In Arte novembre/dicembre 2012

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â‚Ź 1,50 anno VIII - num. 06 - novembre/dicembre 2012 Poste italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% CNS PZ


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Redazione

Sommario Editoriale

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Redazione Largo Pisacane 15, 85100 - Potenza Tel. 0971 25683 Mobile 330 798058 - 392 4263201 web site: www.in-arte.org e-mail: redazione@in-arte.org Direttore editoriale Angelo Telesca - editore@in-arte.org Direttore responsabile Mario Latronico Caporedattore Giuseppe Nolé Addetto stampa Francesco Mastrorizzi - informazioni@in-arte.org Impaginazione Basileus soc. coop. - www.basileus.it Stampa Grafica Cirillo sas, Scafati (SA) Concessionaria per la pubblicità Associazione A.R.C.A. - associazionearca@alice.it Autorizzazione del Tribunale di Potenza n. 337 del 5 ottobre 2005 Iscrizione al ROC n. 19683 del 13 maggio 2010 Registrazione ISSN n. 1973-2902 Chiuso per la stampa: 18 dicembre 2012 In copertina:

Carlo Carrà, Il figlio del costruttore, 1917-1921, olio su tela, cm. 60x45, collezione privata. La redazione non è responsabile delle opinioni liberamente espresse dagli autori, né di quanto riportato negli inserti pubblicitari.

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Passo dopo passo di Giuseppe Nolé .......................................................... pag. 4

Eventi

Premio Enogenius 2012 - L’euforia di Dioniso di Francesco Mastrorizzi............................................... pag. 5 Guttuso, cento opere per il centenario della nascita di Giulia Smeraldo......................................................... pag. 8 Vermeer e il secolo d’oro dell’arte olandese di Eleonora D’Auria ...................................................... pag. 10 Carlo Carrà: la ricerca dell’Assoluto di Piero Viotto................................................................ pag. 12

Special Cromie

Manuel Olivares, la seduzione delle linee di Fiorella Fiore ............................................................ pag. 14 Tiziano Cappelletti: il filo dipinto di Angela Delle Donne.................................................. pag. 16 Il cristallismo cromatico di Michele Carmelo Bellezza di Sonia Gammone........................................................ pag. 18 Antonio Loffredo: narrazione tra passato e presente di Annalisa Signore....................................................... pag. 20 Anna Maria Verrastro: tra il sogno e la memoria di Lauramaria Figundio.................................................. pag. 22

Direzioni

«Si useranno sempre meno i pennelli» di Maria Pia Masella...................................................... pag. 24 La Nuova Pittura italiana di Giulia Bucci................................................................ pag. 25

Mete

La voce a te dovuta di Mariarosa Sammartino.............................................. pag. 26

Sipari

La voce a te dovuta di Mariarosa Sammartino.............................................. pag. 27

Tratti

Diabolik compie 50 anni di Maria Rosaria Compagnone...................................... pag. 28

Art Tour

a cura di Francesco Mastrorizzi.................................... pag. 30


Passo dopo passo di Giuseppe Nolé

Cari lettori, un altro anno con In Arte Multiversi sta per concludersi. Un anno ricco, intenso ma anche faticoso e difficile. Purtroppo le difficoltà economiche coinvolgono tutti, nessuno escluso, soprattutto nel settore dell’arte e della cultura. Nonostante questo però tutta la meravigliosa squadra di In Arte non ha smesso mai di impegnarsi e lavorare con dedizione e professionalità. Partendo dalla “nostra” Basilicata, attraverso i sei numeri della rivista, siamo riusciti a darvi un spaccato dello stato dell’arte in Italia e dintorni. Ci siamo però sforzati anche di farvi “toccare” l’arte attraverso la promozione di numerose manifestazioni ed eventi: Cromie in loco a Moliterno, Sacre Visioni a Forenza, le due edizioni di IncontrArte, le mostre di Pietra Barrasso ed Ernesto Santaniello, il Premio Enogenius, gli appuntamenti letterari Di tono in tono, Forenza Medievale, Il Borgo in una Stanza. Tante iniziative che continueremo a proporvi con impegno e dedizione anche in questo 2013 che è alle porte, con tante novità che speriamo vi siano gradite. Vi ringraziamo per l’affetto con cui ci seguite e per la stima che ci dimostrate. Buona lettura!

Eleonora Pesaresi, Orme e forme fra gli alberi, 2004, metallo.

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Eventi

Premio Enogenius 2012 L’euforia di Dioniso

Tra i tanti obiettivi di “In Arte” sicuramente in primo piano ci sono la diffusione dell’arte in tutte le sue forme e la promozione del patrimonio culturale della nostra nazione. È per questo motivo che già dal 2009 abbiamo sposato con piacere la causa del “Premio Enogenius”, concorso internazionale di pittura contemporanea volto a far conoscere ad un largo pubblico, attraverso il veicolo dell’arte, un territorio ricco di storia, cultura e tradizioni come quello del Vulture, situato nell’area nord della Basilicata. I promotori della manifestazione (Associazione Orme e Pro Loco di Barile) quest’anno hanno voluto affidare alla struttura organizzativa che fa capo alla rivista la IV edizione del concorso, che si è svolta dal 1° al 9 dicembre a Barile (PZ) presso l’ottocentesco Palazzo Frusci. Uno dei simboli del Vulture, e vanto in Italia e non solo, è il vino rosso Aglianico, al quale da sempre è dedicato il concorso. Dall’immaginario legato al vino, infatti, di volta in volta si attinge un nuovo spunto che

di Francesco Mastrorizzi

possa ispirare gli artisti ed accendere la loro creatività. Il tema scelto quest’anno è stato “L’euforia di Dioniso”, in riferimento a quello stato di ebbrezza e di tumulto dei sensi che coinvolge chi oltrepassa la misura nel bere, che richiama a sua volta la figura mitologica del dio greco del vino e i culti sfrenati che si celebravano in suo onore nell’antichità. Trentotto sono state le opere selezionate per essere esposte all’interno della mostra collegata al concorso, rappresentative di stili e tecniche diverse, ma anche eterogenee per interpretazione del tema, che pur nella sua specificità lasciava ampia libertà al genio artistico. Tra tutte la giuria del premio ha ritenuto come più valida l’opera intitolata Il vino, liberazione dei sensi dell’artista avellinese Marcaurelio Iacolino (in arte Il Colorista), secondo la seguente motivazione: “L’artista ha saputo trasmettere, attraverso pochi e significativi elementi, l’idea di energia e di slancio euforico dei sensi che caratterizza l'ebbrezza dionisiaca. L’esplosione cromatica che scaturisce dal ca-

3° classificato - Irene Albano, In vino hilaritas, 2012, tecnica mista su tavola, cm 70x55, particolare.

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Uno scorcio della mostra.

lice di vino è una chiara manifestazione di forza istintiva, vitalità, follia, passione, esaltazione, e rimanda anche alla perdita di stabilità e di misura che può derivare dall’eccesso. Il valore dell’opera è accresciuto, in termini di materiali impiegati, dall’eleganza e dalla preziosità del color oro.”

