In Arte gennaio/febbraio 2012

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Associazione di Ricerca Culturale e Artistica

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Periodico a diffusione nazionale - anno VIII - num. 01 - gennaio/febbraio 2012

Azimut 2011

CĂŞzanne

Il nuovo Castello Sforzesco


L'Account è l'addetto commerciale della casa editrice, è un conoscitore di psicologia, è un buon parlatore, è dotato di gusto estetico, diplomatico e politico e soprattutto è una persona indipendente e ricca di spirito d'iniziativa. Se ti riconosci in questa descrizione contattaci senza esitare. Per maggiori informazioni telefonaci a uno di questi numeri 330 798058 - 392 4263201 - 389 1729735 o invia un e-mail a editore@in-arte.org


Redazione

Sommario Editoriale

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... qui Potenza, la Biennale democratica! di Giuseppe Nolé .......................................................... pag. 4

150° in Arte

Ritratti dal Risorgimento: Giuseppe Mazzini di Angela Delle Donne................................................... pag. 5-6

Persistenze

I Cavalieri di Malta a Grassano di Francesco Mastrorizzi............................................... pag. 8-9

TecnoCromie

Horror e noir in due festival da brividi di Giovanna Russillo...................................................... pag. 10-11

Ritagli

Editore di avventure e di sogni, addio! di Maria Rosaria Compagnone...................................... pag. 12-13

Mythos

Il mito di Cefalo e Procri di Fabrizio Corselli......................................................... pag. 14-15

RiCalchi

Angeli... foto Gerardo Caputi ...................................................... pag. 16-17

Eventi

Azimut 2011 di Maria Pia Masella...................................................... pag. 18-19 … qui Venezia, la 54° Esposizione Internazione d'Arte! di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 20-21 Ad immagine e somiglianza di Giuseppe Nolé........................................................... pag. 22-23 Paesaggi e ritratti di Paul Cèzanne di Piero Viotto................................................................ pag. 24-26

Architettando

Il nuovo Castello Sforzesco di Mario Restaino.......................................................... pag. 28-29

Art Tour

a cura di Sonia Gammone............................................. pag. 30


... qui Potenza, la Biennale democratica! di Giuseppe Nolé

E anche Potenza ha avuto la sua piccola Biennale! Si è chiusa da alcune settimane e, come tutte le iniziative culturali promosse da Vittorio Sgarbi, ha riscosso consensi ma anche molte critiche: il titolo stesso, Lo stato dell’arte in Basilicata. L’arte non è cosa nostra, lascia spazio a molteplici interpretazioni. È stato comunque lo stesso Sgarbi, che ha presenziato alla serata inaugurale, a chiarire il senso di questa iniziativa: non una Biennale per “pochi” ma una Biennale democratica, in cui potesse esser visibile uno spaccato dell’arte lucana, senza il “filtraggio” personale di critici e curatori che, a suo dire, costituiscono una specie di “mafia” (chiaro il rimando alla cosa nostra del titolo). Sono stati contattati perciò un elevato numero di “selezionatori” appartenenti all’ampio mondo della cultura (questo meccanismo è stato utilizzato non solo in Basilicata ma in tutte le regioni) a cui è stato chiesto di segnalare artisti degni di essere presi in considerazione in un progetto così ambizioso: pittori, scultori, fotografi, grafici, fumettisti, ecc. Il risultato lucano di questo lavoro è stato buono, ottimo diremmo se confrontato con le ultime mostre promosse presso la Galleria Civica di Potenza. Ma non sono mancate critiche all’intera operazione e permetteteci di esprimere la nostra opinione in merito: in primo luogo se alcuni padiglioni regionali si sono avvalsi di segnalatori del calibro di Umberto Eco, Massimo Cacciari ed altri nomi simili, lo stesso non si può dire della Biennale lucana, dove i segnalatori alla fine non sono stati nè i soliti curatori e critici (la “mafia” che si voleva estromettere dal progetto Biennale) né tantomeno l’élite culturale lucana. In secondo luogo, sebbene si siano esposte opere di giovani artisti molto belle ed interessanti (il che è solo positivo), dobbiamo segnalare l’esclusione di nomi più o meno eccellenti dell’arte lucana, esclusi magari per far posto ad altri nomi del tutto sconosciuti al novero degli “artisti” lucani. Per dovere di cronaca c’è anche da dire che, molte delle polemiche apparse sui giornali locali ed innescate da alcuni artisti esclusi, ci sono sembrate anche un po’ esagerate, se non altro perché ci sono in giro molti dubbi sulle capacità artistiche di alcuni di questi. Ad ogni modo, provando a visitare la mostra resistendo alla tentazione di buttar l’occhio sulle didascalie delle opere, per non essere condizionati dal nome dell’artista, abbiamo avuto una visione abbastanza completa di cosa fanno gli artisti oggi in Basilicata, che volto hanno, quali sono i loro temi, i loro problemi ed i loro limiti.

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Ritratti dal Risorgimento: Giuseppe Mazzini di Angela Delle Donne

In questo ultimo numero a conclusione dell’anno per le celebrazioni del Centocinquantesimo dell’Unità italiana incontriamo la figura di Giuseppe Mazzini. Nato nei primi anni dell’800 a Genova e spinto verso gli studi medico-scientifici, autonomamente si diresse verso l’ambito giuridico, lasciandosi affascinare dalla letteratura; ma il suo lavoro preponderante fu il giornalismo e l’attivismo rivoluzionario. Fu direttore di testate quali Apostolato popolare e Il nuovo conciliatore e ben presto divenne membro della carboneria. Le sue attività durante i moti insurrezionali lo portarono a girare per l’Europa, fondando movimenti politici e rivoluzionari, organizzò la Giovine Italia e la Giovine Europa. L’esilio non gli impedì di diffondere e sostenere, tra difficoltà ed anche sconfitte, le sue idee di libertà e laicità, fino a rifiutare la carica politica conferitagli dal nascente governo unitario. Dopo l’inflizione dell’ultimo esilio, riuscì ad entrare in Italia, arrivando a Pisa sotto falso nome e con l’appoggio dei suoi sostenitori. La permanenza italiana fu breve, poiché a causa di una malattia protratta, morì poco dopo il suo arrivo il 10 marzo del 1872. In pochissimi giorni la salma fu trasportata a Genova dove fu poi costruito appositamente un mausoleo. La tomba-tempietto è stata eretta nel boschetto irregolare del cimitero monumentale di Staglieno, dove hanno trovato sepoltura molti personaggi illustri. La tomba è stata realizzata dall’architetto Gaetano Vittorio Grasso tra il 1874 ed il 1877. Lo stile adottato è quello neoclassico, scavata direttamente nella roccia, la struttura presenta all’ingresso due colonne doriche, sostenute da un architrave riportante l’iscrizione “Giuseppe Mazzini”. All’interno è allocata una cripta, la tomba è adornata di bandiere repubblicane e iscrizioni lapidee. All’esterno, nell’immediato circondario, si trovano la tomba della madre e le tombe di altri rivoluzionari. Ritornando invece al luogo della

