Oltre n 10

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Organo di Informazione UniversitĂ Popolare di Camponogara Direttore Responsabile: Michele Gregolin

OLTRE - Laboratorio di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 10 Settembre 2015 - www.oltreonline.info


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s i a m o

Direttore Responsabile Docente di fotografia Photo Editor Responsabile Comunicazione Redazione

Collaboratori esterni

e-mail Foto di copertina Impaginazione e grafica Sito internet Progetto

Michele Gregolin (direttore@oltreonline.info) Martina Pandrin Francesco Dori Omar Argentin, Massimo Bonutto, Andrea Collodel, Lucia Finotello, Luisella Golfetto, Enrico Gubbati, Alessandro Pagnin, Paola Poletto, Mirka Rallo, Marta Toso, Riccardo Vincenzi. Cristina Basei, Francesca Belluzzo, Marta Frisoni, Alessandra Lando, Giuseppe Marcato, M.Cristina Moreschi, Giuseppe Moreschi, Silvia Maniero, Jessica Nardo, Antonella Salvagnin, Cinzia Zampieri. oltre@unipopcamponogara.it © Michele Gregolin Michele Gregolin, Martina Pandrin http://www.oltreonline.info http://www.unipopcamponogara.it Oltre è un progetto editoriale del Corso di Fotografia dell’Università Popolare di Camponogara Laboratorio Fotografia & Comunicazione


oltre e d i t o r i a l e

John H.White, foto giornalista del Chicago Sun-Times, dopo gli allori ricevuti nel 1992 con il premio Pulizer per la fotografia, tutto si sarebbe aspettato, al di fuori che ricevere una lettera di licenziamento con effetto immediato dal suo giornale. La sua lettera arriva assieme a quelle di ben altri 28 dipendenti, in sostanza tutto lo staff di fotografia del quotidiano statunitense. Fin qui, in un periodo di crisi, questa sarebbe una notizia che passa per lo più inosservata: tagli al giornale, crisi dell’editoria, vendite in calo, motivazioni che, pur a malincuore, possono essere se non capite, accettate. Nulla di tutto questo: lo staff si ritrova a casa perché il prestigioso giornale decide di non utilizzare più un gruppo di professionisti, bensì giornalisti dello stesso quotidiano o persone comuni, gente di strada che non racconteranno più le loro “storie” con sofisticate attrezzature professionali, ma con uno smartphone. Secondo una dichiarazione ufficiale, la ragione fondamentale della riorganizzazione è dare più spazio ai video e meno alle fotografie, come supporto alle notizie, seguendo le esigenze di un pubblico più consapevole ed esigente dal punto di vista dei contenuti digitali. Per fotografie e filmati il giornale avrebbe intenzione di affidarsi ai freelance, probabilmente anche con l’obiettivo di ridurre i costi. La mossa successiva del Chicago Sun-Times, è stata quella di avviare per i giornalisti e in genere “il personale impiegato in ambito editoriale” un corso di formazione obbligatorio per insegnare loro le basi della fotografia con iPhone.

senso di un giornale come il nostro che vuole raccontare e documentare storie, possibilmente con strumenti professionali. Perché convinti che, pur non essendo la macchina fotografica a fare le belle foto, ma l’amore ed il sentimento che metti dentro in ogni fotografia, l’uso di uno strumento nato solo per realizzare fotografie, possa dare quell’apporto in più che unisce l’amore alla qualità. La qualità: oggi purtroppo dimenticata dai più e cavalcata da pochi. Certo nella documentazione di uno scatto veloce, l’utilizzo di uno strumento piccolo, leggero, a volte invisibile come uno smartphone, ricalca l’idea che ne aveva Henry Cartier Bresson della fotografia, fatta senza essere notato, senza salire in cattedra solo perché muniti di un pass o di una “finta” etichetta da fotografo. Ma quando racconti una storia, lo smartphone è inadeguato alle esigenze di un reporter , hai bisogno di uno strumento che supporti lunghezze focali, controlli manuali dell’esposizione e punti precisi di messa a fuoco del soggetto. A parte le questioni tecniche, il giornalista non è un fotografo, lo vediamo noi nel nostro piccolo, perché spesso chi scrive il testo dei nostri articoli, pur uscendo dallo stesso laboratorio di fotografia, si stacca e pensa solo alla stesura dell’articolo; chi descrive un fatto, racconta una storia, e chi la deve fotografare, deve avere, ed ha, un approccio diverso. Ben venga la tecnologia, cercando di non perdere il valore della storia che, se pur fatta di progresso e repentino cambio tecnologico, deve rimanere di proprietà di chi pensa alla fotografia, ama la fotografia, vive di fotografia....in parole povere un fotografo.

Cari amici, l’editoriale di questo numero mi porta a pensare alla fine di una fotografia che piano piano sta colpendo tutti i settori e che, con il fai da te, e l’uso spropositato di strumenti di post produzione, continua un declino inesorabile; ma soprattutto mi porta a fare un pensiero sul

Michele Gregolin Direttore


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sommario world master, sculture di sabbia Testo di Michele Gregolin

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Fotografie di Francesca Belluzzo, Massimo Bonutto, Michele Gregolin

luna park ai pioppi Testo di Martina Pandrin

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Fotografie di Omar Argentin, Martina Pandrin

l'ar te della seta

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la terra di hope

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por ta nuova garibaldi

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Testo di Paola Poletto Fotografie di Michele Gregolin, Paola Poletto

Testo di Maria Cristina Moreschi Fotografie di Enrico Gubbati, M.Cristina Moreschi, Paola Poletto

Testo e fotografie di Cristina Basei

il vigneto di mozar t Testo di Maria Crstina Moreschi Fotografie di C.Basei, A.Lando, G.Marcato, M.Moreschi

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un grande gatto veneziano

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dalĂŹ atomico - NY 1980

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Testo di Giuseppe Moreschi

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Rubrica a cura di Paola Poletto

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Testo di Michele Gregolin Foto di Francesca Belluzzo, Massimo Bonutto, Michele Gregolin


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sculture di sabbia il magico mondo dei giocattoli Chi di noi da bambino, e forse anche un po' da adulto, non si è cimentato, in riva al mare, nella costruzione di un castello di sabbia? E' sicuramente qualcosa che attira grandi e bambini: amalgamare la sabbia con l'acqua, impastarla, e creare figure complesse o semplicemente torri che evocano antichi fasti, castelli con ponti levatoi, dove la fantasia e l'immaginazione corrono lontana. E' successo lo stesso a Cervia durante il 18° World Master sculture di sabbia, una manifestazione che ormai si ripete da molti anni sul litorale Cervese. Quest'anno la manifestazione è dedicata al “magico mondo del giocattoli”. Le 10 coppie di artisti che si sono sfidati provengono da tutto il mondo. Alcuni sono hobbisti, altri dei veri e propri professionisti, tutti a confrontarsi in tre giorni di lavoro. Per ogni scultura, che può superare i 4 metri di altezza, vengono utilizzate circa 6 tonnellate di sabbia e 18 tonnellate di acqua. La sabbia viene bagnata, compattata e, sotto le mani di abili artisti, prende forma in una miriade di dettagli degni dei più grandi scultori del passato. Un punto fondamentale, che viene affrontato con gli artisti, è il tempo. Generalmente si immagina che chi, sapientemente crea dalle sue mani, voglia che l'opera rimanga e possa essere vista e apprezzata da tutti per il più lungo tempo possibile. Le sculture di sabbia hanno una durata limitata, ma se conservate bene, ovvero se ogni due o tre giorni gli viene spruzzata una soluzione di acqua e colla, che mantiene la sabbia umida e compatta, possono durare anche un paio di mesi. Per gli artisti il momento più importante è quando la sabbia prende forma. Parlando con Francesca e Walter, ormai conosciuti nel mondo come “Sandytales”, ci spiegano che per loro creare un' opera con la sabbia è come fare un concerto: a volte viene bene, a volte meno, ma è sempre un prodotto artistico unico ed irripetibile, e non importa se non dura, deve trasmettere qualcosa nel cuore o semplicemente negli occhi. Tutto ha inizio per Francesca Cosmi e Walter Fantino come un gioco, dopo che costruendo castelli, aeroplani e macchinine, ricevono i primi apprezzamenti e gli viene suggerito di partecipare al Trofeo di Cervia nel 2001, gara che li vedrà vincitori. Oggi per loro questo è quasi un lavoro, si ritengono dei professionisti e lo dimostra il loro curriculum con innumerevoli vittorie nelle competizioni e nelle manifestazioni in tutte le parti del mondo. Dalla Russia alla Cina dall'India alla Finlandia, modellando non solo sabbia, ma anche ghiaccio e neve, qualsiasi materiale che permetta che un'idea si trasformi in realtà: in un opera d'arte. Solo nel 2015 hanno partecipato a più di 15 competizioni con quasi 90 ore di lavoro. Quando si parla di competizioni si sentono un po' amareggiati, dicono infatti che ce ne sono poche in Italia e per questo sono costretti a girare il mondo; negli Usa questo tipo di arte è considerata uno sport.

