L'Apocalisse come "actio liturgica" cristiana

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CARLO MANUNZA

L’Apocalisse come “actio liturgica” cristiana Studio esegetico-teologico di Ap 1,9-16; 3,14-22; 13,9-10; 19,1-8 Prefazione del card. Albert Vanhoye S.J.

ROMA 2012


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Imprimi potest Roma, 23 luglio 2012 P. C. Casalone S.I. Praepositus Provinciae Italiae

Imprimatur Napoli, 25 Luglio 2012 + A. Di Donna Vescovo Ausiliare di Napoli Vicario Generale

Cover: Serena Aureli Layout: Lisanti srl - Roma

Š 2012 Pontifical Biblical Institute Gregorian & Biblical Press Piazza della Pilotta, 35 - 00187 Roma, Italy www.gbpress.net - books@biblicum.com

ISBN: 978-88-7653-199-6 Finito di stampare nel mese di Settembre 2012 presso Mediagraf SpA - Monterotondo (Rm)


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PREFAZIONE Ecco uno studio originale che getta una luce nuova su un libro misterioso, l’Apocalisse, e suggerisce un nuovo modo di leggerlo. Ci viene offerto da Padre Carlo Manunza, professore di Sacra Scrittura nella Facoltà di Teologia di Napoli. Egli ci invita a leggere l’Apocalisse come un’azione liturgica cristiana. In questa espressione è di grande importanza la parola «azione». Succede, infatti, che la liturgia venga concepita in modo passivo come una serie di riti ai quali bisogna assistere per soddisfare a un obbligo. Invece, la liturgia deve essere azione, non soltanto da parte del celebrante, ma anche da parte dell’assemblea, la quale viene invitata a una partecipazione attiva. Il primo aspetto di questa partecipazione attiva consiste nel dialogo liturgico tra il celebrante e le persone presenti. Grazie al dialogo liturgico, il gruppo di persone viene costituito in assemblea e, più precisamente, in assemblea cristiana, giacché il dialogo si stabilisce sulla base della comune fede in Dio mediante Cristo. Qui si vede subito l’importanza della comunicazione orale, sulla quale insiste a ragione P. Manunza. Egli sottolinea che l’Apocalisse non è stata composta in vista di una lettura individuale e silenziosa, bensì in vista di una proclamazione orale di fronte a un’assemblea che ascolta. Lo si vede chiaramente sin dal versetto terzo del primo capitolo, il quale parla di un lettore al singolare e di ascoltatori al plurale, dicendo letteralmente: «Beato colui che legge e coloro che ascoltano le parole della profezia …» (Ap 1,3). Che si tratti di un’assemblea cristiana è evidente dal titolo stesso, che dice: «Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere» (Ap 1,1). Nel suo studio esegetico approfondito, basato su un’amplissima bibliografia, che comprende autori antichi e moderni, P. Manunza incomincia con una lunga introduzione, che manifesta ottimamente il vivo interesse dell’Apocalisse per la liturgia. Egli segnala subito, ad esempio, che la parola greca naos, «tempio», ha 16 ricorrenze nell’Apocalisse, mentre, in tutto il resto del Nuovo Testamento, ce ne sono soltanto 29. L’autore studia, in particolare, «le espressioni verbali della liturgia» presenti nell’Apocalisse; osserva, I


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in proposito, che l’Apocalisse inizia e finisce con un dialogo liturgico, il che rende plausibile «l’ipotesi che l’intero libro sia una liturgia» (p. 18). Effettivamente, è possibile dimostrare che «l’ascolto liturgico» è «elemento emergente» nell’Apocalisse (pp. 29 e 31-35) e, in modo corrispondente, «l’oralità» (pp. 29-31). Non potendo farne una dimostrazione dettagliata per tutto il testo dell’Apocalisse, l’autore ha scelto quattro passi, che egli ritiene particolarmente significativi al riguardo. Il primo è «la visione inaugurale (1,9-16)», presa «dalla sezione del saluto». Il secondo è «la Lettera a Laodicea (3,14-22)», presa «dalla sezione penitenziale». Il terzo è «schiavitù e martirio nel dittico delle due bestie (13,9-10)», preso «dalla sezione della Parola». Il quarto è «il finale innico: la dossologia dell’alleluia (19,1-8)». È facile osservare che la successione dei primi tre titoli corrisponde a quella delle prime tre parti di una celebrazione eucaristica: saluto, liturgia penitenziale, liturgia della Parola. Manca la parte sacrificale, che è la più importante.Viene allora spontanea una domanda: il passo su «schiavitù e martirio» non corrisponde forse alla parte sacrificale della messa piuttosto che alla liturgia della Parola? Rassicuriamoci: l’autore parla in questo senso, evocando «la morte-vittoria dell’Agnello» (pp. 198-200). In proposito, bisogna osservare che, in questo capitolo III, l’autore non si accontenta di una spiegazione dei due versetti indicati nel titolo «(13,9-10)», ma situa questi versetti nel loro ampio contesto, cioè tutto il capitolo 13, e spiega tutto il capitolo. Naturalmente, l’analisi dei versetti 9-10 è particolarmente approfondita. Essa incomincia con uno studio preciso di critica testuale, giacché ci sono importanti varianti, e poi continua con un commento di ogni dettaglio del testo. Così anche negli altri capitoli. Nessun aspetto dei testi viene trascurato. Un’attenzione speciale viene data all’interazione che il testo dell’Apocalisse instaura fra il suo autore, il lettore e il gruppo di ascolto. D’altra parte, gli aspetti di comunione con Dio e con Cristo e di comunione comunitaria vengono messi in viva luce. Note abbondanti completano il testo da diversi punti di vista. L’insieme è di una ricchezza esegetica e spirituale impressionante. Albert Card.Vanhoye S.J.

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RINGRAZIAMENTI Il presente volume è la revisione di una tesi dottorale difesa presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma nell’aprile 2011. Offre l’esegesi di quattro passi dall’Apocalisse, svolta nell’ottica di chi fruisca l’opera con l’atteggiamento di ascolto da essa stessa richiesto, quello dell’orante che partecipa a una liturgia della chiesa del Dio che si è rivelato in Gesù. In questo modo si è pensato di poter offrire un contributo sia a quanti studiano l’Apocalisse, sia a quanti studiano la liturgia, sia, pur forse solo in «seconda battuta», anche a quanti intendono accostarsi alla Bibbia con l’intento di vivere la conspiratio con lo Spirito di chi la ha scritta. Ora che il lavoro vede finalmente la luce, sono contento di ringraziare il P. Ugo Vanni S.I., che mi ha guidato nella ricerca. Ho trovato un determinante aiuto nel modo in cui, dirigendomi, mi ha messo a disposizione la ricchezza di conoscenza, accumulata in una vita spesa nello studio della Bibbia e dell’Apocalisse. In questi anni mi ha accompagnato con quella competenza, umiltà e saggezza, unite alla cordialità con cui mi ha sostenuto, che continuano ancora oggi a destare in me, oltre alla profonda gratitudine, una grande ammirazione. Mi è stato anche di insostituibile aiuto l’accedere alla sua grande esperienza pastorale. Il lavoro di contatto con la Bibbia che presento alla stampa infatti ha attraversato, prima di arrivare a fissarsi in uno scritto scientifico esegetico-teologico, la preghiera di tanti cristiani che ho avuto occasione di servire in questi anni, soprattutto offrendo spunti per la preghiera personale. Attraverso questo servizio, il percorso che guida questa ricerca è stato d’aiuto all’azione dello Spirito in tante persone incontrate. Da ciò l’esegesi stessa ha ricevuto a sua volta orientamento, correzione, luce. Questo mi ha permesso tante volte di contemplare nella preghiera l’unità d’azione propria dello Spirito, che ha ispirato chi ha composto i testi biblici e che ancora oggi parla con chi sui testi biblici ha pregato e prega. La scienza e i contributi offerti dalla letteratura scientifica sono stati anche un aiuto prezioso a far emergere la comunità di provenienza spirituale, III


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al di là delle differenze culturali dovute anche alla millenaria distanza nel tempo e nello spazio, fra chi in contatto con lo Spirito scrisse e chi ancora fino ad oggi in contatto con lo Spirito ha ascoltato ed ascolta. Dai ritiri e dai corsi di esercizi spirituali offerti (in primo luogo quelli alle persone disabili, agli anziani ed ai bimbi), come anche e prima ancora da quelli seguiti, è nata la consapevolezza (oltre che il gusto) di quell’ascolto del testo e di Chi attraverso esso parla. Si è cercato di fare in modo che quest’ascolto, cercando di seguire la prassi che la Tradizione ha cristallizzato nella preghiera liturgica, orientasse il lavoro esegetico e scientifico che vede oggi la luce. L’ascolto dell’altrui esperienza di preghiera, regalatami dalla fiducia di chi si lasciava guidare attraverso l’accompagnamento spirituale, ha contemplato le assonanze di questa esperienza con quella degli agiografi e della successiva Tradizione. Ciò ha ampliato e arricchito gli orizzonti di comprensione, rettificando le strettoie, limando o superando i numerosi ostacoli, illuminando con sempre nuova creatività il cammino, inclusi i contenuti che andavano via via chiarendosi. Trovare in P. Vanni una guida anche in questo campo è stato un insostituibile arricchimento. Non posso anche non ringraziare quanti, iniziandomi ed accompagnandomi nella preghiera, mi hanno dischiuso la possibilità di cogliere in modo crescente l’unità sinfonica fra Bibbia, liturgia, spirtualità e vita. Questa polifonica melodia è stata porta e luce del percorso di ricerca che oggi arriva ad essere offerto al pubblico degli studiosi. Sono dunque anche grandemente debitore verso quanti mi hanno aiutato a scoprirla con la loro testimonianza di vita, la loro disponibilità, la loro voce o i loro scritti, ad iniziare dai miei genitori e dalla sig.na Vitalia Artizzu, che guidarono i miei primi passi nel rapporto con Dio. Continuare facendo la lista intera sarebbe troppo lungo, ma non posso non ricordare almeno alcuni. Diversi hanno già chiuso il loro percorso terreno, come i Padri Maurizio Cravero S.I., Sergio Rendina S.I., Maurizio Costa S.I. e Herbert Alphonso S.I., che mi hanno saputo iniziare alla spiritualità di S. Ignazio di Loyola e difendere da tante sue seducenti banalizzazioni. Alla ricchezza di altri posso ancora continuare ad attingere attraverso la conversazione a viva voce: il P. Pino Stancari S.I., che mi ha IV


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RINGRAZIAMENTI

accompagnato durante gli anni di servizio in terra di Calabria; il P. Giacomo Rossi S.I.; la dott.ssa Emilia Cara; il card. Giovanni Canestri, che al dono del sacramento dell’ordine ha aggiunto la preziosa accoglienza periodica, permettendomi di attingere al tesoro di un’esperienza pastorale accumulata in un lungo servizio ministeriale in vari luoghi e livelli; il P. Francesco Rossi de Gasperis S.I.; il P. Cesare Giraudo S.I.; il card. Albert Vanhoye S.I., che ringrazio anche per l’incoraggiamento a pubblicare il lavoro e per aver accettato di presentarlo. A loro la mia riconoscente gratitudine, insieme a quella delle persone che nel mio povero servizio hanno trovato, trovano e troveranno un aiuto ad ascoltare lo Spirito. Un ringraziamento va anche al P. Javier López S.I., che è stato secondo relatore della mia tesi, per le utili indicazioni; al P. Pietro Bovati S.I., che ha accolto questo lavoro nella collana Analecta Biblica della quale è direttore; al P. Sergio Bastianel S.I., mio attuale superiore canonico, che ha reso possibile questa pubblicazione. Limiti, errori, carenze non mancheranno, come del resto avviene in qualunque contributo di ricerca scientifica. Questo non solo non ne è esente, ma semmai, visti i miei limiti, ne conterrà più di tanti altri. Ringrazio perciò per l’aiuto offertomi nel cercare di limitarli le dott.sse Luisa e Anna Zurru e Maria Böhmer, che con notevole generosità e gentile e competente sensibilità si sono fatte carico della prima revisione del testo e di preziosi suggerimenti. Ringrazio anche la dott.ssa Cornelia Toeygles che mi ha aiutato all’inizio con le lingue, come anche tutti coloro che con i loro consigli, suggerimenti, vicinanza e con altri modi mi hanno sostenuto e accompagnato lungo la via. Napoli, 31 luglio 2012 Solennità di S. Ignazio di Loyola

Carlo Manunza

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INTRODUZIONE

Fin da una prima lettura l’Apocalisse di S. Giovanni colpisce per la massiccia presenza della liturgia. È forse il libro del Nuovo Testamento che contiene la maggior concentrazione di elementi che la riguardano esplicitamente. Gli elementi liturgici menzionati in modo diretto sono tanti e così chiari, che è possibile distinguerli in classi diverse a seconda della funzione che svolgono. 1. I realia liturgica

Troviamo infatti in primo luogo un nutrito numero di oggetti con i quali si celebra il culto. A titolo esemplificativo diamo una rapida scorsa a tre di essi: il tempio, l’altare, gli incensi: poiché hanno un uso cultuale prevalente o esclusivo, essi costituiscono un primo e manifesto rinvio alla liturgia. 1.1 Il tempio

Il tempio (nao,j)1 è menzionato sedici volte2. La sua localizzazione spaziale e simbolica varia nel corso del libro, fino alla dichiarazione di assenza finale (perché Dio e l’Agnello sono il tempio della Gerusalemme Nuova). Resta però sempre ferma la sua presenza a chi ascolta la lettura del libro e al Veggente. Il tempio è progressivamente il luogo di cui ogni singolo ascoltatorevincitore sarà colonna senza mai uscirne3; dove i fedeli al futuro serviranno Dio4; il luogo del culto5, che il Veggente misura6 e di 1

Cfr A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 230. Su 45 in tutto il Nuovo Testamento, cfr K. ALAND, Vollständige Konkordanz, II, 199. In Ap troviamo il 36% delle ricorrenze del termine. 3 3,12. 4 7,15. 5 In 7,15 pare essere l’ambiente di tutta la visione della liturgia del trono; in 15,8 si riempie del fumo-incenso dalla gloria di Dio e dalla sua potenza. 6 11,1. 2

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cui nemici di Dio calpestano l’atrio7. Dal tempio che è in cielo escono gli angeli con i flagelli8, le voci con le rivelazioni9 e altri personaggi o oggetti10. Alla fine è Dio stesso11. Fin dalla prima comparsa si impone una lettura simbolica: se un uomo diventa colonna del tempio, il significato non può essere solamente materiale. Tempio significa certamente di più di «edificio in cui avviene la liturgia»12. La semplice osservazione della successione delle ricorrenze appalesa la difficoltà di cogliere staticamente che cosa indichi o` nao,j 13: l’unico dato certo è che il punto di partenza dei significati simbolici è sempre l’edificio nel quale si svolge la preghiera cultuale14. 7

11,2. 14,15.17; 15,5.6.8 9 16,1.17. 10 11,19. 11 21,12. 12 Sul tempio in generale cfr G. BISSOLI, Il tempio; M. BARKER, The Gate of Heaven. 13 C’è infatti lunga discussione fra gli studiosi: è tempio celeste? O qualche volta è terrestre? È solo simbolico? È quello di Gerusalemme? Ha sempre lo stesso significato oppure cambia nel corso del libro riferendosi a oggetti diversi? etc. Un buono studio sull’argomento in A. SPATAFORA, The Temple; cfr la ricca bibliografia lì citata. Per dare un’idea della problematica qui ci limitiamo a riportare i genitivi da cui è accompagnato il termine nel libro: 3,12 evn tw/| naw/| tou/ qeou/ mou; 7,15 evn tw/| naw/| auvtou/ [tou/ qro,nou tou/ qeou/]; 11,1 to.n nao.n tou/ qeou/ ; 11,19 o` nao.j tou/ qeou/ o` evn tw/| ouvranw/;| 14,17 tou/ naou/ tou/ evn tw/| ouvranw/;| 15,5 o` nao.j th/j skhnh/j tou/ marturi,ou evn tw/| ouvranw/;| 21,22 nao.j auvth/j [th/j a`gi,aj VIerousalh,m]. 14 Una nota che colpisce chi voglia cogliere il significato ulteriore è soprattutto la partecipazione attiva e variabile del Veggente alle scene nelle quali il tempio è presente. Nelle varie ricorrenze la posizione e l’azione del veggente rispetto al tempio cambia: all’inizio, in quanto si suppone condividere la futura sorte vittoriosa dell’uditore (o` nikw/n), ne farà parte; poi si limita a vederlo nel cielo ed è chiamato a misurare, poi ancora contempla gli adoratori di Dio in esso, quindi ascolta le voci che da esso escono, infine contempla Dio e l’Agnello che sostituiscono/sono il tempio in mezzo alla città santa. Man mano che «tempio» viene menzionato, il suo significato cambia in un modo quantomeno di difficile comprensione e coerenza.Tuttavia restano un dato permanente la relazione di appartenenza Dio-tempio e il contatto sensibile tempio-Veggente, anche se quest’ultimo varia per azione e per senso fisico che lo celebra: partecipazione futura, vista, ascolto, misura etc., fino alla contemplazione di Dio e dell’Agnello. 8

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INTRODUZIONE 1.2 L’altare

L’altare (qusiasth,rion)15 ricorre otto volte in Apocalisse16. Due volte17 è accompagnato da una specificazione. La successione delle ricorrenze presenta la stessa difficoltà appena vista per il tempio: qual è il significato di altare nel libro? In 6,9 le vite dei martiri, uccisi per la parola di Dio, stanno sotto (u`poka,tw18) di esso; in 8,3 un angelo sta vicino (evpi. tou/) e effonde l’incenso alle preghiere dei santi sopra (evpi. to,) l’altare. In 8,5 l’angelo da (evk) esso prende il fuoco e lo getta sulla terra e in 9,13 dagli (evk) angoli dell’altare il Veggente sente uscire una voce; in 11,1 il Veggente lo misura. In 14,18 da (evk) l’altare (come già dal tempio del cielo, v. 14,17) il Veggente vede uscire un angelo che ha il potere sul fuoco e grida. Infine in 16,7 il Veggente sente l’altare che loda Dio. Come un altare possa parlare, o come da esso possano uscire gli angeli o starvi sotto anime di uomini non è cosa di immediata comprensione. È però chiaro ancora una volta che sul riferimento materiale, l’altare che è il punto focale dei gesti cultuali, si addensa un significato ulteriore19. 15

Cfr A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 224. Su 23 del Nuovo Testamento: K. ALAND, Vollständige Konkordanz, II, 133. 17 Ap 8,3 in accusativo di attribuzione to. crusou/n to. evnw,pion tou/ qro,nou/, in 9,13 in genitivo di materia tou/ crusou/ tou/ evnw,pion tou/ qeou/. 18 Preposizione che non ritorna mai, nei LXX e in NT, riferita all’altare, anche se in pochi passi compare in contesto profetico dove c’è il fuoco (bruciare la legna sotto le ossa in mimo profetico: Ez 24,4); o anche «sotto la gloria di Dio» in Ez 10,22; più spesso è «sotto i piedi» (in senso sia proprio sia figurato) e «sotto di te» o ancora «sotto il cielo» o «sotto terra». 19 Ancora una volta, un dato che resta fisso è la relazione visiva e uditiva del Veggente con esso, pur nel variare del modo in cui l’altare stesso si interfaccia ai vari personaggi della visione. Questa relazione Veggente-altare ha una sua progressione nei passi appena citati: inizia come semplice contatto visivo; che diviene contatto visivo-cultuale mediato da un angelo; poi contatto uditivo indiretto senza che si dica chi è la mediazione (i cori di cui si parla poco prima?); quindi fisico-manipolativo (il Veggente lo misura); poi ancora visivo-uditivo-cultuale indiretto (mediata da un angelo) e infine contatto uditivo diretto. Anche in questo caso ci pare che una comprensione statica del significato dell’altare sia problematica: viene difficile trovare qualche indicazione consistente senza 16

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 1.3 Gli incensi

Gli incensi (qumia,mata)20 ricorrono quattro volte21, sempre al plurale, di cui tre all’interno di una liturgia. In 5,8 sono il contenuto delle fiale, «che sono le preghiere dei santi», identificati indirettamente al versetto seguente come i riscattati dall’Agnello ucciso; in 8,3 gli incensi vengono dati all’angelo, perché li dia «alle preghiere dei santi tutti sull’altare d’oro davanti al trono»; in 8,4 «il fumo degl’incensi [dati] alle preghiere dei santi salì di mano dell’angelo davanti a Dio»; in 18,13 sono una delle merci che i mercanti non possono più trafficare in Babilonia, perché la città è andata distrutta. Anche qui la variata costruzione grammaticale addensa un significato ulteriore sul nostro termine (il rapporto con le preghiere dei santi), salvo forse nell’ultima ricorrenza, dove esso pare ridotto a semplice merce22. Il significato materiale, pur contemplato anche da solo nel libro, è di solito la base per un significato ulteriore23, che

allargare il campo d’osservazione almeno alla relazione Veggente-altare, dato certo e costante. Ancora una volta, il punto non è solo la definizione del significato attraverso, eventualmente, la costellazione semantica o la contestualizzazione del termine: la semplice lista delle ricorrenze con una anche superficiale contestualizzazione costringe con chiarezza ad allargare il campo di ricerca quantomeno alla relazione che lo stesso Veggente, narratore, intesse con il suo testo. 20 A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 224 classifica il termine di lessico liturgico ebraico, fornendo documentazione, sia veterotestamentaria, sia giudaica, sia cristiana. 21 Su 6 nel Nuovo Testamento: K. ALAND, Vollständige Konkordanz, II, 133. 22 Di un elenco però che si chiude con anime di uomini e non invece con schiavi, termine peraltro che il Veggente ben conosce quando lo oppone a liberi (per es. in 13,16). 23 Fermarsi dunque alla sola comprensione materiale, pur contemplata dal libro, è legittimo ed utile, ma solo un primo passo dell’ascolto del libro. Il cammino del termine qui pare essere l’opposto rispetto agli altri due appena visti: tuttavia vi è sempre un rilievo della relazione che esso ha appunto con le preghiere dei santi in 3 ricorrenze e invece con l’attività nefasta dei mercanti nella quarta. Nelle prime tre ricorrenze questa relazione assume un valore importante per l’impiego del termine stesso: in 5,8 è il contenuto delle preghiere dei santi; in 8,3.4 il fine della consegna dell’incenso è a servizio delle preghiere dei santi (cioè della loro attività adorante) e le porta davanti a Dio attraverso la mano dell’angelo. Tutta questa rete di relazioni (Dio, i Santi, gli angeli, i mercanti, il Veggente che vede) ci spinge, ancora, verso la necessità di una comprensione che non può accontentarsi del solo livello denotativo.

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INTRODUZIONE

tuttavia, per essere compreso, non può prescindere da quello materiale e dal suo uso liturgico24. 2. I gesti di culto

Un successivo livello di presenza della liturgia è costituito dalla descrizione delle celebrazioni che fanno uso degli oggetti cultuali. Sovente infatti questi sono menzionati nelle visioni di gesti cultuali, che normalmente sono parti di sequenze di culto più ampie. Ciò indica che il libro, quantomeno attraverso le visioni dell’agiografo, intende comprendere nella sua narrazione una liturgia. Portiamo anche qui due esempi particolarmente evidenti25: l’atto di incensare e quello di prostrarsi. 2.1 L’incensazione all’altare

Al capitolo 8,3-4 troviamo il sintagma dare incensi (di,dwmi qumia,mata): l’agiografo vede che un angelo incensa nei pressi dell’altare. La meccanica materiale del gesto descritto presenta qualche difficoltà ad essere immaginata nei suoi dettagli (cosa significa precisamente «dare incenso alle preghiere»? Dov’è collocato precisamente l’angelo rispetto all’altare? E i santi? Incensa l’altare o quel che vi sta sopra? Etc.), ma nel complesso è chiara, fino alla sua destinazione (il fumo degli incensi arriva «davanti a Dio»). Avviene in una liturgia: l’angelo vicino all’altare dà incensi alle preghiere26. 24 Va in una direzione di analisi dei simboli seguendoli nel corso del libro, anche se in un’ottica diversa da quella che abbiamo abbozzato, E. COTHENET, Exégèse et Liturgie, 287-303: è il capitolo sul simbolismo del culto, che tratta del candelabro a sette braccia, dell’altare dei profumi, del suono della tromba e delle preghiere dei santi. 25 Avremo modo di vedere in seguito che l’ascolto, il canto e la lode, le proclamazioni etc. sono anch’essi gesti liturgici, al pari del compiere sacrifici e degli altri gesti che qui brevemente commentiamo. 26 Resta il dubbio di chi stia materialmente vicino all’altare (evpi + acc.): forse i santi? O sono le preghiere dei santi a stare sull’altare? La lettera del testo lascia nell’indeterminazione, rispettando lo spazio creativo dell’immaginazione di chi ascolta senza tuttavia rinunciare a fissare alcuni (pochi) elementi essenziali.