Al secondo posto è stata indicata l’opera Verde vino di Sara Di Costanzo (Cava de' Tirreni - SA), apprezzata per il valore semantico assegnato ai colori (“il rosso esalta la vitalità, il verde celebra, in maniera simbolica, la forza della natura e la fecondità, di cui Dioniso è l’interprete mitologico per antonomasia”). Si è classificato al terzo posto, invece, il dipinto In vino hilaritas di Irene Albano (Pisticci - MT), che ha saputo richiamare il tema del concorso grazie ad una sagace citazione dell’autoritratto ridente del pittore cinese Yue Minjun (“un moderno ilare Dioniso, che ben esprime l’irrazionalità e la caduta di ogni freno inibitorio”). La giuria tecnica, inoltre, ha voluto segnalare le opere realizzate da Linda Angelini (Pignola - PZ), Giuseppe Genna (Campobello di Mazara - TP), Antonio Telesca (Potenza) e Anna Mazza (Bari). Premiati, infine, Salvatore Malvasi di Barile (PZ), grazie ai voti della giuria popolare, e di nuovo Linda Angelini, cui è andato il riconoscimento speciale da parte degli utenti di Facebook iscritti alla pagina di “In Arte”.

Un momento della premiazione del vincitore Marcaurelio Jacolino. A sinistra: 2° classificato - Sara Di Costanzo, Verde vino, 2012, tecnica mista su tela, cm 102x82. Pagina a fianco: 1° classificato - Marcaurelio Iacolino, Il vino liberazione dei sensi, 2012, acrilico e malta su tela, cm 120x80.

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Eventi

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Eventi

Guttuso, cento opere per il centenario della nascita

Il figliol prodigo torna a casa, la sua seconda casa: Roma, la città che accolse e protesse Renato Guttuso lungo tutto l’arco della sua intensa attività artistica. Quale occasione migliore allora per la città che lo ha tanto amato, celebrare l’anniversario della sua nascita con una meravigliosa antologica a lui dedicata. La cornice del Complesso del Vittoriano è perfetta per ospitare le ben cento opere presenti in mostra, le quali descrivono l’esperienza della vita dell’artista all’interno della città grazie anche ad un allestimento degno della sede ospitante. La mostra si apre con un Autoritratto che fa entrare di colpo il visitare esperto

di Giulia Smeraldo

nell’animo di Guttuso. Egli ci scruta attraverso i colori stesi sulla tela e ci avvisa che sarà un percorso intimo, ma allo stesso tempo storico, che toccherà momenti della vita dell’artista insieme a quella del nostro paese. Descrivere lo stile delle opere di Renato Guttuso non è un compito semplice. Il maestro di Bagheria affronta tutti i temi della storia sociale d’Italia e ci regala immensi capolavori, come La Vucciria (omonimo mercato di Palermo) del 1974: una tela che attraverso la realtà dei colori scelti, i soggetti raffigurati, gli sguardi e l’afa che si respira solo guardandolo, ci regala uno spaccato della vita, non semplicemente

I funerali di Togliatti, 1972, acrilici e collage di carte stampate su carta incollata su quattro pannelli di compensato, cm 340x440, MAMbo, Museo d'Arte Moderna di Bologna.

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La Vucciria, 1974, olio su tela, cm 300x300, Università degli Studi di Palermo, in esposizione permanente presso il Complesso Monumentale dello Steri.

intesa come quotidianità del gesto, ma come atteggiamento dell’anima nei confronti dello sviluppo imprevedibile del nostro vivere. Importante nella vita di Guttuso, come ci ricordano i curatori della mostra Fabio Carapezza Guttuso, Presidente degli Archivi Guttuso di Roma, ed Enrico Crispolti, Professore Emerito di Storia dell'Arte Contemporanea all’Università di Siena, è il rapporto con la società e i suoi protagonisti. Un esempio di questo legame inscindibile è I funerali di Togliatti (1972), opera del Museo d’Arte Moderna di Bologna. Un progetto a lungo meditato, fin dalle sue celebrazioni nel settembre del 1964, come ci ricorda l’artista stesso: «Nei giorni seguenti alla morte del compagno Togliatti [agosto 1964] cominciò a crescere in me l’idea di dipingere un quadro sui suoi funerali. Il mio tavolo da disegno era interamente coperto da un grande foglio di carta, mentre lavoravo ad altro, su altri fogli, andavo continuamente pensando al “funerale” e

notavo, in margine del grande foglio, quasi con la coda dell’occhio, distraendo la mano dal foglio cui ero occupato verso il foglio sottostante, accenni di figure piangenti, pugni chiusi nel saluto, bandiere». Non potevano mancare La visita della sera e Caffè Greco, rispettivamente del 1977 e del 1980. Due opere queste che Renato Guttuso dedica a Roma, alle sue passeggiate, al suo modo di interagire con l’arte all’interno della vita della capitale. Non starò qui a descrivere gli olii. Ho un solo consiglio, quello di dedicare una giornata alla mostra, alla forza dei quadri di Guttuso, alla sua immensa partecipazione. Un artista che ha regalato all’Italia un nuovo approccio alla realtà sociale dell’arte, un artista che amava il suo tempo e il suo lavoro, un artista dall’anima forte che ha saputo svincolarsi dalle leggi della guerra e del mercato per rinascere nel 2012 grazie a questa splendida antologica.

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Eventi

Vermeer e il secolo d’oro dell’arte olandese

Stupisce ritrovare tanta scrupolosità in una così libera comunione con le divagazioni quotidiane. Il mistero svelato di una realtà, che va dispiegando le sue preziosità nell’attimo di più pura sottigliezza, dona all’osservatore quella bramosia verso i più minuti dettagli, resi accessibili dal virtuosismo dei pittori del ‘600 olandese. Le Scuderie del Quirinale celebrano uno degli esiti più significativi della pittura nordica moderna nella mostra Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese. Undici sale, nelle quali è possibile ritrovare la commovente sacralità dei gesti quotidiani. Cosa attira nelle opere di Vermeer, poeta della luce? Intanto, limitiamoci a spiegare Vermeer includendo nel suo orizzonte visivo l’astro immoto di un antico maestro del ‘400 come Piero della Francesca. Richiamo niente affatto azzardato, qualora si rifletta che già il noto critico d’arte Roberto Longhi intuì tale convergenza. Gioverebbe però soffermarsi su tutta la trama di rapporti che Vermeer tesse con la

di Eleonora D’Auria

tradizione italiana. Non è di poco conto considerare che opere di maestri del colore quali Veronese o Tiziano fossero molto richieste nel Nord Europa. Ciò indusse gli olandesi a rivolgere lo sguardo alla componente più spiccatamente cromatica della tradizione italiana. Interprete di una realtà vera fin oltre il vero, Vermeer affascina l’osservatore, spingendo ad una riflessione capace di superare la matrice retinica della percezione. Cosicché l’istante, pietrificato dalla forza della memoria, si fissa sulla tela con giapponese preziosismo. Un istante cristallizzato nel mondo delle idee. Questo è ciò che differenzia Vermeer dai suoi pur illustri compagni: la capacità di conferire qualità atemporali alle opere, in un muto colloquio tra poesia domestica e atmosfere fuori dal tempo. E se ormai sembra essere divenuto di moda costringere celebri artisti nel ruolo di mediatori culturali (come se le esposizioni fossero un prodotto da vendere o il più delle volte svendere), resta il

Johannes Vermeer, La suonatrice di liuto, 1662/1663 ca, olio su tela, cm 51,4x45,7, The Metropolitan Museum of Art, New York.

