John Wayne

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Anton Giulio Mancino

JOHN WAYNE


«CineAlbum» Monografie di cinema e spettacolo per la scuola e l’università Collana diretta da Enrico GiacovElli

Ombre rosse (1939).


Anton Giulio Mancino

JOHN WAY N E


Copertina: Francesco Partesano Fonti iconografiche: La gran parte delle immagini è tratta da fotogrammi delle pellicole citate. Quanto alle altre foto, per quanto possibile l’Editore ha cercato di risalire al nome del loro autore così da darne la doverosa menzione, ma le ricerche si sono rivelate infruttuose. Nel chiedere dunque scusa per qualunque eventuale omissione, l’Editore si dichiara disposto sin d’ora a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. In copertina: dall’alto, immagini tratte da Un dollaro d’onore (1959) e Hondo (1953). Stampa: MIG – Bologna 2020 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-071-7


Indice American Wayne of Life • 7 La conquista del set • 13 Diretto da “Jack” Ford • 29 Per il Duca e per la patria • 59 Il rinoceronte è femmina, il maschio invecchia: cinque “western” di Howard Hawks • 77 Le streghe rosse di Hollywood • 95 Il mio regno senza un cavallo • 107 Ricordati di Alamo • 119 Lo spettacolo deve continuare • 127 Dodge City, Vietnam • 137 Gli ultimi urrà • 145 Filmografia • 163 Bibliografia • 187


John Wayne

Iwo Jima, deserto di fuoco (1949).

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American Wayne of Life Un ritratto compiuto di John Wayne si intravede sparpagliato e mimetizzato in qualsiasi angolo più o meno riposto di un suo film. Scovarlo, mascherato da una circostanza eccezionale, una missione speciale, un ruolo estremo, dinamico, impegnativo, non è difficile. Difficile semmai è decidere da quale esempio cominciare per delineare un carattere e un mondo inconfondibili. Valga per tutti quello di un pilota d’aereo. Un singolare pilota, in L’isola nel cielo (Island in the Sky, 1953) di William Augustus Wellman, si presta a questa immediata necessità esplicativa. Merito anche della voce narrante che nel film spesso interagiva e dialogava con un personaggio cucito su misura: il capitano Dooley. Senza la voce esterna sarebbero state ben poche le parole pronunciate dal taciturno eroe wayniano, assai riservato e ripiegato su se stesso non per egoismo ma poiché completamente assorbito dal compito di guidare, incoraggiare, sorreggere o spronare i membri della squadra. La sua squadra. «Questa è una storia» recitava il narratore invisibile «di piloti provetti e del loro mondo protetto, la loro isola nel cielo». Poi: «I piloti professionisti sono, per necessità, uomini semplici, chiari. Il loro pensiero deve rimanere lineare, o muoiono violentemente». Occorreva che si manifestasse appieno il suo repentino senso di smarrimento sopraggiunto alla vista dell’aereo che li avrebbe dovuti salvare e invece si allontanava per scoprire, oltre l’introversione del personaggio, la ricca ma mai esibita gamma espressiva dell’attore. E giungere alla fine del film per apprendere, quasi per caso, che Dooley aveva taciuto a tutti, spettatori compresi, che aveva una famiglia: neppure la nascosta apprensione avrebbe mai lasciato indovinare l’esistenza di una moglie e di ben sei figli. L’emblematica “isola nel cielo” evocata sin dal titolo non era soltanto lo spazio umano, maschile, ristretto

L'isola nel cielo (1953).

