Anteprima Autografie

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34 Utilitaria d’artista CitroÍn 2CV. Nata per soddisfare le esigenze di un determinato periodo storico della Francia, grazie all’intelligenza del suo progetto e alla genialità del designer-artista Flaminio Bertoni, si trasforma ben presto in una vettura trasversale


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iace agli automobilisti di ogni età e strizza l’occhio alle donne, è ricercata fra gli appassionati del tuning, diviene protagonista nelle gare su piste sterrate e si dimostra ideale per gli amanti dell’avventura in terre ostili. Quando nel 1987 esce l’ultimo esemplare dalla linea di Levallois, dopo circa dieci milioni di unità prodotte (comprese le derivate), un velo di tristezza cala tra i suoi appassionati. Ma ancora oggi non è difficile incontrarla sulle strade in normale assetto di servizio. La storia della 2CV comincia alla metà degli anni Trenta, quando Pierre Boulanger, codirettore di Citroën assieme a Pierre Michelin, decide di realizzare una vettura destinata ai contadini. Una sorta di ombrello su quattro ruote in grado di raggiungere 50-60 km/h, caricare 50 kg di patate o una grossa damigiana, percorrere strade accidentate trasportando un paniere pieno di uova senza che si rompano, facile da guidare per i neopatentati e le donne delle fattorie, in modo che gli uomini possano continuare il lavoro nei campi. Inoltre dev’essere molto leggera, utilizzare un motore di piccola cilindrata, percorrere almeno 50.000 km senza alcuna sostituzione meccanica, avere costi di manutenzione bassissimi e, a fronte di una qualità impeccabile, un prezzo contenuto: un terzo rispetto alla Traction Avant. L’estetica? Come viene viene: la TPV (Toute Petite Voiture) deve servire e basta. A disposizione di Citroën vi è l’équipe che

ha realizzato la Traction Avant: l’ingegner André Lefèbvre per la meccanica e Flaminio Bertoni per la linea. Si parte nel 1936. Le limitazioni di peso suggeriscono una carrozzeria autoportante, mentre il motore è di 375 cc con raffreddamento a liquido, ispirato al bicilindrico boxer motociclistico della BMW. Inizialmente Bertoni viene lasciato fuori dal progetto perché secondo Boulanger la vettura non dev’essere bella. In effetti non lo è: un telo montato ad arco su una carrozzeria con fianchi verticali, un lungo cofano in lamiera ondulata, parafanghi sporgenti e un abitacolo davvero sobrio. Tuttavia, la vettura offre spunti di interesse. La difficoltà di saldare l’alluminio senza abbondare nelle quantità e quindi nel peso indirizza i tecnici ad assemblare tutti i componenti tramite viti e bulloni, rendendoli facilmente sostituibili. L’abitacolo è spazioso e offre spartani ma funzionali sedili in tela, con schienale appeso alle centine del padiglione. Il volante è quasi orizzontale per evitare rinvii e la leva del cambio è un tubo dritto che sbuca dal centro della plancia (solo in seguito verrà curvato verso l’alto) e va ad accoppiarsi sulla leva che esce dal blocco motore. Questo è montato anteriormente e trasmette il moto alle ruote anteriori: l’opposto del contemporaneo Maggiolino. La trazione anteriore e le sospensioni a barre di torsione morbide e a lunga escursione garantiscono capacità di disimpegno su

