Aru Shah e la fine del tempo. La saga delle Pandava

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Universale d’Avventure e d’Osservazioni

UAO

Roshani Chokshi

Aru Shah e la fine del tempo. La saga delle Pandava traduzione dall’inglese di Sandro Ristori

ISBN 979-12-221-0294-8

Prima edizione italiana marzo 2024

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Titolo dell’edizione originale inglese:

Rick Riordan Presents Aru Shah and the End of Time. A Pandava Novel – Book 1 Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti

da Disney • Hyperion Books, un marchio di Buena Vista Books, Inc. Pubblicato in accordo con l’autore, tramite Sandra Dijkstra Literary Agency e The Italian Literary Agency

© 2018 Roshani Chokshi

Per l’introduzione © 2018 by Rick Riordan

Rick Riordan Presents è un marchio di Buena Vista Books, Inc.

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ROSHANI CHOKSHI

t LA SAGA DELLE PANDAVA t

traduzione di Sandro Ristori

Alle mie sorelle: Niv, Victoria, Bismah, Monica e Shraya. Ci servirebbe una canzone tutta nostra, una sigla!

Aru Shah

sta per farvi esplodere il cervello!

Vi è mai capitato di leggere un libro e pensare: “Wow, vorrei averlo scritto io!”? A me è successo con il volume che avete tra le mani. Aru Shah e la fine del tempo ha tutto ciò che amo in un romanzo: umorismo, azione, personaggi memorabili e, naturalmente, una meravigliosa mitologia!

Però io non avrei mai potuto scriverlo. Non ne sarei stato in grado. Ci vogliono le competenze, ci vuole un’intima padronanza della materia per affrontare un mondo sterminato e incredibile come quello della mitologia indù. E figuriamoci quanta abilità ci vuole per rendere tutto questo divertente e affascinante per i lettori.

Per nostra fortuna, c’è Roshani Chokshi.

Se non sapete niente dell’argomento, preparatevi a restare a bocca aperta! Pensate che Zeus, Ares e Apollo siano il top? Be’, aspettate di conoscere Hanuman e Urvashi. E se Vortice vi è sembrata un’arma superfica, tra queste pagine troverete un’intera collezione di astra divine, dalle mazze alle spade, dagli archi alle reti intessute di fulmini. C’è l’imbarazzo della scelta, e decidere

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ARU SHAH E LA FINE DEL TEMPO

non sarà facile… ma sarà necessario, credetemi, perché se avete trovato spaventosa Medusa, sappiate che non è niente in confronto a nagini e raksha.

Aru Shah è una ragazza sveglia, ha un caratterino niente male, va alle medie e sta per finire nell’occhio di un ciclone a dir poco pazzesco, in un’avventura che vi farà esplodere il cervello… in senso buono, eh. Anzi, nel senso migliore che esista.

Se siete esperti di mitologia indù, davanti ai vostri occhi sta per andare in scena il raduno di famiglia più divertente della storia. Dèi, demoni, mostri, cattivi ed eroi: il meglio del meglio, i vostri preferiti, tutti riuniti insieme, o quasi. Vi librerete nei cieli e verrete scagliati negli abissi infernali. Conoscete già alcuni di questi miti? Ne conoscete tanti ? Non fa niente: sono pronto a scommettere un pacchetto di Twizzlers che imparerete comunque qualcosa di nuovo.

Devo confessarvi che sono entusiasta di condividere questo libro con voi. Sul serio, non sto nella pelle.

E allora cosa stiamo aspettando? Aru Shah è nel Museo dell’Arte e della Cultura dell’Antica India, dove lavora sua madre. In questi giorni non si va a scuola, ci sono le vacanze, e Aru è abbastanza sicura che oggi si annoierà a morte.

Però si sbaglia. Ah, quanto si sbaglia.

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Il capitolo in cui Aru rimpiange di aver aperto la porta

Il problema, quando cresci in mezzo a un sacco di cose davvero pericolose, è che alla fine ti ci abitui. E in pratica Aru viveva da sempre nel Museo dell’Arte e della Cultura dell’Antica India. Non riusciva nemmeno a ricordare un passato senza museo. Quante volte le era stato detto che non bisognava toccare –mai, per nessun motivo – la lampada in fondo alla Sala degli Dèi?

