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OLTRE - Laboratorio di Storie e Fotografia - Anno 3 N° 14 Marzo 2016 - www.oltreonline.info

oltre Organo di Informazione UniversitĂ Popolare di Camponogara


oltre c h i

s i a m o

Direttore Responsabile Docente di fotografia

Hanno collaborato a questo numero

Correttore di bozze Responsabile sito internet e-mail Foto di copertina Impaginazione e grafica Sito internet Editore

Michele Gregolin (direttore@oltreonline.info)

Omar Argentin, Massimo Bonutto, Marco Chinellato, Elisa Corrò, Detenuti carcere Treviso, Sabrina Donò, Lucia Finotello, Massimiliano Girotto, Michele Gregolin, Luisella Golfetto, Galdino Malerba, Giuseppe Moreschi, Martina Pandrin, Alessandro Pavanato, Paola Poletto, Mirka Rallo, Marta Toso, Riccardo Vincenzi. Silvia Maniero Giuseppe Cottini oltre@oltreonline.info oltre@unipopcamponogara.it © Marta Toso Michele Gregolin http://www.oltreonline.info http://www.unipopcamponogara.it Università Popolare di Camponogara Via Premaore 38, 30010 Camponogara (Ve) Telefono 041/5139980


oltre

A cura del Direttore Responsabile

e d i t o r i a l e

“Oltre e la scelta dovuta”. Sicuramente pubblicare una rivista ogni tre mesi e trasformare Oltre da mensile a trimestrale non è stata una scelta indolore. Abbiamo preso atto del grande impegno che i redattori hanno affrontato, nel corso dello scorso anno, nel raccontare con i loro servizi, testi e foto le storie che durante le riunioni di redazione decidevamo. Con l'editore, l'Università Popolare di Camponogara, abbiamo deciso di fare la dovuta trasformazione, pertanto da questo numero la nostra rivista avrà una cadenza trimestrale e continuerà a raccontare storie. Per non apparire solo ogni tre mesi, abbiamo aperto un nuovo strumento: il blog. Nel blog periodicamente faremo dei lanci di articoli che andranno poi a corredare l'uscita della rivista. Un modo per non farci dimenticare durante il periodo che passa fra un numero e l'altro. Al nuovo blog si accede, attraverso il nostro sito, sulla sezione “Archivio Storie Online”. In questo numero i temi trattati sono i temi che Oltre predilige: le tradizioni con i carnevali montani, il sociale con la cooperativa Olivotti di Mira, piccole storie di lavoro con la Geoarcheologia o di persone, in questo caso il racconto di Silvia Pirani, una giovane cantante emergente di Camponogara. Ancora una volta Oltre propone le idee, i pensieri e gli scritti dei detenuti del carcere di Treviso, che ho avuto modo di incontrare in una serie di occasioni per parlare loro di fotografia; un'esperienza meravigliosa che apre il cuore e mette in evidenza l'importanza di ascoltare e poter, anche attraverso le pagine della nostra rivista, dare spazio alla loro voce, alle loro urla. Si sono aggiunti ultimamente alcuni nuovi redattori, che hanno portato idee nuove; l'invito è sempre rivolto a tutte le persone che hanno voglia di mettersi in gioco con le loro foto e con i loro testi, a venirci a trovare, partecipare e collaborare con questa piccola realtà che piano piano sta raccogliendo sempre più consensi, come dimostra il crescente e costante numero di visualizzazione che la nostra rivista ottiene negli strumenti che mettiamo a disposizione. Michele Gregolin Direttore Responsabile

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sommario

la magia del vetro

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Testo di Riccardo Vincenzi

cooperativa mons. olivotti

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Testo di Mirka Rrallo

il carnevale di legno

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Testo di Massimiliano Girotto

stramare un borgo che rivive

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Testo di Alessandro Pavanato

geoarcheologia

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Testo di Elisa Corrò

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silvia pirani Testo di Martina Pandrin

i simboli di venezia Intervista di Giuseppe Moreschi

larry towell Testo di Paola Poletto

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Testo di Riccardo Vincenzi Fotografie di M.Bonutto, L.Finotello, L.Golfetto, R.Vincenzi

l a v o r o

l a m a g i a d e l v e t r o, t e r z a p a r t e a l c h i m i e

e

v i r t u o s i s m i sapone e leggeri come una piuma. Davide Fuin ha assimilato da lui la profonda conoscenza della lavorazione del calice e fu apprezzato dallo stesso maestro come una delle nuove leve della tradizione muranese del bicchiere. Citando quanto dice Carlo Tosi: “Bisogna saper soffiare e tirare il vetro al massimo, e agire con estrema leggerezza, quando è ai limiti della finezza, quasi impalpabile. Occorre una sensibilità che non si apprende; bisogna averla dentro. Anche la leggerezza, quella non la si impara…” Dal 1999 Davide Fuin crea uno spazio suo fondando la D.F.Glassworks, dove può esprimersi liberamente nella lavorazione dei calici, rifacendosi a modelli storici e valorizzando le tecniche antiche anche con l’impiego di colori vivaci e innovativi, realizzando veri e propri modelli da collezione caratterizzati da un’elevata qualità di esecuzione. Egli non si considera un vero artista ma solo un prosecutore della storia dell'arte vetraria di Murano. Attualmente, oltre alla sua normale attività, trascorre diverse settimane all’anno insegnando nelle scuole d’arte di tutto il mondo, tra cui il Corning Museum of Glass (CMOG) di Corning (New York) e Toyama (Giappone). Nel corso della sua carriera ha lavorato anche in molti progetti con vari artisti e designer internazionali e si possono trovare alcuni suoi lavori nelle più importanti gallerie e collezioni private e museali in Europa, America, Asia ed Australia. Nel 2015 ha ricevuto il premio Glass in Venice, promosso dall'Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti e dalla Fondazione Musei Civici di Venezia. Durante la premiazione Rosa Barovier, storica del vetro, dice di lui: “[…] è l'eccellenza nel campo della filigrana, che non è poi quella cosa così facile che uno potrebbe pensare. […] Può esercitare la sua straordinaria capacità sia in pezzi moderni, assolutamente essenziali, in cui il tessuto filigrana risulta nella sua purezza, oppure nella copia di pezzi del rinascimento, piuttosto che dell’Ottocento, che dal punto di vista della difficoltà del lavoro effettivamente sono dei virtuosismi. […] Nella sua vetreria si assiste alla realizzazione di cose straordinarie, simili a quelle del miglior rinascimento e, dal punto di vista esecutivo, anche migliori, perché i rinascimentali in realtà lavoravano un po' di fretta, per cui nel suo lavoro invece si vede un'accuratezza di esecuzione perfetta.”

“Il vetraio sta davanti all’arte fiammeggiante e il suo soffio fa del vetro una forma leggera ed espressiva come la parola giusta”. [Gabriele D’Annunzio, dal Libro Segreto, 1935] L’accostamento tra la perfezione della parola e la leggerezza ed il fascino del vetro soffiato, raccontato da uno specialista del linguaggio, esprime solo in parte la sensazione che si percepisce quando ci si avvicina all'opera di alto livello artistico realizzata da un abile maestro vetraio. Prosegue così il nostro percorso alla scoperta della lavorazione del vetro nell’isola di Murano, curiosi di approfondire le proposte contemporanee di un’arte così antica, un cammino già intrapreso nelle precedenti pubblicazioni di OLTRE (secondo e quinto numero). In questa occasione l’attenzione, richiamata dalla singolare bellezza e peculiarità degli oggetti prodotti, è rivolta alla produzione dei vetri soffiati secondo la tradizione muranese ed in particolare dei calici. La tecnica di soffiatura è una pratica molto antica, risalente al I secolo a.C., proveniente dal vicino oriente. In seguito è stata poi utilizzata e perfezionata dai maestri muranesi per realizzare i prodotti più raffinati all’epoca della Serenissima. Tale tecnica prevede l’utilizzo di una canna metallica cava con cui viene prelevata da un crogiolo la quantità necessaria di pasta vitrea fusa e poi, all’altra estremità, viene insufflata aria a bocca dal vetraio che, calibrandone la quantità e la direzione e ricorrendo all’uso di vari attrezzi ed eventualmente di stampi, soffia e modella il pezzo, dandogli la forma e la dimensione voluta. Per ottenere prodotti particolarmente raffinati è stata sviluppata, sin dagli inizi del XVI secolo, la lavorazione a filigrana che crea l’effetto di un delicato disegno, originato da fili sottili, bianchi o colorati, all’interno della parete vitrea. Questa viene realizzata a caldo utilizzando bacchette di vetro trasparente contenenti fili lisci in lattimo (il tipico vetro bianco opaco muranese) o in vetro colorato. Se i fili nelle bacchette sono ritorti o a spirale la filigrana è detta a “retortoli” o “zanfirico”, se invece le bacchette sono incrociate è detta a “reticello” creando così l’effetto di una vera e propria rete. Per realizzare oggetti particolarmente complessi quali i calici tipici muranesi viene utilizzata anche la tecnica dell’incalmo (innesto) che consiste nella saldatura a caldo di due pezzi soffiati cilindrici aperti, con fori di uguale diametro, generalmente di colore diverso per ottenere in uno stesso oggetto zone con caratteristiche e colori differenziati. Un maestro vetraio che si distingue soprattutto per la sua particolare abilità di eseguire soffiati nel massimo rispetto della tradizione muranese, conservando e rinnovando al tempo stesso le tecniche antiche, è Davide Fuin. Egli gestisce una piccola fornace, la D. F. Glassworks, dove, con i suoi assistenti, produce principalmente calici, bicchieri e riproduzioni in stile antico veneziano. Nato e vissuto a Murano, figlio di un maestro vetraio, si è avvicinato in giovane età al mondo del vetro rimanendone affascinato. Ha rivelato, fin dagli inizi, una spiccata capacità di apprendimento, collaborando con famose vetrerie, tra cui Venini, Pauly, Salviati, Barovier & Toso, oltre al mitico maestro Carlo Tosi, detto “Caramea”. Quest’ultimo è divenuto famoso anche all’estero per l’incredibile leggerezza delle sue opere, per la sottigliezza dei suoi vetri, lievi come bolle di

