Numero speciale Il muro nel cuore_ottobre 2014

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Trimestrale dell’associazione Il Gioco degli Specchi ANNO V NUMERO SPECIALE – OTTOBRE 2014

Il muro nel cuore 10/15 novembre 2014 Trento-Bolzano

Autobiografia di un mondo ex: le cose raccontano Le Gallerie Piedicastello - Trento 3 ottobre - 23 novembre


SOMMARI

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EDITORIALE Il muro nel cuore PROGRAMMA 10-15 novembre 2014 STORIA STORIE Giornalista per caso al Circolo polare artico STORIE DI COSE POLITICA E MIGRAZIONI Intervista all'assessore all'integrazione della Provincia di Bolzano LAVORO Una vacanza differente RACCONTO Cruzeiro do Sul SOCIETÀ Coinvolgere gli immigrati nei progetti di inserimento CARCERE Un luogo educativo? CINEMA Io sto con la sposa

IL GIOCO DEGLI SPECCHI periodico dell’Associazione “Il Gioco degli Specchi” Reg. trib. Trento num. 2/2010 del 18/02/2010 direttore responsabile Fulvio Gardumi direttore editoriale Mirza Latiful Haque

redazione via S.Pio X 48, 38122 TRENTO tel 0461.916251 - cell. 340.2412552 info@ilgiocodeglispecchi.org www.ilgiocodeglispecchi.org progetto grafico Mugrafik - Sonia Lunardelli stampa Litografia Amorth, loc. Crosare 12, 38121 Gardolo (Trento) con il sostegno di Comune di Trento Assessorato alla Cultura e Turismo Provincia Autonoma di Trento

di Maria Rosa Mura

Il muro nel cuore

Quando gli uomini sentono altri uomini come una minaccia o un problema, scatta la decisione: costruiamo un MURO. La minaccia resta tale, il problema non è nemmeno affrontato, aumenta invece la sofferenza per tutti. Un muro è sempre DOLORE per le persone. Che sia di pietra, di filo spinato o una barriera legislativa, un confine che non si può attraversare è un blocco che non può avere corrispondenza nella realtà. Con quale criterio possiamo tracciare una linea divisoria? linguistico? etnico? geografico? con la legge del vincitore, del più forte? Non avrà mai alcun rispetto delle diversità, delle mescolanze, che come sappiamo bene attraversano anche la singola famiglia e la singola persona. 25 anni fa è stato abbattuto il Muro di Berlino, dal paziente sacrificio di milioni di persone che nell'Europa orientale hanno rivendicato per tutti la libertà di muoversi. Non abbiamo però mai smesso di costruire muri e di volerne in tutto il mondo: in questo nostro autunno Il Gioco degli Specchi ricorda anche il MURO della VERGOGNA che imprigiona i palestinesi e il MURO della MORTE che le nostre leggi hanno eretto nel Mediterraneo. Siamo stati capaci di trasformare un mare, che per secoli ha unito uomini e culture, in una micidiale barriera. Tanto che non ci bastano uomini e denari per arginare il danno. E se ci richiamassimo ad una DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI datata 1948 e sottoscritta anche dall'Italia? Articolo 13 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. Articolo 14 1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite. Esseri umani, soggetti a leggi non disumane, liberi di muoversi, come hanno sempre fatto popolando il pianeta.

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO

Con il contributo di

Editoriale


#ilmuronelcuore BILAL - Pensi di saper distinguere il paradiso dall’inferno? ATAS onlus festeggia i suoi 25 anni insieme ai volontari che hanno dato vita al Gioco degli Specchi Sabato 15 novembre alle 21.00 a Trento al Teatro S. Marco, Via San Bernardino 8, ATAS onlus in collaborazione con il Gioco degli Specchi propone BILAL - Pensi di saper distinguere il paradiso dall’inferno? messa in scena a tre voci tratto da Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti, con Sara Beinat, Silvia Padula e Paola Saitta e con la regia di ConsorzioScenico. Un viaggio sulla rotta dei “nuovi schiavi” del terzo millennio. Il viaggio di un giornalista attraverso le tappe di chi si mette in marcia dal Sud del Mondo per conquistare una vita migliore al di là del Mediterraneo. Una selezione tratta dal reportage di Fabrizio Gatti, giornalista, che negli ultimi anni si è reso protagonista di svariati “travestimenti” per sondare la condizione degli immigrati clandestini in Italia. Qui è Bilal Ibrahim el Habib. Parte da Dakar e arriva in Libia, seguendo la rotta dei clandestini, viaggiando con loro sui camion attraverso il deserto, subendo con loro i controlli e le violenze di poliziotti e soldati. E per chi riesce ad arrivare sulle coste del nord del Mediterraneo l’inferno

Il muro nel cuore 10/15 novembre 2014

DA LUNEDÌ 10 NOVEMBRE A SABATO 15 NOVEMBRE Sala Manzoni, Biblioteca Comunale Centrale, via Roma 55, Trento.

Esposizione di libri sul muro che ha diviso l’Europa, sul muro palestinese, sul Mediterraneo come barriera per molti mortale.

MARTEDÌ 11 NOVEMBRE ORE 10.40

Aula Magna, Liceo Antonio Rosmini, via Malfatti 2, Trento

Il muro che attraversa la vita, a cura dell’associazione onlus Pace per Gerusalemme. Video e testimonianze di giovani volontari, con esperienza di formazione e viaggio-studio in Israele e Palestina. Conduce Micaela Bertoldi

ORE 21

MONDORAMA

Cinema Astra, corso Buonarroti 16, Trento

Wałęsa. Człowiek z nadziei, L'uomo della speranza, in lingua originale con sottotitoli in italiano.

non è finito: prima ci sono i centri di permanenza temporanea, lager, luoghi di detenzione al di fuori del diritto e al di fuori di ogni umanità e, per chi ne esce senza essere rimpatriato, resta la clandestinità e il lavoro nero, nei cantieri o nei campi. La denuncia di un crimine contro l’umanità. Il dramma quotidiano dell’immigrazione raccontato da chi l’ha vissuto dall’interno. Un nome falso. Il tubetto di colla per nascondere la impronte digitali. Il borsone nero. Le vecchie ciabatte. Il giubbotto salvagente. Tre scatolette di sardine e tre schede telefoniche. Quello che serve a Fabrizio Gatti per trasformarsi in Bilal. Anche al pubblico è chiesto di fare un piccolo spostamento. Di permettersi, per una sera, di stare un po’ in condizioni scomode, o semplicemente delimitate, di sottoporsi ad uno sguardo ravvicinato. Lo spettacolo è presentato all’interno del progetto Intrecci di Comunità, in occasione dei 25 anni di attività di ATAS onlus, cofinanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto.

Entrata Libera. www.atas.tn.it | comunicazione@atas.tn.it | 335 7101104.

di Andrzej Wajda, 127’, Polonia, 2013 Il film racconta l’attivismo clandestino, l’impegno politico e la cura per la famiglia del carismatico leader di Solidarnosć, Lech Wałęsa. Presenta Nicola Falcinella

MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE ORE 20.30

sala Filarmonica, corso Rosmini, Rovereto

Il muro che attraversa la vita, a cura dell’associazione onlus Pace per Gerusalemme. Video e testimonianze con le musiche del gruppo musicale “I Peripatetici” di Volano. Conduce Micaela Bertoldi.

GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE ORE 21.00

Sala conferenze Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, via Garibaldi 33, Trento

Ai confini dell’Europa Monika Bułaj, fotografa, reporter, documentarista, racconta per immagini l’Europa dell’est

VENERDÌ 14 NOVEMBRE ORE 21.00 Centro Formazione Solidarietà Internazionale, vicolo S. Marco 1,Trento,

Proiezione di Striplife, di Nicola Grignani, Alberto Mussolini, Luca Scaffidi,Valeria Testagrossa.

Premio speciale della giuria Torino Film Festival 2013. Un racconto della vita quotidiana a Gaza. A cura dell'associazione Yaku

SABATO 15 NOVEMBRE ORE 21.00

Teatro San Marco, via San Bernardino 8, Trento.

Bilal. Pensi di saper distinguere il paradiso dall’inferno? Spettacolo a cura di Atas Onlus.

Venerdì 5 dicembre Il Gioco degli Specchi propone alle scuole l’incontro con Alessandro Bresolin. Il traduttore del romanzo di Mounir Charfi, Il bacio di Lampedusa, aiuterà a riflettere sul significato di un invalicabile Mediterraneo. Seguici

#ilmuronelcuore

Partecipa al concorso Parole in orbita. Le tue citazioni d’autore Invia citazioni, non più di 400 caratteri, da autori dei paesi ex-comunisti o che affrontano il tema del Muro, con una breve motivazione della scelta. Libri in premio per tutti! Scadenza 10 novembre. http://www.ilgiocodeglispecchi.org/primopiano

Programma


STORIA STORIE

di Maria Serena Tait

Giornalista per caso al Circolo polare artico Una testimonianza di Nadia Kouliatina, ascoltata e trascritta da Maria Serena Tait Quando dopo 15 anni è finita la mia esperienza lavorativa a Tashkent, i miei figli erano già cresciuti e uno si era sposato, così ho pensato che dovevo dargli una mano e mi sono trasferita vicino al Circolo polare e lì c’era la neve. In Uzbekistan ero già stata e il clima era eccezionale ma io non ce la facevo più perché, essendo siberiana, avevo bisogno di freddo. Al Nord si estraeva il petrolio e in quelle zone si guadagnava molto bene, quindi avrei potuto facilmente aiutare mio figlio a costruire la sua famiglia. Come adesso le donne arrivano dall’Ucraina e dalla Moldavia per fare le badanti in Italia, io invece sono andata lì dove potevo lavorare senza essere discriminata e senza cambiare la mia professione e guadagnare anche fior di soldi. Sono andata a lavorare in un’azienda petrolifera, che adesso si è fusa con altre due ed è diventata un colosso, e ho potuto anche partecipare alla creazione di una scuola sperimentale, dove per due anni ho insegnato la lingua italiana e che successivamente è diventata una delle migliori scuole della Russia. Lì era tutto nuovo e da cominciare, non c’era niente, era una palude e, quando i geologi hanno scoperto che c’era il petrolio, hanno iniziato a creare le prime casette e i marciapiedi di legno e quando sono scesa dal treno alla stazione di Langepas mi sembrava di essere arrivata in una cittadina del Far West americano. Durante il viaggio avevo immaginato di scendere e chiamare un taxi e tutti erano scoppiati a ridere. La stazione era una baracchetta e mi hanno messo a disposizione come abitazione una stanza di 18 mq e una cucina condivisa con altre 10 persone. Lì sono rimasta per due anni e poi mi hanno assegnato un appartamento. L’età media degli abitanti era 25 anni, erano tutti molto giovani e c’erano entusiasmo ed allegria. Io sono stata sempre molto curiosa e disponibile e un giorno, passando davanti a una casetta, ho visto molto movimento con persone che portavano una macchina da scrivere. Mi hanno spiegato che lì c’era la redazione del giornale “La stella di Langepas”. Sono entrata per curiosare e ho visto che gli unici arredi erano delle cassette di legno per la frutta dove erano seduti i redattori intenti a discutere su come scrivere gli articoli per il primo numero, visto che nessuno sapeva usare la macchina da scrivere. Io mi sono offerta di aiutarli, visto che sapevo scrivere a macchina, e così ho cominciato a dare una mano, magari la sera dopo il lavoro. Tutto naturalmente era a titolo gratuito, anche perché raramente la gente si faceva pagare in questi casi. Io ad esempio

Storia Storie

so cucire molto bene e per tutta la vita ho fatto gratis dei lavori di cucito per le persone che conoscevo, solo per il piacere di farlo. Una volta, dopo la catastrofe di Černobyl', Misha, un collega di Langepas che era partito subito come volontario per i soccorsi, ricevette una lettera di encomio dal Sindaco di Černobyl' e io lo segnalai al Capo redattore che già era abituato a farmi controllare i testi degli articoli che parlavano di lavoro e contenevano dati tecnici. Così mi chiese di scrivere un articolo su questa vicenda e ne fu talmente contento da chiedermi di collaborare regolarmente come giornalista. Io avevo già il mio lavoro e non era possibile lavorare come giornalista senza aver seguito l’apposito corso di studi, però per cinque anni da allora ho collaborato gratuitamente con il giornale, pubblicando almeno un articolo ogni tre uscite. Curavo le recensioni teatrali, poiché avevamo una piccola stagione con spettacoli di buona qualità, tenevo una mia rubrica di consigli alle giovani donne, visto che io con i miei 35 anni ero considerata piena di esperienza, e anche una rubrica di cucina dove insegnavo ricette della cucina italiana, come le lasagne alla bolognese che sono state proprio la mia prima ricetta pubblicata. Le ricette italiane attiravano molta attenzione anche perché io stavo attenta a proporre quelle che si potevano realizzare con i prodotti disponibili in quel periodo nei negozi di Langepas. Spesso la gente mi fermava per strada per chiedermi notizie sulla prossima ricetta. C’erano 35.000 abitanti ed era bellissimo. Io volevo vedere il mondo e questo sistema lavorativo permetteva a me e a milioni di altre persone di spostarsi per lavoro, se lo desideravano. Il mio caporedattore era talmente contento che mi ha regalato un libro di Rabindranath Tagore con la dedica “A Nadejda Kouliatina, la Stella dell’Oriente che è sorta nella Stella di Langepas”. Qualche volta mi segnalava che in uno dei villaggi vicini aveva sentito dire che c’era una persona interessante. Io allora nel fine settimana partivo e andavo a parlare con questa persona. Vedevo il lavoro di giornalista come qualcosa di molto serio e prima di scrivere l’articolo (cosa che facevo a mano, visto che negli anni ’80 non c’era certo il computer) mi documentavo e verificavo tutto, ogni fatto e ogni cosa, ed era un lavoro che mi affascinava perché mi permetteva di esprimere quello che pensavo della mia piccola cittadina e delle persone che conoscevo. Anche questo è stato un mio contributo per la comunità.


#ilmuronelcuore

Storie di cose Orologio, foto e nécessaire di Gemma Zantoni.

Medaglia di terzo grado per meriti sul lavoro.