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Johannes Vermeer, La stradina, 1658 ca, olio su tela, cm 53,3x44, Rijksmuseum, Amsterdam.

fatto che la mostra romana, pur correndo il rischio di apparire come una gabbia dorata, riesce ad offrire una affascinante panoramica di un ambito artistico dinamico, all’interno del quale ravvisare, in ogni caso, oltre al genio di Vermeer, l’insuperato virtuosismo di tutti gli altri. Gerard ter Borch, Gerrit Dou, Pieter Janssens Elinga, Pieter de Hooch, rischiano di essere ingiustamente relegati a ruolo di cornice decorativa dalla schiacciante superiorità di Vermeer. Resta dunque come unica strada percorribile, al fine di evitare sommari processi qualitativi, valutare su piani distinti l’operare di ogni artista. La stradina (1658 ca), capolavoro di Vermeer, accoglie il visitatore, introducendolo senza anticamera nel mondo sospeso che sempre regna

nei suoi quadri. La scena, all’interno della quale si dispongono personaggi appena delineati, appare scentrata, dominata dalla luce piatta di una giornata nuvolosa, in una suggestiva interazione tra aree illuminate e altre parzialmente in ombra. Colpisce, certo, la maestria con la quale P. J. Elinga si renda disponibile ad una osservazione minuziosa in Interno con gentiluomo, donna che legge e cameriera (1670 ca) e vien quasi da domandarsi se i soggetti non siano piuttosto i riflessi, le ombre e il senso tangibile della luce. Eppure in La suonatrice di liuto di Vermeer (1662/1663 ca) la realtà acquista un valore superiore, capace di oltrepassare il limite finito e definito dal tempo e dallo spazio. Tutto descritto, ma immerso in un senso di sospensione e di stasi.

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Eventi La mostra dedicata a Carlo Carrà (18811966) alla Fondazione Ferrero di Alba in Piemonte è una di quelle mostre che non bisogna perdere, e se non è possibile visitarla è bene procurarsi il catalogo edito dalle edizioni “24 Ore Cultura” di Milano, curato da Maria Cristina Bandera , che illustra a pagina intera tutti i 76 dipinti, provenienti da musei, ma anche da collezioni private, e li inserisce nel racconto della vita dell’artista, citando brani dai suoi scritti autobiografici e dagli articoli che ha scritto per le riviste fiorentine “Lacerba” e “La Voce”, per “L’Ambrosiano” di Milano e per “Valori plastici” di Roma. Le opere, che datano dal 1900 al 1966, sono disposte cronologicamente, sia in mostra che nel catalogo, per cui si può seguire l’evoluzione della creazione artistica di questo maestro dell’arte contemporanea dal divisionismo al futurismo, dalla metafisica al realismo magico, dal ritorno al classicismo all’affermarsi dei “valori plastici”, e scorgere come la sua pittura non dipende dai movimenti artistici nei quali si esprime, ma li trascende con una originalità creativa che fa del colore e della luce l’oggetto stesso dell’opera. Basti ricordare il commento del giovane scrittore Italo Cremona al quadro Il figlio del costruttore: «Colori mai visti e neppure sospettati, nuovi nuovi, che forse, per riprovarne lo stupore, dovrei riaprire una di quelle fragili scatole di acquerelli che mi portava il Bambino

Carlo Carrà, L'attesa, 1926, olio su tela, cm. 95x100, collezione privata.

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Carlo Carrà: la ricerca dell’Assoluto di Piero Viotto

Gesù a Natale». Ingenuità? No, tutto il contrario: senso del mistero dell’esistere, attesa di una salvezza, In uno dei suoi ultimi lavori del 1965, La stanza, l’artista dipinge un ambiente vuoto, nel quadro c’è solo un tavolo spoglio e una porta spalancata sul buio: non si tratta del “nulla”, ma del “mistero”. Questo quadro, come osserva Elena Pontiggia nel suo saggio su Carrà del 1996, la porta aperta «piuttosto che allusione a un congedo, in questo caso potrebbe essere letta con l'anelito di assoluto espresso da Mallarmé: “Come è stata veramente chiusa… così deve aprirsi ora perché il mio sogno sia spiegato”. C’è una profonda religiosità laica in questo artista». Stessi sentimenti suscita nello spettatore il quadro L’attesa del 1926, realizzato in Versilia, dove l’artista trascorreva le vacanze estive, un’opera che il compositore Alfredo Cascella ha voluto subito acquistare. La donna immobile che sta sulla porta di casa, non attende solo il ritorno del marito dai campi, ma affacciata come è sul paesaggio, che riempie tutta la scena, è in attesa di un accadimento. Tutta l’opera di Carrà nasce a contatto con la natura, ma non è naturalistica; i suoi paesaggi urbani, campestri, marini, sono stati “ricreati” dal vero nella mente dell’artista, che li percepisce oltre la visione ottica della realtà. C’è una profonda religiosità laica in queste opere, non per nulla, Carrà – risulta dalla sua corrispondenza con Gino Severini – ha letto Arte e scolastica di Maritain e sa che la bellezza vuole spaziare sull’infinito, anche se nella concretezza della composizione la deve cogliere nello spazio in cui realizza l’opera. Anche le diverse nature morte, che l’artista elabora a lungo, per l’insieme degli oggetti rappresentati e soprattutto per l‘illuminazione che li caratterizza, genera questo senso di stupore e di attesa. Nella Natura morta con pere e caffettiera del 1933 la luce della corona del piatto sale ad illuminare il beccuccio e il corpo della caffettiera, dopo avere sfiorato le mele. Carrà nella sua avventura artistica ha avuto molti compagni, ma il suo divisionismo non è quello di Segantini, il suo futurismo non è quello di Boccioni, la sua metafisica non è quella di De Chirico, il suo realismo magico non è quello di Severini. In tutti questi artisti del Novecento la modernità non è sganciata dalla tradizione; guardando con attenzione le loro opere si scoprono rimandi a maestri antichi, a Giotto e a Piero della Francesca.


Carlo CarrĂ , L'ovale delle apparizioni, 1918, olio su tela, cm. 92x60, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma.