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Testo di Mirka Rallo Fotografie di Omar Argentin, Mirka Rallo


cooperativa Mons Olivotti - un' opera a più mani La Cooperativa “Monsignor Giuseppe Olivotti” nasce a Mira, in provincia di Venezia, nel 1981 da un’iniziativa dei padri Cappuccini, il cui fondatore è padre Alberto Demeneghi che in questi trent’anni ha riposto tutto il suo impegno e la sua dedizione nella realizzazione del progetto. Sorge inizialmente come Centro di accoglienza e di avviamento al lavoro per detenuti o dimessi, ma, in seguito, la sua azione si diversifica estendendosi ad altre aree di marginalità: l’emergenza tossicodipendenza negli anni Ottanta, quella dell’immigrazione negli anni Novanta. A volerla, attraverso la Caritas, la comunità cattolica veneziana in prima persona il suo vescovo, allora, il cardinale Marco Cè. “Un’iniziativa, all’epoca coraggiosa e controcorrente, carica di tensione civile e sociale, improntata alla visione cattolica dell’uomo”, ci spiega padre Alberto. “Questa iniziativa, si poneva e si pone come tentativo concreto di superamento della risposta assistenzialistica che oggi comunemente si dà al grave problema della delinquenza contribuendo così alla sua degenerazione”. Occuparsi di carcere, tossicodipendenza, marginalità sociale, significava davvero andare contro corrente, cercare di tenere aperta una porta quando la società, per comprensibile paura, voleva blindare ogni possibile accesso. Questa importante realtà sociale è il frutto di un’opera a più mani, ovvero costruita con il contributo di molti: frati, amici, soci, volontari, operatori, obiettori di coscienza, ospiti, famiglie ed istituzioni che hanno collaborato e dato il proprio apporto in questi anni accettando di compiere tratti di strada assieme. Rischiando in proprio con l’obiettivo di migliorare la possibilità di altri uomini e donne di riabilitarsi ad una vita più dignitosa, a riallacciare relazioni familiari, sociali, a cercare una possibilità lavorativa. Un’avventura difficile che ancora continua. Nel tempo è diventato sempre più evidente che il compito della casa Olivotti non poteva solo essere quello di accogliere persone provenienti dal carcere o con problemi di tossicodipendenza, ma di elaborare una restituzione sociale di quanto si sperimentava e comprendeva assieme alle persone ospitate e alle loro famiglie. E’ nata così l’intuizione di dare vita ad un polo culturale e di animazione sociale. Negli anni le varie esperienze si sono strutturate in un vero e proprio Centro Studio all’interno della cooperativa, alla cui direzione c’è Monica Lazzaretto, che ha ottenuto nel 2002 la certificazione UNI EN ISO 9001:2000 per “progettazione ed erogazione di servizi socio-educativi con attività terapeutico-riabilitative finalizzate al recupero sociale di persone disagiate (tossicodipendenti e alcolisti) e di servizi di formazione in campo sociale. Produzione di ceramiche e carrozzeria”. All’interno della Cooperativa Olivotti si svolgono pertanto attività lavorative-formative che hanno lo scopo di promuovere il reinserimento delle persone e laboratori per la gestione in proprio di corsi di formazione. I laboratori sono realizzati potendo contare su docenti di riferimento per la supervisione dei lavori: maestri d’arte, tutor, operatori che assicurano un supporto costante al percorso formativo. I reparti, oltre ad essere centri di formazione, diventano strumento di riabilitazione che permettono ai giovani di credere in loro stessi e nelle loro potenzialità. In collaborazione con la Cooperativa agricola Bronte, confinante alla struttura, (che presta loro un terreno agricolo di circa 5.000mq, chiamato “Orto Sconto”) gli ospiti sperimentano alcuni tipi di sementi e sviluppano attività di coltivazioni di tipo biologico, producendo ortaggi di alta qualità che

utilizzano principalmente per il fabbisogno interno. Vincenzo Beninato, operatore formativo in Cooperativa da 17 anni, da 6 anni ha intrapreso anche un’esperienza di collaborazione con “Orto sconto” occupandosi principalmente dell’aspetto educativo della persona bisognosa. L’idea, ci racconta, è quella di creare un collegamento con la terra in modo da vivere una realtà, delle sensazioni e delle esperienze che possano arricchire e sensibilizzare. Il trapasso delle stagioni, l’alternanza dei cicli lunari, la rugiada del mattino, le ombre del tramonto diventano parte di un linguaggio espressivo. L’arte della coltivazione, viene intesa come processo di trasformazione della fatica dell’uomo per ottenere dei frutti insieme alla terra: avendone cura, dedicandole del tempo e ricevendone ricchezza materiale e spirituale. Iniziare a vedere un campo coltivato, un frutteto, un orto come laboratori creativi o semplicemente emozionali in cui potersi perdere con la mente, in cui poter coltivare per condividere, in cui poter socializzare o semplicemente rilassarsi. L’ “Orto sconto” è il luogo dove ci sono gli strumenti per poter vivere queste emozioni, dove attraverso i sensi si può imparare ad apprezzare quello che la terra può offrire con la dedizione e con l’amore. Laura Berlese, da trent’anni, si occupa del laboratorio di ceramiche all’interno della Cooperativa. Una storia iniziata quasi per caso la sua. Dopo gli studi artistici e qualche breve esperienza di lavoro a Murano, avviene l’incontro casuale, o meglio provvidenziale, con padre Alberto Demeneghi. Nasce l’idea di intraprendere l’attività di un laboratorio di ceramiche per accogliere delle persone, ed in base alle proprie attitudini e manualità, insegnare loro a produrre e/o decorare ceramiche e confezionare bomboniere. I ragazzi hanno modo di vedere tutte le cinque fasi di lavorazione della ceramica. “La prima fase di lavorazione, ci spiega Laura, consiste nel dar forma all’argilla (materia prima nella produzione della ceramica) e questo avviene attraverso varie tecniche che possono essere la tornitura, la modellazione manuale o con degli stampi di gesso all’interno dei quali si cola l’argilla liquida. Si passa poi all’essiccazione e ad una prima cottura nel forno a 900 gradi circa. Smaltatura, decorazione e seconda cottura danno vita alla creazione”. Simone Scannavacca da un paio d’anni è impegnato come operatore educatore all’interno della carrozzeria della Cooperativa. Insegnare ai ragazzi lavori di carrozzeria e di piccola riparazione dei veicoli, ci racconta, oltre che a fornire possibilità di avviamento al lavoro, significa soprattutto condividere momenti di vita. La vita condivisa in comunità può diventare un’esperienza di intima rigenerazione per chi ancora accetta di mettersi in gioco, di pensare e di realizzare in un contesto di relazione, ciò che da solo ha vissuto o vive come sconfitta e paura. E questo è stato possibile per molti. In trent’anni sono state recuperate migliaia di persone e ciò ci da la forza per affrontare le nuove sfide del futuro. “Qualcuno viene, viene sempre. Non si sa da dove, non a quale ora, con quale vento o con quale cultura. Con quale dignità. Con quale umiliazione. Eppure qualcuno viene, viene sempre. Viene tra noi, nelle nostre dimore. Viene per abitare, per farsi ancora una volta, forse la prima volta, carne e sangue. Per farsi finalmente uomo. Senza dimora, senza un abitare, non ci si fa carne. Non ci si fa uomo”. (F. Riva)

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Testo di Massimiliano Girotto Foto di Marco Chinellato, Massimiliano Girottto, Marta Toso

il carnevale di legno, carnevali delle dolomiti cinque costumi nel corso di una serata sempre mantenendo l’anonimato e non di rado anche gli uomini si divertono a danzare in costumi femminili allietando la serata ad altrettanti uomini, burlati nell’idea di ballare con la ragazza più attraente del paese. Quasi sempre la beffa riesce perfettamente, soprattutto se la maschera è un’abile ballerina che resiste alle tante prove cui viene sottoposta per essere riconosciuta. Infine, il momento di grande suggestione è la sfilata dei Rollate del Giovedì grasso. La festa comincia all’ora di pranzo dove si incontrano segretamente per festeggiare togliendo le maschere. Dopo il pranzo scendono in gruppo, più di trenta, da Cima Sappada in una lunga marcia attraverso i borghi.Data l’imponenza e il rumore assordante di tutti i loro campanacci in movimento, costituiscono di sicuro uno dei momenti più emblematici dell’intera manifestazione.Al di là del folklore e della coreograficità del carnevale sappadino, quello che ci raccontano queste maschere e le loro rappresentazioni è un forte ed innegabile legame col passato; uno stretto legame familiare, di gesti e oggetti tramandati da generazioni. Ci parla del tempo, ci parla d’amore per i propri genitori, per i propri nonni. Parla di un passato che trova conferma nel presente e nel presente prende corpo. Infatti le maschere, che spesso vengono realizzate a mano da artigiani del posto, vengono tramandate di padre