Ordinaria amministrazione, per lei. Era capace di parlare di una “lampada della distruzione” con la stessa tranquillità di un vecchio pirata che ha addomesticato un mostro marino e se lo porta a spasso buttando lì distrattamente un: “Ah, non farci caso, è solo il vecchio Ralph”. Insomma, era abituata alla lampada. Ma per quanto fosse abituata, non l’aveva mai accesa. Nemmeno una volta.

Perché era contro le regole. Quelle regole che doveva ripassare ogni sabato, quando accompagnava i visitatori nel tour pomeridiano del museo.

A molte persone non va proprio giù l’idea di lavorare nel weekend. Aru non l’aveva mai vista così. Per lei non era un lavoro.

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UNO

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Ai suoi occhi, semmai, era una cerimonia. O un segreto.

E allora chiudeva i tre bottoni a forma di ape del suo impeccabile gilet cremisi, si schiariva la gola, impostava la voce sulla tonalità “curatrice del museo” che era la specialità di sua madre, e iniziava. E la gente – questa era la parte migliore in assoluto – la ascoltava. Tutte quelle persone non le staccavano gli occhi di dosso. Soprattutto quando parlava della lampada maledetta.

Certe volte pensava che fosse l’argomento più affascinante di cui avesse mai discusso in vita sua. Perché, diciamocelo, vuoi mettere una lampada maledetta con, che ne so, una visita dal dentista? Non c’è paragone, no? Anche se pure andare dal dentista è una maledizione, a suo modo, ma non è questo il punto.

Aru viveva lì dentro da così tanto tempo che il museo non aveva più segreti per lei. Era cresciuta sotto il gigantesco elefante di pietra che troneggiava all’ingresso. Quante ore aveva trascorso seduta alla sua ombra, a leggere e a fare i compiti! E quante volte si era addormentata nella saletta della proiezione, e si era risvegliata un attimo prima che la voce gracchiante della guida registrata spiegasse che l’India aveva conquistato l’indipendenza dai britannici nel 1947. E vogliamo parlare di quel drago marino, una statua vecchia di quattrocento anni, che lei usava come nascondiglio per le caramelle? Lo aveva chiamato Steve. Era nell’ala ovest, e per la precisione le caramelle le teneva infilate in bocca.

Insomma, Aru sapeva tutto di tutto del museo. A parte una cosa…

La lampada. Quella sì che era ancora un mistero.

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«Non è esattamente una lampada» le aveva detto la dottoressa K.P. Shah, curatrice e archeologa di fama, nonché sua madre, la prima volta che gliel’aveva fatta vedere. «Noi la chiamiamo diya».

Aru ricordava bene quel momento. Il naso schiacciato contro la vetrina, gli occhi fissi su quel pezzo di argilla. Se esisteva una classifica delle reliquie maledette, quell’affare doveva essere il più noioso in assoluto. Sembrava un disco da hockey un po’ schiacciato. I bordi erano seghettati da piccoli segni simili a morsi. Tutto sommato, niente di che. Roba noiosa, appunto, normale. Eppure in qualche modo pareva che persino le statue che affollavano la Sala degli Dèi si tenessero a debita distanza. Come se non osassero avvicinarsi.

«E perché non la possiamo accendere?» aveva chiesto alla madre.

«Esistono delle cose che è meglio lasciare nell’oscurità» aveva risposto lei, a testa bassa, come se non riuscisse a fissarla negli occhi. «La luce non deve toccarle. E bisogna stare attenti a ciò che si illumina, perché non si può mai sapere chi guarderà».

Be’, Aru guardava. Era tutta la vita che guardava.

Ogni giorno, appena tornata da scuola, mollava lo zaino sulla proboscide dell’elefante di pietra e sgattaiolava furtiva nella Sala degli Dèi.

Era l’attrazione più popolare del museo, con le statue degli dèi indù di ogni forma e dimensione, a centinaia. La madre di Aru aveva fatto installare degli alti specchi sulle pareti, in modo che i turisti potessero ammirare ogni dettaglio da ogni angolazione. Gli specchi erano “vintage” (definizione che Aru aveva prontamente rifilato a Burton Prater, convincendolo a prendersi

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un vecchio penny verdastro in cambio di, udite udite, la bellezza di due dollari più mezza barretta di Twix!). Davanti alle finestre svettavano dei cespugli di mirto e degli alti olmi, quindi la Sala degli Dèi era immersa in una perenne penombra. La luce che riusciva a filtrare aveva una qualità particolare. Rarefatta. Ovattata. Sfiorava le statue con delicatezza, sembrava che indossassero corone splendenti.

