La geopolitica dell'acqua ed il bacino del Nilo

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La geopolitica dell’acqua e il caso della gestione del bacino idrografico del Nilo

Marco Leofrigio

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La geopolitica dell’acqua e il caso della gestione del bacino idrografico del Nilo

La geopolitica dell’acqua e il caso della gestione del bacino idrografico del Nilo di Marco Leofrigio

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La geopolitica dell’acqua e il caso della gestione del bacino idrografico del Nilo

Sommario 1. Introduzione .................................................................................................................................................. 4 2. Il diritto fluviale internazionale: confusione e incertezza normativa ............................................................ 7 3. La disputa per le acque del Nilo e la Nile Basin Initiative .............................................................................. 8 4. La Nile Basin Initiative .................................................................................................................................. 12 5. Un caso di completa non‐cooperazione: il disastro del lago Ciad ............................................................... 15 6. Il ‘fiume artificiale’ della Libia ...................................................................................................................... 16 7. Altri casi di dispute idro‐politiche analoghe ................................................................................................ 17

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1. Introduzione Fin dal VI secolo il filosofo Talete di Mileto definiva l’acqua come ‘archè’ di tutte di cose, cioè l’elemento essenziale per la vita e il suo sviluppo. A loro volta Empedocle e Aristotele, proporranno una visione fondata sul ruolo cruciale dell’acqua come ‘fonte di vita’, che assieme agli altri tre basilari elementi (aria, terra, fuoco) costituisce il mondo terrestre nel suo complesso. Come noto fin dai banchi di scuola, tutte le principali grandi civiltà sono nate attorno al Nilo, al Tigri e l’Eufrate, al Fiume Giallo, al fiume Indo, ecc.Da qui discende la consapevolezza antica del valore essenziale dell’acqua e, quindi, del suo controllo. Pertanto i contrasti e gli scontri per il controllo su questo bene prezioso risalgono molto indietro nel tempo. Secondo quanto ci hanno tramandato gli storici, sembra accertato che nel Medio Oriente venne combattuta la prima guerra dell’acqua, nel 2500 a. C. fra Lagash e Umma, due città-stato della Mesopotamia. Il Diritto Romano, poi ripreso nell’epoca medievale, aveva già concettualizzato la nozione di limes,cioè di frontiera indicando come buona prassi il cercare di stabilire la propria linea di confine sulla rispettiva sponda del fiume, in maniera tale che la zona che separava i due paesi restasse neutrale in quanto res nullius, una terra di nessuno che avrebbe operato da ‘ammortizzatore’ nel caso di eventuali contrasti. Un caso emblematico fu il corso del Reno che delimitava appunto il limes tra l’impero romano e le popolazioni germaniche. Con la nascita dello stato moderno e della teoria e pratica della delimitazione dei confini, i fiumi assurgono molto spesso a dei naturali confini tra stati. Un classico è l’esempio tra Spagna e Portogallo con il fiume Minho che delimita i confini tra il nord portoghese e la regione spagnola della Galizia. Dalle dispute sui confini si è passati a quelle sulle risorse naturali. Nel corso del tempo simili episodi e situazioni sono sempre stati più numerosi: lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali per soddisfare la crescita demografica ed economica, è sempre stata fonte di dispute e guerre commerciali. Il nuovo modo di produrre frutto della industrializzazione ha comportato l’aumento esponenziale dei consumi di acqua dolce, mettendo in atto dei meccanismi che hanno causato dei cambiamenti davvero radicali rispetto all’approccio tradizionale alle risorse idriche: l’acqua viene impiegata in modo massiccio per l’agricoltura, per l’industria e per la creazione di energia elettrica.Recentemente vi sono stati anche purtroppo dei conflitti armati e delle sanguinose guerre civili. L’ultima in ordine di tempo, quella tra Karthoum e le popolazioni del sud cristiano, una guerra che si

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pensava spenta del tutto con la nascita del nuovo stato del Sud Sudan, che invece minaccia di riaccendersi a livelli davvero molto allarmanti. Il presente lavoro si soffermerà in particolare sul caso della complessa gestione delle acque dello storico fiume Nilo, però si illustreranno anche casi analoghi o del tutto opposti come quello del lago Ciad, tragico simbolo della non-cooperazione tra governi.In questo ambito specifico il tentativo, a tutt’oggi in corso con la Nile Bas inInitiative, di costruire una governante condivisa tra undici stati, tanti sono quelli interessati dal vastissimo bacino idrografico del Nilo, rappresenta senza dubbio un tentativo di riferimento a livello internazionale su come approcciare la gestione di bacini transfrontalieri. La questione della disponibilità di acqua per il consumo umano è alla base della idropolitica. La prima domanda che sorge è quanta acqua è veramente disponibile ? Il nostro pianeta è costituito per settanta per cento da acqua, che però è salata. Quella potabile non è moltissima, poiché una parte è vincolata negli immensi ghiacciai dei due poli e delle grandi catene montagnose; realmente fruibile rimane quella dei fiumi, dei grandi bacini idrologici, dei laghi, delle sorgenti di montagna e quella presente nelle falde sotterranee. Ai meccanismi naturali nella disponibilità di acqua si aggiunge l’intervento pesante dell’uomo con i sempre più faraonici progetti di dighe, l’inquinamento delle falde, l’impatto del climate change sul fenomeno dell’arretramento di tanti ghiacciai di montagna e di quelli del polo Nord. Il fenomeno naturale dell’evaporazione colpisce in misura elevata l’Africa (evapora circa l’80%), un po’ meno Asia e Americhe (evapora circa l’55%) che però hanno maggiori risorse idriche disponibili regalategli da madre natura. Lo sbilanciamento è molto più evidente nel confronto tra demografia e acqua a disposizione: in Africa, dove vive il 13% della popolazione mondiale, è presente appena l’11% di acqua potabile, in Asia il rapporto è 60% della popolazione mondiale con il 36% dell’acqua disponibile. Nettamente favorevole invece è il rapporto per europei (13% popolazione e 8% acqua), nordamericani (8% popolazione e 15% acqua) e sudamericani (6% popolazione e 26% acqua). La produzione di cibo (legata strettamente all’irrigazione dei campi coltivati) assorbe in media il 70% dell’utilizzo di acqua da parte dell’uomo, ma – soprattutto nei paesi in via di sviluppo – molta di questa acqua viene sprecata sia perché evapora nei siti di stoccaggio, sia perché le tecniche di irrigazione sono vetuste e poco inclini al risparmio. Gli esperti dell’UNESCO hanno confermato, recentemente, il seguente dato: il 70% del consumo mondiale di acqua è per produrre alimenti, l’industria assorbe il 22% e il consumo umano l’8%. Per produrre un chilo di riso si utilizzano tra i mille e i tremila litri di Marco Leofrigio