Sono numerosi gli eventi che scandiscono il carnevale sappadino, il primo dei quali è la “Domenica dei poveri”, che vede protagonista la categoria sociale più povera del luogo; le maschere, con addosso vestiti rattoppati, si prendono gioco di “contadini” e “signori” entrando nelle loro case con l’intento di ottenere qualche offerta ma anche di intraprendere una recita teatrale fatta di prese in giro, imitazioni e di allusioni per creare un clima burlesco e ironico, misurando la capacità di stare al gioco e di resistenza alle provocazioni, garantite dall’anonimato, visto che potrebbe trattarsi addirittura di un componente della famiglia stessa resosi irriconoscibile dalla caratteristica parlata in falsetto. La “Domenica dei contadini” spicca per allegria e ricchezza di ambientazioni tipiche della vita contadina, con carri e attrezzi agricoli, balle di fieno e lavori messi in atto come la filatura o la pilatura dell’orzo. E’ di fatto la più rappresentativa delle manifestazioni, per il gran numero dei contadini e per la facilità con cui la categoria si presta alla presa in giro. Il gioco si fa ancor più interessante quando la scena è arricchita dal dialogo che le maschere intrecciano tra loro o con qualche contadino del paese. Infine l’ultima domenica di carnevale, “Domenica dei Signori”, vede l’esibizione delle maschere più raffinate; costumi di un certo pregio vengono sfoggiati nelle danze. Le donne indossano anche quattro o

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grandi sonagli che porta legati attorno alla vita e che agita in continuazione, ha il compito di attraversare le frazioni e radunare le maschere al grido “diader”, andiamo! Figura elettrizzante, con abiti scuri e volto coperto dalla fuliggine, ha il compito di avvertire la gente, affinché si prepari per la mascherata. Le maschere si ritrovano nella piazza di Sauris di Sopra, accompagnate dal Rölar e del Kheirar che nel frattempo sopraggiungerà. Il Kheirar è il re della mascherata; porta sul volto una maschera di legno e tiene in mano una grande scopa. E’ la guida della marcia delle maschere. Un tempo egli bussava col manico della scopa alle porte delle abitazioni per farsi aprire. Una volta entrato e spazzato il pavimento, introduceva i suonatori e le coppie di maschere belle (scheana schembln) e brutte (schentena schembln), che ballavano al suono delle fisarmoniche. Oggi il rito si svolge negli angoli più suggestivi del paese e nei locali pubblici e mantiene nel significato e nel gesto, il desiderio di “spazzare via” l’inverno, e con l’inverno anche le miserie e le tristezze dell’esistenza umana. Terminato il giro, il gruppo delle maschere, seguito dagli spettatori, si inoltra nel bosco e segue un suggestivo percorso notturno, illuminato dalle lanterne fino a raggiungere Sauris di Sotto. Il percorso si snoda tra boschi e prati normalmente coperti di neve e i caratteristici stavoli in pietra e legno, presso i quali ci si riscalda con vin brulè. E’ un paese vestito a festa quello che si incontra all’arrivo, e le maschere con spirito di accoglienza coinvolgono nelle danze i presenti ai quali con simpatia e generosità offrono galani e vin brulè.

in figlio e custodite gelosamente e nel segreto. Simbolo di Sappada, il Rollate, con il rumore potente dei campanacci che porta in vita e che fa suonare con movimenti ondulatori del corpo, con la sua imponenza, enfatizzata dal pellicciotto di caprone a pelo lungo, il ciuffo rosso che sovrasta il cappuccio, il fazzolettone bianco o rosso al collo, i calzoni rigati, gli scarponi chiodati e soprattutto una burbera maschera dai grandi baffi scuri intagliata nel legno, è il vero protagonista del carnevale sappadino. Egli suscita un senso di timore, ma nello stesso tempo di ammirazione. Ancor più ai bambini che notoriamente sono più sensibili, ma che provano anche un grande desiderio di poter imitare gli adulti delle generazioni precedenti e vestirsi loro stessi da Rollate. La prima richiesta che fanno ai loro cari è quella di possedere un costume da piccolo Rollate e seguire i grandi magari rincorrendo gli altri bambini. Il Rollate mantiene per tutta la durata del carnevale l’anonimato più rigoroso, mascherando e alterando anche la propria voce e la propria postura naturale. Entra nelle case, in cui si intrattiene in rappresentazioni teatrali estemporanee alle quali si è tenuti a misurarsi, accettando scherzi, prese in giro e addirittura “invasioni” di luoghi e armadi. Egli porta con sé una scopa che a seconda dei casi viene usata in modo scherzoso o minaccioso. Anche il modo in cui la brandisce è simbolico: di traverso manifesta la sua virilità, in verticale guida il corteo e usata mimando una carezza sulla testa sperando in un segno di amicizia e di augurio di buona sorte. La manifestazione “La Notte delle Lanterne” è l’evento culminante del Carnevale Saurano, uno dei più antichi dell’arco alpino e si svolge il sabato che precede il mercoledì delle Ceneri. La festa ha inizio nel primo pomeriggio; il Rölar che deve il suo nome alle röln, i

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Testo di Alessandro Pavanato Foto di Massimo Bonutto, Galdino Malerba, Alessandro Pavanato

s t r a m a r e, u n b o r g o c h e r i v i v e n e l l a g i o rn at a d i s a n va l e n t i n o 14 febbraio, San Valentino. Piove, una pioggia fredda che penetra nelle ossa, eppure fin dal primo mattino il piccolo borgo, arrampicato sui crinali di una stretta vallata, è insolitamente animato: la banda si prepara a suonare, la chiesetta nella piccola piazza è aperta per la messa e per l’esibizione del coro, gli stand distribuiti nelle stradine e nelle case, aperte per l’occasione, offrono caffè e cioccolata calda e cuociono i piatti tipici per il pranzo, mentre come ogni anno la gente arriva alla spicciolata, chi in auto, chi a piedi dal vicino paese di Segusino. L’animazione è insolita perché Stramare, questo il nome di una piccola frazione del comune di Segusino, arrampicata lungo una stretta valle che dal paese sale al monte Doch, dalla cima del quale è possibile vedere, nelle giornate limpide, anche la laguna di Venezia, è un borgo ormai disabitato. Disabitato ma non abbandonato, come tanti altri nelle nostre montagne, perché la volontà e la tenacia di un gruppo di persone, animato da Mariano Lio, storico e scrittore, e riunitosi spontaneamente sotto il nome “amareSTRamare”, ha permesso di far conoscere questo straordinario paesino nelle Prealpi Trevigiane e di far rivivere le tradizioni locali che rischiavano di essere perdute. Così, negli ultimi decenni, il borgo è stato dotato di fognature ed illuminazione pubblica, le strade sono state pavimentate, molte abitazioni private restaurate con cura e gusto, nel rispetto delle tradizioni, fino al punto di rimuovere dalle case le applicazioni catarifrangenti con i numeri civici e sostituirle con i numeri dipinti a mano. Nello stesso tempo, sono stati organizzati numerosi eventi nel solco della tradizione, come per l’appunto la festa di S. Valentino, patrono di Stramare, “ormai considerato universalmente il protettore degli innamorati”, ci tiene a precisare Mariano Lio, “ma che in passato veniva evocato come protettore contro il mal caduco”, l’epilessia. Nell’occasione si ritrovano tutti i vecchi abitanti del borgo, ormai trasferiti in altri luoghi, e molti visitatori attratti dal fascino che emana dalle vecchie case in pietra e dalla chiesetta dedicata a San Valentino, dalla strana architettura, con la navata circolare e l’abside rettangolare, che si affaccia sulla piazzetta “del fontanel”, il vecchio lavatoio in pietra ricavato da un unico blocco di pietra proveniente dalla Val di Non. Si tramanda che il borgo sia stato fondato da due fratelli di cognome Stramare, carbonai provenienti forse dall’Istria durante la Serenissima Repubblica di Venezia, che nel posto hanno trovato acqua buona e boschi per la loro attività. In effetti, la quasi totalità delle famiglie portava il cognome Stramare e i diversi nuclei familiari si distinguevano tra di loro solo dal soprannome. Una ricerca sui soprannomi e sulla loro diffusione, che Mariano Lio ha recentemente pubblicato in un suo libro, confermerebbe tale ipotesi: infatti, tutti i soprannomi che si sono tramandati per almeno tre generazioni discendono da due “ceppi” originari, gli Stefenon e i Fior. Inoltre, i discendenti di ciascuno dei due ceppi abitavano per lo più due aree ben distinte del piccolo borgo. Silvio, 75 anni, il più anziano nato a Stramare, ci accompagna nella visita, dalla piazza con la chiesa e accanto la scuola, frequentata ai suoi tempi da una quindicina di alunni, lungo le strade ora acciottolate ma allora solo in terra battuta, fino alla sua casa che si trovava in