sua morte, Pisa, troviamo una piazza a lui dedicata, al cui centro si erge una statua realizzata in marmo di Carrara dallo scultore Orazio Andreoni nel 1883. Inizialmente la statua doveva essere collocata nei pressi della casa dove Mazzini morì, ma questo non accadde con conseguenti polemiche che si accompagnarono ad una insoddisfazione nella scelta dell’artista e del supporto marmoreo utilizzato. Per i festeggiamenti dell’Unità la statua è stata restaurata Orazio Andreoni, Giuseppe Mazzini, marmo, 1883, Pisa.

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ad opera della Soprintendenza di Pisa, tornando così al suo antico splendore. Concludiamo soffermandoci su un’opera pittorica di grande intensità: Mazzini morente di Silvestro Lega. L’opera si trova nella sezione dedicata all’artista ottocentesco, presso la Pinacoteca comunale di Modigliana. Realizzato nel 1873, all’indomani della morte di Mazzini, il quadro presenta una tangibilità ed intimità dell’istante rappresentato. Ogni tono accesso dalla rivoluzione è spento, lasciando il posto ad un interno anonimo e sbiadito. Il biancore delle lenzuola e del cuscino fanno risaltare il reticolato dello scialle che avvolge il corpo; il tratto delle

Silvestro Lega, Mazzini morente, 1873.

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mani è estremamente preciso e netto, se ne coglie la chiusura che si tiene stretta al panneggio del lenzuolo. Il viso è delineato da contorni morbidi e sfumati, dove i baffi spiccano fra i toni grigi della barba e dei capelli. Non c’è spazio per vezzosità. La pittura di Lega, a tratti severa, si basa sulla macchia e sulla prospettiva. C’è un tentativo di disporre le macchie secondo un preciso reticolato impercettibile. Questo modo di procede emerge più chiaramente nei paesaggi e nei cortili che spesso ritroviamo nelle pittura di Silvestro Lega; in questa opera invece l’immediatezza del tema, seppur controllato e studiato, emerge intimamente tra le pieghe dei colori stesi per macchie.



Persistenze

Grassano è il più importante insediamento urbano ad opera dei Cavalieri di Malta presente in Basilicata, edificato su un basso colle posto tra le valli del fiume Basento e del torrente Bilioso. La fondazione da parte dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme della Commenda di Grassano mutò radicalmente la storia di questo luogo, salvandolo dallo spopolamento e dal declino. Purtroppo la scarsezza delle fonti a disposizione non permette di formulare ipotesi certe circa il momento preciso in cui si insediarono i Gerosolimitani. Nel 1276 Grassano era ancora un piccolo casale appartenente ai signori di Tricarico, i Sanseverino, e per questo motivo non era menzionato tra gli insediamenti che pagavano le imposte nella generalis subventio angioina di quell’anno. Compare, invece, tra i centri che dovevano il censo nel 1320, data della successiva subventio, a testimonianza delle sue mutate condizioni. Altre notizie le apprendiamo da una lettera di Papa Urbano V, datata 4 giugno 1368, con la quale si chiedeva a Tommaso Sanseverino di restituire la precettoria di Grassano al priore di Barletta dell’Ordine di Malta, a cui l'aveva usurpata. L’elenco dei Commendatori di Grassano, inoltre, riporta come primo nome un certo fra’ Troilo Sansone di Troia, Commendatore nell’anno 1365. Dai cabrei dell’Ordine di Malta risulta che la Commenda di Grassano fosse molto ricca, tanto che da essa dipendevano 18 grancie in Basilicata e una in

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I Cavalieri di Malta a Grassano di Francesco Mastrorizzi

Puglia. Inoltre il Commendatore possedeva il titolo di Barone di Grassano, potendo esercitare la giurisdizione civile sugli abitanti del paese e del suo territorio. La dimora del Commendatore, dalle fonti denominata “castello” o “palazzo commendale”, si arroccava sulla cima dell'abitato, con l’adiacente chiesa commendale dei SS. Giovanni e Marco, e si componeva di diversi fabbricati. Dalla metà del Settecento la grave crisi organizzativa e finanziaria dell'Ordine di Malta portò alla vendita di diverse grancie e più tardi alla cessione in affitto di tutta la Commenda, che così fu gestita fino alla sua soppressione, che avvenne a seguito del decreto del 18 giugno 1807, con cui le Prelature, le Commende, i Legati, le Cappellanie e i Benefici ecclesiastici esistenti nel Regno delle due Sicilie furono aboliti e incamerati dal Pubblico Demanio. Della presenza melitense a Grassano oggi rimangono alcuni resti del castello, con la sua torre d'angolo (purtroppo mozzata), parte del piano terra e le imponenti stalle e prigioni. Già nel 1825 si riferiva all’Ispettore del Pubblico Demanio di numerosi crolli avvenuti all’interno del castello, che nel 1832 fu venduto al clero di Grassano. Questo segnò la fine di quanto restava del maniero, che fu in parte abbattuto per edificare il campanile e la navata di sinistra dell’attuale chiesa madre. Alle spalle dei ruderi dell’antico castello dei Cavalieri di Malta, lungo un sentiero sterrato e scosce-


Foto arch. APT

Foto di Gerardo Caputi

so, si trovano i "cinti", una serie di cantine scavate nella collina, un tempo al servizio del palazzo commendale, formate da una navata con volte a botte terminante in una sorta di abside chiamata “sacrestia”, dove veniva conservato il vino migliore. Molte

di queste cantine sono dotate di profonde “neviere”, dove veniva raccolta e conservata la neve, e di ampi “palmenti” (vasche per la pigiatura e la fermentazione dell’uva), alcuni dei quali decorati con immagini allegoriche o con simboli dei Gerosolimitani.