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 2.2 Le prostrazioni dei cori lodanti

Il verbo prostrarsi in adorazione (proskune,w)27 ricorre 24 volte28, di cui ben nove si riferiscono a un gesto che si svolge all’interno di una liturgia in corso. Cinque volte il Veggente vede i cori celesti compiere la prostrazione29 e due volte egli stesso fa per prostrarsi davanti all’angelo, ma gli viene impedito30. Al di là dell’importanza dell’adorazione per il nostro agiografo, sottolineata dalla frequenza con cui il termine ricorre (il 40% delle ricorrenze neotestamentarie), l’uso del termine appalesa la presenza e il peso della liturgia nell’economia dell’opera. 3. Le espressioni verbali della liturgia

Nel corso del libro troviamo poi un modo di pregare e di rivolgersi a Dio che impiega un vocabolario e uno stile cultuali. Parole come alleluia (a`llhloui?a,) ed amen (avmh,n) ed espressioni come «grazia a voi e pace» (1,4: ca,rij u`mi/n kai. eivrh,nh), «vieni Signore Gesù» (22,20: e;rcou ku,rie VIhsou/), «santo, santo, santo» (4,8: a[gioj a[gioj a[gioj), per citare fra le tante solo le più evidenti31, erano correnti nella nascente liturgia cristiana e anche nella liturgia giudaica. L’agiografo verbalizza spesso e volentieri il rapporto con Dio attraverso il linguaggio della liturgia. Il fenomeno è così diffuso da non richiedere ulteriore dettaglio. Non è però solo una questione di vocabolario. Il libro contiene infatti veri e propri inni, oggetto ormai di diversi studi32. Troviamo dossologie, suppliche e altre forme letterarie che sono tipiche dell’innodia liturgica, spesso rivolte a Dio esplicitamente da uno o più soggetti corali. Basti come esempio la dossologia di 19,1-8, che avremo modo di commentare diffusamente più 27

A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 232 lo classifica, con documentazione, come termine di lessico liturgico ebraico usato anche nella liturgia cristiana. 28 24 su 60 del Nuovo Testamento: K. ALAND, Vollständige Konkordanz, II, 237. 29 4,10; 5,14; 7,11; 11,16; 19,4. 30 19,10 due volte; 22,8.9 31 Basti pensare alle benedizioni, alle maledizioni, ai titoli divini, etc. Un elenco nel lavoro più volte citato A. MITESCU, «Lessico Liturgico», passim. 32 Una panoramica in A.R. NUSCA, Heavenly Worship, 26-87. 10


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avanti. Il brano presenta chiari gli elementi di un inno33: l’introduzione con i verba dicendi (unito alla sottolineatura della grande voce), la prostrazione (v. 4), la lode formale (a iniziare dai vari alleluia), la ragione della lode (vv. 2.7: perché…) e il carattere responsoriale. Soprattutto quest’ultimo, unito all’adorazione diretta a Dio e alla coralità, suggerisce l’ambientazione liturgica. Lo stile di questi brani è così esplicito, che qualcuno ha visto in alcuni di essi l’inserimento quasi di peso di qualche inno della Chiesa primitiva34, sulla scia di quanto si pensa abbiano fatto altri agiografi, ad esempio S. Paolo e probabilmente 1Pt35. Pur essendo ciò poco probabile36, resta comunque rilevante l’esistenza di brani innici liturgici come parte in discorso diretto inserita nello sviluppo del libro, ad apparente interruzione della continuità narrativa. Agli inni possiamo aggiungere un altro elemento stilistico che rinvia chiaramente alla liturgia: l’interazione dialogica fra personaggi diversi, che insieme si rivolgono a Dio in forme cultuali. Intendiamo riferirci a Ap 1,4-8 e 22,6-21, i due brani che sono in apertura e chiusura del libro e sono stati chiamati «dialoghi liturgici»37. La pluralità di attori del testo, lo stile e il vocabolario cultuale e la presenza ex abrupto di una lode in prima persona plurale trovano la più plausibile collocazione in un’interazione cultuale fra coloro che leggono e ascoltano il libro. Questo costituisce un livello di presenza della liturgia diverso e ulteriore rispetto ai precedenti. L’interazione fra i diversi attori e il loro premere responsoriale per coinvolgere il pubblico nel dialogo sembra portare alcune conseguenze notevoli in sede di comprensione e fruizione del libro stesso: si passa da una liturgia raccontata a una liturgia celebrata, in actu exercito. Riteniamo opportuno riassumere con maggiore diffusione i risultati raggiunti dalla ricerca sui due brani dialogici iniziale e finale. Intendiamo così mostrare la plausibilità dell’ipotesi che vede l’opera intera come una grande liturgia che coinvolge l’ascolta33

Cfr K.-P. JÖRNS, Das hymnische Evangelium, 19s; A.R. NUSCA, Heavenly Worship, 194. Per es. J.J. O’ROURKE, «The Hymns of the Apocalypse». 35 Cfr M.-E. BOISMARD, Quatre Hymnes Baptismales. 36 Discussione critica in K.-P. JÖRNS, Das hymnische Evangelium, 174. 37 U.VANNI, «Un esempio»; ID., «Liturgical Dialogue»; così anche M.A. KAVANAGH, Apocalypse 22:6-21. 34

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tore.Vogliamo però prima soffermarci su alcuni indizi interni all’opera, che legittimano in modo evidente questa plausibilità. 3.1 Alcuni indizi testuali dell’interazione con gli ascoltatori

La lettura pubblica ad alta voce era la forma normale di accesso ai libri nell’antichità, dove la lettura privata e silenziosa era meno frequente e diffusa38. Gli scritti del Nuovo Testamento, a iniziare dalle lettere di Paolo, si conformano a quest’uso: erano destinati primariamente ad essere letti a voce alta davanti a un’assemblea. Ciò emerge chiaro anche da diversi passi del nostro libro. Scegliamo di soffermarci su tre di essi e di sottolineare le loro indicazioni sul tipo di assemblea destinataria. 3.1.1 «Beato colui che legge e coloro che stanno ascoltando»: 1,3

La prima delle sette beatitudini del libro, 1,3, segue il titolo e si rivolge ad un gruppo composto da un lettore e da ascoltatori delle parole della profezia, custodi di quanto in essa è stato scritto. L’oggetto unico accomuna lettore e ascoltatori, mostrando che l’agiografo li considera un’assemblea di pubblica lettura39. Le parole della profezia indicano l’opera40: il termine profezia indica il contenuto del libro in cinque delle sette ricorrenze totali41. La beatitudine ritorna verso la fine (22,7: maka,rioj o` thrw/n tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj tou/ bibli,ou tou,tou) riprendendo solo il terzo verbo (custodire – threi/n): il libro è già stato letto e ascoltato, dunque il richiamo resta solo per la custodia del suo messaggio, le parole della profezia del libro. Oltre alla lettura pubblica, questa beatitudine sembra fornire qualche indicazione sulla natura dell’assemblea in ascolto. Notiamo in primo luogo che «le parole di profezia, le cose scritte in

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Documentazione e bibliografia in D.E. AUNE, Revelation, I, 20-21. Così U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 348. Cfr anche BDAG, sub voce avnaginw,skw. 40 Oltrettutto, Giovanni-scrittore si è appena presentato alla maniera profetica come latore della parola di Dio rivoltagli (1,1-2). 41 Le 5 sono quelle contenute all’inizio e alla fine: 1,3; 22,7.10.18.19. 39

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essa» coincidono con la parola di Dio: lo illustra il versetto precedente, nel quale Giovanni, scrittore, si presenta come colui che «ha testimoniato la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo» (evmartu,rhsen to.n lo,gon tou/ qeou/ kai. th.n marturi,an VIhsou/ Cristou/)42. L’oggetto dell’ascolto ha dunque un’importanza e una solennità notevoli, che si trasmettono all’atto compiuto, il testimoniare. In particolare, in un ambiente legato al mondo ebraico, la lettura pubblica della parola di Dio e la sua interpretazione rimandano alla liturgia: lo attestano diversi passi neotestamentari43, Filone lo racconta per gli Esseni44 e lo confermano le testimonianze rabbiniche45. Anche il termine profezia (profhtei,a) merita particolare attenzione. In 19,10 lo spirito della profezia, che il Veggente possiede, è identificato con la testimonianza di Gesù, che abbiamo appena visto far oggetto unico con la parola di Dio e il contenuto del libro46. In questa sede non è bene entrare nella dibattuta questione se e quanto il Veggente si ritenga un profeta alla maniera 42 Ap 1,2. Così anche D.E. AUNE, Revelation, I, 20. La medesima densità divina della testimonianza dell’agiografo, espressa con altro vocabolario, la troviamo nel versetto che precede il testo parallelo in 22,7: è Dio stesso che manda il suo angelo-messaggero per mostrare ai suoi servi «ciò che deve avvenire presto»; la beatitudine è inoltre immediatamente preceduta da un’affermazione che Cristo fa in prima persona (kai. ivdou. e;rcomai tacu,), ponendo le parole del libro sotto la sua espressa autorità. 43 Cfr At 15,21; Lc 4,16s; anche At 13,27. 44 PHILO, Quod omnis probus liber sit, 81-82. 45 H.L. STRACK – P. BILLERBECK, Kommentar, IV, 1,153-188. Anche nella sinagoga di Sardi (cfr P. TREBLICO, Jewish Communities in Asia Minor, 51, citato in D.E. AUNE, Revelation, I, 20) è stata trovata la seguente iscrizione: eu`rw.n kla,saj a`nagnw/qi fu,laxon; la successione dei verbi con il molto probabile riferimento alla lettura della Torah confermano quanto abbiamo appena visto. Più diffusamente V. infra, § 4. 46 Si può aggiungere che in 11,6 profezia si riferisce al ministero dei due profetiulivi: nel corso del capitolo 11 i due personaggi sono chiamati testimoni, profeti, candelabri e ulivi, connettendo per paratassi la testimonianza con la profezia e il culto (candelabri e ulivi). 19,10 identifica lo spirito della profezia (to. pneu/ma th/j profhtei,aj) con la testimonianza di Gesù (marturi,a VIhsou/), il cui possesso (e;cein) accomuna il Veggente con gli altri suoi fratelli, ed entrambi, nel servizio (su,ndoulo,j sou, eivmi), con l’angelo celeste con cui il Veggente è in dialogo. Abbiamo già visto in 1,2-3 il nesso fra profezia e testimonianza di Gesù, qui vediamo che questo nesso accomuna Giovanni con i suoi fratelli e il personaggio celeste.

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dei profeti veterotestamentari. Ci interessa solo rilevare che l’opera scritta dall’agiografo è indicata con il termine profezia, giacché questa nel sec. I dell’era cristiana rinviava alla liturgia. Diversi studi hanno messo in luce questo legame nell’ambiente della chiesa primitiva47. Le poche notizie giunte fino a noi della prima profezia cristiana tratteggiano innanzitutto un carisma che poteva essere vissuto in un gruppo48; le profezie venivano consegnate alla (e i profeti accolti dalla) comunità riunita in assemblea liturgica49e da essa in quella sede andavano soggette al vaglio50. Il legame fra profezia e culto d’altronde era già presente nella Bibbia ebraica51. Il discernimento degli spiriti, al quale erano collegati sia la profezia52 sia di conseguenza il discernimento fra i veri e falsi profeti53, era celebrato in modo pubblico nel culto anche a Qumran, ed è prassi attestata fin dalla Bibbia ebraica54. Il dato è così chiaro da aprire spesso la questione se si tratti di culto sina-

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Cfr per es. D. HILL, NewTestament Prophecy, 87-93; E. COTHENET, «Prophétisme et Ministère»; R. JESKE, «Spirit», 460. Passi altamente indicativi sono At 2,17s; 1Cor 14; Ef 2,20. 48 Così J. REILING, Hermas and Christian Prophecy, 9-10; ma soprattutto C. FORBES, Prophecy and Inspired Speech, 246. Ne sono testimonianza 1Cor 12 – 14; At 2,4ss.; 19,6; Did. 11,7-12; HERMAS, Pastor, Praec. 11; IUSTINUS MARTYR, Dialogus cum Triphone, 39,2. Il dato è già presente nella Bibbia ebraica: p. es. 1Sam 19,18-24. 49 Il dato emerge evidente per es. in 1Cor 12,28; 14,29; Did. 15,1; HERMAS, Pastor, Praec. 11,9. 50 Cfr J. PANAGOPOULOS, «Die Urchristliche Prophetie», 22. 51 Per es. 1Cr 25,1-6; 2Re 23,2. Cfr L.L. GRABBE, Priests, Prophets, Diviners, Sages, 112-113; D.E. AUNE, Prophecy, 84; J. LINDBLOM, Prophecy in Ancient Israel, 218. La forma dialogata profeta-Dio-assemblea ritorna in diversi testi profetici: Ab 1-2; Na; Gl; Mic 7,8-20; Is 33,1s; etc.: cfr ibid.; J. EATON, Vision in Worship, 154ss; J.T.WILLIS, «Dialogue between Prophet and Audience». 52 Per es. in 1Cor 12,8-10 il discernimento segue subito la profezia. 53 Così, per esempio, 1Ts 5,19-22. 54 Cfr 1QS III, 18 – IV, 26 che tratta dell’opposizione dei due spiriti; 1QHa XII, 16 (=4.16) e CD-A VIII, 13 che trattano di falsa profezia; 1QS V, 20-24 tratta del discernimento in comune (dxyb) fatto dal clero (!wrha ynb) sullo spirito di ciascun membro, all’ingresso e una volta all’anno; così anche 1QS VI, 13-23; sul nesso fra profezia e comunità convocata in assemblea cfr J.D.G. DUNN, «Prophetic Utterances». Anche ID., Jesus and the Spirit. 14


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gogale o sacramentale55; vi ritorneremo più avanti, per ora basti rilevare il legame fra profezia e liturgia. Anche la coppia di termini «colui che legge» «coloro che ascoltano» è un prezioso indicatore. In contesto cultuale Giustino56 menziona chiaramente la lettura al pubblico, seguita da un commento parenetico da parte del presidente dell’assemblea. Stessa situazione prevedono le preghiere liturgiche dei cap. 9-10 della Didaché: un presidente-lettore e il popolo che ascolta e risponde amen. Paolo, chiudendo alcune sue lettere, raccomanda la lettura pubblica ad una comunità riunita57. Dovremo ritornare più avanti anche su questi passi58. La stessa formula della beatitudine, qui insolitamente riferentesi a un soggetto singolare e plurale, con alta probabilità è liturgica, soprattutto alla luce del verbo custodire (throu/ntej) che la chiude59. La pressione parenetica che il macarismo esercita su chi lo ascolta corrisponde alla descrizione di quanto fa il presidente dell’assemblea dopo la lettura nel passo appena citato di Giustino (nouqesi,an kai. pro,klhsin th/j tw/n kalw/n tou,twn mimh,sewj poiei/tai) e ritorna, per esempio, alla fine di un testo omiletico pseudoclementino60. Questo versetto costituisce dunque un primo esplicito indizio testuale che il libro è stato scritto per essere letto in un’assemblea cultuale, con il peculiare tipo di lettura-ascolto e di interazione lettore-ascoltatori che ne risulta. 55

Cfr E. COTHENET, «Prophétisme et Ministère», 47; J. PANAGOPOULOS, «Die Urchristliche Prophetie», 21-22. 56 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 67,3s. 57 Col 4,16; 1Ts 5,27. Cfr anche PS. CLEMENS ROMANUS, ad Corinthios II, 19,1. 58 V. infra, § 4.2. 59 Sul tema cfr M. MARINO, Custodire la Parola; anche C. DOGLIO, «“Beato chi conserva”». 60 PS. CLEMENS ROMANUS, ad Corinthios II, 19,1-3. In HERMAS, Pastor, Vis. 5,5-7 ricorre, dopo la lettura, la stessa esortazione a custodire. Ricordiamo che, nei primi secoli, in diversi luoghi il Pastore era letto nelle assemblee liturgiche al pari della parola di Dio. Su questa linea, con ulteriore documentazione, D.E. AUNE, Revelation, I, 11 afferma: «Variations of the kind of pronouncement found in Rev 1,3, whether in the form of a beatitude or not, were used in early Christianity either to introduce or (more commonly) to conclude readings that were presumed to represent the word of God.» e parla di liturgical formula. 15


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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 3.1.2 «Fuori gli idolatri»: 22,15

Al cap. 22,15 troviamo un altro indirizzo, rivolto implicitamente agli ascoltatori, che fa pensare a un ambiente cultuale. Si tratta dell’esclusione di coloro i quali tengono una condotta morale incompatibile con la fede, quindi, con il culto che, probabilmente, va celebrandosi: «fuori i cani, i fattuchieri, gli immorali…» (e;xw oi` ku,nej kai. oi` fa,rmakoi kai. oi` po,rnoi...). La frase è incastonata in un discorso diretto, a complemento della beatitudine di esortazione e dentro una sottoparte incorniciata da due espressioni in prima persona di Cristo; ciò fa sì che l’avverbio fuori (e;xw) suoni, oltre e più che una constatazione o una maledizione, un imperativo. La lista di vizi che segue ricorda un ambiente liturgico dove, per esempio in sede di iniziazione, venivano elencati i comportamenti perentoriamente incompatibili con l’appartenenza conseguita attraverso il rito61. In 21,8 un’altra lista più ricca include quella appena vista ed esprime per i comportamenti condannati una minaccia/maledizione (la palude di fuoco e zolfo) complementare alla promessa di ricompensa di 21,7; quest’ultima che fra l’altro prevede l’acqua della vita (in parallelo all’albero della vita di 22,14), elemento consono alla liturgia battesimale. In 22,15 la precedente minaccia, attraverso il fuori del discorso diretto, diventa imperativo d’esecuzione concreta di un’esclusione dalla comunità sacramentale62: sebbene con l’apparenza di complemento alla motivazione della beatitudine63 che precede, è, neppure tanto velatamente64, anche comando di uscire rivolto agli eventuali peccatori astanti; ci saremmo aspettati infatti, come complemento di 61

Cfr E. KAMLAH, Die Form, 23.35.185-188; P. PRIGENT, «Une trace de liturgie». È prassi che è rimasta a lungo nella liturgia della chiesa latina: la celebrazione eucaristica in corso doveva essere interrotta in caso di presenza o di ingresso in chiesa di uno scomunicato. 63 Di cui abbiamo appena visto l’uso parenetico. 64 È l’unico dei 7 macarismi di Ap la cui motivazione, introdotta da i[na, vede il passaggio dal futuro indicativo e;stai all’aoristo congiuntivo eivse,lqwsin: questo conserva anche un sapore esortativo (rafforzato dall’aoristo: l’altro macarismo con motivazione in congiuntivo ha un doppio presente, 16,15), preparatorio rispetto al secco e perentorio avverbio fuori del nostro ordine. L’agiografo gioca volutamente sui due piani, finendo per rivolgersi direttamente all’assemblea. 62

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una beatitudine/benedizione, una maledizione e non un invito ad uscire65. L’avverbio fuori infatti conserva quasi sempre in Apocalisse il senso pieno fisico-spaziale66. Di fatto la voce del presidente dell’assemblea o del lettore impone, a chi abbia una condotta incompatibile, l’uscita dal locale dove si celebra. Ciò trova un parallelo in Didaché 9,5; 10,6; 14,267, passi sui quali ancora dovremo ritornare in seguito68. L’espressione suona dunque, al fianco dell’aspetto affermativo, un indirizzo diretto, o meglio una rubrica liturgica rivolta a una comunità dalla quale è bene vengano esclusi coloro che hanno impedimenti gravi. Ci pare un ulteriore indizio di pubblico cultuale69. 3.1.3 «E chi sta ascoltando dica: “Vieni!”»: 22,17

Troviamo ancora più esplicita una rubrica liturgica in 22,17: «Chi sta ascoltando dica: “Vieni!”» (kai. o` avkou,wn eivpa,tw\ e;rcou)70. È una istruzione diretta: chiede che ogni ascoltatore compia subito l’azione determinata e precisa di ripetere l’invito Vieni rivolto allo sposo. Lo stesso interlocutore71 è successivamente qualificato 65

È infatti riduttivo fermarsi a cogliere solo una constatazione di estraneità. La grafia e;xw ritorna ancora in 3,12 (il giusto starà come colonna dentro il tempio del Signore e non starà fuori), mentre e;xwqen in 11,22 e 14,20. Solo in 11,22 indica lasciare fuori dalla misurazione il cortile che si trova fuori dal tempio: in tutti gli altri casi fuori ha valore squisitamente fisico-spaziale. Stesso significato è di gran lunga il più frequente negli scritti giovannei. Il significato fisico-spaziale, statico o a seguito di un’azione, è anche quello largamente più presente nel NT: cfr BDAG, s. v. 67 L’invito, fuori dall’ambiente liturgico anche se ad esso collegato, risuona, oltre che nei citati passi della Didaché, anche in Mt 5,23s e probabilmente dietro 1Cor 11,27-29. 68 V. infra, § 4.2. 69 È certo difficile che una rubrica siffatta fosse destinata a obbedienza esecutiva immediata: ci sembra poco probabile che i peccatori apostrofati accogliessero l’invito dichiarandosi tali in pubblico. Resta tuttavia il portare così l’attenzione (e il cuore) degli ascoltatori sulla certezza che i peccatori sono fuori, e che il gruppo di chi resta e accede al seguito della liturgia è distinto dal peccato. Più che di tecnica di autodefinizione di gruppi in tensione con il resto della società (cfr ad es. A.YARBRO COLLINS, «Vilification and Self-Definition»), ci pare un mezzo per aiutare gli oranti a percepirsi dentro la salvezza che si va celebrando. 70 Così U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 360: è «the most convincing evidence of a dialogue taking place». 71 Così giustamente P. PRIGENT, Apocalypse, 498 (che cita anche A. SATAKE, Die Gemeindeordnung, 76ss): gli ultimi due imperativi indicano due gesti di un’unica se66

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come colui che ha sete (o` diyw/n) ed è invitato a venire e a prendere senza spesa (dwrea,n), se lo vuole (qe,lwn), acqua di vita (u[dwr zwh/j). L’ordine di ripetere, in imperativo aoristo, è il primo di una sequenza di tre (seguono venga – evrce,sqw; prenda – labe,tw) che costituisce il primo brano, positivo trimembro, di un dittico il cui secondo brano, negativo bimembro, segue subito dopo (22,18.19). Il dittico è incorniciato autorevolmente da due affermazioni in prima persona singolare di Gesù (22,16.20)72. L’ evidenza letterale dell’istruzione permette di affermare che siamo davanti ad una vera e propria rubrica. Il sapore liturgico risulta ancora più chiaro, sia alla luce del contesto, che è una sequenza nota alla primitiva liturgia cristiana73, sia alla menzione della chiesa (la sposa) e dello Spirito, che vedremo legato alla liturgia. Altri elementi vanno in questa direzione. Si pensi solo al verbo venire (e;rcomai), o ai nomi e titoli divini e all’insistenza della dimensione escatologica nel libro: documentati studi hanno mostrato il nesso fra questi elementi e il culto74. Ci pare tuttavia che gli esempi addotti siano sufficienti per il nostro fine. Passiamo allora all’esame dei dialoghi iniziale e finale, che sono peculiare illustrazione del rapporto liturgico in atto quando il libro viene proclamato.

quenza di azione, come indica la complementarietà fra aver sete e prendere acqua (richiamo con venire e senza spesa a Is 55,1); segue che «colui che ha sete» è anche «colui che vuole». Ciò rivela che nel versetto l’agiografo sta qualificando in modi diversi la medesima persona, i suoi interlocutori, probabilmente «pour faire valoir divers aspects de la réalité.» Il nesso fra «venire» e «bere acqua di vita» è già in Gv 6,35; 7,37-38, anch’essi probabile allusione a Is 55,1. Avremo occasione di ritornare sul carattere liturgico ed eucaristico della tematica dell’«acqua della vita». 72 TCGNT, 691 riferisce che il libro in parte della tradizione manoscritta (a, 046, 051, quasi tutti i minuscoli delle versioni vulgata, syriaca peshitta e harclensis, coptica sahidica e boahirica, armena, etiope et alii) è chiuso da un amen, che il comitato del GNT omette (diversamente C. TISCHENDORF, NTG) seguendo A, 1006, 2065txt, 2432, il cod. Gigas della itala, alcuni mss. della vulgata, compreso il codex Fuldensis, Tychonius et alii. L’amen costituisce comunque attestazione che una parte della tradizione testuale ha colto l’inerenza del passo alla liturgia. 73 V. infra, § 4.2. 74 Cfr J.F. TORIBIO CUADRADO, «El Viniente»; D.E. AUNE, The Cultic Setting; etc. 18


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INTRODUZIONE 3.2 I dialoghi liturgici iniziale e finale

L’elemento forse più complesso ma anche più peculiare della presenza della liturgia è costituito dalla forma dialogica delle parti che stanno verso l’inizio (1,4-8) e alla fine (22,6-21) del libro. Due studiosi in particolare hanno gettato luce sulle loro caratteristiche. Vista l’importanza per la nostra ricerca, riportiamo con una certa diffusione i risultati dei loro lavori, la cui eco è risuonata nel variegato dibattito della letteratura scientifica75. 3.2.1 Il dialogo liturgico iniziale: 1,4-8

Sul dialogo liturgico iniziale (1,4-8) è tornato più volte Vanni76. Diamo di seguito il testo e la sua traduzione: 1,4 VIwa,nnhj tai/j e`pta. evkklhsi,aij tai/j evn th/| avsi,a\| ca,rij u`mi/n kai. eivrh,nh avpo. o` w῍ n kai. o` h=n kai. o` evrco,menoj kai. avpo. tw/n e`pta. pneuma,twn a] evnw,pion tou/ qro,nou auvtou/ 5 kai. avpo. VIhsou/ Cristou/( o` ma,rtuj o` pisto,j( o` prwto,tokoj tw/n nekrw/n kai. o` a;rcwn tw/n basile,wn th/j gh/jÅ Tw/| avgapw/nti h`ma/j kai. lu,santi h`ma/j evk tw/n a`martiw/n h`mw/n evn tw/| ai[mati auvtou/( 6 kai. evpoi,hsen h`ma/j basilei,an( i`erei/j tw/| qew/| kai. patri. auvtou/( auvtw/| h` do,xa kai. to. kra,toj eivj tou.j aivwn/ aj\ avmh,nÅ 7 VIdou. e;rcetai meta. tw/n nefelw/n( kai. o;yetai auvto.n pa/j ovfqalmo.j kai. oi[tinej auvto.n evxeke,nthsan( kai. ko,yontai evpV auvto.n pa/sai ai` fulai. th/j gh/jÅ nai,( avmh,nÅ 8 VEgw, eivmi to. :Alfa kai. to. W = ( le,gei ku,rioj o` qeo,j( o` w῍ n kai. o` h=n kai. o` evrco,menoj( o` pantokra,twrÅ 75 76

Cfr D.E. AUNE, «Apocalypse Renewed», 68-69; P. PRIGENT, Apocalypse, 487; etc. «Un esempio»; L’Apocalisse, 101-113; «Liturgical Dialogue», 349-355. 19


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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 1,4 Giovanni alle sette chiese in Asia «Grazia a voi e pace da parte di (colui) che è e (che) era e che verrà; e da parte dei sette spiriti che (sono) di fronte al trono di lui; 5 e da parte di Gesù Cristo il testimone quello fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra» «A colui che ci ama (in continuazione) e sciolse noi dai nostri peccati nel sangue suo 6 e fece noi regno di sacerdoti a Dio e Padre suo A lui la gloria e la forza per i secoli: amen!» 7 «Ecco: verrà con le nuvole e lo vedrà ogni occhio e (lo vedranno) coloro che lo trafissero e si batteranno il petto su di lui tutte le tribù della terra». «Sì, Amen» 8 «Io sono l’alfa e l’omega – dice il Signore Dio – colui che è e che era e che verrà, colui che domina tutto».

