Trilby

Page 1

TRADUZIONE

E CURA DI PIERDOMENICO BACCALARIO

D’abitudine, una volta raggiunto il Pont des Arts lo attraversavano, fermandosi a metà strada per guardare il fiume verso la vecchia Cité e Notre Dame, e cercavano di esprimere a parole la sensazione che in quella particolare città, in quel particolare momento del giorno e dell’anno e del secolo, in quella particolare epoca della loro esistenza mortale e incerta, la vita era straordinariamente degna di essere vissuta.

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

UAO

George du Maurier Trilby disegni dell’autore traduzione dall’inglese e cura di Pierdomenico Baccalario

ISBN 979-12-221-0308-2

Prima edizione aprile 2024

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Copyright © 2024 Book on a Tree Limited www.bookonatree.com

Gallucci e il logo g sono marchi registrati

Se non riesci a procurarti un nostro titolo in libreria, ordinalo su:

galluccieditore.com

Il marchio FSC® garantisce che questo volume è realizzato con carta proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile e da altre fonti controllate, secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Stewardship Council®) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su https://ic.fsc.org/en e https://it.fsc.org/it-it

Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.

George du Maurier Trilby

disegni dell’autore

traduzione e cura di Pierdomenico Baccalario

Prefazione di Pierdomenico Baccalario

Trilby è forse il più importante bestseller dell'Ottocento, ma prima d’ora non era mai stato pubblicato in Italia.

Uscì a puntate sull’“Harper’s New Monthly Magazine”, a partire dal 1894, e qualche mese dopo in un unico volume.

Vendette solo negli Stati Uniti più di 200mila copie. Un numero da capogiro, considerando che all’epoca soltanto una ristretta percentuale di popolazione sapeva leggere, e che tra queste persone ancora meno si potevano permettere di acquistare un libro.

Fu un’opera che definì un’intera epoca, su entrambe le sponde dell’Atlantico, e che seppe accendere la fantasia e i sogni del grande pubblico.

Nacque una vera e propria “Trilbymania”, nonché una fortunata tipologia di cappelli simili a quelli indossati dagli attori nella trasposizione teatrale dell’opera, che fino agli Anni Settanta del Novecento rimasero tra i massimi esempi di eleganza, a livello dei migliori Borsalino. Sono in vendita ancora oggi: basta chiedere un Trilby.

Il valore letterario del romanzo è indiscutibile, ma il suo merito va ben oltre il modo in cui è scritto. Trilby fu il libro che inventò un certo mito della Francia e di Parigi in particolare: quello degli artisti delle soffitte e dell’appassionato stile di vita bohémien.

5

Il suo autore, George du Maurier, non solo contribuì a diffondere l’idea di una certa Parigi oscura e tormentata, con pittori e poeti, canzoni e ballerine, locali aperti fino alle ore piccole e vino, tanto vino, ma riuscì anche a cristallizzare, con tutti i suoi stereotipi, molte delle sfaccettature della cultura della tarda epoca vittoriana.

Nelle sue pagine troverete atmosfere gotiche, satira, soprannaturale, macabro e ipnosi. Una densa e torbida storia d’amore dalla particolare filigrana nera che passerà, intonsa, nella penna di sua nipote, scrittrice celebre e riconosciuta. Ovvero Daphne du Maurier, l’autrice di Rebecca, Taverna alla Giamaica, Gli uccelli: proprio i racconti che Hitchcock trasformò in capolavori cinematografici.

E poiché più spesso di quanto ci immaginiamo vita e letteratura vanno a braccetto, frugando tra le vecchie foto di famiglia dei Du Maurier ecco che scopriamo che Daphne era cugina dei ragazzi Llewelyn Davies, ovvero di quel Peter e del fratellino Michael che la penna di James Matthew Barrie, loro tutore, rese immortali (almeno nelle sue opere, dato che Michael morì poco più che ventenne annegando nel Tamigi, mentre Peter, diventato l’editore della cugina, si suicidò all’età di 63 anni).