ogni tipo di fondo, insieme a un’ottimale tenuta di strada. L’avviamento è a manovella. I freni sono a tamburo con gli anteriori che presto acquisiscono l’impianto idraulico. Dal 1937 al 1939 si costruiscono ben 49 prototipi, che precedono una produzione preserie di 250 unità, ma con lo scoppio della guerra solo una vettura è ultimata. Insieme ai prototipi viene smontata e nascosta per impedire ai tedeschi di carpirne i segreti. Il progetto viene ripreso a guerra ultimata e Flaminio Bertoni realizza di nascosto un prototipo che diventerà la base di partenza della vettura. Rimangono l’impostazione generale, la capote ad apertura totale (in entrambi i sensi) e le fiancate verticali. Ma la linea è ora più gradevole, con i parafanghi più evidenti e arrotondati, il cofano più gentile e i due fari circolari in luogo del singolo centrale. Nell’abitacolo i sedili dispongono di una più tradizionale struttura tubolare ancorata al pavimento. La leva del cambio acquista la caratteristica curvatura all’insù e viene introdotta la regolazione del fascio fari dall’interno, a mezzo di una grossa manopola. Cambiano molti elementi anche sotto il profilo tecnico e strutturale. L’alluminio viene abbandonato a favore del più pratico (e meno costoso) acciaio, le sospensioni vengono evolute abbinando alle barre di torsione una connessione idraulica tra i due assali e i freni sono tutti a comando idraulico. Il motore acquisisce il raffreddamento

L’essenziale. Tre alternative della caratteristica vista laterale della 2CV negli schizzi dell’epoca


Less is more. La prima versione della 2CV, da cui Bertoni ricaverà lo stile definitivo per la vettura.

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ad aria: è costruito in acciaio e con 375 cc eroga 8 CV corrispondenti a due cavalli fiscali. È abbinato a un cambio a quattro rapporti, anche se Lefèbvre ne voleva solo tre per semplicità, e dispone di avviamento elettrico e a manovella. La vettura viene presentata ufficialmente al salone di Parigi del 1948 stupendo tutti e riscuotendo ampio successo di pubblico. È lunga 3,8 metri, pesa circa 500 kg, raggiunge 65 km/h e consuma appena 4,5 litri di benzina ogni 100 km. Inoltre ha un prezzo davvero imbattibile: 228.000 franchi. Abbina al notevole spazio e al buon comfort caratteristiche spartane, come l’assenza degli indicatori di direzione elettrici e delle serrature alle portiere. Nel complesso è un

oggetto davvero affascinante, che inizia a fornire prova di versatilità e robustezza. La sua capote «totale» la trasforma in un’economica cabriolet quattro posti e la sua criticata carrozzeria avvitata consente di ridurre tempi e costi delle riparazioni: con qualche attrezzo e un minimo di impegno è facile smontarne e rimontarne gli elementi. Grazie all’architettura del motore, poi, è possibile sostituire le valvole smontando solo i parafanghi. La 2CV introduce inoltre il concetto di «famiglia»: il suo pianale e la sua meccanica verranno utilizzati per le varianti Furgonetta, la fuoristrada Mehari con carrozzeria in materiale plastico, la spigolosa Dyane e la Ami 6. Davvero niente male per un pro-

dotto nato per una specifica mission. Con il passare degli anni, i motori aumentano di cilindrata, arrivano piccolissimi interventi di dettaglio, nascono versioni ricercate come la Charleston. E la 2CV continua a mettere sulla strada concetti di robustezza, versatilità e affidabilità che la proiettano verso la leggenda. A questo collabora attivamente anche la linea che – a parte il cofano anteriore modificato nel 1963 – rimane quella di partenza, semplicemente perché non può essere evoluta senza stravolgere la vettura. Questa forma tondeggiante diventa un’icona, simbolo di un modo di vivere l’automobile che travalica tempi e mode. Proprio come solo gli oggetti d’arte sanno fare.


L’auto del popolo Volkswagen Type 1. La vettura per il popolo voluta da Hitler negli anni Trenta è diventata mito. Prodotta ininterrottamente sino al 2003 è l’auto più longeva del mondo e l’europea più venduta, con oltre 21,5 milioni di esemplari