Fin da un primo sguardo, i cinque versetti presentano un buon numero di elementi di eterogeneità: Diversi solecismi: due volte (1,4.8) la preposizione avpo, è costruita non con il genitivo ma con il nominativo (o` w;n …); un verbo con valore nominale è in forma di imperfetto indicativo III persona singolare (o` h=n); in 1,5 manca la concordanza fra il nome Gesù Cristo (VIhsou/ Cristou/, genitivo introdotto correttamente da avpo,) e i titoli che gli si riferiscono (o` ma,rtuj( o` pisto,j( o` prwto,tokoj tw/n nekrw/n kai. o` a;rcwn, in nominativo). Diversi salti nella struttura grammaticale: ancora in 1,5 la titolazione di Cristo salta dal nominativo (i titoli appena visti) al dativo (tw/| avgapw/nti h`ma/j kai. lu,santi h`ma/j), per poi ritornare a predicare Cristo come soggetto di un verbo di modo finito (1,6: kai. evpoi,hsen h`ma/j, aoristo indicativo) e poi ancora di un dativo di possesso (auvtw/| h` do,xa). Salvo poi, dopo l’avmh,n, ritornare al 20


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modo finito (1,7: e;rcetai, presente indicativo) con una formula profetica che giunge quantomeno inattesa. Il presente indicativo è poi seguito da due futuri (kai. o;yetai, kai. ko,yontai, indicativi) che, pur con soggetti grammaticali diversi, paiono riferirsi alla stessa azione descritta dal precedente presente. Poi ancora il salto alla I persona singolare, di nuovo con il presente indicativo (1,8: VEgw, eivmi), chiarita, solo dopo, dalla clausola oracolare «dice il Signore Dio» (le,gei ku,rioj o` qeo,j, ancora presente indicativo). Ce n’è abbastanza, ci pare, per disorientare qualunque silente lettore moderno. Qualche studioso ha infatti parlato di accozzaglia eterogenea di testi.Tuttavia ci sono anche chiari segni di unitarietà nello stile (oltre alla finissima conoscenza della grammatica greca che l’agiografo mostra e che avremo modo di vedere): Le sostituzioni del nominativo, in luogo del genitivo che ci aspetteremmo, sono due, per il nome divino e per i titoli di Cristo (o` w;n…// o` ma,rtuj …), tutti in dipendenza dalla stessa preposizione (avpo,); sono evidentemente in parallelo e si inscrivono in una terna di avpo, che è chiaramente unitaria. Il salto al dativo nella titolazione di Cristo (tw/| avgapw/nti…) è ripreso dal dativo pronominale di possesso (auvtw/| …) che segue la frase con il verbo all’indicativo (kai. evpoi,hsen): è un’inclusione stilistica77. La frase profetica in 1,7 è sorprendentemente omogenea nei tempi verbali, con il verbo e;rcetai al presente indicativo che, notano alcuni78, ha spesso nel libro il valore di futuro. 77 Il salto ha un suono meno strano per l’orecchio avvezzo a costruzioni ebraiche quali il casus pendens (P. JOÜON – T. MURAOKA, A Grammar of Biblical Hebrew, § 156). Già infatti, per il passaggio dal participio all’indicativo, S.R. DRIVER, A Treatise, 149-150 osservava «The reader will be aware…that is common custom with hebrew writers after employing a participle or infinitive to change the construction and, if they wish to subjoin other verbs which logically should be in the participle or infinitive as well, to pass to the use of the finite verb.» Avviene con una certa frequenza in Apocalisse: S. THOMPSON, The Apocalypse and Semitic Syntax, 67 dà una lista di 13 versetti in cui avviene questo passaggio. 78 U.VANNI, L’Apocalisse, 103 e nota 6; anche F. BLASS – al., Grammatica, § 323.

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Anche il successivo oracolo profetico ha la sua omogeneità di stile. La formula o` w῍ n kai. o` h=n kai. o` evrco,menoj sta in apertura del primo blocco (v. 4-5a) e chiude l’ultimo (v. 8): ancora un’inclusione. La parola avmh,n due volte chiude un blocco attribuibile ad un personaggio: i vv. 5b-6a, dove parla un noi individuato dai dativi (tw/| avgapw/nti h`ma/j kai. lu,santi h`ma/j), e il v. 7, che è un oracolo profetico in III persona singolare individuato dall’omogeneità appena vista. In una lettura pubblica le pause e le sospensioni generate dai solecismi, uniti ai cambi di tono della voce, permettono di meglio comprendere il significato e la solennità delle espressioni. Gli indizi di unità permettono di isolare la struttura concentrica del brano sui seguenti elementi: A : 4-5a: o` w῍ n kai. o` h=n kai. o` evrco,menoj B : 5b-6: avmh,n B’: 7: nai,( avmh,n A’: 8: o` w῍ n kai. o` h=n kai. o` evrco,menoj Questa struttura sembra sovrapporsi agli elementi di eterogeneità, senza tuttavia dissolverli. Come risolvere il dilemma? Vanni ricorda l’inquadramento liturgico appena precedente (1,3: «beati colui che legge e coloro che ascoltano»), che esprime il rapporto plurale e simultaneo nell’accesso al testo da parte del lettore e degli ascoltatori, e aggiunge ad esso diversi altri elementi caratteristici della liturgia79. Questa pluralità di soggetti in ambito liturgico può ben costituire un dialogo fra lettore e assemblea: «Il dialogo…più o meno articolato, è una delle forme letterarie nelle quali si esprime la liturgia.» 80 79

Il già citato 22,17; il termine evkklhsi,a, che conserva nel libro il suo significato veterotestamentario di assemblea convocata in ascolto dello Spirito; i due avmh,n; il saluto di 1,4 ca,rij u`mi/n kai. eivrh,nh, ripreso in 22,21. 80 Così avviene in diversi salmi di uso liturgico, sia all’interno del loro testo finale sia, a Qumran (per es. 11Q5), nell’ordine della loro successione nei manoscritti. Così anche in Did. 10,6. Cfr U.VANNI, L’Apocalisse, 106.

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Ecco che allora l’indirizzo iniziale, nelle labbra del lettore («Giovanni alle sette chiese»), si rivela transizione dal tono espositivo, dei versetti precedenti (1,1-2), a quello più diretto e coinvolgente, della proclamazione solenne (il macarismo), che prosegue nel saluto d’apertura del dialogo vero e proprio («grazia e pace a voi»). Il saluto del lettore sostituisce il voi a le sette chiese dell’indirizzo; gli fa eco il noi della risposta dell’assemblea, che i salti grammaticali dividono nei tre membri di un’inclusione, accentuando così la solennità. L’ attenzione dell’assemblea è così riportata dal rapporto lettore-ascoltatori a Cristo, dal quale era scesa a motivo del voi delle parole di saluto del lettore (grazia a voi): questo passaggio rafforza così la natura di risposta a Cristo del saluto. Il lettore riprende la parola annunciando un oracolo profetico (Ecco verrà…), risposta consona alla disponibilità appena dichiarata dall’assemblea attraverso la lode e la dossologia confermate solennemente dall’amen. L’assemblea interviene ancora dopo l’oracolo, confermando l’adesione piena (nai,( avmh,n)81. Forte di questa aderenza piena alla Parola, il lettore può dar voce alle parole dirette di Dio (I persona singolare), certificate dall’inciso dice il Signore Dio: «Il fatto che il lettore parli all’assemblea a nome di Dio fa risaltare la concretezza liturgica del dialogo…[e] coinvolge Dio stesso nel dialogo.»82 In questo modo possono essere composte le diverse tensioni del testo. Emerge un’unità che non è quella linerare dell’esposizione o della narrativa, bensì quella di un dialogo, le cui parti sono distinte e contrapposte; il tono generale di solennità liturgica resta una ben comprensibile nota unitaria; le difficoltà grammaticali invitano (o addirittura obbligano) a un ritmo lento, solenne e spezzato, che guida l’assemblea in ascolto nella particolare attenzione e concentrazione orante, meditativa e assimilativa. Vanni offre a seguire un’esegesi. Mette così in luce prima di tutto il coinvolgimento progressivo dei dialoganti nella venuta di 81 82

Sulla differenza nell’assenso fra nai, e avmh,n cfr U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 350s. U.VANNI, L’Apocalisse, 107.

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Dio nella storia83, che avviene attraverso la celebrazione (lode, annuncio e adesione). Mostra però anche che essi crescono, nella comprensione e vicinanza, entro i rapporti fra Dio e Cristo, proprio a partire dal ruolo svolto da Cristo nella storia salvifica84. Conclude illustrando e interpretando i richiami con il dialogo finale (22,6-11), che analizziamo a seguire. 3.2.2 Il dialogo liturgico finale: 22,6-21

Il brano che chiude l’Apocalisse presenta una gran quantità di asperità e difficoltà. La stessa definizione della pericope è abbastanza controversa85. L’intero complesso è stato oggetto della dissertazione dottorale di M.A. Kavanagh, difesa nel 1984 presso l’Università Gregoriana di Roma.Vanni ne ha ripreso le conclusioni nello studio del 1991, sviluppandone alcune implicazioni circa le caratterische dialogico-liturgiche. Riporteremo quest’ultimo lavoro. Riteniamo però utile riferire prima brevemente la genesi metodologica della proposta, sintetizzando sul tema la ricerca di Kavanagh. a) Criteri per isolare un dialogo liturgico Il lavoro dello studioso americano dedica una consistente parte del Capitolo III allo studio del dialogo liturgico. Passa in rassegna gli elementi dialogico-cultuali presenti nel libro dei Salmi86, in alcune liturgie attestate dai rotoli di Qumran87 e infine in Dida83 È il tema che con le sue tre ricorrenze (o` evrco,menoj - e;rcetai - o` evrco,menoj) attraversa tutto il brano, come illustra in maniera dettagliata J.F. TORIBIO CUADRADO, «El Viniente», 77-92. 84 U.VANNI, L’Apocalisse, 112-113. 85 D.E. AUNE, Revelation, III, 1200-1201 parla di epilogue e di concluding parenesis e vede l’inizio al v. 10; C.H. GIBLIN, «Structural and Thematic Correlations» vede l’inizio al v. 9, anche se si chiede se possa essere definito un inizio; E. LOHMEYER, Offenbarung, 178 lo vede invece al v. 8; E.-B. ALLO, Apocalypse, 356, P. PRIGENT, Apocalypse, 486 e U.VANNI, Struttura, 109-112.301, con i quali concordiamo, vedono invece l’inizio della pericope in 22,6; etc. 86 Si rifa, fra gli altri, a S. MOWINCKEL, The Psalms in Israel’s Worship. 87 Riporta in dettaglio (pagg. 109-113) l’aspetto dialogico della liturgia d’ingresso nell’Alleanza (1QS I, 18 – II, 25) studiata da C.W. FISHBURNE, Liturgical Patterns and Structure, e di 11Q5 analizzato da P.W. SKEHAN, «Liturgical Complex».

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ché 10,6 e in Ap 1,4-8. Arriva alle seguenti conclusioni metodologiche, che vogliamo riportare88. Perché si debba ricorrere all’ipotesi di un «dialogo liturgico»: bisogna per prima cosa rilevare elementi di un’evidenza che la giustifichi. Gli studi riportati partivano tutti da una tensione interna ai testi, che presentavano insieme elementi di unità e di eterogeneità; bisogna poi mostrare il carattere liturgico del testo. Mentre nei Salmi questo è oggetto di discussione, in casi come i passi di Ap e Didaché appena citati il carattere è palese; bisogna quindi determinare il carattere dialogico del testo. Questo può scaturire da molti e diversi indicatori. Kavanagh cita i cambi nei destinatari o nei locutori; le forme domanda-risposta; quelle invito-risposta; i ritornelli; l’uso di acclamazioni comunemente riconosciute. A questo punto si può ragionevolmente tentare di attribuire i diversi passi ai vari dialoganti. Infine l’analisi può mettere in luce altri elementi che corroborino e testino l’ipotesi del dialogo liturgico, che possono essere: chiarire l’unità di significato del testo; definire la sua funzione liturgica, o almeno la relazione fra il testo e la liturgia di cui fa parte89. Potrebbe ancora restare una certa tensione fra la struttura dialogica del testo e la sua struttura letteraria. Possiamo adesso entrare in medias res riportando il risultato dell’analisi condotta dallo studioso italiano. 88

M.A. KAVANAGH, Apocalypse 22:6-21, 121-124. Sotto questo profilo propone la seguente tassonomia di testi liturgici (ibid., 123): 1) «liturgical formulae» (as D.J.A. CLINES, «Psalm Research. I», 109-110 used the term to mean texts «from which the nature and details of the cult may be reconstructed»); 2) liturgical texts (texts specifically designed to play a role in a given liturgical situation and which serve little function elsewhere); 3) texts of liturgical origin (for example, many Psalms, perhaps originally intended to perform a specific liturgical function, but whose history has shown them elastic enough to survive apart from the original context); 4) texts composed for liturgical use (for example, Christian homilies, designed perhaps for a liturgical situation, but not in themselves either «liturgical texts»/«texts of liturgy» nor so bound to the original situation that they can serve no other purpose). 89

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b) Il dialogo liturgico finale L’introduzione dello studio riassume alcuni dei diversi elementi che appalesano il carattere liturgico dell’intera opera. Sono compresi fra quelli che abbiamo visto nei paragrafi precedenti. Segue l’analisi del dialogo liturgico iniziale, per poi passare al brano che ci riguarda. Esso presenta tensioni e difficoltà quanto all’inizio della pericope, all’identificazione dei diversi soggetti90 che parlano e alla continuità e unità letterarie e logiche. Riportiamo la ripartizione dialogica (in corsivo i diversi intervenuti secondo l’attribuzione del gesuita) indicata da Vanni, 1991, con traduzione nostra: [John] 22,6 Kai. ei=pe,n moi( [Angel] Ou-toi oi` lo,goi pistoi. kai. avlhqinoi,( kai. o` ku,rioj o` qeo.j tw/n pneuma,twn tw/n profhtw/n avpe,steilen to.n a;ggelon auvtou/ dei/xai toi/j dou,loij auvtou/ a] dei/ gene,sqai evn ta,ceiÅ [Jesus] 7 Kai. ivdou. e;rcomai tacu,Å [Angel] Maka,rioj o` thrw/n tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj tou/ bibli,ou tou,touÅ [John] 8 Kavgw. VIwa,nnhj o` avkou,wn kai. ble,pwn tau/taÅ kai. o[te h;kousa kai. e;bleya( e;pesa proskunh/sai e;mprosqen tw/n podw/n tou/ avgge,lou tou/ deiknu,onto,j moi tau/taÅ 9 Kai. le,gei moi( [Angel] {Ora mh,\ su,ndoulo,j sou, eivmi kai. tw/n avdelfw/n sou tw/n profhtw/n kai. tw/n throu,ntwn tou.j lo,gouj tou/ bibli,ou tou,tou\ tw/| qew/| prosku,nhsonÅ [John] 10 Kai. le,gei moi( [Angel] Mh. sfragi,sh|j tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj tou/ bibli,ou tou,tou( o` kairo.j ga.r evggu,j evstinÅ 11 O ` avdikw/n avdikhsa,tw e;ti kai. o` r`uparo.j r`upanqh,tw e;ti kai. o` di,kaioj dikaiosu,nhn poihsa,tw e;ti( kai. o` a[gioj a`giasqh,tw e;tiÅ [Jesus] 12 VIdou. e;rcomai tacu,( kai. o` misqo,j mou metV evmou/ avpodou/nai e`ka,stw| w`j to. e;rgon evsti.n auvtou/Å

[Giovanni] 22,6 E mi disse, [Angelo] «Queste parole sono degne di fede e vere e il Signore Iddio degli spiriti dei profeti ha mandato il messaggero di lui a mostrare ai servi di lui le cose che devono avvenire in breve.» [Gesù] 7 «Ecco vengo presto.» [Angelo] «Beato colui che custodisce le parole della profezia di questo libro.» [Giovanni] 8 E io Giovanni che ascolto e vedo queste cose. E quando ebbi ascoltato e visto, caddi per adorare davanti ai piedi del messaggero che mi stava mostrando queste cose 9 E mi dice, [Angelo] «Non farlo! sono compagno di te nel servizio e dei tuoi fratelli i profeti e di coloro che custodiscono le parole di questo libro: adora Iddio.» [Giovanni] 10 E mi dice, [Angelo] «Non sigillare le parole della profezia di questo libro,il tempo infatti è vicino. 11 Chi sta facendo ingiustizia faccia ancora ingiustizia, e il malvagio sia ancora maledetto e il giusto faccia ancora giustizia e il santo sia ancora santificato.» [Gesù] 12 «Ecco vengo presto, e il mio compenso è con me per dare a ciascuno a seconda di com’è l’opera sua.

90 Le poche cose chiare sono: Giovanni agiografo è fra coloro che parlano (vv. 6.21); l’angelo che egli cerca di adorare gli risponde (vv. 8-9); Gesù stesso interviene (vv. 12-13.16.20).

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INTRODUZIONE / E v gw. to. :Alfa kai. to. V W( o` prw/toj kai. o` e;scatoj( h` avrch. kai. to. te,lojÅ [Angel] 14 Maka,rioi oi` plu,nontej ta.j stola.j auvtw/n( i[na e;stai h` evxousi,a auvtw/n evpi. to. xu,lon th/j zwh/j kai. toi/j pulw/sin eivse,lqwsin eivj th.n po,linÅ 15 E ; xw oi` ku,nej kai. oi` fa,rmakoi kai. oi` po,rnoi kai. oi` fonei/j kai. oi` eivdwlola,trai kai. pa/j filw/n kai. poiw/n yeu/dojÅ [Jesus] 16 VEgw. VIhsou/j e;pemya to.n a;ggelo,n mou marturh/sai u`mi/n tau/ta evpi. tai/j evkklhsi,aijÅ E v gw, eivmi h` r`iz, a kai. to. ge,noj Daui,d( o` avsth.r o` lampro.j o` prwi?no,jÅ [John] 17 Kai. to. pneu/ma kai. h` nu,mfh le,gousin( [The Spirit and the bride] :ErcouÅ [John] Kai. o` avkou,wn eivpa,tw( [Hearers] :ErcouÅ [John] Kai. o` diyw/n evrce,sqw( o` qe,lwn labe,tw u[dwr zwh/j dwrea,nÅ 18 Marturw/ evgw. panti. tw/| avkou,onti tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj tou/ bibli,ou tou,tou\ evan, tij evpiqh/| evpV auvta,( evpiqh,sei o` qeo.j evpV auvto.n ta.j plhga.j ta.j gegramme,naj evn tw/| bibli,w| tou,tw|( 19 kai. evan, tij avfe,lh| avpo. tw/n lo,gwn tou/ bibli,ou th/j profhtei,aj tau,thj( avfelei/ o` qeo.j to. me,roj auvtou/ avpo. tou/ xu,lou th/j zwh/j kai. evk th/j po,lewj th/j a`gi,aj tw/n gegramme,nwn evn tw/| bibli,w| tou,tw|Å 20 Le,gei o` marturw/n tau/ta( [Jesus] Nai,( e;rcomai tacu,Å [Hearers] VAmh,n( e;rcou ku,rie VIhsou/Å [John] 21 ~H ca,rij tou/ kuri,ou VIhsou/ meta. pa,ntwnÅ 13

13

Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e il fine.» [Angelo] 14 «Beati coloro che lavano le vesti loro, cosicché sarà l’autorità loro sul legno della vita ed entrino per le porte nella città. 15 Fuori i cani e i fattucchieri e i fornicatori e gli omicidi e gli idolatri e chiunque ami e faccia menzogna.» [Gesù] 16 «Io Gesù ho inviato il mio messaggero a testimoniare a voi queste cose sulle chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella luminosa del mattino.» [Giovanni] 17 E lo spirito e la sposa dicono, [Lo Spirito e la sposa] «Vieni». [Giovanni] E chi sta ascoltando dica [Ascoltatori] «Vieni». [Giovanni] E chi ha sete venga, chi vuole riceva senza spesa acqua della vita. 18 Testimonio io a chiunque sta ascoltando le parole della profezia di questo libro: se uno ponesse [qualcosa] sopra di esse, porrà Dio sopra di lui le piaghe scritte in questo libro, 19 e se uno togliesse [qualcosa] dalle parole del libro di questa profezia, toglierà Dio la parte di lui dal legno della vita e dalla città santa di quelli scritti in questo libro. 20 Dice colui che sta testimoniando queste cose, [Gesù] «Si, vengo presto.» [Ascoltatori] «Amen, vieni Signore Gesù.» [Giovanni] 21 La grazia del Signore Gesù [sia] con tutti [voi].

Per i nostri fini i verba dicendi acquisiscono un’importanza particolare: 22,

6 9 10 17a 17b 20

kai. ei=pe,n moi kai. le,gei moi kai. le,gei moi kai. to. pneu/ma kai. h` nu,mfh le,gousin kai. o` avkou,wn eivpa,tw le,gei o` marturw/n tau/ta

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Il brano che sta fra i primi due verba dicendi (v. 6 e v. 9) è tutt’altro che omogeneo: al v. 7 abbiamo improvvisamente un salto dalla III persona singolare (del v. 6) alla I, seguito da un solenne macarismo; il v. 8 continua con la I singolare, ma in una frase di stile chiaramente narrativo e non di proclamazione solenne come le frasi appena precedenti del v. 7. Abbiamo così nei vv. 6-7 tre unità letterarie minori: 22,6 ha unità attorno al tema delle parole del libro (ou-toi oi` lo,goi), rese autorevoli perché provenienti da Dio e consegnate ai suoi servi per mezzo dell’angelo; stanno dunque bene sulle labbra dell’angelo di cui al v. 22,1; 22,7a è frase improvvisamente in I persona singolare (kai. ivdou. e;rcomai tacu,) e non riferibile all’angelo: non può che essere di Gesù, come ogni altra ricorrenza della stessa frase nel corso del libro91. 22,7b è un macarismo (maka,rioj o` thrw/n …) di difficile attribuzione: sembrerebbe da attribuire a Gesù, ma ha un valore parenetico con un tono minore rispetto alla grandiosità di espressione e di contenuto che di solito hanno nel libro le parole di Cristo. D’altra parte l’introduzione del v. 8a (kavgw. VIwa,nnhj o` avkou,wn kai. ble,pwn tau/ta) preclude l’attribuzione a Giovanni; per Vanni non resta che attribuire all’angelo, con la conferma del parallelo tematico con quanto l’angelo stesso ha appena detto (v. 6 ou-toi oi` lo,goi…// v. 7b tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj tou/ bibli,ou tou,tou); Dopo la breve parentesi narrativa della mancata adorazione, troviamo un nuovo verbo di dire (kai. le,gei moi, stavolta al presente) riferito ancora all’angelo; egli spiega il divieto della prostrazione con la comunione nel servizio, che lega il personaggio celeste con l’agiografo e i suoi fratelli (su,ndoulo,j sou, eivmi kai. tw/n avdelfw/n sou), i profeti e gli osservanti delle parole del libro. C’è un nuovo verbo di dire al v. 10, senza soggetto espresso. Vanni lo attribuisce allo stesso soggetto dei vv. 6.9, l’angelo. Lo stile infatti del passo che segue immediatamente (vv. 10b-11), 91

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2,16; 3,11; 22,12; 22,20.


