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ENRICO GIACOVELLI

C’ERA UNA VOLTA LA

La storia, i luoghi, gli autori, gli attori, i film


C’era una volta

LA COMMEDIA ALL’ITALIANA



Enrico Giacovelli

C’era una volta

LA COMMEDIA ALL’ITALIANA La storia, i luoghi, gli autori, gli attori, i film


L’autore desidera ringraziare: Emanuele Guino, per i suoi preziosi suggerimenti e segnalazioni; Gianni Longo, per aver tanto creduto in una nuova edizione di questo libro. E Gianni Gremese, che 25 anni fa ebbe il coraggio di pubblicare il primo libro di un giovane appena uscito dall’università e senza tessere politiche, amicizie di palazzo e raccomandazioni. Quel libro si intitolava La commedia all’italiana...

Copertina: Patrizia Marrocco Crediti fotografici: La gran parte delle immagini è tratta da fotogrammi delle pellicole citate. Quanto alle altre foto che compaiono in questo volume destinato alla scuola e all’università, per quanto possibile l’Editore ha cercato di risalire al nome del loro autore, ma le ricerche si sono purtroppo rivelate infruttuose. Nel chiedere dunque scusa per qualunque omissione, l’Editore si dichiara disposto sin d’ora a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Copyright di questa edizione intergralmente riveduta e corretta: 2015 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-916-4


INTRODUZIONE La verità è quello che si ha paura di dire. Cesare Zavattini, La veritàaaa

Che cosa è la commedia All’inizio di questo libro c’è un uomo che cammina in una strada del centro. A un certo punto inciampa e cade. Quali saranno le reazioni sue e del pubblico? Intanto bisogna conoscere o perlomeno supporre qualcosa di più sul suo conto. Perché c’è uomo e uomo, e come ormai tutti sappiamo non tutti gli uomini sono uguali. a) Prima ipotesi. L’uomo è anziano e solo, alle spalle una vita di stenti e dolori come l’Umberto D. del capolavoro neorealista di De Sica. È caduto perché è vecchio, perché ha fame, perché la società in cui vive non gli ha fornito quel che gli occorreva per vivere. Qualche passante si ferma, lo soccorre; ma l’uomo non si rialza, dev’essere morto. Udiamo una musica triste in lontananza, qualcuno nelle ultime file piange: molti spettatori sono rimasti colpiti, rattristati, disposti forse a fare la carità – una volta usciti dal cinema – al primo mendicante che incontrano. Questa è una scena da film drammatico. b) Seconda ipotesi. L’uomo che cade è un signore elegantissimo, altezzoso, giovane o al massimo di mezza età, probabilmente un brillante avvocato o un cavaliere del lavoro. Ha inciampato su una di quelle bucce di banana che in certi film e in certe città sembrano parte integrante della pavimentazione stradale; e ruzzola sul marciapiede andando a dare una capocciata contro uno steccato. Lo steccato si abbatte su un’automobile ferma al semaforo, con grande disappunto del proprietario; mentre un ragazzino, distratto dalla scena, rovina addosso al signore appena caduto e gli spiaccica il gelato sui pantaloni. Il signore elegantissimo, che stava recandosi a un appuntamento d’affari, non si è fatto niente; ma come farà adesso a presentarsi all’appuntamento, lui che è sempre così curato nel vestire, così pieno di sussiego? Gli spettatori ridono di gusto, compresi quelli eleganti, giovani e altezzosi (che in questo momento, anzi, restano eleganti e giovani ma sembrano un po’ meno altezzosi); e riderebbero ancora di più se altri personaggi partecipassero alla baraonda, se il signore fosse magari costretto a togliersi i pantaloni e andare in giro per la città in mutande. Questa, chiaramente, è una scena da film comico. c) Terza ipotesi. L’uomo che cade è un uomo qualunque, normale, medio. «A momenti cadevo» borbotta, rialzandosi a fatica, e riprende a camminare con il sorriso storto, zoppicando un poco. Lo spettatore ride, ma senza sganasciarsi: perché comunque un incidente del genere poteva capitare anche a lui; e perché il poveretto dopotutto sta zoppicando, com’è naturale per uno che sia appena caduto, e probabilmente passerà qualche guaio visto che andava di fretta ed era già in ritardo. Questa, tutto sommato, è una scena da commedia. Non è facile delimitare con esattezza e chiarezza assolute una commedia cinematografica; ma l’uomo che cade può venirci in aiuto: la commedia è una via di mezzo, quella in cui secondo Aristotele sta la virtù. È qualcosa che fa quasi piangere e che preoccupa, ma solo per un attimo; e che fa ridere, ma non troppo, invitandoci in ogni caso a riflettere. Sicché, per definirla, occorre distinguerla sia dal film drammatico che dal film comico puro, quello che gli americani definiscono “slapstick comedy”. Come distinguere una commedia da un film drammatico? Semplice, forse ci riuscirebbero perfino i sottilissimi teorici che all’inizio del ventesimo secolo

All’inizio di questo libro, e della commedia all’italiana, c’è un uomo che cammina per strada... (Vittorio Gassman con Carlo Pisacane: I soliti ignoti, 1958).