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Specia

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Cromie

Manuel Olivares, la seduzione delle linee

Manuel Olivares è un artista che vuole sedurre chi osserva le sue opere. Di grandi dimensioni, spesso divise in più tele, sono moderni dittici che circondano lo spettatore, e quasi lo avvolgono, portandolo in una dimensione del tutto nuova rispetto a quella che di solito abita. Le linee curve, spezzate e, soprattutto, l’uso di una nuova prospettiva, destabilizzano l’occhio di chi osserva, che non riesce subito a comprendere ciò che ha davanti, ma lo afferra poco a poco, attraverso dettagli che riportano la scena ad una consueta e più familiare “normalità”, del tutto stravolta però dall’occhio dell’artista. Panni stesi al sole, angoli di quartieri che riportano alla memoria la sua città natale, Napoli, specchietti retrovisori di auto, sono gli indizi che svelano angoli di vita quotidiana. Ma tutto questo viene distorto da una prospettiva che, deviando il consueto punto di vista che lo spettatore ha sulle cose, ne attrae lo sguardo. Olivares

di Fiorella Fiore

Senza titolo, olio su tela, 2012, cm 88x90.

ci riesce grazie ad un tocco sapientemente “retrò” che, pur nella sua modernità, guarda in particolare a quella rivoluzione delle forme che avvenne nei primi decenni del Novecento, non solo attraverso la pittura, con il cubismo in Francia e con il futurismo in Italia (viene in mente l’opera Incuneandosi nell'abitato di Tullio Crali del 1939), ma anche attraverso il cinema, basti pensare alle scenografie ugualmente destabilizzanti di Metropolis, film muto del 1927. I colori delle tele di Olivares, poi, dal sapore leggermente metallico e lucido, riportano alla memoria quelli utilizzati da Fernand Léger nelle sue opere. La verosimiglianza, ora come allora, è un canone che interessa poco all’artista, che nella decostruzione di forme umane e non esprime la propria interiorità, pur adoperandosi in un genere che di sicuro può essere definito figurativo. Appartiene ai giorni nostri, invece, il potenziale seduttivo che viene fuori da queste opere, grazie allo sguardo dell’artista che si posa su gambe intrecciate di amanti appassionati, su momenti di pura intimità; lo spettatore riesce solo a sbirciarne angoli nascosti, e il gioco tra chi crea e chi osserva stuzzica il lato voyeur che è in ognuno di noi, divertendoci e affascinandoci nel medesimo tempo. L’artista ci spinge a diventare suo complice, e riesce benissimo nell’intento. Una capacità che deriva sicuramente dal back ground professionale di OlivaSenza titolo, olio su tela, 2011, cm 207x190.

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Senza titolo, olio su tela, 2007, cm 200x207.

res, quello della grafica, nel cui campo l’artista ha lavorato prima nella sua città natale, Napoli, e poi ad Oslo, dove ha vissuto per un lungo periodo. Olivares, oggi pittore a tempo pieno, ha trasportato nella

sua poetica artistica quella identica capacità di saper catturare l’attenzione di chi guarda, coniugandola ad una sapiente armonia di linee, colori, forme, che ammalia lo spettatore, quasi ipnotizzandolo.

Senza titolo, olio su tela, 2011, cm 85,5x207.

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Specia

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Cromie

Fatmira, all’anagrafe Tiziano Cappelletti, un giovane artista della provincia comasca, ha iniziato il suo percorso dedicandosi all’astrattismo, per poi cercare di creare un proprio stile, guardando alla pittura statunitense degli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso. Si è interessato ad artisti come Pollock, Rothko e molti altri, studiandone gli aspetti sociali per cogliere la concretezza e l’analisi dei processi creativi. L’ultimo decennio della produzione di Cappelletti è caratterizzato dalla sperimentazione di diverse tecniche, nelle quali usa vernici, oli, corde, combustioni, nell’intento di esprimere il deterioramento quotidiano a cui è sottoposta la natura umana. La tela è cucita, i fili vengono tesi per arginare le ferite, le quali rimandano alla precarietà che l’artista vede crescere oggigiorno. È il tentativo da parte di Fatmira di indurre lo spettatore a riflettere e soffermarsi sulla fragilità esistenziale, che lui stesso – per primo – vive sulla sua pelle. La vicenda artistica di Cappelletti si traduce anche in istallazioni realizzate con rottami. Continuamente guarda il mondo che lo circonda, si interessa ai percorsi del riciclo materico, fa risaltare gli scarti attraverso l’accumulo di oggetti. Il suo piano di lavoro sono

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gli oggetti raccolti nel tempo, che gli permettono di ricomporre immagini del vissuto quotidiano, di recuperare frammenti di un’esistenza fagocitata


Tiziano Cappelletti: il filo dipinto di Angela Delle Donne

da un presente già diventato passato. Riesce ad elogiare ciò che è scarto, cercando di ripensare alla figura dell’artista che scende nel suo deposito per non dimenticare nulla. C’è un’inesattezza nel ricomporre la materia, eppure riesce a donarle eleganza, le dedica uno sguardo riparatore che tenta di lenire la netta ferita; la ricuce attraverso trame di fili, nodi, corde, chiodi, viti, tessuti, tutto ciò che può contribuire a sfiorare le cicatrici senza riaprire la ferita stessa. Apparentemente l’opera di Fatmira sembra essere ingabbiata in sé; in realtà è espressione della tensione mimica del corpo umano: fili tesi come la nervatura che spinge sotto la pelle, pulsioni che chiedono di essere ascoltate. C’è un dinamismo che non può rimanere nascosto; Cappelletti corre continuamente sul filo della fragilità, ma fa di esso il punto di forza, affinché si rinnovi continuamente la necessità di ascoltare il reale quotidiano. Tutte queste trame sanno anche vestirsi di colori brillanti, di forme sinuose, restituendo allo spettatore ancora una volta il desiderio di non perdere nulla per strada, di raccogliere e trasformare tutto ciò che si incontra; perché per ognuno e per ogni oggetto c’è la possibilità di guardarsi con occhi diversi e di essere

guardati diversamente. Tutto questo può accadere solo con lo scorrere del tempo che altera e disarma, ma che offre l’opportunità di ricominciare proprio su quei rottami trasformati in fili sottili, ma continui.

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Specia

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Cromie

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Il cristallismo cromatico di Michele Carmelo Bellezza di Sonia Gammone