Insomma, come resistere a un tale caleidoscopio di realtà, finzione, mito e letteratura?

Trilby è un mélange di atmosfera e di scrittura: luoghi reali e del tutto immaginari si alternano senza soluzione di continuità, tra descrizioni azzeccatissime e profonde e stereotipi troppo azzimati e passati per lasciarli come erano.

Spero quindi che apprezzerete il mio lavoro, sapientemente puntellato dalla competenza e dalle note di Simone, Lara e Martina, che mi hanno aiutato là dove la lingua dell’autore si faceva più enigmatica, e dalla squadra di Carlo Gallucci, il primo a entusiasmarsi di questa scoperta.

6
Trilby

Credo che questo romanzo sia capace di regalare, con la sua scintillante oscurità, il sapore di una Parigi passata, ma non perduta, fatta di viuzze buie e strette, di tortuosità melanconiche e di un’infinità di stati d’animo contrastanti, così lontana dagli splendori e dagli ampi viali alberati di quella Ville Lumière che nacque più tardi.

È un piccolo gioiello, paziente e arguto, che credo meriti di essere conosciuto.

Buona lettura,

Torino, marzo 2024

7 Prefazione

Parte prima

“Mimi Pinson est une blonde, une blonde que l’on connaît. Elle n’a qu’une robe au monde, landérirette! Et qu’un bonnet!”1

1 Mimi Pinson è una bionda, una bionda che tutti san chi è. Non possiede che una sola veste, immonda, trallallero! E un cappellino sulle ventitré!

Era una bella giornata di aprile, soleggiata e piovosa.

La grande finestra dello studio sotto al tetto era aperta e lasciava entrare una piacevole brezza da nord-oveSt Tutto, finalmente, sembrava pronto. Il grande pianoforte, un mezza coda della Broadwood, era arrivato dall’Inghilterra con la Petite Vitesse, come vengono chiamati i treni merci francesi, e giaceva, fresco d’accordatura, accanto alla parete orientale; sulla parete di fronte c’era una gran confusione di fioretti, maschere e guantoni da boxe.

Da un’enorme trave del soffitto ondeggiava un trapezio, una corda annodata e due corde parallele che sostenevano, ciascuna, un anello. Le pareti erano del solito rosso spento, ravvivate da calchi in gesso di braccia e gambe, mani e piedi; e c’era una maschera di Dante, una copia della Leda e il cigno di Michelangelo, un centauro e i lapiti dai marmi del Partenone. E su nessuno di questi la polvere aveva ancora avuto il tempo di depositarsi. C’erano anche studi a olio di nudi, copie di Tiziano, Rembrandt, Velázquez, Rubens, Tintoretto, Leonardo da Vinci, e nulla della scuola di Botticelli, Mantegna e altri, poiché la loro bellezza non era ancora stata riscoperta.

Lungo le pareti, a grande altezza, correva un’ampia mensola, sulla quale si trovavano altri calchi in gesso, terracotta, finto bronzo: un piccolo Teseo, una piccola Venere di Milo, un piccolo discobolo,

11

un piccolo uomo scotennato che ingiuriava il cielo (un’azione quasi perdonabile, date le circostanze!), un leone e un cinghiale di Barye, una figura anatomica di cavallo con una sola zampa e privo di orecchie, una testa di cavallo dal frontone del Partenone, anch’essa senza orecchie, e il busto di Clizia, con la bella fronte bassa, lo sguardo dolce e spento e il petto esposto come un nido, un rifugio, un cuscino, un riparo che ognuno avrebbe amato e desiderato per sempre, generazione dopo generazione.