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Gli artisti a loro volta chiedono suggerimenti su cosa mettere o fare per abbellire la loro opera.. non esiste una differenza fra artista e spettatore, ed è forse questa la cosa più bella di tutta la manifestazione: persone che raccontano loro stessi con maestose opere di sabbia. “Qualsiasi opera di un uomo, si tratti di letteratura o musica o pittura o architettura, è sempre un suo ritratto”. Samuel Butler, Taccuini, 1912 (postumo) I lavori realizzati sono stati giudicati, come sempre dal pubblico, mentre una giuria tecnica, composta dagli stessi artisti, che quasi come una famiglia si scambiano consigli e si fanno i complimenti a vicenda, ha eletto la scultura tecnicamente più valida. Il 18° World Master sculture di sabbia è stato vinto da Mario Vittadello e Ornella Scrivante, mentre al secondo posto si sono classificati Walter Fantino e Francesca Cosmi. Le opere rimarranno in esposizione fino a Ottobre inoltrato dando vita ad un museo di sabbia. Il museo sarà visitabile tutti i giorni dalle 9 alle 23, con ingresso libero, presso il lungomare Grazia Deledda 6, Cervia.

Di tutt'altra pasta sono i padovani Mario Vittadello e Ornella Scrivante, lui scultore e insegnante al Liceo Artistico di Belle Arti di Montegrotto, lei ora casalinga; per loro gli hobby sono molti, dal ballo argentino alla sand-animation e partecipano alla competizione di Cervia con un opera dal titolo “giochiamo a fare il bagnetto?” una scultura alta un paio di metri che raffigura una bimba in una vasca da bagno attorniata da Barbapapà, pesciolini e tartarughe. Anche per loro il momento più importante è quando si crea e “a volte succede che mentre stai lavorando su un'opera hai già in mente qualcos'altro su cui iniziare”. Gli occhi di queste persone, quando modellano le loro sculture, hanno una luce incredibile, sembrano quelli di bambini cresciuti immersi nel loro mondo. Non hanno più paletta ed il secchiello di plastica colorata, ma arnesi professionali con cui creano sculture, che affascinano e incantano spettatori grandi e piccini. Chi chiede a loro un piccolo consiglio per far si che il giorno seguente possa costruire il castello di sabbia migliore dell'amico, viene accontentato con trucchi e segreti del mestiere.

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Testo di Martina Pandrin Foto di Omar Argentin, Martina Pandrin


luna park ai pioppi

un luna par k a dimensione umana E’ evidente che non è solo un luogo per bambini, ma il luogo per eccellenza in cui l’adulto ritorna bambino ed abbandona i freni imposti dalle convenzioni sociali. Il segreto del successo di questo Luna Park non è poi così difficile da svelare: è un luogo che parla di libertà, natura, gioco, cibo, ossia di tutto quello che porta serenità e benessere. Questo è il vero segreto del suo successo: l’accoglienza, il senso di famiglia, la natura. E basta attraversare il Luna Park puntando uno sguardo curioso sulle persone presenti per coglierne il senso. Lasciandosi alle spalle l’Osteria con il grande bancone e Bruno alla cassa, ci si trova subito sotto al bosco. I raggi del sole che filtrano attraverso i rami e le foglie di faggi, castagni, betulle e pioppi del Luna Park, rendono il luogo incantato. Il caldo è attenuato dal fogliame ed i raggi del sole fanno brillare i colori accesi delle giostre. Le lamiere degli scivoli creano brillanti riflessi d’argento e in questa atmosfera magica bambini e adulti si aggirano fra le giostre sorridenti alla ricerca delle varie attrazioni. Le piccole montagne russe dal sedile giallo sono molto frequentate: il carrello deve essere spinto a mano fino in cima al binario per posizionarlo sulla linea di partenza e poi, saliti ed agganciati con la sicura, ci si lascia andare. Il binario è breve ma molto ripido e termina a semicerchio tanto che l’inerzia respinge il sedile indietro creando un sensazionale vuoto d’aria. Osservare i volti della persone che scendono è davvero illuminante: adulti e bambini, senza differenze, spalancano gli occhi in espressioni di paura per la velocità, per aprire il volto appena dopo ad un grande sorriso liberatorio. E subito, un altro giro: la fatica di spingere il carrello in cima è compensata dalla velocità e dall’adrenalina della discesa. Non è necessaria la corrente elettrica, è sufficiente la sola forza scaturita dal dislivello. Poco più avanti si trova il giro della morte in bici: due gabbie che girano di 360 gradi attorno ad un perno sfruttando la forza scaturita pedalando: la giostra ondeggia fino a fare il giro completo, fra urla di eccitazione e di fatica. Grande è la gioia di riuscire con le proprie gambe a fare il giro della morte. E poi ci sono maestosi scivoli che bruciano sotto i raggi del sole: si sale la scala dall’altissima struttura geometrica fin sopra l’orizzonte disegnato dagli alberi, per poi scendere, in picchiata, vivendo l’ebbrezza della velocità. E ancora: le gabbie a pendolo in cui il movimento è creato dallo spostamento del peso delle persone, i seggiolini volanti fatti con copertoni di auto, le altalene e molte altre giostre ancora. Il tutto gratuitamente e in piena sicurezza: a partire dal 2000, infatti, le giostre sono certificate e personalissimi e simpatici cartelli indicano le misure di sicurezza da adottare. Dopo il giro del Luna Park, sedersi a tavola con Bruno è come stare in famiglia, si ha l’impressione di conoscerlo da sempre e questa è la sua grande forza. E quell’energia che si legge nei suoi occhi esprime ancora con fierezza la scoperta che è stata all’origine di tutto e che non lo ha mai abbandonato, ossia la gioia di poter creare. Da condividere ora con il nipote, per un passaggio generazionale che consenta di mantenere in vita questo luogo magico.

Il Luna Park dell’Osteria ai Pioppi nasce da un’idea semplice e al tempo stesso potente che ha contrassegnato la vita di Bruno Ferrin, ossia la scoperta e la consapevolezza che ciascuno di noi può creare qualcosa, sia esso un oggetto, un’idea o un luogo dell’anima. Nel 1969 Bruno decise di affittare una piccola area boschiva in zona Nervesa della Battaglia e di farne una frasca, un luogo di ristoro con tavoli e panche in legno dove tutti coloro che avevano voglia di passare una giornata all’aperto potevano mangiare polenta, soppressa e salsiccia accompagnati da un buon vino, godendosi il fresco sotto gli alberi secolari del Montello. Quei primi anni settanta erano anni ruggenti per chi aveva voglia di lavorare e Bruno era pieno di energia e di voglia di fare. L’Osteria allora era aperta solo alla domenica pomeriggio. Dopo le prime tre stagioni di lavoro, durante le quali i Pioppi ebbero molto successo e divennero luogo di incontro molto conosciuto, Bruno decise di acquistare la terra dove era nata l’osteria e di diventarne pertanto proprietario a tutti gli effetti. Nacque tutto dalla costanza e dalla lungimiranza di un uomo e di una donna, sua moglie, molto intraprendenti e dall’assoluta semplicità del luogo accogliente e genuino, in un periodo in cui tutto era più facile, c’era meno burocrazia e si poteva ancora contare sullo spirito di collaborazione dei vicini, che permettevano l’utilizzo di acqua ed energia elettrica. Fu quando Bruno decise di installare vicino all’Osteria un piccolo scivolo per intrattenere i piccoli ospiti e le sue figlie che ebbe inizio la vicenda eccezionale di questo luogo. Per costruirlo chiese aiuto al fabbro del paese e da allora l’idea di creare qualcosa con le proprie mani animò la sua creatività. Al primo scivolo seguirono molte altre giostre, tutte creazioni originali, e nel frattempo l’Osteria continuava la sua attività, tanto che nel 1980 Bruno smise di fare il venditore e divenne oste a tempo pieno. E piano piano prese vita anche l’altro aspetto del suo creare, più squisitamente legato alla fantasia, che si concretizzò con la nascita non solo di un luogo fisico ma anche un luogo dell’anima. Vicino all’Osteria nacque infatti un vero e proprio Luna Park, un parco di divertimenti all’aperto con giostre ed attrazioni la cui idea fondante è l’utilizzo della sola forza muscolare per far funzionare le giostre. Ogni gioco, infatti, è progettato in modo tale da sfruttare, per il suo funzionamento, la sola energia fornita dal movimento di chi lo utilizza. La centralità dell’uomo sulla macchina. Un’idea rivoluzionaria nella sua semplicità: chi utilizza la giostra è elemento attivo, artefice diretto del proprio divertimento. Ci sono le classiche altalene, scivoli di varie misure, tappeti elastici e liane, ma anche girotondi, percorsi di guerra e tutta una serie di giochi ideati, progettati e creati personalmente da Bruno, che funzionano semplicemente sfruttando i dislivelli fra le varie parti della giostra oppure la forza motrice derivante dall’uso di pedali o semplicemente la forza scaturita dal corpo. Moltissimi i materiali di riciclo: pezzi di vecchie macchine, materiali proveniente da vetture o biciclette; in una delle giostre più amate, una piccola montagna russa, il carrello è stato fatto utilizzando il sedile di un trattore. Il Luna Park è il frutto della progettazione di pezzi unici associata all’idea del riciclo e dell’autonomia dall’energia elettrica.