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INTRODUZIONE

prolisso e articolato, non è quello perentorio e epigrammatico di Cristo (altra attribuzione teoricamente possibile). I successivi vv. 12-13 ritornano alla I persona singolare con lo stile solenne ed epigrammatico: è Gesù che parla, come appare chiaro dall’identificazione che è il v. 13. Ai vv. 14-15 troviamo lo stesso problema incontrato per il v. 7b: un macarismo che cambia bruscamente il tono epigrammatico. La divisione in due dell’umanità a seconda dell’agire (compresi gli astanti, per i quali ci pare suonare un ordine, come abbiam visto poco sopra), mette i versetti in parallelo sia alla beatitudine del v. 7b sia al v. 11 che precede l’intervento di Gesù. Entrambi i macarismi seguono l’autoproclamazione che Cristo fa del suo arrivo. Vanni attribuisce il passo all’angelo: la complementarietà fra ingresso ed esclusione dalla città santa mostrano l’unità fra i due versetti, mentre lo stile e la chiusa solenne del v. 13 escludono che possa essere Gesù a parlare; Giovanni non può essere perché riferisce un discorso diretto, dunque resta solo l’angelo come possibile soggetto, come appunto per il v. 7b. Lo conferma il seguente v. 16, in cui Gesù riprende a parlare, autopresentandosi con enfasi in I persona singolare per certificare l’autorevolezza dell’angelo come suo inviato. Non sfugga l’indirizzo diretto all’assemblea in II plurale (u`mi/n)92. Il v. 17 inizia con un verbum dicendi avente per soggetti lo Spirito e la sposa: è indicazione dell’assemblea in ascolto93; il contenuto del detto (e;rcou) si richiama a quanto Cristo ha detto in 22,7.12 (e;rcomai tacu,) ed è reazione all’affermazione divina di 22,16. Segue un altro verbo di dire (eivpa,tw), che passa dall’indicativo presente all’imperativo aoristo e coinvolge esplicitamente 92 L’intero studio di D.E. AUNE, «Prophetic Circle», rileva la differenza che questo verso appalesa fra il voi e le sette chiese. All’assemblea è consegnato un messaggio che non riguarda solo l’assemblea stessa, ma l’insieme delle chiese: nella singola chiesa si respira una particolare universalità che Cristo istituisce e legittima. 93 Anche altrove l’agiografo unisce due soggetti strettamente collegati con un unico verbum dicendi in III persona plurale: si tratta dei ventiquattro vegliardi con i quattro viventi. Qui la sposa è sicuramente soggetto collettivo, come vedremo per la folla in 19,1-8. Cfr U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 359 nota 17. Sulla coincidenza sposa-assemblea, cfr D.A. MCILRAITH, Reciprocal Love, 156-166.

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ciascun ascoltatore nell’invocazione dello Spirito e della sposa: è la rubrica che abbiamo commentato sopra, introdotta con il participio presente (o` avkou,wn) che richiama quelli dell’inizio del libro (v. 1,3). A questo punto il dialogo si è fatto più stretto e dai due imperativi che seguono Vanni ritiene che: «Here we have a movement – evrce,sqw – to be performed in the area in which John/the lector and the hearers are all assembled; more precisely, it starts in the part occupied by the hearers and ends in the part occupied by the lector.»94 Segue (vv. 18-19) un’esortazione concernente la conservazione integrale del libro e del suo contenuto. Essa si riferisce esplicitamente al contesto dialogico attraverso la frase introduttiva «testimonio io ad ogni ascoltatore» (marturw/ evgw. panti. tw/| avkou,onti): richiede a chi è in ascolto un’adesione piena e senza omissioni alle parole del libro. L’insistenza sul libro e sulla scrittura induce Vanni a pensare che sia l’agiografo a parlare, scrittore del libro (1,11). L’ultimo verbum dicendi (le,gei o` marturw/n tau/ta) apre il v. 20, nel quale senza dubbio parla Gesù, che già all’inizio del libro (1,5a) si era presentato come il testimone degno di fede e che adesso conferma la testimonianza data. Di fatto quel che dice (nai,( e;rcomai tacu,) replica direttamente all’invocazione rivoltagli in 22,17 e la accoglie, come sottolinea il nai, di assenso. Alla replica di Gesù segue un nuovo eco del coro: il nesso dialogico è rafforzato dall’ avmh,n che riprende il nai, appena precedente, «in a close-knit context of dialogue»95. Il v. 21 chiude il dialogo con il saluto diretto all’assemblea (h` ca,rij tou/ kuri,ou VIhsou/ meta. pa,ntwn)96. 94

U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 360. Ibid., 361. 96 Per i problemi di critica testuale dell’ultima parola (pa,ntwn) cfr ibid., nota 21: il Textus Receptus aggiunge al tutti un voi (u`mw/n), seguendo una linea debole come critica esterna (solo il ms. 296: cfr TCGNT, 690s) che tuttavia mostra di aver letto in chiave dialogica il passo. Anche le altre varianti riportate dal TCGNT, per quanto quasi tutte ancora più deboli, combinano variamente i pronomi personali e l’aggettivo santi (tw/n a`gi,wn), rivelando che i vari copisti hanno compreso il testo come pertinente alla chiesa riunita (santi, voi, noi, i tuoi santi, i suoi santi), giacché santi ha a che fare con la chiesa nel suo insieme. 95

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c) Conclusione Pur con il necessario lavorìo, lo studio dei verba dicendi e delle singole unità letterarie ricompone il testo in unità dialogica. Esso trova la sua collocazione nella liturgia, al cui interno dialogano le voci del lettore e dell’assemblea parlando anche a nome di Gesù e dello Spirito, oltre che di un messaggero celeste e dell’agiografo. Vanni ha dunque ripercorso i passaggi metodologici proposti da Kavanagh per l’analisi di un dialogo liturgico97, arrivando a una chiarificazione. Per i nostri fini ora questo è il dato rilevante e sufficiente, senza bisogno di addentrarci oltre nello studio della struttura letteraria del brano e della sua unità tematica. Ci premeva infatti anche qui appalesare che lo scritto pare rinviare direttamente a una liturgia in actu exercito e non solo raccontata o presa come fonte letteraria ormai lontana. Per usare la classificazione di Kavanagh, questo è un liturgical text, cioè appartiene a quei «texts specifically designed to play a role in a given liturgical situation and which serve little function elsewhere»98. 3.2.3 I dialoghi iniziale e finale si richiamano

I testi iniziale e finale del libro si richiamano. Anche a livello solamente lessicale i lemmi che sono presenti sia in 1,1-8 sia in 22,6-21 sono così tanti che riteniamo inutile elencarli. Ci pare più importante riferire gli altri elementi di contatto, che emergono analizzando i brani come dialoghi liturgici99. I due testi hanno in comune le stesse due parti fisiche: il lettore e il gruppo di ascolto. Il ruolo del lettore, che dà voce anche 97 Ha rilevato la tensione interna al testo fra unità ed eterogeneità; ne ha mostrato il carattere liturgico (come di tutto il libro); quindi il carattere dialogico (intervengono diversi soggetti che si rispondono); ha tentato l’attribuzione dei testi agli intervenuti. 98 Loc. cit. supra, nota 89. Quest’ultima osservazione troverebbe conferma nella grande fatica della millenaria letteratura per trovare un’unità letteraria e intrepretativa per l’opera in sè, a prescindere dalla sua funzione liturgica. Per una rassegna da ultimi G. BIGUZZI, «In cerca di punti condivisibili», 502-504; J. KIRSCH, A History of the End. 99 Sono quelli che nota U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 363s.

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a Giovanni, a Gesù e all’angelo, ha un ruolo maggiore nel dialogo finale: espone e dà istruzioni all’assemblea (cf 22,17b), e alla fine la saluta. In queste ultime due funzioni agisce in proprio, senza alcun riferimento a Giovanni. Il gruppo di ascolto, in entrambi i casi, è distinto dalle chiese anche se ad esse strettamente legato (22,16). Nel dialogo finale però c’è una significativa variazione: il gruppo è chiamato sposa (nu,mfh) e ogni singolo ascoltatore è invitato a parlare all’unisono con lo Spirito (22,17). In entrambi i dialoghi Dio parla in prima persona, ma la presenza trascendente cresce: nell’ultimo testo Gesù non è più introdotto dalla formula oracolare (1,8: le,gei ku,rioj o` qeo,j) come nel primo, ma interviene direttamente (22,7 etc.); compare poi anche la voce di un angelo. C’è una pluralità di livelli e di persone, resa presente dalle voci in dialogo del lettore e dell’assemblea. Essa per noi lettori silenti emerge con certezza solo alla fine, quando l’assemblea risponde (22,20b) alla rubrica del lettore (22,17b). Non così ad una lettura pubblica a voce alta, dove al lettore esperto si richiedeva la gestione di tale ricchezza di piani attraverso mezzi a noi non più accessibili: il tono e il volume della voce, la velocità e le pause della lettura etc. 3.3 Una liturgia in atto, chiusa e aperta da un dialogo liturgico

Giacché il libro è chiuso e aperto da due dialoghi liturgici che si richiamano e che contemplano gli stessi soggetti terreni principali, l’ipotesi che l’intero libro sia una liturgia si affaccia spontanea. Appare più probabile pensare che il pubblico in ascolto permanga nello stato in cui il Veggente lo lascia dopo il dialogo iniziale, piuttosto che ritenere che l’assemblea cambi o si sciolga per poi riunirsi prima della fine. Vanni lo conferma esaminando brevemente una serie di passi, interni al libro, che rivelano una tendenza all’interazione dialogica con gli ascoltatori100. Altri ricercatori sono ritornati, da altri punti di vista, sui numerosi passi che cercano un’interazione di100

U.VANNI, «Liturgical Dialogue», 365-370. I passi sono: 13,9-10; 13,18; 14,12-13; 16,15; 19,1-8. 32


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retta con il pubblico101. Lo studio recente, più volte citato, sul lessico liturgico del libro fornisce un’ulteriore indicazione102. Ci basti per ora sottolineare che i numerosi rinvii al culto, che abbiamo visto consistentemente presenti, uniti al modo di esprimersi liturgico trovano in una liturgia il loro contesto naturale. In conclusione possiamo affermare che i semplici dati interni al testo offrono una forte plausibilità all’ipotesi che il libro sia destinato a una liturgia in atto. La nostra ricerca si propone di mostrare la fecondità di questo assunto. Pensiamo infatti che una liturgia in atto comporti un rapporto peculiare fra pubblico, lettore e scrittore, rapporto che non è irrilevante ai fini dell’intelligenza della composizione e del messaggio del testo. Intendiamo chiarirlo attraverso l’analisi esegetica di alcuni passi delle diverse sezioni del libro. Dobbiamo però prima fermarci a determinare quale tipo di liturgia il testo contenga e, soprattutto, con quale approccio tenerne conto. Dedicheremo a queste domande i paragrafi seguenti. 4. Quale tipo di liturgia presuppone l’Apocalisse

I dati visti ci permettono di escludere senza esitazione che il libro sia una celebrazione cultuale pagana, anche se almeno alcune forme di quest’ultima sono probabile bersaglio polemico di alcune parti dell’opera103. Sicuramente l’agiografo non intendeva comporre un testo modellato sul culto pagano, anche se conosceva il culto imperiale romano coevo e il suo cerimoniale104. Volgendoci al mondo ebraico, bisogna innanzitutto riconoscere che i dati in nostro possesso sulla liturgia del I secolo d.C. sono scarni ed abbastanza incerti.Tuttavia è possibile una qualche conoscenza, per lo più sulla base delle testimonianze successive più vicine al periodo che ci interessa e provenienti dagli ambienti 101

Per es. C.W. HEDRICK, «Narrative Asides»; D. LEE, Narrative Asides. A. MITESCU, «Lessico Liturgico». 103 Cfr per es. il cap. 13. 104 Buona e documentata sintesi sull’argomento in G. BIGUZZI, «Giovanni di Patmos», 105-108. 102

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sia cristiano, sia giudaico, sia anche pagano. Possiamo in primo luogo distinguere fra il culto che si svolgeva nel tempio di Gerusalemme e quello che si svolgeva nelle sinagoghe, in Palestina o altrove. Nonostante diverse parti dell’Apocalisse abbiano riferimenti al culto templare di Gerusalemme e alle relative feste liturgiche dell’anno ebraico105, possiamo anche escludere che Giovanni scrivesse per un’assemblea cultuale come quella che si riuniva per officiare preghiere e sacrifici nel tempio prima della sua seconda distruzione. Il testo non permette di intravvedere nell’assemblea in ascolto movimenti quali quelli che possiamo ipotizzare avvenissero nella liturgia officiata nel secondo tempio. Restano due linee che esploreremo brevemente: quella della preghiera sinagogale, o giudaica non templare, e quella della nascente liturgia della chiesa. Prima di accostare l’argomento è bene fare, con Levine, la seguente premessa: Mentre non si può mettere in discussione che il contesto liturgico giudaico del I secolo avesse certo grande influenza sulla comunità cristiana in germoglio,...è lecito concludere che questa influenza non era esercitata nelle peculiari forme di preghiera rabbinica che compaiono nella letteratura tannaitica.[...] Sembra che nuove forme di espressione liturgica siano state elaborate da cristiani e saggi alla luce dei drammatici eventi del I secolo: i cristiani si trovavano di fronte alla divinità di Gesù, alla sua passione e risurrezione, con tutte le conseguenze teologiche connesse a questi avvenimenti, come mostrano Paolo e gli altri; i Giudei, per parte loro, reagivano alla distruzione del tempio. Il culto cristiano, quindi, non solo nacque da un contesto religioso, sociale e politico molto lontano da quello del culto giudaico, ma prese avvio almeno una generazione prima. 105

Una presentazione sintetica in G. BIGUZZI, «Giovanni di Patmos», 99-100, che tiene una posizione che potremmo indicare come minimalista. Una posizione massimalista, con bibliografia, si trova invece in J. BEN-DANIEL – G. BEN-DANIEL, The Apocalypse, che arrivano a conclusioni ermeneutiche non sempre condivisibili.

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INTRODUZIONE Ai nostri fini sarebbe quindi più proficuo guardare alla elaborazione parallela di stili di preghiera cristiana e rabbinica, consapevoli che entrambi avevano origine da comuni modelli cultuali e rituali del secondo tempio106.

L’affermazione dello studioso ci pare senz’altro condivisibile quanto alla cautela sul trasferimento veloce di contenuti dal culto giudaico descritto dai rabbi a quello cristiano. 4.1 La liturgia della sinagoga antica

Sappiamo con certezza che la sinagoga era istituzione d’importanza notevole nella società ebraica del sec. I d.C, anche come luogo dove si svolgeva la preghiera comunitaria107. Tuttavia la ricerca scientifica ha preso consapevolezza, per il periodo che a noi interessa, della difficoltà di andare molto oltre affermazioni generali come quelle appena fatte108. La documentazione rabbinica, che è la fonte più abbondante per descrivere la liturgia sinagogale del tempo, data con certezza abbastanza più tardi e porta con sé diversi delicati problemi che impongono una difficile ermeneutica109. Esistono anche altre fonti (Filone, Giuseppe Flavio, il NT etc.), che sono tuttavia parche nell’aiutare a fare un quadro. Sui modelli liturgici e cultuali possiamo dunque dire poco. Ci pare che però alcuni dati presentino per noi un alto interesse: ne svolgeremo pertanto una trattazione. Ci soffermeremo prima sui punti di contatto fra Apocalisse e la liturgia sinagogale di cui abbiamo chiara traccia; rileveremo poi le differenze; infine esamineremo eventuali rapporti del nostro libro con ciò di cui conosciamo 106

L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 572s. Così I. ELBOGEN, Jewish Liturgy, 195s, che a pag. 434, note 4-6 al § 35, riporta Filone, Giuseppe Flavio e i saggi talmudici. 108 Ibid., 195. Un recente e documentato saggio sui problemi connessi alla nostra conoscenza della sinagoga antica, delle sue origini e del suo funzionamento fino ai primi secoli dell’era cristiana in P. KASWALDER, «La nascita». 109 Per una schematica presentazione di questi problemi, con dati di bibliografia, cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 546-549. 107

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l’esistenza nella liturgia sinagogale senza tuttavia riuscire, almeno oggi, ad avere nozione definita o di dettaglio. 4.1.1 Punti di contatto con l’Apocalisse

La lettura pubblica cultuale di testi biblici (dai profeti e dalla Torah) faceva parte della liturgia sinagogale molto prima della distruzione del tempio, con una forte nota di originalità nell’ambiente religioso mediterraneo del sec. I110. La lettura e l’ascolto di una profezia scritta era regola nelle sinagoghe, come è anche attestato dal Nuovo Testamento111. Ad essa si accompagnava un commento112. Il fatto che il nostro agiografo mostri di considerarsi profeta e chiami profezia il suo scritto, nutrito di Antico Testamento eppure arricchito di esperienza personale, è un elemento che sta in sintonia con la prassi appena descritta. È inoltre rilevante, per i nostri fini, che il periodo immediatamente successivo alla caduta del secondo tempio veda nel mondo ebraico una notevole creatività liturgica113: da allora inizieranno lentamente a cristallizzarsi le liturgie che poi segneranno il futuro sia della Chiesa sia della Sinagoga. La creazione di un testo liturgico marcato da una forte impronta personale non è pertanto motivo di sorpresa, è anzi un fenomeno che caratterizza in modo diffuso il periodo nel quale il nostro libro può essere datato. Le testimonianze rabbiniche poi attestano esplicitamente una preghiera pubblica che conosce un dialogo fra lettore e assemblea. È arrivata fino a noi, per esempio, una disputa su come recitare comunitariamente (guida e assemblea) la preghiera114: fra i nomi dei 110 Cfr per es. L.I. LEVINE, La sinagoga antica, I, 161, a proposito dell’attività religiosa della sinagoga: «Con il primo secolo [d.C.] una cerimonia settimanale comprendente lettura e studio comunitario dei testi sacri era divenuta prassi giudaica universale. Si trattava di una forma liturgica unica nel mondo antico: nessuna forma cultuale del genere era nota al paganesimo. Certo, alcuni culti misterici nel mondo ellenistico-romano avevano dato vita a testi sacri che venivano letti in determinate occasioni, ma senza pari era che un’intera comunità dovesse dedicare a questa attività i propri incontri regolari.» 111 V. supra, nota 43. 112 Cfr. l’episodio narrato in Lc 4,16-21. 113 Cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 544s. 114 Alludiamo alla discussione tannaitica sul modo in cui gli Israeliti avrebbero recitato, in fuga dall’Egitto, il Cantico del mare, riportata L.I. LEVINE, La sinagoga antica,

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rabbi coinvolti nella discussione c’è chi è vissuto nel periodo in cui scrive il nostro agiografo. I modi stessi di ripetizione prevedevano un’interazione fra guida e oranti non regolata da rubriche (siamo in epoca tannaitica, dunque con testi che non pare fossero codificati per iscritto), ma semmai (e non certo solamente) da antifone e responsori. Questo tipo d’interazione ben si addice sia ai dialoghi di Apocalisse che abbiamo visto sopra sia ai numerosi inni115. Un’altra interessante notazione è che la preghiera era ancora dotata di una certa fluidità, con un’uniformità che non va ricercata a livello di formule, ma piuttosto di temi o di concatenazioni, o ancora di struttura generale116.Talvolta in ciò è stato visto uno spazio lasciato all’improvvisazione e alla spontaneità117; questo può essere vero, ma è anche assai probabile che la tradizione orale, come è stato per la musica118, abbia consegnato modelli e strutture (pur senza il vincolo rigido letterale caratteristico della successiva tradizione scritta) che a noi sono pervenuti solo più tardi (e alterati) attraverso lo scritto, o addirittura non sono perII, 566s: «La Tosefta [TSot 6, 2-3] presenta le diverse proposte come segue: gli israeliti avrebbero ripetuto le parole di Mosè frase per frase, come un allievo che reciti il Hallel a scuola (r. Aqiba); il popolo avrebbe ripetuto ogni volta il ritornello d’apertura, come per il Hallel in sinagoga (r. El’azar, figlio di r. Josi il Galileo); avrebbero risposto come chi recita lo Shema‘ in sinagoga, dove assemblea e guida della preghiera recitano alternativamente a voce alta i versetti (r. Nehemiah).» Il passo è un buon esempio dei problemi delle fonti rabbiniche: la stessa discussione, con argomentazioni simili ma scambiate fra i rabbi (e con uno di loro soppresso), si ritrova nel Talmud (in bSot 30b e in jSot 5, 6, 20c). Resta fermo però il dato che a noi interessa: una preghiera come lo Shema‘, che è ritenuta risalire a prima della distruzione del tempio, veniva recitata alternando solista e assemblea. Il nome di r. Aqiba rinvia al I sec. d.C. Per altri esempi di responsori nelle fonti rabbiniche cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 572. 115 Altro esempio è la risposta amen da parte dell’assemblea: cfr I. ELBOGEN, Jewish Liturgy, 200s, che cita fra l’altro la Mishna (Ber 8, fine). 116 Cfr per es. la ‘Amidah. Scrive infatti L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 562: «Riguardo per esempio alla ‘Amidah, ciò che fu decretato a Jabne comprendeva la struttura generale, la successione dei motivi e il numero delle benedizioni, elementi che con il tempo furono rimpolpati: la Tosefta afferma che alcuni argomenti concorrenti andavano fusi, indicando così che si recitavano ancora diverse combinazioni di temi.» 117 Ibid., II, 573, che cita per la preghiera cristiana A. BOULEY, From Freedom to Formula, 87. 118 Vedasi per esempio le difficoltà legate al più antico inno cristiano musicato per iscritto: C.H. COSGROVE, «The Earliest Christian Hymn». 37


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venuti affatto. Ciò è in sintonia con la scarsità delle rubriche del nostro libro. Questa scarsità nondimeno si accompagna naturalmente a un’interazione con gli ascoltatori affidata ad altri elementi che non trovano esplicita registrazione scritta: pause e variazioni del tono della voce, istruzioni che, spiegate una prima volta, non era più necessario ripetere etc. Dai rabbini sappiamo anche che, soprattutto dopo la distruzione del tempio, la liturgia sinagogale andò inglobando diversi elementi della liturgia templare119. Preghiere di capitale importanza per il giudaismo, come lo Shema‘ e il canto degli Hallel, furono influenzate profondamente almeno nella loro forma e uso liturgico dai riti del tempio, con ogni probabilità dopo il 70. Questo dato sta in sintonia con l’importanza che il tempio ha per l’Apocalisse e con il largo riferimento che diverse visioni fanno ad esso ed alla sua liturgia. È certo vero che il nostro libro attinge anche all’ellenismo e alla sua ritualità sacrificale120, come peraltro ha fatto anche il culto giudaico121, ma i riferimenti al tempio di Gerusalemme restano comunque ben marcati. 4.1.2 Differenze di fondo

Il modo in cui il tempio entra nel nostro libro è tuttavia notevolmente diverso da quello in cui entra nella liturgia descritta dalle fonti rabbiniche. Le liturgie che recano traccia di quelle templari sono oggetto di visione e la gestualità del Veggente rivisita il tempio non tanto inglobandone i riti quanto piuttosto entrando (e, vedremo, «trascinando dentro» i suoi ascoltatori) nel tempio del cielo, fino a identificarsi con esso, almeno in un certo senso. Alla fine il tempio della Gerusalemme celeste, ormai pronta per le nozze con l’Agnello, è Dio stesso. Non si tratta cioè di un’operazione surrogatoria, o compensatoria, o volta a perpetuare la memoria del tempio, ma di una «reinterpretazione»122. 119

Cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 563-568; I. ELBOGEN, Jewish Liturgy, 199s. Cfr di recente anche G. BIGUZZI, «Giovanni di Patmos». 121 Si pensi anche solo al seder di Pesach: cfr B. BOKSER, Origins of the Seder, 50-66; S. STEIN, «The Influence of Symposia». 122 Diversamente invece avvenne nel giudaismo: L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 545.567. 120

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Ciò consente di rilevare anche altre notevoli differenze rispetto al giudaismo sinagogale come emerge dal mondo rabbinico, al di là delle sintonie appena viste. L’autorità forte, di cui l’agiografo mostra di disporre (per esempio le clausole in 22,18-19123) nei confronti della chiesa, differisce dal rapporto con la sinagoga manifestato dalle fonti rabbiniche: solo molto tardi il movimento rabbinico avrà autorità e «giurisdizione» riconosciuta sulla preghiera liturgica sinagogale124. Giovanni scrive invece un testo dotato di un’autorità sulla preghiera sconosciuta ai rabbini coevi che noi conosciamo. Un’altra consistente differenza è l’estensione del nostro testo. Eccettuata la liturgia di Yom Kippur125, la preghiera sinagogale era generalmente breve126, mentre anche la sola lettura integrale dell’Apocalisse non può certo essere definita breve. Il nostro agiografo propone quindi al suo pubblico un percorso che non trova corrispondenti nella brevità delle preghiere sinagogali coeve: anche la struttura orazionale spesso ipotizzata (preghiere comuni, lettura della Torah, sermoni etc.127) non trova corrispondenza, né come estensione né come percorso, nella lunga successione di visioni, liturgie, parenesi e spiegazioni contenute nell’Apocalisse. 123

Cfr la trattazione in D.E. AUNE, Revelation, III, 1208-1215: particolarmente rilevante il parallelo con Gal 1,8-9. 124 L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 568: «Studi recenti hanno mostrato quanto scarse siano le attestazioni che l’autorità rabbinica fosse largamente riconosciuta in questo periodo, o che i saggi del II secolo riuscissero solitamente a influire su importanti aspetti o istituzioni sociali, politiche o religiose del loro tempo [bibl. in nota]. In realtà le fonti rabbiniche non avanzano alcuna pretesa, diretta o indiretta, a qualche significativa influenza dei saggi su una qualsivoglia pratica sinagogale: solo di rado Mishna e Tosefta parlano della sinagoga, il che, considerata la centralità di questa istituzione nella vita giudaica, sorprende non poco.» Cfr anche ibid., 548: «alla fine la preghiera rabbinica mise radici nella vita giudaica, ma questo risultato si ottenne solo nel IX/X secolo, sotto l’egida dei gaonim babilonesi.» 125 Su Yom Kippur e il cristianesimo antico in generale si può utilmente consultare D. STÖKL BEN EZRA, The Impact of Yom Kippur. 126 I. ELBOGEN, Jewish Liturgy, 198: «The synagogue service was generally short. An exception was the service of the Day of Atonement, which was devoted entirely to prayer. Its liturgy was so great expanded that its length became proverbial.» 127 Cfr per es. L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 544.