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a storia del «Maggiolino» s’inserisce in un contesto storico ben preciso e ha come protagonisti Adolf Hitler e Ferdinand Porsche. Nel 1925, Adolf Hitler, in prigione per aver tentato un colpo di stato, legge una biografia di Henry Ford con la storia del modello T e inizia a pensare a una «vettura del popolo» per la Germania. Quando nel 1933 viene eletto primo ministro, in tutto il mondo si sta lavorando per far ripartire l’economia; l’America punta sull’industria automobilistica e anche in Europa cresce l’esigenza di un mezzo di trasporto individuale. Hitler elimina alcune restrizioni fiscali che rendono l’auto un prodotto per pochi e costruisce le prime autostrade. Nel 1934 incontra Ferdinand Porsche, un valente tecnico che ha già proposto, senza successo, questo tipo di vettura alla Mercedes e alla Zundapp e che nel 1950 fonderà la famosa casa di auto sportive il cui controllo sarà rilevato da figlio Ferry. Secondo i dettami di Hitler l’auto da realizzare deve trasportare cinque persone o tre soldati e un mitragliatore; disporre di un motore robusto, possibilmente raffreddato ad aria; raggiungere 100 km/h, con un consumo medio di 7 l/100 km; costare non oltre i 1000 marchi (un operaio ne guadagna da 110 a 130 al mese); essere pronta in dieci mesi. Le ultime due condizioni appaiono restrittive; in particolare il prezzo: la più economica vettura dell’epoca, la Opel P4, costa 1500 marchi, il 50 per cento in più.

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38 Inconfondibile. La famosissima sagoma arrotandata del Maggiolino

Ma la sfida esalta le capacità di Ferdinand Porsche, che si mette al lavoro. Tra il 1935 e il 1936 realizza i prototipi V1, V2 e V3: una berlina, una cabriolet e una seconda berlina in tre varianti. Tutti i modelli vengono costruiti nel garage di casa Porsche a Stoccarda: il neonato marchio Volkswagen non dispone ancora di uno stabilimento. La V3 ha un linguaggio originale: dispone di una linea tondeggiante che genera un Cx di 0,41. Il frontale e la zona posteriore spiovono verso il basso e le ruote sono alloggiate sotto prominenti parafanghi. Il parabrezza è piatto, manca la vetratura posteriore; i parafanghi anteriori integrano i fari montati verticalmente.

Un’impostazione generale offerta anche dalla contemporanea Citroën 2CV. Ma se la creatura di Bertoni ha una meccanica «tutto avanti», qui siamo in presenza di una soluzione «tutto dietro». Il motore è un bicilindrico raffreddato ad aria, con due cilindri paralleli di 985 cc, erogante 23,5 CV, già dotato di rivoluzionarie (per l’epoca) valvole in testa, pur se azionate tradizionalmente tramite aste e bilancieri, e un albero a camme centrale nel basamento. Il telaio è portante a piattaforma e le sospensioni sono a ruote indipendenti, con barre di torsione. Freni a tamburo con comando idraulico. Le tre varianti della V3 iniziano un test di cinquantamila chilometri sulle strade tedesche.

Da questa esperienza nascono trenta esemplari di preserie, con la collaborazione di Daimler-Benz e della carrozzeria Reutter. Nel 1938 la vettura è pronta per essere costruita nelle varianti berlina e cabriolet e si procede alla posa della prima pietra del nuovo stabilimento produttivo, denominato KDF-Wagen-Stadt, l’attuale Wolfsburg. Tra il 1938 e il 1939 vengono costruite cento berline e sono allestite tre coupé aerodinamiche derivate dal progetto Porsche 60, con motore da 32 CV e 130 km/h. Scoppia la guerra. Volkswagen riconverte rapidamente la sua produzione, allestendo la famosa Kübelwagen (Type 82), l’ anfibia Schwimmwagen (Type 166) dotata di elica e la Kommandeurwagen, sulla base dellla nuova berlina, con quattro ruote motrici, rapporti accorciati e tetto in tela. Alle fine del conflitto gli stabilimenti di Wolfsburg sono quasi completamente distrutti. Gli alleati pensano di radere tutto al suolo, ma l’ufficiale inglese Ivan Hirst salva l’azienda a favore dell’esercito britannico: tra il 1946 e il 1947 si producono circa mille Volkswagen al mese per i militari alleati. Tra l’altro, il durissimo collaudo della guerra porta a migliorare robustezza e affidabilità della vettura, che ha la capacità di partire sempre al primo colpo, in ogni situazione climatica. Dovendo rientrare in Inghilterra, Hirtst affida la direzione della Volkswagen a


