Maud West - Lady detective. Una cattedrale di ragnatele

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di
P.D. BACCALARIO • A. GATTI • L. STIPARI
Un romanzo

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

UAO

Max Finch

Maud West - Lady detective. Una cattedrale di ragnatele disegni di Iacopo Bruno

della stessa serie:

Maud West - Lady detective. Una matrioska di misteri

ISBN 979-12-221-0381-5

Prima edizione febbraio 2024

ristampa 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

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Max Finch è Pierdomenico Baccalario, Alessandro Gatti e Lucia Stipari

Art director: Francesca Leoneschi

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Max Finch è Pierdomenico Baccalario,

Alessandro Gatti e Lucia Stipari

MAUD WEST

L ady detective

Una cattedrale di ragnatele

illustrato da Iacopo Bruno

LA DOMENICA DI MR. FINCH

Capitolo 1

«P

ICKY? SEI QUI?»

Esplorai il buio della stanza con la lampada a petrolio, ed eccolo lì, Mr. Pickypaw, acciambellato sulla poltrona di pelle verde. Ultimamente era diventato il suo giaciglio preferito, forse perché era mezzo sfondata. Sollevò la testa giusto il tempo di decidere che mi avrebbe ignorato e poi la riadagiò sulle zampette. Non era il solo a volersene stare in pace, a quell’ora. La pendola segnava le sei e venticinque di un’anonima domenica mattina di novembre. Anonima per tutta Londra, per metà del mondo, forse, ma non per me.

L’ufficio di Maud (che poi era anche la mia casa) era immerso nel buio, fatta eccezione per l’alone luminoso della lampada che tenevo in mano, una di quelle lampade di fiori di vetro tenuti insieme da rivetti di stagno. Al di là delle tende – le orrende tende di Maud – il cielo era scuro come una vecchia bustina di tè. Le nuvole immobili sembravano cigni impantanati, in attesa della pioggia. Nessun rumore saliva dalla strada sei piani sotto di noi, né dai tetri corridoi di Albion House, con i loro pavimenti di linoleum (e tante grazie, Mr. Walton, per averlo inventato). Le sue

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mille stanze, con attività e uffici tra i più svariati che una mente umana potrebbe immaginare, ferme e immobili come il dagherrotipo di un alveare. Persino il cupo archivista del primo piano, Mr. Horace Hepcott, non si era ancora fatto sentire. Bastava che mettesse un piede oltre la porta d’ingresso di Albion House perché il puzzo della sua pipa si inerpicasse lungo le scale fino al tetto. E quell’altro, Stavepenny, che per un bel po’ di giorni aveva dormito in ufficio come facevo io – e il suo era poco lontano dal nostro – più o meno da una settimana doveva aver trovato una migliore sistemazione. Commerciava marmellate. Non so se aveva una tenuta sua o se la materia prima arrivava dal frutteto di qualche amico. E ce ne aveva regalati un paio di barattoli, da leccarsi i baffi.

Li avevo infilati nello stipetto appena dietro la scrivania, quello dove tenevo le scorte di cibo per le imprevedibili evenienze del mestiere.

E per gli attacchi di panico, o di ansia.

Come quello in corso.

Ora, che sia chiaro: non eravamo su un caso. La professione di detective non c’entrava proprio nulla con la mia generale prostrazione. Ero semplicemente teso per il mio appuntamento.

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Un appuntamento in piena regola con l’angelo dei vicoli, Maggie la selvaggia.

Proprio lei.

E, anche se non mi andava di ammetterlo, bastava vedere in che modo mi aggiravo, scalzo, scarmigliato come uno spaventapasseri, impegnato nel patetico tentativo di domare il gatto di Maud o di mettere in ordine questo o quello, per capire quale fosse il grado di agitazione che quella ragazzina era in grado di trasmettermi.

Lei o i suoi occhi verdi, scintillanti come il dorso di uno scarabeo.