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Conseguente a quest’ultima è la peculiarità, propria del nostro libro, di inglobare progressivamente gli ascoltatori nell’assemblea celebrante che il Veggente vede in cielo. Avremo modo di vedere che questa comunione è costruita progressivamente nel corso della lettura, celebrando una dimensione unitiva128. Qualcosa di simile è conservato nel rito della pasqua ebraica che è arrivato fino a noi129: per esempio, una mishna di r. Gamli’el invita i cultuanti a far corpo unico con i padri che Dio salvò dall’Egitto attraverso il Mar Rosso130. Tuttavia Giovanni di Patmos non si limita a rivolgere al pubblico solo uno o più inviti puntuali perché prenda consapevolezza della comunione: questa diventa un dinamismo crescente della liturgia. Lo si intuisce già dal percorso che abbiamo succintamente visto compiere al tempio e all’altare nel corso dell’opera131: qui basti semplicemente rinviare alla constatazione che i cori cultuanti sentiti dal Veggente si allargano fino a comprendere anche l’assemblea che ascolta132. Menzioniamo infine un dato macroscopico, il più grosso, che distingue l’Apocalisse dall’ambiente sinagogale quale ci è delineato dal mondo rabbinico: i riferimenti cristiani espliciti, come il nome Gesù Cristo, la sua Filiazione Divina, la menzione della domenica, i riferimenti alla morte dell’Agnello etc.133. Questi ultimi elementi, marcatamente cristiani, indirizzano la nostra attenzione verso la liturgia della chiesa nascente. Prima però di analizzare la documentazione di cui disponiamo, ancora una volta scarsa e di complessa valutazione, riteniamo opportuno soffermarci su alcuni dati che paiono rettificare l’immagine della preghiera sinagogale quale emerge dalle testimonianze rabbiniche, 128

V. infra, Capitolo IV: «La dossologia dell’Alleluia». L’elaborazione del rito domestico, rispecchiato negli ultimi capitoli di Pes e in TPes o nella Haggadah di Pasqua, è datata comunemente dopo il 70, ed attribuita in gran parte a r. Gamli’el e ai saggi di Jabne: cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 560, con bibliografia. 130 Il testo cui alludiamo, Pes 10,5, è commentato, nella redazione liturgica, in C. GIRAUDO, Eucaristia, 139-146, che menziona anche altri passi con la stessa ottica. 131 Cfr supra, nota 14. 132 L’unificazione è palese in 19,1-8, che commenteremo diffusamente nel Cap. IV. 133 Anche, a questo stesso livello, va segnalata la presa di distanza dalla sinagoga contenuta, expressis verbis, in 2,9 e 3,9. 129

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anche se in modo non sufficiente per descriverne esaurientemente lo svolgimento. 4.1.3 La parte a noi poco nota della liturgia della sinagoga

Diversi testi provenienti dall’ambiente giudaico, ma al di fuori della letteratura rabbinica134, presentano caratteristiche che sono probabili tracce della liturgia sinagogale del periodo e possono gettare luce sulla liturgia cristiana della Chiesa antica e sull’Apocalisse in particolare135. Oltre ai passi con forme cultuali dialogiche136, Qumran137 ha consegnato testimonianza chiara di un canto cultuale che ha diversi punti di contatto con gl’inni del nostro libro138: la tensione orchestrata fra presente e futuro in forme che ricordano la nostra opera139, la nozione di comunità come tempio escatologico140, una coralità affine agli inni del nostro libro etc. 134 I primi scritti rabbinici hanno una strana trascuratezza su questi testi di preghiera, attestata da tante altre fonti coeve; è un probabile indice di diffidenza: cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 589. Questo dato evidenzia comunque il carattere settoriale che il movimento rabbinico aveva al suo inizio rispetto a tutta l’ampia realtà del mondo ebraico. 135 Riconosciamo il nostro debito, per quanto segue, verso l’introduzione del commentario di P. PRIGENT, Apocalypse, 13-24, soprattutto 19-22, con utile bibliografia. 136 Per qualche esempio cfr supra, nota 87. 137 L’ambiente religioso di cui Qumran è testimonianza attesta la presenza di una «sinagoga», di una casa (che non era il tempio) dove si svolgeva la preghiera comunitaria: CD-A XI, 22 menziona un twxtXh tyb. I contatti con Qumran sono tali che c’è chi pensa che la spiritualità di Apocalisse provenga direttamente da lì: cfr H. ULFGARD, «Apocalypse entre judaïsme». 138 Alludiamo all’evidenza, seppur frammentaria, dei Canti del sacrificio del sabato.Val la pena di notare, in proposito, una notevole differenza rispetto agli inni del nostro libro: mai (almeno nel materiale a noi giunto) nei Canti del sabato vengono letteralmente riferite le parole delle schiere angeliche. Sul senso di questo silenzio cfr D.C. ALLISON, «The Silence of Angels». 139 1QHa XI, 19-24: un rinnovamento dopo la morte; 1QS IV, 19-20: un giudizio finale di Dio che eliminerà il male; etc. Già D.E. AUNE, The Cultic Setting, 14.41 vedeva in questa doppia escatologia un riferimento cultuale che è partecipazione al culto angelico. 140 1QS IV, 21-22: una purificazione dello Spirito anticipata nella comunità (cfr anche 11Q19 XXIX, 9s); 4Q174 frr.1 I-21-2 : la comunità come tempio escatologico; etc. Cfr A. SPATAFORA, The Temple, passim; B. GÄRTNER, The Temple and the Community; D. DIMANT, «4QFlorilegium and the Idea of the Community as Temple».

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Trattare di tutti questi punti ci porterebbe lontano rispetto ai nostri fini. Ci limitiamo a quel contatto particolarmente significativo che è la preghiera della Qedushah (Trisagion in greco)141, presente nell’Apocalisse (4,8) e attestata sia nel giudaismo sia diffusamente e molto presto nella liturgia cristiana142. È una preghiera ebraica che consiste nella triplice ripetizione della santità di Dio e riprende Is 6,3. Il profeta racconta di aver visto e sentito i serafini lodare Dio nel tempio con le parole «Santo, santo, santo il Signore delle schiere» (LXX: a[gioj a[gioj a[gioj ku,rioj sabawq; TM: tAab'c. hw"hy> vAdq' vAdq' vAdq';; Ap 4,8: a[gioj a[gioj a[gioj ku,rioj o` qeo.j o` pantokra,twr). Oggi essa è parte delle benedizioni che accompagnano varie preghiere (fra cui lo Shema‘) nella liturgia giudaica143, è allusa (ed a quanto consta mai riportata) a Qumran144 ed è nota in altri testi apocalittici145, sovente in contesti di liturgia in atto che presentano reminiscenze di Ez 1 o di Ez 3,12 come in Ap 4,8146. Sono state inoltre contate147 oltre 80 allusioni dirette o indirette alla Qedushah nella letteratura mistica giudaica delle Hekhalot148. 141

Cfr A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 220.227.234.237. Cfr per es. CLEMENS ROMANUS, Ad Corinthios I, 34,6; Q.S.F. TERTULLIANUS, De Oratione, 3; etc. Il primo soprattutto ci pare interessante, vista la molto probabile datazione assai alta (poco dopo la persecuzione neroniana: cfr. E. CATTANEO, «Un “nuovo passo” di 1Clem», 58 nota 9). Su questo testo e sul suo riferimento al contesto cultuale eucaristico, cfr la discussione svolta da C. GIRAUDO, Eucaristia, 425 circa W.C. VAN UNNIK, «1 Clement 34», 248. 143 La comparsa nella liturgia sinagogale si trova certificata dalla documentazione diretta solo nel sec. IX: cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 585. 144 In 4Q403 fr.1,II, 15, nel VII Canto per il sacrificio del sabato, le merkabot e i cherubini benedicono Dio nel suo santuario (~hybwrk alp wkrbw wrybd twbkrm dxy wllhw) e in 4Q405 frr.20 II-21-22,12, nel XII Canto, si precisa che essi celebrano la santità di Dio (Xdwq wOllhw): è un’allusione alla Qedushah, come notano sia C.A. NEWSOM, Serekh Shirot, 81 nota 2, sia A.M. SCHWEMER, «Gott als König», 98s. 145 Ad es. Apocalypsis Abrahae, 17,13, databile nel I o II sec. d.C. 146 Ampia documentazione delle ricorrenze e delle varianti in D.E. AUNE, Revelation, 303-307. Nella patristica cfr anche E. WERNER, Sacred Bridge, II, 115s. 147 A.M. SCHWEMER, «Irdischer und himmlischer König», 325 nota 44. 148 Con questo nome si indica un corpus di scritti giudaici che descrive la preparazione o l’ascesa mistica nei palazzi celesti dove Dio risiede e che spesso narra la vi142

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INTRODUZIONE

I più antichi fra questi scritti sono databili non prima del sec. III d.C.149, ma le allusioni di Qumran e la presenza dei riferimenti precedenti portano a ritenere quantomeno che la nostra preghiera circolasse ben prima. Tuttavia, oltre alla datazione, questi testi presentano anche un ulteriore problema: è estremamente difficile definire il loro rapporto con la preghiera sinagogale. Un nesso è innegabile, vista la frequenza dei rinvii reciproci, ma è di precisazione estremamente problematica. C’è infatti chi ritiene che le cerchie dei mistici abbiano fatto proprie, adattandole, le espressioni della preghiera comunitaria della sinagoga, e chi invece pensa che la liturgia abbia fatto propria la preghiera nata come espressione mistica personale150. Qualunque di queste posizioni si sposi per il mondo giudaico successivo al nostro libro, resta fermo un nesso fra preghiera personale e liturgia, confermato dai contesti nei quali la Qedushah è descritta o allusa. Su questo nesso viaggia il nostro agiografo, giacché condivide con un’assemblea in ascolto la propria visioneascolto-partecipazione alle liturgie celesti e la propria esperienza vissuta nello spirito e di domenica (Ap 1,10)151: è un’assonanza ben rilevabile. L’impressione che si ricava è che la liturgia sinagogale e l’ambiente di preghiera ebraico fossero, al tempo in cui è stato scritto il nostro libro, una realtà molto più ricca e variegata di quanto sione del trono-carro di Dio (la Merkabah) che si rifà ad Ez 1. Un’introduzione in P. SCHÄFER, Le Dieu caché et révélé. 149 Una volta li si riteneva addirittura medievali, ma questa opinione non è oggi sostenibile. Sembra che la datazione più attendibile stia fra i secoli IV e VII : cfr M.D. SWARTZ, Mystical Prayer in Ancient Judaism, 223, che li ritiene comunque postrabbinici. 150 Cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, II, 587, che in nota riporta bibliografia per entrambe le posizioni; diversamente D.E. AUNE, Revelation, I, 303, che riporta, con ulteriore bibliografia, solo la prima opinione. Si noti anche che oggi diversi studiosi (per es. P. SCHÄFER, Hekhalot Studien, 289-295; D.J. HALPERIN, The Faces of the Chariot, 447-455) contestano perfino l’opinione classica (cfr G.G. SCHOLEM, Jewish Gnosticism, 9-30) di una qualche associazione fra giudaismo rabbinico e mistici. 151 Sul complesso problema del rapporto fra racconti delle visioni ed esperienza del Veggente, cfr U.VANNI, «Linguaggio» (testo inglese: U.VANNI, «Mystical Experience»).

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oggi riusciamo a intravvedere con precisione152. In questo diversificato panorama restava fermo il procedere orazionale dialogico, la lettura della Bibbia con i sermoni, la probabile presenza di diversi motivi biblici e apocalittici che troviamo anche in Apocalisse. Il nesso fra preghiera personale e liturgia, in particolare, trova nel nostro libro una combinazione che meriterebbe approfondimenti, ma ciò esula dal nostro compito153. Ci sia permesso solamente rilevare che rubriche, termini, narrativa e dialoghi legittimano l’opinione che l’esperienza di preghiera personale (non estatica154) di Giovanni, espressa con il linguaggio poliedrico delle visioni e simili, sia stata e sia condivisa con le chiese, divenendo uno scritto che determina una liturgia: così egli condivide la profezia che è testimonianza di Gesù155. Una condivisione che passa per l’unione nella lode, la narrazione, la spiegazione, la parenesi e la gestualità simbolica: tutti elementi che compongono ancora oggi la liturgia cristiana. 152

La grande varietà della realtà «sinagoga» nel sec. I non impedisce di cogliere un’unità: cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica I, 181. 153 Questa forte rilevanza, nella preghiera cristiana e nella composizione della preghiera liturgica, dell’intuitus personae e della sua esperienza (mistica?) di incontro con Cristo apre una suggestiva ipotesi di ricerca sul modo in cui Apocalisse cita l’Antico Testamento (per uno stato della ricerca su quest’ultimo punto cfr R.A. PÉREZ MÁRQUEZ, L’Antico Testamento nell’Ap). L’alludere chiaramente ai passi biblici, senza però riportarli alla lettera, ci pare modo di citare tipico della liturgia: si pensi anche solo all’Exultet conservato nella liturgia latina, cfr nel Missale Romanum, Dominica Paschæ in resurrectione Domini.Vigilia paschalis in nocte sancta, n. 19, pagg. 208-210. È un modo di pregare sulla Scrittura che i mistici cristiani conoscono molto bene, a iniziare dai Padri del deserto (si pensi solo alla lectio divina, e al noto adagio gregoriano divina eloquia cum legente crescunt): in quest’ottica la liturgia (e l’innodia) sembrerebbe «registrare il tracciato» di un colloquio che avviene fra lo Spirito Santo e lo spiritus legentis a partire dai testi biblici. Ad altri l’attraente compito di approfondire questa suggestiva linea interpretativa. 154 Cfr infra, Cap. I, § 2.4. 155 La genesi di molte orazioni e collette della liturgia latina riflette questo modo di comporre i testi liturgici: un presidente dell’assemblea particolarmente dotato o spirituale (pensiamo ad Ambrogio ed ai suoi inni, o a Damaso o a Gregorio Magno) componeva preghiere d’occasione che poi venivano registrate per iscritto e sono entrate a far parte dei vari sacramentari. Un esempio recente lo abbiamo con le poesie di S. Giovanni della Croce entrate nell’innodia della liturgia delle ore in lingua spagnola. 44


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INTRODUZIONE

Ritorniamo dunque volentieri alla sottolineatura di Levine citata sopra. L’elaborazione della liturgia cristiana inizia prima di quella giudaica quale a noi è pervenuta attraverso p.es. la Mishna e, benché presenti segni dello stesso ambiente sociale e religioso, è anche marcata da forti differenze teologiche. La divinità, la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo s’incarnarono nella prassi e nella preghiera dei suoi primi discepoli con una peculiarità marcante. L’esperienza personale di preghiera e di rapporto con il Signore ha determinato una cifra inconfondibile, nonostante l’ambiente assai vario nel quale i discepoli stessi avevano vissuto con Lui fino a vederlo salire in croce e risorgere. Si è sviluppato così un processo che, fra le numerose lacerazioni caratteristiche dell’ambiente ebraico del primo secolo e probabilmente anche in reazione reciproca con esse, ha prodotto una sua liturgia specifica, quella cristiana. Essa dunque nasce nel solco (il linguaggio, i gesti etc.) della diversificata tradizione sinagogale, nella quale è inserita e vive, ma al tempo stesso la continua in un modo sempre più chiaramente peculiare, anche se, almeno all’inizio, coesistente con tanti altri modi che l’ambiente annoverava. Viene dunque naturale rivolgersi alle testimonianze del culto cristiano nascente per ricercarvi l’assonanza con l’Apocalisse. 4.2 La liturgia della Chiesa nascente

Nelle testimonianze della liturgia cristiana di questo periodo possiamo notare diversi dati coerenti con il culto del nostro libro. La lettera ai Colossesi è stata scritta per essere letta in diverse chiese, e non solo in quella che compare nell’indirizzo156. Questo avviene anche per l’Apocalisse, destinata a sette chiese diverse e non ad una sola, e più in generale rivolta a «coloro che ascoltano», gruppo non circoscritto a una sola chiesa particolare. Anche il numero sette delle chiese destinatarie suggerisce l’allargamento delle comunità interlocutrici alla Chiesa universale157. È caratteri156 Col 4,16; probabilmente anche 1Ts 5,27. Anche Efesini, come emerge dall’incertezza della tradizione manoscritta dell’indirizzo (cfr TCGNT, 551), era probabilmente destinata alla lettura in diverse chiese. 157 Cfr infra, Capitolo I, § 3.3.

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stica che accomuna dunque alla prassi cristiana attestata da Paolo e poi dall’uso che le chiese fecero delle lettere di Ignazio di Antiochia e di altri scritti subapostolici158. L’esperienza che Giovanni condivide avviene nel giorno del Signore (Ap 1,10: evn th/| kuriakh/| h`me,ra|), che sappiamo ormai indicare verso la fine del sec. I la domenica, il giorno in cui i cristiani si riunivano per celebrare159. La terminologia specifica della liturgia cristiana è poi ben presente nel nostro testo. Abbiamo visto il trisagion, che sappiamo far parte molto presto della preghiera cristiana160; anche il termine evkklhsi,a161, distinto da sunagwgh,; il rapporto di filiazione fra il Signore glorioso e Dio Padre162; il già citato linguaggio della venuta di Cristo; etc. L’elenco potrebbe continuare163. La forma responsoriale degli inni è attestata anche nella liturgia cristiana fin dalla fine del sec. I, perfino da fonti pagane: una lettera di Plinio il Giovane ci informa che nelle riunioni che precedevano il banchetto i cristiani dicevano inni a Cristo in forma responsoriale164. 158

Alludiamo per es. alla Lettera dei martiri di Vienne (in EUSEBIUS PAMPHILIUS CAESARENSIS, Historia Eccl., V, Prologus, 1-4) o anche al Martyrium Polycarpi. 159 1Cor 16,2; At 20,7; Did. 14,1; IGNATIUS ANTIOCHENUS, Ad Magnesios 9,1; etc. Cfr U.VANNI, L’Apocalisse, 87-90; infra, Cap. I, § 2.4.2 nota 41. 160 Cfr supra, § 4.1.3 e nota 142. 161 Il termine, pur con consistente valenza veterotestamentaria di «assemblea convocata in ascolto del Signore», conserva una forte dimensione liturgica che è specifica del cristianesimo: cfr U.VANNI, L’Apocalisse, 104, soprattuto la nota 9. 162 Ben cinque volte nel libro si afferma che Dio è il padre di Cristo (o dell’Agnello): 1,6; 2,28; 3,5; 3,21; 14,1. 163 D.L. BARR, «Oral Enactment», 254 (e nota 25) ha rilevato numerosi riferimenti all’eucaristia nel corso del libro, classificandoli in espliciti (2,7.17; 3,20; 7,16.17; 11,17; 19,9.17; 21,6; 22,1.10-20) ed impliciti (5,9; 7,2.14; 12,11; 14,10.15.18.20; 16,6.19; 17,2). Interessante al riguardo anche quanto emerge dallo studio del lessico, cfr A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 233s. 164 G.C.S. PLINIUS, Epistulae, 10,96: «[Christiani] essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium.» La vicinanza con Ef 5,19 e Col 3,16 legittima questa lettura. Cfr A. CABANISS, Pattern in 46


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INTRODUZIONE

Altro indizio forte che rinvia alla liturgia cristiana è la sequenza dialogica che troviamo alla fine del libro. Partendo dal dialogo che precede il prefazio nella liturgia eucaristica attuale, Lietzmann165 aveva assimilato 2Cor 13,10ss; 1Cor 16,22; Rom 16,16ss; 1Ts 5,26.28 fra loro come dialogo liturgico che introduceva alla fractio panis dopo la lettura della lettera. Bornkamm ha ripreso e approfondito l’intuizione isolando la seguente sequenza: 1. Invito al saluto/bacio santo; 2. l’Anatema; 3. il Maranathà; 4. La promessa della grazia del Signore Gesù166. L’ha mostrata presente in 1Cor 16,22; Did. 10,6 e nella fine di Ap 22167, facendo leva su elementi solidi come il fatto che la formula di Ap 22,20 vieni Signore Gesù! (e;rcou ku,rie VIhsou/) è la traduzione greca dell’aramaico at' an'r;m'168, semplicemente traslitterato (mara,naqa) negli altri due passi paralleli appena citati. Early Christian Worship, 17. Rinviamo ai capitoli 1-2 di quest’autore per una discussione dettagliata del testo, insieme a quello di Giustino martire che vedremo fra breve. 165 H. LIETZMANN, Mass and Lord’s Supper, 186s. 166 G. BORNKAMM, Christian Experience, 169-176 (ed. orig. ted. 1952). In part. pag. 169: «Paul closes 1Corinthians with a series of liturgical formulae: (1) the summons to the holy kiss, (2) the Anathema on those who do not love the Lord, (3) the Maranatha, (4) the promise of the grace of the Lord Jesus, which clearly stands in contrast to the closing assurance of the Apostle’s personal love (1Cor 16.20-24).The formulae listed stem, as one may say more precisely, from the Lord’s Supper liturgy, which according to the convincing conjecture of R. Seeberg, H. Lietzmann and others, was attached to the reading of the Apostle’s letter in the meeting of the congregation. Apparently the summons to the holy kiss is the introduction to the holy meal. Since Justin, it has been a definite part of the eucharistic ritual where it has maintained his place for centuries in East and West. For 1Cor 16, the origin of the phrases from the primitive Christian Lord’s Supper liturgy is definitively assured and is also supported by the context:Anathema and Maranatha, both in characteristic connection.» Cfr anche J.A.T. ROBINSON, «Traces of a Liturgical Sequence»; O. CULLMANN, Early Christian Worship, 23s. Diversi studiosi concordano con questa posizione: E. LOHSE, «Revelation and Pauline Theology», 363; M.E. BORING, Revelation, 6-7; J. ROLOFF, Revelation, 253; E. LOHMEYER, Offenbarung, 179; etc. 167 G. BORNKAMM, Christian Experience, 172. 168 Sia che si legga all’indicativo at'a] !r;m' o all’imperativo at' an'r;m': cfr K.G. KUHN, « maranaqa, »; F. VIGOUROUX, «MARANATHA». L’opinione che ci si trovi davanti a una traduzione è largamente condivisa dagli studiosi, come riconosce D.E. AUNE, Revelation, III, 1234, il quale nelle pagine seguenti, pur approdando ad altre conclusioni, offre anch’egli una panoramica della letteratura sull’equivalenza e sulla sua semantica. 47


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Con riferimento al racconto dell’eucaristia di Did. 9-10, Barr ha rilevato i diversi punti di contatto con Ap 22,15-21169: 1. l’esclusione degli indegni, che sono chiamati cani (Did. 9,5 // Ap 22,15); 2. la menzione «botanica» di Davide (Did. 9,2; 10,6 // Ap 22,16); 3. la riserva-invito a favore dei soli iniziati (Did. 9,5; 10,6 // Ap 22,14.17); 4. i riferimenti alla profezia (Did. 10,7 // Ap 22,18.19); 5. l’invito al Signore perché venga e la conclusione con amen (Did. 10,6 // Ap 22,20) 170. Al di là della difficile precisazione operativa dei singoli dettagli rubricistici171, ci pare evidente da tutto ciò il legame fra la sequenza dialogica finale e la liturgia cristiana. Aggiungiamo poi la presenza, nell’Apocalisse, di tutti i modi principali che, secondo Aune172, individuano nella Chiesa primitiva l’esperienza della venuta di Gesù nel culto: la persona del profeta carismatico, le visioni cristofaniche, l’identificazione sacramentale con Cristo173. Volgiamo infine la nostra attenzione alla prima descrizione giunta fino a noi di una liturgia eucaristica cristiana: i noti capitoli 65-67 dell’Apologia I di Giustino. Ecco una lista dei punti di contatto con il nostro libro: la convocazione nel giorno del Signore174; il saluto Fra i liturgisti, che colgono il nesso fra questa invocazione e l’eucaristia, si trova adirittura chi pensa che il canone eucaristico nasca da uno sviluppo di essa nella liturgia della chiesa nascente: cfr M. BARKER, The Revelation of Jesus Christ, 379; G. DIX, The Shape of Liturgy, 252. 169 D.L. BARR, «Oral Enactment», 254, il quale in nota 26 arricchisce notevolmente la lista, allargando il campo di confronto fra Did. 9-10 e l’intera Apocalisse. 170 Li riporta, in sinossi, A.R. NUSCA, Heavenly Worship, 457. 171 Abbiamo ormai ampiamente avuto occasione di mostrare che le sequenze liturgiche fra le formule avevano ancora in questo periodo una forte fluidità (che non significa però né arbitrarietà né estemporaneità). Pertanto, circa lo studio di Bornkamm, le diversità di lessico (spesso con la stessa semantica) e di ordine con cui le formule si succedono non sono un ostacolo all’identificazione della sequenza liturgica; diversamente invece D.E. AUNE, Revelation, III, 1234, che parla in proposito di crux interpretum. 172 The Cultic Setting, 89-90. 173 Così D.L. BARR, «Symbolic Transformation», 48. 174 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 67,3: th|/ tou/ h`li,ou legome,nh| hvme,ra|, il primo giorno dopo il Sabato, cioè la domenica di Ap 1,10.