Vicino alla stufa erano appesi una graticola, una padella, un forchettone per abbrustolire e un mantice. In una credenza d’angolo, smaltata, c’erano piatti, bicchieri, coltelli dal manico nero, cucchiai di peltro e forchette d’acciaio a tre punte; un’insalatiera, ampolle per l’aceto, un’oliera, due barattoli per la senape (inglese e francese) e altre cose simili, tutte scrupolosamente immacolate. Sul pavimento, che era stato tinto e incerato a un costo considerevole, erano stese due pellicce di leopardo e un ampio tappeto da preghiera persiano. Una metà del pavimento, tuttavia (sotto il trapezio e all’estremità più lontana dalla finestra, oltre il piedistallo per modelli), era coperta da una ruvida stuoia, utile a tirare di scherma o di boxe senza rischiare di scivolare e spaccarsi in due, o cadere e rompersi le ossa.

Altre due finestre di misura, con fuori le persiane, squisitamente francesi, e dentro pesanti tende di panno, si aprivano a est e a ovest, per far entrare l’alba o il tramonto, a seconda dei casi, o al contrario per non farne filtrare la luce. E poi c’erano nicchie, rientranze, irregolarità, angolini e cantucci strani, da riempire, nel tempo, con un’infinità di ninnoli personali, cianfrusaglie, proprietà private e acquisizioni, tutte quelle cose che rendono un luogo accogliente, familiare, bello da ricordare e su cui riflettere con certo dolce rimpianto, negli anni che verranno.

12
Trilby

Parte prima

Un immenso divano si estendeva in larghezza, lunghezza e delizioso spessore proprio sotto la grande finestra a nord, la finestra degli affari. Un divano così immenso che tre inglesi ben nutriti e soddisfatti potevano sdraiarsi pigramente a fumare la pipa senza ostacolarsi a vicenda… cosa che molto spesso capitava.

Al momento, tuttavia, uno di questi inglesi – originario dello Yorkshire, peraltro, noto come Taffy (nonché come uomo di sangue nobile, per via di una presunta e lontana parentela con un baronetto) – era affaccendato in una questione ben più elettrizzante. A braccia nude, in camicia e pantaloni, faceva ruotare intorno alla testa un paio di birilli, del tipo anche chiamato Indian clubs. Era tutto arrossato, sudava abbondantemente e aveva un’aria feroce. Giovane, corpulento, pallido, con occhi azzurri dal temperamento gentile e collerico al tempo stesso, aveva braccia robuste e muscoli d’acciaio. Per tre anni aveva servito Sua Maestà la Regina, superando senza un graffio la campagna di Crimea. Avrebbe fatto parte dei leggendari seicento cavalieri della carica di Balaklava, se solo una storta alla caviglia non lo avesse costretto in ospedale il giorno prima. Per uno stupido gioco alla cavallina aveva perso l’occasione di guadagnarsi la gloria o la morte, e ne era rimasto così umiliato da fargli passare la voglia di fare il soldato per il resto della vita. Era qualcosa che non aveva mai superato, nemmeno seguendo dentro di sé un’irresistibile vocazione per l’arte, per cui aveva venduto tutto, e si era trasferito qui, a Parigi, alacremente al lavoro, come vedete.

Era di bell’aspetto, con lineamenti dritti; ma mi dispiace aggiungere che portava, oltre ai baffoni, due immense basette cadenti, di colore ramato, di quelle che si chiamano Piccadilly weepers, e che in

seguito furono sfoggiate da Sothern nell’opera Lord Dundreary. Era quanto prescriveva la moda dell’epoca ai giovani più abbienti che avevano tempo e peluria sufficienti per dedicarsi alle proprie basette. Vi sembrerà incredibile, oggi che si va in giro glabri e si canta: «Che ne è di tutto l’oro, che adornava e copriva il petto?» Ma allora, più le basette erano grandi e chiare, più un giovane veniva ritenuto bello.

Il secondo inquilino di questa beata dimora – Sandy, il Marchese di Cockpen, come veniva chiamato – sedeva in abiti altrettanto semplici al suo cavalletto, intento a dipingere un quadretto realistico di un toreador spagnolo che faceva la serenata a una signora di alto rango (in pieno giorno). Non era mai stato in Spagna, ma aveva una mise completa da toreador (un vero affare, presa per pochi spiccioli in Boulevard du Temple) e aveva noleggiato una chitarra. Teneva una pipa in bocca, ma al contrario: si era spenta e tutta la cenere s’era riversata sui suoi pantaloni, che spesso, per quel motivo, si riempivano di buchi.