Era la ragazza più complicata che avessi mai conosciuto. Ardente e sporca di fuliggine, con i pensieri che a volte sembravano prendere fuoco, altre si perdevano nel fumo, la pelle che profumava di rosa selvatica, gli abiti lacerati da un salto mal calcolato, una fuga precipitosa, un azzardo colto al volo come si fa quando si cresce in strada, abiti che, però, indossava con lo stesso portamento di chi va a teatro.

Maggie, l’ultima volta che mi aveva parlato, nel senso di parlato per davvero – non quando era venuta al mio capezzale, con me mezzo morto, per la pallottola e per la paura –, mi aveva raccontato

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che quell’appellativo, la selvaggia, se l’era scelto da sola, prima che qualcuno decidesse di affibbiargliene un altro. E ripensando a quelle ultime conversazioni, con l’idea di riprenderle esattamente dove si erano interrotte, nello sforzo di ignorare il perché si erano interrotte, vagavo tra l’ufficio e la mia camera sotto il tetto e mendicavo un po’ di attenzione del gatto più pigro di tutta Londra.

In realtà benedivo persino quella pallottola che mi aveva lasciato una bella cicatrice sulla spalla, un ammonimento visibile alla mia irruenza, al non saper rispettare un piano come si deve. E per fortuna, aggiungevo io, dato che altrimenti la Lady detective per cui mi fregiavo di lavorare sarebbe rimasta lunga distesa sul campo d’erba umida di St James Park.

E, che ci crediate o meno, avrei forse preferito tornare tra quei lugubri alberi secolari al seguito di lord sporcaccioni e fantasmi armati di pistola piuttosto che dovermi sedere, da lì a poco, alle due in punto, con la mia giacca buona, sulle poltroncine dell’Holborn Empire per lo spettacolo pomeridiano, durante il quale avrei diviso il bracciolo di legno con Maggie.

Eppure mi era parsa una così buona soluzione,

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un compromesso geniale per il nostro primo appuntamento, soprattutto se fossi riuscito a farla sedere nelle ultime file, dove le immagini dell’immenso schermo argentato arrivavano un po’ meno invadenti. E le ombre sapevano essere un po’ più amiche.

Aprii la marmellata di Stavepenny e il clac del coperchio bastò per convincere Mr. Pickypaw che era ora di stiracchiarsi e raggiungermi, lento e sinuoso.

«Adesso, arrivi. Ma quando avevo bisogno di te, dov’eri?»

Gli allungai il dito intinto nella marmellata e lui me la raspò via con la sua linguetta ruvida.

Biscotti o pane non ne avevo, per cui la mangiai anch’io così, a ditate, in piedi, guardando i giochi di luce che pioveva dagli spifferi delle finestre.

«Vuoi sapere perché ti cercavo?»

Picky mi guardò con gli occhi stretti a fessura.

«No? Immaginavo.»

Si leccò una zampetta, con tutta calma, e io richiusi il barattolo.

«Ho bisogno di un consiglio. Da uomo a uomo. Tu che faresti?»

Lui se ne andò. E forse era una riposta, a modo

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suo. Ma non era quella che cercavo. Non ero capace di infischiarmene quanto lui: non sapevo mai quando era il momento di andarsene, né come si fa a chiudersi una porta alle spalle senza continuare a voler tenere aperto uno spiraglio.

Rassegnato, ripresi la lampada dalla scrivania e decisi di tornare di sopra per cercare di dormire un altro po’. La mia camera da letto era una branda sistemata in fondo al guardaroba di Maud, vecchie divise, berretti e trucchi che le servivano per i suoi travestimenti. Era un vero talento nel cambiare volto, le piaceva diventare qualcun altro, e sapeva farlo con una naturalezza da grande attrice. Una volta, mentre battevamo le classiche brocche in un appostamento giù al fiume, me ne aveva anche parlato, di quando aveva quasi avuto la possibilità di fare l’attrice. Era stata Re Lear in un uno spettacolo di beneficenza a Sweeney Point, senza ancora sapere quello che tutti gli attori imparano al primo corso di recitazione: che Re Lear è un copione maledetto. E chi lo tocca muore.