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acqua, per una bistecca se ne impiegano sui settemila. Nella Giornata Mondiale dell’acqua, tenutasi il 22 marzo 2012, sono state pubblicizzate le statistiche più aggiornate. I dati più recenti della Organizzazione Mondiale della Salute stimano che 894 milioni di persone non hanno a disposizione la quantità minima necessaria di acqua per la propria sussistenza, calcolata tra i 20 e i 50 litri al giorno. Le tematiche più ricorrenti discusse durante l’ultima Giornata Mondiale dell’acqua vertono sullo studio di misure innovative atte a razionalizzare l’impiego delle risorse idriche per la produzione e il consumo degli alimenti in contesti estremamente complessi per via della presenza di tantissime variabili che vanno dal clima (aumento della siccità in alcune regioni, aumento delle inondazioni in altre), al boom demografico (si prevede che per il 2050 avremo oltre due miliardi di abitanti in più sul pianeta), alle questioni idro-politiche, al mondo delle multinazionali settore che, purtroppo, considera l’acqua prettamente una risorsa economica, destinata al lucroso business. Da molti anni si è introdotto da parte della Banca Mondiale il tema delle water stressed zones che, da un lato, pone la doverosa attenzione sul continuo sovra-sfruttamento delle acque di laghi e fiumi e sulla necessità di approcci cooperativi nella governance dei bacini transfrontalieri, (se ne contano 263 a livello mondiale), ma dall’altro è divenuto un bell’assist per introdurre il concetto devastante di ‘oro blu’, parificando in tal modo l’acqua a qualsiasi altra risorsa scarsa sul pianeta e pertanto soggetta alle dure e aggressive regole del business. A ciò si aggiunge l’eccessiva ambiguità delle norme di diritto internazionale che assieme a quelle egoistiche nazionali hanno costruito un quadro normativo tra i più confusi e quindi soggetto a interpretazioni spesso nettamente confliggenti, con tutte le conseguenze del caso come è dimostrato, nei diversi conflitti armati e come potrebbe, malauguratamente, ripetersi. Certamente non è stata certo di buon auspicio l’affermazione, fatta nel 1995,dal vicepresidente della Banca Mondiale Ismail Serageldin: “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI avranno come oggetto del contendere l’acqua”. Non è quindi un caso che negli ultimi venti anni, l’attenzione di analisti, osservatori e policy maker si stia gradualmente spostando dai conflitti per le risorse energetiche a quelli per l’acqua.

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2. Il diritto fluviale internazionale: confusione e incertezza normativa Il perimetro del diritto fluviale internazionale ricomprende potenzialmente tutte le categorie di acque interne. Il suo oggetto è lo studio dei principi e delle norme internazionali che disciplinano la delimitazione dei confini statuali, con attenzione alle acque interne, e che stabiliscono i diritti e gli obblighi reciproci degli Stati in rapporto ai diversi possibili utilizzi delle risorse idriche. Uno degli aspetti più controversi nell’ambito del diritto fluviale internazionale è che patisce di troppa confusione e incertezza normativa e quindi si lascianoeccessivi margini alle interpretazioni. Difatti il diritto internazionale non enuncia vere e proprie norme generali a cui attenersi ma dei principi guida che discendono dal diritto consuetudinario, cosa che comporta la necessità per ogni Stato di redigere specifiche norme convenzionali che regolino lo sfruttamento delle acque condivise e i rapporti reciproci. Tipico esempio classico è la disciplina della libertà di navigazione. In tempi più recenti si è data sempre più importanza agli utilizzi delle risorse idriche ricadenti sotto la voce ‘di diversa natura’. In questo campo la letteratura è divenuta man mano sempre più vasta. I trattati internazionali, a cui si aggiungono quelli bilaterali, si sono moltiplicati nell’ultimo decennio nel tentativo di fissare in un quadro di regole giuridiche certe la gestione delle risorse idriche condivise. Vi sono state decine e decine di conferenze internazionali a partire dal 1968, sono state prodotte migliaia di pagine di documenti ogni anno, interi reggimenti di avvocati ed esperti sono coinvolti nell’analisi di questa materia e nel dare pareri. Con quali risultati tangibili ? le dispute sulla gestione delle risorse idriche condivise sono in diminuzione ? no, anzi. Occorre anche tenere presente che uno dei principi cardine del diritto internazionale stabilisce la parità di diritti agli stati che si affacciano sul medesimo bacino idrico. Di per sé questo principio diviene però la prima fonte delle accese dispute tra stati upstream e quelli downstream. Con 263 bacini transfrontalieri la situazione si presenta davvero confusa, dando luogo a situazioni in cui vi è la richiesta (confliggente) di rispetto dei diritti di ogni stato all’impiego delle risorse idriche. Un passo importante nel tentativo di porre chiarezza in questa materia, è rappresentato dalle c.d. Helsinki Rules varate nel 1996 dalla International Law Association. Due tra i punti più rilevanti concernono il principio di un ‘uso equo e ragionevole dell’acqua’ come parametro guida, dal quale viene fatta discendere la regola che impone a ogni stato di fare ‘un uso che non arrechi danni al territorio’ degli stati

