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UMBERTO VERONESI

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Umberto Veronesi, nato a Milano, è chirurgo, ricercatore, uomo di scienza e di cultura. È direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia e ha creato la Fondazione Umberto Veronesi per promuovere la ricerca scientifica 20


UNA BATTAGLIA CHE PUÒ E DEVE ESSERE VINTA Un futuro dove il cancro sia sconfitto. È sempre stato questo l’obiettivo di Umberto Veronesi. Che delinea le nuove frontiere della lotta contro il tumore. Perché questa malattia non è una maledizione. Né una punizione. Se diagnosticata in tempo, infatti, si può curare. Grazie alla prevenzione e alle nuove frontiere della ricerca di Francesca Druidi

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n futuro dove il cancro è sconfitto. Non sarà il frutto di un miracolo, ma il risultato di un incessante avanzamento della scienza, compiuto a piccoli passi, superando gli ostacoli e le battute d’arresto che ancora si presentano lungo il percorso. Ne è convinto Umberto Veronesi, direttore dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, cinquant’anni di carriera spesi nella quotidiana guerra contro il cancro, fiducioso sulle potenzialità della prevenzione e degli sviluppi della ricerca, molti dei quali resi possibili dallo stesso oncologo. Dall’introduzione della chirurgia conservativa nella cura dei tumori mammari, e nello specifico della tecnica della quadrantectomia che ha risparmiato a tante donne l’asportazione della mammella, alle rivoluzioni nella radioterapia e alle ultime ricerche sul melanoma. «Ma – come afferma lo scienziato – il traguardo finale non è ancora stato raggiunto». Professore, esistono ancora barriere culturali nei confronti del tumore? «Quando iniziai la mia carriera di

oncologo, il cancro era definito un male incurabile. Il malato di tumore e il suo vissuto avevano il marchio del reietto. Questa concezione della malattia non è del tutto sradicata dalla mentalità comune. Per questo, ancora oggi, sono molti i malati di cancro che vivono con disperazione la propria condizione, a causa di barriere culturali che impediscono loro di reagire. Fortunatamente, ci sono state e ci sono sempre più persone che si ribellano a questo senso di ineluttabilità e si impegnano con forza nella lotta alla malattia. Negli ultimi quindici anni si è registrata una prima controtendenza in termini di mortalità. La popolazione deve definitivamente abbandonare i modelli del passato, fatti di rifiuto, negazione, rimozione, fuga e fatalismo, frutto della paura e dell’ignoranza delle generazioni precedenti. Occorre perseverare nel favorire questo cambiamento culturale. Perché conoscendo il nemico, lo si combatte meglio». Quali sono le nuove frontiere della farmacoprevenzione e della vaccinazione?

«Curare il cancro ancor prima che si manifesti è l’obiettivo della farmacoprevenzione, che prevede lo sviluppo di farmaci capaci di prevenire l’insorgenza del tumore in gruppi di persone a rischio per fattori genetici oppure ambientali e comportamentali. Esistono già terapie preventive per il carcinoma mammario: il tamoxifen si è rivelato efficace nel ridurre del 50% la probabilità di manifestazione del tumore in donne sane a rischio, mentre la fenretinide, un farmaco derivato dalla vitamina A, è in grado di diminuire del 50% l’incidenza del cancro al seno nelle donne sotto i quarant’anni e del 40% in tutte quelle non ancora in menopausa. Altre terapie sono oggetto di studio per le neoplasie del colon e del polmone. La ricerca è attivamente impegnata nell'identificazione di vaccini, da somministrare a persone sane, tesi a sconfiggere virus e batteri che possono preparare il terreno alla patologia. Per il momento, l’unico vero vaccino di cui disponiamo è quello contro l’Hpv, Human papilloma virus, responsabile della quasi totalità dei tumori del col21


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lo dell’utero». Come immagina la situazione tra dieci anni? «Assisteremo a grandi progressi, soprattutto in tre aree. La prima è la medicina molecolare. Siamo vicini a tracciare una sorta di identikit genetico della patologia, che permetterà di elaborare programmi di trattamento personalizzati per ogni malattia e per ogni malato. Stiamo scoprendo, e alcuni sono già in uso, nuovi farmaci cosiddetti intelligenti: molecole capaci di intervenire selettivamente sui meccanismi alterati nella cellula tumorale. La seconda è l’anticipazione diagnostica sempre più precoce e accurata, che nasce dalla rivoluzione dell’imaging. Già siamo in grado di esplorare virtualmente ogni millimetro del nostro corpo e, con le nuove tecnologie come la Pet (dall'inglese Positron emission tomography, la tomografia a emissione di positroni, ndr), possiamo anche studiare le funzionalità di alcuni organi e la loro risposta ai trattamenti. La terza area è rappresentata dalla mininvasività delle cure, con lo sviluppo della chirurgia robotica o radioguidata e di nuove forme di radioterapia come l’adroterapia e la terapia con protoni». Prevenzione è la parola chiave della lotta al cancro. Quanto ancora c’è da fare in Italia per l’attecchimento di una più attenta cultura della prevenzione? «La parola prevenzione ha due accezioni. Prevenzione primaria significa adottare stili di vita che riducono il rischio della malattia, mentre prevenzione secondaria vuol dire identificare la patologia al suo esordio tramite la diagnosi precoce. Nel primo caso, la prevenzione è un problema di cultura e di coscienza sia individuale che collettiva, e in questo l’Italia è più o meno allineata con gli altri Paesi europei. Il ministero della Salute e le associazioni di lotta al cancro sono molto impegnate

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sul fronte dell’informazione e della sensibilizzazione. Il cambiamento di un costume, quale il tipo di alimentazione o l’abitudine al fumo, è però un processo lento, che richiede la partecipazione di tutta la comunità. Nel complesso, per diffondere la cultura della prevenzione nel nostro Paese è stato fatto molto. E i risultati sono soddisfacenti. Se quarant’anni fa occorreva convincere le donne a farsi controllare il seno, oggi si registrano lunghe liste di attesa per le mammografie». Per quanto riguarda, invece, la prevenzione intesa come diagnosi precoce? «Oltre ai problemi culturali, occorre risolvere quelli strutturali: il Sistema sanitario deve adeguarsi alla domanda della popolazione. Come per la cura, anche per la diagnosi precoce vi sono in Italia poche regioni privilegiate e ampie aree ancora non al passo in

quanto a servizi e strutture adeguate per gli esami di diagnosi precoce. È importante, invece, che i servizi diagnostici siano capillari e omogeneamente distribuiti sul territorio nazionale perché, se per curarsi meglio il malato è disposto ad affrontare qualsiasi viaggio, il cittadino sano difficilmente è disposto a pesanti trasferte per effettuare esami di controllo della propria salute». La ricerca sulle staminali embrionali può davvero contribuire in maniera fattiva alla ricerca? «Finora, nelle ricerche effettuate sugli animali, si è riusciti a trasformare le cellule staminali di origine embrionale in neuroni, ossa e cellule progenitrici del sangue. Negli ultimi tempi, sono state utilizzate, solo all’estero, con importanti risultati in diversi studi. Si sono, infatti, rivelate efficaci nella correzione di difetti cardiovascolari congeniti, nel-



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la produzione di insulina in modelli di pancreas artificiali, nella produzione in vitro di cellule del sangue, del sistema nervoso e del sistema vascolare. Rappresentano, inoltre, una promettente possibilità per lo studio dell’origine, dello sviluppo e della terapia di diverse malattie di origine genetica. Se la legge italiana autorizzasse l’uso di queste cellule, questi filoni di ricerca potrebbero svilupparsi anche nel nostro Paese. Le staminali embrionali sono quelle che assicurerebbero maggiori probabilità di successo negli obiettivi terapeutici da raggiungere e nella cura di malattie degenerative come morbo di Parkinson o Alzheimer. Occorre però identificare un sistema in grado di isolare le capacità di espansione utili da quelle distruttive, e su questo punto la ricerca sta ancora lavorando». Lei si è espresso favorevolmente nei confronti del nucleare, dei termovalorizzatori e degli Ogm. 24

«Le cellule staminali di origine embrionale assicurerebbero maggiori probabilità di successo negli obiettivi terapeutici da raggiungere» Crede che in Italia esista un’informazione scorretta riguardo questi temi? «La verità è che viviamo in un periodo di oscurantismo scientifico. Basta pensare al successo della magia, delle medicine alternative, degli oroscopi e delle chiromanti. Visioni un po' primordiali, che tendono a oscurare la capacità dell’uomo di autodeterminarsi. Sull'onda di questa regressione si stanno sviluppando movimenti antiscientifici. Il nostro sistema etico-culturale fa fatica a rapportarsi ai nuovi orizzonti scientifici, da cui preferisce allontanarsi con forme di ostracismo intellettuale. Sono evidenti i segni di una crisi profonda della cultura della scienza e della sua

funzione civilizzatrice. Dobbiamo, quindi, contrastare l’isolamento della scienza, favorendo un dialogo costruttivo tra tutte quelle forme di sapere che hanno come obiettivo la difesa e l'affermazione dell'identità e della dignità umana. La politica, prima di tutto, ma anche la filosofia, l’economia e la cultura umanistica». Qual è stata la sua vittoria professionale più importante? «L’aver dimostrato che si può curare il cancro senza mutilare, che le cure anticancro non devono essere per forza devastanti e che il principio del “minimo efficace”, piuttosto che quello del “massimo tollerabile” si applica anche alla radioterapia e alla chemioterapia».