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Testo di Paola Poletto Foto di Michele Gregolin, Paola Poletto


l'arte la

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Battista Gianoglio rilevano macchinari di una più antica tessitoria veneziana trasferendone la sede a Palazzo Labia, una sede commerciale vantaggiosa, sia per il prestigio del palazzo sia per la posizione strategica accanto al ponte delle Guglie, uno dei principali percorsi usati dai residenti e dai visitatori per raggiungere Piazza San Marco. L’altissimo livello qualitativo della produzione dei loro tessuti è comprovata dai numerosi frammenti di eccezionali damaschi, broccati e soprarizzi di alta qualità e gusto che testimoniano la conquistata fama dell’azienda e documentano la sua reputazione di migliore produttrice, superiore anche ai prodotti esteri concorrenti. I tessuti conservati mostrano innanzitutto una preferenza per i motivi iconografici del passato; velluti antichi di grande qualità destinati a un mercato elitario, che coprono tutte le tipologie stilistiche del passato, dal bizantino al gotico, al rinascimento, al barocco, al rococò, al neoclassico ma anche stili contagiati dall’arte contemporanea, dal liberty, dal decò e dall’astrattismo. Nei primi del Novecento aprono nuovi negozi e laboratori, tra cui quelli sul Canal Grande a Santa Croce. L’organizzazione all’interno dell’azienda è moderna e le maestranze abilissime; sono attivi circa ottanta telai a mano che producono damaschi e broccati finissimi e velluti operati molto ricchi. I velluti vengono eseguiti su telai a tiro, manuali, cui è stata aggiunta in alto la macchina di Jacquard (o Vincenzi) che sostituisce le operazioni dell’antica figura del lazarolo: le schede perforate (che contengono quello che sarà il disegno del tessuto) vengono fatte scorrere dalla macchina opponendo agli aghi collegati agli arpini, e quindi ai fili dell’ordito supplementare sul sottostante telaio, ora la superficie integra che li blocca, ora quella bucherellata

Nella lapide posta sopra il vecchio ingresso dello stabilimento della Tessitura Bevilacqua, al nr 1313 del sestiere di Santa Croce a Venezia, si legge “Per l’arte della seta Bevilacqua MDCCCLXXV”. La Tessitura Luigi Bevilacqua porta avanti una delle tradizioni più antiche di Venezia, affiancando ai telai originali del Settecento la produzione meccanica. Le tessitrici ancora oggi continuano a lavorare con gli stessi telai antichi usati nei secoli precedenti, che vengono messi in azione per creare delle vere e proprie opere d’arte; i velluti, i broccati, i damaschi, i lampassi e rasi prodotti hanno la stessa qualità di quelli di un tempo, perché fatti con le stesse tecniche, sugli stessi macchinari e con motivi provenienti da secoli e angoli del mondo diversi. La produzione tessile dei Bevilacqua ha saputo coniugare con inventiva la manualità e il senso artistico dell’artigiano con la produzione dei macchinari. Quando nell’Ottocento, dopo la soppressione delle arti veneziane a seguito della fine della Repubblica Serenissima e del provvedimento di scioglimento delle Corporazioni emesso dall’amministrazione napoleonica, vengono riattivate alcune tessitorie artistiche a Venezia, la Tessitura Bevilacqua è tra queste. Le prime fonti del coinvolgimento della famiglia Bevilacqua nella produzione di stoffe seriche, sono riconducibili al 1499, ma solo nel 1875 la Tessitura si organizza in forma di “impresa”, per mano di Luigi Bevilacqua (1844-1898). Ad oggi nessuno ancora riesce a spiegare il perché Luigi, figlio di un margaritèr (colui che lavorava il vetro per ottenere le margherite) veneziano e di una cucitrice, abbia deciso di impegnarsi nell’attività della tessitura, ma avrà sicuramente avuto l’opportunità di sviluppare un proprio senso artistico. In quell’anno Luigi e il suo socio Giovanni

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entro cui passano, determinando l’immobilità o l’innalzamento degli stessi fili ed il loro coinvolgimento nell’opera con il conseguente realizzarsi del disegno. Dal febbraio 1920 e fino al 26 febbraio 1927 la Luigi Bevilacqua si fonde con i tessitori serici San Leucio nella società anonima Opifici Serici Riuniti San Leucio - Luigi Bevilacqua con sede a Napoli e con i due stabilimenti di Sala di Caserta e Venezia. Neppure in questo caso sono chiare le motivazioni di tale sodalizio, tuttavia permette a due delle più antiche e prestigiose tradizioni della tessitura serica italiana di entrare in contatto e arricchire i rispettivi patrimoni artistici e tecnici. Probabilmente i fratelli Bevilacqua avranno ritenuto opportuno sacrificare la loro ridotta e autonoma capacità decisionale in nome di un salto di qualità nel settore e di una fitta rete commerciale. Agli inizi del XX secolo l’azienda inizia a rilevare anche successi in campo internazionale: nel 1910 partecipa all’Esposizione Internazionale di Bruxelles ottenendo la medaglia d’oro e nel 1911 allestisce il padiglione veneto per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, a Roma. Esistono dei documenti che dimostrano il sorgere di un commercio con la Svezia attorno al 1920, dove la pittrice Maja Sjöström viene incaricata di realizzare i disegni per i tessuti commissionati alla Bevilacqua per decorare il Municipio di Stoccolma; lampassi e broccati dai colori cupi, alieni alla tradizione cromatica veneziana, ma appartenenti allo spirito nordico. Inizia anche l’epoca delle importanti forniture per l’arredamento sia privato (aristocrazia e alta borghesia e grandi alberghi) che pubblico (gallerie d’arte, saloni, teatri, basiliche, chiese, conventi, ecc.). Ancora oggi entrando in qualche importante chiesa veneziana (Madonna della Salute, Sant’Alvise, Santa Maria del Giglio, San Zulian) in particolari periodi liturgici

si possono ammirare colonne, pilastri e lesene rivestite di velluti Bevilacqua. Dopo un breve periodo di stasi, l’azienda ritorna a far parlare di sé nel 1970, anno in cui Enrico Maria Salerno sceglierà la Luigi Bevilacqua come location per alcune scene del film Anonimo veneziano, dove gli ambienti della manifattura serica colmi di stoffe preziose contribuiscono certamente al successo dell’opera cinematografica. La produzione della Tessitura Bevilacqua si inserisce anche nella moderna corrente del fenomeno del revival, inteso come recupero e riattualizzazione della moda del passato. Molti stilisti in questo ultimo ventennio hanno aderito a tale tendenza, alcuni interpretandola come un semplice divertissement, altri come un vero e proprio intento programmatico nella rivalutazione dei manufatti, come per esempio il velluto, prodotto per eccellenza in età rinascimentale, coinvolgendo dunque molte tessitorie specializzate nel campo delle creazioni artistiche, soprattutto in damaschi e velluti, nella realizzazione dei loro abiti e accessori. E’ questo il caso del fondamentale contributo offerto dalla tessitura Bevilacqua agli stilisti protagonisti indiscussi della couture nazionale Domenico Dolce e Stefano Gabbana per le loro collezioni 2000-2001, che hanno visto sfilare in passerella minigonne , pantaloni e body realizzati con velluti leoni, giardinetto, leopardo, dagli eccentrici accostamenti e dall’insolito contrasto tra le fogge modernissime e i colori revivalistici dei tessuti. Oggi la società è guidata in prima persona dai fratelli Rodolfo e Alberto Bevilacqua. La loro quotidiana presenza in azienda e la profonda conoscenza delle tecniche di tessitura garantiscono un prodotto di alta qualità e prestigio, oggi come allora.

Alberto Bevilacqua titolare della tessitura

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Testo di Maria Cristina Moreschi Foto di Enrico Gubbati, Maria Cristina Moreschi, Paola Poletto