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interessati dallo sfruttamento delle acque. Principi ripresi anche dalle convenzioni varate in seno alle Nazioni Unite ma che la realtà delle cose dimostra di non facile applicazione se non si instaurerà l’obbligo alla cooperazione tra stati, ovvero se non si faranno gli sforzi necessari per costruire un modello fondato sulla ‘comunità di interessi’, un nuovo modello di governance dell’acqua. Il disastro ambientale e sociale del Lago Ciad e del Lago d’Aral sono davanti agli occhi della comunità internazionale a ricordare come monito di cosa succede quando non si coopera fattivamente.

3. La disputa per le acque del Nilo e la Nile Basin Initiative Nel continente africano ci si deve confrontare con una complessità idrogeologica davvero unica: troviamo circa 80 fiumi che attraversano i confini di due o più stati e si può ben comprendere

come

sia

forte

l’interdipendenza

sulla

condivisione

dell’acqua.

Potenzialmente ogni grande opera idrica può dare adito a dispute fra Stati o comunità, soprattutto nelle aree dove non ci sono fonti di approvvigionamento alternative. Allo stesso modo, la carenza infrastrutturale in molte zone non permette di creare riserve d’acqua da utilizzare in casi di siccità. E’ del tutto evidente che vi è sul tavolo una grande questione di gestione delle politiche idriche. Al momento, la principale contesa idrica in Africa concerne il bacino del Nilo, rappresenta una delle situazioni più complesse e articolate, considerando che la governance di un bacino transfrontaliero, dalle enormi dimensioni, come quello del Nilo è di estrema difficoltà. Il Nilo è uno tra i più lunghi fiumi al mondo con ben 6.937 chilometri,con un bacino idrografico che copre una superficie di 3.254.555 chilometri quadrati, pari a circa il 10% della superficie dell'Africa e quasi 11 volte l'Italia. Il Nilo ha tre grandi affluenti, l’Atbara, il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, di cui quest'ultimo contribuisce con il maggior apporto di acqua e di limo fertile; in particolare il Nilo Bianco nasce nella regione dei Grandi Laghi dell'Africa centrale, le cui fonti si spingono fino al Ruanda da cui scorre poi verso nord e attraversa la Tanzania, il Lago Vittoria, l'Uganda e il Sudan meridionale. Il Nilo Azzurro invece ha le sue fonti nel Lago Tana, nel grande altopiano occidentale etiopico e da qui raggiunge il Sudan sud-orientale; al termine di questi percorsi i due affluenti primari convergono nei pressi della capitale sudanese Khartoum.La sezione settentrionale del fiume, cioè il Nilo, scorre da questo punto in poi quasi interamente attraverso territori desertici, dal Sudan all'Egitto, terminando nel grande delta sul Mar Mediterraneo.Dalle sorgenti al delta il Nilo attraversa sette paesi africani: Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Sudan del Sud, Sudan ed Egitto, ma il suo

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vastissimo bacino idrografico include frazioni del territorio della Repubblica Democratica del Congo, del Kenya, Etiopia ed Eritrea.Durante la stagione secca (da gennaio a giugno) il Nilo Bianco contribuisce tra il 70% e il 90% della portata d'acqua totale del Nilo. Il Nilo Azzurro contribuisce con circa l'80-90% della portata del fiume Nilo; il cui flusso varia notevolmente durante il ciclo annuale influenzando di conseguenza la portata del Nilo stesso. Tanti fattori impattano su un'area così vasta come quella del bacino idrografico del Nilo. Il livello delle acque già modificatosi a seguito della grande diga di Assuan varia a causa delle variabili idrogeologiche, le deviazioni apportate al corso d'acqua, l'evaporazione e la filtrazione nelle falde acquifere, l’alta variabilità del clima, caratterizzato da stagioni di lunghe siccità, come la tragica situazione della Somalia ci ricorda da diverso tempo. Dall’altro lato vi è il contesto socio-economico, culturale e demografico che è tra i più complessi a livello mondiale. La densità demografica in questa regione occidentale africana è elevatissima, supera ampiamente quella dell’Europa presa tutta assieme, difatti le popolazioni interessate ammontano a 300 milioni (numero destinato a raddoppiare per il 2025), ed è del tutto evidente che questo fattore di per sé costituisca un elemento di fortissima pressione sulle risorse idriche. Inoltre, in questa immensa area del continente africano,troviamo 5 tra i 15 stati più poveri al mondo, secondo le classificazioni di Nazioni Unite UNDP e FAO. A ciò si aggiungono i tanti conflitti tra gli stati, vedasi le guerre dell’Egitto con Israele, le guerre tra Etiopia ed Eritrea, con la Somalia, la lunga guerra civile tra il Sudan e il Sud Sudan; la limitatezza delle infrastrutture (solo il 15% della popolazione è raggiunta dalla elettricità), la ridotta superficie impiegabile per l’agricoltura(circa il 10% delle terre coltivabili sono irrigate), ad eccezione dell’Egitto e del Sudan. La contesa sul bacino del Nilo nasce dall’indubbio sbilanciamento nel prelievo di acqua tra i vari stati; essendo proprio l’Egitto un eccessivo utilizzatore delle acque del fiume. Ciò ha condotto i paesi posti sull’upstream della regione nilotica a voler cambiare questo ‘storico e tradizionale’ status quo. Difatti vi è un precario equilibrio tra Egitto da un lato, e Sudan ed Etiopia, dall’altro lato, che sono le due nazioni che da più lungo tempo hanno tentato di contrastare la idro-politica perseguita dal Cairo. Da dove nasce questo (obsoleto) status quo ? Come noto fin dal XIX secolo ci furono tantissime spedizioni alla ricerca delle sorgenti del Nilo, poichè le diplomazie europee (nello specifico Gran Bretagna e Francia) erano interessate al controllo delle risorse idriche. Si pervenne ai primi accordi di Berlino nel 1884. In seguito Gran Bretagna, Italia e Francia siglarono il protocollo di Roma nel Marco Leofrigio