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LA COMMEDIA ALL’ITALIANA

scrivevano libri su libri per spiegare alla gente ignara che c’è qualche lieve differenza tra cinema e teatro. Una commedia è un film in cui gli elementi comicoumoristici prevalgono su quelli drammatici. Ma ciò non esclude che nei film drammatici vi possano essere scene di commedia e che nelle commedie, specialmente in quelle “all’italiana”, vi possano essere elementi drammatici. Prendiamo Roma città aperta, film universalmente considerato iniziatore del neoreaL’ultimo duello di Brancaleone con la Morte: Brancaleone alle crociate, 1970. lismo: a un certo punto, poco prima della tragica morte della Magnani, il sacerdote Aldo Fabrizi dà una padellata in testa al vecchio malato che non ne vuol sapere di fingersi morto. È una scena esilarante, ma non per questo Roma città aperta viene considerato una commedia, infatti di lì a poco vedremo che vi prevarranno nettamente gli elementi drammatici. Viceversa Il sorpasso è considerato da tutti una commedia, ma si conclude tragicamente, addirittura con la morte di uno dei protagonisti. Il finale drammatico non toglie però che nel corso del film gli elementi umoristici e satirici sopravanzino a tal punto quelli drammatici da lasciare a tutti, pur con l’amaro in bocca, l’impressione di aver visto una commedia. Naturalmente si parla di prevalenza, non di supremazia assoluta; e questa prevalenza è spesso un fattore squisitamente soggettivo, come il verdetto ai punti dopo certi incontri di pugilato. Ecco perché film come Un borghese piccolo piccolo o L’ingorgo vengono definiti talvolta commedie, talvolta film drammatici. Come vedremo, sarà tipico della commedia all’italiana annullare sempre più la distanza tra comico e tragico. E in effetti, anche a teatro, il solco tra i due generi si è andato nei secoli sempre più assottigliando, fin quasi a scomparire: non c’è alcuna difficoltà a definire tragedie le opere di Sofocle e commedie quelle di Aristofane; ma come definire i lavori teatrali di Čechov, Shaw, Pirandello, Ionesco, Beckett? Ancora più difficile distinguere la commedia dal film comico puro, ossia dalla “slapstick comedy” o “farce comedy” degli americani, che con qualche approssimazione e arrotondamento può essere sintetizzata nel termine italiano “farsa”. In generale potremmo dire che caratterizzano la commedia il maggior realismo complessivo, la verosimiglianza delle vicende, il rispetto pressoché assoluto delle leggi fisiche e naturalistiche: insomma, il rifiuto di ogni eccesso. Il cinema comico puro, quello di Mack Sennett o di Charlie Chaplin, di Ridolini o dei Monty Python, non è tenuto a rispettare le leggi della fisica e della logica. I personaggi delle “slapstick comedies” sopravvivono regolarmente, senza neppure un graffio, alle cadute dal ventesimo piano di un palazzo e ai più folli inseguimenti aereo-automobilistici. Lo stesso Charlot non rimane smembrato, se non metaforicamente, dagli infernali ingranaggi di Tempi moderni, ed esce da quell’intrico di viti, bulloni e lamiere come i ragazzini dai tunnel dei luna-park. Dietro l’apparenza di poveri disgraziati, i personaggi di questi film sono in realtà dotati di superpoteri, la loro razza è quella che genererà la stirpe eroica e invulnerabile dei Superman o quella scalognata ma irriducibile dei Wile E. Coyote. Al contrario i personaggi della commedia brillano non per eccesso ma per difetto di qualità: sono deboli d’occhio (non si accorgono dei travestimenti piuttosto sommari dei loro antagonisti), duri d’orecchio (si pensi agli “a parte”, ai “tra sé”), quasi completamente privi di olfatto e di gusto (se si baciano al buio possono benissimo sbagliare compagno o compagna, con grande scorno dei censori). Basta un pestone sull’alluce per farli gridare come se stessero per essere sgozzati, dunque si può immaginare che cosa succederebbe se precipitassero anche soltanto da un piano rialzato. Sono nostri parenti per debolezza e fragilità, hanno i nostri stessi limiti, talora perfino qualcuno di più. Tutto ciò che capita loro potrebbe capitare – forse è capitato, forse capiterà – anche a noi; e le loro avventure e disavventure potranno sembrare incredibili, ma non sono mai impossibili. In Italia la “slapstick comedy” all’americana, perlomeno quella più clamorosa degli inseguimenti automobilistici e degli eroi dai superpoteri, è sempre rimasta un genere marginale, anche perché richiedeva una notevole abbondanza di mezzi e finiva sempre per ricevere gli sberleffi – non proprio divertenti – dei critici. Ma in una versione basata più sulle parole che sulle immagini trovò una serie di esponenti di grande valore: soprattutto Totò, ma anche Erminio Macario, Peppino De Filippo, Renato Rascel, e negli anni Sessanta – a un livello più popolare e regionale – Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Proprio i film più liberi e divertenti di Totò possono testimoniare quale sia, anche nel cinema italiano, la differenza tra farsa e commedia. Il personaggio-Totò, i cui superpoteri appaiono un incrocio tra quelli di un Superman e quelli di un Wile E. Coyote, può uscire vincitore da una corrida (pur senza essere un torero: Fifa e arena) o da un duello con l’invincibile Maciste (Totò contro Maciste), può sgominare da solo intere bande di malviventi (Totò le Mokò), può