Maia Tirana | Albania dagli anni ‘30 fino agli anni ‘90

Raissa Mala | Ucraina fine anni ‘70

Gemma è nata a Krk/Veglia ed è cresciuta a Pola; si laurea in lettere a Padova e nel 1935 sposa un ufficiale di marina albanese. Lo segue nel suo paese e comincia a insegnare italiano e francese. In mostra si possono vedere l'orologio comprato con il suo primo stipendio, e molti anni dopo regalato alla figlia, e il nécessaire che Gemma usava anche come borsetta elegante. Sono anni economicamente difficili, per l’Albania in generale, per la famiglia in particolare. Il marito viene arrestato nel 1946 perchè si rifiuta di collaborare come spia per il regime comunista; anche dopo la scarcerazione non riottiene la sua carica, ma solo lavori poco remunerati. Gemma riesce a continuare a insegnare, sostenuta e aiutata dai suoi ex allievi. Grazie al loro interessamento ottiene il permesso di visitare i parenti e la madre che dal dopoguerra sono profughi in Italia, a Treviso. Può farlo però solo nel 1962 e solo per tre volte in tutta la sua vita. Una strada a lei dedicata a Tirana è ancora oggi il segno tangibile della stima e dell’affetto dei suoi allievi. Negli anni ‘90 il governo italiano si interessa delle 75 donne che sono rimaste recluse in Albania con l’avvento del regime comunista: non hanno mai rinunciato alla cittadinanza italiana, ma iscritte d’ufficio in quella albanese, non avevano il passaporto e la libertà di muoversi. Ora chiedono almeno per figli e nipoti la possibilità di venire in Italia.

Giornale Lucian Berescu | Romania 23 dicembre 1989 Ricordo ancora l’intensa emozione che ho provato nel comprare, una gelida mattina di fine dicembre, il primo numero del nuovo quotidiano di Bacău. Fino a “ieri” si intitolava “Steagul Rosu - Bandiera Rossa”. L’acquisto dei giornali, significava: svegliarti quando era ancora buio, metterti pazientemente in fila, aspettare per qualche ora, parlare del più e del meno con i compagni di fila, raccontare le barzellette dell’epoca, cercare di captare informazioni sulla nuova fornitura degli scarsi generi alimentari al super-vuotomercato sotto casa, dare e ricevere qualche gomitata alla consegna dei giornali all’edicola, per stringere tra le mani pagine con notizie adattate alla nuova Romania comunista. Quella mattina era, invece, diversa: uguale la sveglia e l’attesa paziente, ma diverso il parlare liberamente delle persone, diversa l’attesa di un giornale che non conoscevamo: “Deşteptarea - Il Risveglio”, l’aspirazione di un’intera città, di un intero popolo.

Ivan ha ottenuto l’alto riconoscimento per aver estratto minerale otto volte di più di quanto stabilito per la giornata. I due martelli sopra la stella sono il simbolo della miniera e la scritta parla di “gloria del minatore”. Sono le miniere di Selidovo, nel bacino carbonifero del Donbass, nell’Ucraina orientale. Ivan, originario di Balyn nella regione di Vinnycja, al centro del paese, ha cominciato a dodici anni a lavorare e a prendersi carico della numerosa famiglia, dopo che il padre, sospettato di aver aiutato i partigiani, era stato fucilato dagli occupanti nazisti durante la guerra. Nel Donbass come minatore è arrivato dopo il servizio di leva di quattro anni come fante della marina a Sebastopoli (1949 - 1952), rispondendo all’appello per la rimessa in funzione delle miniere. Prima a Donetsk poi a Selidovo, dove all’inizio degli anni ‘60 vengono riattivate 23 nuove miniere di carbone e, al posto dell’antico villaggio di cosacchi insediati da Caterina la Grande, sta nascendo una città. L’offerta di lavoro è allettante, anche perchè il suo villaggio è stato raso al suolo durante la guerra e si vive nelle “žemlanki”, le abitazioni di fortuna scavate nella terra. Col suo lavoro riesce ancora, da lontano, ad aiutare la famiglia.

Il Gioco degli Specchi ha organizzato la mostra Autobiografia di un mondo ex: le cose raccontano con oggetti prestati da molti concittadini originari dei paesi che erano al di là della cortina di ferro, per condividere i loro ricordi e progettare insieme una società in cui gli uomini vivono bene, liberi, uguali e in pace. Le Gallerie Piedicastello - Trento 3 ottobre - 23 novembre 2014 Martedì - domenica ore 9.00 - 18.00, ingresso libero. Visite guidate gratuite su prenotazione, per scuole e gruppi. info@ilgiocodeglispecchi.org|0461.916251|340.2412552

Storie di cose


POLITICA E MIGRAZIONI

di Mirza Latiful Haque

Intervista a Philipp Achammer, Obmann SVP e assessore all’integrazione della Provincia di Bolzano

Immigrati: enorme ricchezza di esperienze e competenze BOLZANO. Sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione e della multiculturalità abbiamo rivolto alcune domande al nuovo segretario provinciale (Obmann) della Suedtiroler Volkspartei (SVP), Philipp Achammer, che è anche Assessore provinciale alla scuola tedesca, diritto allo studio e formazione professionale, cultura e integrazione. Nato nel 1985, Achammer è il più giovane consigliere provinciale altoatesino. Assessore Achammer, anzitutto grazie per la sua disponibilità a conversare con il Gioco degli Specchi, giornale del Trentino-Alto Adige interculturale: dopo 4 anni di esperienza su carta, quest’anno il giornale è passato all’online, con una visione più regionale. Iniziamo con chiederle per quale motiPhilipp Achammer, Obmann SVP e assessore della Provincia di Bolzano

vo ha assunto, come assessore provinciale alla istruzione e cultura tedesca, anche la competenza in materia di integrazione. Avendo sicuramente idee e progetti in merito, cosa intende per integrazione? L’integrazione è uno dei temi più importanti dei nostri tempi. Se riusciamo non solo a convivere tra persone con e senza background migratorio ma ad approfittare dell’enorme ricchezza di esperienze e competenze che oggi troviamo in Alto Adige siamo più preparati ad affrontare le sfide che il futuro ci riserva. L’integrazione per me è un processo reciproco con diritti e doveri di tutti i cittadini, sia con background migratorio che senza. Si tratta di “promuovere ed esigere” l’integrazione. Questo significa che chiediamo alle persone di impegnarsi al meglio possibile, sostenendole però anche tramite offerte adattate ai loro bisogni. C’è chi coltiva, in fatto di integrazione, un sogno: esistono, è vero, delle strutture per la promozione della cultura, come Haus der Kultur; sarebbe auspicabile però anche una struttura per il dialogo tra le varie culture, per lo scambio di idee ed esperienze, per iniziative comuni. Qual è il suo pensiero in merito? Il dialogo tra le varie culture è molto importante per promuovere la convivenza. Sono quindi molto contento se la società civile si impegna a questo proposito. Sono a disposizione delle associazioni che volessero parlare di questa idea con me. Tale struttura potrebbe servire ad esperienze come la “Bangla School”, l’iniziativa di “doposcuola” per ragazzi e giovani immigrati per conoscere e approfondire la propria lingua madre e la cultura del proprio popolo, per non dimenticare le “radici”, ma anche la lingua (italiano, tedesco) e la cultura della terra in cui si trovano a vivere. Che ne pensa? Innanzitutto è fondamentale che i figli degli immigrati imparino bene le lingue di insegnamento per avere le stesse possibilità dei loro coetanei che parlano una delle lingue ufficiali come prima lingua. In Alto Adige siamo però anche molto consci dell’importanza della lingua madre e quindi sostengo pienamente le iniziative di “doposcuola” volte a far conoscere ai figli degli immigrati