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Horror e noir in due festival da brividi

TecnoCromie “A me gli occhi”. E’ questo il tema dell’undicesima edizione del Tohorror Film Festival, la rassegna dedicata al cinema e alla cultura del fantastico che si è tenuta dall’8 al 12 novembre a Torino. In un panorama come quello italiano, particolarmente ricco di manifestazioni di successo legate al mondo del cinema, andiamo alla scoperta di due festival cinematografici di genere molto apprezzati. Il Tohorror Film Festival è da anni un appuntamento irrinunciabile per gli amanti dell’horror e del fantastico. La follia, la diversità e il tempo sono stati alcuni degli spunti di riflessione e approfondimento nelle passate edizioni. Quest’anno è lo sguardo in tutte le sue sfaccettature il filo conduttore delle giornate torinesi. Spiare, essere osservati, temere o sperare di esserlo, paure, paranoie, ossessioni, voyeurismo sono alla base di lungometraggi, cortometraggi e sceneggiature. In tutto quarantadue lavori in concorso provenienti da Italia, Francia, Spagna, Finlandia, Stati Uniti, Canada e Paraguay che attestano il respiro internazionale della manifestazione. Alle proiezioni si affiancano concerti, incontri (con Alessio Gradogna, giornalista e saggista; Cristiana Astori scrittrice di horror e noir; Michele Guaschino, maestro di effetti speciali) e mostre come "Il circo dei freaks", una serie di ritratti di "mostri" in riproduzioni fotografiche, disegni e locandine di epoca vittoriana provenienti dalla collezione dell'antropologo e ricercatore Gabriele Mina.

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di Giovanna Russillo

Dopo undici anni gode di ottima salute anche il Courmayeur Noir in Festival, in programma dal 5 all’11 dicembre. I brividi, la seduzione e l’eleganza di un genere popolare e amatissimo a cavallo tra cinema e letteratura richiamano ogni anno un gran numero di appassionati. Tra novità e affascinanti retrospettive il festival propone anche una sezione dedicata ai più piccoli, il Mini noir, e incontri con i migliori autori di gialli. Il tutto con l’obiettivo di fornire, anno dopo anno, un percorso completo e una rosa di proposte capaci di ingolosire anche i palati più ricercati. Abbas Kiarostami, Krzysztof Kieslowski, Paul Verhoeven e Quentin Tarantino sono solo alcuni dei cineasti che la manifestazione ha avuto l’onore di ospitare in passato. E non si può dimenticare il prezioso contributo di pittori e illustratori del calibro di Mojmir Jezek, Mario Schifano, Hugo Pratt e Antonello Silverini per la realizzazione dei manifesti delle passate edizioni. Immagini diventate veri e propri cult come questo fortunato progetto.


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L’editore e sceneggiatore Sergio Bonelli, fratellastro di Tex (creato da suo padre Giovanni Luigi), inventore di Zagor e Mister No ed editore di Dylan Dog, Martin Mystère e Nathan Never, ci ha lasciato lo scorso 26 settembre dopo una breve malattia. L’incarnazione del fumetto in Italia è pertanto andata via poiché il nome Bonelli ha da sempre accompagnato la più vasta produzione di letteratura disegnata, interamente italiana, dal periodo prebellico a oggi e con la sua scomparsa è l’intero mondo del fumetto ad essere profondamente in lutto. Sergio Bonelli nasce a Milano il giorno 2 dicembre del 1932. Nella sua attività di sceneggiatore di fumetti è conosciuto con lo pseudonimo di Guido No-

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litta mentre il suo nome proprio è soprattutto legato alla grande casa editrice che dirige. Negli anni ‘60 prende in mano la casa editrice Cepim, una delle case di fumetti più importanti - per numero di copie stampate - del panorama italiano e la farà diventare la Sergio Bonelli Editore. A dare inizio a questa imponente avventura editoriale era stato Giovanni Luigi Bonelli, creatore, tra i tanti personaggi cui la sua incontenibile fantasia ha dato vita, di quel Tex che è ormai diventato un’icona dell’immaginario collettivo, e non soltanto italiano. Sergio eredita dunque dal padre la passione e l’amore per il fumetto. Intraprende la strada della sceneggiatura, e con il nome di Guido Nolitta, crea due


Editore di avventure e di sogni, addio! di Maria Rosaria Compagnone

saparola dei lettori, tirature in salita, articoli sulla stampa, qualche polemica dei soliti benpensanti ma Dylan Dog è un successo. L’indagatore dell’incubo – che assomiglia a Rupert Everett, che veste perennemente con jeans, camicia rossa e giacchetta nera, che suona il clarinetto e costruisce un galeone in miniatura che non riesce mai a terminare – affascina e conquista un pubblico sempre più vasto di lettori. Sergio Bonelli ha spesso rischiato e non sempre ha riscosso successi come per Dylan Dog, basti citare Gregory Hunter (2001) ma il suo intuito e la fiducia riposta nel talento hanno consentito al fumetto italiano di poter sorgere e di esistere. Con Bonelli va via la perseveranza e la passione che hanno consentito a gran parte di noi lettori di godere di meravigliose pagine della letteratura disegnata, ciò nonostante le sue opere direttamente prodotte o edite ne ricorderanno lo spirito e l’audacia.

dei più grandi successi della casa editrice Bonelli: Zagor (1961) e Mister No (1975). Gli anni ‘70 rappresentano per lui un periodo d’oro: scrive contemporaneamente tre serie: Mister No (che contava allora 200.000 copie mensili), Zagor (130.000 copie mensili) e Tex (circa 60 albi). Pur non definendosi mai uno sceneggiatore vero e proprio, Sergio Bonelli ha tuttavia scritto oltre 300 storie che gli consentono di essere annoverato tra i grandi narratori del fumetto italiano A partire dagli anni ‘80 Bonelli interrompe parte della sua produzione come sceneggiatore a causa dei molti impegni derivanti dalla gestione della casa editrice ma ritorna alla scrittura per l’ultima avventura di Mister No che comincia nel mese di settembre 2005 e termina alla fine del 2006. Sicuramente, però, una delle più grandi intuizioni di Sergio Bonelli è dare fiducia a Dylan Dog, il primo fumetto horror in Italia. Centinaia di numeri sono stampati da quell’ottobre del 1986 quando un albo dalla copertina nera e dal titolo L’alba dei morti viventi fà la sua comparsa nelle edicole italiane. Lo firma Tiziano Sclavi, lo disegna Angelo Stano e lo pubblica Sergio Bonelli. È una scossa: per l’editoria, per il fumetto e per il costume. Resta qualche mese in sordina, poi il pas-