fondo al borgo, con la stalla per gli asini che aiutavano i contadini nel lavoro e più avanti, oltre un ruscello asciutto, una baracca che fungeva da servizi igienici per tutta la stradina. Il bosco che ora circonda completamente il borgo, ci racconta, sessant’anni fa non c’era, il terreno intorno era coltivato a prato, da cui si ricavava il fieno per gli animali, ma c’erano anche vigne e piccoli appezzamenti in cui si seminavano fagioli, patate e quanto poteva servire per integrare la dieta. Era una vita dura, ma serena, scandita dal ritmo delle stagioni. Ogni casa aveva un fienile, una stalla con le mucche per il latte e gli asini per il lavoro nei campi e il trasporto delle merci, il maiale che forniva carne e salumi da consumare durante l’anno, i polli e le galline per le uova e la carne. La stalla, con il suo calore, nelle fredde sere invernali era anche luogo di incontro, dove ci si riuniva per giocare a carte, bere vino e chiacchierare, mentre gli uomini costruivano o riparavano attrezzi agricoli o cesti, le donne cucivano o filavano, i bambini ascoltavano i racconti dei grandi e giocavano tra di loro: in una parola, il classico “filò” delle campagne e montagne venete. Poi, nel dopoguerra, il borgo, che nella prima metà del ‘900 contava fino a 140 abitanti, si è progressivamente spopolato, i prati e gli orti abbandonati sono stati invasi dalla boscaglia ed è iniziata la decadenza, ora interrotta con l’azione di recupero avviata dall’associazione “amareSTRamare”. La festa intanto continua, pur sotto la pioggia che continua incessante; nella piccola chiesa, dopo la Messa, si esibisce il Coro di Stramare, che ha recuperato, tra l’altro, i canti tradizionali del paese, tra cui “La note Santa” che, nei nove giorni precedenti il Natale, gli abitanti del borgo cantavano secondo un antico sistema “a botta e risposta”, per annunciare la nascita di Gesù, lungo le stradine e le mulattiere, fino al paese di Segusino ma raggiungendo nel loro percorso anche le case isolate della zona. Nelle case e nelle strade, invece, i volontari preparano e offrono i piatti della tradizione locale: la “panada”, il “menestron”, le “martondèle” e il “pess frit” con la polenta, le “tripe”, i “còrnoi sot graspa” e i dolci casalinghi, mentre si adocchia “Piero”, il maialino che prende il nome di chi l’ha vinto l’anno precedente e che, nel pomeriggio, sarà messo in palio e vinto da chi si avvicinerà di più al peso giusto (il prossimo anno si chiamerà Edoardo…). Fino all’anno scorso si svolgeva anche un torneo di gioco della morra, probabilmente l’unico autorizzato dalla questura in tutto il Veneto (la morra è considerato un gioco d’azzardo), che non si è più potuto proporre perché ormai diventa sempre più difficile trovare validi concorrenti, dato che la tradizione si va perdendo. Ogni anno la festa affronta un tema diverso, questa volta tocca alle “cariole” e alle “mussete”, gli slittini rispettivamente da ghiaccio e da neve, attrezzi non da lavoro ma da divertimento, con le quali si gareggiava lungo le “isse”, le piste che, con nomi diversi, erano presenti in tutti i paesi e i borghi della zona, fino anche agli anni ’80. La festa, che si conclude nel pomeriggio mentre la pioggia continua incessante, ha comunque raggiunto lo scopo di mantenere stretti i legami tra i vecchi abitanti del borgo, i loro figli e nipoti, ormai dispersi per tutto il Veneto e anche oltre, e contemporaneamente di far conoscere e rivivere le antiche tradizioni locali

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quelle da divertimento. Ogni paese aveva le sue piste (isse, issolere, slissolade o altro, i nomi variano nei diversi paesi), di lunghezza e difficoltà variabile, lungo le quali tutti potevano cimentarsi, scendendo da soli o in fila tenendosi per le gambe (in sogana), con le slitte da neve (mussete) o da ghiaccio (cariòle, ma anche sgèzhole, ferie o lìssole). Le piste venivano allestite preferibilmente vicino ad un corso d’acqua, per poterle bagnare di notte per mantenere il ghiaccio e formarne di nuovo, mentre di giorno venivano coperte con fasci di canne o altro per ripararle dal sole. Le curve, i salti e le irregolarità del percorso garantivano comunque adrenalina e divertimento per tutti.

Panade, martondèle e cornòi La festa di S. Valentino a Stramare è anche l’occasione per gustare alcuni piatti tipici della tradizione locale, piatti poveri, preparati con le poche risorse disponibili. La “panada” è un piatto di recupero, che si prepara con il pane raffermo ammollato nell’acqua, ripassato in padella per ottenere una crosticina bruciacchiata che dà sapore al tutto, aggiungendo alla fine qualche fiocco di burro e, solo quando disponibile, un po’ di formaggio grattugiato. Si ottiene una pappa morbida, che veniva data ai bambini per lo svezzamento o agli anziani a cui erano rimasti pochi denti e avevano difficoltà a masticare.Le “martondèle”, sorta di grosse polpette impastate con carne e fegato di maiale, avvolte nella rete di maiale e cotte sulla griglia, si preparavano in occasione dell’uccisione del maiale, una festa per la famiglia, perché assicurava carne per tutto l’anno. I bambini, eccitati per il clima festoso, venivano spediti in giro per il paese a chiedere in prestito i fantomatici “stampi” per le “martondèle”, così che i grandi potessero lavorare in pace, ma anche, forse, per risparmiare loro gli aspetti più cruenti dell’uccisione. I “cornòi”, i piccoli frutti rossi del corniolo, simili a ciliegie ma di forma ovale, crescono spontanei al limite del bosco. Vengono conservati sotto grappa per un dessert da gustare nei mesi invernali. Mussete, cariòle e isse Quando gli inverni erano veramente inverni, la neve e il ghiaccio, costantemente presenti, non erano solo fonte di disagio, ma anche di divertimento. Il lavoro nei campi diminuiva e così, dismesse le slitte da lavoro, si preparavano

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Testo di Elisa Corrò Foto di Michele Gregolin

archeologia

geoarcheologia briciole

di

sua origine. Le sezioni e i modelli virtuali del terreno realizzati successivamente in laboratorio permettono di capire cosa è cambiato. I campioni di legno recuperati in campagna e datati al radiocarbonio aiutano invece a capire quando è successo. E’ così che si scopre, ad esempio, che al di sotto di una chiesa che si è soliti frequentare regolarmente c’è un’altra chiesa che è stata letteralmente sepolta dalle irrompenti alluvioni dei fiumi, avvenute secoli e secoli fa. E ancora, è così che si scopre che su un prato dove oggi noi camminiamo un tempo c’era laguna, prima che arrivasse qualcuno a bonificare l’area, ad esempio degli instancabili monaci. Ogni cambiamento effettuato nel passato ha provocato una reazione che si è protratta nel futuro, cioè il presente in cui viviamo noi, spiegandoci a volte perché ci imbattiamo in certi dissesti ambientali e idrogeologici. La vera sfida di questo lavoro è proprio quella di comprendere queste trasformazioni nel corso del tempo. In questo “viaggio al centro della terra” i carotaggi sono fondamentali. Si effettuano manualmente, con una trivella manuale, raggiungendo la profondità di circa 5 m. E’ la parte più faticosa di questa professione. D’altra parte la terra è bassa, si sa, perché ci dobbiamo chinare per coltivarla. Lo dicono i veri contadini, coloro che sono stati educati dalle leggi inviolabili e a tratti molto rigorose della natura, ma come si suole anche dire la curiosità è donna e il gruppo di lavoro (interamente al femminile) è affiatato, per cui la passione funge da vero e proprio motore per la ricerca. Da qualche anno l’Università Popolare di Camponogara permette con il corso “Laguna di Venezia e territorio: ambiente, archeologia e storia” curato dalla sottoscritta, di sensibilizzare i nostri corsisti a queste tematiche, a comprendere l’evolu-

scienza

C’è un modo in cui la terra parla che pochi riescono a sentire. E’ un distillato di rumori registrato secoli e secoli fa e, che continua a registrarsi anche in questo momento. Il segreto è sintonizzarsi alla giusta frequenza, e ascoltare. Per il resto è come andare a teatro, si sceglie un posto, ci si siede, si aspetta, e il sipario si alza su di una terra meravigliosa: la Nostra. Questa descrizione è ciò che appare ai miei occhi la mia professione. Essere una geoarcheologa significa ascoltare silenziosamente questo grande maestro, la terra, significa saper cogliere quelle piccole briciole che ha lasciato durante il suo cammino … significa fare ricerca in modo diverso. Questa “nuova” disciplina scientifica, la geoarcheologia, consiste nel praticare una serie di carotaggi in determinati luoghi, in determinati spazi, per capire le caratteristiche del paesaggio antico attraverso lo studio dei sedimenti. E’ possibile intercettare antichi insediamenti, è possibile riconoscere le superfici dove camminavano i nostri antenati, ma anche seguire gli antichi percorsi dei fiumi come il Brenta, individuare quali erano le aree completamente naturali, o al contrario quali quelle completamente artificiali. Nell’entroterra lagunare poi, a fare la differenza, è il grande braccio di ferro che da sempre esiste tra pianura e laguna, tra acqua dolce e salata, o più geologicamente parlando tra sedimentazione ed erosione. Tutto questo fa da cornice all’indiscussa regina di questi luoghi, Venezia, e la tanta curiosità sulla

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zione del nostro territorio, a fare un viaggio nel passato da quando la laguna si andava ancora formando. Un percorso a ritroso nel tempo, dunque, in cui ambiente, idrografia, geologia e morfologia fanno da sfondo all’archeologia e alla storia raccontate attraverso gli studi del team di ricerca di Archeologia Medievale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, di cui faccio parte, sotto la direzione scientifica del Professore Sauro Gelichi. L’ultimo dei lavori di questa corrente di studi riguarda il territorio di Mira, in particolare il sito del monastero di Sant’Ilario a Dogaletto, dove il gruppo di ricerca composto dalla sottoscritta e dalle dott. sse Cecilia Moine e Sandra Primon, grazie a questo “nuovo” modo di fare ricerca se ne uscirà presto con una pubblicazione. Lo scopo è sintonizzare alla giusta frequenza anche chi legge, poiché come scrisse il celebre Joseph Conrad, si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore.