la terra di hope un oasi dedicata alla pet-therapy Per arrivare a La Terra di Hope si deve percorrere una strada tortuosa, quasi che per arrivare alla pace si debba prima superare ogni curva, ogni difficoltà che la vita ci mette davanti; poi però, appena varcato il cancello, il viale d’ingresso è fiancheggiato da alti pioppi che accolgono e che separano la mente da ciò che resta “fuori”. I tre meravigliosi cani fanno da padroni di casa in questa vera oasi di pace e di bellezza che la primavera, con i suoi colori, rende ancora più coinvolgente, e dove Fiorenza e Francesca, assieme alla psicologa Maria Luigia, assistono i giovani pazienti. L’associazione La terra di Hope, no-profit, è attiva da diversi anni e prende il nome dal pony che Marco e Michele, le presenze maschili di questa oasi, hanno salvato. Era legata, malnutrita e dimenticata: appena arrivata, si è liberata e ha corso per mezza giornata e la sua energia positiva è così tornata a far sorridere i bimbi che possono toccare un cavallo in miniatura. E’ notizia di queste ultime settimane di un paziente, con gravi disturbi alla parola, che lavorando e “chiacchierando” con il suo cane-terapista ha ripreso l’uso della fonetica per comunicare con il mondo. Questo è solo uno degli ultimi successi di questa terapia basata sull’interazione con gli animali in particolare con cavalli, cani e asini; anche il solo possedere un animale o la semplice presenza è stata messa in relazione con: aumento del tasso di sopravvivenza nei pazienti affetti da disturbi cardiaci, abbassamento della pressione sanguigna, calo dei valori del colesterolo, riduzione della percezione dei problemi di salute, minor frequenza alle visite dal medico di base, riduzione delle sensazioni di solitudine e depressione con conseguente aumento dell’autostima, miglioramento dell’integrazione sociale per i bambini, gli anziani e persone affette da problemi fisici, miglioramento complessivo della qualità della vita. Le brave terapiste de La Terra di Hope, oltre ad interagire con i venticinque piccoli pazienti che arrivano sul posto ogni settimana, portano la loro esperienza in Casa di Riposo e nel Policlinico S. Marco di Mestre. Vengono affiancate da un veterinario che visiona l’aspetto igienico e sono fortemente attese dai pazienti che, con solo la presenza del cane, riescono a ritrovare un benessere che la malattia ha allontanato. Sono anche un grande aiuto per chi lavora all’interno degli spazi ospedalieri: l’arrivo del cane diventa un diversivo, una ventata di novità nella faticosa settimana lavorativa. L’esperienza della pet-terapy viene portata anche nelle scuole, dove il cane media le relazioni con i studenti in difficoltà o con disabilità, recando un aiuto per gli insegnanti, non solo quelli di sostegno. La terapia assistita con animali domestici (quali cani, gatti, conigli, cavalli, pappagalli e tartarughe), si affianca alle altre terapie svolte da medici o terapisti professionisti ed è improntata a promuovere la funzionalità e il benessere soprattutto di pazienti psichiatrici non comunicativi con deficit dell'udito, della vista e del movimento, bambini iperattivi, affetti da sindrome di down, con

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malattia di Alzheimer o autistici, disfunzioni neuro-muscolari o pazienti costretti su una sedia a rotelle. Per quanto riguarda i deficit del linguaggio, i malati si abituano a parlare con l'animale e ad esprimere le proprie emozioni, cosa che, ad esempio per un paziente autistico, è davvero difficile. Abbiamo avuto modo di verificare l’interazione tra giovane in cura e animale, quanto gli occhi del bambino brillano al solo vedere e toccare il cavallo o quanta felicità esprime quando monta il cavallo stesso: la piccola paziente sembrava una vera cavallerizza quando Fiorenza l’ha invitata a fare l’esercizio studiato per il saggio di fine anno e la sua fierezza ha fatto sentire tutti noi molto “piccoli”. Gli incontri si svolgono all’aperto, in spazi davvero accoglienti e puliti, e prevedono che i piccoli pazienti abbiano una prima parte di contatto con l’animale; se si tratta del cavallo, viene curato, carezzato, pulito e “pettinato”, accudito portandolo a passeggio e dandogli del cibo per poi, se il percorso lo prevede, montarlo passeggiando nel grande recinto. Tutte le operazioni sono eseguite assieme alle terapiste e alla psicologa che aggiunge qualche attività di attenzione e di stimolo ulteriore. L'animale diventa così il co-terapeuta che aiuta il paziente ad innescare spontaneamente quei meccanismi di stimolo che possono essere di gioco e di attenzione temporanea. I genitori di due gemelle, che hanno intrapreso il percorso da qualche anno, hanno confermato che questo tipo di terapia è diventata fondamentale per aiutare le loro figlie a crescere e ad interagire con gli altri. Ma questo tipo di terapia quando nasce? Già nell’antico Egitto gli animali erano accostati al mondo medico; il dio Anubi, protettore della medicina, aveva il cane come animale sacro, mentre il padre della medicina Ippocrate consigliava, per ritemprare spirito e membra, una bella cavalcata. Alla pratica relazionale tra animale e uomo e ad assegnare a essa l’importanza terapeutica giunta fino ai giorni nostri fu, alla fine del Settecento, William Tuke. Lo psicologo infantile inglese, infatti, dimostrò come impegnare pazienti svantaggiati in operazioni come il giardinaggio o l’accudire gli animali domestici portasse loro equilibrio e stabilità. In questi ultimi due secoli molta strada si è percorsa; il mondo anglosassone ha utilizzato e utilizza tuttora la pet-therapy per la cura di molte patologie con risultati davvero sorprendenti, mentre in Italia si attende da molti anni un Decreto Legge del Ministero della Sanità che disciplini e riconosca questa attività, preparando così i professionisti che dovranno operare in questo settore; si attende anche che finalmente possa diventare una terapia convenzionata in modo da poter far entrare in questo mondo relazionale anche chi non può permettersi strutture private.

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Testo e Fotografie di Cristina Basei

a r c h i t e t t u r a

p o r t a n u ova g a r i b a l d i l a n u ova fa c c i a ve r d e d i m i l a n o

Porta Nuova è la nuova faccia di Milano. Una parte di Milano che rinasce dalla riqualificazione di quartieri degradati e dismessi, che ora entra a far parte del tessuto cittadino, arricchendolo di vita e prospettive interessanti. Oltre 10 anni di lavori dopo l’approvazione del progetto curato dall'imprenditore immobiliare statunitense Hines nel 2004, più di 10 architetti coinvolti, provenienti da 8 paesi diversi, un’area complessiva di 340 mila metri quadri, distribuita in tre quartieri: Garibaldi, Varesine e Isola. Il progetto raccoglie la sfida di riqualificare un'area degradata, cercando di integrare le nuove costruzioni con le architetture esistenti. Scopo fondamentale è stato rendere tutta l’area fruibile per i cittadini: il progetto include quindi un sistema pedonale continuo, caratterizzato da aree verdi, piazze, ponti e un grande parco che garantisce un collegamento sicuro e facile tra i diversi quartieri. Ci si arriva passeggiando dal centro della città attraverso Corso Como: ad un certo punto si staglia la sagoma sinuosa della Torre Unicredit, che con i suoi 218 metri, di cui solo 85 dell’antenna sulla sommità, è l’edificio più alto d’Italia, oltre ad essere stata classificata dalla società tedesca Emporis Building Data Company tra i dieci grattacieli più belli al mondo. La Torre sovrasta una serie di edifici in vetro e cemento che circondano Piazza Gae Aulenti: un grande spazio circolare con al centro un suggestivo specchio d’acqua, dove il confine con il cemento, tra fontana e passaggio pedonale, resta sfumato così come quello tra cielo e terra nei continui riflessi di acqua e vetro. E infatti lo spazio centrale della piazza è circondato da edifici dalle forme curve e dalle superfici quasi interamente finestrate, che si specchiano gli uni negli altri e si riflettono nell’acqua. Superata la piazza, da un lato si stagliano le torri resid e n z i a l i Va r e s i n e , d a l l ’ a l t r o i l B o s c o Ve r t i c a l e . Il Bosco Verticale sono due prestigiosi edifici residenziali progettati da Stefano Boeri, rispettivamente di 110 e 76 metri di altezza, adiacenti al grande parco I Giardini di Porta Nuova, che propongono un nuovo modo di abitare e vedere la città: ad ogni piano profonde terrazze ospitano complessivamente più di mille esemplari di piante, che si integrano col verde che circonda i palazzi. Dalle terrazze alberi, piccoli cespugli e piante da fiore danno vita a un paesaggio di giardini pensili di grande impatto, che rinnova i suoi colori con l'avvicendarsi delle stagioni, regalando alla città magnifici panorami, oltre a diventare per chi ci abita delle vere stanze a cielo aperto, profonde fino a 3 metri. Un progetto innovativo anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale, dato che la combinazione tra struttura architettonica e dotazioni tecnologiche garantisce le più alte prestazioni e riduce le escursioni termiche, contribuendo alla produzione di ossigeno e assicurando un significativo assorbimento delle polveri sottili. Nel 2014 il progetto ha ottenuto un importante riconoscimento con la vittoria dell’International Hingrise

Award: è stato eletto l’edificio alto più bello e innovativo al mondo dal Museo di Architettura di Francoforte, per la profonda simbiosi tra natura e architettura e la sostenibilità ambientale alla base del progetto. Dal lato opposto le tre Torri Varesine, eleganti col loro colore nero, le terrazze bianche ad incastro e i parapetti di vetro azzurro-verde: Solaria, Solea e Area, di altezze differenti, sono le tre torri residenziali più lussuose della città. Anche qui tutti gli appartamenti dispongono di balconi della profondità di tre metri: una sorta di giardino sospeso dalla disposizione sfalsata, ciascuno ad una distanza pari a due piani dal successivo, creando un disegno movimentato a incastro. Il verde verticale rappresenta una delle più importanti novità nell’architettura del nostro secolo, ma si tratta dell’ultimo prodotto evolutivo di un processo che ha origini molto antiche: dai leggendari giardini pensili di Nabucodonosor, al seicentesco complesso monumentale dell’Isola Bella, sul Lago Maggiore, voluto da Carlo III Borromeo, dove il giardino è una complessa macchina architettonica che ha il suo nucleo in una successione ascendente di dieci terrazze disposte a formare una piramide tronca. In epoca moderna, a contribuire alla formazione di una cultura del progetto architettonico e urbano sensibile alle tematiche ecologiche, sono artisti attivi nell’ambito della cosiddetta Arte Ambientale a partire dalla fine degli anni Sessanta/inizio anni Settanta: una tendenza che da vita ai primi progetti di verticalizzazione, creando soluzioni che permettano di procedere verso l’alto all’infinito e con il fine di dare la sensazione agli abitanti di poter godere di tutti i vantaggi tipici della vita in campagna, pur rimanendo in città. Uno degli esempi più vicini, nella concezione oltre che nel tempo, a quello di Porta Garibaldi a Milano, è la Tower Flower di Parigi, realizzata dall’architetto e paesaggista francese Édouad François nel 2004 per un nuovo quartiere residenziale alla periferia est della città. Si tratta di un condominio di nove piani e trenta appartamenti, dove 380 giganteschi vasi bianchi di cemento, contenenti piante di bambù e disposti in fila lungo i parapetti dei terrazzi secondo una partitura irregolare, sono stati inglobati nell’armatura esterna in cemento, creando un edificio che incorpora il principio della coltivazione di una vegetazione domestica, da adattare alla vita di un appartamento in città. Nel nostro sopralluogo di due anni fa, i tre eleganti edifici delle Torri Varesine, visti dal limitare di Piazza Gae Aulenti, non erano che una sagoma grezza in lontananza con grandi numeri agli angoli delle terrazze, a contrassegnare i piani, mentre le due torri del Bosco Verticale erano costruite solo a metà: un cantiere con operai al lavoro, ma dove le prime piante, elemento distintivo dell’architettura, facevano già capolino dalle terrazze più bassi. Tra i grattacieli avveniristici, in occasione di Expo Milano 2015, è stato creato un campo coltivabile di cin-