Maud non era affatto morta, ma la sua carriera da attrice, forse, un pochino sì.

E comunque non riuscivo a dormire. Occhi

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sbarrati da quando mi ero disteso sulla mia pulciosa alcova, che in realtà pulciosa non lo era per niente, Maud l’aveva spruzzata e disinfettata con un’invenzione di Mister Zimmerman del terzo piano – “IGIENE TEDESCA, SALUTE D’ALBIONE” –, il quale esibiva a riprova della sua efficacia un paio di certificati internazionali e aveva promesso al sindaco di Croydon che, se solo gli avessero dato mille sterline, avrebbe potuto derattizzare l’intera città in meno di un mese. Ma per il momento, ancora niente, a parte un delicato profumo di citronella che aleggiava nel guardaroba e sul mio materasso.

E che vi avevo detto? Zero sonno. I pensieri si rincorrevano, legati uno all’altro come le maglie di una collana, o di una catena, che mi si scuoteva in testa con un grande fracasso e mi lasciava tramortito, a fissare la polvere e contare il tempo che il sole ci avrebbe messo a sorgere.

E quindi mi rialzai, gemetti, sospirai, tirai fuori l’intero campionario dell’eroe deluso, stanco e indeciso. Guardai fuori. Forse aveva vinto il sole, forse no. È una possibilità costante di Londra, quella di non riuscire a capire che ora sia. C’era luce, ma anche fumo. C’era silenzio, ma anche un

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lontano, sotterraneo, fracasso. E poi, eccole, le prime campane.

In qualche modo, avevo passato la notte.

E mi aspettava una rancida domenica di attesa. «Picky?»

Da solo.

Il gatto, dopo che Mister Zimmerman aveva sconfitto i topi di Albion House, era ancora meno indaffarato del suo già bassissimo standard, e Maud di certo non sarebbe comparsa in ufficio, perché la domenica era tutta per il marito e i bambini, la sua famiglia, di cui parlava così poco. Ne era gelosa. O ne ero più geloso io?

Difficile a dirsi. Certe cose, quando sei orfano, ti fanno male anche se sorridono, e le ignori anche se ti hanno fatto male. E non lo dico per compatirmi: non ero certo l’unico orfano per metà italiano creato dalla guerra.

A proposito di quella metà di sangue italiano che avevo, tirai fuori la scatola da sotto al letto. L’avevo nascosta un po’ perché non volevo che il capo la vedesse, un po’ perché mi vergognavo e un po’, soprattutto, perché non volevo che mi chiedesse quanto mi era costata.

La posai sulla toeletta, lisciai i bei caratteri scu-

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ri di James Lock & Company e ne tirai fuori una coppola di tweed pesante, quattro spicchi di grigio chiusi da un bottone, all’ultima moda. Mi era costata praticamente tutto il premio che Maud mi aveva dato per la soluzione del caso Craigbury. “Meno una piccola parte che ho trattenuto per destinarla al tuo fondo incoscienza, per lo spavento che mi hai fatto prendere e, nel caso, per pagarti il funerale se pensi di rifarlo la prossima volta” mi aveva detto consegnandomi la busta. Ma, nel dirlo, sorrideva.