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stringere patti con il diavolo (Totò al Giro d’Italia) o addirittura visitare i suoi possedimenti ultraterreni (Totò all’inferno), può seguire a piedi il proprio funerale (Totò e i re di Roma), può sbarcare sulla luna dieci anni prima di Armstrong e compagni (Totò nella luna). Ignora beatamente le leggi della natura e della società; e quand’anche le conosca, non le rispetta, non le tiene minimamente in considerazione. Perfino nei film dove non accadono fatti inverosimili le sue azioni e reazioni, il suo eloquio travolgente, il suo stesso personaggio-marionetta, si pongono in netto contrasto con qualunque ipotesi di realismo. Pensate alla celebre sequenza del vagone-letto (Totò a colori) in cui Totò riduce sull’orlo dell’esaurimento nervoso un compìto onorevole. Nella realtà l’onorevole lo prenderebbe a ceffoni e lo farebbe arrestare. Ma Totò è Totò, non lo si può arrestare, come non si potrebbero arrestare Topolino o Zorro, Superman o l’Uomo Invisibile. I suoi film più tipici restano sostanzialmente farse, anche se spesso farse geniali, com’erano quelle di Plauto o quelle in musica di Rossini e Donizetti. Non sono invece farse, ma commedie, i film dei vari Gassman, Manfredi, Sordi, Tognazzi: non vi accade nulla che non possa accadere nella realtà, e i loro personaggi vivono una vita che è specchio fedele della nostra, con i suoi limiti, i suoi sogni impossibili, le sue porte sbarrate. Sono uomini: sopravvivono alle illusioni perdute, agli amori finiti, alle tasse spietate, ma non sopravvivrebbero alla caduta dal tetto di un grattacielo. Ecco dunque individuata la commedia: arte della misura e della moderazione, del possibile e dell’umano. «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» scriveva Terenzio, uno dei padri della commedia moderna: sono un uomo, e nulla mi è estraneo di quanto accade agli uomini.

Che cosa è la commedia all’italiana Ricordate l’uomo del paragrafo precedente? È anche possibile che cada, come nella terza ipotesi, esclamando «a momenti cadevo», e che tuttavia la gente quasi lo calpesti tanto è presa dalla propria fretta e indifferenza. L’uomo magari si rialza, traballante e un po’ pesto, e borbotta fra sé, o rivolto alla macchina da presa: «Bella società: qui, se cadi, ti calpestano subito». Poi si allontana, ammaccato più moralmente che fisicamente, in mezzo alla folla impassibile. Lo spettatore sulle prime ha riso di gusto («a momenti cadevo»), ma adesso sente il riso bloccarsi in gola. Sa di essere stato chiamato in causa, di essere al tempo stesso l’uomo calpestato e la gente che lo ha calpestato; sa di aver visto una verità messa in commedia. Questa è una scena comica, ma anche drammatica: è una scena da commedia all’italiana. Esaminandola meglio, noteremo alcuni elementi: 1) da principio l’episodio dell’uomo che cade può sembrare soltanto comico, ma poco per volta assume connotati drammatici; 2) quella che di per sé potrebbe essere una normale scena

Finale di film e inizio di matrimonio: Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli e un piede di terzo incomodo (Divorzio all’italiana, 1961).


