV XI, 6 ss.): «Dico che la loro imperfezione primamente si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta la iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio effetto di imperfezione». E troviamo, ancor più significativamente, una serie di accostamenti, oltre a quelli cui, sulla scorta della voce usura della Dantesca da me curata, rimandava nel suo commento al Convivio, Cesare Vasoli: mi riferisco a De peccato usure cc. XXXII-XXXIII che, data la specificità dell’argomen17

Ibid., p. 628; il passo dell’Ecl 29, 1, si legge a p. 629. S. Thomae Aquinatis, Summa theologiae cum textu ex recensione leonina, a cura di P. Caramello, II, Torino 1962-1963, p. 366. 19 Capitani, Il De peccato usure cit., pp. 653-654. 18


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to (trattato De peccato usure; ricchezze – cupidità; loro uso iniquo) non possono non far indugiare su Convivio IV XII 9 sgg.20. Una ragione ed una motivazione diretta che spieghi perché Dante parlando della «sete de la cupiditate» (Convivio IV XII, 6) e dello «raunamento d’avere appo alcuno» debba glossare «E che altro intende di meditare (al. medicare) l’una e l’altra Ragione, Canonica dico e Civile, tanto quanto a riparare a la cupiditate, che raunando ricchezze, cresce?» non si è trovata21. Il rinvio al Digesto I 4, 41, ricavato da Busnelli-Vandelli relativo al tema de rebus, è estremamente generico; quello al proemio del Liber extra, è certamente più appropriato, trattando della cupiditas: ma non si spiega la simultaneità del ricordo dell’opposizione alla legge civile e canonica della cupidità, per uso delle stesse fonti, completamente diverse in Remigio ed in Dante, poiché il primo rinvia una volta a Graziano e due volte al Digesto, ma non nel luogo presunto dai commentatori per il passo del Convivio. Dal che si dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – dedurre il collegamento in negativum della natura stessa dell’accumulo delle ricchezze, di cui l’usura è solo un aspetto e nemmeno, sia per Remigio, sia per Dante, quello più importante, con il crescere della cupidità, che si oppone alla legge civile e canonica. È anche sintomatico che la condanna delle ricchezze, in quanto potenzialmente inique e quasi mai di derivazione lecita o esclusivamente attribuibile all’industria dell’uomo, è affermazione categorica in Dante che non ritiene doversi addurre alcuna prova o alcuna obiezione, mentre in Remigio, che pur mostra di conoscere la casistica teologico-canonistica e civilistica in forza della quale secundum legem canonicam sunt quidam casus in quibus usura potest committi, ergo non est generaliter contra legem canonicam, si rimanda ad uno specialem tractatum22. Ove è da considerare, da un lato, che l’assenza di una giustizia distributiva nella provenienza delle ricchezze, che «vengono da pura fortuna», come la presenza di una «fortuna che da ragione è aiutata» o da una «fortuna aiutatrice di ragione»23, sembra smentire in parte almeno quanto è detto in If. VII, come si è visto circa il carattere autonomamente provvidenziale della fortuna; da un altro, non concede venia a nessuno dei tre modi (pura fortuna; fortuna e ragione; furto o rapina) con i quali l’uomo perviene ad accumulare ricchezze: «E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che io 20 Convivio IV XI, 6 ss., a cura di C. Vasoli, Milano-Napoli 1988, p. 660; Convivio IV XII, 9 ss., ibid. p. 663, n. 9. 21 Busnelli-Vandelli ricavato da Vasoli (cfr. nota precedente). 22 Lo specialis tractatus è il De iustitia; O. Capitani, L’incompiuto tractatus de iustitia di fra Remigio de’ Girolami, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 72 (1960), pp. 91-134; il passo del De peccato usure si legge in Capitani, Il De peccato usure cit., p. 655. Lo Specialis tractatus ci è giunto incompleto: Capitani, L’incompiuto tractatus cit., pp. 91-134. 23 Vasoli, Convivio cit., p. 649.