Heinz Nordhoff, che eleva il ritmo produttivo e nel 1949 vende circa cinquantamila esemplari. A partire dal 1950 la Volkswagen apre filiali in Brasile, America, Messico e Sud Africa. Nello stesso anno viene operato il primo restyling estetico e tre anni dopo nasce una nuova serie con lunotto posteriore unito, in luogo di quello separato. Il motore aumenta di cilindrata e di potenza, salendo a 1192 cc e 30 CV.

Evoluzione. Lo stile del Maggiolone è più moderno e ricercato del Maggiolino, ma ne conserva carattere e simpatia

Nel 1955 si celebra il milionesimo esemplare prodotto e s’introducono i doppi terminali cromati di scarico, gli schienali regolabili e i celebri paraurti rinforzati. Un secondo restyling è affidato a Pininfarina intorno al 1958. Il grande «sarto» non ha dubbi: si può migliorare solo la luminosità interna ingrandendo il lunotto posteriore. L’abitacolo dispone di una plancia in lamiera simmetrica: due portaoggetti e due strumenti.

Verrà poi mutata in quella con strumentazione di fronte al guidatore, maniglia appiglio passeggero e cassetto portaoggetti sulla destra; in contemporanea arriverà il volante a calice, con mezzaluna cromata per l’avvisatore acustico. La linea di cintura è alta, la posizione di guida avanzata e il confort è buono, ulteriormente migliorato dalle grosse ruote, dal 1957 equipaggiate con pneumatici tube­less. Si mette in moto il volano evolutivo che vedrà crescere ancora la potenza del motore (1.2 fino a 34 CV), introdurre (1965) un cambio totalmente sincronizzato, ritoccare leggermente la linea della coda, migliorare le sospensioni, dotare lo sterzo di ammortizzatore idraulico. Tra versioni berlina, berlina tetto apribile e cabriolet sarà un continuo aggiornamento. Le cabriolet vengono prodotte (fino al 1980) dalla carrozzeria Karmann, che allestisce anche la compatta e profilata coupé Karmann-Ghia. All’inizio degli anni Settanta al Maggiolino si affianca il Maggiolone, battezzato così per l’aumento delle dimensioni dato dalle sospensioni Mc Pherson anteriori; i motori sono da 1.2, 1.3 e 1.5 litri. Nel 1973 il Maggiolone acquisisce il parabrezza panoramico ed è l’ultima modifica estetica della vettura. Nel 1978 l’ultimo Maggiolino lascia la linea di montaggio di Wolfsburg, ma continua a essere prodotto in Messico sino ai primi anni Duemila.



Coupé tricolore Cisitalia 202 (1947). «Scultura in movimento»: così, nel 1951, la Cisitalia 202 viene presentata al MoMA di New York. Da allora continua ad affascinare chi visita le sale di uno fra prestigiosi musei del mondo

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un doveroso omaggio al primo coupé italiano, un gioiello della seconda metà degli anni Quaranta che ha rivoluzionato il modo di intendere l’auto sportiva, oltre ad aver introdotto soluzioni tecniche e formali valide ancora oggi. Non potrebbe essere altrimenti; in questo modello confluiscono la passione smisurata e la capacità tecnica di Piero Dusio,

Dante Giacosa, Giovanni Battista Farina e Giovanni Savonuzzi, personaggi che hanno lasciato una traccia importante nella storia dell’automobile. Siamo negli anni Quaranta, a Torino (il capoluogo piemontese è sempre al centro delle vicende legate all’automobile). Piero Dusio è un facoltoso industriale, presidente della Juventus e bravo pilota con il sogno di costruire vetture da corsa.