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di commedia viene capovolta dal contesto e acquista un significato che va al di là del semplice divertimento; 3) la condizione del protagonista non viene presa come un fatto squisitamente personale ma diventa l’occasione per delineare una situazione più generale, il cui elemento chiave è l’opposizione tra individuo e società. 1. A caratterizzare la commedia all’italiana e a distinguerla dalla commedia tradizionale è dunque, per prima cosa, la presenza di elementi drammatici. Naturalmente non ce ne devono essere troppi, altrimenti non si tratterebbe più di commedia, bensì appunto di film drammatico; ma ce ne sono comunque più che in una normale commedia. È una presenza frequente, ad esempio, la morte, totalmente ignota alla commedia tradizionale. In alcune commedie all’italiana tra le più celebri e significative, da La grande guerra a Il sorpasso, da Divorzio all’italiana a Dramma della gelosia, la morte è in scena, rappresentata anzi in modo crudo, realistico, senza veli, senza consolazioni. Al punto che nelle ultime sequenze di Brancaleone alle crociate è la Morte in persona che rapisce, falce alla mano, tutti i personaggi tranne uno. Di conseguenza viene meno anche l’altra grande e riposante certezza della commedia di tutti i tempi e luoghi: il lieto fine. Nella commedia all’italiana può considerarsi lieto, al massimo, qualche finale che proprio lietissimo non è, come quello di Una vita difficile, con lo schiaffo di Sordi al proprio padrone: finale lieto da un punto di vista ideologico, ma non altrettanto da un punto di vista narrativo (nella migliore delle ipotesi Sordi verrà licenziato). Viceversa i finali apparentemente lieti di altre commedie all’italiana si possono considerare tali da un punto di vista superficiale, ma soltanto a patto di scordare come vi si è arrivati e quanto veleno vi si nasconde tra le pieghe. Prendiamo quello di Divorzio all’italiana: Mastroianni è finalmente riuscito a sbarazzarsi della moglie e ad impalmare la ragazza dei sogni, il fiore di purezza. Ma in realtà si ritrova sulla coscienza un doppio delitto, che soltanto un’assurda arretratezza di leggi e mentalità ha reso quasi legittimo. E il fiore di purezza, che poi è Stefania Sandrelli, già si appresta a tradirlo con il primo venuto: l’ultima sequenza inizia tenera e idillica, ma viene contraddetta e capovolta dall’ultima inquadratura, dove la ragazza accetta il bacio appassionato del marito e intanto fa piedino a un altro uomo (dopo il divorzio, ecco il matrimonio all’italiana...). 2. Il lieto fine solo apparentemente lieto, suscettibile oltretutto di inattese correzioni di campo e di ideologia, è un esempio di come tutti i meccanismi della commedia tradizionale siano presenti nella commedia all’italiana ma vi finiscano perlopiù capovolti. La stessa cosa accade agli equivoci, ai travestimenti, alle agnizioni. Quando nel finale di C’eravamo tanto amati Manfredi rivede l’amico Gassman dopo venticinque anni e lo crede un posteggiatore che vive di mance e piccoli espedienti, l’equivoco in sé (dovuto al fatto che Gassman è sceso dalla propria Jaguar per spostare una Seicento che le impediva di uscire) è ancora da commedia tradizionale, e come tale si protrae per varie sequenze portando infine a un travestimento e alla conseguente, inevitabile agnizione. Tuttavia, in rapporto alle vicende precedenti del film, questi meccanismi non soltanto non sono comici ma risultano fortemente drammatici; e chiamano in causa, piuttosto che le bizzarrie degli uomini o i divertimenti del Caso, le contraddizioni di un sistema sociale che permette la fortuna degli arrivisti e irride la buona fede degli idealisti («che chiavica de società» mugugna Manfredi, e il bello è che lo dice quando crede che Gassman sia rimasto un povero diavolo come lui; mentre la frase appare tanto più dolente e vera per noi che sappiamo cosa è diventato l’ex-partigiano). Difatti l’agnizione finale sarà gelida e amara, oltretutto indiretta, come a prendere le distanze dall’essenza del meccanismo e a rifiutarne le possibili implicazioni comiche. Còmpito dell’equivoco non è più risolvere determinate situazioni sociali, ma metterne in luce le contraddizioni: esattamente come quelle immagini che tanto spesso nelle commedie all’italiana smentiscono le parole, come quei “fra sé” con cui i personaggi sordiani ci fanno sapere, sottovoce, quello che pensano e che non possono proclamare pubblicamente. Né manca agli autori, e agli stessi personaggi, la coscienza di questo distacco dalle commedie hollywoodiane. In una breve sequenza del Successo Gassman è in casa, a notte inoltrata, e non riuscendo a prendere sonno va in cucina e apre il frigorifero in cerca di leccornie. È un luogo comune di tante commedie americane specialmente degli anni Cinquanta e Sessanta. Il fatto è che a Hollywood, in questi frigoriferi aperti con noncuranza nel cuore «Che chiavica de società!»: agnizione con inganno, tanti anni dopo (Vittorio Gassman e Nino della notte, si trova ogni ben Manfredi in C’eravamo tanto amati, 1974).