In modo del tutto gratuito, e con un piacevole accento scozzese, canticchiava: «C’è una strada nella famosa Parigi per la quale la nostra lingua non ha rime; ruu neev de petì shamp è il suo nome: strada nuova de’ piccoli campi…» E poi, nel suo vivo apprezzamento dell’immortale strofa, ridacchiò sonoramente, con un viso così allegro e felice che faceva bene guardarlo.

Anche lui era entrato in questa vita da un’altra porta. I suoi genitori (brava e pia gente di Dundee) avevano sognato che diventasse avvocato, come suo padre e suo nonno prima di lui. E invece eccolo nella famosa Parigi, a dipingere toreador e a declamare la Ballata della Bouillabaisse, come spesso faceva, e con più insistenza di quanto facesse con le preghiere.

14
Trilby

Inginocchiato sul divano, con il gomito sul davanzale della finestra, c’era il terzo compagno, il più giovane degli altri. Il Piccolo Billy. Aveva scostato la tenda di panno e si riempiva gli occhi con i tetti e i comignoli di Parigi, sgranocchiando al contempo una pagnottella con la salsiccia, discretamente ricca d’aglio. Mangiava con gusto, perché aveva molta fame; era stato tutta la mattina nello studio di Carrel a disegnare dal vivo.

Il Piccolo Billy era minuto, snello, sui venti o ventun anni, con una fronte bianca e dritta venata d’azzurro, grandi occhi blu scuro, lineamenti delicati e regolari, capelli neri come il carbone. Era anche molto aggraziato e dalla corporatura regolare, con mani e piedi delicati, e vestito molto meglio dei suoi amici, che facevano di tutto per risultare ancora più eccentrici degli abitanti del Quartiere Latino (e ci riuscivano). Nel suo viso attraente e affascinante c’era un leggero accenno a un qualche possibile antenato remoto, una sfumatura di un qualche sangue forte, robusto, incontenibile, inestimabile in piccole dosi, come il vino bianco secco spagnolo chiamato montijo, che non si beve da solo, ma senza il quale non si può fare lo sherry, o come una goccia di sangue di bulldog – forse non i più belli tra i cani – che non può mancare a nessun levriero che voglia essere un campione. O, almeno, è quanto dicono i commercianti di vino e gli appassionati di cani, che come sapete sono tra le persone più veraci al mondo. E per fortuna, la maggior parte di noi ha sangue misto nelle vene, che si veda o meno. E se non vi va, tant pis pour les autres! Tanto peggio per gli altri!

Mentre il Piccolo Billy divorava il suo tozzo di pane e salsiccia, osservava come venivano abbattute le case di fronte, in Place St. Anatole des Arts, per evitare che prima o poi crollassero da sole. Nelle aperture vedeva muri scoloriti, cadenti, screpolati, squallidi, con finestre misteriose e balconi con balaustre di ferro arrugginito

15
Parte prima

da secoli, scorci che gli portavano in dote sogni d’amore, malvagità e crimini medievali, di una Francia ormai perduta.

Da una spaccatura tra le case poteva scorgere il fiume, la Cité e la Morgue, il vecchio e minaccioso obitorio; un po’ più a destra si ergevano le torri grigie di Notre Dame; il cielo d’aprile era attraversato dalle nubi. E poi, in effetti, era come se davanti a lui si stendessero tutti i tetti della città, che gli sembrava di poter conoscere con un piccolo sforzo di immaginazione.

Parigi. Parigi. Parigi!

Il nome stesso era come un’evocazione, una parola magica, detta tra le labbra, scritta o stampata. Un’idea in cui lui stesso ora viveva e imparava, finché gli fosse andato, per diventare il grande artista che desiderava essere.

Finì il pasto, si accese la pipa, si buttò sul divano e sospirò profondamente, per l’eccessiva soddisfazione del suo cuore.