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Con questo nuovo numero di Mythos approdiamo al mito di Cefalo e Procri, uno dei miti più confusi e controversi, le cui vicende, per di più mal collegate tra di loro, anche nei tempi non chiari di risoluzione, si sviluppano in momenti diffratti e con diversi personaggi. Concedendoci un minimo di libertà, al di là del gusto, si è d’accordo nel cominciare con la storia di

Pierre Narcisse Guerin, Aurora e Cefalo, 1810, olio su tela, Parigi Museo del Louvre.

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Eos, l’Aurora, in quanto prologo, per poi procedere con il disaccordo di Procri, in seconda istanza con la vicenda cretese, concludendo con l’inganno di Artemide. Proprio sulla prima protagonista non posso non citare il bellissimo dipinto di Guerin Pierre Narcisse, Aurora e Cefalo. Cefalo, era figlio di Deioneo, re della Focide. L’Aurora, innamoratasi di lui, avendolo visto un giorno mentre cacciava sul monte Imetto, lo rapì; i momenti di effusioni furono davvero pochi e troppo brevi, sfociando di conseguenza in un perentorio diniego da parte del giovane, il quale addusse a fondamento di tale rifiuto, la semplice motivazione della fedeltà provata nei confronti della sua amata Procri. Così Eos, inviperita e offesa, costrinse Cefalo a mettere a dura prova la fedeltà ostentata, predicandogli che la sua amata lo avrebbe tradito per pura sete di denaro. Tra titubanze e indugi, la divinità dell’Alba lo trasformò in uno straniero e lo mandò da lei, secondo molti presso Torico, un noto porto dell’Attica, conosciuto per il suo attivo traffico navale con Creta. Qui giunto, con un grosso carico di doni, si presentò a lei; davanti a tale opulenza ella non seppe resistere, affievolendo una volta per tutte il sentimento nei confronti di Cefalo e alimentando la visione del futuro premio nel volto di Eos vincitrice. Cefalo, così si concesse alla divinità superba, dalla cui unione nacque Fetonte. Amareggiata per il sotterfugio e l’inganno ma anche spossata dalle continue invettive e sproloqui delle donne ateniesi, male lingue insieme agli altri abitanti, proprio del porto di Torico sfruttò le rotte cretesi per le quali era tanto famoso; Procri giunse a Creta. Qui incontrò Minosse, il quale riuscì a sedurla con la stessa facilità di Cefalo travestito, ottenendo in compenso da essa una mirabile guarigione dal maleficio lanciatogli dalla gelosa moglie Pasife: la magia prevedeva che Minosse ogni qualvolta avesse giaciuto con un’altra donna, invece di effonderla con il proprio seme, l’avrebbe profusa con scorpioni, insetti di ogni tipo e serpenti, facendo così scempio del ventre della sfortunata. Procri prima dell’atto sessuale fece bere a Minosse un prodigioso medicamento, diciamo un decotto


Il mito di Cefalo e Procri di Fabrizio Corselli

di radici, preparato con dovizia e abilità dalla maga frescasse a causa della dura ed impegnativa giorCirce. In segno di gratitudine, Minosse le regalò un nata. Credendo ella che si riferisse in verità al nome cane, di nome Lelapo, che non avrebbe mai fallito la dell’amante, ma nulla era più del vento che soffiava preda e una lancia portentosa che non avrebbe mai in quelle ore tarde, decise di seguirlo in una battuta fallito il bersaglio. di caccia, attendendo fino all’ora meritata della ristoProcri, per paura dell’ira di Pasife, fece ritorno ad razione. Così, Procri, vestita di un mantello scuro, Atene, sotto le mentite spoglie di un giovane, di s’inoltrò nella foresta. nome Pterela. Un giorno, Cefalo andò a caccia con Cefalo, sentendo un fruscio, all’altezza di quella tale giovane, non riconoscendone il travestimenmacchia in movimento che altro non era il mantello to, facendo salva l’identità di Procri. Nel prosieguo della giovane ateniese, rafforzato dai guaiti sicuri di dell’attività di caccia, il figlio di Deioneo le chiese per Lelapo nell’attestare la presenza di una preda, scauna enorme quantità d’argento quei doni a lei cari gliò l’infallibile lancia verso di essa. Nell’approssi(cioè lancia e cane), ma il “giovane” rifiutò, dicendo marsi al punto in cui si era impennata la lancia, per che li avrebbe concessi soltanto per amore. Preso di vedere che razza di bestia avesse ucciso, con suo coraggio e pieno di iniziativa, Cefalo si fece avanti, e grande dolore si rese conto di avere colpito la moglie nell’acconsentire il giovane si svelò per ciò che era, che lo spiava. Eos intervenne con un atto quasi incola dolce e affettuosa Procri. erente con la sua natura cinica e di divinità gelosa, La riconciliazione definitivamente fu suggellata da e per questo dovette arrendersi a tanta commozione quella caccia, in cui Cefalo poté usare il cane Leprovata: per lenire il dolore di entrambi, mutò lei e lui lapo e l’infallibile asta. Ma le divinità greche sono in quell’astro che precede il mattino. famose per la loro tenacia ed estenuante ostinazione nel perseguitare coloro che le offendono, e così fu. Artemide, irritata per leggerezza e superficialità dimostrate nell’usare tali doni divini, concessi all’uno o all’altro con tanta faciloneria, decise di vendicarsi, insinuando nella mente di Procri una dirompente gelosia e facendole credere che il proprio amato si recasse ancora da Eos, per di più trasformando le stesse adorate selve di caccia in un ardente giaciglio amoroso. Procri venne a sapere da un servitore che era solito accompagnarla durante la caccia, che il marito dopo aver terminato la sua attività invocava una misteriosa nuvola o brezza, o addirittura Aura ristoratrice perché lo rinGiuseppe Nuvolone, Cefalo e Procri, olio su tela.