Mi piazzai la coppola in testa e mi osservai allo specchio, di fronte, di tre quarti, da un lato, dall’altro, la alzai e la abbassai, la calcai e la sollevai. E niente, di nuovo: al negozio mi era parsa perfetta, con i commessi in guanti grigi di Mr. Lock che me la sistemavano come se fosse stata la corona del re e poi annuivano, compiaciuti, in attesa della mia approvazione. E io stesso mi sembravo diverso da come mi ero visto in quello specchio. Forse perché era pulito, e c’era la luce che rimbalzava dalle carrozze di St James Street, e conti e marchesi in fila con me per infilarsi un cappello di scintillante meraviglia. Mentre ora, nel guardaroba fresco di sterilizzazione teutonica di Maud, mi sentivo cre-

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scere il naso ogni volta che provavo a dirmi: “Be’, Max, non ti sta per niente male”. Era grande, mi cascava sulle orecchie, mi scivolava dalla fronte –e pensavo di avere un gran bella fronte – e quella carogna di Mr. Pickypaw non era lì a darmi il suo parere. Anzi, il suo parere era stato: è troppo, me ne vado.

Sì, forse aveva ragione il gatto. Era troppo. Troppo caro il cappello, troppo poco il tempo che avevo dormito, troppo quello che invece stavo sprecando davanti allo specchio. Non era da me.

Ero sempre stato parsimonioso, tranquillo, capace di dormire su un treno in fiamme, e ancora non lo sapevo, quella mattina, che di lì a poco avrei dovuto provare a farlo davvero. “Tu sei pietra serena” aveva detto una volta lo zio Ottorino, che tecnicamente non era mio zio, ma l’avevo sempre chiamato così. E la pietra serena dove la metti sta, è dura e resistente. Ma è anche porosa, e per rovinarla basta spremerci sopra un limone. “E quindi, stai attento, ragazzo mio” aveva aggiunto lo zio “a non farti spremere troppo”.

Eh.

E invece, da quanto ero irriconoscibile, sembrava proprio che Maggie mi avesse preso e stritolato

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per bene, incidendo lunghi solchi di limone sulla superficie della mia serenità. E questo poteva significare una cosa e una cosa soltanto: che mi stavo innamorando.

O peggio ancora, che lo ero già.

Feci un profondo sospiro. Mi sforzai di mettermi tranquillo.

La coppola l’avevo comprata. I soldi erano andati. E il tizio con i guanti mi aveva detto che ora si portavano così, un po’ morbide e abbondanti, alla moda di Napoli. No? Calma, compare. Non ne ero del tutto convinto, ma forse, mi dissi, il problema era che non stava bene con il pigiama, e quel pigiama in particolare pareva passato per la battaglia della Somme. Forse avrei dovuto riprovarla con il vestito buono. La rimisi nella scatola, infilai la scatola sotto il letto e meditai quasi di trascorrere il resto della mattina facendomi un lungo bagno, di lavarmi i capelli, di cincischiare tra qualche vecchio giornale e magari di buttare giù un paio di puntate delle avventure di Maud West che scrivevo per la sua rubrica settimanale sulla “Daily Gazette”.

Ma già al solo rumore dell’acqua che usciva dal rubinetto mi annoiai di quell’idea: non mi sembrò

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una cosa da fare e uscii piuttosto a farmi investire dalle voci e dagli odori della cucina di Rachel, alla Chop House dietro l’angolo. Afferrai un giornale, mi concessi una mezza pinta di birra e addentai una bistecca che mangiai come se non ci fosse un domani. E probabilmente non ci sarebbe stato, poiché il mio appuntamento con Maggie era per il pomeriggio.

Il resto della mattina passò al biliardo, a cui giocai con foga, lottando su ogni biglia, in coppia con un ragazzo gallese che non pronunciava una sola parola che non fosse un’imprecazione. Tirai le partite così a lungo, offrendo una rivincita dopo l’altra, che per poco non arrivai in ritardo.

Corsi su per i sei piani di scale di Albion House maledicendomi per la mia stupidità – ora ero sudato, e puzzavo di fumo, birra rancida e salsiccia – perché sapevo benissimo di essermi messo in trappola da solo. Saltai dentro ai calzoni come un marinaio quando arriva la tempesta, allacciai i bottoni della camicia come se mi stessero leggendo una sentenza di espulsione, misi la giacca e mi calzai la coppola alla moda di Napoli, cioè morbida, cascante e carissima.