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John Wayne degli aviatori, di cui l’inossidabile Dooley doveva prendersi cura e cercare a tutti i costi di salvare, da buon capofamiglia o capoclan, anziché far trasparire il pensiero rivolto alla vera cerchia familiare. Era sui lineameni dei volti che si leggeva il dramma, come durante la scena dell’atterraggio di fortuna, interiorizzato e perciò restituito senza eccessivi scorci esterni. L’isola nel cielo, uno dei film più introspettivi dell’attore, a dispetto delle peripezie aeree, sin dal titolo, sintetizzava piuttosto l’immagine chiusa, isolata, talvolta isolazionista, nondimeno protettiva e rassicurante, del veterano preso in carico da John Wayne di volta in volta, film dopo film, quale che fosse stato il terreno avventuroso, bellico o conflittuale su cui investire anche economicamente oltre che emotivamente. E su cui investire l’immagine divistica e imprenditoriale. La leadership indiscussa e necessaria di Dooley, e di John Wayne in persona, corrispondeva anche all’impegno come produttore, ribadito dal successivo e per molti versi analogo Prigionieri del cielo (The High and the Mighty, 1954) sempre di Wellman, ugualmente sceneggiato dall’eccentrico pilota e romanziere Ernest K. Gann per la compagnia Wayne-Fellows. Ancora una speciale “isola nel cielo” che stavolta non faceva i conti con una zona inesplorata, gelida, irraggiungibile, dove in gioco era la sopravvivenza dell’equipaggio, Prigionieri del cielo (1954). ma con un difetto dell’aeromobile che in un clima apparentemente disteso, vacanziero, cromaticamente vistoso, tipico degli anni ’50, metteva all’improvviso a rischio della vita la variegata comunità di passeggeri. John Wayne, nei panni di Dan Roman, in questo film gemello e complementare de L’isola nel cielo (salvo che per la scelta di realizzarlo a colori e nel formato Cinemascope), non era il primo, come sarebbe lecito aspettarsi, ma il secondo pilota, come nel primo film in cui Wellman lo diresse molto giovane, Ala errante (Central Airport, 1933). Eppure la sua posizione si confermava insostituibile per assicurare l’atterraggio e riportare tutti sani e salvi a terra. A dispetto del ruolo di pilota subalterno, Prigionieri del cielo prendeva le mosse proprio da lui, un John Wayne al colmo della popolarità, icona di se stesso. E dal personaggio, innegabilmente il suo, messo a dura prova da un incidente in cui avevano perso la moglie e il figlio. L’antefatto ipotecava fisiologicamente ogni istante della sua vita, mediante una serie di flashback pronti a restituire anche lo spaccato pregresso di tutti gli uomini e donne in volo, autentiche “ale erranti” di una fitta epopea a stelle e strisce. Questo passato devastante, affidato all’esposizione altrui o ai blocchi retroattivi del racconto, velava di continuo gli sguardi di Dan o le inaccessibili espressioni facciali, a partire dalla scena inaugurale a lui interamente dedicata, per motivi di priorità drammaturgica. Poiché temprato dalle sventure private, il produttore-divo si confermava così l’inamovibile asse morale della vicenda, l’unico personaggio che guidava il film anche dal punto di vista musicale intonando la popolare, omonima can- Prigionieri del cielo (1954).