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Testo di Martina Pandrin

m u s i c a

s i l v i a p i r a n i , v i ve r e d i m u s i c a L’incontro è stato fissato nell’atrio di uno dei tanti centri commerciali che invadono le periferie delle città. Uno spazio ampio e facilmente accessibile, ma inevitabilmente impersonale. Silvia arriva puntuale con passo sicuro e sorriso solare, molto diversa rispetto alle attese. Una ragazza acqua e sapone, minuta, vestita in modo semplice, il cui viso emerge tra i volti anonimi delle altre persone, per quegli occhi vivi e attenti e quel sorriso aperto che attira l’attenzione. Le sue foto in rete restituiscono l’immagine di una giovane donna appariscente e sensuale, ma al primo impatto non si riesce a ricondurre queste due nature contrapposte ad un’unica persona. Ci accomodiamo in uno dei locali dell’area ristoro. Nonostante il suo aspetto da ragazzina, si percepisce immediatamente che è abituata a stare in mezzo alla gente. Nessun segno di timidezza nei suoi gesti e nel suo modo di parlare schietto e disinvolto. Silvia è una cantante, un’artista a tutto tondo. La sua è la storia di una giovane donna talentuosa che, con convinzione e senza compromessi, ha fatto della musica un mestiere con il quale vivere. Un percorso di vita segnato da incontri ed avvenimenti che hanno dettato svolte impreviste, ribaltato prospettive e condizionato la direzione intrapresa. Avvenimenti che, senza una logica apparente, hanno segnato il suo destino, dando vita a nuova energia da convogliare verso obiettivi sempre più ambiziosi. Il punto di partenza della sua storia è senza dubbio la famiglia, che le ha dato l’imprinting musicale. Giovani genitori che hanno riconosciuto il talento della figlia e l’hanno accompagnata nel percorso di scoperta e di maturazione. Silvia si considera figlia d’arte, avendo un padre molto appassionato di musica, anche se solo a livello amatoriale, che, con lei ancora bambina, aveva trasformato il salotto di casa in uno studio di registrazione, teatro di karaoke domestici. Il suo talento viene riconosciuto e valorizzato con lezioni di canto lirico negli anni dell’adolescenza e successivamente con lezioni di musica leggera. La famiglia come stimolo allo sviluppo del suo talento e alla cura della voce come un vero e proprio strumento musicale. Terminato il liceo Silvia sceglie di dedicarsi completamente alla musica, nonostante l'ammissione alla facoltà di architettura. Segue la propria strada, quella che lei ritiene più semplice perché le permette di seguire la propria vocazione, a dispetto dell’opinione comune che considera il mondo dello spettacolo un percorso molto difficile. Sono anni di studio per migliorare tecnica e immagine, di concorsi musicali, di concerti con un gruppo funky e poi blues. Anni di apprendimento. Il secondo momento fondamentale, un punto di svolta nella storia di Silvia, è l’incontro fortuito con il gestore di un locale del padovano. La sente cantare e ne rimane così colpito da proporle di andare a lavorare per lui. L’incontro devia il suo destino verso il mondo della gente della notte amante di musica e ballo, dove c’è chi scalda la serata, intrattiene il pubblico e lo guida nel ballo. La figura del performer, che Silvia incarna alla perfezione, è una perfetta sintesi delle sue doti: il canto si fonde con la sua capacità di stare sul palco e con quella dote innata, chiamata carisma, che la rende una trascinatrice. Sentirsi a proprio agio con la gente le permette di creare quell’ambiente vivo, animato, divertente che ogni persona cerca quando va in locale notturno a passare la serata.

Da un incontro, una nuova opportunità professionale che mette alla prova le sue capacità e che le consente di cominciare a vivere di musica. Ma Silvia non perde mai di vista il suo obiettivo principale: scrivere le sue canzoni, fare un disco, andare in tour con la propria produzione. La strada per il raggiungimento di questo obiettivo passa, nel 2011, attraverso la trasmissione X Factor, noto talent show musicale. L’incontro con i famosi giudici del programma è un altro degli avvenimenti cruciali della vita artistica di Silvia. Partecipa alle selezioni piena di adrenalina e speranze, ma viene eliminata dai giudici per delle motivazioni che esulano dalle sue doti canore e dalla sua performance. Viene messo in discussione e criticato il suo look ed il suo temperamento consapevole e sanguigno. L’eliminazione dal programma è ovviamente un grande delusione, ma anche la più grande batosta può insegnare qualcosa. Pesa l'umiliazione di essere giudicata non come cantante, ma su immagine e personalità. Umiliazione che l’ha portata temporaneamente ad allontanarsi dal mondo della musica. Ma l'eliminazione viene molto criticata nei social che si occupano della trasmissione e questo apprezzamento da parte del pubblico la rinfranca e la riporta sul palco. Perseverare consapevoli dei propri mezzi porta sempre a dei risultati. Nello stesso anno un avvenimento le apre le porte a nuove possibilità e nuovi orizzonti. Lasciata alle spalle l’esperienza del talent, Silvia partecipa al Festival Show, un noto concorso musicale organizzato da un gruppo di radio famose a livello nazionale. Classificandosi fra i primi 12 partecipanti, questo concorso è una vera svolta nella sua carriera, che la fa entrare nel mondo della radio grazie anche alle sue capacità di perfomer. Il suo programma radiofonico, in collaborazione con un famoso dj, è il trampolino di lancio per ampliare i confini del suo lavoro ed iniziare ad organizzare l'animazione in crociere e villaggi turistici. Musica come professione e musica come passione, dunque. Ma Silvia è e rimane principalmente una cantante. Nel suo personale viaggio musicale gli incontri fondamentali sono anche con autori e musicisti: ogni singolo incontro è momento di scambio di esperienze e di professionalità allo scopo di far emergere il suo talento. Incontri importanti per lo stimolo alla creatività. Il progetto di lavorare sulle proprie canzoni e su un disco è sempre lì e Silvia lavora duramente per realizzarlo. Alla fine della nostra conversazione è chiaro che in Silvia l'Artista si sovrappongono perfettamente la ragazza acqua e sapone spontanea e solare e la giovane donna appariscente e sensuale nella quale si trasforma quando sale sul palcoscenico.

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Testo di Giuseppe Moreschi

s t o r i a

i simboli di venezia: una storia dolorosa viaggio della statua del leone e dei quattro cavalli di san marco verso parigi Alla sua caduta il 12 maggio 1797, la Repubblica di Venezia dovette accettare gli accordi con il generale Bonaparte che pretendeva un contributo di guerra quale la spedizione, alla Repubblica Francese, delle munizioni navali, delle navi da guerra e gli oggetti d’arte. Il 18 gennaio 1798, con l’attuazione del trattato di Campo Formio, Venezia divenne austriaca ma lo stesso giorno i francesi pretendettero quello che gli accordi definivano: il Leone Alato di San Marco fu così fatto scendere dalla sua colonna di granito posizionata nella Piazzetta. Anche i quattro Cavalli di bronzo dorato lasciarono la terrazza della Basilica di San Marco, furono caricati su tre vascelli veneziani arrivati dall’Arsenale già carichi di cannoni, munizioni e materiali vari e con l'equipaggio composto da marinai francesi presero il mare, direzione porto di Ancona. I francesi però, avevano scarsità di marinai per cui non poterono condurre con loro anche le due fregate che erano già pronte in Arsenale. Emanuel Perrèe, capodivisione e comandante in capo delle Forze Navali della Repubblica Francese nel nord del golfo adriatico, aveva assistito di persona alle operazioni di partenza del bottino. Tornato ad Ancona dove la sua flotta composta da quattro fregate aveva atteso istruzioni da Parigi, ricevette l’ordine di partire per Tolone il 24 febbraio; Perrèe risponde il 2 marzo che a bordo vi è tutto quello che si poteva caricare proveniente dalle spoliazioni di Venezia e ne riporta l’elenco. Tutti i messaggi confermano che a bordo vi sono le statue del Leone e i quattro Cavalli più materiali e armi prelevati dall’Arsenale. La flotta getta l’ancora nella rada di Tolone il 2 aprile 1798 e Perrèe avvisa il Ministro che risponde con entusiasmo il 18 dello stesso mese. Viene formato un convoglio diretto a Parigi che si ferma ad Arles per attendere l’arrivo di convogli con altre opere raccolte a Venezia e trasportate via terra. Il convoglio che trasportò tutto il “bottino” composto da oggetti di scienza e di arte raccolti in Italia, si concentrò a Parigi dove sfilò davanti al Direttorio per la Festa della Libertà il 27 e 28 luglio 1798. I quattro Cavalli, nel novembre 1801, furono posti su un grande piedistallo di pietra in prossimità della Corte del Carosello, ma quando l’Imperatore nel 1806 fece costruire il grandioso Arco di Trionfo, i quattro cavalli di San Marco furono posizionati sulla sua sommità trainanti il carro con Marte alla guida. Gli architetti avevano progettato di mettere alla guida del carro la statua dell’Imperatore ma lui stesso non volle in quanto il monumento era dedicato all’Armata Francese. Il Leone invece aveva subito danni rilevanti già nella discesa