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UMBERTO SCAPAGNINI

PROTAGONISTI

Umberto Scapagnini, 67 anni. È decano della facoltà di medicina all’Università di Catania (con 33 anni di ordinariato) già presidente della Commissione Ricerca ed Energia del PE e sindaco di Catania e attuale parlamentare

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SCIENZA, UN VOLANO PER L’ECONOMIA Un coordinamento unico e centralizzato della ricerca. Che sia il riferimento istituzionale per tutti i ministeri coinvolti. La razionalizzazione della spesa anche nelle università. Che crei il giusto equilibrio tra i diritti dei docenti. Queste alcune delle indicazioni di Umberto Scapagnini, medico e politico, su temi di grande attualità sociale di Marilena Spataro

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na voce autorevole. Un personaggio che della ricerca e dell’insegnamento ha fatto una delle principali ragioni della sua esistenza. Specialista in neuroendocrinologia, un passato da ricercatore presso la YC Medical Center San Francisco in California e docente al Mti di Boston, consulente della Nasa e, dal 75, professore ordinario in aspettativa presso l’Università di Catania, autore di oltre 200 pubblicazioni su riviste internazionali e di 20 volumi di lingua inglese. Umberto Scapagnini è tutto questo. Ma è anche altro. Infatti l’interesse per le questioni sociali lo hanno portato

verso la politica. Un campo nel quale si è impegnato a fondo e con la sua usuale passione e umanità, come parlamentare europeo prima, come sindaco di Catania poi, e dal 2008 come deputato eletto nelle file del Pdl. E anche qui ha messo a disposizione della collettività le sue capacità umane e professionali. Ecco le sue indicazioni su materie di scottante attualità quali ricerca e Università. Ma anche su etica e scienza. Quali sono i mali della ricerca in Italia, professore? «In Italia abbiamo una grande storia nel campo della ricerca, che però è fatta da picchi e da avvallamenti. Non si riesce a avere una

uniformità che sia di carattere medio alto, e ciò è dovuto innanzitutto alla mancanza di coordinamento. Questo l’ho sempre sostenuto e continuo a sostenerlo. Oggi assistiamo a una polverizzazione, per cui ogni tipo di ricerca fa parte di un diverso ministero. Invece è necessario che vi sia un coordinamento strategico che sia forte e centralizzato, possibilmente alla presidenza del Consiglio dei ministri, e al quale i vari ministeri che si occupano di ricerca facciano capo. Una tale organizzazione creerebbe le condizioni affinché la ricerca possa diventare uno strumento per perseguire l’avanzamento

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economico del nostro Paese. Il punto chiave da risolvere non è quello della mancanza di fondi, che pure esiste, quanto la mancanza di coordinamento. I fondi, infatti, vanno selezionati così come le persone. È così che si potranno ottenere risultati capaci di ricadere positivamente su tutta l’economia». Oggi il mondo universitario protesta soprattutto per i tagli alla ricerca. Pensa che veramente in quest’ambito la situazione sia tanto drammatica da giustificare tali proteste? «Come docente universitario e vecchio direttore d’Istituto non posso non capire le esigenze dell’Università. Tuttavia se da una parte il taglio di fondi alla scuola si sente, anche sotto il profilo delle opportunità di lavoro dei giovani ricercatori, ritengo sia necessaria una razionalizzazione della spesa, a partire dagli sprechi relativi agli incarichi dei professori; in ciò sostengo caldamente il ministro Gelmini. Infatti i docenti di prima fascia, di seconda e i ricercatori vanno equilibrati. All’interno dell’Università e delle facoltà bisogna individuare ciò che realmente serve e quello che non serve. Prima di avviare una riforma integrale è però necessario avviare incontri con tutti gli interessati: studenti, ricercatori, docenti e rettori». Si spende veramente così poco e così male da impedire ai giovani che desiderano dedicarsi alla ricerca di lavorare in Italia? «In realtà si spende male, più che poco. In questo la riforma del federalismo fiscale potrà contribuire a valorizzare i giovani talenti. A Catania, città di cui sono stato il sindaco per anni, abbiamo sperimentato, attraverso la creazione dell’Ict, la localizzazione di nuove imprese in settori avanzati nell’area metropolitana e più in generale nella Regione Siciliana cercando in prospettiva di giungere a forme di autofinanzia-

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UMBERTO SCAPAGNINI

PROTAGONISTI

mento. Si tratta di un esempio concreto cui guardare per il futuro». In quale percentuale oggi le case farmaceutiche contribuiscono allo sviluppo tecnologico e scientifico nel settore medico in Italia? «Le case farmaceutiche, quelle che producono specialità, prima con-

tribuivano di più. Ma a causa dei vincoli burocratici che esistono in Italia per le registrazioni dei farmaci, oggi preferiscono passare attraverso l’Europa, dove le regole sono meno rigide. In genere queste aziende si rivolgono all’Emea per entrare nel mercato italiano. È così che, se da una parte fi-


nanziano la ricerca al loro interno, dall’altra spendono sempre meno in campo pubblico. Bisognerebbe essere più elastici nei confronti delle case farmaceutiche che hanno sede in Italia, sia grandi che medie. E per impedire che “migrino” all’estero sarebbe anche necessario detassa-

re le spese concernenti la ricerca. In tal caso credo che avremmo una maggiore e diversa partecipazione economica a favore della ricerca, con grande vantaggio per l’economia generale e anche per tanti giovani e valenti ricercatori, che invece di andare oltreconfine per trovare opportunità di lavoro, le potrebbero avere qui da noi. Una novità positiva è costituita dai finanziamenti che, invece, arrivano da alcuni grossi nomi di aziende che si occupano di medicina naturale e di erboristeria. Sono queste a contribuire significativamente in questo momento alla ricerca in Italia. E con ottimi risultati. Ci sarebbe poi da considerare l’ipotesi di riconoscere a coloro che contribuiscono a creare un brevetto, la partecipazione agli utili. Sarebbe questo un modo anche per incoraggiare i giovani, oltre che un riconoscimento giusto e dovuto. Ad avvantaggiarsene sarebbero gli enti dove si compie la ricerca, sia pubblici che privati, ma anche l’intera società visto che si creerebbero i presupposti per nuove opportunità di lavoro e di sviluppo economico». È possibile coniugare il pubblico e il privato in quest’ambito senza dover rinunciare alla nostra vocazione di Stato sociale? «Nel quinto programma quadro per il finanziamento della ricerca in Europa proposto dalla relativa Commissione europea, e alla cui stesura ho contribuito quale Presidente appunto della Commissione Ricerca ed Energia, Cert, del Parlamento europeo, si faceva esplicito riferimento alla crescita economica e alle assunzioni in campo lavorativo. Le application per la ricerca, oltre a contenere le basi teoriche e di realizzazione pratica, costituivano un salto di qualità che mirava allo sviluppo delle aziende e quindi a un incremento economico dell’intera Europa. Basterebbe

trasferire questo concetto all’Italia per trovare soluzioni adeguate anche da noi. Le richieste delle aziende vanno considerate non solo dal punto di vista della loro validità scientifica, ma anche sulla base delle ricadute economiche e sulla base delle opportunità di lavoro che creano per i giovani ricercatori. Più che una passività la ricerca deve diventare fonte di attività e di sviluppo così come avvenne con il V Programma quadro firmato dal Commissario Cresson e da me». Non c’è il rischio che la ricerca in campo medico sia funzionale più al profitto d’impresa che a un interesse nei confronti della salute del cittadino? «In campo medico il profitto non diventa prevalente se a monte c’è la selezione dei finanziamenti. Proprio come avviene nel resto d’Europa. Accanto alla salute del cittadino servono le scelte politiche che puntino prevalentemente sulla prevenzione prima che sulle terapie di cura». In campo medico, ma non solo, i professionisti si trovano a dover affrontare problemi a forte connotazione etica o di coscienza. Ritiene che la libertà della scienza in tali casi possa subire delle limitazioni attraverso delle leggi? «Ritengo che debba esistere un sistema di regole che strutturino la materia in modo chiaro e senza eccessi, tanto da rappresentare un riferimento sicuro. All’interno di queste regole ritengo che sia il medico o lo scienziato a dovere scegliere secondo coscienza quale comportamento tenere. Come medico, in questo campo sono impegnato in prima persona nella XII Commissione Affari Sociali della Camera allo studio del progetto di legge sulle cure palliative e sule terapie del dolore. Il nostro obiettivo è di riuscire ad avere ospedali senza dolore, dignità e assistenza nell’ultima parte della vita». 29


MARIELLA BOCCIARDO

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Mariella Bocciardo, deputato Pdl e membro della Commissione affari sociali e della Commissione parlamentare per l’infanzia


IL MIO IMPEGNO PER LA SPERANZA Sono sconosciute ai più. Colpiscono pochissime persone, ma ne esistono migliaia di tipologie. Per questo i farmaci sono pochi e l’attenzione dell’opinione pubblica è scarsa. Ma oggi l’Italia fa un passo avanti. È arrivata in Parlamento, firmata da Mariella Bocciardo, una proposta di legge per il sostegno alla cura e allo studio delle malattie rare di Sarah Sagripanti

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er quanto in linea teorica il diritto alla salute sia costituzionalmente garantito a ogni cittadino italiano, nella pratica accade purtroppo che alcune persone vedano in qualche modo indebolito o relativizzato tale diritto. Sono i due milioni di italiani affetti da quelle che vengono definite malattie rare. Malattie eterogenee, accomunate solo dal fatto di avere un’incidenza sulla popolazione inferiore allo 0,05%, ovvero un

caso su 2mila abitanti. Poco frequenti per definizione, quasi sconosciute, forse ancora meno studiate e spesso mancanti di una terapia adeguata, le malattie rare hanno rappresentato per molti anni un problema dimenticato anche a livello legislativo. Ma qualcosa negli ultimi mesi si è mosso. È dello scorso settembre una proposta di legge in favore della ricerca sulle malattie rare e sulla loro cura presentata da Mariella Bocciar-

do, deputata alla Camera e membro della Commissione affari sociali. Tra le misure previste dalla legge sono previste attività di sostegno per la diagnosi, l’assistenza e la cura, ma anche modalità innovative per gli incentivi alle imprese farmaceutiche e biotecnologiche; la possibilità di realizzare Consorzi per la ricerca e l’innovazione tra soggetti pubblici, aziende private e alleanze di pazienti; l’equa ripartizione dei finanziamenti tra ri31