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dico, che più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si rappresentano; e questo è manifesto che non ha mestiere di pruova»24. Può apparire una condanna senza appello: appena attenuata in Remigio dal fatto di dilazionare un esame della casistica (ma si parla pur sempre di «usura licita» senza troppa cura per la coerenza); escludente ogni onere di prova in Dante. Potrebbe apparire anche che ci sia un rifiuto di considerare più che tanto l’uso che della ricchezza vien fatto. Ma non ci pare che sia così. Intanto c’è da dire che nessuna contraddizione può riconoscersi in Dante circa la concezione della fortuna rispetto a quel che se ne dice nell’Inferno. Fortuna aiutata da ragione o ragione aiutata da fortuna non concerne minimamente la natura della fortuna che si volge in maniera autonoma: proprio perciò può o non può essere aiutata dalla ragione facendo ricadere premio e gaudio o colpa e pena conseguenti sulla volontà o non volontà della ragione, cioè dell’uomo, sull’uso cioè che delle ricchezze vien fatto. Ma tale uso, cioè tale esercizio di volontà, di freno della cupidigia in Dante nella natura umana non si dà, come vorrebbe la giustizia, civile e canonica, all’atto stesso del loro proporsi, che quindi è una conferma della possibilità anche illimitata di un cattivo uso. Si stabilisce allora un circolo vizioso: iniquità (= ingiustizia) cupidigia di potere accumulo di ricchezze cattivo uso delle stesse (= usura) iniquità (ingiustizia). L’usura è la conseguenza vistosa, ma non la causa della decadenza della società, la cui storia è pertanto una costante contraffazione, proprio come la cupidigia è una contraffazione della volontà, come la lupa voracissima ed affamata è una contraffazione del vivere. Il ribaltamento del circolo vizioso in circolo virtuoso appartiene ad un’altra storia che Dante profetizza. Se per influsso di Olivi o meno, è ancora da vedere, come ho detto, ma non più sulla base di semplici indizi o “spie”25. Su di un piano ancora realizzabile nella storia la prospettiva di Remigio, ed intendo non solo quello che possiamo conoscere dal De peccato usure, ma anche dal De bono communi, dal Contra falsos, dal De bono pacis, si risolveva in un fortissimo antindividualismo, su cui, più in là, vorrò spendere due parole, 24

Ibid., pp. 649-651. Si rimanda, per ora, a R. Manselli, Olivi, Pietro di Giovanni, in ED, 4, (1973), pp. 135137; vivo interesse ha suscitato la notizia di un lavoro di A. Forni, da me stesso in più di un’occasione annunziato, circa una grandiosa opera di «metamorfosi» della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, che Dante avrebbe compiuto nella Divina Commedia; se ne discuterà all’Istituto storico italiano per il Medio Evo il 17 dicembre 2003, in attesa dell’edizione che si presenta di grande mole, come ho potuto constatare «de visu» [cfr. A. Forni, Dialogo tra Dante e il suo maestro. Le metamorfosi della Lectura super Apocalipsim, «Bullettino dell’istituto storico italiano per il medio evo», 108 (2006), pp. 83-122]. 25