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RiCalchi

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Angeli... foto di Gerardo Caputi


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Eventi Nel 1959 in un seminterrato di via Clerici a Milano, Piero Manzoni fonda con Enrico Castellani ed Agostino Bonalumi, la galleria Azimut. I tre artisti sono poco più che ventenni. Manzoni, due lauree abbandonate non senza rimpianti: “per me la cosa migliore sarebbe fare un lavoro dignitoso e poi dipingere…” si è fatto intanto notare dal gallerista/ mercante e libraio Arturo Schwarz oltre che da Lucio Fontana che sostiene e in parte finanzia il progetto di apertura della galleria. Azimut doveva essere intima per dimensioni e luci a giudicare dalla ricostruzione fatta dalla Gagosian Gallery di Londra che, in collaborazione con la fondazione Manzoni, riunisce alcuni dei lavori dell’artista milanese, di Castellani, Bonalumi e Dadamaino, quasi a voler sottolineare che infondo i due anni in cui è durata Azimut sono stati pochi. Allo stesso tempo la mostra è ispiratrice di un nuovo approccio curatoriale nel campo dell’arte commerciale, quello

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delle collaborazioni con archivi e fondazioni per dare un elemento anche formativo a iniziative che spesso sono concentrate sul mercato. Ricreare l’allestimento del seminterrato riuscendo a restituire la particolarità dell’illuminazione con le copie degli originali tubi d’ottone piegati ad arco sulle tele dove cadeva, e ricade, la luce nuda e calda delle lampadine; ridare il senso d’improvvisazione e ingegno di quadri che si appendevano anche sopra aste di legno; l’atmosfera scherzosa che doveva aver caratterizzato i pomeriggi a mettere su chiodi, escogitare scaffali, teche e basi, nel vociare dei dibattiti che poi animavano le inaugurazioni serali: tutto questo dimostra che la necessità di esibire dei contesti più dell’individualità dei singoli artisti, sta nascendo anche in ambiti commerciali. Si rigenerano i dialoghi tra i lavori di Castellani, gli squarci di Fontana e gli Achromes, le famose tele senza colore di Manzoni, nelle varie versioni: dal-


Azimut 2011 di Maria Pia Masella

le prime, imbevute nel caolino e lasciate essiccare all’aria aperta e al sole (gli agenti che le segnano con bolle d’aria e pieghe), a quelle con schegge di vetro fino alle ultime con le michette e i batuffoli di cotone. Acquista anche un valore di recupero storico la scelta di mettere in mostra (e non in vendita) una delle rare copie della rivista Azimuth insieme alle foto rica-

vate dai cortometraggi delle performance presentate in galleria. E lavori come il Fiato d’artista, la Merda d’artista, le uova sode timbrate con l’impronta digitale di Manzoni; quei lavori degli ultimi anni in cui l’artista sembra smaterializzarsi, riprendendo forma come arte. Un valore di recupero quindi che provoca, a decadi di distanza, la sensazione di ritornare in quegli spazi rivivendo un movimento e un’epoca.

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Eventi Premessa: la Biennale è enorme e caotica; si può sempre solo commentarne una parte, perché nell'interezza essa è inafferrabile, ed è anche in questo aspetto il suo fascino indiscusso sin da quando è nata, nel 1885. "Illuminazioni", curata da Bice Curigere, si è caratterizzata per diversi aspetti, a partire dai tanti parapadiglioni destinati a regalare al pubblico un'esperienza immersiva, invitato ad entrare in un meta-mondo onirico e a volte delirante. Dal piccolo pezzo di Cina, ricostruito nell'opera alla Corderie di Song Dong, alla "panic room" del padiglione svizzero ai Giardini di Thomas Hirschhorn, sino al coinvolgente padiglione tedesco di Christoph Schlingensief (vincitore del Leone d'Oro per la miglior partecipazione nazionale), scomparso nel 2010 ma ugualmente presente grazie alla caparbietà delle sue curatrici. Il tema legato alla luce, ha portato gli

artisti ad esprimersi nei modi più disparati: significativa l'opera di James Turrel che porta lo spettatore ad immergersi proprio in una luminosità diffusa di una stanza nascosta, cui si accede solo dopo una fila interminabile, tanto da chiedersi se l'installazione non consista proprio nell'attesa degli spettatori. Ma, in questa babele dai molti linguaggi, la potenza di molte opere viene fuori con forza. Notevolissimo il padiglione argentino del giovane Adrián Villar Rojas, vero e proprio tempio di una nuova religione umana e simbolica. Lirica la poesia contenuta nelle immagini Jean Luc Mylayne (Arsenale), fotografo senza fissa dimora che agli uccelli ha dedicato tutta la sua vita. Attuale ed emozionante la complessa opera di Sigalit Landau presso il padiglione israeliano ai Giardini. Incisivo nella sua essenzialità il padiglione austriaco, con le opere di Markus Schinwald. Divertente

Norma Jean, #Jan25 (#Sidibouzid, #Feb12, #Feb14, #Feb17…), Arsenale, Biennale 2011

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… qui Venezia, la 54° Esposizione Internazione d'Arte! di Fiorella Fiore

Song Dong, L'intelligenza della gente povera, Arsenale, Biennale 2011.

James Turrel, The spirit of the times, Arsenale, Biennale 2011.

Christoph Schlingensief, A Church Of Fear Vs. The Alien Within, Giardini, Biennale 2011.

l'installazione di Norma Jean, letteralmente fatta a pezzi per creare uno spazio in cui tutti diventano artisti e nello stesso tempo parte integrante dell'opera. E l'Italia? Che il padiglione curato da Sgarbi non sia piaciuto, è un fatto. D'altra parte non può che colpire negativamente il caos allestitivo che vi domina, e che non può essere giustificato nemmeno dall'intento (nobile) di portare a Venezia artisti fuori dai circuiti soliti dell'arte. L'assemblaggio volutamente confuso, dove anche le opere di pregio si perdono nel contesto del disordine generale comunicano poco allo spettatore, occupato

prima di tutto a non farsi venire un gran mal di testa. Come confuso resta il perché della presenza delle grandi tele del Tintoretto ai Giardini, che si dimostra essere più una provocazione mal riuscita che non un tentato dialogo tra antico e moderno. Insomma, l'Italia non ne esce benissimo; e fa uno strano effetto constatare come in realtà una grande lezione venga dalle opere di Luigi Ghirri, fotografo italiano scomparso nel 1992: il suo occhio sulla realtà resta un punto di riferimento ineguagliabile, che ci racconta l'Italia di ieri così uguale a se stessa, ancora oggi.