dalla colonna e anche durante il trasporto. Gli mancavano le ali, le zampe, la coda ed il libro del vangelo posizionato originariamente sotto le zampe anteriori. Era stato restaurato da uno scultore francese prima della sua destinazione finale e cioè in cima ad una fontana. La Fontana faceva parte di un programma di abbellimento dell’Esclamare des Invalides e per questo Napoleone aveva affidato il progetto ai suoi architetti di fiducia, Percier e Fontaine. Fu scelta la zona chiamata i Quattro Cammini, ma i lavori si fermarono per l’attentato al Primo Console del 24 dicembre 1800; ripresero nell’agosto del 1803 terminarono nell’autunno del 1804. La fontana era costituita da una vasca di quindici metri di diametro, alimentata con l’acqua della Senna prelevata con una pompa a vapore. Zampillava alla base del monumento attraverso quattro mascheroni in bronzo. Il monumento era costituito da un piedistallo alto dodici metri con zoccolo, pila in stile neoclassico e con una piramide con tre gradini. Nel lato verso la Senna un'iscrizione in francese, nel lato opposto una iscrizione in latino, indicavano il trofeo catturato. Su questo si erigeva la statua del Leone a cui, come chiaro segno di disprezzo, i francesi avevano piegato la coda verso il basso posizionandola fra le gambe posteriori. Nel 1815 con il ritorno degli austriaci a Venezia, l’imperatore Francesco Giuseppe chiese la restituzione sia dei quattro Cavalli che del Leone. Il due di ottobre dello stesso anno si procedette alla sua deposizione dalla fontana. Non avendo Venezia provveduto all’invio di operai, i francesi iniziarono l’operazione ma pare che per la rottura di una corda, qualcuno disse sabotata da un guardiano, o altri dicono per una demolizione pilotata, la statua cadde e nel cadere si ruppe in più di cinquanta pezzi. I Cavalli partirono da Parigi direzione Venezia il 24 di ottobre 1815. I veneziani piansero quando il mucchio di rottami giunse a Venezia il 7 di dicembre sulla stessa chiatta, a fianco dei quattro Cavalli che fortunatamente avevano subito solo pochi danni. I quattro Cavalli verranno rimessi al loro posto nella terrazza della facciata della Basilica di San Marco alla presenza dell’Imperatore Francesco I e Metternich il 13 dicembre 1815, mentre la statua del Leone fu restaurata da Bertolomeo Ferrari, scultore dell’Arsenale, e rimessa sulla colonna il 13 aprile 1816.E' così che si conclude una storia dolorosa dei due simboli più amati dai veneziani, trasformati in bottino di guerra ma fortunatamente tornati a vegliare e a proteggere la meravigliosa e unica città di Venezia.

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Rubrica a cura di Sabrina Donò

c a r c e r e

sotto protezione cosa invece che non vale per le popolazioni civili inermi. Torniamo a noi, cioè al discorso, questo figlio di quella politica occidentale che lo ha partorito per scopi non ben definiti ai pochi, ma molto chiari ai molti, prima con l'estromissione di Saddam in Iraq, praticamente l'eliminazione, in seguito Gheddafi in Libia e per finire la Siria di Assad e guarda caso tutte aree dove si e' sviluppato il problema. Si sono salvate sia l’Egitto che la Tunisia per via che pur essendo Paesi di origine islamica sono di ben lunga di area laica quindi già da tempo soggiogate dai Paesi colonialisti. Una riflessione con la quale mi sono confrontato per dare una spiegazione a tutto questo, cioè il vero scopo dei Paesi occidentali coinvolti a intervenire in quell’area militarmente, con la scusa di sopperire alle esigenze che l’affliggono: guerre di sterminio di civili, pulizia etnica, eccetera., che a mio parere sono stati provocati da loro stessi per coprire il vero obiettivo e cioè invaderli o almeno destabilizzarli per poi decidere a loro piacere chi deve governare per i propri interessi: appropriarsi dell’oro nero (petrolio). Visto poi che i Paesi industrializzati dipendono quasi totalmente da questo combustibile che si pensa addirittura da studi fatti che entro venti o trent’anni sarà estinto grazie anche ai Paesi emergenti (Cina, India, Brasile) che si ritengono i maggiori consumatori. Detto questo torniamo a noi: oltre a questo, il problema ne ha rinnovato un altro e ce l’abbiamo in casa, cioè il terrorismo vedi in primis l’episodio delle torri gemelle, in seguito la metropolitana di Londra e poi ancora in Spagna con il treno e infine ai nostri giorni in Francia, a Parigi. Ereditato questo problema ora si vogliono lavare la faccia davanti ai mass media facendo capire che fermeranno a ogni costo questi terroristi che fanno parte dell’ Isis, che si sono pure inventati uno Stato in quell’area: lo chiamano il califfato. Non era meglio che ci pensavano prima di provocarlo? A discapito dei cittadini inermi che pagano lo scotto, evidente che la vita umana vale meno dei propri interessi e pensare di sviluppare prima le energie alternative al petrolio visto che di certo si sono resi conto che per quel periodo non saranno pronti alla sua sostituzione con l’energia pulita, oltretutto ci sarebbe da guadagnarne in salute, giusto? A conti fatti così hanno deciso a tavolino l’opzione destabilizzante di quell’area per correre ai ripari dalle inefficienze interne. Faccio presente agli Stati Uniti per primi, fanalino di coda la Gran Bretagna e per finire la Francia, che di certo tutto questo può provocare di peggio, ossia non mi meraviglierei se la prossima guerra arrivasse per via di quello che stanno combinando in quell’area, visto che l’ultima ha provocato cinquanta milioni di morti in casa e si saranno detti “ Perché non farne una al di fuori dei propri confini?” magari in medio oriente già che ci sono si saranno detti ci guadagniamo pure in risparmio di ossigeno vista la riduzione di certo che avverrà nella popolazione! Questo articolo me l’ha ispirato un film: “I tre giorni del condor” che parla di questo tema, dimenticavo: ho tralasciato di parlare della Bosnia per via che non c’erano particolari interessi economici per gli Occidentali, priva di risorse e di materie prime, tant’è che hanno aspettato dieci anni prima di intervenire militarmente molto probabilmente la decisione d’intervenire è da ricercare nella pulizia etnica decisa da Milosevic, oltre al sogno perseguito la grande Serbia evidentemente non ha fatto piacere a qualcuno e si è deciso l’abbattimento del tiranno pur senza tornaconto. Dimenticavo i mass media hanno fatto la loro parte per evidenziare il problema. Ora vorrei aggiungere due righe a riguardo dell’Afghanistan per dar forza alla mia tesi. Vedi cos’è successo, prima di tutto ci hanno provato i russi invadendo senza successo quei ter-

La scrittura come “luogo di libertà” Sembrerebbe che scrivere in carcere sia una cosa che viene da sé, naturalmente, bastano carta e penna e tempo a disposizione. Ma, se anche per molti rimane l’unico mezzo di contatto “libero” con l’esterno, in realtà poi prendere carta e penna e mettere una parte di sé sul foglio è una cosa difficile, molti usano ancora “l’amico che ha studiato”, molti provano e rinunciano, altri invece la trasformano in un’attività al limite del patologico: non sono pochi i grafomani che si scoprono in carcere, ma il livello è quasi da “malati della scrittura”, e difficilmente ha sbocchi di una qualsiasi utilità o interesse. Un laboratorio di scrittura invece è un’altra cosa, è imparare, sperimentare e produrre con lo strumento della lingua scritta, e non è una operazione semplice, occorre studiare, e come tutte le materie scrivere può diventare interessante e coinvolgente oppure no. Il tema del mio laboratorio di scrittura di quest’nno è “Il viaggio”. Il carcere non è certo il luogo per antonomasia del viaggio, piuttosto è quello dell’immobilità, o rischia di esserlo se, tra il tempo che non passa e le privazioni, non si riesce a trovare un senso nello svegliarsi tutte le mattine ed arrivare a sera in quelle condizioni. Ma l’immobilità non è solo quella fisica, che è pesante, dannosa, deformante e patogena, l’immobilità grave è quella mentale, compresa quella emotiva ed affettiva. Così quella materia studiata a scuola per comunicare scrivendo, piena di regole, diversa dalla lingua parlata, diventa, perché proposta in maniera intelligente, l’apprendimento di uno strumento molto potente. È un libro che testimonia proprio come la scrittura può diventare “il luogo di libertà” dove le persone si ritrovano nel raccontare, che è prima di tutto raccontarsi, ascoltarsi, visitare, con metodo ed attenzione, quel mondo interiore che rischia di annichilirsi per l’isolamento e la mancanza di stimoli. Farsi aiutare dall’idea del viaggio poi, oltre ad essere provocatoria, esalta il risultato di un lavoro individuale che mostra come siano diversi i percorsi, i luoghi, le mete, ma che insegna a condividere un metodo, ossia trovare delle regole che permettano di mettere in comunicazione le diversità che oggi in carcere convivono a volte in maniera problematica. È importante che in carcere la lingua scritta possa avere uno spazio, soprattutto se organizzata in laboratori, perché la sensazione in generale è oggi che la scrittura venga sepolta e dimenticata, quasi che la lingua parlata possa sostituirla del tutto. Ma la scrittura è ben altro, ed il fatto che possa andare persa o che diventi una capacità d’élite significa che ne sarebbe facilmente privata una fascia di persone più deboli e povere interiormente, con meno strumenti di conoscenza di sé e, a volte, più facilmente vittime della cultura dell’omologazione, e quindi dell’alienazione. Allora, tanto più significativo diventa lavorarci, con la scrittura, accanitamente e testardamente proprio in galera. Prof.ssa Donò Sabrina