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attese certe prese di posizione storiografiche recenti fuori e dentro i confini italiani, a proposito di bene comune26. All’incirca negli stessi anni in cui svolgeva la sua attività di lector a S. Maria Novella27, Pietro di Giovanni Olivi faceva altrettanto a Santa Croce; a proposito di usura e, questa volta dichiaratamente, di attività economica assumeva posizioni non dirò opposte, ma certamente alternative a quelle del domenicano. Ma scriveva comunque, prima del 1298, data della sua morte, un De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus, che passava sotto silenzio per quasi un secolo per ricomparire negli scritti di Bernardino, ed a lui ascritto prima che si riconoscesse il vero autore e se ne desse, nel 1980, per i tipi dell’ISIME, un’edizione28. Occorre prescindere, allo stato delle cose e nell’ambito di questo mio contributo circa la cupidigia in Dante, da ogni presunto collegamento fra Dante e l’Olivi in merito alle visioni escatologiche dello Spirituale, che, come si è detto, avrebbero indotto Dante ad operare una metamorfosi della Lectura super Apocalipsim nella Commedia. A noi interessa puntualizzare se, come in Remigio de’ Girolami ed in Dante, l’attività economica sia vista in funzione della salvaguardia della compagine sociale, considerata nei mali che possono derivarne (usura, frutto di cupidigia) e nei beni che egualmente possono derivargliene, fermo restando comunque che il valore da preservare assolutissimamente è quella compagine29. Ho appena bisogno di aggiungere che l’enfasi che si pone su questo valore può essere valutata come egualmente importante sia se ci si attardi a descriverne i guasti provocati da una sua carenza sia se ci si impegni a distinguere ciò che è propriamente criminoso da quanto, invece, costitutivo della stessa sopravvivenza della società. Di Dante e Remigio si è detto; di Olivi basterà notare che il suo trattato deliberatamente si divide in tre parti di cui solo la seconda è dedicata all’usura, mentre le altre due illustrano le condizioni per un’immissione in un circolo economico-politico vir-

26 Quello dell’antiindividualismo del Girolami è un “topos” della letteratura remigiana, dal M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, Muenchen 1926-1956, a R. Egenter, Gemeinnutz vor Eigennutz. Die soziale Leitidee im Tractatus De bono Communi des Fr. Remigius von Florentz, in «Scholastik» 9 (1934), pp. 79-92, a Kempshall, The Common Good cit., pp. 293-338, il quale ultimo ne ha fornito una spiegazione in senso agostiniano, che merita attenzione, anche se non questa è la sede per trattarne diffusamente come si converrebbe. 27 Gentili, Girolami cit.; Panella, Per lo studio cit.; Panella, Politica cit. 28 G. Todeschini, Un trattato di economia cit. 29 È il senso della prima trattatistica politica di derivazione aristotelica: oltre Kempshall, con abbondantissima bibliografia, cfr., per linee essenziali, Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine. I: Età antica e medioevo, a cura di C. Dolcini, Torino 1999; R. Lambertini, Lo studio e la recezione della politica tra XIII e XIV secolo, ibid., pp. 145-173; Lambertini, Da Egidio Romano a Giovanni di Parigi, da Dante a Marsilio, ibid., pp. 209-254.


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tuoso di attività mercantili, della cui utilità lo Spirituale si dichiara convinto sin dall’inizio del suo trattato: Circa venditionum et emptionum contractus30. Non si può non rilevare, in proposito, che quella che può apparire in Olivi un’attenuazione o addirittura una limitazione della condanna del domenicano nei riguardi dell’usura e del rifiuto di esaminare la casistica da parte di Dante, si presenta per un verso come richiamo all’atteggiamento generico del sospetto della Scolastica tomistica – di Tommaso in particolare31 – circa la proibizione di vendere una cosa a prezzo maggiore di quello che è costata al venditore (an res possint licite et absque peccato vendi plus quam valeant vel minus emi), con esclusione, sul momento, di menzione dell’usura; per un altro, come riconoscimento della superiorità del bene comune rispetto a quello privato, ma pur sempre nell’ambito di una società multicetuale, che è quella dei venditori e compratori, che concorrono volontariamente, al mantenimento di un mercato che risponde ad esigenze diverse secondo le singole ed autonome volontà di vendita o di acquisto, di possesso e di uso. La sussistenza di una società siffatta è proprio garantita dalla valutazione del prezzo riportato all’utilità ed in ultima analisi all’uso. *** Da quanto si è detto, dovrebbe apparire chiaro che per Dante – ma anche per due persone a lui certamente vicine (non si parla di discepolato) quali erano Remigio de’ Girolami e Pietro di Giovanni Olivi, in maniera certamente diversa, data la diversa impostazione teoretica che i due teologi avevano in materia di «volontarismo» – il problema dell’usura non si poneva nei ristretti confini in cui la tradizione del secolo XII e dei primi del Duecento lo aveva posto. Sorge allora spontanea la domanda del perché – indipendentemente dall’occorrenza del vocabolo in Dante – la cupidigia (cupiditas, cupido) trovi quasi ovviamente nella figura, abusatissima se si vuole, dell’usuraio, la sua rappresentazione più