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1891, a cui seguirono gli accordi fra britannici ed etiopi nel 1902. La Gran Bretagna raggiunse anche un’intesa con il Congo nel 1906.Il punto centrale degli accordi era che nessuno dei paesi firmatari avrebbe dato il via a opere di captazione e stoccaggio senza consultare le parti interessate. L’influenza inglese nel bacino del Nilo raggiunse il culmine nel 1929, quando Egitto e Sudan, al tempo entrambi sotto il dominio di Londra, firmarono un accordo di condivisione delle acque. Agli egiziani sarebbero spettati 48 chilometri cubi di acqua ogni anno, ai sudanesi 4 chilometri cubi.Con questa cornice giuridica, stabilita dai britannici, si sono seminati i germi della discordia fino ai nostri giorni, la politica del fatto compiuto poggiava sulla forza militare ed economica dell’impero britannico e sulla contemporanea debolezza politica dei paesi del bacino. Cosa prevedeva questo trattato ? si trattava di un tipico frutto della mentalità colonialista dell’epoca degli imperi europei, che pretendeva di fissare per sempre il prelievo sulle acque del Nilo a tutto vantaggio di Egitto e Sudan (allora una sola grande colonia inglese) a totale discapito dei paesi a monte del fiume. L’Egitto decolonizzato ha però inteso continuare con questa idro-politica. Una palese contraddizione, in contrasto con il fatto che l’Egitto è stata proprio una delle nazioni che ha più premuto per un veloce processo di decolonizzazione e che ha sempre mal digerito l’occupazione inglese (vale la pena di rammentare quanto gli inglesi temettero una rivolta da parte delle forze armate egiziane, le quali, infatti, non presero mai parte ai combattimenti nel deserto nordafricano nel secondo conflitto mondiale); tuttavia ai dirigenti egiziani è parso assolutamente importante continuare a far valere il trattato siglato nel 1929, che stabilì chi comandava sul fiume Nilo. Il regimedi Nasser, dai fortissimi accenti nazionalisti, fissò subito i suoi obiettivi di geopolitica: assurgere al ruolo di leader regionale anche per la gestione privilegiata delle acque del Nilo. Il famoso progetto nasseriano per una possibile unificazione delle nazioni arabe rientrava in questa strategia. Le motivazioni di queste scelte sono state fatte risalire fino ai tempi dell’Antico Egitto, per giustificare la valenza essenziale del Nilo per gli egiziani di oggi e di ieri. Per gli egiziani il Nilo è sempre stato il fattore che ha permesso la vita e lo sviluppo. Gli antichi egizi avevano imparato a gestire le piene periodiche che fertilizzavano il bacino depositando il limo, un fatto che con il passare dei secoli, non è cambiato per nulla tanto che l’Egitto dipende, anche oggi, per il 90 per cento dalle acque del Nilo. Non a caso lo storico greco Erodoto definì l’Egitto “come un regalo del Nilo”, individuando magistralmente la caratteristica principale di quel paese: la sua totale ed essenziale dipendenza dal grande fiume e, soprattutto, Erodoto aveva centrato il ‘sentirsi’ dell’Egitto come nazione-egemone sui destini del Nilo.

