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ARCHITETTURA

PERIODICO IN ALLEGATO A

Il Giornale

ZAHA HADID, VITTORIO GREGOTTI, MARIO BOTTA, GIORGETTO GIUGIARO, PAOLO PININFARINA

GILLO DORFLES, ARNALDO POMODORO ACHILLE BONITO OLIVA Reg.n° 7785 Tribunale di Bologna 04-09-2007

PROGETTI INTERNAZIONALI • RIFLESSIONI • ABITARE • DESIGN BIO-ARCHITETTURA • INTERNI • TENDENZE • ARTE • SPECIALE RESTAURO • COMMERCIALE • URBANISTICA • GRANDI STUDI

CARRIERE&PROFESSIONI

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>sinuoso, fluido e sorprendente. Ecco lo spazio secondo Zaha Hadid

di Sarah Sagripanti

È la signora indiscussa dell’architettura mondiale. I suoi progetti hanno cambiato il modo di percepire lo spazio urbano: non più una serie ordinata di edifici razionali ma un organismo leggero e fluttuante «dove gli elementi possano contrarsi ed espandersi». Zaha Hadid, architetto di origini irachene ma londinese di adozione, premio Pritzker per l’architettura nel 2004, è chiamata in tutto il mondo per ripensare spazi, edifici e infrastrutture. E il suo tocco è arrivato anche in Italia: a Cagliari, Milano, Roma, Salerno e Napoli. Spesso però i suoi progetti lungo lo Stivale trovano difficoltà nella realizzazione. Questo perché «in Italia ogni cosa è lenta e bisogna avere molta pazienza». Ma oggi le cose sembrano muoversi. Finalmente gli architetti potranno tornare ad esprimersi pienamente in un Paese dove «è bellissimo lavorare, perché esiste un equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve». Parola di Zaha Hadid

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foto di Steve Double

STORIA DI COPERTINA

KARTAL-PENDIK MASTERPLAN, ISTANBUL

MAXXI, ROMA

TERMINAL MARITTIMO, SALERNO

GUGGENHEIM HERMITAGE, VILNIUS

Zaha Hadid, Bagdad, 1950. Maxxi, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, 1998-2008 (in costruzione)

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Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects

Kartal-Pendik Masterplan, Istanbul, 2006 (proposta progettuale per un nuovo centro urbano nella zona est di Istanbul)


STORIA DI COPERTINA

SONO INNAMORATA DELLA COMPLESSITÀ DI ISTANBUL, UN LUOGO DOVE NON SAI MAI COSA TI ASPETTA DIETRO L’ANGOLO. LA CITTÀ È FORMATA DA TANTI STRATI DIVERSI, TUTTI PIENI DI RICCHEZZA. NON MI STANCO MAI DI ANDARCI PERCHÉ È PIENA DI TESORI INATTESI

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Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects

L’universo spaziale di Zaha Hadid è perennemente in movimento. Un linguaggio fatto di fluidità dinamica attraversato da linee curve e sinuose, da direttrici spezzate che si rincorrono e si intersecano, da contrapposizioni di concavo e convesso. Strutture che si armonizzano con l’ambiente in cui sono pensate. Come il Museo nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma, pensato come un tutt’uno con il contesto ambientale circostante. «Qui il luogo diventa parte integrante della città. La città fluisce verso l’interno, mentre il progetto verso l’esterno» spiega Hadid. Quello di Roma è solo uno dei progetti che lo studio dell’architetto iracheno sta realizzando in Italia. Lavori che però stanno incontrando difficoltà realizzative. Signora Hadid, quali sono secondo lei le maggiori difficoltà nel fare architettura in Italia?