Politica e migrazioni


#ilmuronelcuore

Wałęsa. Człowiek z nadziei - Wałęsa. L’uomo della speranza La conservazione della lingua madre per i figli degli immigrati è una ricchezza irrinunciabile, essenziale per loro e per la società in cui vivono. Per questo il Gioco degli Specchi propone Mondorama, rassegna di film in lingua originale, con sottotitoli in italiano, che comincia con questo film di Andrzej Wajda. La biografia del sindacalista polacco ruota intorno all’intervista che Oriana Fallaci, interpretata da Maria Rosaria Omaggio, nel 1981 fa a Lech Wałęsa, nel suo appartamento di una Danzica fedelmente ricostruita. Il film racconta la sua lotta e quella di Solidarność, lunga e pericolosa, non violenta, tra l’attivismo clandestino, la paura per i familiari, il carcere; restituisce ai polacchi anche il merito di aver contribuito all’abbattimento del muro di Berlino. MARTEDÌ 11 NOVEMBRE - ORE 21 Cinema Astra, corso Buonarroti 16, Trento

le loro radici. Inoltre, credo che i giovani possono trarne un grande vantaggio: conoscendo le lingue e le culture sia dell’Alto Adige dove crescono che del Paese di provenienza dei loro genitori possono diventare dei veri e propri cittadini del mondo, un beneficio importante nel nostro mondo globalizzato. Sempre in tema di dialogo interculturale: da qualche anno si celebra a Bolzano la Giornata Internazionale della Lingua Madre, proclamata dall’UNESCO nel 1999. Promossa dall’Associazione Bangladesh ma aperta ad altre comunità di immigrati e autoctoni, può divenire un’iniziativa comune a tutti i gruppi linguistici (anche tedesco, italiano e ladino) presenti sul territorio? Ho avuto il piacere di partecipare alle festività organizzate dall’Associazione Bangladesh quest’anno e trovo l’iniziativa particolarmente interessante. Un tale progetto può coinvolgere anche i gruppi linguistici storicamente presenti, diventando in tale modo un’occasione di dibattito su come valorizzare la lingua madre, tenendo sempre presente la cornice del nostro Statuto di Autonomia. Un maggior dialogo con le varie comunità di immigrati può aprire secondo Lei a prospettive di scambio economico, oltre che culturale, tra la provincia di Bolzano e i paesi rappresentati da tali comunità? Alcuni Paesi di provenienza degli altoatesini con background migratorio sono già mete della nostra economia, altri possono diventarlo in futuro. Il ruolo dei nuovi altoatesini può essere importante al riguardo e costituire un valore aggiunto: conoscono bene la lingua e la cultura della meta economica, spesso presupposti fondamentali per un successo economico all’estero. La sua recente nomina alla guida del partito di maggioranza è stata vista come un rinnovamento generazionale nella politica locale. Ciò potrà influire anche sui rapporti tra gruppi linguistici e tra le varie etnie operanti nell’economia locale? Direi che in generale la mia generazione ha un atteggiamento più rilassato di fronte al tema della diversità. Credo non sia solo auspicabile ma anche fattibile proteggere le proprie origini aprendosi contemporaneamente al mondo.

Striplife “Non un film su Gaza, ma con Gaza”, è un lungometraggio che narra la straordinaria quotidianità della vita della gente, stretta fra muri e conflitto. L’obiettivo del film è quello di raccontare l’altra faccia della Striscia, quella fatta di sogni, aspirazioni, ma anche di gesti semplici e di esistenze che nonostante tutto, vanno avanti. Ne esce un racconto corale, sette storie di altrettanti personaggi. “Per mesi abbiamo vissuto con un gruppo di ragazzi palestinesi, anche loro mediattivisti, per dimostrare come la Palestina passi nei media solo attraverso la lente della guerra”: Alberto Mussolini, Luca Scaffidi, Andrea Zambelli, Valeria Testagrossa, Nicola Grignani nel 2013 hanno realizzato questo film, presentato a Trento all’interno del percorso di formazione per volontari “Scuola dell’acqua”, promosso da Yaku con un focus proprio sulla libera informazione. VENERDÌ 14 NOVEMBRE - ORE 21 Centro Formazione Solidarietà Internazionale, vicolo S. Marco 1, Trento.

La posizione di alcuni rispetto all’immigrazione è forse dovuta ad atteggiamenti psicologici basati su preconcetti e pregiudizi, che portano a forme teoriche e pratiche di razzismo. Qual è la sua valutazione? Una delle fonti del razzismo è sicuramente la paura di quello che non conosciamo. È proprio per questo che è importante parlare di immigrazione e integrazione in modo razionale, senza creare paure. Dobbiamo promuovere la conoscenza reciproca e dare la possibilità di esprimere i propri bisogni, rispettando sempre i bisogni degli altri. Non possiamo né lasciare soli coloro che hanno difficoltà a relazionarsi con la nuova diversità né accettare che le persone con background migratorio diventino vittime di pregiudizi e razzismo. Penso per esempio al mondo del lavoro dove, a causa di pregiudizi, queste persone spesso non sono ancora in grado di far valorizzare le loro competenze ed esperienze. Dopo 4 anni di esperienza su carta, il “Gioco degli Specchi” è passato quest’anno all’online, nell’intento di facilitare l’accesso all’informazione e alla cultura, di ampliare la propria visione regionale e, in prospettiva, di diventare multilingue. Lei cosa pensa di questo giornale? È un’iniziativa molto interessante per contribuire al dialogo interculturale e alla convivenza, dando voce alle diversità culturali in Trentino-Alto Adige. Si tratta di un vero e proprio arricchimento del paesaggio mediatico. Ringrazio quindi i collaboratori e auguro buon lavoro per il futuro! Dopo le nostre idee e stimoli in tema di immigrazione e integrazione, lasciamo infine esprimere lei, Assessore Achammer, quali sono i suoi progetti personali e politici per il futuro dell’integrazione e, in generale, affinché si passi dalla coesistenza ad una sempre più costruttiva convivenza. È importante parlare di integrazione in modo razionale senza creare polemiche. Voglio quindi coinvolgere tutti i partiti politici e la società nel definire il concetto di integrazione, i diritti e i doveri di ognuno. Abbiamo bisogno di un accordo di integrazione che coinvolge e si rivolge a tutta la società. Questo sicuramente è il progetto più importante in questo ambito per i prossimi anni.