30 Todeschini, Un trattato di economia cit., p. 51: «Circa venditionum et emptionum contractus queramus primo an res possint licite et absque peccato vendi plus quam valeant vel minus emi». L’impostazione pare ribaltarsi rispetto al titolo asseverativo della II, II, q. 77 della Summa tomistica: De fraudulentia quae committitur in emptionibus et venditionibus, dopo di che si affronta, negli stessi termini in cui viene affrontata da Olivi l’intera questione: Utrum aliquis licite possit vendere rem plus quam valeat. L’affermazione oliviana Et videtur quod sic giunge subito e senza preamboli o distinzioni, a differenza da Tommaso: «Item secundum ordinem iuris et iustitie et caritatis commune bonum prefertur et preferri debet bono privato, sed communi saluti hominum post lapsum expedit quod taxatio pretii rerum venalium non sit punctualis nec secundum valorem absolutum rerum, sed potius ex communi consensu utriusque partis vendentium scilicet et ementium» (Todeschini, Un trattato di economia cit., p. 51). 31Summa theologiae II II, q. lxxvii.


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icastica. Ci sembra che, in maniera più o meno esplicita, ciò sia dovuto a due ragioni. Già dal 1965 avevo richiamato l’attenzione sulla circostanza che la trattazione del Girolami, non solo quella relativa all’usura s’intende, appartenga ad un genere che mi è parso opportuno definire vicino a quello della predicazione popolare (altri ha detto sostanzialmente la stessa cosa, parlando di genere «retorico-omiletico») e la figura dell’usuraio era certamente quella che maggiormente poteva colpire un uditorio che spesso per propria esperienza poteva conoscere i danni di un’indiscriminata attività feneratizia. Ma non può essere questa la sola considerazione che si debba fare per stabilire i connotati ideologico-propagandistici di una predicazione sociale: posto che se ne debba parlare in questi termini, dacché, sul piano propriamente ideologico nella trattatistica del Girolami, sia quella del De peccato usure, sia quella del Contra falsos ecclesie professores, si è generalmente riconosciuta una scarsa predisposizione del Girolami ad un impegno tecnico-scientifico approfondito nelle opere rispetto a quello che – più o meno contemporaneamente – si sarebbe riconosciuto al sagacissimo Olivi32. Il che però non impedisce una trattazione singolarmente prolissa sul carattere deviante di un peccato che si prospetta come opposizione ontologica della colpa a tutto il creato, cioè al sovvertimento dell’ordine razionale delle cose proprio del peccato di usura, come segno di quella contrarietas peccati che è stata oggetto di una trattazione separata di Remigio stesso33. In altri termini: possiamo ritrovare facilmente i caratteri della “contrarietà” del peccato nel bagaglio della morale cristiana del secolo XIII, ma assai meno facilmente potremmo trovare l’assunzione dell’usura come globalità delle conseguenze dello stato peccaminoso, se non a patto di fare usura = cupidigia, far valere, cioè l’iponimo usura (qui sinonimo di usuraio) per colpire l’iperonimo (cupidigia): l’atteggiamento in Dante non è dissimile. Si prenda ad esempio il famosissimo contrappasso del c. VII dell’Inferno, quello degli avari e dei pro32 Circa il carattere «retorico-omiletico» della produzione del Girolami, oltre che a quanto già osservato nell’introduzione del De peccato usure (Capitani , Il De peccato usure cit., pp. 597 ss.), ritengo che si debba tener conto di quanto richiamato dal Davis nell’introduzione all’edizione del Contra falsos ecclesie professores (Remigio dei Girolami, Contra falsos ecclesie cit., p. VI nota 11), con l’avvertenza che se la trattazione remigiana si mantiene su livelli pedagico-edificanti, mantiene pur sempre il carattere di una testimonianza di un certo tipo di cultura, forse in vista di una introduzione ad ulteriori, specifici approfondimenti di tipo propriamente scolastico: cfr. Panella, Cultura e istituzioni cit. Da ciò, credo, nasce anche l’immagine dell’usuraio nella raffigurazione che è data da Dante nell’Inferno dell’avaro: cfr. in proposito Capitani, L’incompiuto tractatus cit. 33 Sui caratteri della produzione del Girolami, in continue, ritornanti analisi, ha molto insistito Panella, Cultura e istituzioni cit., cui rimandiamo, con qualche riserva circa la possibilità di identificare una possibile linea unitaria di sviluppo che la stessa ripetitività delle argomentazioni rende di precaria individuazione e può indurre in prolissità esplicative.