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con il bacio dopo le preghiere175; la lettura a voce alta176 delle «memorie tramandate degli apostoli o degli scritti dei profeti»177; l’omelia del presidente178; le preghiere comuni del popolo179, o quelle fra il presidente e il popolo che risponde con l’acclamazione amen (che Giustino deve tradurre)180, o ancora quelle del solo presidente181; la riserva del gesto cultuale ai soli credenti/aderenti a Cristo182. Si noti, infine, che Giustino non menziona né canti né preghiere al momento della fractio panis propriamente detta183 e della distribuzione del pane, vino e acqua che il presidente ha reso eucaristia: è legit175

IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 65,2: avllh,louj filh,mati avspazo,meqa pausa,menoi tw/n euvcw/n; cfr i saluti di Ap 1,4 e 22,21. 176 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 67,3: avnaginw,sketai; cfr Ap 1,3. 177 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 67,3: ta. avpomnhmoneu,mata tw/n avposto,lwn hV ta. suggra,mmata tw/n profhtw/n; cfr Ap 1,3: tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj kai. throu/ntej ta. evn auvth/| gegramme,na; 22,7.10.18.19: tou.j lo,gouj th/j profhtei,aj tou/ bibli,ou. Si noti che Giustino pone in alternativa (h;) la lettura delle memorie degli apostoli e quella dei profeti. 178 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 67,3: o` proestw.j dia. lo,gou th.n nouqesi,an kai. pro,klhsin th/j tw/n kalw/n tou,twn mimh,sewj poiei/tai; cfr le frequenti spiegazioni e soprattutto esortazioni e ordini del libro, come ad es. Ap 13,9-10. 179 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 65,1: koina.j euvca.j poihso,menoi; 67,5: e;peita avnista,meqa koinh|/ pa,ntej kai. euvca,j pe,mpomen; cfr Ap 19,1-8 (tutti i servi di Dio), e in negativo 14, 3. 180 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 65,3: th.n euvcaristi,an pa/j o` parw.n lao.j evpeufhmei/ le,gwn VAmh,n; 67,5: o` proestw.j euvca.j o`moi,wj kai. euvcaristi,aj o[sh du,namij auvtw|/( avnape,mpei kai. o` lao.j evpeufhmei/ le,gwn to. VAmh,n; cfr Ap 1 e 22, i dialoghi appena visti. La necessità di traduzione può spiegare una certa sobrietà nella citazione delle preghiere e delle risposte del popolo: moltiplicare i termini ebraici e la loro traduzione renderebbe pesante e inascoltabile l’esposizione. Da un semplice punto di vista narrativo, anche una rapida scorsa ai capp. 65-67 rivela che l’alternanza fra motivazioni teologiche e racconto della prassi liturgica è ben studiata per non imporre un’indigestione di speculazione e al tempo stesso per non ridurre a semplice e banale narrazione di gesti la difesa che il rétore sta svolgendo. 181 Talvolta anche con il canto, come per es. IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 65,3: ai=non kai. do,xan tw|/ patri. tw/n o[lwn dia.\ tou/ ovno,matoj tou/ ui`ou/ kai. tou/ pneu,matoj tou/ a`gi,ou avnape,mpei; cfr gli ordini che Cristo rivolge al Veggente e i suoi dialoghi con gli angeli, ad es. Ap 5,4s; 7,13s. 182 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 66,1.3; in Ap 22,15 (che richiama 21,8) abbiamo l’esclusione degli idolatri di varia specie. 183 Manca il termine spezzare (kla,w), che pure ricorre nei Vangeli e in Paolo; come pure manca il riferimento alla confessione dei peccati che è invece presente nella

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timo pensare che essa si svolgesse in silenzio184. A parte la fractio panis185, è impressionante il numero dei punti di contatto che abbiamo visto presenti nel nostro libro, anche se è difficile arrivare a una ricostruzione puntuale della liturgia nei suoi dettagli sia verbali sia gestuali. Questa puntualità, come risulta da un vero e proprio manuale liturgico del tempo come la Didaché, era senz’altro poco rilevante in questo periodo: l’argomento e silentio in tema di precisione liturgica prova assai poco nel sec. I186. Questa conclusione ci illumina anche su una natura cultuale della «struttura letteraria minima» individuata a suo tempo da Vanni187. I diversi passaggi della struttura si presterebbero, pur con la fluidità della liturgia sinagogale ed ecclesiastica agli albori dell’era cristiana, alla ripartizione fra sezione del saluto (che, costituendo l’assemblea liturgica appunto per mezzo del saluto nel nome del Signore, rende presenti reciprocamente e consapevolmente i vari convenuti vicini e lontani, cap. 1); sezione penitenziale (si pensi solo alla massiccia presenza del verbo metanoe,w all’imperativo nei capp. 2-3); sezione di ascolto della parola con il suo epilogo; infine, una volta terminata la lettura del libro, evenDidaché. Si potrebbe pensare che queste mancanze siano il portato del tipo di scritto composto da Giustino, un’apologia destinata a non credenti. Parlare del pane spezzato era un dettaglio ovvio e inutile fuori da un ambiente liturgico; mentre difendersi riconoscendo di aver peccato era senz’altro una mossa perdente davanti al pubblico pagano del sec. II, nel quale circolavano contro i cristiani perfino accuse di cannibalismo. 184 IUSTINUS MARTYR, Apol. I, 67,5. La cosa non stupisce tenendo conto che il silenzio (che peraltro l’Apocalisse valorizza: 8,1) circondava anche i sacrifici che si svolgevano nel tempio, differenziandoli così dal culto pagano (cfr L.I. LEVINE, La sinagoga antica, I, 177 e nota 4). È un elemento che potrebbe forse spiegare la grande sobrietà nella descrizione dettagliata del gesto vero e proprio (abbiamo solo i racconti dei Vangeli e di 1Cor, che non sono certo manuali liturgici, e Giustino: anche Didaché è molto sobria) e anche il silenzio di Apocalisse sull’eventuale seguito della liturgia dopo la fine della lettura del libro: sarebbe in tal caso in continuità con il dato della disciplina arcani che alcuni Padri attestano circondare i sacramenti, forse fin dal tempo degli apostoli. 185 C’è in questo racconto un altro dato notevole, sul quale sarebbe interessante soffermarsi, cosa che però esula dai fini del nostro lavoro: la comunione che si costituisce nel gesto cultuale dura (effettivamente) sempre, non è circoscritta al luogo e al momento del culto. Cfr 67,1. 186 Cfr P.F. BRADSHAW, «Ten Principles», 16, punto 9. 187 U.VANNI, Struttura. 50


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INTRODUZIONE

tuale passaggio alla sezione eucaristica, se questa seguiva la liturgia della parola. Sarebbe una struttura che ancora oggi unifica la liturgia sacramentale cristiana cattolica. 4.3 Conclusioni

Al termine di questo percorso, pensiamo di poter accogliere con legittimità l’ipotesi che gli ascoltatori del libro siano un’assemblea cultuale, radunata per celebrare la liturgia cristiana188. In questa sede non è necessario definire se questo culto è quello di una celebrazione eucaristica o meno: è sufficiente rilevare il tipo particolare di rapporto con Dio e con gli altri intervenuti nel quale ogni ascoltatore del libro è chiamato ad entrare. Di questo rapporto e dell’atteggiamento che esso comporta intendiamo tener conto nell’esegesi che andremo a svolgere: lo riteniamo importante, come abbiamo detto a suo tempo, per la comprensione del messaggio del libro. Prima di entrare nella sezione esegetica dobbiamo però ancora dedicare un paragrafo, il seguente, al modo in cui il Veggente intende l’ascolto che chiede189. Esso resta infatti il gesto principale con cui i destinatari del libro partecipano alla sua liturgia e quindi celebrano quel loro rapporto con Dio di cui intendiamo tener conto. L’atteggiamento di ascolto e adesione che la liturgia comporta presenta una specificità tale da richiedere una chiarificazione, soprattutto quando diventa riferimento in sede di studio esegetico. Rispetto allo stato attuale della ricerca sul tema, come si può arguire da una buona panoramica che evitiamo di offrire visto che esiste già recente e di qualità190, ci pare un punto dove possa essere utile un contributo. È quanto ci accingiamo a fare, partendo appunto dalla testimonianza che il testo stesso offre sull’argomento. 188 Proseguiamo in questa linea sul filone di ricerca aperto e coltivato da diversi lavori di Vanni, ad es. «L’assemblea ecclesiale»; Ap. Un’assemblea liturgica interpreta; L’Apocalisse, 73-97; cfr anche S. TAROCCHI, «Il ruolo del soggetto»; etc. 189 Anche qui approfondiamo quanto già iniziava a evidenziare U.VANNI, L’Apocalisse, 63-72, soprattutto 63-65. 190 Alludiamo al lavoro di A.R. NUSCA, «Liturgia e Apocalisse». O a quelli, più ampi, di ID., Heavenly Worship; G. SCHIMANOWSKI, Die himmlische Liturgie; F. TÓTH, Der himmlische Kult.

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Scegliamo di procedere per questa via, preferendo rispettare le indicazioni che l’agiografo stesso offre invece di adottare come strumento euristico una o un’altra teoria cultuale. Riteniamo più utile interagire con lui nel recepire il suo lavoro, piuttosto che metterci al di sopra e analizzare il suo pensiero e ciò che avviene nell’accesso al suo scritto con strumenti, penetranti ma estremamente invasivi, come l’analisi sociologico-religiosa o quella psicologica o ancora quella antropologico-culturale o ermeneutica191. Vorremmo evitare di mettere tra parentesi il rapporto con l’agiografo, cosa che avviene studiando il testo e la sua verità come un oggetto inerte nelle sole mani dello studioso, che verrebbe così ad essere l’unico essere personale in azione durante lo studio. Preferiamo invece rispettare la relazione entrando docilmente nel gruppo di coloro che ascoltano, secondo le modalità che l’agiografo stesso sembra indicarci.Vogliamo così entrare in una comunità di ascolto che attraversa il tempo e lo spazio, convinti in tal modo di godere, pur senza disprezzare la ricchezza dei mezzi eu191 Molti lavori, nella copiosa letteratura della filosofia ermeneutica e degli approcci reader-response, si sono occupati del ruolo del lettore e delle sue implicazioni nello studio di un testo. Basti a titolo di esempio P. RICOEUR, Tempo e Racconto. I; W. ISER, The Act of Reading, etc. Diversi studi, che pure abbiamo consultato, hanno analizzato il nostro libro avvalendosi di diverse teorie cultuali, sociologiche etc.: per es. J.P. RUIZ, «Betwixt and Between», che attinge a V. Turner; H.O. MAIER, «Staging the Gaze», che si rifà a M. Foucault e a J. Bentham; A. YARBRO COLLINS, Catharsis, che si rifà ad Aristotele; E. SCHÜSSLER FIORENZA, «Composition and Structure», che utilizza un modello di A.J. Greimas; J.G. GAGER, Kingdom and Community, che dipende da C. Levy-Strauss; etc. Condividiamo quanto è stato osservato (J.P. RUIZ, «The Politics of Praise», 375s) sull’importanza della considerazione del dato cultuale nella scelta degli strumenti euristici. Preferiamo su questa via lasciarci guidare direttamente dall’agiografo stesso. Riteniamo che l’ascolto di un testo liturgico dentro una celebrazione liturgica cristiana comporti differenze molto forti rispetto alla lettura di un testo letterario o alla performance di un testo teatrale. Il prendere di peso gli strumenti con cui si analizzano questi testi (cfr per es. D. LEE, Narrative Asides) riteniamo che faccia passare sullo sfondo le specificità dell’Apocalisse, limitando quel dialogo con l’agiografo che invece ci sta a cuore. Sarebbe stata nostra intenzione dare le ragioni analitiche di questa scelta ma abbiamo visto che riferirne in dettaglio avrebbe appesantito troppo l’esposizione di questa nostra ricerca, portandola su campi filosofici, antropologici ed epistemologici di norma non strettamente legati allo studio della Bibbia. Speriamo di tornarci in futuro in altra e più adatta sede.

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ristici messi a disposizione dal progresso scientifico, un frutto ulteriore quanto a comprensione del senso del testo. Avendo in mente quest’esperienza di ascolto, siamo poi ritornati in sede riflessa sull’esperienza stessa per poter mettere in parole le implicazioni che fanno parte del messaggio del testo e che possono contribuire a gettare luce sulla sua logica. 5. L’ascolto liturgico come elemento emergente dell’Apocalisse

Per capire come ascoltare ci lasciamo guidare dall’agiografo stesso attraverso un testo-esempio in cui compare il termine ascoltare in posizione enfatica: la formula «chi ha orecchio ascolti che cosa lo Spirito sta dicendo alle chiese» (o` e;cwn ou=j avkousa,tw ti, to. pneu/ma le,gei tai/j evkklhsi,aij)192, che compare sette volte nella prima sezione dell’opera ed un’altra volta, variata e ridotta, nella seconda193. Diversi elementi staccano in parte la frase dai suoi contesti, qualificandola anche come indirizzo diretto dell’agiografo ai destinatari del libro194. Per il semplice fatto di essere in svolgimento, l’avere orecchio e l’ascoltare, messi in parola, costituiscono ciascun uditore come interlocutore esplicito e diretto del Veggente.Vediamo così che il testo si riferisce a quanto sta avvenendo, appunto all’ascolto di una lettura a voce alta: la sua 192 La traduzione del presente indicativo greco (le,gei) con la forma continua italiana (sta dicendo) ci pare renda meglio l’attualità dell’azione in fieri indicata. È rafforzata dalla continuità del presente participio precedente (e;cwn) e dal contrasto con la puntualità incoativa del vicino imperativo aoristo (avkousa,tw) e con il futuro che nel contesto descrive la promessa di Cristo. 193 Ecco l’elenco dei passi: 2,7; 2,11; 2,17; 2,29; 3,6; 3,13; 3,22; 13,9. 194 Sul punto, più diffusamente, infra, Cap. II, § 9, e Cap. III, § 3.2. Qui ci limitiamo sinteticamente a riconoscere che, rispetto al contesto (quello delle sette lettere in particolare), la variazione sia del soggetto che parla, sia soprattutto degli interlocutori, resta per il lettore silente di difficile rilevazione riflessa; la difficoltà sparisce però nell’ascolto a voce alta. Emerge dai seguenti elementi: - si passa dalla seconda persona singolare (giudizio e imperativi delle esortazioni particolari) o plurale alla terza singolare (avkousa,tw); - il soggetto che è narrato parlare è cambiato: da Cristo allo Spirito, che, come si evince dal dialogo conclusivo del libro, sono due persone distinte, anche se lo Spirito è in ascolto di Cristo e Cristo ha la pienezza dello Spirito;

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analisi semantica ci permetterà di capire come l’agiografo intende quanto si svolge nella proclamazione in assemblea del suo scritto. La formula (o almeno una sua parte) è stata abbastanza studiata195 e vi dovremo ritornare in sede di esegesi. Qui ci fermeremo sulla coppia di termini orecchio-ascoltare, dato che presenta una certa peculiarità, alla luce del retroterra veterotestamentario e delle altre ricorrenze di ascoltare nel nostro libro. Giungeremo così a precisare alcune importanti implicazioni che l’ascolto liturgico porta con sé secondo il libro, che ci saranno di guida nell’esegesi. È necessario però richiamare previamente alcune coordinate essenziali in tema di oralità, che in modo peculiare differenziano l’Apocalisse rispetto ad uno scritto moderno e che emergono subito con concretezza nella formula in esame. 5.1 Oralità

5.1.1 La parola scritta non è quella ascoltata

È stato fatto notare ormai da tempo che per l’Apocalisse la lettura pubblica a voce alta, rispetto a quella privata in silenzio, - l’interlocutore dello Spirito è pure variato: lo Spirito parla alle chiese (generalizzazione ormai esplicita: è sparito il numero sette), non c’è più il rapporto ioCristo/tu-angelo=chiesa particolare; - Nelle prime tre lettere la formula segue, mentre nelle altre precede la promessa al vincitore: il «contenuto» del detto dello Spirito non è dunque la promessa, che dalla posizione suonerebbe prima in bocca a Cristo e poi in bocca allo Spirito. Ciò stacca dal contesto la formula, dandole appunto l’autonomia di un aside, di un indirizzo diretto a chi ascolta. L’intervento suonerebbe pertanto meglio in bocca direttamente a Giovanni/lettore diretto all’assemblea, piuttosto che in bocca a Cristo, rivolto all’angelo della chiesa. Ma non c’è nulla che prepari il passaggio dal discorso narrato a quello diretto. Piuttosto, la «promessa al vincitore» che precede tre e segue quattro delle sette ricorrenze (è comunque sempre unita strettamente) utilizza l’ambiguità per reinstaurare in qualche modo un rapporto diretto fra Cristo e i destinatari cartolari. Anche C.W. HEDRICK, «Narrative Asides», 660 nota 34 annovera la formula fra gli indirizzi diretti all’interlocutore che sospendono la narrativa. 195 J. LAMBRECHT, «Rev 13,9-10 and Exhortation»; U.VANNI, L’Apocalisse, 63-65; G.K. BEALE, «The Hearing Formula»; A.-M. ENROTH, «The Hearing Formula»; M. DIBELIUS, «Wer Ohren hat zu hören»; etc. 54


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comporta una diversità notevole sia nell’impatto sul fruitore del testo sia nel significato (meaning)196. Numerosi lavori sull’oralità e sulla sua importanza negli studi biblici sono ormai stati pubblicati197. È peraltro assodato che fin almeno da Platone esisteva la consapevolezza di una differenza fra la parola pronunciata e quella scritta198. Era una consapevolezza nota e viva al tempo dei Padri apostolici199. L’aspetto dell’oralità nello studio di un testo concepito per la lettura ad alta voce è di importanza notevole, tanto più se questo testo è venuto alla luce in una cultura che conserva forti residui di oralità200. 5.1.2 Un rapporto fra persone e non fra persona e oggetto

Ong sottolinea il dato, estremamente importante ai nostri fini, che in una cultura orale «non si dà voce senza presenza»201. Sotto questo profilo, in tema di rapporto interpersonale, una lettura pubblica sta a una lettura privata in silenzio quasi come un dialogo sta a uno scambio epistolare202. Questa «presenza» di chi parla, che non è più solo scrittore lontano mediato da un inerte sup196 Per es. M.E. BORING, «Apocalypse as Christian Prophecy», 54. Una differenza che ancora dodici anni dopo era abbastanza negletta in sede di ricerca: D.L. BARR, «Oral Enactment», 243s; D.E. AUNE, «Problem of Genre», 91. 197 Una bibliografia in A.R. NUSCA, Heavenly Worship, 153 nota 4. 198 PLATO, Phaedrus, 274-277. Questa differenza contribuisce a spiegare la forza e l’importanza del nesso fra composizione e retorica nel mondo greco e latino. 199 Ad es. Papia in EUSEBIUS PAMPHILIUS CAESARENSIS, Historia Eccl., III, 39,4 e L.A. SENECA, Epistulae Morales, 6,5. 200 Ci piace riferire l’immagine polemica con cui parla di ciò W. ONG, Oralità e scrittura, 32: «quando gli alfabetizzati usano oggi il termine “testo” riferendosi a forme di espressione orale, essi lo pensano in analogia con la scrittura. Nel vocabolario di un alfabetizzato, il “testo” del racconto di una persona appartenente a una cultura orale primaria rappresenta qualcosa che si può conoscere solo mediante un processo all’inverso:…[un] cavallo come automobile senza ruote.» Stessa percezione in O. Jespersen e F. Kainz, cit. in L. ALONSO SCHÖKEL, La parola ispirata, 245s. 201 W. ONG, The Presence of the Word, 114; anche, sinteticamente, l’esempio portato in ID., Oralità e scrittura, 60: in una cultura orale, udire un bufalo è averne vicina la presenza, segno che qualcosa sta accadendo (bisogna fuggire o nascondersi per non esserne attaccati!). 202 La differenza è ormai ampiamente riconosciuta: fra i vari cfr. P. RICOEUR, «La fonction herméneutique».

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porto scritto, ma «prende corpo» vivente nella persona del lettore, ha una sua rilevanza nei confronti del fruitore del testo e della sua interazione e risposta. Un liturgista tiene conto di questa differenza nel redigere un testo liturgico. Termini, successione e sviluppo del discorso assumono un colore e un andamento che genera logiche diverse all’interno del testo e del suo significato. Vige una diversità forte, anche a livello di soli contenuti203. Soprattutto dove esistono forti residui di cultura orale, parola letta in silenzio e in solitudine e parola letta ad alta voce ed ascoltata insieme ad altri hanno due statuti diversi, con relative implicazioni anche a livello di significato, in particolare nella liturgia. Ecco perché una ricerca aperta a questo ambito vede aprirsi nuovi e più profondi livelli di accesso al messaggio e alla logica di un testo come il nostro. Di fatto l’Apocalisse contiene pressoché tutte le caratteristiche che Ong identifica come proprie degli scritti delle culture orali204, confermando quanto il v. 1,3 lascia espressamente intendere: il testo e il suo messaggio sono pensati per l’oralità. 5.1.3 Una formula rivolta a chi sta ascoltando

Il passo «chi ha orecchio ascolti che cosa lo Spirito sta dicendo alle chiese» ci pare altamente indicativo. Iniziamo con notare la differenza grande di destinatario che emerge nella lettura a voce alta davanti a un gruppo di ascolto cristiano, cioè una chiesa, rispetto a quella fatta da un lettore solitario e silenzioso.

203 Bastino a titolo di esempio per gli studi che ci riguardano, le osservazioni sulla funzione delle maledizioni e benedizioni in alcuni scritti di Qumran in B. NITZAN, Qumran Prayer, 119-143, soprattutto 129. 204 In W. ONG, Oralità e scrittura, 59-117: il procedere formulaico, lo stile paratattico, il procedere aggregativo piuttosto che analitico, la ridondanza, il legame con la tradizione, la vicinanza all’esperienza umana, il tono agonistico, lo stile enfatico e partecipativo piuttosto che oggettivo e distaccato, l’omeostaticità (citare e ricordare selezionando in ordine alla rilevanza per il presente), la situazionalità più che l’astrazione, la facilità di memorizzazione orale (di cui traccia anche nella composizione del testo), lo stile di vita verbomoteur (cfr M. JOUSSE, Le Style oral rhytmique), le figure eroiche e il bizzarro, il rapporto del suono con l’interiorità. Lo mostra chiaramente D.L. BARR, «Oral Enactment», 244-251.