Politica e migrazioni


© Dario Bosio

di Valentina Gadotti

Una vacanza differente tra i raccoglitori di pomodori in Puglia Mentre decido come trascorrere l’estate, un’amica mi parla del progetto “Radio-ghetto”, una radio indipendente che nasce dal lavoro dei ragazzi di Laboratorio 53, di Roma, per dare voce ai raccoglitori di pomodoro in Puglia. Incuriosita leggo la chiamata per i volontari su internet e vengo così a conoscenza del “Gran Ghetto di Rignano”, baraccopoli situata fra i tre comuni di Foggia, San Severo e Rignano Garganico in cui vivono circa un migliaio di persone impegnate nella raccolta stagionale. Decido di integrare questa tappa nel mio viaggio a Sud, per scoprire un altro pezzetto d’Italia. Dal 26 al 31 agosto, mi ritrovo così a partecipare alle attività della Radio. L’arrivo al Ghetto, nonostante l’immediata empatia con gli altri volontari, è un pugno nello stomaco. Al Ghetto, situato proprio in mezzo ai campi, alla fine di una strada sterrata, non arriva la corrente elettrica e non esiste un sistema fognario. Nonostante questo, alcune baracche adibite a piccoli ristoranti o luoghi di incontro, sono illuminate grazie all’uso di rumorosi generatori. L’atmosfera è surreale: si esce dall’Italia e si arriva in un altro posto. La stradina polverosa che costeggia la prima fila di baracche è animata dalla musica che esce dalle baracche-discopub, da uomini africani di età e paesi differenti che camminano e chiacchierano, persino da qualche donna. E’ difficile descrivere questo posto e la sua energia. Non è Italia, questo è certo. Nell’aria si sentono lingue differenti. Mangiamo carne di pecora e polenta di miglio nel piccolo ristorante di una signora nigeriana. Sfinita dal viaggio e disorientata, trascorro la prima notte in baracca, addormentandomi con i rumori della musica da discoteca africana. I giorni seguenti iniziamo le attività della radio. Si monta la mattina verso le 10. Si collegano il computer, i microfoni, il telefono, il mixer, le casse. Grazie al generatore e alle prese per la corrente, molti ragazzi vengono a ricaricare i cellulari. Altri passano a salutarci e mettono musica collegando i loro telefonini. Qualcuno parla nei microfoni. Salutano gli amici e gli ascoltatori nella propria lingua: bambara, arabo, dioula, Lavoro

malinkè, e molte altre. Le frequenze della radio coprono solo l’area del Ghetto. Ma l’obiettivo del progetto è che la radio diventi un luogo di socialità, uno strumento per parlare e poter descrivere e condividere i problemi e le emozioni. Per parlare dell’Italia, della fatica dell’inserimento, delle esperienze di vita in un paese straniero, a volte ospitale, altre volte molto meno. Degli episodi belli e brutti: degli amici italiani e del razzismo. Del viaggio per arrivare qui, dei paesi di origine. Noi volontari cerchiamo di lasciare i microfoni e la gestione della radio a loro, veri protagonisti del progetto. La mattina trascorre all’interno del Ghetto. Il pomeriggio, dopo pranzo, si esce e ci sistemiamo vicino ad una cascina abbandonata dove vivono altri ragazzi, subito fuori dalla baraccopoli. Là montiamo l’antenna e andiamo in onda. Ma chi sono questi ragazzi? E perché sono finiti a lavorare come braccianti? Molti di loro sono in Italia da poco. Non parlando la lingua e non essendo in regola con i documenti, non hanno altra scelta se non quella di racimolare qualche soldo per sopravvivere in attesa di trovare una sistemazione migliore. Altri invece sono nel nostro paese da molti anni; parlano bene la lingua e arrivano dalle città del Nord: Milano, Brescia, Torino, Vicenza e tanti altri comuni. Lavoravano nelle fabbriche o nelle aziende italiane che con la crisi hanno chiuso e così si sono trovati senza lavoro e con un affitto da pagare. Ci sono anche alcuni ragazzi che sono nati in Italia. Durante l’anno frequentano il liceo ma d’estate scendono per la raccolta. “Perché?” – chiediamo loro “Per scoprire le nostre origini, per vivere un pezzo d’Africa, per fare un’esperienza di vita” – ci rispondono. La raccolta del pomodoro è un lavoro durissimo. “Non è fatto per gli uomini, ma per le macchine” – ci sentiamo ripetere. I fortunati che vengono scelti di giorno in giorno per andare a lavorare si trovano all’uscita della baraccopoli alle 4.30 di mattina. Salgono in macchina o sui furgoni e partono per i campi. Lavorano fino a ora di pranzo o finiscono nel primo pomeriggio. Sono pagati a cottimo: ogni


BOŽIDAR STANIŠIĆ cassone di pomodoro circa 3 euro. Per una media di 10 ore di lavoro al giorno, i braccianti ricevono quindi circa 35 euro. A questa somma devono sottrarre il trasporto che pagano 5 euro al giorno, l’affitto per il posto in baracca e il cibo che consumano. Tra il proprietario del campo (chiamato Capo Bianco) e i raccoglitori ci sono gli intermediari (i Capi Neri) che si occupano di organizzare le squadre e i trasporti, prendendosi una quota su ogni cassone. In questo doppio sistema di sfruttamento, si concentrano rabbia e frustrazione in un gioco in cui solamente i padroni dei campi riescono a trarre il massimo profitto. Un sentimento di rabbia e impotenza ci seguirà come un’ombra per tutto il periodo trascorso al Ghetto. L’affetto che ci danno i ragazzi, le lunghe chiacchierate sull’Italia e sui suoi problemi, il confronto e lo scontro, ci ricordano che dietro alle etichette sociali - bracciante, immigrato clandestino, straniero, nero, bianco, maschio, femmina, volontario, europeo, africano, italiano - ci sono persone. Non sono solo loro le vittime, lo siamo tutti. Lo sono loro che vengono sfruttati e umiliati e lo siamo noi che danneggiamo la nostra economia e che permettiamo la sopravvivenza di un sistema che avvantaggia e nutre un ramificato sistema di rapporti clientelari. Questa esperienza rafforza la mia convinzione che siamo noi in primo luogo gli attori protagonisti. Ogni volta che acquistiamo un prodotto, diventiamo “consumatori partecipanti”. Il cambiamento deve partire dalle singole scelte individuali e quotidiane. Le alternative ci sono. Le reti di consumatori, che si stanno diffondendo in tutta Italia e che offrono un rapporto diretto con il produttore, un nuovo sistema da cui tutti possono trarre un vantaggio sia economico che di salute, esistono. Non serve andare in Puglia o nelle altre regioni d’Italia. Non stiamo parlando di un altro mondo. Dietro casa, nella nostra civilissima regione, la raccolta dei prodotti agricoli si basa sull’uso e a volte anche sullo sfruttamento dei braccianti stagionali. Ogni volta che compriamo un’arancia o un pomodoro ma anche una mela o un litro di vino, ricordiamoci che stiamo compiendo una scelta politica. Io ho deciso che questa Italia, così com’è, non mi piace e che voglio prendere parte al cambiamento. Lo devo ai ragazzi che ho conosciuto e lo devo a me stessa. E voi? Fotoreportage di Dario Bosio