Finii per mettermela in tasca tra il secondo e

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il primo piano, prima di uscire di nuovo in strada. Recuperai nella rimessa la mia fidata bicicletta Rugginante e non appena mi infilai nel traffico il confortante cicaleccio dei pedali e della catena mi rimise in sesto quanto bastava a pensare che ce l’avrei fatta.

Peccato solo che non si poteva entrare al cinema con la bicicletta.

Smontai l’isolato prima dell’Holborn, per non dare l’impressione di uno che si era scapicollato già da New Oxford Street come invece avevo fatto, legai la bici e camminai a passo nervoso fino all’ingresso del cinema. Maggie non c’era ancora, e almeno quella era una buona notizia. O forse no? Forse non sarebbe venuta?

Panico. Mi sentii le gambe molli e decisi di tenerle occupate passeggiando avanti e indietro di fronte all’ingresso, fino a che non mi resi conto di quanto gli altri mi guardassero infastiditi, perché con tutto quell’andirivieni li intralciavo. Così mi imposi di fermarmi e mi appoggiai al muro di lato, con una gamba piegata, la suola contro il battistrada, in quella che mi sembrava la perfetta posa di uno che ha la situazione in pugno. Controllai la cipolla: le due e quattro minuti. Maggie si fa-

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ceva aspettare. Non pensai a niente. Nemmeno a quello che si diceva delle donne, che volevano farsi aspettare. Ero moderno. Giovane. All’ultima moda.

E però, quando la vidi svoltare l’angolo tra la folla, persi quasi l’equilibrio. Feci per andarle incontro, e poi mi pietrificai. Maggie non era sola. Camminava con una seconda ragazza, con cui era intenta a scambiarsi parole e risatine.

Mi arrivò, da dentro, una vampata di indignazione. Che storia era mai quella?

«Ciao, Finchlock Holmes!» mi salutò Maggie. «Ti presento la mia amica Olivia».

Olivia tese la mano, io esitai. Lei fece una risatina nasale, tipo anatra, e mi risultò immediatamente odiosa. Ma poi le strinsi la mano. Che altro potevo fare?

«Tanto piacere».

Gelatina.

«Non sapevo che, ehm… saresti venuta anche tu».

Oliva starnazzò qualcosa, tipo che lei e Maggie avevano un vera passione per il cinema, e quella era un’occasione che…

Abbozzai un sorriso.

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Guardai Maggie e scoprii che non ero più arrabbiato, ma avrei voluto che mi aiutasse.

«Olivia è la figlia di Mr. Carter, il calzolaio di fianco a casa mia» disse Maggie. «I suoi non vogliono che mi frequenti, lei però se ne frega. Non è grandiosa?»

«Eccome».

E Olivia aggiunse: «Ho dovuto raccontargli una bugia, per poter venire. Ma è sempre così, con Maggie!»

«Sentito? È la mia amica più leale, quindi te la volevo presentare. Sei contento?» mi chiese Maggie, con un sorrisino che mi parve beffardo.

«Forse» bofonchiai.

«Anch’io sono contenta di conoscerti» disse Olivia. «Maggie mi ha parlato tanto di te…»

«Ah, davvero? E cosa ti ha detto?»

«Niente. Però ti facevo più alto e più robusto…»

Ma che voleva, quella?

«E perché tieni il berretto in tasca?»

A quel punto, francamente, la coppola gliel’avrei voluta ficcare in gola, ma Maggie rise e disse: «Allora, hai scoperto che film danno oggi?»

Felice di cambiare argomento annunciai che in programma c’era Il ragno nero, un’avvincente storia

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di mistero e avventura. O almeno così diceva la locandina.

«Adoro il mistero» esultò Olivia, prendendo Maggie sottobraccio. Le due si incamminarono verso la biglietteria e io le seguii, con l’umore più nero del ragno del film.