41 Questione di stile. La Cisitalia 202 è l’emblema della semplicità e dell’eleganza della linea Pininfarina


42 L’icona coupé. Cofano lungo e abitacolo arretrato sono la chiave della silhouette di questa vettura

Per realizzarlo, organizza un nuovo reparto nelle sue officine Cisitalia (Compagnia Industriale Sportiva Italia) di corso Peschiera, dove già si costruiscono le biciclette Beltrame e attrezzature per officine meccaniche. L’avventura inizia quando, con l’appoggio di Piero Taruffi, viene costruita la monoposto D46: utilizza il motore modificato della Fiat 1100 S (60 CV), la trazione posteriore con albero di trasmissione abbassato, le sospensioni derivate dalla Fiat 500 Topolino, un inedito telaio a traliccio in tubi (allestito dopo aver scartato quello della Topolino) e un innovativo cambio semiautomatico a tre rapporti, azionato dal pedale della frizione. La vettura è bella da vedere e decisamente efficace su strada. Fa il suo esordio nel 1946

a Torino, in occasione della Coppa Brezzi. Sul circuito del Valentino, uno squadrone di sette esemplari con lo stemma dello stambecco rampante viene pilotato da Dusio, Nuvolari, Sommer, Chiron, Taruffi, Cortese e Biondetti. Vince Dusio, Nuvolari arriva secondo anche senza volante, staccatosi dal piantone durante gli ultimi leggendari giri. Dusio inizia a pensare a un concetto diverso di vettura sportiva: una coupé con cui gareggiare, andare a spasso e recarsi a teatro. Ha idee chiarissime: «La voglio larga come la mia Buick, bassa come una vettura da Gran Premio, comoda come una Rolls Royce e performante come la D46». Input niente male, che spronano i suoi collaboratori anziché intimidirli. Per chiudere il

cerchio, si affida al gusto di Giovan Battista Farina (il futuro Pininfarina), a cui vien data carta bianca per rifinire quanto abbozzato dai progettisti Giacosa e Savonuzzi. Per uno stilista è la situazione ideale, come confermeranno i risultati. Negli stabilimenti Cisitalia è appena stata prodotta la spider “aerodinamica Savonuzzi”, sviluppata nella galleria del vento del Politecnico di Torino. Guidata da Nuvolari, arriva seconda alla Mille Miglia del 1947. Su questa vettura si baserà la nuova sportiva, battezzata Berlinetta 202 che, come dicevamo, rompe tutti i canoni dell’epoca. L’impostazione tecnica è fondata su un avanzato telaio a traliccio che, costituito da tubi al cromo-molibdeno, abbassa decisamente l’altezza della vettura.


43 Le sospensioni anteriori sono indipendenti con balestra trasversale; per il retrotreno, invece, viene montata una soluzione a ponte rigido con due balestre longitudinali. Il tutto è completato da ammortizzatori idraulici e freni a tamburo con comando idraulico. Le ruote sono a raggi tangenti con cerchi in alluminio e misurano 5,00x15”. Il passo è di 2400 mm, mentre le carreggiate anteriore/ posteriore misurano 1258/1247 mm. Il motore, sempre di derivazione Fiat 1100, è un 4 cilindri di 1089 cc con monoblocco in ghisa, testa in alluminio e albero a camme nel basamento, modificato con manovellismo e altri particolari realizzati da Cisitalia. Le bielle recano inciso il nome dell’azienda torinese: una raffinatezza.