Non aveva mai conosciuto una felicità del genere, non ne aveva mai nemmeno sognato la possibilità. Eppure la sua era stata una vita felice. Era giovane e tenero, il Piccolo Billy; non aveva mai

16

Parte prima

frequentato la scuola, ed era ignaro del mondo e delle sue crudeltà; ignaro soprattutto del francese e delle vie più oscure del Quartiere Latino. Era stato cresciuto ed educato in casa, aveva trascorso la sua infanzia a Londra con la madre e la sorella, che ora vivevano modestamente nel Devonshire. Suo padre, defunto, lavorava al Tesoro.

E lui e i suoi due amici, Taffy e il Marchese, avevano preso questo studio insieme. Il Marchese dormiva lì, in una piccola camera da letto dietro alle tele. Taffy aveva una camera all’Hôtel de Seine, nella via omonima. E il Piccolo Billy alloggiava all’Hôtel Corneille, in Place de l’Odéon.

Guardò quegli altri e si domandò se mai qualcuno, vivo o morto, avesse mai avuto una coppia di amici splendidi come loro.

Qualsiasi cosa facessero, qualsiasi cosa dicessero, era semplicemente perfetta; erano le sue guide, i suoi filosofi, non solo i suoi amici. E si sapeva che Taffy e il Marchese erano affezionati al ragazzo come non mai. La sua assoluta fiducia in tutto ciò che dicevano e facevano li commuoveva, tanto più che erano consapevoli del fatto che andava un filo oltre rispetto ai loro meriti. La sua purezza d’animo – quasi femminile – li divertiva e li affascinava, e volevano preservarla, soprattutto in quel quartiere, dove era difficile rimanere puri così a lungo.

Gli volevano bene per il suo carattere dolce, i suoi modi vivaci e affettuosi; e lo ammiravano molto di più di quanto lui non sapesse, perché riconoscevano in lui una rapidità, un’acutezza, una delicatezza di percezione, un gusto per forme e colori, una misteriosa facilità e felicità di esecuzione nel disegno, una consapevolezza di tutto ciò che vi è di bello in natura e la prontezza di esprimerlo che loro non possedevano

allo stesso modo. Non dovevano sforzarsi troppo per pensare a lui come a un autentico talento. Di quello che o si ama o si odia, a seconda del proprio carattere.

Taffy e il Marchese lo amavano. Amavano moltissimo il Piccolo Billy, anche se lui non si interessava ai loro quadri. Non sembrava neppur aver notato il toreador chitarrista del Marchese, né la dama oggetto della serenata. E guardava in silenzio le opere realiste di Taffy (perché Taffy era un realista), e come sapete bene, niente mette a dura prova un’amicizia come quel tipo di silenzi.

A dirla tutta, quando andavano tutti e tre al Louvre, il Piccolo Billy non sembrava curarsi molto nemmeno di Tiziano, né di Rembrandt, né di Velázquez, Rubens, Veronese o Leonardo. Guardava le persone che guardavano i quadri, piuttosto. Soprattutto le persone che li copiavano, le giovani e affascinanti pittrici che gli sembravano ancora più affascinanti di quanto non fossero in realtà, e guardava molto fuori dalle finestre del Louvre, dove c’era molto da vedere: c’era altra Parigi, là fuori. E di Parigi lui non ne aveva mai abbastanza.

Ma quando, ebbri di tanta bellezza, andavano a cenare tutti e tre insieme, e Taffy e il Marchese iniziavano a discutere di quanto avevano visto, e bisticciavano sui meriti o i demeriti di quei maestri, lui ascoltava con deferenza e attenzione, rapito, concordava ossequioso con tutto ciò che dicevano, e intanto tracciava buffi schizzi a penna e inchiostro dei due amici che battibeccavano (e che poi inviava alla madre e alla sorella, a casa); disegni così vivi, così reali, che si potevano quasi sentire le parole che dicevano; così splendidamente disegnati che si aveva l’impressione che i vecchi maestri non avrebbero potuto disegnarli meglio; e così irresistibilmente divertenti che gli stessi vecchi maestri erano ormai superati, così come Milton non sarebbe stato in grado di descrivere la lite tra Sairey Gamp e Betsy Prig come invece aveva fatto Dickens nel suo Martin Chuzzlewit.