Nato vicino Napoli nel 1975 e residente ad Osimo (AN), Michele Carmelo Bellezza è un artista che si sta affermando nel panorama italiano dell’arte contemporanea. Nel suo curriculum vitae è possibile rintracciare una serie di partecipazioni e di premi a mostre, collettive, concorsi ed eventi legati all’arte di tutto rispetto. Tra le sue ultime partecipazioni di rilievo ricordiamo Arte Padova, la Mostra Mercato d’Arte Moderna e Contemporanea che è giunta ormai alla sua 24ª edizione con un grande successo di critica e di pubblico. Nel maggio di quest’anno ha partecipato alla collettiva organizzata a Venezia, Luci, Colori e Forme del III Millennio, oltre ad innumerevoli esposizioni presso famose gallerie d’arte italiane ed estere. Inoltre, le sue opere sono presenti già in diverse pubblicazioni di cataloghi d’arte contemporanea editi fra gli altri dalla Mondadori. Il ciclo pittorico che contraddistingue il modus operandi nel dipingere di Bellezza è definito dallo stesso autore “cristallismo”. Le sue sono opere caratterizzate da un intenso cromatismo di forte

impatto. Chi si trova davanti ad una sua tela può restare quasi spaesato al primo sguardo. Solo prestando attenzione e con grande libertà d’interpretazione, si riesce a distinguere al di là dei cristalli cromatici tutta l’intensità di un tramonto, di un paesaggio, di un momento irripetibile offerto dalla natura. Nella gran parte delle sue opere possiamo individuare quale punto focale il sole, che si irradia su tutta la tela, consentendo a chi guarda di riconoscere, tramite un sapiente accostamento dei colori, tutto un paesaggio, che al primo sguardo sfugge, ma che a ben vedere può essere una splendida vista sulla campagna o sul mare. Ad esempio nell’opera intitolata Campo di grano non è difficile scorgere il sole, punto di partenza attorno al quale si realizza il campo di grano con tutte le sfumature di colore possibili. In un certo senso, imprigionando le cose in questi cristalli di colore, l’artista ci fissa un momento preciso, nel quale questi oggetti, paesaggi e situazioni si trovano, e permette ad ogni spettatore di

Paesaggio serale, acrilico su tela, cm 60x80.

Le colline di Recanati, acrilico su tela, cm 60x80.


Caraibi, acrilico su tela, cm 50x70.

fare suoi questi momenti, interpretandoli con libertà ed immaginazione. La pittura fissata nei cristalli cromatici trova così il suo fine ultimo e lo spettatore si sente parte di ciò che i suoi occhi vedono. Un

modo, quello che l’artista Michele Carmelo Bellezza ha riversato nelle sue opere, che gli permette di entrare in diretto rapporto con i suoi interlocutori, per condividerne sensazioni ed emozioni.

Campo di grano, acrilico su tela, cm 60x80.

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Specia

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Cromie

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L’esordio giovanile di Antonio Loffredo (classe 1946, vive e lavora a Volla, Napoli) si è rivelato determinante nel definire la sua produzione artistica. L’insegnamento del frate-pittore Pietro Briacca e la formazione in bottega secondo la nota procedura del passato hanno segnato in modo indelebile e guidato l’artista campano attraverso la narrazione di un repertorio immaginifico e popolare fatto di momenti e luoghi sospesi, secondo una formula apprezzata da critica e pubblico, come dimostrano anche i numerosi riconoscimenti ricevuti nel corso della sua lunga carriera. Nelle tele del pittore si alternano indistintamente i principali protagonisti dell’iconografia colta e sacra – come nel caso di Saticula ieri e oggi, in cui si conduce al toponimo di un’antica città sannita – a quelli anonimi di una realtà etnografica specifica, incastonati in una compagine spaziale talvolta imprecisata, ma rassicurante nel suo rimandare a scenari architettonici e rurali distinguibili, stratificati nelle pieghe più profonde del territorio. Loffredo libera queste quinte spaziali dalla patina dell’abbandono e del

passato, rinvigorendone l’aspetto attraverso densi bagliori e toni accesi. Gli sguardi dei suoi soggetti, desunti dalla vita reale, sembrano custodire memorie ed eredità di una condizione universale e comune; spesso vengono introdotti all’interno di composizioni di carattere religioso e ne divengono partecipanti ideali, trasmettendo alla scena la credibilità di un evento tangibile o di un racconto personale e intimo. Dietro i gesti fissati sul supporto non sfugge neppure la carica emotiva che, oltre a svelarsi in tutta la sua forza, nobilita anche le figure più dimesse. I giovani assorti, le donne e gli uomini intenti nei mestieri, gli edifici silenti tramandano per immagini una storia, un’identità sociale che ognuno dovrebbe conoscere. Finestre socchiuse, vicoli vuoti e portali antichi ci forniscono le tracce e gli indizi di quello che era e che adesso non è più o si è trasformato irreversibilmente. La pennellata, disinvolta e materica, costruisce sia apparati solenni ed evocativi che attività quotidiane trasfigurate in veri e propri atti rituali, sintomatici di

Barche nella darsena di Pozzuoli, acrilico su tela, cm 80x60.

Saticula ieri e oggi, tecnica mista su tela, cm 70x60.


Antonio Loffredo: narrazione tra passato e presente

Cromie

di Annalisa Signore

una tradizione ancora viva e attuale, seppur remota. In alcuni dipinti si scorge un’armonica alternanza tra forme rarefatte, private dei contorni netti, portatrici di atmosfere quasi palpabili, e la solidità con cui si profilano edifici o scenografie presenti e disposti entro suggestivi fondali. Nel dipinto Paesaggio con mongolfiere si ravvisa proprio questo gioco sapiente; qui la superficie inferiore trova il suo contraltare nelle

mongolfiere sospese nell’aria, ma ben delineate nello spazio. Emerge una certa predilezione per una gamma cromatica brillante, pura e pastosa, tale da conferire a tutta la scena una grande energia vitale. Quello che ha intrapreso Loffredo è un apprezzabile tentativo di convivenza e convergenza tra un passato ancora valido e visibile e un presente che troppo spesso si muove distrattamente.

Pani, tecnica mista su tela, cm 30x30.

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Specia

l

Cromie

La Lucania con i suoi luoghi e la sua umanità, fatta di persone e sentimenti: è questo il tema fondante dell’opera di Anna Maria Verrastro, pittrice e fotografa originaria di Avigliano, paese in provincia di Potenza, florido di cultura e vivacità intellettuale. Anna Maria Verrastro si lascia ispirare dai paesaggi tranquilli e quasi sonnacchiosi della sua terra, traducendo sulla tela con vivaci colori acrilici o sul cartoncino usando con tratto gentile la china non una banale celebrazione dei luoghi, quanto le atmosfere, i ricordi lontani di una civiltà contadina che sotto la

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spessa corteccia di superficie custodisce tradizioni forti, legami ancestrali con la terra. La presenza umana è solo intuita, ma niente delle sue opere lascia trasparire desolazione, talvolta malinconia, piuttosto. Sono le tinte vivaci, intrise del sole che inonda i campi di grano in luglio o i ruvidi muri di piccoli paesini, che trionfano negli spaccati di Basilicata di Annamaria Verrastro. Sono le scale tortuose più dei muri spigolosi, i tetti di tegole che incorniciano accoglienti cortili, luoghi ameni che invitano ad una lenta passeggiata, a con-


Anna Maria Verrastro: tra il sogno e la memoria di Lauramaria Figundio

templare quei borghi, colorati di fiori e rigogliosi di vegetazione, arbusti forti come la gente che questi territori li abita, li vive, li lavora con tanto sudore e profonda umiltà. Anna Maria Verrastro, che si dedica da anni all’insegnamento, non lascia spazio alla “pittura di maniera”, parte dal dato figurativo per trasfigurarlo nel sogno, nel ricordo, tornando alle radici che altrimenti resterebbero sfilacciate dal tempo, mentre in queste immagini, colorate o descritte dal fine tratto della china, restano impronta viva e immortale del tempo di

una civiltà, di luoghi che l’artista ama, di cui è parte e che fanno parte di lei come immutabile eredità della tradizione. Questa ricerca, che dalla forma arriva al “sentire”, trascolora nel sogno, accompagnando lo spettatore in una dimensione onirica che, immortalata nelle opere di Anna Maria Verrastro, rafforza i contorni, ricalca le immagini che non perdono, anzi guadagnano vigore, e lasciano quella piacevole sensazione di quiete contemplativa della quale spesso dimentichiamo il gusto.