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dighi: i prodighi dicono agli avari «Perché tieni?» e gli avari ai prodighi «Perché burli?» creando una figurazione di riconosciuta originalità, ma che, in effetti, riproduce efficacemente un’immagine che trova solo nel contesto del De peccato usure un suo preciso riscontro, ove si ammetta che usura rimanda ad avarizia e questa a cupidigia priva di senso. La figura del pugno chiuso è tratta, in Remigio, da Ez 22, 12-13 e sta ad indicare l’ira di Dio che punisce Gerusalemme, ove ogni senso di ordine soprannaturale e naturale è distorto (non più rispetto di Dio, non più rispetto per i genitori, non più rispetto dei legami di parentela negli eccessi di una sfrenata libidine etc.); la mano che è naturalmente aperta, si chiude e si tramuta in pugno, cioè è usata per significare l’ira); i capelli sono mozzi, a indicare, è stato commentato derivando da Boccaccio, «lo sperpero delle sostanze temporali»34. Il che è vero con ogni probabilità, ma non serve al nostro assunto, poiché ciò che conta è proprio la circostanza che lo «sperpero di quelle sostanze temporali», cioè un uso immoderato ed irrazionale delle stesse, è egualmente, in Inferno e in Purgatorio (XXII 46), peccato come l’avarizia: e quindi non le sostanze temporali che di per sé non sono né cattive né buone, ma il loro uso ne determina un «mal dedutto», cioè un uso adulterato, come avvenne nel caso della Donazione di Costantino e come avviene in coloro che ne hanno fatto un cattivo uso. Il discorso quindi si rifà tutto alla discrezionalità dell’uso, quindi al potere di chi usa correttamente o meno ciò di cui naturalmente è in possesso, ma non certamente per sempre. Il carattere transitorio e la consapevolezza di questa transitorietà se da un lato indica l’errore morale ed economico della cupidigia, dall’altro spiega l’inanità della concezione corrente della Fortuna (di cui prima si è detto), preposta alle mutazioni delle sorti umane, degli splendor mondani, che sono detti vani, non per l’abusato cliché dell’esaltazione della povertà e di condanna delle ricchezze, in senso generico, ma vani se considerati sempiterni: il che non sono, così come le ricchezze non sono peccaminose di per sé altrimenti Virgilio non direbbe che avari e prodighi «Tutti quanti fuor guerci si della mente in la vita primaia che con misura nullo spendio ferci»35 34 Per Dante e la raffigurazione degli avari e prodighi O. Capitani , «Questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso» (Inf. VII, vv. 56-57), in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 77 (1965), pp. 257-262; poi in Chiese minime dantesche cit., pp. 27-32 per i «crin mozzi» cfr. Chiavacci-Leonardi, Commedia cit., p. 221, nota a v. 57. 35 La «adiaforia» in sé del denaro al bene e al male è una conseguenza ovvia della concezione dello stesso come unità di misura del valore e della sua sterilità in sé; il passo in avanti che sarà compiuto – specie dalla scuola francescana di teoria economica – consiste nel connettere stretta-