E ogni volta Aru si fermava all’entrata, mentre lo sguardo veniva catturato dalle sue statue preferite: Indra, il re del cielo, con una folgore stretta nel pugno; Krishna con i suoi flauti; e poi Buddha, in meditazione, con le gambe incrociate e la schiena dritta…

A quel punto, inevitabile, gli occhi di Aru tornavano lì, sempre lì. Alla vetrina dove riposava la diya.

Era capace di restare immobile per minuti interi ad aspettare… cosa? Non lo sapeva nemmeno lei. Qualsiasi cosa che potesse rendere un po’ più interessante il giorno successivo o un po’ meno noiosa la scuola. Qualsiasi cosa che facesse capire alla gente che lei, Aru Shah, non era solo una studentessa come ce ne sono tante, una di quelle che stringono i denti e cercano di sopravvivere fino alla fine delle medie, no, perché lei era diversa, era straordinaria… Insomma, Aru aspettava la magia.

E la magia non arrivava mai. Ogni giorno era una delusione.

«Fate qualcosa» sussurrò alle statue degli dèi. Era lunedì ed era ancora in pigiama. «Senza fretta. Basta che fate qualcosa di fantastico. Prendetevi tutto il tempo che vi serve, tanto non c’è scuola. Vacanze di fine trimestre».

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Le statue non fecero nulla.

Aru scrollò le spalle e guardò fuori dalla finestra. Lì ad Atlanta, Georgia, gli alberi non si erano ancora resi conto che era arrivato ottobre. Avevano giusto un tocco di rosso e una spruzzata d’oro sulle cime, niente di più, come se qualcuno li avesse presi e rovesciati, intingendoli in un secchio di fuoco, prima di tirarli su e rimetterli al loro posto sul prato.

La giornata si annunciava piatta e vuota. Proprio come se l’aspettava Aru. E già questo avrebbe dovuto farle suonare un campanello d’allarme. Si sa che il mondo ha il brutto vizio di ingannare, ti fa credere di averti regalato una mattinata pigra e luminosa come il miele scaldato dal Sole che cola giù dal barattolo…. Ma la verità è che sta solo aspettando che tu abbassi la guardia.

E poi ti colpisce dritto al mento.

Pochi istanti prima che suonasse la campanella che segnalava l’arrivo di un nuovo visitatore, la madre di Aru sfrecciava su e giù nel bilocale collegato al museo. Leggeva tre libri contemporaneamente e nel frattempo parlava al telefono in una lingua tanto squillante che ricordava un concerto di campanellini. Aru invece se ne stava buttata sul divano a testa in giù e cercava di attirare la sua attenzione lanciandole addosso dei popcorn.

«Mamma. Mi porti al cinema? Se la risposta è sì non dire niente».

Sua madre rise al telefono. Aru fece una smorfia, di fronte a quel suono così delicato, così pieno di grazia. Perché invece quando rideva lei, pareva che si stesse strozzando?

«Mamma. Possiamo prendere un cane? Se la risposta è sì, non

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dire niente. Un mastino dei Pirenei. Lo chiamiamo Beowoof! Che te ne pare?»

Adesso la madre stava annuendo con gli occhi chiusi – classico segno che era davvero concentrata.

Su quello che le diceva la persona al cellulare, però. Non certo su Aru.

«Mamma. Possiamo…»

Breeeeep!

Breeeeep!

Breeeeep!

Sua madre inarcò un sopracciglio. Altro gesto molto aggraziato. Fissò sua figlia come a dire: “Sai cosa devi fare”. E in effetti sì, Aru sapeva davvero cosa doveva fare. Il problema era che non voleva farlo.