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Il Sudan si trova invece in una situazione diversa, dato che è relativamente ricco d'acqua nella parte meridionale. Con la decolonizzazione il vecchio accordo fra egiziani e sudanesi fu necessariamente rivisto per prendere atto del mutamento dello status quo e dell’aumento della domanda di risorse idriche da parte delle due nuove nazioni. Nel 1959, in base alle nuove intese, il Cairo avrebbe avuto diritto a 55,5 chilometri cubi di acqua annui e Karthoum 18,5 chilometri cubi. Questa intesa bilaterale non teneva in nessun conto le esigenze dei paesi upstream.Nel frattempo l’Egitto di Nasser diede il via alla costruzione di una serie di infrastrutture, fra cui il grandioso progetto della diga di Assuan. L’invaso formato da questa opera,con una capacità di 162 chilometri cubi di acqua, ha formato il secondo bacino artificiale più grande del continente africano, e venne costruito con tre obiettivi primari: migliorare la produttività agricola, avviare la produzione di energia elettrica e regolare le piene millenarie del grande fiume. Nel momento in cui l’Etiopia ha annunciato la propria volontà di sfruttare maggiormente le acque del Nilo,l’assenza di una qualsivoglia governance del bacino del Nilo, (volutamente ‘congelati’ dai trattati del ’29 e del ’59), è tornata al centro dell’attenzione, rimettendo in discussione lo status quo. E’ scattato allora tra i dirigenti egiziani quello che è stato acutamente definito “il complesso di Fashoda”, dal nome della località sudanese nella quale inglesi e francesi rischiarono lo scontroarmato nel 1898. Cosa avvenne ? Nell’ambito della corsa alla conquista dell’Africa (il tanto decantato dai cultori dell’impero britannico scramble for africa) tra Francia e Gran Bretagna si rischiò un grosso conflitto tra queste due nazioni. Difatti una spedizione francese tesa ad ottenere il controllo delle sorgenti del Nilo raggiunse la località sudanese di Fashoda, il confronto fu subito aspro ma alla fine furono gli inglesi ad averla vinta, conquistando una vittoria completa sul piano diplomatico quindi strategico per il controllo dell’intero bacino del Nilo. Pertanto le intenzioni di Addis Abeba hanno fatto riemergere il timore degli egiziani del sorgere di un paese a monte del Nilo intenzionato a modificare con i propri interventi il flusso delle acque del ‘loro’ fiume Nilo.Questa minaccia alla tradizionale geopolitica dell’acqua nilotica portò il Cairo ad una frenetica attività diplomatica nei confronti del Sudan e dei paesi del Corno d'Africa per trovare una qualche intesa che isolasse l’Etiopia e quindi ne ‘sterilizzasse’ le richieste. Si avviarono trattative per l’elaborazione di un regime equo per la condivisione dell’acqua del bacino e venne costituita una commissione di esperti, alla quale l'Etiopia partecipò come osservatore. Nel frattempo però sia l’Egitto che il Sudan invocavano a più riprese il tema dei diritti di sfruttamento acquisiti a livello storico. Marco Leofrigio

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Soprattutto il Cairo ha sempre sottolineato la necessità di acqua per i bisogni di una popolazione in crescita e concentrata per il 95 per cento intorno al fiume ed in più occasioni si è espresso con toni minacciosi, ventilando come opzione lo studio di un intervento armato nel Corno d’Africa a tutela dei propri interessi idrici. Vale la pena ricordare che subito dopo la firma del trattato di pace con Israele, l’allora presidente Sadat, riferendosi alla questione idrica con l’Etiopia, disse: “L’unica questione che può portare l’Egitto di nuovo in guerra è l’acqua”. Confermando così la tesi di chi sostiene che l’Egitto è pronto a entrare in guerra affinché nessuno minacci la sua quota di acqua proveniente dal fiume. La minaccia è ritenuta così di alto livello che sembra che il Cairo avrebbe una rete di spionaggio molto attiva nel monitoraggio della situazione, in particolare in Etiopia. Inoltre secondo diversi osservatori, gli egiziani hanno creato un’unità militare speciale addestrata alla guerra nella giungla e in montagna, sebbene notoriamente in Egitto non vi sia nessuno di questi tipi di ambiente. La questione dell’acqua è al massimo livello nella politica di sicurezza del Cairo, tanto che il Nilo sarebbe sotto la diretta protezione delle forze armate egiziane, le quali potrebbero, da quanto risulta, anche ordinare una risposta militare immediata senza aspettare l’autorizzazione degli organi di governo. Sembra anche che lo Stato Maggiore egiziano avrebbe redatto dei piani di rappresaglia da attuare nei riguardi dell’Etiopia (Piano “Aida”) e del Sudan (Piano “Crocodile”).I rapporti fra Egitto e Sudan hanno registrato dei momenti di crisi, non solo nel momento della costruzione della diga di Assuan ma anche a metà degli anni Ottanta, il governo egiziano fu in procinto di ordinare un attacco aereo contro Khartoum, accusata di sottrarre acqua. Fortunatamente all’ultimo momento prevalse la moderazione. La delicatezza e le implicazioni geopolitiche sulla gestione delle acque del Nilo è tale che durante le trattative nel periodo transitorio (2002-2005) tra le autorità sudanesi centrali e quelli del Sudanese People’s Liberation Army di John Garang, dal protocollo di intesa riguardante la spartizione delle risorse (denominato Wealth Sharing) è stata esclusa la questione dell’acqua. I leaders dello SPLA/M hanno agito in tale maniera per evitare assolutamente di mettere sul tavolo della trattativa un fattore che potesse scardinare tutto il lungo e laborioso negoziato per l’autodeterminazione.

4. La Nile Basin Initiative Il progetto chiamato Nile Basin Initiative (NBI) fu siglato nel febbraio 1999 dai rappresentanti di nove paesi quali: Egitto, Etiopia, Burundi, RD Congo, Kenya, Sudan, Marco Leofrigio