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quantamila metri quadrati: seminato a fine febbraio dai cittadini a grano ed erba medica, visitabile attraverso un percorso su un sentiero sterrato aperto al pubblico tutti i giorni, è un’installazione dell’artista americana Agnes Denes, inaugurata lo scorso 11 aprile. Qui a metà luglio si è tenuta la Festa del Raccolto, durante la quale milanesi e turisti hanno potuto portare a casa ciascuno un mazzo delle spighe e un sacchettino con i semi cresciuti tra i grattacieli. Altro fiore all’occhiello di quest’area, spostandosi a Nord Est lungo via Melchiorre Gioia, è il Palazzo della Regione, ufficialmente Palazzo Lombardia: terminato nel 2011, è un complesso unitario di edifici che riunisce tutti gli uffici della Regione e un centro congressi. La sede è composta da una torre di 161 metri in calcestruzzo armato, acciaio e vetro, circondata da un sistema complesso di edifici curvilinei, coperti da un’ampia superficie vetrata, alti dai sette agli otto piani, in cui sono concentrate le funzioni culturali, di intrattenimento e servizio, collegati da una piazza di forma ovoidale con una copertura in

materiale plastico, Piazza Città di Lombardia, che è la piazza coperta più grande d'Europa, luogo di incontro per i cittadini, che qui trovano anche bar, ristoranti, negozi, e vari servizi. Il Palazzo è inoltre un ottimo punto di osservazione dei cambiamenti recenti tutto attorno: tutte le domeniche si può infatti salire gratuitamente sul Belvedere al trentanovesimo piano ed ammirare il nuovo skyline della città. Milano è una delle città italiane che nel tempo più si è sviluppata in verticale attraverso la costruzione di grattacieli: dalla Torre Velasca del 1958 al grattacielo Pirelli del 1960, fino a Palazzo Lombardia e a tutto il nuovo progetto Porta Nuova, che ha creato spazi cittadini nuovi e complementari al centro, fruibili tanto dai milanesi quanto dai visitatori, anche in previsione della visibilità offerta dall’Esposizione Universale, di cui quest’anno è sede.

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il vigneto di mozart il sogno di un uomo Tutta colpa di Yuk! Inizia tutto con una sosta per il cane Yuk, durante il trasferimento da Milano verso l'amata Toscana: Montalcino con quelle colline, quei cipressi, non aveva mai smesso di incantare l'avvocato Carlo Cignozzi che dopo tre generazioni di onorata professione, aveva deciso di lasciare lo skyline milanese per il profilo più morbido della regione più affascinante d'Italia. La Val D'Orcia, ancora oggi, è quella che ha abbagliato Carlo: colori decisi, contorni netti disegnati solo dalla natura, la luce pulita, precisa, il paesaggio ancora incontaminato; nessun centro commerciale, nessuna fabbrica, niente condomini, poco cemento. Sembra di essere in un mondo antico, quasi a farci ricordare il nostro glorioso passato, quando la storia si costruiva e non si leggeva sui libri. Era da tanti anni che alla professione di avvocato, Carlo affiancava quella di “vignaiolo” e le sue bottiglie erano nelle wine list dei più prestigiosi ristoranti del mondo. Un vignaiolo molto attento anche alla “vita spirituale” del suo vino: “ero convinto che durante l'invecchiamento il vino si comportasse proprio come un organismo, con tanto di sensibilità ed emozioni”. Poi, un giorno, la decisione di mollare tutto: la vecchia professione, la neb-

Testo di Maria Cristina Moreschi Fotografie di C.Basei, A.Lando, G.Marcato, M.Moreschi

biosa città, i filari di viti e le bottiglie, per vivere quelle colline toscane nella loro pienezza con la compagna e la nuova arrivata, la piccola Gea. “Il Paradiso di Frassina? Un vero paradiso, di nome e di fatto. E la sai la novità? Pare che i proprietari si stiano decidendo a venderlo”. Con queste parole l'amico Ofelio riporta Carlo al mondo del vino: il Paradiso emana un' energia particolare e l'amore a prima vista ne è la conferma. E quando Carlo porta al Paradiso la sua compagna, invitandola a guardare tanta bellezza, accompagnando quella vera e propria visione con della musica, Diana, quasi in trance davanti a quel meraviglioso paesaggio, mette a tutto volume il Requiem di Mozart. Quella musica, così sublime, che l'orchestra eseguiva magistralmente, si espandeva tra i filari delle vigne, si infiltrava nelle foglie, nella terra, in ogni filo d'erba, insomma aveva conquistato il Paradiso. E' così che Carlo inizia il lungo restauro per riportare all'antico splendore l'intero casale, comprese le vecchie cantine che trasudavano ancora amore per la vera tradizione enologica toscana. Impianta anche le nuove viti di Brunello con un sistema diverso dall'esistente, orientato verso il percorso del sole per garantirsi il meglio che la natura può regalare. Carlo è un uomo che emana un fascino d'altri tempi; ancora adesso, quando ti riceve nel suo accogliente pezzo di Toscana, si percepisce la forza della sua personalità, ricca di fantasia e di perseveranza. Quando ci offre una degustazione dei suoi eccellenti vini nel piccolo spazio vicino alle grandi botti e ci racconta la sua storia, pare


ripercorrere il suo sogno; si legge nel suo viso la fatica del progetto ma anche la felicità di essere arrivato ad un traguardo importante...produrre un buon vino ed essere immerso nella musica. Tra i mille interessi di quest'uomo infatti, la musica ha sempre avuto un'importanza fondamentale: Carlo suonava la fisarmonica, l'accompagnamento alle cene tra i filari, nelle calde serate estive quando arriva la brezza del Tirreno per regalare agli acini quella preziosità che solo qui ritroviamo. E' proprio durante uno di questi incontri conviviali che Carlo decide “Voglio che a Frassina ci sia sempre la musica, come ai tempi andati, dove per dimenticare gli affanni si faceva gran festa con canti e balli. La musica tornerà e sapete dove? Nel bel mezzo delle vigne!”. Ed è qui che inizia il sogno, che si tramuta nel più fantastico progetto che il mondo enologico abbia mai sperimentato, portato avanti con cocciutaggine ma anche con quella raffinata intelligenza che contraddistingue l'ex avvocato Cignozzi. Illuminanti sono la lettura del libro Vita segreta delle piante di Peter Tompkins che descrive le scoperte e gli studi eseguiti sulla vita extrasensoriale del mondo vegetale e, in particolar modo, gli esperimenti di Cleve Backster che, posizionando degli elettrodi sopra le foglie, aveva registrato le reazioni delle piante sottoposte a minacce o stress: se si avvicinava alla pianta con una cesoia, poteva registrare una variazione di campo magnetico, quasi che la stessa avesse paura. Altri approfondimenti confermano l'effetto benefico della musica sulla fotosintesi delle piante regalando lo stesso beneficio che le onde

sonore hanno sull'uomo e sugli animali. Tutti gli studi avallano la bizzarra idea di Carlo: “Vino e musica erano la mia vita e io dovevo seguirli”. L'incontro con un ingegnere specializzato in acustica, ma soprattutto matematico studioso di Fibonacci, aprì un mondo affascinante. La progressione numerica logica più importante nella storia della matematica, i così detti numeri di Fibonacci, è impressa in tutta la natura: la disposizione dei petali dei fiori, quante e come nascono le foglie sui rami, i grappoli d'uva, tutto rispecchia la sequenza. La fotografia, la musica, le arti d'espressione, tutto è intriso dei criteri della magica sequenza e della conseguente sezione aurea e molti strumenti, tra cui il pianoforte, sono costruiti seguendo queste regole. Ora che era accertata un'interazione tra musica e viti, bisognava trovare quale fosse la musica più adatta, quella per cui il beneficio risultasse migliore. Il primo impianto di casse acustiche esterne era, per così dire, sperimentale, ma carico di quell'entusiasmo che solo un po' di pazzia può dare; la prima scelta della musica non poteva che ricadere su Mozart, quasi a sottolineare, ancora una volta, l'inizio di una nuova vita. Poi, un secondo incontro, fondamentale per la costruzione di questa nuova vita: all'Università di Agraria di Firenze il professor Mancuso studiava la reazione delle piante alle frequenze sonore, facendo molto discutere il mondo accademico con i suoi scritti; Carlo insomma aveva incontrato un altro uomo che portava avanti con cocciutaggine la propria idea, esattamente come lui che, agli occhi di molti, era visto come una sorta