Si lasciò cadere giù dal divano e in un ultimo disperato tentativo di calamitare l’attenzione materna si trascinò a quattro zampe sul pavimento tipo Spider-Man. Impresa a dir poco difficile, considerando che il pavimento era disseminato di libri e tazze di tè chai mezzo vuote. Si girò e vide che sua madre stava prendendo appunti su un bloc-notes. Sconsolata, Aru aprì la porta e scese le scale.

La domenica il museo era chiuso, il lunedì invece era aperto ma i pomeriggi erano sempre tranquilli. Così tranquilli che Sherrilyn, responsabile della sicurezza e fin troppo paziente babysitter di Aru nei fine settimana, aveva la giornata libera. Tutti gli altri giorni, Aru dava una mano nel museo. Accoglieva i visitatori

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e distribuiva gli appositi cartellini, li indirizzava verso le varie sezioni, indicava dov’erano i bagni. Una volta aveva persino fatto un urlaccio a un turista che si era permesso di toccare l’elefante di pietra, ignorando il cartello, in realtà piuttosto esplicito, su cui era scritto: “Non toccare” (Aru riteneva che il divieto valesse per tutti tranne che per lei).

L’esperienza le aveva insegnato che di lunedì poteva aspettarsi al massimo qualche visitatore in cerca di un rifugio dalla pioggia. O qualche tizio venuto apposta a esprimere (sempre con molta gentilezza) i propri timori che al Museo dell’Arte e della Cultura dell’Antica India si venerasse il diavolo. O anche solo il corriere che chiedeva una firma per lasciare un pacco.

Quello che Aru non si aspettava, quando andò ad aprire la porta, era di trovarsi di fronte tre studenti della Augustus Day School. Avete presente quando l’ascensore si blocca di colpo e si sente la frenata nello stomaco? Ecco, Aru ebbe esattamente quella sensazione. Una tumultuosa corrente di panico che la prese dritta sulla pancia, whoosh, mentre sei paia di occhi la scrutavano dall’alto in basso. E lei era in pigiama. Il pigiama di Spider-Man.

Poppy Lopez, la prima della fila, incrociò le braccia al petto. Il viso abbronzato era cosparso di lentiggini, i capelli castani erano raccolti in uno chignon da ballerina. Il secondo, Burton Prater, tese la mano, mostrando la brutta monetina che teneva sul palmo. Era un ragazzo basso e pallido, con una maglietta a strisce nere e gialle che lo faceva sembrare un bombo sfigato. La terza, Arielle Reddy, la più carina della classe, con la pelle color ciocco-

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lato fondente e i luminosi capelli neri, si limitò a fissarla con uno sguardo di fuoco.

«Lo sapevo» disse Poppy, trionfante. «A matematica avevi detto a tutti che tua madre ti avrebbe portato in Francia per le vacanze».

Certo, perché mamma me l’aveva promesso, pensò Aru. L’estate precedente, di ritorno dall’ennesimo viaggio all’estero, si era buttata sfinita sul divano e un secondo prima di chiudere gli occhi e addormentarsi aveva stretto la spalla alla figlia e le aveva detto: “Forse in autunno ti porterò a Parigi, Aru. C’è un caffè lungo la Senna dove puoi sentire le stelle che escono un attimo prima che si mettano a danzare nel cielo notturno. Ci godremo boulangerie e musei, sorseggeremo caffè servito in tazzine piccole piccole, passeggeremo per ore nei giardini”.

Aru era rimasta sveglia tutta la notte fantasticando di stradine serpeggianti e di giardini talmente raffinati che persino i fiori avevano un’aria altezzosa. Il giorno dopo aveva rimesso in ordine la sua stanza e aveva lavato i piatti senza mai lamentarsi, con quella promessa che le riecheggiava in testa. Era diventata la sua armatura, a scuola. Chiunque frequentasse la Augustus Day aveva almeno una seconda casa per le vacanze in località esotiche tipo le Maldive o la Provenza. Era gente che sbuffava infastidita quando lo yacht privato doveva andare in riparazione. Il sogno di quel viaggio a Parigi aveva preso per mano Aru e l’aveva portata un po’ più vicina a sentirsi parte del gruppo.

Adesso cercò di non scomparire sotto gli occhi azzurri di Poppy. «Mia madre aveva una missione top secret per conto del museo. Quando succede non mi può portare con sé».

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Quest’ultima parte non era una bugia. Sua madre non l’aveva mai portata in un viaggio di lavoro.