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«Si useranno sempre meno i pennelli» di Maria Pia Masella

Nel titolo riportiamo le parole con cui Turi Simeti (1929) – esposto per la prima volta a Londra da una delle gallerie più affermate di Cork Street – dà il suo bilancio sul futuro dell’arte e su una carriera cominciata nel 1958 a Roma («ci andai perché volevo diventare artista») e proseguita, con la determinazione e il rigore dell’autodidatta, su una linea di rottura con il passato – i pennelli appunto – e d’apertura internazionale. Un’opportunità, quest’ultima, che arriva già nel 1965, anno in cui Simeti espone insieme a Manzoni, Dadamaino, Castellani ed altri nel progetto Zero Avanguardia, ideato da Lucio Fontana. Del Gruppo Zero, della ricerca artistica di Simeti e dei suoi rapporti con Fontana; dei motivi che hanno portato la Mayor Gallery ad organizzare una personale sull’artista siciliano, con lavori che vanno dagli anni ‘60 al 2012, parliamo con la gallerista Christine Hourdé. Maria Pia Masella: L’arte degli anni ‘60 è un nuovo classico? Christine Hourdé: C’è un gran revival. Specialmente per il Gruppo Zero. Il Guggenheim sta organizzando una mostra che si inaugurerà tra un paio di anni. Soprattutto due aspetti di quegli anni stanno trovando terreno fertile nel nostro contesto: la qualità minimalista e l’internazionalismo. All’epoca il minimalismo era di completa rottura. Ora che invece i nostri occhi sono abituati agli ambienti puri, alle forme pulite, alle superfici lisce, lavori come quelli di Simeti vengono valorizzati. Allo stesso modo, è naturale che opere immaginate e create come oggetti più che come rappresentazioni di altro, e quindi libere dai limiti imposti dalle culture nazionali, siano oggi comprese ed apprezzate a livello internazionale. MpM: Quali erano i rapporti tra Fontana e Simeti? CH: Fontana è stato una figura di riferimento; ha

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Direzioni

dato sicurezza e visibilità ad artisti come Simeti. Ma ci sono profonde differenze tra le somiglianze. Pur restando nell’ambito dello Spazialismo, che riconosciamo nella monocromia, negli interventi sulla tela, nell’espansione della tela verso lo spazio circostante, una radicale differenza è il fatto che Fontana, aprendo la tela a dei vuoti, abbia creato spazi negativi. Simeti, al contrario, costruisce spazi positivi. MpM: In che modo? CH: Se lei osserva il retro di una tela, si vede chiaramente. Le forme geometriche che premono da dietro contro la superficie della tela, spezzandone la calma, le danno tridimensionalità. Distruggono la piattezza e l’immobilità della superficie esasperata dalla monocromia, trasformandola in scultura che risponde all’ambiente, alle variazioni di luce, alle dimensioni degli spazi, agli angoli e alle rientranze delle pareti. Sono lavori che aggettano in possibilità infinite. MpM: Sembra che creino una presenza... CH: Assolutamente. È una presenza data sia dall’elemento nascosto (le piccole forme geometriche che l’artista crea in legno con le proprie mani) sia dall’ambiente che interagisce sulla tela. Simeti non si definisce creatore di tele, ma di sculture da parete. MpM: Avete esposto 50 anni della sua ricerca. Com’è stato collaborare con lui? CH: Un piacere. Non so se dipenda dal fatto che sia siciliano, ma è stata veramente un’esperienza calma, rilassante. Ci ha invitato nel suo studio, in Sicilia. Sua moglie ha cucinato per noi, lui ci ha dato carta bianca sui lavori da prendere in consegna. Ed è stato fondamentale per dare un’idea della sua ricerca avere la possibilità di esporre – come dice lei – 50 anni di una carriera.


La Nuova Pittura italiana di Giulia Bucci

Direzioni

Claudio Olivieri, Diagonale-spazio, 1970, olio su tela, cm 170x250, collezione dell’artista.

Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso si è diffusa in pittura una corrente di tipo riflessivo e critico, che intendeva mettere in discussione i fondamenti dell’atto del dipingere allo scopo di rifondare il linguaggio pittorico. A questa corrente si sono accostati artisti italiani, ma anche europei e americani, decisi a reagire ai dettami dell’arte concettuale, la quale, proponendo il definitivo abbandono di ogni finzione rappresentativa, considerava il mezzo della pittura ormai superato. Come in gran parte degli altri paesi, dove raramente si sono costituiti insiemi di artisti dalla poetica ben definita (ad eccezione della Francia, dove hanno preso corpo i gruppi BMPT e Supports/Surfaces), in Italia si è creata una situazione incerta e disomogenea. Fra gli artisti che hanno partecipato in modo più continuativo all’esperienza della pittura riflessiva italiana vanno ricordati Carlo Battaglia, Enzo Cacciola, Paolo Cotani, Marco Gastini, Giorgio Griffa, Riccardo Guarneri, Carmengloria Morales, Claudio Olivieri, Pino Pinelli, Lucio Pozzi, Claudio Verna e Gianfranco Zappettini: questi pittori non si sono mai riuniti in un gruppo vero e proprio, ma sono rimasti indipendenti l’uno dall’altro, orgogliosi della loro individualità. D’altra parte, critici e galleristi non hanno contribuito a fare chiarezza, ideando di volta in volta, di mostra in mostra, epiteti mai definitivi, tra cui “nuova pittura”, “pittura analitica”, “pittura pittura”, “fare pittura”, “astrazione analitica”, “pittura riflessiva”, “pittura pura”, “pittura radicale” e altri. Tuttavia, fra questi termini, che spesso sono stati usati indiscriminatamente uno al posto dell’altro, esistono delle differenze di significato più o meno rilevanti. Se la dicitura “nuova pittura” si adatta alla definizione dell’intero insieme di artisti di area italiana, dato che comprende tutti i sottogruppi di pittori e che possiede un significato

Paolo Cotani, A lenta percezione, 1973, acrilico su tela, cm 100x100, Brescia, Lagorio Arte Contemporanea.

ormai storicizzato (il termine fu impiegato negli anni Settanta per indicare una pittura nuova rispetto a quella del periodo pre-concettuale), la sigla “pittura pittura” si può ricondurre alla definizione di un filone distinto all’interno del panorama italiano, più “pittoricistico”, che propone una variante più calda e cromaticamente più intensa, mentre la locuzione “pittura analitica” fa invece esclusivamente riferimento a un sottogruppo di artisti (italiani e europei) uniti dalla riflessione su di un limitato numero di problemi riguardanti il linguaggio pittorico. In un contributo del 1974, l’artista Gianfranco Zappettini distingueva la “pittura analitica” dalla “nuova pittura”, definendo la seconda come una pratica che supera lo stadio iniziale della prima e che scompone e analizza i mezzi e gli elementi pittorici, allo scopo di ricreare, tramite essi, un linguaggio nuovo, autonomo e assolutamente intransitivo, che non rimanda ad alcunché di esterno.