MARIELLA BOCCIARDO

IMPEGNO

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cerca di base e ricerca traslazionale e sostegno alla formazione dei professionisti sanitari. «Un’altra importante novità è il valore che la legge assegna all’inserimento comunitario del malato raro – spiega Bocciardo –: una migliore integrazione scolastica e una maggiore tutela nel mondo del lavoro». Cosa rappresenta questa proposta di legge? «È una legge quadro, che affronta tutti i problemi in materia di malattie rare. È la prima legge completa e armonica che si chiede al Parlamento di approvare a favore di due milioni di persone che soffrono. Sulle malattie rare esiste soltanto un decreto che risale al 2001. Da allora nessuna proposta di legge è andata in porto». Cosa è cambiato rispetto a sette anni fa? «Indubbiamente qualcosa è cambiato. Ma gran parte dei problemi è rimasta irrisolta, perché è mancato finora un approccio globale al problema. Alcune Regioni, tra queste la Lombardia, hanno operato bene, facendosi carico in prima persona di problemi complessi inerenti la presa in carico, la distribuzione di farmaci orfani, l’istituzione di registri regionali e molto altro. Ma non tutte hanno fatto bene. Dobbiamo abbattere le disparità che permangono tra le regioni. Dobbiamo garantire gli stessi servizi su tutto il territorio nazionale, come d’altra parte sancisce la nostra Costituzione». La proposta prevede, tra l’altro, l’istituzione del comitato nazionale per le malattie rare. Quali dovrebbero essere i suoi compiti? «Rappresenta un vero caposaldo della proposta di legge. Il comitato ha il compito di coordinare e valutare le politiche nazionali in tema di malattie rare, di verificarne l’attuazione e di valutarne efficacia e impatto sul Ser-

vizio sanitario nazionale. La presenza al suo interno anche dei più qualificati rappresentanti delle associazioni dei pazienti, come ad esempio la Federazione italiana malattie rare-Uniamo, è il segno della piena consonanza della legge con gli orientamenti più avanzati espressi sul tema a livello europeo». Quante sono le persone affette da malattie rare in Italia? «Almeno due milioni di malati rari, cui vanno aggiunti i gruppi familiari fino a una realistica stima di sei milioni di persone coinvolte. In Europa ci sono 36 milioni di malati rari. Sono cifre importanti, che non tutti conoscono». Quali patologie avrebbero maggiormente bisogno di investimenti in ricerca? «Il numero delle malattie è valutato dall’Organizzazione mondiale della sanità tra 6mila e 8mila. E purtroppo stanno aumentando. Ogni settimana, grazie ai progressi della ricerca e della diagnostica, vengono scoperte cinque nuove malattie rare. Nella maggioranza dei casi sono pato-

logie croniche e invalidanti ad alta complessità, per l’80 per cento di origine genetica. In un quadro così articolato, tuttavia, molte malattie rare possono essere unite in gruppi di patologie: così la ricerca potrebbe concentrarsi proprio su queste “famiglie” di patologie». Perché non si è sviluppato nel tempo un sistema di ricerca, tutela e assistenza per i malati affetti da malattie rare? «La complessità e la multidisciplinarietà che le malattie rare richiedono costituiscono sicuramente un problema per il Servizio sanitario nazionale. Lo sappiamo. I centri specialistici di riferimento sono pochi. Manca una approfondita formazione sugli operatori sanitari, dai medici agli infermieri. In alcune situazioni, passano persino sette anni prima che si arrivi a una diagnosi e intanto la vita dei malati è piena di sofferenze e purtroppo si spegne prima ancora di sapere perché». Quanto influiscono nel rallentamento della ricerca gli interessi economici delle in-


«Sulle malattie rare esiste soltanto un decreto che risale al 2001. Da allora nessuna proposta di legge è mai andata in porto» dustrie farmaceutiche? «La massa dei malati rari è enorme nel suo insieme, ma è frammentata in migliaia di patologie: ci sono malattie rare che colpiscono quattro malati in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, 25 anni fa, l’allora presidente Ronald Reagan inaugurò una nuova stagione per le malattie rare istituendo l’Orphan drug act che fece emergere il tema. Vorrei tuttavia osservare che una nuova sensibilità si sta muovendo anche all’interno delle industrie farmaceutiche. Non dimentichiamoci che l’intera storia della medicina e della ricerca scientifica dimostra che scoperte fondamentali per la vita dell’uomo sono scaturite dallo studio dell’inusuale, del raro». In che modo si possono indurre le industrie farmaceutiche a investire maggiormente in que-

sto ambito? «Incentivando i brevetti, aumentando le agevolazioni fiscali per la ricerca di farmaci orfani e terapie avanzate, trovando giuste compensazioni tra il costo della ricerca e il mancato ritorno sull’investimento». Secondo molti una speranza per la cura di molte malattie rare potrebbe venire dalla ricerca sulle cellule staminali. Qual è la sua opinione al riguardo? «La ricerca sulle cellule staminali non rappresenta più solo una speranza. Già oggi per molte malattie esiste una cura proprio grazie alle staminali. Considerate le grandi potenzialità di questa ricerca, ritengo che lo studio delle staminali adulte possa ancora dare importanti risultati». Lei ha vissuto in prima persona il problema, a causa dell’Epidermolisi Bollosa che ha

colpito lei, sua figlia e sua nipote. Cosa le ha insegnato questa esperienza? «Grazie al cielo sono stata colpita dalla forma semplice di questa malattia. Nonostante ciò, questa esperienza mi ha fatto capire, dal vivo, cosa vuol dire soffrire. E quanto sia importante agire, non arrendersi, combattere. Mi ha dato una fortuna rara: vivere giorno dopo giorno l’amore per le persone che soffrono». Cosa può fare concretamente la politica per sostenere e rinforzare la rete familiare, così importante nell’aiutare il malato nella sua battaglia quotidiana? «Una legge è buona se è capace di rispondere ai bisogni concreti delle persone alle quali si rivolge. Bisogna prima saper ascoltare, poi comprendere e infine tradurre le istanze in strumenti efficaci». Su alcune patologie c’è ormai grande sensibilizzazione nell’opinione pubblica. Ma delle malattie rare si parla inevitabilmente meno. Cosa si dovrebbe fare, a livello informativo, per aumentare l’attenzione su questo tema? «Eventi, convegni, conferenze, divulgazione, forte coinvolgimento dei mass media. È una battaglia a tutto campo. Quest’anno, un evento è stato importantissimo. Il 29 febbraio 2008 si è celebrata la prima Giornata europea delle malattie rare, promossa da Eurordis e organizzata in Italia da Uniamo. È un appuntamento che si ripeterà ogni anno: un evento da portare nelle università, nelle scuole e sui media per far crescere a livello sociale la sensibilità sul tema. Il 9 giugno del prossimo anno, inoltre, la Commissione europea promuoverà le Raccomandazioni sulle malattie rare agli Stati membri, un atto di grande valore politico. E mi auguro che l’Italia sia in prima fila su questo fronte». 33


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ANTONIO TOMASSINI RIFLESSIONI

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GARANTIAMO SALUTE AL NOSTRO SISTEMA Malasanità. Errori medici. Perdita di fiducia nel sistema sanitario. Ma non bisogna generalizzare. Le risposte della politica illustrate da Antonio Tomassini, presidente della Commissione Igiene e sanità del Senato di Valeria Maffei

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Antonio Tomassini, presidente della Commissione Igiene e sanità del Senato

rescono le malpractice in sanità. Aumentano le cause, penali e civili, contro medici e ospedali; contenziosi che impoveriscono le casse dello Stato e distolgono fondi importanti da dedicare alla ricerca ed all’acquisto di strumenti salvavita. Non diminuiscono, invece, gli errori clinici, sbagli che danno il via a una vera e propria caccia all’uomo e che spingono i medici a sposare la causa della medicina difensiva. Inoltre le infezioni, che ogni anno colpiscono tra i 450mila e i 700mila degenti degli ospedali, e le attese eccessive per diagnosi e cure mediche, completano un quadro che troppo spesso assume i toni dell’insoddisfazione generale. Ma la nostra sanità è davvero così carente e malmessa oppure demolire il sistema è diventato lo sport per eccellenza degli italiani? Antonio Tomassini, presidente della Commissione Igiene e sanità del Senato, spiega luci e ombre della sistema nazionale. Viste le premesse, la sanità italiana sembra aver bisogno di una revisione sul tema della sicurezza? «La necessità di migliorare la sicurezza all’interno degli ospedali è un’urgenza assolutamente reale e riguarda sia l’aspetto organizzativo, che la pianta organica, che, in considerazione del notevole sviluppo tecnologico, le strutture. Al contrario, l’affermazio35


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ne che nel nostro Paese ci sia un maggior rischio di contrarre infezioni non è corretta; soprattutto se confrontiamo i dati italiani con quegli degli altri Stati parimenti sviluppati. Per comprendere appieno la questione si dovrebbe fare una differenza tra il termine malasanità e la parola malpractice. Per malasanità si intende una sanità male organizzata. In un Paese come il nostro, in cui non si fanno investimenti ospedalieri seri da quasi vent’anni, è logico che gli ospedali e le altre strutture siano antiche e che sarebbe necessario un loro riammodernamento. Se invece andiamo a esaminare il discorso del contenzioso, pur aumentando da un punto di vista quantitativo, la nostra sanità è in grado di garantire delle buone cure e questo non lo affermiamo noi, ma lo dimostrano dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità». Quanto costa, tra cause penali e civili, questo malfunzionamento alle casse dello Stato? 36