RINGRAZIA PER GLI AIUTI ALLA BOSNIA ALLUVIONATA Božidar Stanišić, lo scrittore e poeta bosniaco che vive in Italia dall’epoca delle guerre jugoslave in seguito al rifiuto di imbracciare le armi, è impegnato ad aiutare la popolazione della sua città, Maglaj, colpita da una terribile alluvione nel maggio scorso. Nella solidarietà ha coinvolto anche gli amici del Gioco degli Specchi, ai quali ha inviato una lettera per comunicare di aver consegnato personalmente 1.800 euro, frutto della raccolta fondi, ai dirigenti delle Scuole superiori di Maglaj(Istituto Professionale e Liceo). In precedenza aveva consegnato un camion di vestiti, articoli sanitari e cibi per bambini. Božidar scrive che molti cittadini della Bosnia considerano i danni provocati dall’alluvione peggiori di quelli causati dalla guerra civile. “Il nostro gesto, seppur modesto – scrive Božidar - vuole essere un auspicio affinché l'Italia e l'Europa non portino solo aiuti umanitari, ma pensino ad un rafforzamento dei rapporti produttivi e commerciali, per una progressiva rinascita del territorio, con interventi più equi e solidali del passato”. Il Centro Balducci, di cui attualmente Božidar è presidente, prosegue la raccolta di fondi per aiutare la ricostruzione di una piccola impresa solidale di Doboj, in cui tutti i soci/lavoratori sono persone colpite dalla distrofia muscolare. Chi vuole effettuare donazioni, può fare un versamento sul c/c bancario n. 502090 aperto presso la BANCA ETICA, succ. TRIESTE - IBAN: IT 32 Z 05018 02200 000000502090, causale "Alluvione Bosnia" La foto testimonia i danni provocati dall'acqua.

Maggiori informazioni sul progetto Radio-Ghetto

Lavoro


di Gracy Pelacani

Cruzeiro do Sul

Bartolo (a destra) con altri uomini in una fabbrica di chiodi

La costellazione «Cruzeiro do Sul» è la più piccola tra le ottantotto costellazioni che troviamo nella sfera celeste. Nonostante questo, composta da quattro stelle molto luminose la cui disposizione richiama una croce latina, è molto visibile. Nel solo emisfero sud. Nella lingua portoghese «cruzeiro» non significa solo «croce», ma anche lo spazio di mare percorso da una nave, e il nome stesso della nave che quel percorso compie. Quindi, non solo croce, ma anche viaggio. Viaggio verso sud. Questa è una storia come tante altre. Percorre il paese dalla pianura padana fino alla Sicilia passando per l’Abruzzo, e poi attraversa l’oceano, per settimane, spinta dalla fame. Su altre rive, il tentativo di una nuova vita, o solo di una vita migliore se non per sé, almeno per quelli che sarebbero rimasti più a lungo. Questa è una storia come tante altre. Che se anche solo un pezzettino non si fosse incastrato sull’altro come invece è accaduto, sarebbe stata, chissà, tutta un’altra storia. Agli inizi del mille novecento, Ferdinando ha nove anni, è il più piccolo di cinque fratelli. E la sua è una scelta che non è una scelta, perché poter scegliere significa avere opzioni e lui non ne aveva. Era o partire o la fame. Così non sceglie e parte, e con lui molti del suo paese, un piccolo paese affamato come nella pianura padana ce n’erano tanti.

Bartolo e la moglie, figlia di Nicola, con due dei loro figli

Racconto

Ma quando arriva dall’altra parte dell’oceano, lui la differenza, a dire il vero, non è che la senta poi molto. Sta sempre con quelli del paese, quasi non esce dalla colonia che tutti insieme hanno fondato. Deve dire che sta alla Sant’Anastasio, invece che il nome del paese di prima, quando gli chiedono da dove viene. Per il resto parla lo stesso dialetto e vede le stesse facce. Ma si mangia di più, e questo sì, per certo, lo capisce anche lui che è proprio diverso.


1. Sono in Italia, mi scade il permesso

di soggiorno, qualcuno dice che sono clandestina. Mio marito non ha lavoro e nemmeno io. MIO FIGLIO NON LO SA E NASCE LO STESSO!! Come facciamo a dichiararlo all'anagrafe? E se ci mandano via tutti? E se ce lo tolgono? PER ADESSO NON LO DICHIARIAMO E CE LO TENIAMO STRETTO..

2

. Sono nato, ma IL MIO NOME NON È SCRITO da nessuna parte. Non sono un cucciolo nella savana, sono un bambino in ITALIA!

Cinquant’anni dopo la Storia è andata avanti, e sono anni che non ci si scorderà più. Eppure certe cose non erano cambiate, perché, forse, le scelte che non sono scelte, davvero, non cambiano mai. O partire o la fame. In verità, Nicola, era in Venezuela che doveva andare. Aveva già il biglietto, al sicuro nel secondo cassetto del comò, sotto ai calzini. C’era il petrolio, si diceva, in Venezuela. Ma non ci fu verso di spiegarlo ai carabinieri di quella piccola città abruzzese che doveva andare, che lì non ci poteva stare neanche un giorno di più, che aveva famiglia, tre bambine da far mangiare e trovar marito. Pochi giorni prima erano passati a ritirare le armi ancora possedute dai cittadini. Ordini dalla capitale. E Nicola aveva detto di non averne di armi. No, anzi, aveva giurato di non averne. E poi, invece, chissà come, erano spuntati tre fucili da caccia nella sua cantina. Così la nave per il Venezuela era partita senza di lui, ché di pronti a partire non si faceva fatica a trovarne di quei tempi. La fame era generosa, e non si negava a nessuno. Quando finalmente uscì dalla galera, disperato com’era, salì sulla prima nave in partenza. Non chiese la destinazione, non chiese se anche lì c’era il petrolio. Gli dissero che c’era lavoro e meno fame, e tanto bastò. Brasile, lì era diretto, ma lui lo scoprì solo quando sbarcò, e gli dissero che quello era il porto di Santos. Gli anni sono gli stessi. Bartolo è grande ormai, va per i venti. Così, anche se i suoi fratelli di lasciare la Sicilia non ne vogliono sentir parlare, lui va e prende la nave. Da solo. Anche questa è una scelta che non è una scelta, è fame. Sarà tra i macchinari di una fabbrica di filati, di un fiorentino anche lui partito per il sud del mondo, che Bartolo conoscerà Nicola pochi anni dopo. E una delle figlie di Nicola diventerà moglie di questo affascinante siciliano, che mai smise di sof-

3. Se fossi un cucciolo mi

aiutereste?

4. Ma io SONO un

CUCCIOLO! Aiutatemi... 26 SETTEMBRE 2014 UNA PETIZIONE FALLIMENTARE CHE NON DEMORDE APPELLO A LAURA BOLDRINI affinché sia garantita per legge la registrazione anagrafica di tutti i bambini che nascono in Italia. Cerca "Mai più bambini invisibili agli occhi dello Stato Italiano" e firma su www.change.org

frire di nostalgia per la sua terra. Si racconta che all’isola, e dall’amata madre, fece ritorno tre volte, sempre da solo, e che portasse musicassette con i canti popolari siciliani che poi regalava come doni preziosi, ma che davvero ascoltava solo lui. In casa sua, fino alla fine, al pranzo della domenica si mangiava la pasta al pomodoro. E guai a discutere. Perché si può anche partire senza davvero partire mai. Ed infine l’ultimo pezzettino. Il mille novecento settantacinque fu l’anno della grande nevicata. Che pur sempre di Brasile si parla, e di città imbiancate non se ne vedono spesso. Sarà nei mesi invernali di quell’anno che nessuno scorderà più, che tra i banchi di scuola la figlia di Bartolo conoscerà il nipote di Ferdinando. E anche se non lo sanno ancora quando si parlano per la prima volta, quindici anni dopo prenderanno un aereo e quel viaggio lo faranno al contrario. Dal paese che tutto prometteva quando i loro nonni e genitori partirono, a quello che in quegli anni tutto promette. Nel tempo molte cose sono cambiate. Ma non lo è quella che non cambia mai. Non fame, forse quella non c’era più, o non come allora. Ma il tentativo di una nuova vita, o solo di una vita migliore se non per sé, almeno per quelli che sarebbero rimasti più a lungo, quello no, non era cambiato. Questa è una storia come ce ne sono tante. Percorre il paese dalla pianura padana fino alla Sicilia passando per l’Abruzzo, e poi attraversa l’oceano spinta dalla fame. Infine ritorna da dove era partita. A guardarla da qui, da oggi, da quella stessa terra che questi uomini hanno lasciato, fa sorridere il pensare che se anche solo un pezzettino non si fosse incastrato sull’altro come invece è accaduto, sarebbe stata, chissà, tutta un’altra storia.