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ricerca terminata, i trattamenti antiparassitari passarono dai dodici, che è la normalità in dodici mesi di lavoro, ai due annuali....il sogno di Carlo era compiuto! Da qui inizia una scalata al successo che porta Il Paradiso di Frassina e il sogno di Carlo Cignozzi su tutti i giornali internazionali, le riviste specializzate e i grandi meeting. Ed è proprio questa pubblicità che porta nel vigneto di Mozart la Bose Corporation, il colosso mondiale della ricerca sull'audio. Il grande capo Amar Bose, chiamato in azienda “The Professor”, si era incuriosito a capire ed approfondire gli esperimenti di Carlo. L'accordo arriva, come arrivarono i primi 50 diffusori da esterno ma anche un protocollo d'intesa con l'Università per sostenere la ricerca. A conti fatti la Bose ha investito quasi un milione di dollari per finanziare la ricerca e per migliorare il suono che si espande tra le vigne di Carlo. Entrare adesso al Paradiso è come entrare in un teatro: si cammina piano, con rispetto, si abbassa la voce quasi fossimo all'interno di un tempio della musica, si guardano le casse, increduli che possano restare all'aperto e continuare a esplodere di musica, si è affascinati da questo sogno realizzato ma soprattutto ci si immerge totalmente nella musica di Mozart, unico compositore che allieta e da il suo contributo a produrre una delle eccellenze italiane...bere un calice del buon vino prodotto in queste terre, seduti davanti al grandioso spettacolo messo in scena dalle colline toscane con questo splendido accompagnamento musicale è davvero come essere in Paradiso. Questa meravigliosa storia e questo straordinario sogno sono raccontati da Carlo Cignozzi stesso, nel libro edito da Rizzoli “L'uomo che sussurrava alle vigne, La vera storia del Brunello di Montalcino che cresce ascoltando Mozart”.

di “apprendista stregone”, ma finalmente era giunta l'ora di fare quel fondamentale passo scientifico che poteva dare una dignità al sogno del Paradiso. Il professore conferma scientificamente ciò che Carlo, più banalmente, aveva intuito: “i vegetali, a differenza degli uomini e degli animali, non possono difendersi...sono costretti alla passività...per bilanciare questo handicap motorio, le piante sono dotate di una serie di sensori, ancora sconosciuti, che le aiutano a orientarsi, a reagire, a sentire, a comunicare e a captare il pericolo rilasciando tossine contro gli aggressori...in pratica le piante sono dotate di una sorta di centro di controllo”. Dopo una visita al vitigno del Paradiso, il ricercatore dell'Università non farà altro che confermare: l'uva è più matura e più “piena” dove i diffusori irrorano la pianta con la musica, l'erba, le foglie e pure gli alberi sono molto più rigogliosi in prossimità della sorgente sonora e perfino la gatta del podere preferisce figliare vicino alla pianta di rosmarino “musicata” e potata per ben tre volte in un anno. Scientificamente è adesso provato: “le membrane che ricoprono le cellule vegetali delle viti sono cosparse di ricettori che reagiscono alla musica, incamerando più luce e umidità, amplificando l'azione clorofilliana...con questo potevo fare a meno della chimica....o quasi”. Carlo si converte completamente al biologico “aiutato” dalle frequenze sonore che agiscono da disturbante per parassiti e predatori, supportato anche dall'Università di Pisa che prende il vigneto del Paradiso come base di ricerca. La ricerca infatti conferma che la musica impedisce il proliferare di insetti, non fa avvicinare gli uccelli golosi dei succosi acini, così come i cinghiali, daini e caprioli che tendono a rimanere fuori dalla proprietà. E' così che a

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oltre c u r i o s i t Ă

Testo di Giuseppe Moreschi


un grande gatto veneziano n i n i

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c a f f è

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Di fronte alla chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari appena dopo il ponte, si trova il “Caffè dei Frari”. La gente si ferma per uno spritz o solo per un caffè, oppure per assaggiare quelli che a Venezia si chiamano “cicchetti”. L’atmosfera del caffè ottocentesco è ricordata da una serie di pannelli sulle pareti rappresentanti la magnificenza della Venezia settecentesca a firma del pittore veneziano Gian Luciano Sormani. Un bel ballatoio con tavolini al piano superiore sovrasta la sala. Ma quello che colpisce è la grande storia del Gatto Nini vissuto in questo caffè alla fine dell’Ottocento, descritta da Gino Sorteni sul muro della scala che porta al piano superiore. Beniamino del padrone Sior Antonio Borgato, Nini era un gatto soriano di antica stirpe medioevale; i suoi avi provenivano dai fondachi che i veneziani nelle prime crociate, avevano installato per i loro commerci in terre siriache. Qui esisteva una vecchia razza di gatto soriano proveniente dalla Soria, antico nome della Siria. I veneziani portarono alcuni esemplari a Venezia, perfetti per la loro docilità con gli uomini e la loro combattività verso i topi, che allora come adesso, erano un grande problema per la città. A Venezia si incrociarono con i gatti locali dando vita ad una specie che è rimasta sempre accanto agli uomini della Serenissima per più di mille anni di Repubblica. Dal 1348 la peste aveva colpito Venezia decimando più della metà della popolazione per poi ripetersi fino alla metà del seicento purtroppo senza rimedi e senza sapere esattamente come essa si sviluppasse. I gatti ebbero sicuramente un ruolo importante nel contenere la crescita del numero di topi, in quanto sembra che la peste fosse portata proprio dalle pulci dei topi. Nini era famoso non solo nel suo sestriere, ma anche presso personaggi di tutta Europa: il vicino Archivio di Stato attirava visitatori e un archivista di nome Ettore Foffano, aveva reso famoso Nini addirittura allo Zar Alessandro III durante una sua visita. Era bello Nini, di un bel colore chiaro, amico di tutti gli avventori del Caffè, quelli che venivano a sorseggiare la Semada, bibita fatta di semi di popone e zucchero che a Venezia veniva servita solo al Caffè Chioggia in Piazzetta e, appunto, al Caffè dei Frari. All’età di quattordici anni, e siamo nel 1894, venne colto da paralisi e in quell'ultimo periodo della sua lunga vita, stava adagiato su un cuscino e prendeva cibo e bevande solo dai suoi padroni. Poi morì e come tutti i gatti di Venezia a quel tempo, fu gettato nel vicino canale. I frequentatori del Caffè indispettiti da una fine “funebre” così ingloriosa per un “personaggio” così celebre in vita, vollero preparare nel trigesimo della morte un addio adeguato. Venne costituito un comitato raccolta fondi per le spese delle esequie, e nominato presidente il farmacista di Campo San Agostin. Furono stampati avvisi mortuari e lo scultore Giusti eseguì gratis un medaglione col ritratto di Nini in bassorilievo e con epigrafe che diceva: A Nini di Antonio - nei secoli dei Monumenti - l’anno 1894. Il Caffè fu trasformato in camera mortuaria e alla cerimonia intervennero curiosi in gran numero: tanti gli artisti, il comitato promotore in gran numero, i sottoscrittori della colletta e così tanta gente comune che la polizia dovette chiudere Caffè per poter regolare la circolazione all’esterno. Dopo due discorsi pronunciati dal presidente del comitato e dal Funzionario dell’Archivio di Stato, Ettore Foffano, che aveva avuto un ruolo così importante per la divulgazione della fama di Nini, depose sul piedistallo del medaglione un album con il ritratto a matita del proprietario del Caffè e del Nini. L’album conteneva copia dei discorsi pronunciati, alcune poesie dedicate al bel gattone, le condoglianze arrivate alla famiglia Borgato, due marce funebri composte espressamente e numerosi bigliettini di personaggi celebri e altolocati che i burloni del comitato avevano contraffatto come veri. Per completare furono raccolti i ritagli di tutti i giornali che pubblicarono la notizia delle esequie. Purtroppo, durante l’ultimo restauro del Caffè, il medaglione di Nini andò distrutto e ora rimane a perenne memoria solo questa bella storia tipica della Venezia di un tempo.