«Anche se non ci sono dati ufficiali, stimiamo che il contenzioso costi circa un miliardo e mezzo di euro». La sanità italiana sta vivendo una stagione di grande fermento: da una parte i cittadini rivendicano un’assistenza sanitaria migliore, dall’altra le istituzioni devono fare i conti con l’attuale clima di recessione. Quali sono i problemi più urgenti da risolvere? «Quello di un’assistenza sanitaria migliore e più moderna è sicuramente un interesse diffuso, ma nei Paesi maggiormente sviluppati un miglioramento della condizione sanitaria richiederebbe un aumento di risorse di almeno un 10% all’anno. Questo discorso vale per tutto il mondo occidentale, mentre nessun Paese è in grado di aumentare la spesa sanitaria più del 2%. Le tecnologie e le cure sono sempre più costose e si rende necessario fare delle scelte, lasciare vecchi percorsi di cura e prenderne nuovi. Quin-

di il primo problema da affrontare è scegliere bene e spendere oculatamente, senza sprecare. Un’agenzia nazionale terza, che non si ponga né dalla parte dei richiedenti né dalla parte di chi offre i servizi sanitari, è a questo fine indispensabile. Questa agenzia dovrebbe svolgere funzioni di controllo e garantire che gli atti corrispondano a buona sanità. Va tutelata anche l’esigenza di un calmiere dell’offerta, in modo che i prezzi delle prestazioni sanitarie vengano tenuti sotto controllo, così come avviene per i farmaci». I medici vivono spesso in prima linea i disagi derivanti dalle carenze del sistema sanitario. Lo sbaglio del medico molto raramente viene perdonato ed è una delle cause di maggiore sfiducia verso la sanità pubblica. A suo parere questa percezione è giustificata? «Il non affrontare correttamente il problema della responsabilità professionale, che si articola in responsabilità clinica e in responsabilità tecnologica, fa sì che medici e tutto il personale sanitario siano l’ultimo anello di una catena di insoddisfazioni, talvolta giustificate, ma molte altre no. Infatti, grazie ai media, è ormai passato il concetto che l’atto medico debba dare un risul-


tato esatto, di certezza, ma non è detto che questo avvenga. In ogni atto medico c’è una possibilità di insuccesso, peraltro testimoniata dalle ricerche scientifiche. Basta pensare al fatto che ogni 10 anni c’è il cambiamento totale del sapere scientifico per capire che il sistema organizzativo complessivo non dipende dall’operare del singolo medico». C’è chi afferma che l’incremento delle denunce in campo medico stia aumentando il ricorso alla medicina difensiva che nega al paziente la possibilità di interventi difficili, ma a volte “salvavita”, che potrebbero non essere effettuati per paura che si vada incontro a una denuncia. Lei cosa ne pensa? «I medici sono troppo spesso attaccati in prima persona e finiscono per dedicarsi a quella che è definita la medicina difensiva; una pratica che costituisce, in ultima analisi, un danno per i cittadini. Il non rischiare per salvare la vita dei pazienti, per paura, sminuisce l’alleanza necessaria per superare gli ostacoli ed è fonte di una cattiva sanità. Inoltre molto spesso di fronte a un caso che provoca una grande commozione e una vasta partecipazione sociale, la magistratura finisce per trovare un nesso di causalità per poter garantire un risarcimento sociale a chi ha subito un danno». Non c’è il rischio che, a volte, questo accanimento assuma i contorni di un business? «In effetti quello del ricorso è un vero e proprio business: uno sport che vede impegnati, proprio perché le cifre in ballo sono notevoli, avvocati e società assicurative. Una pratica che finisce per essere fonte di lucro». Negli Stati Uniti esiste la Morbidity/Mortality Conference: una riunione a cui partecipano tutti i medici di ogni dipartimento. Quando si verifica un errore, si analizza il pro-

blema e si cercano le soluzioni. In Italia è applicabile? «Noi abbiamo proposto nel disegno di legge che è ora in discussione al Senato la costituzione delle unità di rischio preventivo. Queste unità testano il comportamento di tutti gli operatori, le procedure messe in atto e la sicurezza degli strumenti, per poter prevenire ed eliminare il ripetersi di alcuni problemi». Lei ha affermato che le istituzioni italiane sono rimaste per troppo tempo passive. Quali sono le altre proposte all'esame del Parlamento per ridurre e gestire l’errore medico? «La commissione che ho l’onore di presiedere ha ripreso l’argomento del riordino della responsabilità professionale. Vogliamo dunque rivedere le norme che riguardano la materia, ma il nostro impegno è rivolto anche a creare la camera arbitrale: un sistema che garantisce una transazione diretta, vantaggiosa per i cittadini e per gli operatori, e che permette di portare l’accordo su un piano extragiudiziale. Inoltre è fondamentale che la rivalsa verso i medici possa essere effettuata solo nei casi di dolo provato, di colpa grave, per imperizia o negligenza. La rivalsa non può essere richiesta nei casi di impru-

denza, dove per imprudenza si intende l’aver tentato un determinato percorso curativo non nelle normali condizioni. Inoltre è necessario che gli enti siano adeguatamente assicurati e che si creino alcuni meccanismi tampone come le unità di rischio preventivo, il fondo sociale di perequazione e che si identifichi un tetto massimo per i risarcimenti, affinché questi non raggiungano cifre iperboliche non rispondenti alla copertura di un danno reale». Qual è lo scopo del safety book presentato recentemente in Senato? «Il safety book riguarda in maniera generale il tema della sanità e si concentra molto sul concetto dei comportamenti preventivi: quegli atteggiamenti da tenere prima perché si evitino i rischi poi. In Italia abbiamo una legge rigorosa che tutela gli ambienti di lavoro, la famosa 626. Questa legge, in un ospedale, riguarda solo coloro che ci lavorano, bisogna invece creare un sistema di controllo, di idoneità e di congruità che riguardi sia chi ci lavora che i degenti. Infine va cercata una linea giudiziaria e giuridica coerente, eliminando le misure contraddittorie e non equiparabili». 37


FABRIZIO TRECCA

L’INCONTRO

La qualità della vita sta nell’equilibrio fra corpo e psiche, nel sapere come convivere serenamente con una malattia, nel tenersi informati e in forma. Lo sostiene il professor Fabrizio Trecca apprezzato autore e divulgatore scientifico di Lorenzo Berardi

LA NOSTRA VITA MERITA PIÙ QUALITÀ

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rofessore universitario. Chirurgo. Personaggio televisivo. Scrittore di successo. Fabrizio Trecca ha molte anime in ognuna delle quali emerge la sua grande curiosità, quella continua voglia di conoscere e far conoscere che sta alla base di ogni grande divulgatore. Da trent’anni Trecca ha saputo avvicinare la scienza agli italiani, portando la medicina in salotto. Autore di telefilm come Diagnosi, capaci di trattare, nel lontano 77, il tema della chirurgia «senza commettere quegli errori oggi presenti in molte fiction televisive» e di romanzi in grado di abbinare a una trama accattivante un rigoroso ri-

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spetto per le tematiche mediche in essi affrontate, Fabrizio Trecca non teme di confrontarsi a maestri del genere. Primo fra tutti Michael Crichton, recentemente scomparso. Rispetto al grande scrittore americano, Trecca può infatti vantare una conoscenza diretta della materia, maturata in camera operatoria. «Ero nell’equipe del professor Paride Stefanini che nel 1966 fu il primo in Europa a fare il trapianto di rene» ricorda oggi, sottolineando come «la scienza vada portata a tutti obiettivamente e non in modo miracolistico o pessimistico, come si tende a fare. E questo può avvenire anche attra-

verso un racconto fantastico o di avventura, nei libri come sul piccolo schermo. Purtroppo quella che va in onda oggi in televisione è solo spettacolarizzazione della medicina». Professor Trecca come è passato dalla pratica chirurgica alla scrittura? «Sono sempre stato affascinato dalla lettura e quando ho deciso di scrivere, l’ho fatto perché volevo soprattutto ristabilire un rapporto fiduciario fra medici e pazienti. Negli sceneggiati è giusto creare nei telespettatori un rapporto di fiducia nei confronti di una scienza a cui si guarda con rispetto, ma anche con timore.