Racconto


di Manuel Beozzo

Il progetto europeo RISE parte dai bisogni e dalle diverse competenze

COINVOLGERE GLI IMMIGRATI NEI PROGETTI DI INSERIMENTO Un progetto cofinanziato dalla Commissione Europea (programma Leonardo da Vinci) punta sulla partecipazione diretta di rifugiati e richiedenti asilo in Inghilterra, Irlanda e Germania per cercare di capirne le necessità e trovare insieme a loro le soluzioni. Nel novembre del 2012, con un incontro a Nottingham (Inghilterra), è stato dato ufficialmente inizio al progetto internazionale RISE, acronimo di Refugee Interactive Skills for Employment (che parafrasato in italiano potrebbe suonare così: competenze professionali dei rifugiati apprese in maniera interattiva per facilitarne l’inserimento nel mondo del lavoro). Al tavolo sedevano rappresentanti dell’Università di Nottingham-Trent, di un ente no-profit inglese che lavora per l’integrazione di persone ad alto rischio di emarginazione sociale (Greenhat Interactive), di una ONG irlandese che si occupa di integrazione di immigrati (The Integration Centre) e dell’Università di Eichstätt-Ingolstadt (Germania). Qualche mese dopo l’inizio del progetto, l’Università di Eichstätt-Ingolstadt mi ha coinvolto nel lavoro. L’obiettivo di RISE è di sviluppare modalità didattiche che possano facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro di rifugiati e richiedenti asilo. Per definirne i contenuti si sono svolti, nei tre Paesi, una serie di incontri con i diretti interessati del pro-

Società

getto, ovvero con i rifugiati e richiedenti asilo. Da subito è stato evidente che le modalità operative discusse intorno a quel tavolo in Inghilterra avevano bisogno di un adattamento. Gli incontri, faccia a faccia, con chi, per motivi diversi, ha lasciato il proprio Paese per recarsi altrove cercando maggiori opportunità e sicurezza, hanno fatto emergere una grande necessità di ricevere informazioni più che di dare risposte. A fronte delle nostre domande per comprendere la loro situazione e i loro i bisogni, ci venivano poste richieste e domande alle quali talvolta non sapevamo dare risposta. Mogli alloggiate a centinaia di chilometri dai mariti; giovani accademici che cercavano invano di vedersi riconoscere il titolo di studio; uomini e donne ai quali veniva vietato di cercare lavoro e di lasciare la provincia dove momentaneamente risiedevano; e per tutti la costante insicurezza sulla decisione del governo riguardo alla domanda di asilo. In pochi parlavano inglese o tedesco, quindi il più delle volte era indispensabile la presenza di una traduttrice. Con il susseguirsi degli incontri abbiamo modificato l’impostazione di lavoro. Al centro degli incontri non veniva più messo il progetto, bensì le richieste dei partecipanti. Si iniziava quindi dando informazioni chiare e concrete sulla situazione dei rifugiati in Germania (leggi, corsi di lingua, disponibilità di borse di studio, ecc.) e raccogliendo domande e perplessità alle quali dare

risposta subito o all’incontro successivo. Solo poi si procedeva con il raccogliere notizie utili per il progetto. Sulla base di ciò che è emerso durante gli incontri e grazie all’esperienza dei tecnici dell’Università di NottinghamTrent sono stati creati quattro serious games, ovvero giochi digitali con elementi educativi. Due dei giochi simulano due scenari di vita lavorativa (in uno il giocatore affronta un colloquio di lavoro mentre l’altro gioco ha lo scopo di educare sulle norme di sicurezza all’interno di una fabbrica); un terzo gioco si presenta come quiz su temi ritenuti rilevanti dai partecipanti agli incontri (si spazia dalla comunicazione interculturale all’essere a conoscenza di dove fare richiesta per un corso di lingua gratuito); il quarto gioco ha lo scopo di insegnare a distinguere l’utilizzo della lingua formale e informale sul posto di lavoro, con particolare attenzione alla scrittura delle e-mail. A fine ottobre 2014 il progetto si concluderà. Le aspettative iniziali forse non sono state tutte raggiunte ma, dal mio punto di vista, si è per l’ennesima volta rimarcata l’importanza e gli effetti positivi del coinvolgimento attivo, nelle forme più disparate, nella vita quotidiana della società “ospitante” di queste persone. L’isolamento, la carenza di informazioni e la paradossale vita da “serviti” non ha nessun vantaggio né per la loro integrazione né per l’accettazione sociale da parte della comunità locale che offre loro asilo.

Maggiori informazioni si possono trovare sulla pagina web del progetto, così come la ricerca sulla condizione dei rifugiati nei tre Paesi e i serious game da scaricare: http://rise-project.eu


di Amedeo Savoia

Il carcere luogo educativo? Laboratori di teatro nella Casa Circondariale di Trento Operare in carcere è come studiare all’estero: non impari solo la materia di studio, ma anche la lingua, gli stili di vita e la cultura di una terra diversa dalla tua. Il carcere è questo: è una terra diversa. Ha abitanti particolari e regole proprie a volte non facili da comprendere. Negli ultimi anni, grazie principalmente al Gioco degli Specchi, ho tenuto alcuni laboratori di teatro presso la Casa Circondariale di Trento sia nella vecchia sede di via Pilati sia nella nuova struttura in via Cesare Beccaria a Spini di Gardolo. Durante l’estate del 2014 ho sperimentato anche un laboratorio di scrittura autobiografica. Ho vissuto queste esperienze con grande intensità e ho imparato molto. L’articolo 27 della Costituzione afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Secondo questo comma il carcere è un luogo educativo per eccellenza in cui la sosta imposta a chi ha commesso un reato è un’opportunità per riflettere sulle proprie azioni in attesa di ripartire con una più solida consapevolezza delle regole della società. Il sistema carcerario italiano, salvo encomiabili eccezioni, non pare corrispondere attualmente a queste intenzioni. La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è convinta di no e ha imposto all’Italia di intervenire per rendere più umana la vita delle persone ristrette. Mi auguro che vi sia l’intenzione di produrre un effettivo miglioramento. C’è molto da fare in questo senso. In carcere ho incontrato alcune decine di persone e di alcune ho intercettato anche qualche frammento di vita. Del primo laboratorio nel 2006 ricordo Mustapha. Quando andava con i familiari nel deserto del Marocco a visitare la tomba di un venerabile antenato, il loro gioco di bambini era di correre sulla cima delle dune per prendere la luce del sole al tramonto sui palmi delle mani allungandole verso l’alto prima che rapidamente sparisse, come succede a quelle latitudini, lasciando tutti nell’ombra. Del 2007 ricordo la reazione di Sami quando respirò l’essenza di gelsomino che aveva portato Gisella Aiardi: “Per me questo è il profumo della libertà”. In Tunisia il gelsomino fiorisce sponta-