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Tanzania, Uganda e l’Eritrea con lo status di osservatore. La NBI ha l’ambizione di rappresentare lo strumento per la gestione delle dispute sulla gestione delle acque. E’ un’ iniziativa che ha portato a una serie di incontri periodici e soprattutto ha creato un’arena di discussione politica, una camera di compensazione tesa a evitare il ricorso alla forza.A tutt’oggi la NBI rappresenta un work in progress (la sua efficacia è ancora tutta da dimostrare) per la costruzione di una partnership tra gli 11 stati interessati la cui ‘ragione sociale’ si declina su tre linee di azione, che possono essere riassunte così: ”ricercare uno sviluppo del fiume Nilo in maniera cooperativa, condividerne i concreti benefici socio economici e promuovere la pace e la sicurezza nella regione”. Gli scopi principali dell’iniziativa sono: • Promuovere la cooperazione e una serie di azioni coordinate fra i paesi dell’area del bacino. • Sviluppare le risorse idriche del Nilo all’insegna dell’equità e della sostenibilità per assicurare prosperità economica, sicurezza e pace per le nazioni coinvolte. • Garantire un’efficace gestione dell’acqua e la massimizzazione nell’utilizzo delle risorse. • Combattere la povertà e promuovere l’integrazione economica. E’ un progetto questo del NBI in cui organizzazioni come la World Bank vi hanno investito moltissimo. Difatti il progetto è patrocinato con un grosso impegno di energie e fondi dalla Banca Mondiale e dalla Fao che lo vorrebbero proporre sulla scena globale come modello di approccio alla problematica di gestione di casi analoghi di bacini trans-frontalieri.La Banca Mondiale finanzia il progetto sia direttamente sia con partner selezionati, amministrando nel contempo lo strategico Fondo Donatori (Nile Basin Trust Fund). Dunque, questo nuovo approccio mira a sviluppare un’ottica di cooperazione per dare a tutti la possibilità di fruire dei miglioramenti attesi di natura socio-economica ed ambientale. L’Iniziativa opera per mezzo di tre strumenti fondamentali: la SVP (Shared Vision Program) articolata in otto progetti; la ENSAP (Eastern Nile Subsidiary Action Program) finalizzata allo sviluppo delle risorse idriche del bacino del Nilo orientale; la NELSAP (Nile Equatorial Lakes Subsidiary Action Program) che si propone di perseguire obiettivi legati alla riduzione della povertà, alla crescita economica, al contrasto all’inquinamento ambientale. Correlati al NBI vi sono anche dei progetti come quello finanziato dalla UNDP per il controllo idro-meteorologico del fiume Hydromet ed il Tecconile (Technical Committee for Cooperation for Integrated Development and Enviromental Protection of the Nile Water) alla base dello sviluppo di Hydromet. Marco Leofrigio

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Si sono fatti però pochi passi avanti e molti indietro come nel caso della riunione a Kinshasa del 2009 quando l’Egitto ribadì che non avrebbe firmato nessuna convenzione atta a diminuire il suo prelievo di 55,5 chilometri cubi annui di acqua, come stabilito nel trattato bilaterale Egitto-Sudan del 1959. Un posizione di chiusura nonostante la moderazione delle richieste etiopiche che richiedevano un prelievo di 6 chilometri cubi di acqua ogni anno.Da parte sua Addis Abeba, si sta muovendo da tempo, inviando appositi segnali agli egiziani. Le autorità etiopi sono impegnate nella ricerca di fondi per la costruzione di dighe e degli aiuti potrebbero arrivare dagli onnipresenti cinesi. La Banca Mondiale è impegnata in progetti di servizi fognari anche se non risultano al momento progetti in corso per il finanziamento di sistemi di captazione e stoccaggio.L’Etiopia ha già una decina di dighe, ma nessuna costruita ad oggi sul Nilo. Gli stati upstream stanchi di queste lunghe trattative e dei poteri di veto incrociati considerati solo un modo per guadagnare tempo e posticipare eventuali concessioni o revisioni del trattato del 1959, hanno deciso di muoversi in modo diverso. Difatti insoddisfatte di come procedeva l’accordo del NBI, nel maggio 2010 sei nazioni upstream (Etiopia, Kenya, Uganda, Rwanda, Tanzania e Burundi)hanno firmato il quadro di accordi della Nile Basin Cooperative Framework Agreement, una mossa per cercare di stringere al tavolo negoziale i due paesi più decisivi in questa partita. Queste nazioni hanno reclamato di poter beneficiare in misura maggiore delle acque nilotiche, ed hanno dichiarato e discusso in tutte le sedi internazionali che il Nilo non può essere ritenuto ‘un dono esclusivo fatto all’Egitto dalla natura’ e dunque non è possibile accettare ancora la pretesa che si rispetti l’applicazione di trattato che garantisce privilegi a una sola nazione. L’accordo è stato firmato nel 2011 anche da Kenya e Burundi e si attende la firma del Congo. L’accordo delle otto nazioni upstream cosa prevede ? Un ribilanciamento drastico del prelievo delle acque del bacino, non vengono più riconosciuti ‘i diritti storici’ degli stati ma si chiede che le risorse idriche possano essere impiegate sulla base di regole eque. Di contro il Cairo ha ribadito che per loro è ‘una questione di vita o di morte’ ed il Sudan si è autosospeso dal NBI. Pertanto ad oggi questo quadro di accordi,non essendo stato accettato né dal Sudan né dall’Egitto,ha una forza cogente limitata, ma potrebbe, una volta reso operativo, prendere il posto della Nile Basin Initiative.Dunque si può dire che l’esperienza fino ad oggi della NBI, nella gestione del bacino del Nilo,abbia evitato l’insorgere di conflitti armati tra alcuni degli undici paesi interessati ma dall’altro lato si Marco Leofrigio

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deve però ammettere che ha prodotto dei risultati troppo modesti dal punto di vista degli ambiziosi obiettivi dell’iniziativa, anche in ottica di una futura integrazione regionale tra gli stati dell’Africa orientale.