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A cura dell’Università Popolare di Camponogara

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Anno

accademico

2015/2016

L’Università Popolare di Camponogara, attiva dal 2001 nel nostro territorio, aprirà anche quest’anno il nuovo anno accademico 2015/16 con una ricchissima offerta formativa rivolta sia ai corsisti che già ci seguono da molti anni, sia alle new entry che ogni anno con nostra grande soddisfazione scelgono la nostra associazione per approfondire varie tematiche di loro interesse. Vi saranno molte novità in tutte le aree, dall’area linguistica all’area enogastronomica, dall’area benessere a quella delle arti visive e grafiche e vi invitiamo a consultare il nostro sito www.unipopcamponogara.it dove troverete tutte le informazioni relative ai programmi, agli orari, alle sedi e il profilo dei rispettivi docenti che terranno i corsi. Vista la grande richiesta avuta negli scorsi anni, sono state introdotte inoltre nuove fasce orarie pomeridiane per andare incontro alle esigenze dei corsisti. Da non dimenticare la giornata di ricevimento docenti che si è svolta il 6 settembre presso le scuole medie “A. Gramsci” di Camponogara, in cui avete avuto l’opportunità di conoscere, incontrare i docenti, e chiedere loro qualsiasi informazione relativa ai corsi di vostro interesse. Vi ricordiamo inoltre che le iscrizioni sono ancora aperte fino a sabato 10 ottobre presso la segreteria dell’Università Popolare ubicata nella biblioteca comunale di Camponogara secondo gli orari indicati nel sito. I corsi avranno inizio a partire dalla settimana del 19 ottobre, tranne i corsi dove diversamente indicato. Vi aspettiamo numerosi e vi auguriamo in anticipo buon anno accademico!

G i o rn at a

europea

delle

lingue

Il 26 settembre di ogni anno è stato stabilito dal Consiglio d’Europa come Giornata Europa delle Lingue (EDL) per celebrare la pluralità linguistica di un continente. Vari istituzioni organizzano in questo giornata una serie di eventi per sensibilizzare le persone all’apprendimento di nuove lingue straniere, per promuovere il plurilinguismo e contribuire a sviluppare un’ ottica interculturale. Per celebrare questa giornata l’Università Popolare di Camponogara ha deciso di organizzare per la prima volta una serie di iniziative. Nel primo pomeriggio, alle 15 presso la Biblioteca di Stra, il prof. Andrea Marini, professore di neurolinguistica all’Università di Udine, terrà una conferenza sui vantaggi neuro cognitivi del plurilinguismo e a seguire saranno proposte una serie di lezioni aperte delle principali lingue europee, quali inglese, francese, portoghese, tedesco, spagnolo e LIS al fine di permettere alla cittadinanza, e a tutti coloro che sono interessati, di avere un primo approccio con una nuova lingua straniera sia da un punto di vista culturale che strettamente linguistico.

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Testo di Cinzia Zampieri

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C o r s o d i fo r m a z i o n e per docenti Sin dalla sua nascita, l’Università Popolare di Camponogara si è posta un obiettivo fondamentale: trasmettere cultura in modo qualitativo e funzionale ad un pubblico ampio. A tale proposito, è importante che il docente abbia una buona conoscenza dei contenuti da comunicare, ma allo stesso tempo, che sappia relazionarsi in modo efficace con coloro che ha davanti. Da qui è nata l’esigenza che l’insegnante abbia una formazione specifica sul modo di trasmettere le proprie conoscenze e competenze. Dal 2007, quando sono stata incaricata di formare i nuovi docenti, ho cercato di dare questa preparazione, anche grazie all’esperienza di insegnante che ho maturato nel corso degli anni con i corsisti dell’Università Popolare. Per questo, nel corso di “Didattica per l’insegnamento in età post-scolastica”, vengono forniti aspetti teorici di base ed inoltre strategie e suggerimenti pratici per comunicare in modo efficace gli argomenti delle varie discipline, creando al tempo stesso una buona relazione con coloro che partecipano ai corsi. E’ necessario che l’insegnante comprenda di “essere interessato a” e “interessante per” i propri corsisti e che trasmetta la sua materia in modo semplice, chiaro e stimolante. Cerco pertanto di sviluppare la fantasia e creatività per porsi in modo originale al gruppo e sottolineo il valore dell’essere leader per condurre il gruppo stesso, con passione ed entusiasmo, affinché tutti i corsisti arrivino a raggiungere l’obiettivo finale: apprendere e partecipare attivamente! Credo che il numero sempre maggiore di persone che si avvicinano ai nostri corsi sia il risultato più evidente dell’investimento che l’Università Popolare di Camponogara ha fatto sulla formazione degli insegnanti. Cinzia Zampieri, psicologa-psicoterapeuta e formatrice

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A cura dell’Università Popolare di Camponogara

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ottobre pedagogico 2015 i

c o n t e s t i

d e l l ' e d u c a z i o n e Inoltre sabato 24 ottobre dalle ore 9.00 alle ore 12.00, a cura del professor Pittarello e delle insegnanti della scuola dell’infanzia dell’Istituto Comprensivo “A. Gramsci”, verranno proposti dei laboratori creativi con l’argilla per i ragazzi della scuola primaria e secondari di primo grado (info ufficio segreteria comune di Camponogara 041.513.99.61). Questo fare offre ai bambini l’opportunità di potenziare la loro creatività di vedere la realtà sotto diversi punti di vista. Il tatto è un linguaggio legato all’esperienza, il tatto è fare e per tutti la comunicazione parte dal toccare. Infatti dopo aver toccato un materiale, in questo caso l’argilla, la mano rimanda una sensazione che è unica, precisa e personale. Per di più mi sento di dire che il metodo laboratoriale permette ai ragazzi di sperimentare insieme, di provare senza aver paura di sbagliare, di eliminare ansie e insicurezze e di partecipare all’apprendimento in modo diretto ed efficace e di creare rapporti di crescita collaborativa e di scambio di conoscenze e competenze. Concludendo desidero esprimere un pensiero personale sugli insegnanti. Oggi più che mai abbiamo bisogno di bravi insegnanti. Chi sono i bravi insegnanti? Quelli che amano insegnare, che amano ciò che insegnano. Quelli che danno vita alla parola, dove il loro dire è contestualizzato è vicino alla realtà degli allievi e la parola è frutto di questo amore. Quelli che sanno rispettare i tempi e i modi dell’apprendimento dei loro allievi. Non esigono che tutti siano uguali, hanno cura delle particolarità di ciascuno. Non vogliono riempire le teste, perché preferiscono aprire dei vuoti. Non amano le risposte, ma promuovono domande. Sono coloro che sanno dare una testimonianza del rapporto tra il sapere e la vita. Il bravo insegnante potenzia i talenti dei suoi allievi. Non insegue una rappresentazione ideale dell’alunno. Amare senza voler raddrizzare la stortura della vite è questo: fare spazio alla singolarità dell’allievo, coltivare i suoi talenti. A questo punto, cari Lettori, vi aspettiamo numerosi ai vari appuntamenti.

La manifestazione di Ottobre Pedagogico nasce nel 2012 per garantire e promuovere una qualità educativa nel territorio sempre più amplia e approfondita coinvolgendo le varie istituzioni e agenzie educative presenti e rispondere così, sempre con maggior consapevolezza, ai bisogni dei bambini e dei ragazzi di oggi. Infatti, siamo convinti che tanta gente di scuola e tanta della nostra gente, se motivata, desideri ancora impegnarsi seriamente in campo educativo. Infatti mi sento di affermare, e con me spero che tante altre persone possano condividere questo mio pensiero, che l’educazione non riguarda solo qualche professionista, ma riguarda tutti, perché è fatta da e per tutti ed è legata alla vita di tutti i giorni e di conseguenza è sempre d’attualità. Quindi l’educatore appartiene alla sua epoca, non lavora per l’eternità, ma per la società dove vive e opera e cerca di trovare soluzioni creative e pertinenti al fare per dare modo al soggetto di cogliere l’importanza di vivere e relazionarsi dentro un contesto con rispetto, partecipazione e curiosità verso tutto quello che lo circonda. Oggi in una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità la vera educazione offre, alle varie comunità, l’opportunità di mettere radici in una determinata realtà e al contempo aiuta il cittadino, ogni cittadino, a trovare la sua identità e regole condivise per stare al mondo insieme. Quindi, tramite alcune riflessioni di studiosi autorevoli sul panorama nazionale, quest’anno abbiamo inserito anche un esperto di epigenetica dello sviluppo che studia il rapporto tra ambiente e cervello, e i laboratori creativi che vengono proposti, desideriamo dare l’opportunità a genitori, ragazzi, insegnanti ed educatori di continuare a credere e a impegnarsi per ciò che da sempre in una società rimane fondamentale: l’educazione. Nella sua quarta edizione, dal titolo Contesti dell’educazione ecco le date, tematiche e relatori: Mercoledì 7 Ottobre ore 20.30 relatore Gianfranco Staccioli Tema: I bisogni educativi dei bambini di oggi. Martedi 13 Ottobre ore 20.30 relatore Ernesto Burgio Tema: L’ambiente in cui vivono i nostri figli può condizionare il loro sviluppo cerebrale? Giovedì 22 Ottobre ore 20.30 relatore Vito Mancuso Tema: Che cosa vuol dire amare un figlio? Mercoledì 28 Ottobre ore 20.30 relatore Maria Rita Parsi Tema: L’importanza dell’attività ludica nella vita dei bambini e dei ragazzi.

A cura di Massimiliano Mazzetto, assessore alle politiche educative comune di Camponogara e Maria Teresa Carraro, coordinatrice del Dipartimento Istruzione Università Popolare di Camponogara e responsabile scientifica di Ottobre Pedagogico.