Giorgio Griffa, Linee orizzontali, 1969, acrilico su tela, cm 27x45, collezione dell’artista.

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Curon e Stramentizzo in Trentino di Giuseppe Damone

Ci sono luoghi silenziosi dove il tempo sembra essersi fermato; centri muti, testimoni di un passato ormai dimenticato dall’uomo. Alcuni li chiamano ghost towns, altri città fantasma, ma qualunque sia il nome con cui vogliamo appellarle, tante sono queste realtà dal nord al sud della penisola italiana. Si tratta di centri dove a seguito di eventi calamitosi, o per ragioni antropiche, la popolazione si sposta in altro sito, lasciando alla lenta rovina quelle che un tempo erano ridenti realtà. E così la vegetazione riconquista i suoi spazi e ricopre ogni traccia dell’uomo in quel sito, cristallizzando il tutto negli attimi dell’abbandono. Esistono due centri di cui oggi si conserva solo il toponimo; completamente sommersi dalle acque, oggi giacciono sul fondo di un invaso e la loro memoria è destinata a scolorirsi nel tempo. Sono i piccoli centri di Curon Vecchia, in provincia di Bolzano, e di Stramentizzo, in provincia di Trento. È il 1939 quando è affidato alla Società Montecatini l’incarico di realizzare un bacino artificiale per la produzione di energia elettrica. Con il Secondo Conflitto Mondiale il progetto è sospeso, ma basterà attendere il 1947 per la ripresa dei lavori di costruzione della diga, che è completata nel 1950. E, così, l’acqua ricopre il piccolo centro di Curon Vecchia. A nulla valsero le proteste della popolazione che, capeggiata

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dal parroco, cercava in tutti i modi di ostacolare la costruzione dell’invaso, che avrebbe cancellato le loro case, la loro chiesa, la loro storia. Nell’indifferenza dei più il livello dell’acqua aumenta, copre ogni cosa, tranne il campanile della trecentesca chiesa che, ancora oggi, in uno scenario da cartolina, svetta dalle acque blu del lago a testimonianza che lì sotto un tempo c’era la vita di un piccolo centro. La popolazione si trasferisce più a monte e ricostruisce, in altro sito, la vita di una realtà: nasce così Curon Venosta. La stessa sorte è toccata al centro di Stramentizzo. Anche qui si decide nel 1956 di costruire un lago artificiale per raccogliere le acque del torrente Avisio e, anche in questo caso, l’operazione è finalizzata alla produzione di energia elettrica. Il 5 luglio 1956 il lago artificiale sommerge il piccolo centro e la popolazione si trasferisce più a monte dove ricostruisce un piccolo paese. Ma se nel lago Curon è possibile vedere, come detto, il campanile della chiesa dell’omonimo centro, il lago di Stramentizzo ha cancellato tutte le tracce di quella realtà urbana, di cui rimangono solo ricordi ingialliti dal tempo. Di quello che fu il primo paese si conserva solo l’antico portale in pietra della chiesa dei Santi Angeli Custodi che, staccato dalla prima chiesa, è riutilizzato nella nuova, ricostruita, insieme all’intero abitato, più a monte.


Sipari In La voce a te dovuta, le poesie d’amore di Pedro Salinas incontrano la musica di Pino Forastiere, chitarrista di fama internazionale. A dar voce al testo poetico è l’attore e regista Enrico Frattaroli. L’esito di questa commistione è interessante e originale. Nello spettacolo, in effetti, la musica non è un semplice sottofondo, come potrebbe accadere in un reading letterario, bensì è protagonista accanto alla poesia. L’opera si configura dunque come melologo, un poetare in musica, dove melos e logos trovano nel tema dell’amore uno spazio semantico comune. Ma veniamo allo spettacolo. La scena è quasi spoglia; gli artisti si intravedono appena, le luci sono basse, lo sfondo è nero, sul pavimento molti fogli bianchi sono sparsi alla rinfusa. Poi una voce rompe il silenzio; note e versi guadagnano il centro della scena, e subito lo spettacolo raggiunge una forte tensione emotiva. Musica e poesia vibrano all’unisono; anche quando una delle due tace, il dialogo non si interrompe, pause e silenzi sono parti essenziali di un discorso che procede alla ricerca dell’essenza dell’amore. Del suo irrivelabile mistero, di quel luogo ulteriore e segreto che rimane inaccessibile. È l’amore oltre l’oggetto amato il fine di questo poetare in musica, quell’idea che conduce all’altro e a se stessi, che porta altrove e insieme a casa, alla scoperta del mondo e alla ricerca di sé. Forastiere e Frattaroli coniugano note e parole con abilità magistrale, tessono un discorso struggente,

La voce a te dovuta di Mariarosa Sammartino che trabocca di senso, un discorso sull’amore e sul suo oggetto, che non si identifica con una passione o un sentimento, ma piuttosto con un desiderio, anzi con il “desiderio”. Anche quando il sipario è calato, la musica è finita e la voce tace, il desiderio resta. Si perpetua nell’arte, nella conoscenza, nella vita, e così muove la storia. Pino Forastiere si è diplomato in chitarra classica al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma nel 1992. È passato alla chitarra acustica nel 1996. Dal 2003 al 2010 ha pubblicato tre album, Rag Tap Boom (2003), Circolare (2005) e Why Not? (2008). Insieme ai chitarristi Sergio Altamura e Stefano Barone, fa parte del trio Guitar Republic. Il suo ultimo album, From 1 to 8, è del 2011. Di Forastiere ci piace ricordare anche le sue origini: è nato a Latronico, in provincia di Potenza. Enrico Frattaroli è attore e regista indipendente impegnato nello studio di autori antichi e moderni come Sofocle e Joyce. È autore di diversi saggi di critica letteraria, di opere teatrali quali Hybris (2011) e Sade, opus contra naturam (2007), nonché di opere visive, tra le quali ricordiamo i suoi libri gualciti. È da anni impegnato in seminari sui temi della letteratura contemporanea. Con lo spettacolo La voce a te dovuta, i due artisti si sono esibiti presso il “Teatroinscatola”, a Roma, dal 6 all’11 novembre.