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Qui ogni cosa è più lenta e bisogna avere molta pazienza. Ogni progetto sembra essere destinato a permanere in una costante situazione di stallo. Credo dipenda dal fatto che non è successo niente per tanto tempo. L’architettura non era contemplata tra le questioni di interesse pubblico. Adesso, invece, c’è un revival ed è positivo il fatto che questa inversione di tendenza sia voluta dall’alto, dalle istituzioni. Dobbiamo però ancora fare i conti con un rodaggio lento e faticoso, anche se oggi senza dubbio le cose vanno meglio. Lavorare in Italia, in un territorio ricco di patrimoni artistici e architettonici, è limitante per un architetto contemporaneo? Sostenere che la tradizione è un limite è solo un alibi. Anzi, per noi architetti è bellissimo lavorare in Italia perché c’è un


STORIA DI COPERTINA

Terminal marittimo, Salerno, 2006 (in costruzione)

DIRE CHE LA TRADIZIONE È UN LIMITE È UN ALIBI. PER NOI ARCHITETTI È BELLO LAVORARE IN ITALIA PERCHÉ ESISTE UN EQUILIBRIO TRA CIÒ CHE SI DÀ E CIÒ CHE SI RICEVE. DEL RESTO MODERNITÀ SIGNIFICA APRIRSI A QUALCOSA DI NUOVO E NON CERTO DISTRUGGERE IL PASSATO grande equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve. Modernità significa cercare di aprirsi a qualcosa di nuovo e non certo distruggere il passato. Qual è l’approccio necessario per conciliare progetto e contesto in un Paese dove gli spazi urbani sono fortemente caratterizzati da storia e tradizione? C’è una linea veramente sottile tra il credere nel nuovo e comunque pensare che non bisogna demolire per forza tutto e ricostruire da capo. Infatti credo sia un peccato perdere la storia. Non ritengo però che le città debbano essere sempre

come Venezia, senza crescere né cambiare per niente. È importante intervenire con un approccio contemporaneo, ma occorre farlo in una maniera precisa. Ed è quello che abbiamo provato a dimostrare con i nostri progetti urbani. Tra i suoi progetti italiani quale ritiene più significativo? Un buon esempio è la progettazione del Maxxi di Roma. Una cosa interessante a proposito di questo Museo è che non si tratta più di un edificio-oggetto, ma piuttosto di un campus aperto alla città. Non più solo un museo, ma un vero centro urbano. Qui abbiamo tessuto una densa trama

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Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects

di spazi interni ed esterni. È una mescolanza di gallerie per le mostre permanenti, temporanee e commerciali, che irrigano un vasto campo urbano con superfici espositive lineari. Ciò significa che, attraverso il diagramma organizzativo degli spazi, si potrebbero tessere diversi programmi espositivi. Ad esempio, creando collegamenti tra il Museo dell’Architettura e quello dell’Arte: i ponti possono avvicinarli e proporli in un’unica soluzione. In questo modo si crea l’interessante possibilità di avere un’esposizione che si estende da una parte all’altra del campus. Per visitare gli spazi, infatti, si può camminare attraverso un intero segmento della città. Pensando invece al suo lavoro per CityLife a Milano, come

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commenta l’infinito iter del progetto? In questo caso tocca ai privati trasformarlo in qualcosa di veramente importante. Il lavoro per la vecchia fiera è il risultato di mediazioni e di una forza di volontà che hanno poco a che fare con noi. Non c’è dubbio che la vecchia struttura fosse veramente orribile. Cantieri eternamente aperti, progetti fermi alla fase iniziale, continui ritardi. Cosa si prova a non vedere mai realizzato un progetto? Ci sono momenti in cui mi sento decisamente giù, ma il mio scoraggiamento non dura mai molto a lungo. Sono fondamentalmente un’ottimista e so che alla fine si uscirà dalla situazione di stallo.