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Eventi

Ad immagine e somiglianza di Giuseppe Nolè

dell’immagine, intenden“Tutto ciò che, dentro questo dola sia come Rivelazione castello, un tempo era fatiscenche come Testimonianza te, inaccessibile e deturpato, di Dio. Il linguaggio tradiora invece per merito del pontezionale dell’icona si fonfice Paolo III si vede restaurato, da sul canone, ma la sua ornato e consolidato per comodecifrazione varia in base da utilità e squisita eleganza”. alle leggi di ciascuna epoCosì recita l'iscrizione latina che ca. Per questo le icone bicorre sul cornicione delle quatzantine del X, XI o XII setro pareti della Sala Paolina del colo tanto si differenziano Museo di Castel Sant’Angelo dalle opere del XIV secolo. a Roma. All'interno delle sale Di sicuro impatto nella dell'antico mausoleo di Adriamostra la Madre di Dio no, è possibile ammirare fino al Odigitria (Georgiana) del 12 febbraio prossimo la mostra XV secolo, con i caratteIcone Russe (XV-XX secolo) ristici elementi compositivi curata da Nikolaj Zadorozhnyj, tramandati in un ingente Direttore del Museo delle Icone numero di esemplari, così Russe di Mosca, Irina Šalina, come la Madonna della vice Direttore scientifico del MuTenerezza, del XVI secolo, seo delle Icone Russe e Giorgio variante iconografica ridotLeone, storico dell’arte. ta (a mezzo busto) della Le quaranta icone esposte proMadre di Dio. Merita una vengono dal Museo delle Icone menzione l’eccezionale Russe di Mosca, un’ecceziogruppo di sei tavole che nale realtà storico-artistica in corrispondo a un intero Russia, che si affianca alle più Secondo Ordine dell’Icoantiche, note e prestigiose istinostasi, o Deesis, compretuzioni del Paese dedicate alle so tra la fine del secolo XV icone. e l’inizio del secolo XVI, Il termine russo “ikona” racchiuprodotto a Rostov: è caratde in sé i diversi significati: “rafterizzato da morbide safigurazione”, “immagine”, “rapgome delle figure di santi, presentazione”, “visione”, “comdai colori sottili e traspaparazione”. I Padri della Chiesa renti costruiti nella tipica la usarono assegnandole un sitradizione pittorica locale, gnificato più ampio del termine attuale: essi infatti ritenevano Deesis (Secondo ordine dell’Iconostasi), fine XV secolo in cui i marroni e i gialli si fondono ai rossi, sottolineche il Creato fosse a immagi- – inizio XVI secolo, Rostov. Tempera su legno. Arcangelo Michele, cm 76x57, Museo dell’Icona Russa, ati da sfumature di blu. ne di Dio, un’opera cioè creata Mosca. L’icona, come emerge midall’Artista più Sommo. Il prin- Giovanni Battista, cm 75× 57, Museo dell’Icona Russa, rabilmente nell’esposiziocipio della riproduzione dell’im- Mosca. ne di Castel Sant’Angelo, magine (in russo ikoničnost’) non è soltanto un’immagine di fede ma è anche, per stava alla base della visione cristiana del mondo: quanto possa sembrare strano, un’immagine che riGesù Cristo era “immagine di Dio” e l’uomo era stato flette l’uomo e la società, una specie di mediatore: creato su immagine e somiglianza di Dio; la Chiesa così come siamo, tale è l’immagine. altro non è se non l’immagine (in russo: ikona) trasfigurata del cosmo, della Gerusalemme Celeste. Il VII Concilio di Nicea (787 d. C.) condannò l’iconoclastia (rifiuto della venerazione delle immagini) Madre di Dio Odigitria (Georgiana), fine XV secolo, Novgorod, e impostò un nuovo atteggiamento nei confronti tempera su legno, cm 110x80, Museo dell'Icona Russa, Mosca.

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Eventi

Paesaggi e ritratti di Paul Cèzanne di Piero Viotto

Grazie alla collaborazione tra il Comune di Milano e la casa editrice Skira, la mostra Cèzanne: les ateliers du Midi curata Rudy Chiappino, riunirà 50 opere, provenienti dai musei di tutto il mondo, al Palazzo Reale di Milano fino al prossimo 26 febbraio. È uno dei grandi eventi dell’anno da non perdere, perché permette un’analisi dettagliata di tutta l’opera del maestro attraverso una sequenza di paesaggi, nature morte e ritratti che documentano le successive

fasi della creatività dell’artista. Un pregevole allestimento, curato nel dettaglio, fino a decorare le pareti con colori tratti dalla tavolozza del pittore, accompagna il visitatore di stanza in stanza. Si inizia con le opere degli anni 1860, dagli approcci all’impressionismo, dalle opere d’après, realizzatate

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ad imitazione di Gustave Courbet e di Eugène Delacroix. Poi si segue l’artista nei suoi diversi ateliers, da Aix a Lauves in Provenza, alla conquista di una espressività costruttiva, nella ricerca di una perfezione, che lo porta a ripetere il medesimo soggetto attraverso minime varianti, come per i quadri dedicati alla montagna Sainte Victoire, l’altura che vede e contempla dal suo studio di Aix-en-Provence. Di lui non si trova un quadro in una chiesa, perché non dipinge soggetti sacri, preferisce i giocatori carte e le bagnanti, le nature morte e i paesaggi, eppure Paul (1839-1906) è il più religioso degli artisti del suo tempo, non perché tra le sue nature morte figurano anche molti teschi, come presagio di morte, che risentono dell’influenza della pittura di Velasquez e di Caravaggio, ma perché cerca di rappresentare la natura, le cose e gli uomini, come delle creature, quasi viste e contemplate dal punto di vista di Dio. Ci troviamo di fronte ad sintesi di forma e colore che coglie l’essenza della realtà oggettiva, si libera dal disfacimento della forma nelle vibrazioni del colore, come avveniva con gli impressionisti, che risolvono l’oggetto nella soggettività percettiva dell’artista, movimento da cui pure Cèzanne era partito con l’amico Camille Pissarro. E non cade mai nel naturalismo,