Il professor Fabrizio Trecca, ideatore della trasmissione Vivere Meglio in onda su Rete4. Ha appena pubblicato InForma, Guida pratica a una vita di qualitĂ per i tipi di Armando Curcio Editore

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FABRIZIO TRECCA

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Come chirurgo volevo inoltre tradurre in realtà le mie esperienze e lo facevo attraverso film e sceneggiati. Parallelamente ho scritto diversi libri che solo in apparenza erano d’avventura, ma in realtà divulgavano la medicina attraverso delle trame vere e proprie. Uno di questi è stato Johnny Lancet, chirurgo del Pentagono che narrava di un medico che agiva ogni volta per salvare una vita umana. Questo libro parlava delle forme più sofisticate di microchirurgia come il laser e lo faceva già negli anni 70. Johnny Lancet era un po’ il precursore del dottor House, anche se quest’ultimo è proprio il tipo di medico che nessuno vorrebbe avere perché manca di umanità. Inoltre, i casi che

«La qualità della vita risiede nelle sobrietà che non vuol dire non godersi la vita, ma sapere come godersela» vengono esposti in quel telefilm sono sì spettacolari, ma anche estremamente rari e quindi non riguardano da vicino la gente». Più avanti ha scelto di trattare nei suoi libri il tema della bioingegneria. Come è nata questa esigenza? «Mi sono occupato di bioingegneria perché si tratta di un termine che crea molta confusione in un pubblico non specialistico che tende ancora a fare confusione con l’ingegneria genetica. La bioingegneria non ha nulla a che

fare con il codice genetico, ma è la tecnologia applicata alla medicina. Ne sono esempi il cuore artificiale o le protesi. Di bioingegneria ho scritto in un altro mio libro, Formula Uomo, in cui parlavo di come si potesse trasformare tecnicamente la macchina da corsa nell’estensione del corpo umano, che è un po’ come pensare alle protesi artificiali con cui corre Pistorius oggi. Successivamente ho avuto una fase in cui mi sono occupato di filosofia ed etica della medicina con un libro intitolato Percorso vitale che nasce da una mia riflessione sul fatto che quello dalla nascita alla morte è un percorso più o meno lungo che è diverso per tutti. È questo “il percorso vitale” che può essere influenzato dalle scoperte tecnologiche e dai ritrovati della medicina, ma che, al tempo stesso, dipende da noi stessi. Il medico serve a renderlo migliore e diventa insostituibile proprio perché rende meno arduo il percorso vitale». E arriviamo alla sua quarta fase di scrittore legata ai temi della scienza e della medicina, quella strettamente divulgativa. «È un approccio alla materia che caratterizza il mio ultimo libro, InForma che riguarda proprio la qualità della vita. Per questo lavoro sono stato ispirato da una definizione dell’Oms che sostiene come lo stato di salute non sia l’assenza di malattia, bensì il perfetto equilibrio fra corpo e psiche. Per cui un individuo può convivere con una patologia, ma solo se esiste un equilibrio psicologico. Di fatto la qualità della vita prima di tutto è difficile da definire ed è diversa fra uomo e uomo e fra età ed età. Certo, esistono dei parametri fissi da seguire, ma non è detto che garantiscano la



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vera qualità della vita, che resta un fatto del tutto personale. Essa consiste nella capacità di sapersi adattare alle condizioni. Tanto è vero che lo stress è rappresentato dalla mancanza di adattamento». Perché ha scelto di intitolare il libro InForma? «Per una scelta ben precisa. Esiste una doppia chiave di lettura del titolo del libro. La prima sta nel concetto di “informare”, ovvero di fare conoscere e sapere. La seconda riguarda l’importanza del sapere come “restare in forma“ per imparare a essere sani e a curarsi quando si è malati». In questo libro, lei parla di “psicologia del benessere”. Di che si tratta? «La psicologia del benessere si pone come obiettivo il fatto che le persone abbiano una vita soddisfacente, in modo da essere serene. Credo che la qualità della vita risieda nella sobrietà. Questo non vuol dire non godersi la vita, ma sapere come godersela. I mass media hanno, invece, indicato falsi ed effimeri traguardi che possono essere nocivi per la nostra esistenza». Può fare qualche esempio? «Ricchezza e consumo sfrenato. Oggi tutto diventa una merce, acquistabile e vendibile. C’è un imperialismo urbano che propone una cultura del piacere immediato. Fast food, Internet, cellulare, droghe leggere portano a un’illusione del piacere, ma la qualità della vita sta altrove. E infatti per strada e in televisione vediamo persone sorridenti ma infelici. Tutti raccontano i fatti loro in pubblico, non esistono più riservatezza, compostezza e dignità e io credo che vadano recuperate. Stiamo assistendo a un massacro della personalità veicolato da modelli effimeri e negativi». Alla luce di tutto questo, cosa è oggi per lei la malattia? «La malattia è il vivere male, non avere da mangiare, non ave-

«La malattia è il vivere male, non avere da mangiare, non avere lavoro, non poter mantenere le persone care, non essere amati o essere incapaci di amare» re lavoro, non poter mantenere le persone care, non essere amati o essere incapaci di amare. Tutto questo si ripercuote sulla vera qualità della vita. La malattia è solo un aspetto di ciò che può compromettere questa qualità. La felicità vera durerà cinque minuti in tutta la vita. La gioia è un sentimento di pochi secondi, poi vengono la serenità e l’entusiasmo. Questo vale per tutti i momenti importanti della nostra vita che possono essere rappresentati dal matrimonio o dalla nascita di un figlio, ma sono sempre brevissimi». Lei affianca da anni la sua attività di scrittore a quella di divulgatore televisivo conducendo Vivere Meglio. Qual è la filosofia alla base di questa trasmissione e a quale pubblico si rivolge? «Il motto di Vivere Megliopotrebbe essere che non tutte le malattie possono guarire, ma tutte le malattie possono essere curate. Protagonista della trasmissione non è solo la medicina, ma le persone.

Vivere Meglio riguarda le nostre occupazioni durante il tempo libero come lo sport e la lettura ed è diretta a tutti, sia ai giovani che agli anziani, perché tutti hanno bisogno di tenersi in forma attraverso la pratica sportiva, la cucina sana o i trattamenti estetici. Ospitiamo professori che approfondiscono i problemi legati alle malattie più comuni. Inoltre, non ci limitiamo a trattare una malattia, ma parliamo anche delle terapie e dei processi di cura a essa collegati, perché bisogna sempre offrire un’informazione chiara e completa. Non devono mai arrivare messaggi oscuri ai telespettatori. Senza contare che si è diffusa nei pazienti la tendenza all’automedicazione e questa va evitata perché ogni medicinale è comunque un elemento estraneo al nostro organismo e anche un trattamento estetico va effettuato sotto controllo medico. Sono convinto che vada rivalutata la figura del medico di famiglia che è il vero tutore, l’angelo custode della nostra salute».



GINO GEROSA

CARDIOCHIRURGIA

Una cardiochirurgia sempre meno invasiva. Bypass totalmente arteriosi. Lo sviluppo della medicina rigenerativa e di cuori artificiali totali sostitutivi. Quattro punti che, per il professor Gino Gerosa, rappresentano il futuro del settore di Francesca Druidi

COSÌ BATTERÀ IL CUORE DEL DOMANI

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el 1985 veniva eseguito il primo trapianto di cuore in Italia. Un anno fa si impiantava il primo cuore totalmente artificiale nel nostro Paese. A tagliare questo storico traguardo è stata l’équipe medica di cardiochirurgia dell’ospedale di Padova, diretta dal professor Gino Gerosa. Nel corso di un intervento durato tredici ore, è stato espiantato al paziente l’organo malato per introdurvi il dispositivo assistenziale Cardiowest Tah (Total Artificial Heart),

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un cuore completamente meccanico. Il cuore artificiale rappresenta una svolta determinante perché funge da impianto ponte, consentendo a quei pazienti che non sono nelle condizioni di superare nell’immediato le conseguenze di un intervento, di rimettersi per poi affrontare un nuovo trapianto, questa volta da donatore umano. Del resto, la cardiochirurgia ha compiuto e sta compiendo passi da gigante. «Oggi – spiega Gino Gerosa, direttore del Centro di cardiochirurgia

“V. Gallucci” di Padova – è possibile curare dal punto di vista cardiochirurgico qualsiasi malformazione o malattia cardiaca non più trattabile farmacologicamente». Su quali versanti si sta muovendo la cardiochirurgia per il futuro? «Il primo orizzonte riguarda l’ottimizzazione della rivascolarizzazione miocardica. Per quanto riguarda la possibilità di ripresa dall’angina e dagli infarti, si sta affermando la superiorità del bypass


Il professor Gino Gerosa è direttore della Scuola di specializzazione in cardiochirurgia e del Centro di cardiochirurgia “V. Gallucci” dell’azienda ospedaliera/Università di Padova. Si è laureato in Medicina e Chirurgia a Verona specializzandosi in Cardiochirurgia

aortocoronarico rispetto all’angioplastica, ossia l’intervento di dilatazione delle coronarie effettuato con il palloncino per inserire gli stent medicati. Per eseguire i bypass si utilizzano l’arteria mammaria e la vena, ma la buona funzione del condotto, a distanza di anni dall’operazione, si attesta attorno al 90 per cento per l’arteria mammaria, mentre raggiunge solo il 50 per cento per la vena. Per questo, l’attuale orientamento prevede che i bypass siano eseguiti in prevalenza me-

diante condotti totalmente arteriosi». Interventi sempre meno invasivi. È questa la tendenza? «Sì. Sempre più determinante sarà la mininvasività negli interventi cardiochirurgici, che non solo risponde a una motivazione di tipo cosmetico importante per la psicologia del paziente, ma costituisce anche un passo decisivo verso un più veloce recupero delle sue quotidiane attività relazionali e affettive. La mininvasività va, da una parte, letta come una

riduzione dell’aggressione chirurgica, misurata dalle dimensioni dell’incisione, ossia della cicatrice, ma dall’altra anche come la possibilità di effettuare un intervento senza usare la circolazione extra-corporea oppure senza fermare il cuore. Il terzo nodo cruciale della cardiochirurgia è rappresentato dallo sviluppo dei sistemi di assistenza ventricolare». Che cosa si intende nello specifico? «Tali sistemi comprendono sia i cuori artificiali parziali, che so87