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Diabolik compie 50 anni di Maria Rosaria Compagnone

La storia di Diabolik coincide con quella di due sorelle della buona borghesia milanese, Angela e Luciana Giussani, che ebbero il coraggio e la volontà di credere nel loro progetto anche quando, negli anni difficili in cui lo attuarono, si trovarono contro critiche e accuse. Due signore geniali e creative che non inventarono solo il personaggio ormai entrato nell’immaginario collettivo degli italiani, ma anche un modo di fare fumetto. Se le due sorelle sono passate alla storia per aver dato vita al primo eroe nero del fumetto italiano, oggi ci accorgiamo che hanno fatto molto di più: hanno inserito il loro personaggio in una realtà “italiana”, quando quasi tutti gli altri fumetti erano ambientati in un contesto americaneggiante. Il primo numero di Diabolik, Il re del terrore, arriva in edicola nel novembre del 1962, edito dalla quasi allora sconosciuta casa editrice Astorina, fondata proprio da Angela Giussani La leggenda vuole che un giorno Angela avesse trovato in treno un libro tascabile di un feuilleton fran-

Diabolik © Astorina Srl

cese a cui mancava la copertina e alcune pagine. La signora si entusiasmò talmente per quella lettura che aveva reso il suo viaggio così piacevole, che decise di creare per il mondo del fumetto un personaggio che avesse le stesse caratteristiche del noir. L’idea divenne così un progetto editoriale: un albo destinato a un pubblico adulto. Non era il primo cattivo della storia, ma era il primo cattivo vincente che portava a termine i suoi colpi facendosi beffe della polizia. Poiché i fumetti erano rivolti in quel periodo solo ai ragazzi, la pubblicazione di Diabolik fece scandalo: magistrati, preti, insegnanti accusarono le sorelle Giussani di corrompere i giovani e incitarli a delinquere. I lettori di tutte le età, però, si precipitarono in edicola e leggendolo alla luce del sole o di nascosto ne decretarono il successo. Già nel primo numero la personalità di Diabolik appare perfettamente delineata: un ladro di un’abilità e un’ingegnosità fuori dal comune. Il suo antagonista è l’ispettore Ginko, poliziotto integerrimo, che a partire da quel momento dedicherà la sua vita a dare la caccia al famigerato ladro. Per la prima volta il protagonista è un criminale non privo, però, di alcuni principi etici. Il secondo colpo di genio delle sorelle

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è stato affiancare a Diabolik una donna sin dal terzo numero: Eva Kant. Bionda, bellissima, occhi verdi, Eva è una donna intuitiva e affascinante che solo due donne di tale spessore potevano creare. Vedova di Lord Kant, ambasciatore del Sudafrica morto in circostanze misteriose, Eva dal suo primo incontro con Diabolik dichiara di essere una donna pericolosa con trascorsi di avventuriera e spia industriale. Dimostra immediatamente una freddezza e una determinazione pari a quelle di Diabolik, insieme a una sensualità raffinata e misteriosa. Con il tempo riesce a costruire con Diabolik un rapporto saldo, basato

sulla condivisione dello stesso stile di vita. Ginko invece appare subito, fin dal primo episodio. Leale e coraggioso, riconosce nel suo eterno nemico pari intelligenza e onestà morale. Se le prime storie furono scritte solo da Angela, a partire dal numero 14 anche Luciana fu coinvolta ufficialmente nella realizzazione dei testi: le sorelle avevano formato un formidabile sodalizio e si dedicheranno alla loro creazione per tutta la vita lasciando un personaggio che a distanza di cinquant’anni dalla nascita continua a godere di un enorme successo.

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agendART a cura di Francesco Mastrorizzi

Milano Alighiero e Boetti

Bologna Paolo Gotti. Visions

Bari Riccardo Tota. Le seduzioni della pittura

Fino al 22 marzo 2013 Milano, Studio Giangaleazzo Visconti Info: www.studiovisconti.net

Fino al 28 febbraio 2013 Bologna, ACF Trading Info: www.paologotti.com

Fino al 30 aprile 2013 Bari, Pinacoteca Provinciale “C. Giaquinto” Info: www.provincia.ba.it

Lo Studio Giangaleazzo Visconti di Milano ospita una personale di Alighiero Boetti (Torino, 1940 - Roma, 1994), uno degli artisti italiani più influenti del secondo dopoguerra, che è stato recentemente celebrato da un’importante retrospettiva tenuta al Reina Sofia di Madrid, alla Tate Modern di Londra e al MoMA di New York. L’esposizione presenta 36 opere realizzate negli ultimi trent’anni di attività, nelle quali il tratto, il disegno e il colore sono diventati la materia essenziale della sua ricerca e che spaziano tra una pluralità di tecniche e di materiali. Si va dai disegni ai ricami, dai collage alle matite su carta, dai lavori postali alle biro, dai grandi acquarelli del Cielo agli arazzi che Boetti faceva realizzare in Afghanistan, ricchi di colori e di frasi che sceglieva personalmente, per poi farle ricamare. L’ecletticità dell’artista è evidente dall’appellativo col quale era solito firmare le sue creazioni, Alighiero e Boetti – da cui il titolo della mostra – che anticipava, a distanza di anni, il dibattito tra identità e alterità.

In esposizione negli spazi dello showroom ACF Trading di Bologna gli scatti del fotografo bolognese Paolo Gotti, fin dagli anni Settanta attento interprete di forme e colori e maestro della composizione di equilibri e simmetrie di una fotografia di viaggio pensata e studiata meticolosamente. Istantanee realizzate fuori dal tempo e dallo spazio, le “visioni” di Gotti rivelano un’intensità emotiva paragonabili a quelle di un pittore iperrealista. Le macchie di colore sfumate come in un acquerello, l’esaltazione dei cromatismi, il taglio prospettico dei cieli, l’anatomia di deserti e altipiani rocciosi sottolineano la valenza pittorica e astratta degli elementi. Il monumentale repertorio fotografico di Gotti, che conta oltre 10.000 fotografie scattate in ogni parte del mondo, dalla Colombia al Madagascar, dall’India ad Haiti passando, solo per citare alcuni paesi, per Yemen, Islanda, Bolivia, Australia e Cina, contempla anche realtà urbane – e pertanto umane – che attraverso il suo obbiettivo si fanno a loro volta paesaggio.

Le seduzioni della pittura. Riccardo Tota (1899-1998) tra Andria, Roma e Napoli, presso la Pinacoteca Provinciale di Bari, è una grande mostra dedicata al pittore Riccardo Tota, promossa dalla Provincia di Bari col contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia. Si tratta di un’occasione unica per ammirare una vasta selezione (124 fra dipinti e disegni), per lo più inedita, della produzione di questo pittore dall’eccezionale talento, ma assai poco conosciuto e studiato. Tota fu dedito soprattutto alla ritrattistica, come dimostra la ricca galleria di personaggi in cui egli rivela una straordinaria forza introspettiva, ma fu anche valente paesaggista. Il percorso espositivo tiene conto sia dello sviluppo cronologico che di quello tematico dell’attività del Tota, dalla fine del secondo decennio del Novecento sino agli anni Settanta, che viene illustrata attraverso dipinti provenienti da collezioni private napoletane e pugliesi (prima fra tutte quelle del figlio dell’artista, Bruno Tota), ai quali si aggiungono opere di proprietà pubblica.




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