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E tralascio di fare più che un cenno del parallelismo di un imponente lavoro di Alberto Forni che affronta gli intrecci e confluenze tra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi36. Rimane accertato comunque che i beni mondani, terreni non sono di proprietà degli uomini, ma della Fortuna, ministra di Dio, che dispone del loro uso in archi cronologici a Lei solo noti per volere dell’Eterno: ed è di questo uso, di questa disponibilità che l’uomo dovrà rispondere. Ma allora l’uso dei beni temporali si connette ovviamente con la gestione di un potere politico. E il potere politico potrà essere diverso nei tre autori presi in considerazione, ma riconosciuto, come impero, come comune, come Chiesa fatta eguale a civitas (per Olivi), come fondante dell’umana ed ordinata e virtuosa convivenza. Che questa si esprima come “bene comune”, ha rapporto con la circostanza che è estremamente difficile pensare ad un concetto di ordine politico-sociale, nel Medioevo, che non tematizzi la gerarchia e, conseguentemente le diseguaglianze necessarie alla perfetta composizione del corpo sociale, che in tanto si realizza in quanto partecipazione di cives, che tali non sono più se negano la superiorità dell’universitas. Se negano cioè il principio stesso della loro identità costituito dalla “partecipazione”, che è diritto/dovere, non monopolio di potere, o se si vuole, “specializzazione” nella gestione del potere. La cupidigia, vistosamente rappresentata dall’usura, talora dall’avarizia, è proprio la negazione di ogni forma partecipativa collettiva all’edificazione del bene comune. L’avaro ed il prodigo, come l’usuraio, non sono riconoscibili proprio perché al di fuori di ogni possibilità di identificazione collettiva37. E non è il caso di ricordare più che tanto versi come quelli «la sconoscente vita che i fé sozzi / ad ogni conoscenza or li fa bruni» (If. VII 52-53) e «poi che nel viso a certi li occhi porsi, nei quali il doloroso foco casca, non ne conobbi alcun [...]» (If. XVII 52-54j. Allora l’antindividualismo deve essere inteso come esclusione di ogni comportamento che tenda esso ad annullare la partecipazione consapevole e volontaria del singolo alla costruzione politica collettiva. Naturalmente a Firenze, sul finire del secolo XIII, era difficile individuare i contorni ideologici di quello che indubbiamente operò come un mito, poiché giustamente è stato detto, molto di recente «La città comunale appare come una forma di vita collettiva caratterizzata, con apparente paradosso, da una forte omogeneità “comunitaria” e da una altrettanto forte gerar-

mente volontarismo e uso del denaro. Il non farlo condanna alla “cecità”, alla perdita di identità umana: usurai = avari = obcaecati, guerci. Per l’insieme di questi collegamenti v. soprattutto Todeschini, I mercanti cit. 36 Cfr. supra, nota 25. 37 Cfr. supra, nota 35.