GINO GEROSA

CARDIOCHIRURGIA

stituiscono uno solo dei due ventricoli, che quelli artificiali totali, i quali subentrano integralmente al cuore. I pazienti che presentano insufficienza cardiaca sono in costante aumento, in virtù del matrimonio di due fattori: la crescita del tasso di sopravvivenza all’infarto e l’invecchiamento della popolazione. La terapia farmacologia può fare molto, ma nel caso in cui i medicinali non controllino più lo scompenso, il trapianto cardiaco resta la migliore soluzione, in termini di risultati di sopravvivenza nell’immediato così come a distanza di tempo. Benché l’Italia si posizioni al secondo posto in Europa come numero di donazioni per abitanti, si è progressivamente modificato lo scenario dei potenziali donatori di organi». A quali fattori si deve questo

cambiamento? «Si è ridotta fortunatamente in maniera significativa l’incidenza di donatori giovani e giovanissimi, coinvolti in passato in frequenti disastri motociclistici che portavano alla morte celebrale e, quindi, alla scelta della donazione degli organi da parte dei genitori. Oggi, grazie anche a un’applicazione più rigida della legge sul casco, il donatore tipo ha un’età che oscilla dai 45 ai 55 anni e spesso soffre di ipertensione, diabete o comunque di patologie dannose per il cuore». Ciò cosa comporta? «Un numero superiore di donatori più anziani e con maggiori fattori di rischio rende inutilizzabili i loro cuori per un trapianto. A sopperire questa carenza intervengono così i sistemi di assistenza ventricolare. La tecnologia

sta sviluppando cuori artificiali totali, intesi non più soltanto come ponti al trapianto cardiaco, ma come sostituti definitivi della funzione cardiaca, alternativi all’intervento stesso. Nei prossimi 35 anni, ciò dovrebbe essere una realtà. Il punto di arrivo finale è dato da un sistema di assistenza ventricolare e da un cuore artificiale che siano totalmente impiantabili, cioè inseriti integralmente nel torace del paziente, dove la trasmissione dell’energia avviene attraverso la cute. Questa è una prospettiva però ancora futuribile» Come si presenta attualmente la situazione dei trapianti in Italia? «Si è fatto molto, ma qualche passo ulteriore può essere ancora compiuto. Secondo i dati del Centro nazionale trapianti, si re-

«Grazie alla medicina rigenerativa è possibile utilizzare le cellule staminali del paziente ricevente e altri elementi cellulari per ricreare parti di cuore»

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gistra ancora una percentuale di rifiuto alla donazione che oscilla dal 30 al 50 per cento a seconda delle regioni. Manca probabilmente una più corretta informazione sulla differenza tra il coma e la morte cerebrale, che chiarisca le idee dei parenti del potenziale donatore». Quali sono i traguardi dell’impiego delle cellule staminali in cardiochirurgia? «Grazie alla medicina rigenerativa è possibile utilizzare non solo le cellule staminali del paziente ricevente, ma anche altri elementi cellulari per ricreare parti di cuore, ad esempio le valvole e il miocardio. L’obiettivo è quello di ricostruire l’intero cuore, utilizzando come matrice un cuore decellularizzato privato delle proprie cellule e ripopolato con le cellule del potenziale ricevente. Si tratta, anche in questo caso, di una prospettiva futuribile, mentre la creazione di valvole dotate dei patrimoni cellulari del ricevente individua un filone sul quale l’équi-

pe di Padova è già concentrata. Si sta lavorando moltissimo con le cellule staminali. Siamo tornati dalla sala operatorio al laboratorio di ricerca». Sono aumentati in questi anni i casi che coinvolgono i bambini? «No, non si è registrato un incremento delle patologie pediatriche, a causa della riduzione della natalità e della scelta di molti genitori di interrompere la gravidanza in presenza di malformazioni cardiache. Il tentativo era quello di intervenire sulle malformazioni congenite ancora in utero, ma in realtà le tecniche di gestione dei pazienti neonatali sono tali per cui le correzioni vengono eseguite in età estremamente precoce». La ricerca translazionale è fondamentale. Quali sono le maggiori difficoltà in questo ambito? «Senza dubbio, la mancanza di supporti finanziari penalizza fortemente la ricerca. La dotazione di fondi è, infatti, molto limitata in Italia. Abbiamo così impa-

rato a ottimizzare le risorse a nostra disposizione. Con il mio gruppo cardiochirurgico di Padova sono costantemente in contatto con altri nuclei di ricerca a Boston, Hannover e Zurigo che portano avanti gli stessi filoni di studio con budget però decisamente differenti. Oltreconfine, i progetti vengono finanziati in un’ottica di 3-5 anni, mentre in Italia spesso è coperto solo il primo biennio. Così mentre ci si trova a metà del percorso, vengono spesso a mancare i finanziamenti. Occorre estrema cocciutaggine e passione per fare ricerca in Italia. Il problema non è tanto quello di far tornare i cervelli dall’estero, ma piuttosto quello di far lavorare i cervelli che già ci sono. È molto più facile lavorare all’estero, perché sei inserito in una rete in grado di aiutarti e sostenerti in maniera importante. Una rete che nel nostro Paese non è ancora così sviluppata». Come si posiziona l’Italia a livello internazionale in ambito cardiochirurgico? «Per quanto riguarda le performance cliniche e assistenziali, l’Italia è sicuramente ai vertici. I risultati raggiunti dalle cardiochirurgie del Veneto sono poi assolutamente confrontabili, se non migliori, con quelli ottenuti dai più prestigiosi centri nordamericani o di altri Paesi europei. Dolenti restano appunto le note sul fronte della ricerca. Un ulteriore limite dell’Italia è, inoltre, la scarsa capacità di attrarre i cervelli dall’estero. Se nel campo della ricerca la distribuzione delle risorse in questi ultimi anni almeno non avviene più a pioggia, ma in direzione maggiormente mirata, la torta da dividere è sempre più piccola. E ormai è un pasticcino. A onor del vero, bisogna sottolineare come alcune regioni, tra cui il Veneto continuino a supportare la ricerca, nonostante le difficoltà economiche attuali». 89


ALESSANDRO MELUZZI

PSICOLOGIA

LA LEGITTIMA RICERCA DELLA FELICITÀ Lo studio del sé è forse la chiave di volta per risolvere la crisi di senso che affligge i tempi moderni, caratterizzati dalla solitudine e da falsi valori. Un percorso che passa attraverso l’amore e la venerazione di coloro che ci sono vicini. L’opinione di Alessandro Meluzzi di Lara Mariani

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© FOTOGRAMMA

L Alessandro Meluzzi, psicologo, specialista in psichiatria e psicoterapeuta

a nostra società come tutte le società occidentali, post industriali e post ecologiche, ha innegabilmente portato a un eccesso di atomizzazione degli individui. Quel tessuto di comunità e relazioni che era caratteristico sia del mondo contadino che di quello metropolitano, in cui il vicinato non era luogo di contrapposizione mortale tra diversi, ma luogo di incontro e di solidarietà, oggi si è praticamente dissolto. La vecchia famiglia patriarcale contadina aveva i suoi difetti, ma sicuramente godeva di un grande pregio: non abbandonava le perso-

ne, non lasciava solo nessuno. Ad esempio, era pressoché impossibile che una ragazza venisse abbandonata a seguito di una depressione post partum, c’erano attorno a lei sorelle, madri, cognate, suocere, cugine. Le famiglie allargate contribuivano alla legittima ricerca della felicità da parte dei singoli. Una dimensione che oggi si è persa, in questa società fatta di piccoli nuclei familiari, dove le persone avvertono inesorabilmente un sentimento di solitudine. «L’isolamento è ormai la cifra del nostro tempo». Il professor Alessandro Meluzzi, psicologo, specialista in 101


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psichiatria e psicoterapeuta esamina il circuito sociale in cui quotidianamente l’individuo si dimena, scavando oltre l’appariscente e complessa superficie e cercando di comprendere quali ideali si sono mantenuti e quali invece sono andati dissolti. Ma soprattutto quali dovrebbero essere salvati, riesumati, affinché l’uomo possa vivere più serenamente la sua quotidianità. Professor Meluzzi, gli ideali, i valori, vengono sempre visti come qualcosa che era determinante nel passato e che invece manca nel presente. Secondo lei questa affermazione fotografa davvero la realtà? «A dire il vero gli ideali esistono anche oggi, solo che non possono definirsi tali. O meglio, gli individui sono affetti da una specie di edonismo di massa, che fa erroneamente credere alle persone che la felicità personale sia proporzionata alla quantità di oggetti, di status symbol che si possono possedere o alla quantità di rapporti occasionali che si possono consumare, o all’intensità apparente di emozioni che si possono provare. Tutti pensano di dover vivere il maggior numero di emozioni possibili e il risultato scontato di questa ossessionante ricerca sono la depressione e la demotivazione, di chi ha già sperimentato molte realtà diverse, senza trarne una vera fonte di senso». Il mito dell’apparenza. Sarà sempre più forte, oppure giungeremo presto a un recupero dei veri valori, visto che quelli finti ci hanno svuotato? «Questo fenomeno è già in atto, basti pensare che in Italia si sta registrando un incremento senza precedenti delle monache di clausura, frequentemente professioniste e laureate, persone che portano dentro i mo-

© Giacominofoto / FOTOGRAMMA

ALESSANDRO MELUZZI

PSICOLOGIA

nasteri la loro esperienza e la loro cultura. Donne che decidono di ricercare un senso diverso per la loro esistenza». Nei giovani si avverte già questa ricerca di senso? «I giovani sono in una dimensione in cui la ricerca di senso non è un fatto accessorio, ma è il significato vero dell’età che stanno attraversando. Spesso i ragazzi devono crescere come piante senza radici, senza modelli né ideologici né spirituali, se non quello di una società in cui appare il denaro e la visibilità come unica fonte di identità. E siccome né la grande quantità di denaro, né la visibilità sono valori reali, la loro frustrazione viene colmata dall’ecstasy e dalle droghe che ten-

dono a sovreccitare come la cocaina o a sedare come l’eroina, o a intontire come i cannabinoidi. Insomma gli effetti sono diversi, ma tutte le sostanze vengono assunte per lo stesso motivo: alterare e sopraffare le funzioni dell’io che non riesce a guardare se stesso». Secondo lei questo comportamento sarà preoccupante anche in futuro, oppure alla fine la ricerca del senso avrà la meglio? «Io credo che nel cuore dell’uomo ci sia una fame di amore e di mistero che nulla può placare. Ma la scienza non fornisce una risposta esaustiva della dimensione umana». Quindi la perdita della di-


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mensione religiosa è un po’ la causa di questa dispersione del senso? «Io non parlerei di religione perché è un po’ limitante, parlerei di una spirituale ricerca di Dio. Se si riesce a incontrare Cristo tutto diventa possibile: essere fedele alla propria moglie, amare i propri figli, pensare al prossimo. Ma se questo incontro non avviene è molto difficile buttare addosso alle persone una cascata di comandamenti. La religione è il risultato di un incontro, non una somma di regole. Se il Cristianesimo viene proposto solo come un insieme di proibizioni e di regole, non funziona». Perché i giovani fanno fatica ad avvicinarsi alla spiritualità?