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american Wayne of life zone candidata all’Oscar della colonna sonora di Dimitri Tiomkin, pertanto il fulcro resistente dell’azione, il soggetto dotato dello spirito giusto e della indispensabile, cordiale e pragmatica franchezza per convincere al momento opportuno gli spauriti viaggiatori a liberarsi di qualsivoglia bagaglio o suppellettile che stonasse in un tale frangente. Compresa la bella pelliccia a cui una donna dell’equipaggio accettava di rinunciare, seppure a malincuore. Un indumento del genere, emblematico di un lusso insostenibile durante l’emergenza, non serviva a fare la differenza in termini di peso. Ma sulla scorta delle parole molto persuasive di Dan Roman, contava come status-symbol da accantonare. Da buon “secondo pilota”, profondamente wayniano, un veterano dell’aeronautica civile, del cielo come del cinema, sconfitto dentro, venato di indicibile amarezza e malinconia connessa anche all’età che avanzava, nondimeno capace al momento giusto di sfoderare sicurezza, intuito e coraggio, Dan assumeva un risalto che coincideva con il senso di responsabilità contingente del produttore e del protagonista a un tempo. L’essere “alto” (high) e “potente” (mighty), di cui il titolo originale si fa portavoce, diventavano per ovvie ragioni una duplice prerogativa: qualità che gli appartenevano di diritto. Donde la funzione reiterata di mantenere coeso il cast e la troupe dietro la macchina da presa, da produttore compenetrato con l’avventura del set, così come per ragioni di copione, un copione tutt’altro che casuale, si sentiva davanti all’obiettivo in dovere di fare con i malcapitati “prigionieri del cielo”. Non sorprende che a John Wayne per decenni si siano ispirate sul grande schermo numerose figure di aviatori dai nervi saldi, tanto da rischiare il tutto per tutto pur di portare in salvo in condizioni impossibili i passeggeri, ultimi in ordine di tempo il Denzel Washington di Flight (2012) di Robert Zemeckis e il Tom Hanks di Sully (2016) di Clint Eastwood. Inutile perciò chiedersi a priori, anzi a posteriori, come fare a riconoscere John Wayne. Bisognerebbe piuttosto chiedersi come sia possibile non riconoscerlo, ovunque e comunque. La qualità specifica di John Wayne resta pertanto la riconoscibilità piena, coerente, continuativa. «Come ha fatto a riconoscermi?». «Mi hanno detto che doveva arrivare qualcuno leggermente più piccolo della Statua della Libertà!», si sentiva rispondere dalla giovane collega britannica il poliziotto John Wayne in Ispettore Brannigan, la morte segue la tua ombra (Brannigan, Douglas Hickox, Prigionieri del cielo (1954). 1975). Più che una battuta di spirito si trattava d’una semplice constatazione. Insomma, nessun attore hollywoodiano s’era mai compenetrato tanto nei personaggi interpretati, tramandando al pubblico di tutto il mondo la leggenda e il modello di vita americani: uomini schietti, liberi e vigorosi, dietro cui si intuivano profonde contraddizioni, antichi dilemmi culturali e questioni storiche irrisolte. Deciso e impacciato, sprezzante e timido, svagato e innocente, rude e gentile, cocciuto e tollerante, solitario e familista, misogino e innamorato delle donne, fiducioso e preoccupato del futuro, laconico e predicatorio, rigido e dinoccolato, apolitico e politicizzato fino ai denti, isolazionista e interventista, John Wayne abbracciava i pro e contro di una nazione il cui slancio ideale procedeva di pari passo con una tradizione conflittuale e oppressiva. Cercò sempre nei suoi film di ricucire le divisioni interne, migliorarne l’immagine all’esterno e di ribadire la fede nei valori patriottici che sentiva il dovere di rappresentare. «Sono un investimento. Cerco di proteggere tale investimento», disse una volta. Nessun mistero («Se una cosa non è bianca o nera, che vada all’inferno!»), nessuna implicazione psicanalitica nei personaggi («Non s’è mai visto un cowboy sul lettino dello psichiatra. I lettini servono a una cosa sola»),

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né rivelazioni eclatanti sulla sua vita. Il soprannome era “Duke”, lo stile di recitazione istintivo, la formazione non professionale e la vera biografia con oltre centocinquanta film, molti memorabili, soprattutto western e bellici. Gli si addiceva l’inconfondibile parte di duro, rustico e coraggioso bastardo, incallito fumatore e bevitore tra i più noti di Hollywood («Non ho mai creduto a un uomo che non bevesse»). Non esisteva un Duke Wayne diverso dall’eroe americano al quale aveva legato la fama, subordinato il privato e desunto atteggiamenti e convinzioni. «A un regista chiedo solo quale cappello indossare e da quale porta entrare». Proprio così. Henry Hathaway, che con sei film all’attivo era l’autore prediletto dopo John Ford e Howard Hawks, lo conosceva molto bene: «È stato una di quelle star molto rare, nate attori. Quello che era sullo schermo, lo era anche nella vita… Non si dirigeva Wayne. Leggeva il copione, poi iniCon Claudia Cardinale e Henry Hathaway (Il circo e la sua ziava. Non abbiamo mai litigato. Ci incongrande avventura, 1964). travamo come i due elementi di un ponte costruito su un fiume. Una volta, quando gli feci un’osservazione sull’intonazione di una sua battuta, mi gridò: “La dica lei stesso”. E lo feci. Sorridendo, ribatté: “Allora è così che le piace, signor Hathaway!”. Più tardi ha tenuto a scusarsi davanti alle cinquanta persone dell’équipe, precisando: “L’ho insultata in pubblico, voglio scusarmi in pubblico”. Così era John Wayne: franco e grande. Durante le riprese, utilizzava sempre le sue armi e i suoi vestiti. Era se stesso». Il tipico abbigliamento wayniano consisteva in un gilet di pelle marrone, una camicia a doppio petto, un braccialetto d’oro ricevuto in Vietnam, gli stivali sotto i pantaloni, la fondina sulla natica destra e una fibbia di metallo per cintura con incisa la “D” di Dunson tra due linee ondulate, simboleggianti un fiume, regalatagli da Hawks come ricordo del protagonista de Il fiume rosso (Red River, 1948). È stato probabilmente il più popolare divo di Hollywood e la sua fama gli è sopravvissuta. Ma gli intellettuali, specialmente i sedicenti progressisti e l’élite di sinistra, non gli hanno perdonato i pesanti orientamenti politici e la vocazione per i film commerciali, solo occasionalmente “artistici”, anche quando la sua carriera era all’apice. Il cinema restava per lui una forma di primordiale intrattenimento senza grandi pretese («Ho fatto più filmacci di chiunque altro in questo mestiere»), e il successo era la dimostrazione della giusta strada imboccata, da riconfermare, se possibile, all’infinito: «Nei miei film cerco di ricordare che la gente spende i propri soldi al botteghino per rilassarsi e divertirsi. Perciò mi piace offrire loro cose semplici e che si possano considerare decenti». Spontaneo e coinvolgente come Gary Cooper, Spencer Con James Edward Grant (La battaglia di Alamo, 1960).