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chizzazione interna»38. Eppure «L’ordine così supposto appare assai più precario di quanto le sue coordinate essenziali – comunità, appartenenza, gerarchia – potrebbero far pensare [...] perché vive la sua parabola politico-istituzionale [...] travagliata e sospinta da una conflittualità interna [...] in uno stato di guerra continuamente sopita e continuamente risorgente che tuttavia non esclude o cancella, ma in un certo senso presuppone e rafforza il senso della comune appartenenza alla patria cittadina». E basti pensare – anche se Pietro Costa, da cui derivo questa citazione non lo dice – alle comunità di intrinseci ed extrinseci, all’amarezza dell’esclusione, nella consapevolezza di una per altro indelebile appartenenza alla civitas, che rende fieramente disperata la condizione di Farinata, che, ghibellino, salva contro gli altri Ghibellini Firenze e che, ghibellino, a differenza di altri Ghibellini, è, nei suoi discendenti, escluso per sempre. Come in fondo sarà Dante. La socialità e quindi la politicità dell’“uomo-civis”, di chiara matrice aristotelica – ed il Girolami ne è un esempio cospicuo – viene comunque intesa sempre nel rispetto dei ruoli di principans e subiectus, che la sfrenata cupidità di potere politico, tende ad annullare in una fungibilità in qualche modo proprietaria della dominazione politica. Esattamente come – concordi Dante, Remigio, Olivi, nelle diverse modalità di cui si è detto – nell’usuraio, la cui disponibilità di denaro non è un diritto individuale, assoluto e unicamente connotante della persona, ma solo un aspetto del suo essere un civis. E così è, parallelamente, per il privilegio e l’onere del governo in una comunità «socialmente e giuridicamente diversificata». Queste le premesse ed i dati di partenza per il recupero di uno stato che – per Dante – Gennaro Sasso nel suo ultimo volume su Dante39 ha molto finemente ed acutamente illustrato come la difficile gestazione di un «possibile virtuoso» e che per i teologi del secolo XIII (ed anche al di là di essi), ma senza alcun riferimento a Dante, è stato indicato a proposito della concezione etico-economica ed etico-politica, ma meglio si direbbe di economia politica della Scuola francescana come la reimmissione in un circolo virtuoso40. Autonomamente, Sasso scriveva di Dante e dei suoi sogni e delle sue speranze: «Alla Firenze nata dalle lotte e dagli odi, dai bandi e dagli esili, dalle vendette, dal delitto che in Buondelmonte de’ Buondelmonti punì l’oltraggio recato alla famiglia degli Amidei e per sempre la divise in due, Dante contrapponeva così il mito di una città virtuosa, in cui uomini onesti e donne costumate avevano vissuto contenti di quel che avevano.

38

P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. I: Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari 1999, pp. 47-48. 39 G. Sasso, Dante: l’imperatore e Aristotele, Roma 2002 (Nuovi Studi Storici, 62), pp. 174176. 40 Todeschini, I mercanti cit., p. 486.


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E la sua non era soltanto una contrapposizione fondata sull’eterno tema del rimpianto del temporis acti, di quel che era stato e non era più. Non era soltanto il paragone istituito fra la purezza dell’origine la decadenza che sempre più aveva segnate le fasi successive della sua storia. Non era soltanto l’alternativa che egli stabiliva tra la storia reale di Firenze e la sua storia possibile, fra quel che era stato e quel che avrebbe potuto essere. Era tutte queste cose, e poi anche altro: era il congiungimento del “possibile” virtuoso, che la realtà delle cose aveva impedito che si attuasse, con un possibile che di nuovo, tenacemente, gli brillava dinanzi agli occhi»41. Ma la reimmissione nel circolo virtuoso ha comunque catalizzatori (per Dante, l’Impero) e scansioni diverse, tra i due teologi tra di loro e tra di essi e Dante. Comune è la valutazione dell’uso delle ricchezze, quindi non della proprietà, secondo la morale e la legge cristiana: ma in Tommaso essa si mostra più che altro preoccupata del ristabilimento di condizioni di aequalitas accettabili per l’esistenza delle parti che compongono la comunità (dei fedeli, ma ovviamente anche dei cives) in una visione che chiameremo ancora alquanto “prudente” del bene comune, come si evince soprattutto dall’articolo 4 della I II, 33 della Summa theologiae: «Utrum delectatio perficiat operationem: Delectatio dupliciter operationem perficit. Uno modo, per modum finis: non quidem secundum quod finis dicitur id propter quod aliquid est; sed secundum quod omne bonum completive superveniens, potest [spaz. mio] dici finis»42. Olivi, dal canto suo, con una terminologia che sicuramente non è “lontanissima” da quella di Tommaso, non fa determinare la misura della socialità che promuove il “bene comune” soltanto dall’intelligenza della “situazione storica”, con la finalità di un relativo riequilibrio, ma soprattutto dall’autodeterminazione della volontà del soggetto, intenzionata a promuovere il «bene comune», in ipotesi, anche in infinitum. Se entrambi parlano di impossibilità di stabilire puntualmente la quantità di “bene comune” raggiungibile43 ciò avviene comunque da due punti di vista sostanzialmente differenti. Il Domenicano la determina il più possibile per approssimazione, per così dire, oggettiva nella situazione e dalla situazione; il Francescano la rimanda, sulla base della libera decisione di intervento in essa da parte del soggetto operante nel “bene comune” ad una libertà di uso della ricchezza che è lasciata unicamente alla sua responsabilità ed al suo volontarismo. E così può avvenire proprio perché così si attua l’usus pauper, in una comunità, in vista dell’accrescimento del “bene comune”, quella che giustamente Giacomo Todeschini chiama la “dilatazione 41