Poi fu anche peggio, perché Olivia si piazzò tra me e Maggie annullando così ogni mio calcolo e fantasia.

Il film però non era per niente male, una bislacca storia di ricconi che rubano gioielli tra le palme della Costa Azzurra. E mentre lo guardavo immaginai di essere sulle loro tracce con Maud.

Olivia ne era entusiasta. Era quel tipo di persona che non riesce a stare zitta durante i film e deve per forza commentare ogni scena. Ma alla lunga riuscii a ignorarla ed ebbi anche l’impressione che, da quante volte si sporgeva per controllare come stessi, anche Maggie, dall’altra parte dell’amica, fosse un po’ pentita della costante distrazione che si era portata dietro.

All’uscita, trovò il modo di camminarmi a fianco, con gli occhi che ancora luccicavano per i colpi di scena, e disse: «Dovremmo farlo più spesso, di andare al cinema».

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Rimasi zitto, perché di ripetere l’esperienza a quelle condizioni io non ne avevo proprio nessuna voglia.

E lei lo capì: abbassò il capo, come se, da qualche parte in quella testolina, si fosse accorta di avermi ferito.

«La prossima volta speriamo ci sia una storia d’amore» cinguettò Olivia. «Sono più semplici.

Lui ama lei e lei ama lui. Mentre qui, a un certo punto, con questo Ragno Nero mi sono completamente persa».

Continuai a camminare senza dire niente.

«Tu l’avevi capito?» mi domandò Maggie.

«Capito cosa?»

Che anche tu avevi paura di vedermi, e quindi ti sei portata un’amica a farti da anatra da guardia?

«Che era De Jambon…»

«Io pensavo che il colpevole fosse la vecchia governante. Con quegli occhietti perfidi…» disse Olivia.

Accennai un sorriso e lo riempii di scetticismo. «Gli occhietti, eh? Non è certo il tipo di cose di cui tenere conto in un’indagine. No, si capiva che doveva essere stato il cugino simpaticone»

«Finch è un vero segugio» disse Maggie. «Non

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gli sfugge niente, a lui, delle persone. Non è vero, Finchlock Holmes?»

Allungò una mano, nel freddo di quella domenica pomeriggio, per sfiorarmi le dita.

«Tè caldo e biscotti?» propose. E mi strinse la mano. «Offro io».

«E come?» le domandò Olivia, che in fatto di tempismo pareva il rapido delle 5.45.

«Be’…» rispose lei, ridendo con gli occhi.

Mi prese sotto braccio e, così facendo, mi trascinò lungo il viale, dall’altra parte della strada, nella direzione in cui stavano andando tutte le altre persone uscite dal cinema. Si staccò da me solo per andare a sbattere contro il cappotto di un tale.

«Oh, mi perdoni!» esclamò, e rimase a fissarlo per una manciata di secondi con quei suoi grandi occhi elettrici.

L’altro sorrise, si toccò il cappello e disse: «Non c’è di che». Poi si allontanò.

Mi morsi il labbro, perché sapevo cos’era appena successo, le avevo già visto fare quel trucchetto. Ed ero stato proprio io la sua vittima, quando ci eravamo incontrati la prima volta e mi aveva sfilato dalla tasca un biglietto da visita che poi si sarebbe rivelato indispensabile per l’indagine.

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«Maggie…» le dissi. «Ti ricordi che lavoro faccio?»

«Investigatore privato» rise lei. «Ma un investigatore privato investiga quando qualcuno lo paga per farlo, no?» Mi mise in mano un paio di spiccioli. «E quindi dimmi, investigatore: secondo te qual è il posto migliore per un buon tè con currant buns di Lione?»

E niente, svanito ogni senso del dovere, della legge, di ciò che è giusto e non è giusto, amica in più o amica in meno.

Corremmo tutti e tre fino a un posticino di Leicester Square che avevo adocchiato una volta, senza mai smettere di ridere.