Dinastie. L’evoluzione del concetto della Cisitalia è chiara nel coupé Aston Martin DB4 che ne incarna lo spirito e lo stile

L’alimentazione è mono o bicarburatore e l’accensione a spinterogeno. Il radiatore del circuito di raffreddamento prevede un disegno orizzontale per abbassare la linea del frontale, mentre un secondo radiatore raffredda il circuito dell’olio. Savonuzzi, nel progettare l’impianto di scarico, si ispira al silenziatore di una pistola americana. La soluzione adottata per il cambio della D46 (semiautomatico a tre rapporti) viene abbandonata in favore di un quattro marce

tradizionale, abbinato con frizione monodisco a secco. La potenza è di 50 CV a 5500 giri/min. Inferiore alla D46 ma, come vedremo, altrettanto valida. Per vestire queste soluzioni, Pininfarina confeziona un abito d’alta sartoria. Solo 3,40 m di lunghezza e 1,39 m di altezza per una carrozzeria che lascia a bocca aperta gli appassionati. Cofano lungo, coda corta e passaruota semicircolari; quelli posteriori, su cui poggiano i montanti, sono prominen-

ti. L’abitacolo impegna tutta la larghezza della vettura e il cofano anteriore è ribassato rispetto ai parafanghi. Siamo nel 1947 e nessuna sportiva dell’epoca è fatta così. Ma non basta. La parte frontale presenta proiettori integrati e un’originale mascherina a sviluppo orizzontale, con barre cromate verticali. Le prese d’aria laterali, tra passaruota e portiera, e il parabrezza, diviso in due parti, sono un’altra chicca.


45 Non è solo un fatto estetico: la carrozzeria, realizzata in lega di alluminio, è leggerissima e consente di contenere il peso della vettura in 780 chilogrammi. Questo, unito alla buona resa aerodinamica, consente di raggiungere i 160 km/ora, nonostante la potenza non certo elevata del motore. Un risultato di rilievo ancora ai giorni nostri. La 202 è proiettata nel mondo delle vetture di élite e Dusio non si lascia sfuggire occasione per allargarne gli orizzonti: con la versione cabriolet il progetto acquisisce anche l’eleganza della berlina. Conquista così personalità importanti: Henry Ford ne compra due, Roberto Rossellini sceglie la versione cabriolet per una romantica fuga d’amore con Ingrid Bergman e il MoMA di New York – che aveva chiesto a Pininfarina di inviare un’auto da lui carrozzata – si vede recapitare proprio una 202. Insomma, tutto pare procedere al meglio. Ma alcuni gravi problemi ne minano la diffusione. In primo luogo, il costo: circa 4.000.000 di lire. Per un’Italia in ricostruzio-

ne che fatica a motorizzarsi è il prezzo di un bell’appartamento. In più, la produzione procede a rilento e le consegne si fanno attendere forse troppo a lungo. Intanto Piero Dusio, ancora desideroso di realizzare una vettura da Grand Prix, investe ingenti capitali e stringe accordi con Carlo Abarth, Rudolf Hruska e Ferdinand Porsche per produrre il sofisticato modello 360: motore posteriore 12 cilindri a doppio compressore, trazione inseribile sulle quattro ruote e telaio in traliccio con parti in magnesio. Il progetto ha costi proibitivi e la Cisitalia precipita in una profonda crisi finanziaria. Nel 1949 è costretta a chiedere l’amministrazione controllata. Dusio trasferisce i progetti della 360 in Argentina, dove fonda la Società d’Esercizio Cisitalia per continuare a costruire anche la 202. Si ritira dalla sua azienda in modo definitivo nel 1953. Salda i debiti e, dopo aver chiuso personalmente la porta dello stabilimento, si reca in riva al fiume Po e getta in acqua l’albero mo-

Dinastie. Anche nelle forme dell’Aurelia B20 è chiara l’influenza stilistica della Cisitalia 202

tore della 360 che aveva tenuto per ricordo. Un atto di grande drammaticità. La produzione della 202 si arresta definitivamente. Tra coupé e cabriolet sono state prodotte 170 unità. L’azienda si trasformerà in Cisitalia Autocostruzioni, dedicandosi essenzialmente all’elaborazione di vetture Fiat: l’ultima è la 750 del 1963. Poi il silenzio. Tuttavia, la Cisitalia 202, straordinario connubio di stile e tecnologia, archetipo del coupé all’italiana, non mancherà di lasciare la sua traccia nella storia dell’automobile. Sebbene non sia stata prodotta su vasta scala e nonostante la difficile vicenda dell’azienda madre, la sua influenza si diffonderà ininterrottamente dal dopoguerra a oggi. Ha ispirato modelli entrati nel mito, sia per i richiami alle sue linee sia per l’impronta concettuale del suo design innovativo: dalla Lancia Aurelia B20 (1950) alla Aston Martin DB4 (1958), alla Ferrari 250 GT SWB (1961), e la sua eco continua ad avvertirsi anche nella recentissima BMW Z4 Coupé del 2003.