5. Un caso di completa non­cooperazione: il disastro del lago Ciad Il caso del lago Ciad è emblematico per capire, come a causa degli interventi antropici, dovuti alla totale assenza di un’incisiva cooperazione tra stati, come possa cambiare in breve tempo un’intera area, con gravissime conseguenze a catena sulle comunità locali e sull’ecosistema.Il Lago Ciad fino al 1964 rappresentava il più vasto lago di acqua dolce in Africa con una superficie di 25 mila chilometri quadrati. Da alcuni anni, l’area occupata dal lago si è ridotta a circa 1500/1600 (!) chilometri quadrati, vale a dire che il volume di acque contenute nel lago è crollato, nell’arco di soli cinquanta anni,da 100 a 20 chilometri cubi.Le cause di questo restringimento sono state attribuite al calo delle precipitazioni ma soprattutto agli interventi dell’uomo sui fiumi che lo alimentano; in particolare gli interventi sul sistema fluviale del Chari-Logone, che rappresenta il più grande tributario con le sue acque per il lago Ciad. Le ripercussioni sulle comunità locali, venti milioni di persone vivono grazie alle risorse idriche di questo ex-grande lago, sono state davvero pesanti: tutte le attività economiche della regione, che da sempre, vertevano sul lago e le sue risorse (agricoltura, pesca, allevamento) sono state distrutte e/o messe seriamente a rischio. Inoltre,gli sconvolgimenti sul sistema economico-sociale hanno creato tensioni in Nigeria, lo stato più popoloso dell’area, già sotto osservazione per la pressione demografica sulle risorse idriche del fiume Niger. Il sostanziale prosciugamento di due terzi del lago, transfrontaliero a diverse nazioni, ha creato problemi anche nelle delimitazioni dei confini internazionali. Eppure fin dal 1964 era stata istituita tra Camerun, Ciad, Niger, Repubblica centro-africana e Nigeria, la Lake Chad Basin Commission, come organismo di cooperazione che aveva come principali obiettivi dell’organismo quello di combattere la desertificazione dell’area, ripristinare i livelli idrici del lago e raccogliere i dati per una gestione efficace dell’acqua nell’area. Una serie di compiti decisivi e indifferibili ma che nei fatti non sono stati condotti a buon fine, come mostrano i dati drammatici sul progressivo prosciugamento del lago Ciad. Anche da parte della comunità internazionale sono stati tentati diversi progetti per un più razionale uso delle acque destinate al consumo agricolo, ma fino ad oggi purtroppo non vi sono stati risultati tangibili.

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6. Il ‘fiume artificiale’ della Libia Un progetto completamente diverso è quello davvero dispendioso che è stato intrapreso a partire dal 1983 dal regime, ora deposto, del Colonnello Gheddafi. Tra i tanti progetti del regime gheddafiano è forse quello meno noto al grande pubblico ma non per questo meno importante. La spesa per quello che è stato denominato Great Man-made River, un fiume artificiale di ben 2820 chilometri di lunghezza, pare si sia aggirata intorno ai 33 miliardi di dollari (il reale costo non si saprà mai) con centinaia e centinaia di tubature che sono state interrate per trasportare l’acqua,attraverso questo ‘gigantesco acquedotto’, dalle ricchissime falde acquifere del Sahara libico alle città, industrie e i villaggi della costa mediterranea. Come in altre nazioni anche in Libia le tradizionali risorse d’acqua, come le falde costiere stanno diventando saline a causa dell’uso eccessivo da parte dell’uomo, rischiando di provocare il collasso del settore agricolo. Il target finale sarebbe stato quello di arrivare a trasportare fino a 6 milioni di metri cubi d'acqua al giorno dal cuore del Sahara fino al Mediterraneo, questo avrebbe permesso di mettere a coltura almeno altri dieci milioni di ettari, sia per l'agricoltura che per l'allevamento. Concepito il progetto alla fine degli anni ‘60, sono stati condotti studi di fattibilità nel 1974. La costruzione ha avuto inizio nel 1984, divisa in cinque fasi, ciascuna in gran parte separata, poi combinata in un sistema integrato. Per utilizzare le antiche falde, sono stati scavati una serie di pozzi ed è stato costruito un enorme condotto in calcestruzzo per convogliare l’acqua dal deserto alle pianure costiere. L’opera è stata realizzata dall'impresa sudcoreana Dong Ha su progetto della filiale inglese dell'americana Brown and Rooth.Successivamente il Grande fiume artificiale libico è caduto nel dimenticatoio dopo essere stato inaugurato a gennaio del 2007.Allo scatenarsi del conflitto in Libia, gli analisti più attenti, hanno indicato questo fiume artificiale come uno dei grandi obiettivi geo-economici della guerra. Perché questo interesse ? Le falde sotterranee del Sahara libico fanno parte di quello che viene definito il “Nubian Sandstone Aquifer System” (ANS), ovvero uno dei più grandi sistemi di riserva di acqua fossile del mondo, accumulatasi in milioni di anni e non rinnovabile, si trova al di sotto quattro paesi Ciad, Egitto, Sudan e soprattutto Libia.Dei tre principali bacini acquiferi che si trovano sotto il Sahara, l’ANS è certamente il più grande: si stima che contenga circa 375.000 km cubi di acqua, e che possa fornire acqua per decine di anni. E’ quindi evidente che l’ANS rappresenti una preda eccezionalmente appetibile per i big del business dell’acqua.