neamente e alle feste i ragazzi ne fanno ghirlande da portare al collo. Nel 2008 con Emilio Picone avevamo pensato di introdurre danze e canti. La finestra della nostra aula dava sul cortile dell’ora d’aria dove di solito si giocava a calcio. Un giorno un ragazzo si è arrampicato sulla finestra dall’esterno e, aggrappato alle inferriate, “Se volete canto per voi” ha detto. Canzoni egiziane in arabo classico ci ha regalato. D’amore. La nuova struttura di via Beccaria, a differenza della precedente in cui ci eravamo inventati il “teatro da cella”, ha una sala polivalente e così siamo riusciti - con Emilio Picone, Nicola Straffelini, Luigi Sansoni e Francesco Rubino – a mettere insieme spettacoli più ambiziosi. Nel 2013 “Ulisse e il velo”, ispirato al naufragio dell’eroe greco all’isola dei Feaci. Nel 2014 “Pinocchio” ripreso dal “Pinocchio nero” che Marco Baliani ha messo in scena con i ragazzi di strada delle discariche di Nairobi in Kenya. Da ultimo il laboratorio di autobiografia, fatto con Antonella Valer, ci ha condotti nel cuore della questione. La condizione carceraria tende a cristallizzare il tempo e a ridurlo a un presente indistinto. Raccontare a voce e scrivere episodi della propria vita a partire dall’infanzia risveglia la percezione di sé e riannoda i fili dell’esistenza. Raccontandosi, una persona può riflettere su tante cose: sul percorso che l’ha portata in carcere, sull’assunzione di responsabilità delle proprie azioni, sul bisogno di riconciliazione con le vittime e spesso con la propria famiglia, sulla prospettiva di riprogettare un futuro praticabile. In questa esperienza le storie hanno cominciato presto a scorrere come fiumi perché il carcere è una terra diversa. Da una settimana all’altra persone che non avevano mai scritto in vita loro ci hanno portato anche decine di pagine manoscritte con episodi d’infanzia, liti, fughe, storie d’amore, violenze, sogni, avventure, viaggi. Da anni percorre questa strada interessante la redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere Due Palazzi di Padova con una ricaduta educativa anche sull’esterno: ogni anno migliaia di studenti entrano in carcere per ascoltare queste storie dalla viva voce dei protagonisti. Tanti di loro comprendono che il sole della libertà può tramontare improvvisamente come nei deserti del Marocco e che i condannati hanno una storia che non termina con la sentenza come nei film. Anche in questo senso il carcere può essere luogo educativo per eccellenza.

Carcere


di Nicola Falcinella

Io sto con la sposa Una trovata per rendere manifeste le storture delle leggi sull’immigrazione in Europa Come trasportare un gruppo di migranti del vicino Oriente senza documenti fino in Svezia? Un’idea originale e semplice: fingere un corteo nuziale che accompagni una coppia di sposi. Una trovata che forse dà nell’occhio, ma che magari induce a chiudere l’occhio. Un tentativo da fare, soprattutto nel novembre dello scorso anno, quando centinaia di persone morirono nei naufragi al largo di Lampedusa e molti altri arrivarono fino alla Stazione Centrale di Milano senza saper più come proseguire. Così, dall’incontro di un poeta palestinese e un giornalista italiano con alcuni di loro, è nato il documentario “Io sto con la sposa” di Antonio Augugliaro, Gabriele del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia e ora in circolazione nelle sale. Un lavoro simpatico e di forte valore umano, accolto da grandi applausi che racconta il viaggio per portare un gruppo di siriani e palestinesi sopravvissuti da Milano alla Svezia. La soluzione escogitata per condurre i cinque senza passaporti, visti o status di rifugiato politico è farli accompagnare da una giovane vestita da sposa, fingere un matrimonio e farli partire per un lungo viaggio in auto. A Milano ci si incontra nelle case, con altri immigrati e con un gruppo di italiani e di altri europei, per mettere a punto ogni passaggio. Finalmente, dopo pochi giorni perché non c’è tempo da perdere, il 14 novembre si parte. Prima verso Ventimiglia in autostrada, poi si esce. Attraversano il confine a piedi salendo a Grimaldi Superiore e poi scendendo in Francia. Là li aspettano i loro amici e collaboratori francesi che li

Cinema

portano a Marsiglia. Vi trascorrono una notte tra amici a parlare, ricordare, sognare, intristirsi, cantare, mangiare. Al risveglio, è ora di salutare e ripartire e via in auto verso nord, destinazione Germania, con tappa a Bochum dove c’è qualcuno che li aspetta. Dopo la città tedesca, si prosegue fino a Copenaghen e poi in treno fino a Malmö, il punto più critico del viaggio. In quattro giorni, percorrono circa tremila chilometri a bordo di diverse automobili anche per poter avvistare ed evitare eventuali controlli e posti di blocco. Ce la faranno i cinque a raggiungere la meta agognata e ottenere un permesso di soggiorno nel Paese più ambito dai migranti? Quale sarà il loro futuro? Domande per le quali bisogna vedere “Io sto con la sposa”, un film di viaggio e di avventura molto concreto e molto vero. Se un difetto si può imputare al documentario è che in alcuni passaggi manca un po’ di ritmo e di tensione, un elemento necessario in questo tipo di lavori. Un limite dovuto anche al poco tempo per girare e alle condizioni intrinseche al progetto, ma più che bilanciato dal senso complessivo dell’operazione. Durante il viaggio e nelle brevi tappe c’è il tempo per raccontare le storie di ciascuno, storie di paesi in guerra, di famiglie divise, di diritti negati e di tragedie vissute. Tra i momenti musicali, oltre alle canzoni nelle serate di gruppo, la sposa che canta a Copenaghen prima di affrontare la tappa più rischiosa del viaggio. Tra i momenti più coinvolgenti le belle canzoni autobiografiche del ragazzino rapper Mc Manar, forse il personaggio più forte del film.


Cinema


Peter Sìs , Il muro. Crescere dietro la Cortina di ferro, Rizzoli, Milano, 2008 Nato all’inizio della Guerra Fredda, Peter Sìs racconta per parole ed immagini la sua infanzia e gli anni della crescita in Cecoslovacchia sotto un regime totalitario. E’ la storia di un ragazzo che amava disegnare e fare musica, la storia di una persona che per continuare a disegnare quello che desiderava, fece la difficile scelta di lasciare il suo paese per l’Occidente. Per gentile concessione dell'editore.

Numero speciale in occasione della settimana Il muro nel cuore Il periodico del Gioco degli Specchi è online www.ilgiocodeglispecchi.org, Seguici su

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