Burton lasciò cadere la monetina verdastra. «Mi hai imbrogliato. Io ti ho dato due dollari!»

«E in cambio hai ricevuto una moneta vintage…» provò a ribattere Aru.

Arielle la interruppe subito. «Sappiamo benissimo che stai mentendo, Aru Shah. E menti perché sei una bugiarda. Appena torneremo a scuola, lo diremo a tutti…»

Fu come se qualcuno le avesse preso lo stomaco e lo avesse stretto nel pugno. Quando aveva messo piede per la prima volta alla Augustus Day School, un mesetto prima, traboccava di speranze. Che però non erano sopravvissute molto.

Lei non era come gli altri studenti. La mattina non arrivava a bordo di un’elegante macchina nera. Non aveva case “oltremare”. E anche a casa sua non aveva uno studio e nemmeno una veranda, solo una stanza, anzi, più che altro un ripostiglio affetto da manie di grandezza.

Quello che aveva, però, e in abbondanza, era l’immaginazione. Era tutta la vita che sognava a occhi aperti. Ogni fine settimana, mentre aspettava che la madre rientrasse dal lavoro, si inventava una nuova storia: in realtà era la figlia di una spia, o di una principessa a cui era stato rubato il trono, oppure di una strega.

Sua madre non voleva mai partire per quelle trasferte di lavoro, o almeno così sosteneva, però per tenere in piedi il museo non se ne poteva fare a meno. E anche quando era a casa si scordava un sacco di cose, tipo le partite a scacchi di Aru o le prove del co-

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ro, ma non perché non le importava: era solo troppo impegnata a portarsi sulle spalle il mondo intero.

E così, ogni volta che a scuola qualcuno le chiedeva qualcosa, Aru raccontava una storia. Una di quelle che raccontava anche a se stessa. Racconti di città che non aveva mai visto, di cibi che non aveva mai mangiato. Le scarpe che portava erano consumate? Certo, perché aveva dovuto mandare quelle che aveva prima in Italia, per farle rimettere a nuovo. Tutti le rifilavano quelle occhiatine di delicato disprezzo, ma lei aveva imparato a gestire la cosa. Aveva imparato anche a sbagliare apposta i nomi dei negozi, e infatti non faceva acquisti da Target o da Walmart, no, si riforniva da Tar-Jay in Francia e da Vahl-Mahrt, in Germania.

Se proprio si ritrovava con le spalle al muro, si limitava a dire con aria di superiorità: “Fidati, è un brand che non conosci”.

Era così che si era integrata.

Il suo castello di bugie aveva retto. Per un po’. Poppy e Arielle l’avevano addirittura invitata a trascorrere un fine settimana al lago. Ma Aru aveva rovinato tutto. Arielle l’aveva beccata accanto alla fila delle macchine in attesa di accogliere i rispettivi passeggeri e le aveva chiesto quale fosse la sua. Aru ne aveva indicata una a caso. “Strano, perché è quella del mio autista” aveva risposto Arielle, con il sorriso che si trasformava in una smorfia.

La stessa che le tendeva le labbra adesso, mentre la fissava.

«Hai detto pure che hai un elefante» aggiunse Poppy.

Aru indicò la statua di pietra alle sue spalle. «E infatti eccolo!»

«Ma hai detto che lo tenevano in gabbia in India e che tu lo hai salvato!»

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«Be’, mia madre mi ha detto che è stato recuperato da un tempio, che è un modo più elegante di dire che è stato salvato…»

«E hai detto che hai una lampada maledetta» concluse Arielle.

Aru guardò il telefono di Burton. C’era una lucetta rossa. Fissa, implacabile.

Stava registrando!

Panico. E se il video fosse finito online? Le scelte erano due:

1) Poteva sperare che l’universo si muovesse a pietà e la riducesse in cenere in tempo utile per evitare il rientro a scuola, oppure 2) poteva cambiare nome, farsi crescere la barba e trasferirsi all’estero.

Oppure poteva togliersi dai guai con un colpo di coda…

Facendo vedere a quei tre qualcosa di impossibile.

«La lampada maledetta esiste davvero» disse. «E posso dimostrarvelo».

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Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di febbraio 2022 con un processo di stampa e rilegatura certificato

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