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Una classica situazione di commedia tradotta in chiave di commedia all’italiana: Vittorio Gassman e Nino Manfredi cercano di sfuggirsi l’un l’altro (Il gaucho, 1964).

di Dio, neanche i padroni di casa avessero appena svaligiato un supermercato. Nel frigorifero del Successo, invece, Gassman trova soltanto qualche avanzo, nemmeno commestibile. «Nei film americani c’è sempre la coscia di pollo – borbotta fra sé, – a casa mia mezzo limone mummificato». E se ne torna a letto indignato pensando a quanto sarebbe meglio se la vita fosse una commedia hollywoodiana anziché una commedia all’italiana. Ma la vita è una commedia all’italiana, e non solo in Italia. 3. È abitudine dei personaggi della commedia all’italiana fare di ogni erba un fascio, ossia di ogni caso personale una questione universale. L’uomo del nostro esempio, quasi calpestato dalla folla, non si limita a dire: «Ahi, mi hanno calpestato». Dice: «Qui, se cadi, ti calpestano subito». Generalizza, ha già fatto del proprio caso una regola, della propria esperienza una massima, qualificandosi immediatamente come forza individuale contrapposta alla forza di massa della società. Ecco il tema-guida, il chiodo fisso di questa commedia dai continui agganci con la realtà contemporanea: la solitudine dell’individuo nella società dei consumi alle soglie del Duemila. La commedia all’italiana sta tutta in questo contrasto, narrativo ma anche figurativo, tra un “solo” (l’individuo) e un “tutti” (la società). Il contrasto è continuo, inevitabile, senza soluzione, come quelli tra Wile E. Coyote e Beep Beep, tra Silvestro e Titti, e si svolge sempre e dappertutto, ma di preferenza in determinati luoghi e situazioni: la spiaggia, l’automobile, la festa, da ultimo magari anche il funerale. La società dei consumi tenta in ogni modo di catturare l’individuo, di annetterselo, di portargli via la sua principale ricchezza, che è l’individualità. E l’individuo? Talora cede alle lusinghe, talora vi sfugge. Spesso, per salvarsi, l’unica via è la morte; ma anche dopo la morte l’opposizione può continuare: come nel finale della Grande guerra, dove i corpi dei due antieroi Gassman e Sordi, appena fucilati, giacciono solitari accanto al muro di una cascina, nella purezza liliale della camicia bianca; mentre gli altri soldati corrono trionfanti, a comando, tutti uguali nelle loro brutte uniformi sporche fuori e sporche dentro, ignorando completamente i due poveretti e quasi calpestandoli come se fossero l’uomo del nostro esempio. Va infine aggiunto, per capire fino in fondo che cosa sia una commedia all’italiana propriamente detta, che ci siamo anche noi spettatori a guardare l’uomo che cade; e una serie di scrittori e registi a riprenderlo e raccontarlo. Non è più il tempo dell’oggettività neorealista, che ogni tanto rischiava di sconfinare nel disinteresse. Gli autori della commedia all’italiana riprendono l’uomo che cade, ma cercano anche di capire e farci capire perché quell’uomo sia caduto e soprattutto perché ci fosse quella buccia di banana sul marciapiede. Il senso del loro mestiere, del loro cinema, è ipotizzare, preparare, propagandare una società e un Paese in cui non si cada più sui marciapiedi perché nessuno li ha ripuliti dalle bucce di banana. Insomma, gli autori della commedia all’italiana volevano cambiare il mondo; volevano renderlo, come dice un personaggio di Eduardo nel Sindaco del Rione Sanità, «meno rotondo ma un po’ più quadrato». Ci sono riusciti? Sembrerebbe di no (benché un contributo a battaglie come quella sul divorzio lo abbiano comunque dato). Ma non è una buona ragione per non provarci ancora, per non provarci più.