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La formula si trova nella prima sezione del libro, in chiusura di ciascuna delle sette cosiddette lettere, indirizzate alle sette chiese dell’Asia Minore. Laddove la frase venga proclamata a voce alta davanti a un gruppo di persone in ascolto, essa non colpisce più solo gli intestatari cartolari di ciascuna delle lettere. Di fatto coloro che hanno orecchio, stanno ascoltando in actu exercito e sono, se sono in liturgia cristiana, una chiesa. Non sfugga che lo Spirito sta parlando alle chiese, qui non indicate neppure come sette: sono proprio anche i membri dell’assemblea in ascolto205. Il lettore isolato e silenzioso e lo studioso206 non sono invece né una chiesa né in ascolto: per accedere a questo livello di senso e di interazione essi devono compiere un salto ermeneutico. Di fatto l’autoidentificazione come interlocutore, e quindi l’ingresso nella comunità in ascolto207, non va da sé quando non si compia il gesto concreto che il Veggente usa per fare il trait d’union; viene dunque molto più difficile tenerne conto, come la letteratura sul punto registra208. Il passaggio può allora essere colto, non certo con immediatezza, solo in sede riflessa, al costo però d’interrompere il flusso comunicativo del testo ponendo una distanza indebita fra agiografo e fruitore. Ma proprio questa distanza, decontestualizzata dall’esperienza dell’ascolto previo di cui è priva, genera domande 205

Vedremo un significato teologico in questa voluta ambiguità, ancora più forte e più ampia grazie alla terza persona singolare: verrà in chiara luce commentando i cori del cap. 19. Emerge anche palese nell’esperienza che fanno il celebrante e il popolo nella celebrazione dell’eucaristia al momento della consacrazione: nella narrazione dell’istituzione, che contiene le parole di Gesù nell’ultima cena, il voi lì pronunciato non è irrilevante rispetto alla presenza del pubblico; quest’ultimo è incluso nel multis e nel vobis della cosidetta «formula consacratoria». 206 Al lettore silenzioso apparirà coerentemente appello al destinatario della lettera registrata nel testo, né con probabilità gli verrà in mente altro perché egli stesso non sta ascoltando niente, atteso che legge in silenzio. 207 Si tratta di una comunità diacronica, che comprende già anche le altre chiese insieme con quella destinataria della singola lettera: il numero sette mostra l’unità con cui il Veggente le considera. Cfr infra, Cap. I, § 3.3. 208 Infatti non sono molti che rilevano questo ampliamento del soggetto destinatario. Fra i pochi, intuivamente, coloro che si accorgono della dimensione dell’oralità: Hedrick, Boring etc. Spesso perfino chi analizza sotto l’ottica di reader’s response parla, appunto, di lettore (reader) e non di ascoltatore. Ad es. D. LEE, Narrative Asides che difatti non annovera il nostro passo fra i narrative asides. 57


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quali «l’invito è rivolto alla sola chiesa destinataria della lettera o alle sette chiese o al lettore?» oppure «è solo un artifizio retorico isolato per tener desta l’attenzione, o è un tratto che ritorna nello stile imperiale romano?» etc. Queste pur utili domande alterano il rapporto agiografo-interlocutore e separano la formula dal movimento in cui invece è inserita, ostacolando la comprensione del suo soggetto. Al contrario, una volta che l’essere chiesa e il gesto di ascoltare sono vissuti «in presa diretta», l’identificazione, implicita ma chiara, passa subito, senza bisogno né di tematizzazione riflessa né di creare distanze e fratture fra il testo e i suoi interlocutori di tutti i tempi: è lo stesso gesto d’ascolto che la veicola, nel solo essere messo in parola. Naturalmente cambia l’impatto sull’uditorio. Trattando della liturgia nell’Apocalisse, questa dimensione dell’oralità diventa determinante per capire cosa l’opera abbia a che fare con le caratteristiche liturgiche che porta con sé. Ecco perché metteremo in evidenza, nel nostro lavoro di esegesi, alcuni passaggi di comprensione che divengono accessibili solo se si tiene conto delle reazioni degli ascoltatori di una proclamazione orale. Ci pare che queste reazioni facciano parte del messaggio e, cercheremo di portarlo alla luce, costituiscano una via importante per avanzare attraverso gli scogli che affiorano con grande frequenza dal «nudo testo». Possiamo adesso interrogare approfonditamente l’agiografo per avere chiarezza sulle caratteristiche che egli suppone nell’ascoltare dei suoi interlocutori. 5.2 L’ascolto dell’Apocalisse

5.2.1 Le ricorrenze di avkou,ein nel NT

Il verbo avkou,ein ritorna nel NT 430 volte, di cui ben 46 in Ap209. Se osserviamo il rapporto fra le ricorrenze del termine e il numero totale di parole per libro, vediamo che Ap è preceduta solo da 1Gv e da At210. Tenuto conto che Atti è il racconto della predicazione apostolica della prima chiesa, anche il solo dato numerico 209 210

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K. ALAND, Vollständige Konkordanz, I, 13. 1Gv 0,654 %; At 0,482 %; Ap 0,467 % (46/9.851). Fonte: Bw7.


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mostra la peculiare rilevanza che l’ascolto ha per il Veggente fra gli agiografi del NT. Il verbo leggere (avnaginw,skw) è invece molto meno frequente (32 ricorrenze) ed in Ap compare una volta sola211. Quando ha sfondo culturale ebraico, il verbo traduce per lo più la radice semitica [mv, ascoltare, con la sua vasta gamma di significati. Il termine nella Bibbia ebraica designa non solamente la capacità fisica dell’udito ma qualcosa di ben di più: spesso indica ascoltare e obbedire212. È usato spesso in connessione con la Torah, ma anche come risposta agli oracoli profetici. Anche nel caso dell’ascolto semplice, comunque, «non si dà ascolto in sé stesso senza riferimento o reazione positiva o negativa al contenuto di ciò che si è udito, con pensieri, parole o azioni»213. Non viene dunque difficile intravvedere nella formula «chi ha orecchio ascolti» un senso che va oltre la semplice richiesta di attenzione uditiva. Possiamo senz’altro affermare che comporta quantomeno l’instaurazione di un dialogo214.Tuttavia, vista l’ampia gamma di significati del verbo, per avere una migliore comprensione consideriamo il verbo nel suo contesto quando è in relazione con ou=j orecchio, il termine con cui compare correlato nel nostro caso. È utile anche tenere presente qualche dato su quest’ultimo, sempre nel suo uso in ambiente culturale biblico ebraico. Il termine traduce l’ebraico !za che indica orecchio, l’organo dell’udito. Tuttavia, seguendo un uso frequente nell’antropologia biblica, la parte del corpo riveste anche il significato dell’azione che essa svolge, nella fattispecie l’udito, e la connessa funzione organica dell’uomo. In un senso traslato però il termine indica anche l’attività intellettuale, la comprensione dell’individuo. L’orecchio e l’udito svolgono la funzione che nella cultura greca hanno invece interamente l’occhio e soprattutto la vista, i quali per l’uomo greco indicano comprensione intellettuale215. In ambiente biblico 211 Compare anche una sola volta nel IV Vangelo. Cfr. K. ALAND, Vollständige Konkordanz, I, 18-19. 212 BDB, 1034. 213 H. SCHULT, « [mv ASCOLTARE », 880. 214 J. LÓPEZ, La figura, 169. 215 Cui si connette la valenza simbolica della luce come verità: pensiamo per esempio al noto mito platonico della caverna in PLATO, Res publica, 514a-520a.

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questo ruolo è svolto anche dall’orecchio, soprattutto in ambiente sapienziale, dove l’orecchio «è sede dell’intelletto»216. 5.2.2 Analisi di orecchio-ascoltare in TM e nei LXX

Potrebbe essere interessante osservare la costellazione semantica che avkou,ein ha nei testi cultuali dell’Antico Testamento, per raccogliervi indicazioni sul tipo di ascolto inteso dal Veggente quando usa il termine nel suo scritto. Ma in questa sede questo oneroso lavoro non ci pare necessario217. Sarà sufficiente limitarci a un caso particolare, più ristretto, nel quale ricade anche la nostra formula: l’uso ravvicinato dei termini «ascoltare» ([mv) e 216 J. HORST, « ou=j »; G. LIEDKE, « !za ORECCHIO »: «Al di sopra dell’ascolto, ’ozen soprattutto nella sapienza, è l’organo della conoscenza e della comprensione (Gb 12,11; 13,1; 34,3; Pr 2,2; 5,13; 18,15; 22,17; 23,12)»; BDB, 23: «[ear] as intelligent, (involving mental process)». Cfr anche H. SCHULT, « [mv ASCOLTARE », 882; U.VANNI, L’Apocalisse, 64. Le ricorrenze in cui questo può essere verificato sono tante, molte nei libri sapienziali. Per es. in Gb 13,1 l’orecchio è chiaramente soggetto del comprendere (!yb), ed è connesso oltrettutto con [mv. Sempre in Gb (12,11) l’orecchio distingue (!hb, nei LXX diakri,nein) le parole. In Gb 34,3 i LXX traducono la stessa idea con dokima,z, ein, che è al seguito immediato di un invito all’ascolto incorniciato da due termini di saggezza (~y[dy e ~ymkh); l’invito all’ascolto affianca il verbo [mv ad un altro verbo che ha la stessa radice di orecchio, !za. Altri passi sapienziali, nel legare orecchio ad ascolto, danno un senso più forte del semplice udire, che investe la sfera della comprensione mostrata con il comportamento operativo: Pr 20,12 («l’orecchio che ascolta» nel senso che «obbedisce», «risponde bene», come il ragazzo buono del v. 11) e così 25,12 ed anche Pr 15,31; Is 43,8; Sal 58,5 e Pr 28,9. Orecchio è spesso ben di più del semplice organo dell’udito e anche della stessa funzione uditiva. 217 Una sintetica ed accessibile esposizione dell’ascolto inteso come intelligenza nella letteratura sapienziale in F. CONTRERAS MOLINA, El Espiritu, 74, che conclude: «Tener oído, según el AT, indica predominantemente una actitud de escucha vigilante, de atención profunda que logra un entendimiento y comprensión de la Palabra, en orden a ser obedecida.» In questa definizione manca la menzione esplicita del dato, per noi e per la liturgia estremamente rilevante, del fare proprio quanto la Parola dice e il fedele ascolta, in modo che l’obbedienza non sia solo esecuzione ma sia espressione operativa di una profonda assimilazione. È proprio questa assimilazione, non solo intellettuale, ma anche affettiva (di fondo, non solo emotiva) che rileva ai nostri fini, è fra gli obiettivi principali del percorso liturgico: essa infatti esprime la trasformazione dell’uomo operata da Dio, al servizio della quale si pone il Veggente. A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 222.226 contempla, nel lessico liturgico ebraico, termini quali avna,gnwsij e fwnh,: ci parrebbe importante includere anche avkou,ein.

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«orecchio» (!za). Ne prenderemo visione sia nella Bibbia ebraica sia nella versione dei LXX. La coppia di termini connessi, in ebraico con una variazione lessicale (!za verbo in luogo di [mv), ricorre 99 volte nella Bibbia ebraica218. Di queste 99 volte, 43 sono nei libri profetici, 32 nei sapienziali e 24 nel Pentateuco e libri storici. Si può classificare il significato di «ascoltare» e «orecchio» in sei gruppi: 1. ascolto che implica capire-accettare-fare (ad esempio ubbidire) 219; 2. ascolto che è assenso a quanto udito220; 3. ascolto che è reazione emotiva (commozione) a quanto udito221; 4. ascolto che è comprensione intellettuale222. 5. ascolto che è semplice attenzione223; 6. ascolto che è solo udire, nient’altro224; Fra i sei, il più frequente, di gran lunga quando i termini sono in sintagma o in parallelo, è il primo. Il termine ha una densità che indica sinteticamente un processo che parte dall’udire, ma avanza attraversando l’interiorità (raramente distinta in ragione/intelletto e volontà) fino a sfociare nell’azione225. Spesso ha un soggetto plurale o collettivo. 218 Abbiamo ricercato la coppia di termini entro un intervallo di 7 parole. Delle 99 ricorrenze, 31 sono in sintagma, 49 in parallelo e 19 irrelate. Fonte: Bw7, su testo WTT. 219 Ecco la lista delle ricorrenze più palesi: Es 15,26; Dt 1,45; 29,3; 2Sam 22,7.45; 2Re 19,16; Ne 1,6; Sal 17,6; 18,45; 39,13; 54,4; 130,2; 143,1; Pr 5,13; 15,31; 25,12; 28,9; Is 1,10; 6,10; 30,21; 42,23; 48,8; 55,3; Ger 7,26; 11,8; 13,15; 25,4; 34,14; 35,15; 44,5; Ez 12,2; Zac 7,11. 220 Gen 23,16; Sal 10,17; Sal 17,1; Ger 9,19; 17,23. 221 Ad es. 2 Re 21,12; Qoe 1,8; Ez 8,18; Lam 3,56. 222 Ad es. Gb 13,1; 34,16; 42,5; Is 50,4; Ger 6,10. 223 Ad es. Gen 4,23; Gdc 5,3; Gb 13,17; 33,1; Sal 49,2; Os 5,1. 224 Ad es. Num 11,1; 1 Sam 8,21; Gb 28,22; 33,8; Sal 115,6; Is 33,15; Ger 26,11. 225 Un residuo di questo significato è rimasto nel termine italiano ascoltare in alcuni contesti: per esempio nella frase iperbolica «I genitori si lamentano sempre perché i figli non li ascoltano mai». Non si tratta, evidentemente, di una lamentela

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 5.2.2 avkou,ein nell’Apocalisse

Non stupisce quindi che quest’ultimo significato di avkou,ein possa stare, nell’Apocalisse, sotto il macarismo di 1,3 e indicare esplicitamente una chiave di ascolto del libro, ripresa nelle otto ricorrenze della nostra formula226. Alcuni degli altri registri semantici di avkou,ein elencati sono presenti e ben distinti (per esempio, in soli quattro casi227 il verbo indica il puro e semplice senso dell’udito).Tuttavia, spesso quando avkou,ein ha il Veggente come soggetto e il più delle volte l’accusativo indeterminato fwnh.n come complemento, l’atto di ascoltare avvia una testimonianza che, per il fatto di essere narrata, è un’obbedienza a quanto udito, obbedienza che in un certo senso continua nell’ascolto dell’uditorio. La lettura del libro rende effettiva e certa l’obbedienza all’istanza profetica da parte del Veggente: egli è stato inviato ad annunziare, cosa che accade ogni volta che il libro viene letto; quanto avviene nella proclamazione del libro è la prova dell’avvenuto ascolto-obbedienza del Veggente. Qualche volta è obbedienza a un ordine di annuncio esplicito228 ma, anche in assenza di questo, la narrazione nel suo stesso svolgersi testimonia una spinta, esercitata dall’ascolto del Veggente-profeta, in direzione del fare, proprio in quanto è condivisione di annuncio che si pubblica. È una pressione che dipende dall’origine divina della voce ascoltata e che già ha trovato un’acsull’udito, ma su un mancato rapporto di obbedienza interiorizzata. Lo si ritrova ancora all’inizio della Regola di S. Benedetto: «Obsculta, o fili, praecepta magistri, et inclina aurem cordis tui». 226 Una linea che continua in diversi padri apostolici che fanno uso del sintagma: per es. Barnabae Epistula, 9,1-3. 227 9,20; 18,22.23: la prima volta all’infinito attivo e le altre tre all’aoristo passivo con il sog. fwnh,, anche se in tutti e quattro i casi il mancato udito è il segno della mancanza di vita. 228 «Scrivi e invia» in 1,10, prolungato dai 7 ordini con cui si aprono le sette lettere; in 10,4.8-11; 14,13. Ma anche 4,1 ha un ordine (sali) seguito da una promessa (ti mostrerò) cui il contesto e la lettura eseguita conferiscono valore di incarico profetico; la cosa emerge confrontando il nostro contesto con quello dello stesso accostamento verbale privo del risvolto profetico (i due ulivi hanno già profetizzato, piuttosto finiscono) in 11,12.

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coglienza e un’effettiva risposta positiva. Fruire della narrazione è ascolto della Parola divina, quindi di un parlare creatore, la cui creazione comincia dall’essere condiviso e annunciato profeticamente ad altri, perché essi a loro volta ascoltino e mettano in pratica interiorizzando e diffondendo. Un ascolto espresso in modo particolarmente efficace dall’immagine del libretto ingoiato229. Il frequente racconto degli ordini uditi ed eseguiti (ancorché rivolti ed eseguiti da soggetti diversi dal Veggente e dai suoi interlocutori) rende perspicuo il potere creativo della Parola attraverso l’obbedienza230. Diverse volte poi, quando i soggetti sono in un modo o nell’altro gli interlocutori del Veggente, l’ascolto torna insieme a threi/n231 (1,3; 3,3 dove troviamo anche metanoei/n) o a un verbo che dichiara un’esecuzione interiorizzata (3,20; 22,17.18). Ciò indica, oltre e in mezzo all’udito e all’esecuzione materiale, l’accoglienza del messaggio e l’avvio di una sua interiorizzazione fino all’azione232. Le otto ricorrenze della nostra formula sono tutte in contesto che spinge ad agire. L’azione è espressa o simbolicamente dalla «vittoria», come nei capitoli 2-3233, oppure resa esplicita dall’esortazione in 13,10 e dal seguito del capitolo 13234. Il quadro semantico di avkou,ein che abbiamo visto emergere dal libro 229 Ap 10,9-11, anche se non usa il termine avkou,ein. L’ordine di profetizzare trova ogni volta esecuzione proprio nella lettura che stanno compiendo il lettore/gruppo di ascolto. Giustamente A. MITESCU, «Lessico Liturgico», 217s.537 ne rileva l’importanza per l’opera. 230 Oltre a quelli citati in nota 228, anche 5,11; 5,13; 6,1.3.5.6.7; 7,4; 8,13; 9,13; 9,16; 12,10; 14,2 (2x); 16,1.5; 18,4; 19,1; 21,3; 22,8. 231 Sul verbo threi/n in Apocalisse, e sul suo significato di interiorizzare fino a rendere visibile con il comportamento, cfr in generale M. MARINO, Custodire la Parola. 232 Una nozione di obbedienza che, per quanto estranea a quella militare e giuspositivistica oggi prevalente, farà parecchia strada nella tradizione della Chiesa: la troviamo descritta, ad esempio, nei testi cinquecenteschi di IGNACIO DE LOYOLA, Constituciones de la Compañia de Jesús, n. 547, esplicitazione del laconico ID., Ejercicios Espirituales, n. 365. 233 Alludiamo all’invito a perseverare fino alla pienezza della vittoria, in modo da conseguire la promessa. 234 Vedremo a suo tempo il particolare significato dell’ascolto, del vocabolario bellico e della perseveranza del cap. 13.

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conferma quanto il contesto immediato indica in questi otto imperativi: c’è nell’ascolto secondo il Veggente la pressione verso l’azione235. Siamo sulla direttrice di un ascolto sapienziale che indica il processo udire-interiorizzare-fare. Questo valore di avkou,ein è ulteriormente confermato dall’uso prevalente della coppia orecchio-ascoltare nella Bibbia ebraica. L’ascolto del libro di profezia spinge a fare proprio quanto ascoltato, in un modo tale che le azioni, attraverso la concretezza del loro essere esercitate, rendano visibile e rafforzino (possiamo dire celebrino) l’appropriazione. Questo «flusso» dall’orecchio alla mano, che pure ha certamente una parte riflessa (intellettuale e volitiva), è mandato avanti dall’udito e dall’assenso dell’uditore dentro il popolo/comunità ma, insieme, anche dalla forza divina e autonoma della Parola, che è avvio e sostegno del flusso proprio perché è capace di creazione. Ne dà testimonianza il Veggente in esilio, che fa seguire all’ascolto della parola di Dio la narrazione. Sono coinvolti nel flusso gli uditori, chiamati a collaborare all’assenso e trasformazione che la Parola preme per realizzare in loro. La Parola letta e ascoltata crea la percettibilità di una comunione che la distanza fisica rende invisibile. L’ascolto-avkou,ein in questa chiave sottolinea anche il rapporto di rispetto che la Parola di Dio e il suo primato hanno nei confronti della persona, della volontà del singolo e della sua libertà e decisione: se vedere o toccare fossero stati invece caricati come punto di partenza di un assenso, nell’esortazione all’agire il primato sarebbe piuttosto andato alla certezza individuale (a prescindere dalla libertà personale), giacché l’evidenza vista o toccata ha un potere cogente sul consenso ben maggiore e più diretto dell’ascolto di un testimone236. Non che i due sensi della vista e del tatto siano ignorati o svalutati: sono piuttosto considerati in una prospettiva di interazione con Dio237, che si rivolge all’uomo 235

Nelle 46 ricorrenze del verbo, questo significato è di gran lunga quello prevalente, come si nota dai testi citati.Va quindi presunto quando il contesto non indica chiaramente qualcosa di diverso. 236 Come appare chiaramente nell’episodio di Tommaso, Gv 20,25. 237 1Gv 1,1-3 attesta che in area giovannea era ben sentito il peso certificatore della apprensione diretta anche degli altri sensi, quali il vedere e il «toccare con mano», anche 64


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principalmente attraverso la Parola che crea e s’incarna. Intravvediamo così un’ottica basata sulla certezza che la frequentazione con la Parola di Dio finisce per trasformare colui che la frequenta fino a rendere visibile nella condotta questa trasformazione, che solo il peccato può bloccare o annullare. Quest’ascolto contiene una densità relazionale e di vita molto forti. Indirizza così apertamente verso la liturgia, segnando una differenza rispetto ad altri tipi di lettura a voce alta (conferenza etc.) che lasciano impregiudicato il livello di fondo della persona, della sua coscienza, dei suoi valori e del suo conseguente comportamento. Possiamo pertanto vedere l’intero libro, fin dal suo inizio (1,3), come destinato a questo tipo di ascolto, ad ulteriore conferma della nostra ipotesi di lavoro. Siamo però arricchiti, adesso, dell’avallo del Veggente e siamo anche consapevoli del modo in cui egli intende la fruizione, o meglio la celebrazione della sua opera. 5.3 Conclusioni

L’ascolto così inteso comporta alcuni consistenti cambiamenti di ottica e almeno due conseguenze importanti che affioreranno nell’esegesi. Fra i primi è bene notare il diverso atteggiamento con cui studiare il testo. In un certo senso è richiamata una disponibilità ad interagire con il testo (e con chi lo ha scritto e trasmesso) di tipo «musicale» più che letterario. Pur tenendo conto della notevole differenza dovuta alla peculiare interazione comunitaria in una liturgia, si tratta di un approccio certamente più prossimo a quello con cui si accoglie un brano musicale rispetto a quello con cui si legge un testo scritto. Questo tipo di ascolto e di connesso attegiamento è ancora abbastanza poco studiato, soprattutto nelle sue implicazioni teologiche, e tuttavia gravido di conseguenze abbastanza interessanti. Esiste allo stato attuale qualche studio teolose lo stesso passo attesta la preminenza dell’udito nell’ottica dell’annuncio. La vista (oggi meno a causa dei mass-media) e soprattutto il tatto sono sensi che fanno difficoltà a certificare mediante mediazioni: la percezione sensoriale attraverso questi sensi fa fiducia solo nei medesimi sensi propri e non in altre persone che medino la verità. 65


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gico sulla materia, che si avvalora della ricerca in campo musicale238. Scorrendo il nostro lavoro, è bene avere presente la problematica e le peculiarità implicate. Altro cambiamento di ottica è comportato da quello che potremmo indicare come il locus theologicus da cui porsi per svolgere la ricerca esegetica. Adottando l’ipotesi di lavoro proposta, la liturgia diventa il punto da cui partire per fare esegesi, parte dell’oggetto di studio insieme al testo scritto. È un modo particolare di studiare il messaggio del testo biblico, che declina in modo altrettanto particolare il rapporto fra Bibbia e liturgia, conferendo a quest’ultima lo statuto di «punto di partenza esperienziale». Un modo che offre una lettura articolata del noto adagio del Concilio Vaticano II «Sacrificium eucharisticum, totius vitae christianae fons et culmen» (Lumen Gentium, 11): anche lo studio della Bibbia può partire in modo quantomai operativo dalla celebrazione liturgica, probabilmente eucaristica. Ciò comporta anche una particolare antropologia dinamica, sottesa alla scansione della celebrazione eucaristica, i cui primi passaggi si ritrovano nella partizione del libro alla base della nostra scelta dei brani di esegesi. Il percorso liturgico saluto-penitenza-ascolto-fare sacramentale-fare extrasacramentale avanza nell’alveo di quello antropologico-biblico della parola di Dio: essa, ascoltata grazie ad altri (cultuanti, lettore, presidente, scrittore, 238 Alludiamo soprattutto a M.L. HEANEY, Music as Theological Praxis. In particolare il Cap. III, «An Approach to Musical Semiotics», è articolato, seguendo W. M. Speelman, sulle seguenti opposizioni, che riportiamo perché ci paiono altamente indicative anche solo come lista: «1. Sending and receiving / sharing ; 2. Disengagement / engagement: music and embodiment; 3. Oppositions / intervals – images / orientations – static / dynamic; 4. To be understood / to be followed; 5. Non-here / omnipresence; 6. Differentiating / integrating (harmonizing); 7. Referring to reality (and masking it) / receiving reality»; e le conclusioni che inferisce, «Conclusion: music, the word and the world». Notevoli anche le conseguenze teologiche, tratte al Cap.VI, «The Body of Christ and Contemporary Music», in part. «2. The embodied presence of Jesus Christ: three keys for Christian spirituality and theology» e la luce che esse danno sulla teologia dell’ascensione. Segnaliamo anche P. SEQUERI, L’estro di Dio, 218-276, soprattutto il § iniziale del Cap. 6, «per una fenomenologia dell’ascolto»; nelle note 11 e 13 a pagg. 273s si trova una bibliografia su questa tematica.