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american Wayne of life Tracy e James Stewart, Wayne, più di loro, era convinto di far sul serio, troppo sul serio. Nonostante due sole e chiacchierate regie, La battaglia di Alamo (The Alamo, 1960) e Berretti verdi (The Green Berets, 1968), il Duca esercitò presto un controllo sulla produzione e si circondò di collaboratori, dalla troupe al cast, che assicurassero continuità e coerenza alla sua immagine, come se l’autore implicito di tutte le pellicole fosse stato sempre e solo lui. Il «clan» wayniano, come lo definì Budd Boetticher, oltre ai maestri Ford, Hawks, Hathaway, Wellman, Michael Curtiz e Raoul Walsh, comprendeva in testa a tutti James Edward Grant («Wayne è una persona molto semplice e schietta, e sembrava pensare che Grant fosse l’unico uomo che potesse scrivere le parole nel modo in cui lui doveva pronunciarle», disse Allan Dwan), che dal 1947 al 1964 fu quasi il suo sceneggiatore fisso, oltre a esperti di B-movie, gente di sicuro mestiere. Tra questi Joseph Kane, George Sherman, George Waggner, Edward Ludwig, Burt Kennedy, John Farrow, e Andrew V. McLaglen ebbero più di un’occasione di dirigerlo, scrivere per lui o vedersi prodotti i film. C’erano poi gli attori Ward Bond, Maureen O’Hara, Grant Withers, Jack Pennick, Paul Fix, Chill Wills, Hank Worden, Bruce Cabot, Harry Carey e suo figlio Patrick Wayne, gli stuntman Yakima Canutt e Chuck Roberson, nonché i musicisti Dimitri Tiomkin, Roy Webb, Victor Young ed Elmer Bernstein e gli operatori William Clothier, Archie Stout, Ted McCord e Winton Hoch. Registi, comprimari, tecnici e sceneggiatori rappresentavano una variabile indipendente dell’universo wayniano. Da costoro pretendeva circostanze e personaggi in tutto e per tutto autobiografici o autoreferenziali. Un suo profilo, al di là dello stesso film, lo tracciava ancora il vecchio Graile (Nehemiah Persoff ) ne I comanceros (The Comancheros, 1961) di Michael Curtiz: «Nel dover scegliere un uomo, il buon senso consiglierebbe quello grasso e brutto e non quello bello. Ha sulla faccia i contrassegni chiari del suo stato caratteriale: quel naso che a suo tempo qualcuno ruppe, le cicatrici sulle sopracciglie, tutto mostra che in passato ha imposto o tentato di imporre la sua volontà agli altri. È evidentemente un uomo molto volitivo». Perché in particolare i western e i film di guerra o quelli d’avventura, in cielo, in terra, in mare, sottoterra o nelle profondità degli abissi? La regola di vita del John Wayne cinematografico combaciava con le situazioni straordinarie ed estreme, in cui si rendevano indispensabili decisioni immediate, volontà, attitudine al comando e obbedienza. L’impazienza di agire o il bisogno di muoversi e fare, implicitamente, qualcosa per gli altri, anziché poltrire e contentarsi della tranquillità e del benessere raggiunti, erano l’essenza di un puritanesimo riveduto e corretto dal tramonto dell’orizzonte ottocentesco, dallo spettro della miseria della Grande Depressione, dei totalitarismi e dei conflitti mondiali. Misantropo pistolero o militare di carriera, marito fedele o padre integerrimo, non poteva esimersi dal proteggere gli indifesi, salvare i malcapitati, prendersi cura di donne e bambini, liberare la città o la comunità da ribaldi e profittatori. Con la differenza che a cose fatte lui non abbandonava la scena, non scompariva all’orizzonte. Restava lì, si integrava e assumeva un ruolo di spicco all’interno delle neonate istituzioni. Lo si ritrovava spesso nei panni del capo e dell’uomo d’ordine, dirigente, sceriffo o alto ufficiale. Se nei western classici la parabola dell’eroe selvaggio e solitario si esauriva alle soglie della civiltà e del matrimonio, il Duca al nuovo assetto aveva finito per aderire, anche se da irriducibile fuoriclasse, duro e intrattabile bastian contrario: mentre la legge sostituiva l’anarchia, inevitabilmente il suo orizzonte pionieristico si traduceva in sciovinismo e conservatorismo, ove la norma, giusta o errata, andava accettata e rispettata. La propensione reazionaria di John Wayne era triplice: nella recitazione, da buon re-actor, nel modo in cui il personaggio si rapportava agli altri e nelle scelte politiche, come conseguenza e sistemazione ideologica di un comportamento individuale iscritto in una mappa complessiva. E che non soltanto ha attraversato la storia del cinema americano, ma ha dato anche conto in modo articolato e capillare della storia tout court degli Stati Uniti, tra molte luci e non poche ombre: dalla sua formazione alla Guerra civile, dalla conquista del West alla questione indiana, questa storia, prima ancora di investire in chiave mitica i territori sconfinati dell’immaginario internazionale, ha consentito a ogni film wayniano con il proprio singolo episodio di riferimento o personaggio e avvenimento saliente di fungere da tassello immancabile pronto a incastonarsi nell’ordito generale.