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LA COMMEDIA ALL’ITALIANA

Commedie all’italiana e critici all’italiana In linea di massima le commedie italiane che rispondono alle caratteristiche elencate (presenza di numerosi elementi drammatici, capovolgimento dei luoghi comuni della commedia tradizionale, universalizzazione dei temi, volontà di migliorare il mondo attraverso la critica di costume) appartengono a un periodo ben definibile, che si può indicativamente racchiudere tra le due date 1958 e 1980. Il 1958 è l’anno dei Soliti ignoti di Mario Monicelli, che rinnovò il cinema comico italiano, lo sprovincializzò, gli procurò apprezzamento e notorietà internazionali. Il 1980 è l’anno della Terrazza di Ettore Scola, che chiuderà consapevolmente un’epoca e un genere, come si vede dall’esasperazione di alcuni temi e dal carattere riassuntivo nei confronti del genere stesso: una sorta di manifesto a posteriori, di passerella nostalgico-celebrativa, insomma una di quelle riflessioni critiche la cui semplice esistenza testimonia l’avvenuto esaurimento di un fenomeno artistico (l’ultima inquadratura del film è una lentissima carrellata all’indietro che prende le distanze dal genere stesso). Tra queste due date si dipana il cammino della commedia all’italiana propriamente detta, che trova un denominatore comune anche in una serie di artisti in buona parte accomunati da età, biografie, orizzonti e idee, oltre che da personali frequentazioni e amicizie: 1) attori (sopra tutti Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, ma anche Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Stefania Sandrelli, Catherine Spaak, Monica Vitti); 2) sceneggiatori (sopra tutti Age e Scarpelli, Ruggero Maccari, Rodolfo Sonego, ma anche Sergio Amidei, Benvenuti e De Bernardi, Castellano e Pipolo, Suso Cecchi D’Amico, Ennio De Concini, Tullio Pinelli, Luciano Vincenzoni); 3) registi: i maestri per eccellenza (Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola), gli altri maestri (che si dedicarono al genere in modo meno esclusivo o meno rigoroso: Luigi Comencini, Pietro Germi, Nanni Loy, Luigi Magni, Antonio Pietrangeli, Luciano Salce, Luigi Zampa), i piccoli maestri (Vittorio Caprioli, Marcello Fondato, Franco Giraldi, Ugo Gregoretti, Franco Indovina, Gian Luigi Polidoro, Franco Rossi), gli autori a cavallo tra commedia all’italiana e commedia tradizionale o tra serie A e serie B (Giorgio Capitani, Pasquale Festa Campanile, Flavio Mogherini, Gianni Puccini, Steno, Lina Wertmüller), gli eclettici (che al genere diedero un contributo importante ma non determinante per la loro carriera: Alessandro Blasetti, Mauro Bolognini, Tinto Brass, Franco Brusati, Mario Camerini, Renato Castellani, Vittorio De Sica, Marco Ferreri, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani). La carriera di quasi tutti costoro, fatta eccezione per alcuni eclettici, inizia magari prima del 1958 e si conclude magari, morte permettendo, dopo il 1980; ma trova il suo baricentro e il suo apogeo nei vent’anni o poco più compresi tra queste date, che peraltro corrispondono agli anni centrali e migliori delle loro vite. Per quante differenze di età e di percorsi ci possano essere, la generazione della commedia all’italiana è in linea di massima quella che ha vissuto la seconda guerra mondiale da giovane, gli anni del boom intorno ai quarant’anni e gli anni di piombo nella tarda maturità, per poi invecchiare e sfiorire negli ultimi due decenni del ventesimo secolo. Certamente non mancano, prima del 1958 e dopo il 1980, commedie che potrebbero considerarsi per molti versi “all’italiana”. Ma a parte il fatto che si tratta di casi più isolati e appunto casuali, lo stile di questi film non è lo stesso, non ha il tocco inconfondibile e la compatezza di quello delle maggiori commedie del periodo 1958-1980. Le commedie anteriori a I soliti ignoti possono anche essere ricche di elementi satirici e drammatici, ma risultano impregnate di neorealismo rosa, di cultura strapaesana: frutti ancora acerbi cresciuti alla rinfusa, prematuramente, sotto il sole del sud; quelle posteriori a La terrazza sono opere spesso anacronistiche, impacciate, senili, realizzate con uno stile che non ha più senso se disgiunto dalle tematiche che lo avevano modellato e condotto a maturazione: frutti ormai tardivi, staccati dai rami, anche se un certo profumo si può ancora sentire. Chiameremo dunque “commedie all’italiana” le commedie di un certo tipo, ossia con determinate caratteristiche, appartenenti al periodo 1958-1980 e agli anni immediatamente precedenti o successivi. La fine della fine: una carrellata all’indietro, al pianoforte, dalla commedia all’itaQuando invece parleremo più generi- liana e dagli anni migliori della vita (La terrazza, 1980: riconoscibili o quasi riconocamente di “commedie italiane”, ci scibili da sinistra a destra Jean-Louis Trintignant, Ugo Gregoretti, Ugo Tognazzi, riferiremo a qualunque commedia Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman).