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nel verismo, tanto che lo scrittore positivista Emile Zolà ne scrisse una stroncatura che fece scandalo. Sono molto interessanti i quattro dipinti murali, che l’artista aveva dipinto sulle pareti della sua casa a vent’anni, ora trasferiti su tela, rappresentanti con figure femminili, le quattro stagioni, la primavera, l’estate, l’autunno, l’inverno. Queste opere stanno all’origine dell’arte di Cézanne come i quattro pannelli per il teatro ebraico di Mosca, rappresentanti la musica, la poesia, il teatro, la danza. per Mar Chagall. Dopo questa introduzione, la mostra si snoda attorno a tre temi, i paesaggi, le nature morte, i ritratti. I paesaggi di case, di sponde fluviali e lacustri, di boschi, dai primissimi, ancora sotto l’influenza dell’impressionismo, agli ultimi solidamente costruiti, che preparano da lontano il cubismo, sono introdotti in catalogo da un saggio di Denis Coutagne che constata come “il pittore prendeva coscienza del fatto che il paesaggio richiede un lavoro di rilettura mai compiuto”. Ma mentre gli impressionisti sono alla ricerca delle variazioni di illuminazione nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni - si pensi solo alla facciata della cattedrale di Rouen di Claude Monet - Cèzanne cerca le variazioni in profondità, vuole penetrare sempre più all’interno dell’oggetto per coglierne la struttura, l’anima.

Con le “nature morte” l’artista raggiunge il vertice della sua creazione, perché sa fare di una mela una ricerca dell’Assoluto. Un altro frammento dalla corrispondenza con Emile Bernard, un suo discepolo, ci aiuta a comprendere questa percezione dell’oggetto, dove il disegno e il colore si amalgamano: “Il disegno e il colore non sono affatto distinti tra loro, via via che si dipinge, si disegna, e più il colore raggiunge la sua armonia, più si precisa il disegno. Ricchezza del colore e pienezza della forma sono complementari, sono, anzi, una cosa sola”. Nei ritratti l’artista tratta i suoi modelli come una mela su di un cassettone, li vuole in una fissità corporea quasi innaturale, perché il corpo è fatto per il movimento, tuttavia in questa immobilità coglie la vita interiore del suo soggetto e il loro carattere. In mostra ci sono diversi ritratti, alcuni di committenti importanti, altri della gente familiare, come la moglie e il giardiniere. C’è anche un autoritratto, quello del 1875, tra i molti che ha fatto di se stesso. La scheda del catalogo li analizza a confronto con quelli di altri artisti: “Rembrandt osserva se stesso nell’atto di conquistare la gloria e di invecchiare, perdendo il suo ruolo. Van Gohg proietta su di sé un’immagine dolorosa e si interroga sulla follia che prende il sopravvento. Cèzanne dipinge un pittore sempre impegnato in una ricerca sulla pittura, il più delle volte si colloca di fronte

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a un parato, esprimendo così il concetto che il suo orizzonte era quello della pittura nella sua dimensione quasi astratta” . Non si può separare l’uomo dall’artista, per lui l’arte non solo è un mestiere, ma una vocazione sulla quale bisogna riflettere per cogliere le ragioni del proprio lavoro. In un’altra lettera a Bernard c’è la chiave di lettura della sua opera: “Tutta la natura per mezzo del cilindro, della sfera, del cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano, si orienti verso un punto centrale. Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè una sezione

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della natura, o se lei preferisce, dello spettacolo che il Padre Omnipotens, Aeterne Deus, dispiega davanti ai nostri occhi. Le linee perpendicolari all’orizzonte danno la profondità. Ora la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superficie; di qui la necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate per mezzo dei rossi e dei gialli, una somma sufficiente di blu per far sentire l’aria”. Cézanne proprio con questo “fare sentire l’aria”, nei ritratti esprime l’individualità irripetibile di ogni persona umana, nella discontinuità originale di ciascuna opera.


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Architettando L’intero complesso architettonico della nuova sede della Regione Lombardia rientra in un vasto progetto di riqualificazione urbana dell’area Garibaldi-Reppubblica a Milano. Per la sua realizzazione si è reso necessario l’abbattimento dell’intero Bosco di Gioia, già lascito testamentario della contessa Giuditta Sommaruga come bene inalienabile, ed a nulla sono valse le tante polemiche ed interventi autorevoli in favore dell'area verde. Tra i 98 progetti presentati al concorso internazionale indetto dalla Regione Lombardia nel 2003, ridotti a 10 dopo una prima selezione, nel 2004 è stato scelto quello del gruppo composto da Pei Cobb Freed & Partners di New York (autori del Grand Louvre di Parigi, della National Gallery of Art di Washington e della Fountain Place di Dallas) con Caputo Partnership e Sistema Duemila, entrambi di Milano. I lavori, iniziati nella primavera del 2007, sono terminati nell’autunno 2010; il 15 febbraio 2011 si è concluso il trasloco dei circa 3000 dipendenti regionali nel nuovo complesso. Palazzo Lombardia, nome scelto dai cittadini (gli altri due in gara erano Cà Longa e Altra Sede) con

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il 52,5% delle preferenze espresse sul sito internet della Regione, sorge su un'area di circa 33.700 metri quadrati compresa tra via Pola, via Algarotti, via Melchiorre Gioia, viale Restelli e largo De Benedetti, ed è senza ombra di dubbio, così come sottolineato durante il taglio del nastro della piazza Città di Lombardia, l’opera pubblica più rilevante, dal punto di vista architettonico e della pianificazione urbanistica, dopo la costruzione del glorioso Castello Sfrorzesco. Anche se il costo complessivo è stato di circa 400 milioni di euro l’Ente Regione ricaverà un consistente risparmio, calcolato dallo stesso in circa 4 milioni di euro annui, derivante dall’abbattimento delle attuali spese per gli affitti pagati per tutti gli uffici dislocati per la città di Milano, potendoli concentrare fra il nuovo edificio, per molti il “Pirellone bis”, ed il vicino Grattacielo Pirelli, lo storico edificio dell’arch. Gio Ponti inaugurato nel 1960. La forma architettonica dell’intero impianto privilegia, come si legge dalla pianta, la linea curva, realizzata attraverso una serie di settori circolari di medesimo raggio che si sviluppano intorno alla piazza Città di Lombardia, di forma ovoidale e con una superficie di circa 4000 metri quadri, caratterizzata da una grande