L’ ISIS : la nuova strategia del terrore Dunque si parla molto, anzi troppo, del problema terroristico, ma si fa poco per combatterlo probabilmente per via degli interessi che provoca ai beneficiari, solamente quando il problema tocca il picco i mass media si danno da fare e quindi ho deciso di scrivere qualcosa a riguardo. Dunque, per prima cosa può toccare chiunque, ma molto raramente i diretti interessati per via che loro sono sempre o quasi

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un mandato di perquisizione e dobbiamo procedere”. Credevo che cercassero abbigliamento falso oppure i documenti manomessi dei ciclomotori , niente di tutto questo: cercavano un Assassino , uno dagli occhi di ghiaccio come mi hanno descritto i quotidiani locali e chi meglio di un meridionale ha queste caratteristiche , nessuno , eccolo è Lui, manette commissario “ carcere “. Sbarre e cemento per fortuna c’è un altro colore : l’azzurro, quello del cielo ? no , quello che porto nel mio cuore , quello della mia Napoli , sì sono napoletano e ne sono orgoglioso . La prima fase, una volta entrati è la Matricola , foto , impronte e generalità , nella seconda fase direzione Magazzino , dove si viene spogliati dei propri abiti e controllano tutto , il vestiario , tatuaggi e anche “ dentro “ in caso di possesso di “ roba strana “ abituati forse a trattare con i tossici , e qui ci si fa un’idea di quello che può accadere e che la dignità propria la si deve mettere da parte. La terza fase è la consegna di un materasso di gommapiuma ( ora ignifugo )un cuscino sempre di gomma , due lenzuola sottili ( in caso di arresto estivo ) un pò più pesanti se si viene carcerati dopo agosto, due lerce coperte , una caraffa di plastica , cucchiaio e forchetta in plastica ed un bicchiere , e per finire una bottiglietta piena di bagnoschiuma. Poi si inizia a camminare con il fardello in spalla in direzione del reparto in cui verrai ospitato , inizialmente il Reparto Giudiziario ,dove si cominciano a capire le prime nozioni della Struttura : cancelli in acciaio da oltrepassare dopo essere stati perquisiti elettronicamente dove comincia la legge della divisa e finisce quella di Dio . Porti dentro , nascosti dove non posso essere requisiti , solo i ricordi , nascosti nel profondo del cuore , la compagna che hai lasciato con le lacrime sul viso che tanto avevi accarezzato , il ricordo dei figli con la voce rotta dal pianto che si chiedono : dove vai ? dove ti portano ? quando ritorni ? il lamento di mia madre che si chiede ancora stupita : figlio che st sta succedendo ? niente mamma rispondi , è il gioco della vita. Mia madre per quattro anni solo al telefono , ricordo ancora l’ultima telefonata : sii forte figlio mi disse ,me lo hai insegnato tu , mamma , ad essere forte le risposi. Quelle furono le ultime parole che mia mamma pronunciò . Le giornate passavano , i mesi volavano , così un giorno mi dissero che nella struttura cominciavano le scuole Io che le scuole non le ho mai frequentate mi convinsi ad iniziare , fra dubbi e timori di non riuscire ed ancora oggi le sto frequentando , con buoni risultati , e ciò che non imparai da bambino lo sto vivendo ora , capendo i vari tranelli che la vita mi ha messo davanti e di cui sono stato sottomesso a causa della non conoscenza delle parole e della scrittura. Ho imparato tante cose che mi servono ora , o quello che sarà il mio futuro , da non detenuto , ho imparato il perché di tante condanne e di tanti errori ,ho capito dove non sbagliare più. Mi sono trovato con una penna in mano , un foglio bianco pronto ad essere riempito con i miei pensieri , una professoressa armata di tanta pazienza , comprensione , tenerezza ,che è riuscita a trarre dal profondo del mio cuore tutta la rabbia , tanti segreti che gelosamente serbavo , tante immagini e parole che mai avrei voluto scrivere o semplicemente dire ad un estraneo .ora ho ancora una compagna , che pure Lei ha vissuto la vita del carcere , l’ho conosciuta in una casa famiglia , dove era detenuta con i figli , persone che non hanno più nessuno , nessun rapporto coi genitori e con la “Società normale” , gente e persone a cui resta solo la comprensione e l’amore di persone che offrono la propria disponibilità senza guardare in faccia chi hanno davanti .faceva la prostituta , si avete capito bene ,il vecchio mestiere , la professione , vendeva il suo corpo per

ritori, ritirandosi successivamente forse perché i tempi non erano maturi. Inoltre a proposito della cortina di ferro che impediva di certo il dilagare del terrorismo. In seguito sono arrivati gli americani giocando sporco con sempre lo stesso scopo: cioè i propri interessi (sfruttamento delle risorse del territorio). Si sono presi come scusa l’abbattimento delle torri gemelle per intervenire militarmente accusando direttamente i talebani dove scaturì Al Queda guidata da un tale conosciuto con il nome di Bin Laden, figlio partorito dalla CIA. Costruito a tavolino per i loro scopi, cioè l’invasione dell’Afghanistan, se non erro apparteneva alla famiglia reale Saudita, amici storici dell’America, quindi mi domando “Che c’azzecca con il terrorismo?” per finire “E’ davvero morto?” ma questa è un’altra storia … non ci resta che attendere quale sarà il prossimo obiettivo. Infine l’unica differenza è che prima si chiamava Al Queda, ora si chiama ISIS. E in futuro? Un avvertimento ai futuri dittatori o terroristi che saranno e resteranno solamente delle pedine di un gioco in uno scacchiere dominato dai potenti che decideranno quando fare la mossa vincente, cioè scacco matto. Dimenticavo a chi non lo sapesse Taliban significa studente; tanto da rimanere nel discorso ultima cosa forse l’Afghanistan non è ricco di petrolio come lo sono i Paesi sopra elencati, ma è il più grande produttore di oppio che come si sa si estrae dal papavero; dal quale a sua volta, con un procedimento chimico, si arriva alla morfina base. Per finire si approda all’eroina e si sa gli Stati Uniti ne sono ghiotti oltre a essere grandi consumatori, se non i maggiori, quindi basta fare business in qualsiasi modo e soprattutto a qualsiasi prezzo a discapito delle popolazioni. Marco

Dove ho capito e conosciuto la parola vivere? Ognuno di noi l’ha conosciuta e capita in luoghi diversi . Vivere con la famiglia , vivere coi genitori , vivere con la propria moglie o compagna e così all’infinito. Lo volete proprio sapere dove ho conosciuto queste parole ? Se avete tempo , e siete così curiosi della mia storia , vi porto in un mondo a voi sconosciuto , che solo attraverso un documentario , un film , oppure per sentito dire da altre persone potreste incontrare. Non abbiate paura , datemi la mano , stiamo per entrare nel mondo del Carcere. Erano le ore 18,50 di una sera di settembre all’ improvviso, il campanello che squilla, vado ad aprire : “ Buona sera , siamo della Polizia , abbiamo