Molto più tardi, quella domenica, quando mi colavano addosso le pareti blu delle scale di Albion House, pensai che il capo non avrebbe approvato la nostra merenda al taccheggio. Ma Maggie era fatta così: si era tirata su da sola nei vicoli dell’East End come la proverbiale naufraga sull’isola deserta. E non doveva essere stato facile. Era una che aveva schivato le mani luride di Benny Lurgo e le camere da quattro soldi della Signora in Rosso. Mi dissi anche che, se non avessi speso tutto

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il mio capitale per quella stupida coppola troppo larga, avrei potuto offrire io il tè con i panini al burro… E questa, in estrema sintesi, sarebbe stata la cosa giusta da fare. Guadagnare qualcosa di più, a costo di chiedere a Maud qualche lavoretto extra, o trovare qualche altro mezzo impiego… E con quei soldi racimolati per bene dare l’esempio a Maggie di come si poteva vivere onestamente. E in che modo avrebbe potuto mettere a frutto la sua scaltra intelligenza.

Forse avrei potuto mostrarle che non c’era più bisogno di fare la ladruncola. “Ma a che lavoro potevo dedicarmi?” mi domandai.

Mi guardai le mani.

E le vidi grandi, goffe, nonostante il buio delle scale.

Non avevo acceso la luce perché ci vedevo benissimo, al buio, meglio di qualunque altra persona avessi mai conosciuto. Maud aveva persino chiamato quel fatto con un nome scientifico che avevo già dimenticato, e si era riproposta, in un paio di occasioni, di farmi visitare da un dottore specializzato negli occhi, che aveva anche lui un nome che non riuscivo a ricordare.

Quelle mani, riflettei, guadagnando il sesto pia-

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no, sapevano riparare perfettamente ogni tipo di bici.

Avrei potuto propormi al vecchio Talbot, a South London… le sue ormai tremavano ogni volta che doveva gonfiare una gomma o montare una catena. Avrei potuto iniziare con qualche ora e poi, magari…

Ero appena arrivato in cima alle scale quando sentii un suono, secco e metallico, che proveniva dal nostro ufficio.

“E ora che succede?” chiesi a me stesso, dato che non c’era nessun altro al piano. L’intero enorme palazzo era vuoto ed era ormai sera inoltrata. Non che avessi paura, sia chiaro, ma per pura e semplice prudenza aprii la porta dell’ufficio stando bene di lato. Cercai di fare il meno rumore possibile, e non appena fui nell’anticamera mi munii di un lungo calzascarpe di stagno. Forse non era il massimo come arma di difesa, ma l’unica alternativa era un ventaglio con le piume di struzzo.

«C’è qualcuno?» domandai.

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LIVERPOOL, 1920. Con il suo berretto nuovo, Finch invita Maggie al cinema. Le romanticherie però non fanno al caso suo… meglio immergersi nel nuovo incarico di Maud West. La richiesta arriva da Lucy Colburn, il braccio destro del Primo Ministro, ovvero: roba che scotta. Lasciata Maggie di guardia ad Albion House, Maud e Finch dovranno prendere il treno notturno per Liverpool, intercettare un passeggero sbarcato dalla SS Triton e recuperare una misteriosa valigetta prima che lo faccia qualcun altro. L’unico dettaglio è che quel qualcun altro è molto più pericoloso di loro, ed è disposto a tutto, ma proprio a tutto, pur di riuscirci.

“Lo sparo rimbombò nell’androne forte come un tuono, e scheggiò la notte. Sentii qualcosa volarmi accanto all’orecchio. E non era un angioletto”.

MAX FINCH è lo pseudonimo di tre autori di grandissimo successo nella narrativa per ragazzi italiana degli ultimi anni: Pierdomenico Baccalario, Alessandro Gatti e Lucia Stipari.

Illustrato da IACOPO BRUNO

Consigliato dai10 ai 99 anni

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