Il nuovo Castello Sforzesco di Mario Restaino

copertura in materiale plastico. La struttura edificata è composta da sei edifici connessi tra loro: quattro (core 2, 3, 4 e 6) hanno nove piani, uno (core 5) ha sette piani, uno (core 1), la torre di 161,30 metri in calcestruzzo armato, acciaio e vetro, ha trentanove piani. I sei corpi di fabbrica, insieme, generano le quattro “onde” che si congiungono tra loro attraverso quattro vani scala. I primi due piani sono destinati a funzioni pubblico e misto pubblico-privato tra le quali un auditorium, un asilo, una palastra, un ufficio postale, un archivio, mediateche e biblioteche, uno spazio espositivo. Dal secondo all’ottavo gli spazi sono riservati agli uffici con circa 500 postazioni operative suddivise tra assessorati ed unità di direzione. La grande torre ospita infine la sala della giunta, varie sale riunioni, la sala stampa e la direzione generale con la presidenza al 35° piano, il belvedere al 38° ed una terrazza giardino al 39°, questi ultimi destinati al pubblico. I vari livelli sono serviti da 32 ascensori in grado di percorrere 8 metri al secondo. Un'elisuperficie sorge su uno dei corpi bassi. L'area include più di 26.000 metri quadri di parcheggio interrati, 3.300 metri quadrati di aree a bosco e 7.000 metri quadrati di giardino pensile. Come ulteriore risarcimento per il taglio del Bosco di Gioia, è stato messo a dimora un filare di alberi lungo via Restelli e ridisegnato il verde già esistente verso Piazza Carbonai d'Italia con dei giardini tematici. La zona centrale, interamente pedonabile, è costituita da un sistema articolato di piazze interne che collegano le nuove attività commerciali, al servizio dell’intera città. Per il suo funzionamento Palazzo Lombardia non impiega nessun combustibile inquinante dato che si è previsto, già in fase progettuale, l’utilizzo di tecnologie innovative ed all’avanguardia in campo energetico, quali un sistema a “travi fredde” che utilizzano pompe di calore ed acqua di falda pompata in pozzi

sotterranei, studiato sia per il riscaldamento che per il raffreddamento. Pannelli fotovoltaici, incorporati nel prospetto sud della torre, che garantiscono una parte dell'energia necessaria al funzionamento delle attività al suo interno; un “muro climatico”, costituito da un’intercapedine tra i vetri esterni della facciata e quelli interni, che raccoglie il calore solare permettendone la riutilizzazione nelle diverse stagioni. Una curiosità: la tradizione vuole che l’edificio più alto della città abbia sulla sua sommità una madonnina. Così al 39º piano del grattacielo, benedetta dal cardinale Dionigi Tettamanzi, è stata posta la copia di quella che si trova sul Duomo di Milano. Quella di Palazzo Lombardia segue l'originale e le copie poste su Torre Breda e Grattacielo Pirelli.

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art Tour a cura di Sonia Gammone Verona La nobiltà della pittura

Roma I Borghese e l’antico

Roma La tradizione dei presepi di Cracovia

Fino al 29 aprile 2012 Palazzo della Gran Guardia, Verona Info: www.settecentoaverona.it

Fino al 9 aprile 2012 Galleria Borghese, Roma Info: www.mondomostre.it

Fino al 29 gennaio 2012 Museo Naz. Arti e Tradiz. Popolari, Roma Info: www.idea.mat.beniculturali.it

Con 150 tra dipinti, disegni, stampe e documenti, provenienti dai più importanti musei stranieri come l’Ermitage o il Prado, oltre che dai principali musei italiani, si è aperta la mostra Il Settecento a Verona. Tiepolo, Cignaroli, Rotari. La nobiltà della pittura che porta Tiepolo e i suoi contemporanei al Palazzo della Gran Guardia. È una grande rassegna espositiva che indaga ed approfondisce un momento della civiltà scaligera poco conosciuto. La mostra è incentrata sulle peculiarità che la cultura e la tradizione pittorica assunsero nel Settecento a Verona. Ampio spazio è dedicato a Pietro Antonio Rotari e Giambettino Cignaroli, entrambi emblemi di quel classicismo di grande innovazione e modernità che, grazie anche al veronese Scipione Maffei, ha dominato la pittura dell’intero secolo. Un posto speciale è riservato ai vedutisti come Bernardo Bellotto e al nucleo di opere realizzate per la città scaligera da Giambattista e Giandomenico Tiepolo.

La Galleria Borghese organizza con la collaborazione del Museo del Louvre di Parigi, la mostra I Borghese e l’Antico: i più importanti capolavori dell’arte antica appartenuti alla Collezione Borghese, oggi nucleo essenziale della raccolta di antichità del museo parigino, tornano finalmente nella loro sede originaria. La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale di Roma, diretta da Rossella Vodret, presenta con l’occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia una mostra che intende celebrare il patrimonio storico-artistico italiano che dopo 200 anni torna nella sede originaria di Galleria Borghese. Sono 60 le opere illustri in mostra come il Vaso Borghese, con scene dionisiache, l’Ermafrodito dormiente, restaurato da un giovanissimo Bernini, il Sileno, il Bacco Bambino, le Tre Grazie e il famoso Centauro cavalcato da Amore.

Il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, nell’anno della Beatificazione di Giovanni Paolo II, ospita Cracovia con una mostra inaugurata lo scorso 1 dicembre nella scenografica Sala delle Colonne. Ogni anno infatti, il Museo Storico della Città di Cracovia in occasione delle festività natalizie, presenta nei musei degli altri Paesi i Presepi delle sue collezioni che sono sintesi degli stili più diversi dal gotico al barocco al rococò, riproducendo le cupole e le torri dei più famosi monumenti della Cracovia. L’esposizione include nel suo percorso la Sala dedicata al Ciclo della Vita, nella quale sono presenti anche due scenografici presepi napoletani del ‘700 ed altri provenienti da diverse regioni d’Italia. Le peculiarità dei Presepi polacchi in mostra sono esaltate dall’allestimento, per il quale sono stati utilizzati dei cassoni nuziali finemente intagliati in gran parte di origine sarda di fine Ottocento inizi Novecento della collezione originaria del Museo.




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