Sasso, Dante cit., p. 177. S. Thomae Aquinatis, Summa theologiae cit., I, p. 360. 43 Todeschini, I mercanti cit., p. 343 e relativi rinvii. 42


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[latitudo] della caritas come santa socialità”44. M’ero chiesto, nel 1965, «C’è mai stato “un buon tempo antico” dell’attività economica del comune, quando essa si risolveva appunto nelle “leggi” del mutuo, del deposito, della locazione e della compravendita, intesi nel loro significato “istituzionale”? un “buon tempo antico” economico che corrispondesse ad “un buon tempo antico politico”?»45. La domanda era legittima, ma, per Remigio e per Dante quella coincidenza non poteva che essere sfalsata: per Remigio, perché il “politico” non ha per lui mai assunto i caratteri di globalità che una “società” aperta, verso cui tendeva il comune – altrove ho parlato di società “polilitica” – conteneva nel suo codice genetico, a parte gli esiti cui giunse46; per Dante, perché l’attuazione pratica del nuovo circolo virtuoso si collega, nel contesto obbligante delle concezioni dantesche, con la figura stessa del Veltro, che mantiene, pur nello stimolo profetico che le è propria, tutte le caratteristiche della mera costruzione intellettuale, non storicizzata, forse mai storicizzabile, come ha opportunamente ribadito ancora Sasso47. Il possibile circolo virtuoso, che guardasse al politico in una con l’economico presupponeva piani di definizione, quali erano quelli dell’Olivi, non attingibili da Remigio, che, oserei ripetere, deliberatamente ignora tutto un larghissimo aspetto dell’attività economica su cui si sarebbe soffermata la Scuola francescana48; non ancora appaganti l’originale insoddisfazione dantesca49.

44

Ibid., p. 342. Capitani, Il De peccato usure cit, p. 607. 46 O. Capitani, Città e Comuni, in Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso, IV, Torino 1981, pp. 5-57, riprendendo l’immagine da un lavoro di S. Bertelli, Il potere oligarchico nello stato-città medievale, Firenze 1978. 47 Sasso, Dante cit., pp. 179-182. 48 Kempshall, The Common Good cit., pp. 344-350. 49 Vorrei rinviare ad alcune brevissime osservazioni contenute in O. Capitani, Per il significato di bonum commune: appunti, in un volume miscellaneo di prossima pubblicazione. 45


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INDICE GENERALE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Pag.

7

Avvertenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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9

Da Innocenzo III a Bonifacio VIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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11

Bonifacio VIII . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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29

L’allusione dantesca a Matteo d’Acquasparta . . . . . . . . . . . .

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45

La polemica antibonifaciana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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61

Una debita reverentia per Bonifacio VIII . . . . . . . . . . . . . . .

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81

Cupidigia, avarizia, bonum commune in Dante Alighieri e in Remigio de’ Girolami . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Composto e impaginato nella sede dell ’Istituto storico italiano per il medio evo Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 dallo Stabilimento Tipografico « Pliniana » Viale F. Nardi, 12 - Selci-Lama (PG)

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