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L'invincibile dello Utah (1934) con Yakima Canutt.

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La conquista del set Il mondo intero l’ha conosciuto come John Wayne, ma prima del 1930 nessuno l’aveva mai chiamato con questo nome. Marion Michael Morrison, originariamente Marion Robert per un errore sul certificato di nascita, nacque il 26 maggio 1907 a Winterset, un paesino dell’Iowa di nemmeno 3000 abitanti. Fu il primogenito dei coniugi Morrison: Clyde, di stirpe scozzese, e Mary Margaret Brown, nelle cui vene scorreva sangue irlandese. Clyde gestiva una farmacia con scarso successo e la moglie non faceva che rinfacciarglielo. Marion Michael aveva cinque anni quando venne al mondo suo fratello Bob e proprio allora la tubercolosi di Clyde costrinse l’intera famiglia a trasferirsi a Lancaster, in California, in uno sciagurato ranch alle soglie dell’aspro deserto Mojave, a coltivare grano. Le condizioni di vita erano talmente insostenibili da non sfigurare al confronto con quelle tramandate da uno dei tanti western sulla frontiera che l’intramontabile Duke Wayne continuò, anche fuori tempo e fuori peso, a interpretare per tutta la lunga carriera. Eppure, nell’inospitale zona di Lancaster i Morrison resistettero per due interminabili anni prima di spostarsi ancora più a ovest, a Glendale, dove invano il buon Clyde tornò a condurre una farmacia, per poi ripiegare sulla produzione artigianale di gelati, con esiti altrettanto modesti. I sempre più frequenti litigi tra lui e Mary in realtà non potevano competere con una fase di effettiva congiuntura economica che, oltre a prendere al laccio l’indefesso farmacista e gelataio di Glendale, avrebbe nel giro di un decennio portato l’intero paese sull’orlo della miseria. Piuttosto, l’immagine di una moglie burbera e indisponente, la quale non dava tregua al povero e diligente marito, serviva a riversare sul piano privato, secondo copione, il ma- Da piccolo con il fratello minore Robert Emmett. lessere e il senso di disfatta di uno dei tanti uomini che in quegli anni verificavano sulla propria pelle i sintomi precoci della Depressione. Non tutto il male veniva per nuocere: dal canto suo Marion Michael, addestrato da un’infanzia ben poco esaltante, tra stenti, sacrifici d’ogni genere e un’atmosfera domestica non proprio serena, il cui epilogo nel 1921 fu il divorzio dei genitori, avrebbe imparato alla svelta a contare esclusivamente su se stesso. Le esperienze e le disavventure almeno gli avevano trasmesso quell’inossidabile senso di adattamento, trampolino d’un immaturo ma vigoroso temperamento intraprendente e individualista. Sebbene fosse poco più che un bambino quando giunse a Glendale, Marion Michael non tardò a contribuire al bilancio familiare: aiutava Clyde in farmacia e distribuiva con una bicicletta, acquistata di seconda mano, il «Los Angeles Examiner» o i biglietti del cinema locale. Con il vantaggio di poter accedere gratis a qualsiasi proiezione, specialmente quando sullo schermo impazzavano Douglas Fairbanks o altri suoi eroi preferiti. Che non a caso erano westerner di grido come William Surrey Hart o