EDI-

STORIA DI COPERTINA

NELL’ATTIVITÀ PROGETTUALE NON PRENDIAMO SEMPLICEMENTE INDICAZIONI, MA CERCHIAMO DI INTERPRETARE LE INTENZIONI DI UN’ISTITUZIONE. NON CI INTERESSA SOLO LA FORMA DI UN EDIFICIO, MA IL MODO IN CUI PUÒ ESSERE REALIZZATA UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE DELLA SUA VITA

Museo Guggenheim Hermitage, Vilnius, Lituania, 2008

Altrove le cose vanno decisamente meglio. La funicolare di Innsbruck è stata progettata e realizzata in meno di due anni. In quale Paese lavora meglio? La Germania è fantastica, perché c’è un sistema di lavori pubblici che funziona veramente bene, così come in Austria. Anche lavorare in Francia si è rivelata un’ottima esperienza, ma da qualche tempo anche questo Paese sta vivendo una fase di immobilismo. Al contrario della Spagna dove, invece, esiste una grande vivacità. E guardando al futuro, dove le piacerebbe realizzare un nuovo progetto? Sono innamorata della complessità di Istanbul, un luogo dove non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo. La città è

formata da tanti strati diversi e pieni di ricchezza. Non mi stanco mai di andarci perché è piena di tesori inattesi. Oltre a edifici e infrastrutture ha progettato anche scenografie e mobili. Cos’altro le piacerebbe progettare? Non posso proprio dire quale sarà il mio prossimo progetto. Dipende da quello che mi chiederanno di fare. Credo però che tra ciò che abbiamo sviluppato in questi ultimi trent’anni, manchino progetti su larga scala. E non intendo esclusivamente progetti che riguardino un’intera città, ma anche parte di essa. Sono interessata alle modalità con cui si può effettivamente agire su spazi ampi, nei quali non si deve per forza intervenire con un unico edificio di grandi dimensioni, ma si può progettare un’ampia

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STORIA DI COPERTINA

LA VITA 31 ottobre 1950. Nasce a Bagdad, Iraq 1971. Master in matematica all’Università americana di Beirut 1976-1978. Fa parte di Oma, con Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis 1977. Si laurea all’Architectural association di Londra 1979. Apre il suo studio professionale a Londra 1983. Con la vittoria al concorso The Peak (Hong Kong, 1983) inizia la notorietà internazionale 1988. È tra gli architetti che espongono al Moma di New York nella mostra sull’architettura decostruttivista 1994. Insegna alla Graduate School of Design della Harvard University

Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects

2004. È la prima donna a vincere il premio Pritzker per l’architettura 2006. Il Guggenheim di New York le dedica una retrospettiva 2007. Riceve la medaglia Thomas Jefferson in Architettura

Museo Guggenheim Hermitage, Vilnius, Lituania, 2008, particolare di un interno

serie di strutture. La fluidità è uno dei tratti distintivi della sua architettura. Da dove viene questa predilezione? Il fluido dinamismo del disegno a mano libera è una fedele scelta per la nostra architettura, che è allo stesso tempo guidata dai nuovi sviluppi del design digitale e intensificata dalle capacità manifatturiere. Nell’attività progettuale, non prendiamo semplicemente indicazioni, piuttosto cerchiamo di interpretare le intenzioni di un’istituzione. Non ci interessa solo la forma di un edificio, ma il modo in cui può essere realizzata una nuova organizzazione della sua vita. Dal suo osservatorio, negli anni come è cambiato l’approccio alla progettazione?

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La complessità e i progressi tecnologici dei software di grafica digitale e delle tecniche costruttive hanno consentito linguaggi architettonici moderni, nuovi ed eccitanti, ai quali credo, insieme ai miei collaboratori, di aver dato un contribuito. Il computer ha semplificato le cose e allo stesso tempo ha permesso di raggiungere un alto grado di complessità. Quello che mi manca del periodo antecedente all’era informatica è la ricchezza della cultura materica. I modelli fisici offrivano qualcosa di diverso dalle prospettive disegnate, che a loro volta erano differenti rispetto alle piante o ai dipinti. Ora c’è una sostanziale uguaglianza e mancano le sorprese. Non ci sono, insomma, più strati da scoprire.



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