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7. Altri casi di dispute idro­politiche analoghe Vi sono altri casi di dispute sui fiumi, ma non sembrano, per fortuna, avere lo stesso peso in termini geopolitici della contesa sulle acque del bacino del Nilo. Anzi sono da ricordare diversi casi di cooperazione tra cui la Niger Basin Authority, lo Zambesi Water course Commission, l’International Commission for the Orange Senqu River, l’Organization for the Development of the Senegal River, il Limpopo Basin Permanent Technical Committee. Sono sotto particolare osservazione da parte degli analisti le contese riguardanti il Lago Ciad ed i fiumi Okavango, Senegal, Zambesi e Niger. Sono tutte situazioni in cui il paese downstream è totalmente dipendente dalle politiche dei paesi upstream. Come per la Mauritania per la quale il 95 per cento dell’acqua, viene fornita per la maggior parte dal fiume Senegal che proviene dalla Guinea e dal Mali; lo stesso vale per il Gambia che riceve l’86 per cento della propria acqua dal Senegal. Ugualmente accade nel caso del Botswana, che è totalmente dipendente dalle risorse idriche di superficie provenienti da Angola e Namibia. Il pericolo della costruzione di dighe sull’Okavango in questi due ultimi paesi, minaccia seriamente il delta del fiume che termina appunto in Botswana. Questo delta è un ecosistema straordinario e delicato di oltre 5 mila chilometri quadrati, habitat di specie animali e vegetali uniche ed è diventato una delle mete del turismo naturalistico mondiale. L’ecosistema del delta deve la sua unicità a un perfetto equilibrio dinamico creato dalle acque dell’Okavango, le quali trasportando sabbia e detriti e garantendo un costante afflusso di acqua dolce, evitano che nel delta salga il livello di salinità. E’ un sistema fragile e complesso, in cui una minima variazione potrebbe comportare l’aumento della salinità dell’acqua causando la scomparsa di animali e piante fondamentali per l’ecosistema. Una eventualità di cui il Botswana è consapevole. Nel vicino Medio Oriente, non solo nei tempi antichi, sono avvenute delle guerre per il controllo dell’acqua. Tra le principali cause scatenanti della ‘guerra dei Sei giorni’ vi era anche l’acqua, che ha avuto certamente un peso importante anche se non decisivo. Che la questione idrica abbia giocato un ruolo importante lo ha confermato Ariel Sharon, all’epoca generale dell’esercito israeliano al comando di una divisione corazzata sul fronte egiziano, affermando durante una intervista che: ‘la guerra dei sei giorni iniziò davvero il giorno in cui Israele decise di opporsi alla deviazione del Giordano’. Il bacino del Giordano rappresenta difatti un classico di disputa trans-frontaliera. Un’idea della complessità del bacino transfrontaliero del Giordano si ha considerando che la regione copre un’area totale di 18.500 chilometri quadrati, così frazionata: il 40 per cento in Giordania, il 37 per Marco Leofrigio

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cento in Israele, il 10 per cento in Siria, il 9 per cento nella Cisgiordania e il residuo 4 per cento in Libano.La questione della geopolitica dell’acqua è certamente uno dei punti di maggior attrito in quella martoriata zona del Medio Oriente. Un altro caso, che non è stato fonte, fortunatamente, di conflitti armati, è rappresentato dallo storico bacino dei due fiumi Tigri-Eufrate. In questo bacino troviamo la Turchia, in posizione di paese upstream, che agisce come ‘regista’ nella governance dei flussi delle acque che scendono poi verso i due paesi downstream, la Siria e l’Iraq. Un situazione esattamente opposta a quella dell’Egitto. Dalla descrizione geografica del bacino fluviale del Tigri e dell’Eufrate si evincono i tanti risvolti geopolitici nella condivisione delle acque dei due fiumi.Il Tigri e l’Eufrate coprono con il loro bacino un’area pari a 879.790 chilometri quadrati in Medio Oriente. Nascono entrambi dagli altopiani anatolici in territorio turco (dove si snoda il 22 per cento del bacino), e il loro bacino è condiviso da Siria (11 per cento), Iraq (46 per cento), Iran (19 per cento), Arabia Saudita (1,9 per cento) e Giordania (0,03 per cento). L’importanza del bacino emerge confrontando la percentuale del territorio di ogni nazione bagnata dalle acque fluviali. L’Iraq ha il 93 per cento del proprio territorio nel bacino, la Siria il 52,1 per cento, la Turchia il 24,5 per cento, l’Iran il 9,5 per cento, l’Arabia Saudita lo 0,8 per cento, la Giordania lo 0,2 per cento. Questi dati spiegano anche da soli perché, a fasi alterne, è salita la tensione per il controllo delle risorse idriche fra Ankara da un lato e Damasco e Baghdad dall’altro. La complessità del sistema TigriEufrate va messo anche alla luce del gigantesco progetto di sviluppo agricolo e idroelettrico,il GAP (acronimo per Güneydoğu Anadolu Projesi).Il GAP è un progetto basato sulla costruzione di un complesso sistema di 22 dighe e 19 centrali di trasformazione dell’energia idroelettrica nell’Anatolia sud-orientale. Il GAP è suddiviso in 13 differenti progetti, 7 riguardanti l’Eufrate e 6 il Tigri. Obiettivo del GAP sarà quello di controllare il 28 per cento del potenziale idrico della Turchia, creare bacini di stoccaggio per permettere l’irrigazione di oltre 1,7 milioni di ettari di terra nel Sud-Est e creare una serie di impianti idroelettrici con una potenza di 7476 megawatt, capaci di produrre 27 miliardi di kilowatt/ora. Al fine di evitare che le dispute possano degenerare in conflitti armati, la comunità internazionale dovrebbe valutare l’implementazione di un quadro di accordi simile (ma anche più efficace) a quello del bacino del Nilo per far gestire in modo cooperativo il grande e storico bacino del Tigri-Eufrate.

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