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orte, risoluto, di poche parole, a volte rude, John Wayne ha impersonato il perfetto eroe americano, e con i suoi quasi 200 film girati in 50 anni di carriera è stato tra i più longevi portabandiera cinematografici degli Stati Uniti. Eppure, nonostante la fama mondiale, l’Academy lo ha sempre osteggiato per le sue idee tenacemente conservatrici, attribuendogli un solo Oscar nel 1970 per Il Grinta. In questo volume, Mancino ricostruisce un’ampia biografia artistica dell’attore che è al tempo stesso un grandioso affresco dell’America del Novecento. Dal debutto nel cinema muto (Brown of Harvard, 1926) a Ombre rosse (1939), film decisivo per la sua carriera, proseguendo con la Trilogia sulla cavalleria (Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord Ovest, Rio Bravo), Sentieri selvaggi (1956) e L’uomo che uccise Liberty Valance (1962), fino ai ruoli più “moderni” come in Ispettore Brannigan, la morte segue la tua ombra (1975), il racconto di questa sterminata filmografia procede di pari passo con quello di un paese diviso tra slanci ideali e tradizione conflittuale, aneliti di libertà e nevrotiche cacce alle streghe. Ne emerge il ritratto di un attore che forse come nessun altro ha incarnato con tanta convinzione le luci e le ombre del mito americano. Contrappuntato da un ricchissimo catalogo di immagini tratte direttamente dai fotogrammi delle pellicole, questo volume ripercorre la leggendaria avventura artistica del “Duca” di Hollywood, il divo burbero e reazionario che del suo lavoro amava dire: «Nei film recito la parte di John Wayne, a prescindere dal ruolo che mi viene dato. E mi sembra di cavarmela bene».

Anton Giulio Mancino (Bari, 1968), professore associato di cinema all’Università di

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Macerata, saggista e critico cinematografico, collabora con riviste specializzate («Bianco e Nero», «Cinecritica», «Cineforum», «Fata Morgana») e con il quotidiano «La Gazzetta del Mezzogiorno». Ha pubblicato volumi su Martin Scorsese e Jonathan Demme (Angeli selvaggi, 1995, prefazione di Roger Corman), Francesco Rosi, Jerry Lewis, Sergio Rubini, Richard Lester e Giancarlo Giannini, e in particolare sul film politico-indiziario italiano (Il processo della verità, 2008, e Schermi d’inchiesta, 2012). Con La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio (2014, prefazione di Giorgio Galli) ha vinto il premio Diego Fabbri assegnato dalla «Rivista del Cinematografo». Ha fatto parte per otto anni del comitato selezionatore della Settimana Internazionale della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia. Ha diretto il documentario Giancarlo Santi: facevo er cinema e il cortometraggio All’alba, presentati rispettivamente nel 2005 e nel 2007 fuori concorso e in concorso al Festival Cinema Giovani di Torino.

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