Il sogno americano Buick LeSabre 1951. Passione per l’aeronautica, linee fantasiose e una strategia formale coerente sono le coordinate per un nome con un fascino e una forza tali da essere utilizzato da General Motors fino al 2005

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a LeSabre ha definito nuovi parametri stilistici, fatti di dimensioni abbondanti, linee morbide, frontali importanti, pinne posteriori e ricche cromature. Diventeranno un must delle vetture USA e influenzeranno anche la produzione europea. Per esempio, la NSU Prinz e le Fiat 1300 e 1100 si richiamano in modo evidente alla Chevrolet Corvair e ad altri modelli con pinne posteriori, riproponendo in piccolo gli allestimenti di dimensioni «americane». Ma torniamo agli anni Cinquanta: il rock’n’roll spopola, nasce la beat generation, i programmi aerospaziali s’intensificano e l’automobile che «serve», predicata e costruita da Henry Ford, lascia spazio all’automobile che fa sognare, all’oggetto da coccolare e lucidare, simbolo di uno stile di vita più ricco e confortevole.

In America, Havey Earl (1893-1969) sa concretizzare questi sogni a quattro ruote. Personalità eclettica, figlio di un carrozziere, dopo aver studiato alla Stanford University si dedica al design automobilistico. Dalla fine degli anni Venti al 1959 lavora presso il gruppo GM, dove riversa passione, inventiva e conoscenza tecnica. Lascerà una traccia profonda non solo nello stile, ma in molteplici aspetti inerenti il mondo dell’auto. Istituisce il primo centro stile all’interno dell’azienda, una struttura per curare l’abito delle vetture che, prima del suo arrivo, era affidato ai progettisti. Realizza modelli tridimensionali in argilla, imposta le carrozzerie in modo innovativo: con parabrezza avvolgente, frontale imponente, grossi paraurti cromati, parafanghi integrati e pannelli lavorati per formare evidenti

volumetrie. Inoltre, introduce la verniciatura bicolore. Si occupa anche degli equipaggiamenti e introduce i quattro fari, l’antenna radio telescopica, i sedili riscaldati, gli alzacristalli elettrici e perfino la telecamera posteriore per le manovre, tutto senza mai tralasciare gli aspetti legati ai costi di produzione. La stessa idea di concept car porta la sua firma: un modo per lanciare proposte e sondare il mercato prima di produrle in serie; pratica normale oggi ma, all’epoca, ignorata dai costruttori americani. Nel 1938 realizza il concept Buick Y-Job: vettura due porte, lunga circa 6 m, con forme morbide, ampia mascherina cromata, parafanghi che emergono dalle fiancate (in modo parzialmente integrato, per confluire verso le portiere) e assenza di predellini laterali. È la summa dello stile di Harvey Earl e, per parecchi anni, sarà la sua vettura personale. Poi, nel 1951, la grande svolta: il prototipo di cabriolet due posti LeSabre, nome che richiama il famoso caccia F86 Sabre. La passione di Earl per l’aeronautica si evince dalla linea e da diversi particolari che contribuiranno a definire il «jet styling». Per svilupparlo ricorre a tutte le sue personali metodologie, compresa la realizzazione di una maquette in legno e gesso in scala 1:1. In questa vettura tutto è proteso al futuro e, in alcuni casi, rispecchia incredibilmente le esigenze odierne. A un primo impatto, della LeSabre colpiscono la linea della cintura (particolarmente bassa per una vettura americana dell’epoca) e le forme affusolate che vestono 5128 mm di