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(comprese quelle all’italiana) realizzata in Italia dalle origini del cinema ad oggi. Mentre tralasceremo o tratteremo soltanto marginalmente e indirettamente le altre forme di cinema comico: le farse, i film-parodia, i film-rivista, le commedie musicali, le commedie erotiche, gli spaghetti-western. Non perché siano per forza inferiori, ma perché sono un’altra cosa. Occorre tuttavia, prima di andare a incominciare, un’ultima precisazione su questo “all’italiana”. Negli ultimi anni alcuni critici, uomini di cultura ed altri personaggi austeri si sono dati da fare per rimuovere dalla definizione di commedia all’italiana l’infamante preposizione che essi stessi attribuirono spregiativamente a quei film quando non li andavano nemmeno a vedere. È un ripensamento tardivo, quasi postumo, come quelli riservati in passato a Goldoni, a Petrolini, a Totò, all’arte comica in generale. Si tratta tuttavia di un ripensamento soltanto linguistico, il cui fine non è riesaminare gli atti di un processo per rivedere vecchi giudizi affrettati, ma piuttosto insabbiare ogni possibilità di appello, mettere tutto a tacere, azzerare i propri errori di valutazione. Una parte della critica, insomma, ha deciso di condonare alla commedia cinematografica italiana il vecchio epiteto, l’innocua particella; ma non per questo ha trovato il coraggio di ripudiare fino in fondo l’antico disprezzo, lo snobismo culturale di chi rifugge come peste tutto ciò che fa ridere e piace al pubblico. Enorme è tuttavia il potere del linguaggio: il fatto che la “commedia all’italiana” sia diventata per molti “commedia italiana” è bastato a far credere che il genere fosse stato finalmente apprezzato anche in Italia come già in Francia e negli Stati Uniti. E poiché il più piccolo elogio è spesso sufficiente a lusingare e portare dalla propria parte chi si era soliti oltraggiare, gli stessi autori della commedia hanno rinnegato senza pensarci due volte l’etichetta che li ha resi celebri in tutto il mondo e talvolta perfino in patria. Dino Risi, autore delle commedie più acute e graffianti degli anni Sessanta, ha proposto una definizione indubbiamente arguta, ma non proprio agile e fulminante come i suoi film: «Perché ostinarsi a dire commedia all’italiana? Quelle che vengono fatte in America non vengono chiamate all’americana. Siccome i critici amano le etichette, proporrei questa: la commedia all’italiana come la definiscono i critici all’italiana». Anche nelle interviste Risi era pungente e senza peli sulla lingua, come nei film. Ma con questa sua controdefinizione rischia di darsi la zappa sui piedi. Si può essere d’accordo con lui sui critici “all’italiana”, perché ce ne sono in giro ancora oggi, come sempre ce ne sono stati e sempre ce ne saranno; ma non si può fare linguisticamente a meno di un’etichetta che sia in grado di distinguere un certo tipo di commedia, la commedia all’italiana propriamente detta, dalla sterminata e caotica massa delle commedie girate in Italia dalle origini del cinema ai giorni nostri. Per questo noi parleremo tranquillamente di “commedia all’italiana”: intendendo sottrarre alla perifrasi non l’incolpevole particella, ma il disprezzo che la accompagnava; e riducendo insomma a complemento di modo o qualità quello che per lunghi anni è stato un complemento di disprezzo. Diremo cioè “all’italiana” per indicare qualcosa di tipico e inconfondibile, a prescindere da ogni giudizio qualitativo, allo stesso modo in cui si dice, senza alcuna sfumatura ironica o negativa, “vestìti alla marinara” o “gnocchi alla romana” – dicendo semplicemente “gnocchi romani” si alluderebbe a gnocchi originari di Roma senza specificarne gli ingredienti, la forma e il modo in cui sono stati cucinati. Del resto, quando Mozart usava la dicitura “alla turca” (terzo movimento della Sonata K 331) o quando Beethoven usava la dicitura “alla polacca” (finale del Triplo Concerto), non vi era alcun intento dispregiativo in questa terminologia, ma soltanto l’indicazione di uno stile inconfondibile, universalmente riconosciuto, tale da diventare un vero e proprio genere. La parentesi linguistica è dedicata ai tanti critici italiani – o all’italiana, per dirla come Risi – che snobbarono il fenomeno più importante del nostro cinema assieme al neorealismo: quelli che usavano ad ogni recensione il famigerato ritornello «pur nei limiti della commedia» (ma allora si potrebbe anche dire, a proposito dell’Avventura, dei Pugni in tasca e di altri film di valore privi però di umorismo e leggerezza: «pur nei limiti del film serio»); quelli che quando sentivano odor di commedia mandavano al cinema il loro vice, o qualche galoppino, o la loro amante; quelli che come il bieco e cieco Jorge del Nome della rosa di Umberto Eco trovano immondo e diabolico tutto ciò che fa ridere, tutto ciò che mette in discussione loro e il mondo intero. Una “perla” per tutte, firmata Liliana Cavani: «Peccato che, al solito, non si sia rinunciato a scene e immagini in cui non abbonda il pudore» (scritto a proposito del castissimo e bellissimo Una vita difficile dalla futura regista del Portiere di notte, di Interno berlinese e di altri film che il pubblico è andato a vedere soltanto per via di qualche tetta al vento). Alla fine, a furia di criticare i Risi e i Monicelli, ci siamo ritrovati con i Vanzina e i comici di cabaret al cinema, e con i Berlusconi e i Renzi al potere.