«I giovani hanno un cuore che si lascia incendiare facilmente. Io ho seguito tanti ragazzi problematici, che sono passati attraverso l’esperienza del carcere, della psichiatria o delle droghe: non è che non sentono perché il loro cuore è freddo, ma perché il cuore di chi li cura e li accoglie non è sufficientemente caldo». E quindi entra in gioco la figura del genitore. «Il genitore è fondamentale perché la crisi a cui stiamo assistendo è una crisi della famiglia, che non solo non trasmette un insieme di valori, ma non trasmette il significato dell’amore. È difficile che i giovani imparino ad amare, quando vedono genitori che si tradiscono, che pensano di ri-

spondere con un farmaco a qualsiasi problema della vita, che sono assenti, che non donano il bene più prezioso, il tempo. Allora è chiaro che la famiglia diviene un luogo mostruoso, ripiegato su se stesso, mentre dovrebbe essere luogo di trasmissione dell’identità, dell’essere e della speranza». Come può un genitore trasmette questi valori? «I figli se ne fregano di quello che i genitori dicono, ma sono spasmodicamente attenti a quello che i genitori fanno. Nei processi educativi l’unica cosa che conta è l’esempio pratico. Anche se, senza dubbio, è sempre più difficile testimoniare con la propria vita ciò che si pensa sia vero e giusto». Nei momenti di estrema difficoltà dove si trova la forza di guardare avanti mirando la verità? «Il mondo va sempre avanti. In questa nostra tensione verso la fine della storia tutto è in cammino, però non dobbiamo perdere la speranza che è una virtù fondamentale senza la quale nulla può progredire, perché nutre anche la fede e l’amore». Certo è che in alcune situazioni limite a volte è difficile intravedere l’amore e la speranza. «Dove si nasce, in che latitudine si muovono i primi passi è rilevante. Se potessimo scegliere i nostri genitori la vita avrebbe un altro senso. Però in questo percorso ognuno può costruire la sua auto-realizzazione a partire da un incontro con l’altro. Come diceva san Francesco “impariamo, non soltanto a rispettare, ma anche a venerare coloro che ci stanno vicino”. Quindi se i mariti imparassero a venerare le proprie mogli, le mogli i loro mariti e insieme i figli, sarebbe molto più semplice trovare il senso della propria esistenza». 103


PAOLO SANTANCHÈ

CHIRURGIA ESTETICA

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Paolo Santanchè dal 1975 gestisce uno degli studi di chirurgia plastica tra i più avanzati del settore


LA BELLEZZA NON È IN VENDITA Con il boom del settore, alcuni chirurghi estetici hanno iniziato a “vendere” interventi. Ma l’obiettivo dello specialista deve essere la soluzione e la cura di un problema del paziente, non la vendita di una prestazione commerciale. Il monito di Paolo Santanchè per orientarsi nel mare magnum che è diventata oggi la chirurgia estetica di Sarah Sagripanti

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entre una volta l’intervento di chirurgia estetica era considerato un servizio di lusso, oggi è diventato alla portata di tutti. E sono sempre più vaste le categorie di persone che scelgono di sottoporsi a un intervento di questo tipo. Di conseguenza sono aumentati anche i professionisti impegnati in questa disciplina, che però non sempre operano con la dovuta competenza e con preparazione. Soprattutto in un settore come questo, infatti, dove sono molti i pregiudizi e poca la vera conoscenza da parte dell’opinione pubblica, non è facile distinguere il medico serio dal ciarlatano. In un libro intitolato Come difendersi dal chirurgo estetico, Paolo Santanchè, uno dei più noti e preparati professionisti del settore, ha provato a dare qualche consiglio utile a chi intende avvicinarsi alla sala operatoria. Ma come si è arrivati a questa situa-

zione di confusione? Le ragioni sono tante, ma Santanchè non risparmia un rimprovero alla superficialità dei potenziali pazienti: «Troppo spesso la gente dimentica che quella estetica è una vera e propria chirurgia – spiega – ed è assurdo scegliere il professionista in base al costo dell’operazione. Quello che nessuno farebbe mai se si trattasse di un qualsiasi altro tipo di intervento legato a problemi di salute viene fatto quando si parla di estetica. Una sfera che non solo coinvolge la salute del paziente, ma influisce anche sulla sua psicologia e sulla vita di relazione». Negli ultimi anni sembra che sia sempre più facile affrontare un intervento di chirurgia. Secondo lei, perché? «Purtroppo il nostro è un lavoro svilito dalle possibilità commerciali, inquinato da molte persone che badano solo a vendere interventi, alle quali an109


PAOLO SANTANCHÈ

CHIRURGIA ESTETICA

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drebbe addirittura impedito di lavorare. È sempre più difficile per il paziente distinguere il valido professionista dal ciarlatano. Il primo ragiona per far contento il paziente, il secondo ha l’unico obiettivo di fare una prestazione in più. Capisco che il mio discorso possa risultare scomodo, anche per molti giovani colleghi che si avvicinano a questa professione, ma deve essere chiaro che la nostra non è un’attività commerciale». Le sue sono parole forti. «Chi fa un lavoro solo per business, non per passione, segue il mercato e cerca di dare ai pazienti quello che vogliono. Infatti c’è una grandissima offerta di interventi non invasivi o microinterventi, che vengono “venduti” a prezzi stracciati. Ma nel campo della chirurgia estetica, quando le cose si fanno, occorre farle bene o non farle per niente. Le vie di mezzo portano sempre a risultati scadenti». Secondo lei perché si è verificata questa situazione?

«In Italia ci sono circa duemila persone che fanno chirurgia estetica, ma di queste solo trecento hanno i titoli per farlo in maniera seria» «L’Italia è forse uno dei pochi Paesi al mondo dove non è indispensabile una specializzazione per svolgere un’attività specialistica. Le uniche due discipline che la richiedono sono la radioterapia e l’anestesia. Questo ha fatto sì che in un campo in forte espansione come quello della chirurgia estetica si ritrovino a esercitare anche medici senza la giusta preparazione ed esperienza. In Italia oggi ci sono circa duemila i professionisti che lavorano in questo ambito, di questi solo 800 o 900 sono specialisti, ma tra questi i liberi professionisti di chirurgia estetica sono meno di 300. Insomma, su duemila, solo 300 hanno i titoli per operare in maniera seria». Come riconoscere, quindi, un serio professionista? «I medici più adeguati a realizzare interventi di chirurgia estetica so-

no gli specialisti in chirurgia plastica che si sono dedicati a tempo pieno al ramo estetico. La chirurgia plastica comprende diverse specializzazioni come la ricostruttiva, malformativa o post traumatica, e quella estetica è solo una piccola parte. I chirurghi plastici che si sono sempre occupati di estetica sono i più competenti sul tema, perché hanno la specializzazione di base, quella specialistica e l’esperienza necessaria». Quali sono i passi che un chirurgo estetico deve seguire nel momento in cui incontra un nuovo potenziale paziente? «Ci sono tre fasi importanti. Nella prima occorre capire cosa vuole il paziente, che purtroppo non sempre si spiega in maniera corretta, magari vede la punta dell’iceberg e non si accorge che il


problema è più vasto. Il professionista deve riuscire a leggere i desideri del paziente, per valutare se si possano realizzare. La seconda fase la definirei “artistica”. Date le sue conoscenze, il professionista deve proporre la soluzione più adatta, armonica e naturale per risolvere il problema. La terza è la fase tecnica, in cui dobbiamo trovare la soluzione per realizzare quello che abbiamo concepito e creato». Quale principio deve ispirare la scelta dell’intervento? «L’obiettivo è mantenere l’armonia nell’estetica della persona. Talvolta togliendo un difetto, roviniamo l’armonia, creando quindi un altro difetto. L’occhio del chirurgo serve proprio a creare e mantenere l’armonia, anche al di là di quello che ha in mente il paziente». In che senso? «Il chirurgo deve far comprendere al paziente le reali possibilità di risultato, anche al di là delle sue pretese. La comunicazione è importante, non bisogna mai essere avari di parole. Meglio spendere parole prima dell’intervento per capirsi, che dopo per scusarsi». Per capire quale potrebbe essere il risultato dell’intervento che si andrà a realizzare, quanto contano gli interventi già realizzati dal chirurgo? «In genere qualunque chirurgo ha un album degli interventi realizzati, che può essere visionato dal paziente. Perché, al di là delle teorie e delle tecniche, esiste il gusto personale del chirurgo, che deve essere compatibile con quello del paziente. Prima di arrivare all’intervento, quindi, i colloqui preliminari devono incentrarsi anche sull’analisi dei precedenti interventi. Chiaramente non si tratta di scegliere un naso da un catalogo, ma capire se il chirurgo ha dei gusti che possano essere condivisibili con quelli del paziente, se tra i due c’è feeling».