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copisti etc.), entra dall’orecchio per poi invadere e riempire il cuore e da esso, quasi per «sovrabbondanza», divenire concreta, cioè «incarnarsi», cioè ancora arrivare a pienezza (ed arrivare agli altri come testimonianza e servizio, cioè condivisione) nei gesti, nella condotta di chi ascolta, nelle «mani». È un modo peculiare e relazionale di articolare interiorità ed esteriorità in relazione alla Parola di Dio e al prossimo con cui essa è condivisa e ascoltata. Questo accostamento in sede di studio fra antropologia, o meglio spiritualità, ed esegesi vanta precedenti, anche se declinati in modo differente da quanto andiamo a fare. Ci basti rinviare a un interessante studio apparso in lingua tedesca, che nell’esegesi della liturgia contenuta in Ap 4-5 accosta il testo agli antichi scritti di mistica ebraica239. A questi cambi di ottica si accompagnano almeno due conseguenze importanti sul piano dell’analisi esegetica. La prima è che il messaggio dell’agiografo non si compone solo di quello che il destinatario dell’opera sentirà leggere. Include anche, allo stesso titolo, quello che questi a partire dalla lettura potrà percepire e vivere, compreso quanto a partire dalla lettura viene reso presente attraverso la parola. Se l’ascolto non si ferma al solo udire ma è inteso come un processo che comprende anche ciò che segue l’udito, allora anche quanto non è solo parola, cioè quanto va oltre i suoni e il loro valore denotativo/semiotico e anche puramente semantico, acquista un peso pari alla parola come componente del messaggio. Vedremo così che i gesti descritti, la testimonianza che rendono, la spinta che esercitano sul destinatario, la risonanza emotiva generata dalla successione con cui vengono presentati, i desideri e le scelte che suscitano etc. sono tutti elementi da considerare, in sede di esegesi, al pari e in inscindibile coordinamento con i termini del testo240. È il procedere della 239

Alludiamo a G. SCHIMANOWSKI, Die himmlische Liturgie. L’esegesi contemporanea aveva già avvertito da tempo il limite di una ricerca che si fermi alla sola semantica dei termini del testo e alla loro relazione sintattica: basti appena ricordare il contributo ormai classico di J. BARR, La semantica, e i nuovi modi di comporre grammatiche del linguaggio biblico (ad es. A. NICCACCI, Lettura sintattica). 240

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liturgia, che compone il suo messaggio combinando insieme il gesto e la parola, magari alternandoli o sovrapponendoli241. Questo modo di procedere comprensibilmente spiazzerà chi è abituato ad accostare il testo in altro modo: al di fuori della liturgia, spostare l’attenzione dalla parola al gesto che essa descrive comporta un salto di livello, quantomeno narrativo, che non va da sé e che richiede un’interruzione del flusso comunicativo per fermarsi a oggettivare e a riflettere242. Nella liturgia il rapporto con il pubblico è diverso: il passaggio dalla parola al gesto e poi ancora alla parola è invece qualcosa che va da sé, senza bisogno di nessuna interruzione o salto di livello. Vedremo che i gesti narrati dal Veggente, le sue emozioni e il loro impatto sui suoi ascoltatori sono componenti del suo messaggio al pari dei termini che usa, e il passaggio dagli uni agli altri è del tutto lineare lungo la proclamazione. Proprio come, per esempio, nella celebrazione del sacramento del battesimo cristiano la formula battesimale e l’infusione dell’acqua sono componenti sincroniche, isosignificanti ed entrambe essenziali, seppur celebrate nella succesione diacro241 Vanni ha coniato, a proposito del racconto della passione in San Giovanni, l’espressione «sinfonia di simboli» (cfr U. VANNI, «La passione secondo Giovanni»), che ben si adatta anche al nostro libro. Ribadiamo infatti che l’ascolto che emerge dal libro è oggi più vicino a quello di una partitura di musica corale che a quello di una conferenza o di una lettera. La considerazione simultanea dei termini, dei loro effetti sul pubblico, dei contenuti etc. diviene più comprensibile se teniamo conto del tipo di ascolto e attenzione che diamo a testi di musica vocale. Si pensi, a titolo di esempio, al coro finale della IX sinfonia di L. van Beethoven: l’ode di Schiller che esso musica non è certo stata scelta casualmente, ma non si può certo né ridurre lo studio del coro allo studio dell’ode letteraria e neppure ignorare il testo che è stato scelto. Queste ultime due sono entrambe operazioni lecite e sensate, tuttavia l’opera è stata composta per un ascolto che tenga conto dell’ode e del modo in cui è cantata e così offerta al pubblico. Ci permettiamo di suggerire, pur non avendo possibilità di approfondire, che quest’impostazione «liturgica» offre una chiave differente di interpretazione della nota citazione-correzione tomistica di S.Gregorio Magno (alludiamo al cambiamento da textum a gestum in THOMAE AQUINATIS, Summa Theologica, I, q. I, a. 10, sed contra, che cita GREGORIUS PAPA I MAGNUS, Moralia in Job, XX, 1; PL 76, 135) che per l’esegesi occidentale sarebbe stata secondo alcuni (cfr P.C. BORI, L’interpretazione infinita) così determinante. 242 È il cosiddetto «momento ermeneutico» della lettura di un testo.

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nica del tempo. Gesto e parola, pur differenti sotto un profilo intellettuale e anche narrativo, in sede di comunicazione e di celebrazione sono sullo stesso livello. Avremo occasione di appalesare, nell’esegesi, questa loro omogeneità. La seconda conseguenza riguarda un altro punto importante: la pretesa di verità di quanto si va svolgendo. Il culto sacramentale cristiano, composto di parole e gesti, attinge la verità di quanto celebrato non solamente dal polo «antropologico» dei sensi, ma dal suo rapporto a Dio. Ciò comporta che i gesti e le parole celebrano una verità che non dipende solo da quel che l’assemblea sente o vede. Il rapporto con il divino non è solo questione di convinzione o di suggestione, come se fosse una fiction o una realtà virtuale o psicologica: la divinità non si vede, ma è effettivamente presente attraverso i gesti e le parole compiuti ed ascoltati. Questo permette di attribuire un identico statuto di verità a diversi piani: le persone delle visioni celesti, l’Agnello immolato etc. non sono realtà solo oniriche o immaginarie; perché divine o rapportate a Dio, esse sono vere quanto il pubblico che sta ascoltando, se non di più. L’identica considerazione appena vista fra gesti narrati, ascolto e parole risulta in sintonia con questa seconda conseguenza: è il rapporto a Dio condiviso con la Chiesa che conferisce ordine, realtà, unità e anche logica compositiva allo sviluppo dell’opera del Veggente. Ogni singolo elemento può dunque acquistare luce tenendo conto dell’unità anche veritativa di tutti questi livelli narrativi, letterari e gestuali. La guida del testo, lo vedremo, resta ben salda, e l’unità di cui parliamo non diventa «la notte in cui tutte le vacche sono nere»243: il testo guida, ma attraverso una lettura ascoltata da un’assemblea, la quale pone in sintonia con la lettura stessa la propria percezione sensoriale e intellettuale. Ciò può avvenire grazie alla fiducia propria di una liturgia, nella consapevolezza piena della differenza che la liturgia riveste rispetto ad altre forme più limitate di accesso alla realtà e alle persone.

243

La nota frase si trova in G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, § 16.

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Alcune ultime avvertenze al nostro lettore. Abbiamo preferito indicare con «agiografo» e non con «autore» l’estensore (o gli estensori) del libro, per rispettare la convinzione, chiaramente nutrita dalla singola persona o meglio dalla comunità di persone che a vario titolo ha cooperato alla composizione, di scrivere sotto ispirazione dello Spirito. Il termine scelto rende immediatamente questo riferimento allo Spirito, sottolineando la comune appartenenza diacronica a Lui fra lettore e ascoltatori e la comunità che ha presieduto alla nascita e alla trasmissione del libro. Inoltre ci pare opportuno avvisare che le «traduzioni» che offriamo dei testi studiati intendono principalmente rendere il più possibile perspicui quei richiami e quelle caratteristiche, che più rilevano per il nostro fine. Non si tratta dunque né di traduzioni che hanno di mira principalmente la fedeltà semantica e la correttezza della lingua italiana, né ancora meno di traduzioni liturgiche, cioè pensate per essere destinate alla lettura liturgica. Il nostro fine nel rendere in italiano il testo greco è stato principalmente, nella misura del possibile e spesso anche forzando la lingua italiana, l’appalesare quei richiami, quegli snodi, quei salti che nel fluire della lettura pubblica del testo greco abbiamo ritenuto particolarmente indicativi. Ci scusiamo dunque fin da ora con il lettore per le asperità che troverà. È un sacrificio che l’agiografo stesso in greco ha molte volte richiesto ai suoi ascoltatori e che, vedremo, costituisce una delle modalità con cui egli trasmette la sua testimonianza. Infine vogliamo aggiungere qualche parola di chiarimento sul termine «pubblico» e sul gruppo semantico connesso. Abbiamo fatto spesso la scelta di servirci di questo lemma per indicare gli ascoltatori del libro. Lo usiamo con un significato che forse non è il più diffuso nella lingua corrente, la quale invece sovente lo impiega in ambito teatrale, mass-mediale o commerciale. Intendiamo qui «pubblico» in un’accezione che emerge chiara in campo giuridico e amministrativo: indica una presenza di terzi (qui gli ascoltatori, «terzi» fra lettore e agiografo) che di norma per il solo fatto di esserci costituiscono una essenziale differenza nell’atto che va compiendosi. Questa «pubblicità» costituisce una qualità del gesto compiuto che ha notevoli implicazioni. In que70


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sto senso il «pubblico» è ciò che rende un «atto pubblico» sostanzialmente diverso da un «atto privato», al di là dei singoli gesti o parole (e del loro contenuto) che vengono compiuti o detti. La sola e semplice presenza formale del «pubblico», al di là di quello che poi questo pubblico effettivamente farà o non farà, porta con sé una differenza notevole e permanente nel valore, nel significato e negli effetti di ciò che viene compiuto244. Possiamo ora finalmente addentrarci nell’esegesi del primo dei brani.

244 Un esempio potrà chiarire. L’inaugurazione dell’anno accademico in un’istituzione universitaria si compie quando l’autorità dell’istituzione medesima dichiara aperto l’anno, durante la cerimonia pubblica d’apertura e in presenza della comunità universitaria. Le stesse parole, che l’autorità pronuncia in quest’occasione, potrebbero essere pronunciate, volendo intendere lo stesso contenuto informativo, prima o dopo quel momento, o in altro luogo (per esempio al bar), e forse anche davanti a un gruppo di persone più numeroso: in questo secondo caso l’atto che compirebbe chi pronunciasse, foss’anche la stessa persona fisica deputata come autorità ad inaugurare l’anno accademico, sarebbe però sostanzialmente diverso.

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INDICE GENERALE

PREFAZIONE

I

RINGRAZIAMENTI

III

INTRODUZIONE 1. I realia liturgica 1.1 Il tempio 1.2 L’altare 1.3 Gli incensi 2. I gesti di culto 2.1 L’incensazione all’altare 2.2 Le prostrazioni dei cori lodanti 3. Le espressioni verbali della liturgia 3.1 Alcuni indizi testuali dell’interazione con gli ascoltatori 3.1.1 «Beato colui che legge e coloro che stanno ascoltando»: 1,3 3.1.2 «Fuori gli idolatri»: 22,15 3.1.3 «E chi sta ascoltando dica: “Vieni!”»: 22,17 3.2 I dialoghi liturgici iniziale e finale 3.2.1 Il dialogo liturgico iniziale: 1,4-8 3.2.2 Il dialogo liturgico finale: 22,6-21 3.2.3 I dialoghi iniziale e finale si richiamano 3.3 Una liturgia in atto, chiusa e aperta da un dialogo liturgico 4. Quale tipo di liturgia presuppone l’Apocalisse 4.1 La liturgia della sinagoga antica 4.1.1 Punti di contatto con l’Apocalisse 4.1.2 Differenze di fondo 4.1.3 La parte a noi poco nota della liturgia della sinagoga 4.2 La liturgia della Chiesa nascente 4.3 Conclusioni

5 5 5 7 8 9 9 10 10 12 12 16 17 19 19 24 31 32 33 35 36 38 41 45 51

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 5. L’ascolto liturgico come elemento emergente dell’Apocalisse 5.1 Oralità 5.1.1 La parola scritta non è quella ascoltata 5.1.2 Un rapporto fra persone e non fra persona e oggetto 5.1.3 Una formula rivolta a chi sta ascoltando 5.2 L’ascolto dell’Apocalisse 5.2.1 Le ricorrenze di avkou,ein nel NT 5.2.2 Analisi di orecchio-ascoltare in TM e nei LXX 5.2.3 avkou,ein nell’Apocalisse 5.3 Conclusioni

53 54 54 55 56 58 58 60 62 65

CAPITOLO I DALLA SEZIONE DEL SALUTO: LA VISIONE INAUGURALE (1,9-16) 1. Introduzione 2. Presentazione di Giovanni: 1,9-10a 2.1 «fratello e in comunione» 2.2 La triade tribolazione-regno-perseveranza in Gesù 2.3 L’esilio per Dio e Gesù 2.4 «divenni nello Spirito nel giorno del Signore» 2.4.1 Il verbo «divenire» 2.4.2 I riferimenti identificativi 2.4.3 Lontananza nel corpo e vicinanza nello spirito 2.4.4 Liturgia e non trance 2.4.5 Diversi segnali della liturgia 2.4.6 Ricapitolando 3. Ordine di scrivere e risposta gestuale di Giovanni: 1,10b-12a 3.1 «ed ho sentito dietro di me una voce grande» 3.2 «ciò che vedi scrivi in un libro e invia» 3.3 «alle sette chiese» 3.4 «e mi voltai per vedere la voce che parlava con me» 3.5 «e voltatomi vidi» 4. La descrizione del «simile Figlio d’uomo»: 1,12b-16 4.1 Introduzione 4.1.1 «e voltatomi vidi sette candelabri d’oro e in mezzo» 4.1.2 «un simile figlio d’uomo» 4.2 La descrizione statico-fisica 4.2.1 «vestito di veste fino ai piedi e cinto» 4.2.2 «capo e capelli bianchi come lana, come neve, occhi come fuoco»

73 75 77 79 81 83 84 86 88 90 92 96 98 99 102 105 109 111 120 122 122 126 129 129

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INDICE GENERALE 4.2.3 «e i suoi piedi simili al bronzo» 4.2.4 «e la sua voce come la voce di molte acque» 4.3 La descrizione dinamico-operativa 4.3.1 «e stava tenendo nella sua mano destra sette stelle» 4.3.2 «e dalla sua bocca una spada affilata stava uscendo» 4.4 Conclusione: «e il suo aspetto come il sole» 5. Il seguito del brano 6. Conclusione 6.1 Alcune puntualizzazioni 6.1.1 Pluralità cristocentrica di livelli di realtà e antropologia 6.1.2 Comunione sinfonica di presenze 6.1.3 Narrativa liturgica, con verità e comunione particolari 6.2 Impianto che lascia umili, pronti al dialogo con Cristo CAPITOLO II DALLA SEZIONE PENITENZIALE: LA LETTERA A LAODICEA (3,14-22) 1. Introduzione: il settenario delle lettere 1.1 L’unità del testo 1.2 Una «retorica liturgica» 1.2.1 La concretezza, simbolo-ponte di una realtà più grande 1.2.2 Struttura letteraria «sinfonica» 1.2.3 Comunione che cresce su assi 1.2.4 Comunione con il Veggente e la chiesa particolare 1.3 Implicazioni metodologiche e scelta del brano di esegesi 2. L’indirizzo e l’ordine di scrivere: 3,14a 2.1 L’indirizzo 2.1.1 La catena di mediazioni si allunga: l’angelo 2.1.2 È il rapporto a Cristo che unisce la chiesa 2.2 L’ordine di scrivere eseguito: mediazione e missione 2.2.1 La catena di mediazione cresce, il mediatore si limita 2.2.2 Un’umiltà, necessaria per la comunione e l’accoglienza 2.2.3 Scrivere è missione che permette la presenza di Cristo 3. L’Autopresentazione di Cristo con formula profetico: 3,14b 3.1 «Così dice» 3.2 Il nomen sacrum: La triplice titolatura 3.2.1 L’Amen 3.2.2 Il Testimone, quello credibile e vero 3.2.3 Il Principio della creazione di Dio

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 4. La valutazione di Cristo sulla situazione della chiesa: 3,15-16 4.1 «conosco di te le opere» 4.1.1 Il verbo conoscere: una conoscenza profonda e divina 4.1.2 Il fare: mezzo di antropologia integrale per conoscere 4.2 «ecco non sei né caldo né freddo» 4.2.1 Un’immagine discussa 4.2.2 Una tiepidezza che è assenza di rapporto, indifferenza 4.2.3 Un’insistenza martellante 4.3 «sto per vomitarti dalla mia bocca.» 5. L’esortazione, consiglio motivato del rimedio: 3,17-18 5.1 Una metafora economica per svelare la menzogna. 5.1.1 Cresce la precisione, diminuisce l’impatto emotivo 5.1.2 Forma letteraria che trasmette autosufficienza 5.1.3 Negazione di una realtà relazionale 5.1.4 Contrasto con un sapere condiviso dal rimprovero 5.1.5 Crescendo di relazione nella precisazione della povertà 5.2 Il consiglio 5.2.1 «ti consiglio di acquistare presso di me» 5.2.2 «oro incandescente da fuoco affinché ti arricchisca» 5.2.3 «vesti bianche affinché ti copra» 5.2.4 «e collirio per ungere i tuoi occhi, affinché tu veda» 6. La dichiarazione d’amore e la richiesta di conversione: 3,19 6.1 «Io quanti amo, se li amo, li rimprovero e li castigo» 6.1.1 Un amore umano 6.1.2 Un amore divino, che si fa carico della correzione 6.2 «sii fervente dunque e convertiti» 6.2.1 Il carattere creativo degli imperativi 6.2.2 Fervore e interiorità: l’inizio della trasformazione 7. L’attesa del fidanzato, aspettativa e promessa di comunione: 3,20 7.1 «Ecco, sto alla porta e busso» 7.2 «se uno ascolta la mia voce e apre la porta» 7.2.1 Un invito alla conversione «attraverso le immagini» 7.2.2 Un flusso di una condotta non arbitraria individuale 7.3 «anch’io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me.» 7.3.1 Il banchetto cultuale, celebrazione di una comunione 7.3.2 Una comunione enfatizzata con registri forti 7.3.3 Gesti testimoniati perché gli ascoltatori vi si adeguino 7.3.4 L’antropologia integrale della liturgia

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INDICE GENERALE 8. La promessa a colui che sta vincendo: 3,21 8.1 Una nota sul trono 8.2 Un ulteriore premio che coinvolge 8.3 Una costruzione letteraria raffinata che rispetta la libertà 8.4 Una comunione con Cristo che è comunione con il Padre 8.5 Comunione e autorità 8.6 La reciprocità pur nella differenza 9. L’esortazione all’ascolto: 3,22 10.Conclusione

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CAPITOLO III DALLA SEZIONE DELLA PAROLA: SCHIAVITÙ E MARTIRIO FRA LE DUE BESTIE (13,9-10) 1. Il contesto letterario del cap. 13 285 1.1 Contesto generale e premessa 285 1.2 Introduzione 288 2. Il primo quadro: 13,1-8 293 2.1 La presentazione della prima bestia 293 2.1.1 La descrizione 293 2.1.2 L’impatto sull’ascoltatore: inquietudine 297 2.2 Il dilagare della potenza bestiale 301 2.2.1 Intronizzazione della bestia e ferita risanata 304 2.2.2 Effetti sugli abitanti della terra 304 2.2.3 Il centro del chiasmo: effetti su Dio e i santi 308 2.3 In sintesi 320 3. Entrare operativamente nella comunione piena con l’Agnello 323 3.1 Il testo 324 3.1.1 La tradizione manoscritta 324 3.1.2 La forma dal codice a 326 3.1.3 La forma delle versioni 329 3.1.4 La forma del codice A 330 3.2 La formula de alerta: 13,9 335 3.2.1 ei; tij e;cei 335 3.2.2 Il sintagma ou=j – avkou,ein 337 3.2.3 avkousa,tw 340 3.2.4 ei; tij e;cei ou=j avkousa,tw 342 3.3 La disponibilità alla schiavitù: 13,10a 346 3.3.1 ei; tij eivj aivcmalwsi,an 346

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 3.3.2 u`pa,gei 3.3.3 ei; tij eivj aivcmalwsi,an( eivj aivcmalwsi,an u`pa,gei 3.4 La disponibilità al martirio:13,10b 3.4.1 evn macai,rh| 3.4.2 avpoktanqh/nai 3.4.3 ei; tij evn macai,rh| avpoktanqh/nai auvto.n evn macai,rh| avpoktanqh/naiÅ 3.5 La chiusa dell’oracolo: 13,10c 3.5.1 w-de evstin 3.5.2 u`pomonh, 3.5.3 pi,stij 3.5.4 tw/n a`gi,wn 3.6 In sintesi 3.7 Una cifra di ascolto dell’opera: la morte-vittoria dell’Agnello 4. Il secondo quadro: 13,11-17 4.1 L’identificazione 4.2 La similitudine con l’Agnello 4.3 La parola della seconda bestia 4.4 L’agire della seconda bestia 4.4.1 L’azione generica 4.4.2 Gli effetti sull’umanità: l’adorazione-morte-schiavitù 4.4.3 La ferita risanata, presagio di morte per i santi 4.4.4 I grandi segni 4.4.5 Il centro del chiasmo: l’inganno dell’umanità 4.5 In sintesi 5. Entrare intellettualmente nella comunione piena con l’Agnello: 13,18 5.1 La sofi,a 5.2 avriqmo.j ga.r avnqrw,pou evsti,n 6. Conclusione 6.1 Il percorso dell’ascoltatore 6.1.1 Il percorso affettivo di crescita personale 6.1.2 Una conferma: la visione del cap. 14 6.1.3 Un risvolto comunitario-universale 6.1.4 La partecipazione attiva a un dinamismo inarrestabile 6.2 La preparazione della fractio panis: 14,14-20 6.3 L’ascolto liturgico cristiano soglia di piena apertura del testo

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INDICE GENERALE CAPITOLO IV IL FINALE INNICO: LA DOSSOLOGIA DELL’ALLELUIA (19,1-8) 1. Introduzione 2. Struttura 3. Inclusione piena dei cultuanti nell’assemblea celeste 3.1 Gli imperativi di invito alla lode 3.1.1 Alleluia – aivnei/te tw/| qew/| 3.1.2 Alleluia – cai,rwmen kai. avgalliw/men 3.2 I soggetti e i destinatari dell’invito alla lode 3.2.1 Il soggetto lodante che «si allarga» 3.2.2 I mezzi liturgici di inclusione 3.2.3 I mezzi letterari di inclusione 4. Espressioni di certezza divina della vittoria definitiva 4.1 Salvezza, gloria e potenza. 4.1.1 Salvezza condivisa solo da cori celesti e martiri: 7,10 4.1.2 Salvezza condivisa da tutti i celesti: 12,10 4.1.3 Salvezza celeste anche dei cultuanti in terra: 19,1 4.2 «il Signore regna» 4.2.1 «ha fatto di noi regno», ancora da accogliere: 1,6 4.2.2 «regno per Dio», dalla terra ancora futuro: 5,10 4.2.3 Il regno inizia, ma solo i celesti lo cantano: 11,15-17 4.2.4 Regno di Dio sul mondo e «regno di Dio»: 12,10 4.2.5 I vincenti lodano il «re delle genti»: 15,3-4 4.2.6 Il titolo superlativo «re dei re»: 17,14 e 19,16 4.2.7 «il Signore regna»: 19,6 4.2.8 In sintesi 5. Da certezza dinamica e comunione a missione cosmica del culto 5.1 La centralità «motoria» nella struttura tripartita delle lodi 5.2 La centralità «motoria» fra Babilonia e Gerusalemme 6. L’ immagine sintetica finale: le nozze dell’Agnello con la sposa 6.1 I tratti del rituale del matrimonio ai tempi di Gesù 6.2 Scansione del percorso secondo il rituale del matrimonio 6.2.1 L’apparizione di Cristo-sposo nel cap. 1 6.2.2 La sezione delle lettere 6.2.3 L’evocazione di uno sponsale: 3,20 6.2.4 I martiri sono già nella Gerusalemme celeste: 7,9-17 6.2.5 La nascita di concepito «della non sposata» nel cap. 12 6.2.6 L’inizio della trionfale processione nunziale: 14,1-5 6.2.7 La processione di 17,14 e 19,14

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L’APOCALISSE COME «ACTIO LITURGICA» CRISTIANA 6.2.8 Lo sposo e la sposa abbandonano Babilonia: 18,23 6.2.9 La sposa è pronta per accedere al banchetto: 19,7 6.2.10 L’unione del banchetto è vista e udita: capp. 19-21 6.2.11 Cap. 22, il momento è giunto: «Vieni!» 7. Conclusione

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CONCLUSIONE 1. Percorso dell’esegesi 1.1 La visione inaugurale (1,9-16) 1.2 La lettera all’angelo della chiesa in Laodicea (3,14-22) 1.3 Schiavitù e martirio fra le due bestie (13,9-10) 1.4 La dossologia dell’Alleluia (19,1-8) 2. Sintesi conclusiva

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ABBREVIAZIONI E SIGLE

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEGLI AUTORI CITATI

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INDICE GENERALE

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