18
Trilby

Parte prima

E mentre erano tutti e tre così affaccendati e concentrati nei loro pensieri, furono interrotti da qualcuno che bussava con forza alla porta, e, poco dopo, due altri uomini fecero il loro ingresso nello studio.

Il primo era un individuo alto e ossuto, di età indefinibile ma compresa tra i trenta e i quarantacinque anni, bello e sinistro. Era trasandato, sporco, e indossava un berretto rosso e un grande mantello di velluto, con una grossa spilla di metallo al collo. I suoi capelli neri, spessi, pesanti, cadenti e privi di lucentezza gli ricadevano dietro le orecchie sulle spalle, con uno stile da musicista che gli inglesi trovavano spesso offensivo. Aveva occhi neri, audaci e brillanti, le ciglia lunghe e pesanti, un viso magro e malinconico, e una barba di un nero bruciato che gli arrivava quasi sotto le palpebre; e baffi di una tonalità più chiara, in due lunghi intrecci a spirale. Era Svengali, uno straniero che però parlava un francese fluente, con accento tedesco, e audaci giochi di parole, con la voce sottile, aspra, che spesso sconfinava nel falsetto.

Il suo compagno era un giovanotto bruno, dal volto di strada, butterato dal vaiolo e malandato. Aveva grandi occhi marroni, dolci e affettuosi, come quelli di un cane. Mani piccole, nervose, venose, con le unghie rose fino alla punta, e un violino sotto il braccio, senza custodia, come se avesse appena smesso di suonarlo per strada.

«Buonciorno, bambini» disse Svengali. «Qvesto è il mio amico Checko, che suona il fiolino come un ancelo».

Il Piccolo Billy, che adorava tutti i girovaghi, diede a Gecko il benvenuto più caloroso che il suo francese gli consentì.

«Ah, un pianoforte!» esclamò Svengali, gettando il berretto sul piano e il mantello in terra. «Spero che sia ben accordato, e di qvalità!»

Si mise sullo sgabello, suonò un paio di scale, su e giù, con la facilità, la fluidità e il tocco di un vero maestro.

19

Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di marzo 2024 con un processo di stampa e rilegatura certificato 100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI

George du Maurier nacque a Parigi nel 1834, da padre francese e madre inglese, e morì a Londra nel 1896. Appassionato pittore in gioventù, divenne poi disegnatore per la storica rivista satirica inglese “Punch”. Negli ultimi anni della sua vita, anche a causa di seri problemi alla vista, si dedicò invece alla scrittura e pubblicò tre romanzi, raggiungendo un immenso successo grazie a Trilby. Il suo grande talento letterario fu ereditato e onorato dalla nipote, la scrittrice Daphne du Maurier.

Immagine di copertina: © Svitozar Bilorusov / Arcangel

Progetto grafico: Camille Barrios / ushadesign

Trilby O’Ferrall, fascinosa modella “dal vivo” dei grandi atelier parigini, incontra tre giovani artisti, che si innamorano all’istante di lei. Intorno al quartetto si forma un gruppo di pittori, musicisti e intellettuali dediti alle arti e al piacere. Le vite dei giovani bohémien si intrecciano tra le strade di una Parigi gotica e seducente, ma sui loro destini grava l’ombra del violinista Svengali, un uomo senza scrupoli intenzionato a sfruttare Trilby per diventare ricco.

Primo vero bestseller della letteratura moderna, Trilby è il romanzo da cui ha avuto origine il mito della bohème. Con questa traduzione d’autore arriva per la prima volta nelle mani dei lettori italiani.

“Trilby era venuta lì per condurre una vita libera e disinvolta tra gli artisti del Quartiere Latino di Parigi: la vita della bohème!”

Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.