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mantenere i propri figli La incontrai per strada , durante il suo lavoro , mi colpì il suo viso , triste , senza luce , lo sguardo perso nel vuoto di altri occhi sconosciuti , cercava qualcosa di positivo , non solo sesso , qualcosa e qualcuno di “pulito “ qualcosa al di fuori della solita domanda : quanto vuoi ? quanto costa il tuo corpo ?mai una domanda diversa , mai un apprezzamento o una delicatezza , un parola gentile fino a quando io la incontrai. Fu un gran giorno , sebbene fosse un giorno normale fu il giorno in cui la Sua e la mia vita cambiarono Diventai padre di altri due bambini , 7 in totale , tre dalla prima moglie , 2 dalla seconda gli ultimi due , quelli della mia compagna attuale non portavano il mio cognome ora si ,e ne sono fiero ed orgoglioso , perché dopo tante pene e tanta burocrazia , dopo tanti anni siamo riusciti a sconvolgere la Legge Italiana sugli affidamenti e sulle adozioni. Ho vinto un’altra battaglia , oltre alle normali difficoltà della vita a cui sono stato sottoposto , ho trovato un pò di spazio dentro il mio cuore per ospitare anche loro. Ehi tu che leggi , o forse stai facendo finta di leggere e mi stai giudicando , non cercare di capire qualcosa di diverso da quello che ora sta vivendo il mio cuore , io sono fatto così , è la mia vita , i figli sono la mia vita , anche se vivono al di fuori della mia normalità , sono sangue del mio sangue e nessuno mi può giudicare , su questo! Tu che leggi , che ne sai del carcere , della vita che ora sto vivendo tra cemento e sbarre , i rumori continui delle chiavi che aprono e chiudono le celle , la tua libertà ,che chiudono dentro una cella le tue emozioni , i tuoi desideri , tutto ciò che vorresti fare/vedere, vivere , un mondo fatto di domandine scritte a qualcuno che decide cosa tu devi fare , quando puoi e se puoi telefonare ,se puoi andare a farti la doccia oppure respirare un pò di aria pulita durante il giorno , se puoi sentirti uomo. Tu che ne sai delle speranze ch rimangono fuori dalle mura o rinchiusi dentro la tua mente , delle bestemmie elevate ad un qualcosa o qualcuno che non c’è ma vorresti che ti ascoltasse , che esistesse , di un Giudice che ti condanna solo leggendo le carte e non dentro il tuo cuore , che non sa chi sei , ma sa perché sei rinchiuso. Si questa è una parte della vita da detenuto , mangiare seduto ad uno sgabello davanti ad una tavola di 80 cm x 50 cm in 4 (quattro), una televisione comandata da chi ti osserva attraverso uno spioncino e che viene a verificare se sei in cella dopo averti accuratamente rinchiuso (la conta) che viene anche a svegliarti di notte (ogni tre ore) per verificare se ancora respiri ,oppure aspettare un raggio di sole che venga ad illuminare la cella (venti mq da dividere anche in 6). L’unica cosa libera è la possibilità di riflettere non davanti ad uno specchio che non esiste , ma dentro di te , dentro le fotografie appese al muro , custodite gelosamente per paura che altri detenuti vengano a vederle e magari possano criticare , oppure scrivere ogni passaggio nuovo della luna contro i muri della cella. A scrivere poi cosa ? quante volte ? con quali parole ? Quali pensieri sviluppare per quelli che ora stanno leggendo ? Tante cose si potrebbero dire, ma una mi preme ricordartela: non farti illusioni , tu che ora stai leggendo , non meravigliarti della mia vita , che alla fine è quella di tutti quelli che come me stanno vivendo il carcere , anche tu , un giorno , potresti essere uno di noi. Il sole che non entra mai , il mare che esiste ma non si vede e l’amore che resta a stagnare nel cuore , questa è la vita di noi carcerati , così da accettare volutamente o forzatamente è quella che ora abbiamo accettato di vivere

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“Once I had my own front porch however, I felt positioned in the world” Larry Towell è un fotoreporter anomalo. Non ama viaggiare, lo fa a malincuore e solo quando il soggetto che deve fotografare lo interessa veramente. Ma una volta in viaggio non si preoccupa del passare del tempo e segue la situazione individuata nei minimi dettagli. Non ama neppure parlare molto di sé, indossa quasi sempre un cappello di paglia e delle bretelle; è l’archetipo del pacifico uomo di paese che rispetta le tradizioni ed evita la tecnologia. Tornato dall’esperienza di volontariato in India, trascorre molto tempo da solo su una casa galleggiante, a stretto contatto con la natura. Durante uno dei suoi approvvigionamenti mensili in città incontra la sua futura moglie Ann e insieme acquistano una vecchia fattoria nella Contea di Lambton, costruita dal pioniere Samuel Smith, non lontano da una serie di rapide del fiume localmente conosciuto come “Di Smith Falls”, in una zona rurale dell’Ontario (in Canada). In questi luoghi Towell continua ad apprezzare il vero valore delle cose ordinarie; gli agricoltori e i loro conflitti con la terra diventano la sua fonte d’ispirazione. Ed è proprio davanti al suo amato portico che scatta questa foto nel 1995. Nell’immagine compaiono Noah, uno dei sui figli, mentre riposa sul prato, e il fedele cane Banjo che abbaia. Il box di Isaac e il gatto Rusty (un altro gatto si intravede sulla sinistra) sono sulla veranda della casa, che si estende oltre la porta dell’abitazione e si allunga fino a scomparire nel paesaggio. La foto viene pubblicata nel 2008 assieme al suo pluripremiato libro The World From My Front Porch, un progetto personale con il quale documenta la sua vita, la famiglia e la terra che ha definito la propria identità e che sviluppa dopo aver seguito diverse storie di ingiustizia e d’identità nelle zone di conflitto e di tensione sociale in tutto il mondo. L’opera potrebbe essere descritta come una retrospettiva di metà carriera, ma si rivela invece come il riflessivo e suggestivo lavoro di un fotografo che riflette sul significato di appartenenza e sul valore della famiglia, convinto fermamente che l’identità dell’individuo sia nella territorio stesso nel quale cresce e dimora. Il titolo stesso, The World From My Front Porch, evoca il concetto assieme a quelle qualità che per molti sono state perse nella corsa verso la modernità. Il libro è costituito da un archivio storico di oggetti trovati, documenti, vecchie fotografie, suoi progetti come fotoreporter della Magnum e da bellissime e intime immagini che documentano la sua famiglia nel corso di due decenni. E’ una sorta di inventario di un uomo dalle convinzioni e valori personali, di un artista che si è guardato dentro e con sentimento ha ritrasmesso con eleganza, attraverso delle suggestive immagini, quello che per lui rappresenta la casa e la famiglia. “Una volta ho avuto il mio portico, mi sentivo posizionato nel mondo”. Larry stesso si stupisce del fatto che molti fotografi non fanno le foto della loro vita o della loro casa perché non le considerano soggetti meritevoli. “La casa è dove il cuore è”. Questo è il posto dove meditare, dove finire la propria giornata, dove spegnere il tram tram quotidiano. Towell sostieneva di esser stato spesso distratto dagli eventi e dagli scenari mutevoli mentre fotografava gli eventi all’estero; ma qui, nella sua terra, è nell’attenzione ai dettagli che trova un piccolo spazio di respiro per comprendere la vita.

Gennaro

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oltre

Rubrica a cura di Paola Poletto

s c a t t o

Le foto di questo lavoro raffigurano tutte un’ambiente circostante vivo: il cane che rincorre un procione ai piedi di un albero, la moglie che accudisce i figli, i bambini che giocano sul fiume e sui prati, mucche al pascolo, momenti di relax … Nelle fotografie non ci sono parole, ma solo simmetria ed emozione. C’è una sorta di meditazione in ciascuna immagine che ti costringe quasi a fermarti a osservare attentamente con tutti i sensi e dal proprio punto di vista personale la geometria del mondo per catturare un po’ della sua essenza e custodirla. Non è nella capacità illustrativa della fotografia che si trova la sua forza, ma bensì nella sua anima. Osservando le delicate immagini del libro, ci si rende conto che è più di una selezione di immagini familiari, ma è un opera sulle influenze esterne che plasmano la vita. Per la famiglia Towell, è la vita di campagna, l’eredità di generazioni di famiglie che hanno lavorato la terra e hanno costruito quello di cui avevano bisogno, attenti al contatto con la natura e con l’ambiente circostante.

Salvador, sui parenti degli scomparsi in Guatemala e sui veterani della guerra del Vietnam. Le immagini sono tutte in bianco e nero, fedeli al fascino della pellicola, raccontano le storie da un punto di vista umanistico, restituiscono una profonda dignità ad ogni soggetto fotografato, rivelandone al tempo stesso terrore e speranza, violenza e pace, sofferenza e compassione. “Per me il bianco e nero possiede una personale latitudine, uno spazio in cui il fotografo si può muovere. La fotografia ha molti punti in contatto con la poesia. Il bianco e nero è minimalista, come la poesia è letteratura cui è stata strizzata via tutta l’acqua”. Nel 1988 si unisce all’agenzia di stampa Magnum e i suoi reportage vengono pubblicati sul New York Times, su Life, Rolling Stone ed altre riviste. La sua bibliografia include libri fotografici, di poesia e di storia. Ha inoltre registrato numerosi CD di canzoni e poesie originali. Nel 1993 vince il Wordl Press Photo of the Year.

Biografia: Larry Towell (1953) è un fotografo canadese. Figlio di un carrozziere, cresce in una larga famiglia in una zona rurale in Ontario. Durante gli studi in Arti Visive all’università di York a Toronto coglie il suo interesse per la fotografia, impara l’uso della macchina fotografica e il processo di sviluppo della pellicola in bianco e nero. Dopo un periodo di volontariato a Calcutta nel 1976 (dove cresce il suo interesse alle questioni legate alla distribuzione della ricchezza) torna in Canada, insegna musica folk per un po’ e successivamente intraprende la carriera di fotografo freelance e scrittore. I suoi primi lavori fotografici includono progetti sulla guerra dei contras in Nicaragua, sulla guerra civile a El

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