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A cura dell’Università Popolare di Camponogara

l ' e v e n t o

camp onogara fo t o g r a f i a rasse gna

c o r s i d i fo t o g r a f i a

fotograf ica

b a s e, ava n z at o, l a b o r at o r i o

Lunedi 19 ottobre, inizieranno i corsi di fotografia presso l’Università Popolare di Camponogara tenuti dal docente Michele Gregolin, come ogni anni l’offerta fotmativa, si svolgerà con dei corsi base, avanzato e un corso laboratorio “Fotografia & Comunicazione” che permetterà al corsista di entrare a far parte della redazione di Oltre. Di seguito segnaliamo l’elenco completo delle proposte per fotografia: Lunedì Ore 19,30-20,30 Corso Avanzato (sede di Stra) Ore 20,40-22,40 Laboratorio (sede di Stra) Martedì Ore 19.00-21.00 Corso base ( sede di Camponogara) Ore 21.10-23.10 Corso base ( sede di Camponogara) Mercoledì Ore 19.00-21.00 Corso base ( sede di Camponogara) Ore 21.10-23.10 Corso base ( sede di Camponogara) Giovedì Ore 19,30-20,30 Corso Avanzato (sede di Stra) Ore 20,40-22,40 Corso Avanzato (sede di Stra) Sabato Ore 10,00-12.00 Corso base (sede di Camponogara) Per leggere i feedback riguardante i corsi di fotografia potete entrare sulla pagina dedicata del blog: www.unpocorsofoto.it

View from the windows at Le Gras, Joseph Nicéphore Niépice

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Testo di Paola Poletto

s c a t t o

philippe halsman

rata dal quadro che l’artista aveva realizzato proprio in quell’anno (e che si vede nell’immagine sul lato destro), la Leda atomica, e dall’affermazione di un fisico del tempo: “la materia pende da un costante stato di sospensione”. E’ questa la chiave di lettura dello scatto: la Leda Atomica allude al fascino di un’era atomica attraverso il costante stato di sospensione creato dalla propulsione di protoni ed elettroni. Per ottenerla Dalì e Halsman lavorano insieme nello studio newyorkese del fotografo con una reflex biottica 4x5” e, per raggiungere la perfetta commistione di tutti gli elementi compositivi in una sospesa esplosione spaziale, sono aiutati da quattro assistenti e dalla moglie di Halsman. Nella foto sono presenti l’artista e il quadro ispiratore, un cavalletto, tre gatti, un getto d’acqua e una sedia: il tutto sospeso come un’esplosione atomica. Mentre tutti gli oggetti inanimati sono facilmente sospesi con l’aiuto di corde da pianoforte (ritoccate nella foto finale, ma visibili nello scatto originale, dove si vede il telaio sul cavalletto vuoto e le mani della moglie del fotografo che reggono la sedia; questo spiega come mai nell’originale

dalì atomico NY 1980

Il congelamento del movimento ha una storia lunga e affascinante nella fotografia, di sport, di moda o di guerra; ma raramente è stato utilizzato per fermare un’azione nei modi improbabili, capricciosi e spesso maliziosi che Philippe Halsman ha impiegato. La ritrattistica è una delle sfide più grandi nel campo della fotografia, perché il volto umano è sfuggente e spesso mascherato da espressioni tratte dallo standard classico delle emozioni. Halsman è determinato a mostrare i suoi personaggi con le loro maschere abbassate. “Se la fotografia di un essere umano non ne mostra la psicologia, allora non è un vero ritratto ma una vuota somiglianza”. Il ritratto realizzato al suo amico, l’artista surrealista spagnolo Salvator Dalì, indaga magistralmente la psicologia e l’essenza del soggetto. L’idea di questa foto è ispi-

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manchi una gamba della sedia stessa), la difficoltà maggiore sta nel catturare il momento di animazione, statico e mobile allo stesso tempo, del fluido e degli elementi vivi. Con precisione militare, Halsman conta fino a tre e al suo via gli assistenti lanciano i tre gatti e un secchio d’acqua in aria; poi al quattro, Dalì salta e il fotografo scatta prima che ogni cosa tocchi il pavimento. Come si può vedere dalla selezione dei provini non è stato semplice ottenere il risultato voluto. Ad ogni prova Halsman sviluppa la pellicola in camera oscura e controlla il risultato, spesso trovando sovrapposizioni di oggetti o pezzi di assistente all’interno del riquadro. L’immagine finale è un perfetto equilibrio formale ed espressivo. Come ha scritto lo stesso Philippe nei suoi appunti “il risultato ha soddisfatto la mia ricerca di perfezione. Io e i miei assistenti eravamo bagnati, sporchi e pressoché esausti. Solo i gatti sembravano come nuovi”. Un ritratto faticoso ma ben riuscito che subito meritò una pagina doppia di Life. La bellezza di questa immagine, al di là del concetto, sta nell’artigianalità con la quale è stata eseguita. Non è un fotomontaggio e per realizzarla sono servite sei ore di lavoro e ventotto scatti; quindi per ventotto volte Dalì ha dovuto saltare e gli assistenti gettare secchiate d’acqua e gatti per la stanza per raggiungere la composizione che il fotografo aveva in mente. In rete si possono trovare i diversi provini (in uno di questi si vede la mano di un’assistente che tiene la sedia sollevata e di un altro che tira le secchiate d’acqua) che aiutano a capire come l’immagine sia stata effettivamente realizzata. Oggi con photoshop si potrebbe ricreare tranquillamente lo scatto stando seduti davanti al pc, ma si perderebbe il divertimento nell’alzarsi in piedi e cominciare a buttare acqua e gatti in giro per tutta la stanza. P.S.: Halsman precisò che non fu arrecato alcun danno ai gatti!

atteggiamento che non è spontaneo. Nessuna luce, né la migliore macchina fotografica possono infrangere questa maschera; solo con la sensibilità e l’intelligenza il fotografo riesce, per un solo istante, a penetrare nell’intimo del carattere” afferma lui stesso. Sottile e fine psicologo, mentre eseguiva una serie di foto per la NBC, aveva notato che gli attori comici solevano saltare spontaneamente di fronte alla macchina fotografica poiché il salto consentiva loro di entrare meglio nel ruolo di commediante. Il salto come momento di gioco, di svincolo dai freni inibitori, di esplosione emozionale, di elevazione dagli schemi imposti dalla realtà quotidiana: un atto che consente di spogliarsi completamente da quelle sovrastrutture che impediscono al nostro essere di fare capolino. Profondamente interessato ai suoi soggetti, Halsman vuole che i suoi scatti siano dei momenti reali, rappresentazioni dell’essenza del personaggio ritratto: un lavoro creativo ed ingegnoso unito alla ricerca di situazioni sempre divertenti ed originali. Con l’arguta tecnica del salto, che impedisce al modello di controllare le espressioni del viso, Halsman riesce così a creare immagini spontanee e assolutamente naturali. “Quando si chiede ad una persona di saltare, la sua attenzione è diretta all’atto del saltare e così la maschera cade, rendendo visibile la persona reale”. Negli anni successivi Halsman chiede a numerosi clienti di saltare davanti al suo obiettivo, liberando in questo modo il soggetto dalle rigidezze imposte dal ruolo o dallo status sociale: Richard Nixon, la Duchessa ed il Duca di Windsor, Marilyn Monroe e molti altri personaggi celebri, si librano davanti a lui rivelando le loro emozioni più vere e con la tecnica del jumping style nel 1959 Philippe pubblica “Salti famosi”, fotografie di personaggi noti, intenti in un salto davanti alla fotocamera. Questi scatti rappresentano una delle più importanti sfide messe in atto dal medium fotografico: l’atto vitale del saltare fa cadere la maschera che ognuno di noi indossa, mettendo a nudo il nostro autentico essere che non siamo più in grado di nascondere.

Philippe Halsman nasce a Riga (Lettonia) nel 1906 e muore a New York nel 1979. Studia elettrotecnica a Dresda per poi trasferirsi nel 1931 a Parigi dove apre uno studio fotografico e si specializza in ritratti e moda, collaborando con riviste e divenendo noto per le sue immagini nitide e scure, che evitavano il vecchio “soft focus look”. Poiché di origine ebraica, quando la Francia viene invasa dai nazisti nel 1940, è costretto a trasferirsi negli Stati Uniti, dove lavora freelance per Life e conosce Salvador Dali, con il quale inizia un fruttuoso rapporto artistico durato trent’anni. Halsman è considerato uno dei più grandi fotografi della metà del XX secolo, noto soprattutto per i suoi ritratti di intellettuali, politici, scienziati e di celebrità, tra i quali ricordiamo Albert Einstein (suo grande amico), Marylin Monroe, John Fitzgerald Kennedy, Alfred Hitchcock e Salvador Dalì. Halsman elabora un particolare tipo d’immagine da lui scherzosamente denominata jump, termine coniato nel 1952 durante un’ardua sessione fotografica per celebrare la famiglia Ford, nel cinquantesimo anniversario della compagnia automobilistica. Dopo aver speso inutilmente lungo tempo con nove adulti tesi ed undici bambini indisciplinati, Halsman propone loro di saltare, riuscendo così a catturare un ritratto reale ed immediato del clan Ford. “Quando ci si mette in posa davanti ad un fotografo, si assume inconsciamente un

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