ANTENATI E PREDECESSORI VI secolo a.C. – 1958 d.C. (e D.C.)


1. PAROLE E MUSICA

se ne sono andati quasi tutti a far compagnia a Bertoldo, hanno potuto in buona parte mangiar rape e fagioli fino all’ultimo, e adesso qualcuno incomincia a spuntare tardivamente nelle enciclopedie, sulle targhe agli angoli delle strade, e a riempir la lista che qualche regista del XXII secolo inserirà in calce a una sesta o settima versione elettronica di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Le rivalutazioni postume sono massacranti per i rivalutatori ma riposanti per i rivalutati, che in cambio di qualche piccola amarezza sono riusciti a sfuggire con la morte alla volgarità tutta contemporanea delle hit parade e dei salotti televisivi. «Non far mai bene: non avrai mai male»: il testamento di Bertoldo / Ugo Tognazzi (Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, 1984).

Nei titoli di coda della terza versione cinematografica di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984), commedia medieval-maccheronica ispirata ai racconti seicenteschi di Giulio Cesare Croce e Adriano Banchieri, gli autori del film ringraziano, anziché le solite autorità locali e sartorie alla moda, una sfilza di colleghi: Andersen, Apuleio, Aretino, Aristofane, Artusi, Basile, Boccaccio, Belli, Chaucer, Coster, Esopo, i fratelli Grimm, Machiavelli, Molière, Pasquino, Petito, Quevedo, Rabelais, Ruzante, Sacchetti, re Salomone, Straparola, Neri Tanfucio, e accanto a queste firme accertate o quasi accertate anche un Anonimo Toscano, una statua romana (Pasquino) e gli anonimi autori delle Mille e una notte e del Novellino. I ringraziamenti valgono per il film in questione, che rimpolpa i racconti bertoldeschi con lazzi e arguzie provenienti dalle opere dei suddetti, veri e propri gagmen a costo zero; ma valgono in un certo senso per tutta la commedia all’italiana, a cui nel 1984 non restava che far testamento come Bertoldo / Tognazzi alla fine del film. C’è un grande orgoglio in questa lista che è una piccola enciclopedia del comico: l’orgoglio di chi in mancanza di riconoscimenti concreti e presenti fa appello al proprio albero genealogico pur sapendo quanto poco valga al mercato della contemporaneità. Quasi tutta questa gente che oggi si studia a scuola fu a suo tempo considerata indegna di celebrazioni e di memoria; qualcuno concluse i propri giorni nella dimenticanza e nella povertà, o nella corbellatura di un successo ormai inutile ai fini della vita: come il Bertoldo tardivamente riconosciuto che «morì con aspri duoli / per non poter mangiar rape e fagioli». Gli autori e attori della commedia all’italiana, che ormai

La commedia dell’arte e l’arte della commedia Per quanto la lista elaborata dal regista Monicelli e dai suoi sceneggiatori Benvenuti, De Bernardi e Cecchi D’Amico sia abbastanza esauriente e parli da sola, qualche breve considerazione merita di essere aggiunta. Se all’inizio di questo capitolo siamo risaliti nel sottotitolo fino al VI secolo avanti Cristo è per via del nome più antico della lista, il favolista greco Esopo, che ha lasciato in eredità agli autori della commedia all’italiana l’impellenza di trarre da ogni vicenda una morale: ciò che oggi si potrebbe anche definire, con due termini poco di moda in questi anni, contenuti e ideologia. Un lupo e un agnello sono soltanto due figurine per bambini se non si pensa che rappresentano i ricchi, i poveri, e la conseguente necessità di un capovolgimento che dia più garanzie agli agnelli e meno arroganza ai lupi. Quel che mancherà agli eredi o sedicenti eredi della commedia all’italiana sarà proprio questo cercar di trarre insegnamenti generali da situazioni e personaggi particolari. Senza le tanto deprecate generalizzazioni si cade nell’autocompiacimento, nel solipsismo, e ciò va a tutto vantaggio dei lupi. Esopo, che si dice sia stato condannato a morte per un furto sacrilego mai commesso (ma più probabilmente per aver dato voce agli agnelli), aveva già bisogno di rivalutazioni postume a poco più di un secolo dalla morte, e uno dei primi a curarsene fu Aristofane, che è anche il padre di tutti gli autori di commedie. La sua assidua attenzione alla realtà contemporanea, i suoi attacchi contro demagoghi e guerrafondai, contro finti filosofi e finta democrazia, così come le sue parodie della tragedia, già allora considerata più nobile della commedia, sono tutti elementi entrati nel DNA della commedia all’italiana. Molti registi degli anni intorno al Sessantotto avrebbero potuto firmare Le donne a parlamento, dove si prospetta una sorta di comunismo di


«La commedia all’italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all’italiana da tutte le altre commedie...» Mario Monicelli

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