Ma se questo feeling non c’è, meglio scegliere di rinunciare all’intervento? «Sicuramente sì. Il paziente può richiedere soluzioni che il chirurgo non ritiene giuste o, per contro, può capitare che il gusto estetico del chirurgo si discosti troppo da quello del paziente. In entrambi i casi è meglio lasciar perdere. Una delle cose belle di questo lavoro è il rapporto umano. Non tutti siamo uguali e non tutti possiamo andare d’accordo: se non c’è rapporto umano, oltre che condivisione dei gusti, penso sia meglio che le strade si separino in tranquillità prima dell’intervento, piuttosto che con un dis-

sapore a cose fatte. Per questo il paziente deve essere molto attento nella fase esplorativa iniziale». È utile, quindi, incontrare più di uno specialista? «Sì. All’inizio il paziente deve spendere molto tempo per incontrare diversi professionisti. E deve tenere presente che chi dice sempre sì non è automaticamente il più affidabile o il migliore. Come nell’educazione dei figli, in cui i buoni genitori si riconoscono perché talvolta sanno dire di no. Il buon medico dovrebbe ragionare nello stesso modo: non accontentare il paziente solo per fare un’altra prestazione». 111


ANTONINO DI PIETRO

DERMATOLOGIA

PER UNA PELLE A PROVA DI FREDDO Con il freddo il termometro scende e l’inquinamento sale. Gas di scarico, riscaldamenti peggiorano la qualità dell’aria. Pelle e capelli si sentono a disagio. Com’è possibile porre rimedio? Per Antonino Di Pietro, insieme alle creme è opportuno aiutare la pelle anche dall’interno assumendo in quantità minima, ma ben dosati, vitamine e minerali di Concetta S. Gaggiano 144


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a pelle è il nostro specchio di emozioni profonde e la spia del benessere: rosea e vitale quando stiamo bene, spenta e opaca o addirittura sede di eritemi e sfoghi quando qualcosa non va nei nostri meccanismi di depurazione. Sono numerosi gli agenti esterni che mettono a dura prova la sua salute e la sua bellezza, soprattutto d'inverno. Con il freddo, infatti, i grassi che naturalmente la proteggono si addensano, divenendo semisolidi, come una cera: la pelle perde la sua elasticità e basta un sorriso o una smorfia per farla screpolare. Il vento, poi, svolge un'azione disidratante, mentre il rossore che compare su naso, guance e zigomi è il frutto dei numerosi sbalzi di temperatura cui la pelle è sottoposta nel passaggio dal calore degli ambienti surriscaldati in cui viviamo, al freddo esterno, magari molto intenso. Il tutto ovviamente peggiora in presenza di smog, che si deposita sulla pelle occludendone i pori e impedendole di respirare. Guai a trascurarla: cure e attenzioni quotidiane possono aiutarla a potenziare i suoi meccanismi naturali di autoprotezione. Come affrontare, allora, i rigori dell'inverno cittadino e le tanto attese vacanze ad alta quota? Antonino Di Pietro, dermatologo e presidente dell’Isplad – Società internazionale di dermatologia plastica-estetica e oncologica – indica i nemici della pelle, oltre a dare qualche consiglio per difenderla dal freddo. Con il freddo, il vento, lo smog e i bruschi cambi di temperatura, la pelle rischia di invecchiare precocemente, di perdere tono, elasticità e luminosità. Che cosa si può fare per evitare che la pelle si danneggi? «Le basse temperature sono insidiose per la pelle del viso. Al freddo, i vasi sanguigni si restringono, provocando una minore ossigenazione dei tessuti. Quando,

Sopra, Antonino Di Pietro, dermatologo e presidente dell’Isplad – Società internazionale di dermatologia plasticaestetica e oncologica

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ANTONINO DI PIETRO

DERMATOLOGIA

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poi, si passa in un ambiente caldo, si dilatano di colpo, indebolendosi. Sul volto compaiono, così, arrossamenti estesi, soprattutto sulle guance, e si formano ragnatele di venuzze. Per aiutare la circolazione servono prodotti specifici che contengano vitamine e ceramidi, per creare una barriera difensiva, e sostanze come i flavonoidi, per rinforzare i capillari». E le labbra che spesso in questo periodo si screpolano? «Le labbra sono molto sensibili al freddo e agli sbalzi termici, perché prive di ghiandole sebacee. Si inaridiscono quindi con maggiore facilità, si screpolano e si spaccano. È necessario allora proteggerle, per mantenerle morbide e idratate, utilizzando un prodotto specifico in crema. Chi non usa il rossetto può tenere a portata di mano un burro cacao, da applicare ripetutamente nell'arco della giornata. Questi prodotti sono infatti ricchi di sostanze lenitive, capaci di ammorbidire e proteggere le labbra, fra cui vitamine A, C, E, pantenolo, bisabololo, olio d'avocado, estratti di camomilla e calendula». L'umidità fa bene alla pelle? «Sì. In realtà, l'umidità è un toccasana per la cute solo quando le particelle che la compongono sono pulite. Nelle città inquinate, la nebbia è carica di smog che, depositandosi sulla pelle, la soffoca e la secca. È importante difendersi usando regolarmente un prodotto idratante da usare come pronto intervento». È vero che il sole è dannoso anche d’inverno? «Sì, perché se è vero che diminuiscono i raggi UvB che d'estate ci scaldano e ci fanno abbronzare, non vengono meno gli UvA, i principali nemici della pelle. Per questo, la crema da giorno deve

«L’alimentazione è la prima arma contro il freddo. Alcune sostanze, infatti, apportano alla cute dei nutrimenti che la rendono più forte» contenere sempre dei filtri Uv e avere un fattore di protezione non inferiore a 10. In questa stagione, è meglio non usare il sapone perché sgrassa troppo la pelle. Per pulire il viso ci vogliono prodotti delicati, come mousse o detergenti a base di acque termali, da non risciacquare». Perché è importante idratare la pelle? «Perché una cute ben idratata invecchia molto più lentamente. Per trattenere meglio l’acqua nel corpo è necessario aiutare la pelle a conservare la parte più superficiale dell’epidermide compatta e omogenea. Più la pelle è spessa e trattiene l’acqua, più è sana ed elastica, quindi giovane. Per questo è importante usare i prodotti o ricorrere ad alimenti e oli ricchi di acido gammalinoleico. Questo composto si trova in par-

ticolare nell’olio di semi di borragine, nel ribes nero e nel sesamo. Inoltre è bene ricordare che lo strato corneo è costituito da un insieme di cellule mantenuto compatto grazie alla presenza di grassi (lipidi), che impediscono sia la penetrazione di sostanze estranee, sia la perdita dell’acqua dagli strati più profondi a quelli più esterni. Questi grassi sono rappresentati per oltre la metà da ceramidi, sostanze che con gli anni ogni persona tende a perdere e che la cosmetica sta cercando di utilizzare nella formulazione dei prodotti per rimediare alla naturale perdita». L'alimentazione aiuta a proteggere la pelle dal freddo? «L'alimentazione è la prima arma per proteggersi dalle basse temperature. Alcune sostanze, infatti, apportano alla cute dei nutri-


menti che la rendono più forte nei confronti del freddo. In inverno è bene aumentare il consumo di frutta e verdura, ricche di vitamine e minerali che irrobustiscono la pelle. La vitamina C è utile per aumentare l'elasticità dei vasi capillari, che con gli sbalzi termici sono costretti a contrarsi e rilassarsi molto velocemente. Si trova soprattutto negli agrumi, nel kiwi, nel peperone e nei vegetali a fogliaverde. Anche gli antocianosidi, sostanze contenute soprattutto nei mirtilli, aiutano a prevenire l'eccessiva dilatazione dei capillari. Per favorire il rinnovamento dell'epidermide non bisogna far mancare all'organismo la vita-

mina A, contenuta soprattutto nel latte, nei suoi derivati e nelle uova. Questa sostanza stimola il ricambio cellulare, l'eliminazione delle cellule morte e la formazione di una pelle nuova e più compatta. Inoltre raccomando di bere almeno due litri di acqua al giorno». Le temperature troppo basse possono causare pallori e sensazioni dolorose sulla pelle, come i geloni. Come curarli? «La cura migliore consiste nell’applicare sulla parte interessata una crema a base di cortisone, purché vi sia solo infiammazione. Se invece la macchia sulla pelle è anche screpolata o comunque è presente una lesione, biso-

gna alternare l’applicazione della pomata al cortisone con un’altra base di antibiotico, come la gentamicina o l’aureomicina. Io, però, consiglio sempre di prevenire i geloni prima della loro comparsa. Per farlo, basta seguire alcune regole di vita quotidiana. La prima riguarda gli indumenti: le parti più vulnerabili del corpo devono essere coperte con tessuti come la lana e il pile. In secondo luogo, raccomando a tutti coloro che hanno la tendenza a soffrire di geloni di fare regolarmente attività fisica. Poi l’alimentazione, bisogna mangiare alimenti ricchi di vitamine». L’inverno è la stagione della settimana bianca, ci può dare dei consigli su come proteggere la pelle dal sole di montagna? Pensare che la pelle in montagna sia più protetta che al mare è sbagliato. In alta quota non solo i filtri dell’atmosfera diminuiscono, ma aumenta anche la percentuale di raggi ultravioletti nocivi e la “potenza “ dai raggi, a causa del riverbero del sole su neve e ghiaccio. E’ importante dunque usare creme solari specifiche per il viso, che siano in grado di proteggere la pelle da Uva, Uvb e raggi infrarossi, responsabili di rossori e vasodilatazioni. Meglio abbondare con i fattori di protezione: i raggi Uva in quota sono quattro volte più aggressivi. Chi ha la pelle chiara deve preferire solari a schermo totale (SPF 50 e più), gli altri comunque creme con fattore di protezione da 10 a 25. Le zone delicate del viso (occhi, naso, bocca e orecchie) vanno difese il più possibile (sì a occhiali, cappelli, para-orecchi) e riparate con creme ad alto fattore protettivo. Ideali in questo caso gli stick, da stendere soprattutto sulle labbra, che tendono a screpolarsi facilmente. 147


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