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lunghezza, 2014 di larghezza e 1270 mm di altezza. Poi spicca il frontale imponente e aggressivo, con al centro una presa d’aria ovale che ricorda la «bocca» di un motore a reazione e, subito sotto, una presa d’aria quadrangolare con una griglia cromata che richiama la forma di un’elica. La presa d’areazione ovoidale sporge parecchio rispetto al filo del cofano e, determinandone il rialzo centrale, prosegue l’analogia aeronautica, dando la sensazione che l’auto si proietti in avanti. Il paraurti cromato è formato da due parti separate: partono dalla zona bassa del frontale, salgono ad A al centro del cofano e si interrompono nella zona di unione tra le due mascherine, dove emergono due rostri ornamentali. Alcuni

appassionati maliziosi associano queste linee a una prorompente attrice di quegli anni. Anche la vista posteriore è notevole, con grosse pinne che concludono le fiancate, mentre il cofano, leggermente discendente, si trasforma al centro in un elemento circolare sporgente. È un altro richiamo al motore aeronautico, sottolineato da un sistema di illuminazione che ricorda la postcombustione. Ma non è tutto. Osservando la coda dell’auto in vista piena, emerge chiaramente una silhouette aeronautica: il paraurti si trasforma in ala e la zona circolare in una fusoliera. Pur nelle scelte fantasiose, Earl abbraccia una strategia formale coerente, seguita anche nell’elegante andamento della linea laterale, che parte dalla presa d’aria ovale anteriore, circonda il cofano e segna la fiancata scendenIntegrazione. Prese d’aria, pinne e scarichi fanno un corpo unico con la vettura, richiamando le forme dell’aereonautica tipiche di un aereo da caccia


do verso la ruota posteriore nella zona della portiera, fino a incontrare il profilo superiore arrotondato del parafango posteriore. La definizione di entrambi i parafanghi appare ormai parte del body, completando il discorso di integrazione avviato sulla Y-Job. Il parabrezza avvolgente, con le sue sottili linee perimetrali, diventerà uno dei simboli del gruppo GM. Nella zona centrale della plancia c’è una ricca strumentazione circolare: tachimetro, contagiri, manometro dell’olio, livello carburante, termometro, altimetro e bussola. Si richiama al cockpit di un aereo ed è un ulteriore esempio di continuità stilistica. Da segnalare anche l’abbondanza di cromature e il volante a calice, con zona sottostante decisamente «tecnica».

Inoltre, la vettura dispone di una capote elettrica che, grazie a un sensore, si attiva automaticamente in caso di pioggia, anche durante i parcheggi. Come accennato, Earl non tralascia l’utilizzo pratico: la LeSabre sarà la sua auto personale, sostituendo la Y-Job. È una vettura avanzata anche dal punto di vista meccanico: l’utilizzo di magnesio negli assali (quello posteriore è un De Dion con balestre) ne riduce il peso che, in ordine di marcia, è di 1723 kg. Il motore è un V8 di 3523 cc di 90° con teste in alluminio, singolo albero a camme e camere di combustione emisferiche, alimentato da due carburatori Bendix e sovralimentato con compressore volumetrico Roots.

Nelle richieste di bassa potenza funziona a benzina con uno dei due carburatori poi, quando l’acceleratore supera la metà della corsa, entra in funzione il secondo che gestisce una miscela di benzina e alcol metilico, contenuta in un secondo serbatoio. La trasmissione è automatica e porta il moto alle ruote posteriori con un sistema transaxle. Le prestazioni di punta sono decisamente elevate: 335 CV a 5200 giri/min e ben 517 Nm a 3650. Per gestire tutti gli equipaggiamenti è dotata di un impianto elettrico da 12 V, in un periodo in cui lo standard è 6 V. Anche negli imprevisti la LeSabre sa essere diversa: pneumatico a terra? Niente cric. Agli angoli della vettura, quattro martinetti idraulici facilitano al massimo l’operazione.


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