Anna Maria Bernini

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PROCEDURE ALTERNATIVE

CONTENZIOSI

NUOVI APPROCCI PER IL FUTURO 100


In un mondo sempre più complesso, cambia anche la modalità di soluzione dei conflitti. Gli avvocati assumono specializzazioni sempre più competitive. E con la pratica, riescono a essere docenti più aperti verso i giovani. Come sottolinea Anna Maria Bernini di Elettra Bianchii

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Anna Maria Bernini è docente di diritto pubblico comparato e di diritto dell’arbitrato domestico e internazionale e delle Procedure alternative presso l’Università di Bologna. Fuori dall’ateneo l’avvocato, che si definisce mediatrice per “vocazione genetica”, ha associato il proprio Studio alla multinazionale del diritto Baker & McKenzie approfondendo l’esperienza di arbitrato internazionale in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Dal 1991, Anna Maria Bernini è anche il segretario generale dell’Aisa, l’Associazione per l’insegnamento e per lo studio dell’arbitrato e del diritto del commercio internazionale, e fa parte del comitato promotore della fondazione di cultura politica e studi sociali “Farefuturo”. Avvocato Bernini, entriamo nel campo extragiudiziale di risoluzione delle controversie, le cosiddette procedure alternative. Cosa è l’ADR? «L’Alternative Dispute Resolution Methods nasceva negli anni Sessanta, negli Stati Uniti, con una fortissima motivazione: contenere il costo del contenzioso. Le spese elevate, inquantificabili e multifattoriali, facevano apparire antieconomica e del tutto inadatta la risoluzione per via giudiziale della maggior parte delle controversie. L’arbitrato riflette un modello di risoluzione dei conflitti ancora quasi-giurisdizionale, ma sia il collegio arbitrale che l’arbitro monocratico decidono la vertenza al termine di un’istruttoria celebrata nel pieno rispetto del contraddittorio di tutte le parti». Come funziona e quanto è diffuso in Italia? «La procedura può essere regolata da una clausola contrattuale espressamente pensata e costruita per le specifiche esigenze del documento cui accede. In mancanza di clausola, si può stipulare un compromesso arbitrale a controversia insorta. Se in un contesto domestico la scelta dell’arbitrato è ancora opzionale, anche se altamente consigliabile, a livello sovranazionale, in mancanza di una giurisdizione commerciale internazionale, è una necessità. Serve a non fare naufragare le parti nel mare magnum delle diverse giurisdizioni e dei contrastanti diritti applicabili. L’esito dell’arbitrato è quindi una decisione: il lodo. Vincolante e dotata degli stessi effetti di una sentenza resa

dall’Autorità Giudiziaria Ordinaria. Il nostro Paese, dove il contenzioso condominiale è ancora un motivo di grande affollamento dei tribunali, ha sicuramente patito un gap culturale riguardo all’arbitrato e alla conciliazione». Per quali motivi? «Un tempo, il tasso di litigiosità tra i cittadini, o tra i cittadini e le imprese, e anche tra soggetti pubblici e privati era certamente meno intenso. Esisteva una sorta di disagio sociale e culturale nell’essere coinvolti in un contenzioso. Ora il fenomeno si è invertito; non credo tuttavia che in questo risieda il motivo per cui le procedure alternative destano tanto interesse. Il loro grande atout sta nel risparmio di tempo, costo e disagio emotivo. Inoltre, trovo che l’esercizio anche da parte dell’avvocato di una funzione deflativa del contenzioso sia un importante atto di civiltà giuridica». L’ADR ha realmente accelerato i tempi? «L’ADR, come ogni strumento, funziona benissimo se ben impiegato e tarato sulle istanze dei

Anna Maria Bernini è docente di diritto pubblico comparato presso la Facoltà di Economia dell’Ateneo bolognese

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PROCEDURE ALTERNATIVE L’avvocato Bernini è esperta di Arbitrato internazionale, disciplina che ha approfondito in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti

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destinatari, potendo garantire grandi risparmi e grande riservatezza nella trattazione dell’oggetto della lite. A partire dal 1993, le stesse Camere di Commercio hanno implementato il fenomeno, istituendo apposite camere arbitrali e conciliative, ciascuna dotata di un proprio regolamento di procedura. Si offre così la garanzia di un’ulteriore supervisione, di un procedimento semplificato, e di una tabella di costi che rende possibile a priori una quantificazione delle spese da sostenersi. Con la riforma dell’arbitrato del 2006, il termine massimo per la risoluzione di una controversia, salvo proroghe richieste dalle parti, è di 240 giorni dall’accettazione dell’ultimo degli arbitri. Chiaro che dipende dalla complessità dell’oggetto del contendere, ma lo snellimento temporale è lampante. Ritengo che anche l’inserimento della Class Action, magari con qualche significativa modifica rispetto all’attuale previsione, non potrà mancare di favorire l’impiego di strumenti ADR». In cosa differisce l’arbitrato dalla conciliazione? «La differenza tra arbitrato e conciliazione risiede sia nella funzione del terzo, ovvero il perno decisorio della vertenza, sia nella natura della

determinazione finale. La conciliazione esce dallo schema vincolante e decisorio, e il terzo è un conciliatore che aiuta semplicemente le parti a trovare una soluzione “personalizzata” in un’atmosfera di assoluta informalità. Il conciliatore è quindi il facilitatore neutrale di una comunicazione interrotta tra le parti, investito di una funzione creativa: elaborare un ventaglio di possibili soluzioni. La determinazione finale, che racchiude la soluzione ideata e scelta dalle parti, ha natura contrattuale, salvo diversa volontà di legge. In sintesi, mentre l’arbitrato rappresenta un’alternativa vera alla competenza del giudice, un aut aut, la conciliazione può essere utilizzata come filtro pregiudiziale, talvolta anche obbligatorio, per alleggerire il carico processuale. Per questo si dice che la conciliazione è una scommessa, contingentata nei tempi e nei costi. La conciliazione in materia di consumo, poi, è nella maggior parte dei casi addirittura gratuita per il consumatore, intendendosi come un servizio di carattere sociale». Lei è anche una docente universitaria. Dal suo punto di vista privilegiato, come percepisce i professionisti del futuro? «L’Università è un osservatorio qualificatissimo e privilegiato dove vedo scorrere in diretta aspirazioni e stili di vita delle nuove leve. Grazie al rapporto interattivo che si crea attraverso l’insegnamento, riesco a percepire anche alcune ingenuità dei nostri giovani, discendenti di una generazione che ha vissuto una peculiare percezione prospettica dei valori. I genitori che hanno sofferto del “secondo generazionismo industriale”, schiacciati dal peso di padri che hanno avuto la vera idea imprenditoriale, spesso portano in eredità ai figli una sorta di esperienza desertificata. Creando quella che Francesco Delzìo, direttore dei giovani imprenditori di Confindustria, chiama nel suo libro “Generazione tuareg”. Sono trentenni e quarantenni, ma non solo, che intorno hanno terra bruciata, in un deserto che purtroppo si allunga verso una striscia generazionale molto più vasta». Qual è la sua opinione personale su questa situazione? «La mia è un’ottica caleidoscopica che non indulge nello sgravio di responsabilità: le generazioni desertificate in termini di valore escono dal ’68 rappresentandosi “l’una contro l’altra armate”, come avrebbe detto il Manzoni. Ovvero distanti, opposte. Quelle più nuove sono state calate in un relevant market infinitamente più ampio, con un forte trend concorrenziale, mentre l’ascensore generazionale rimaneva bloccato dal peso dei “vecchi potenti”, che hanno reso difficile ai successori un autentico turn over generazionale». Quali rischi corrono i giovani e cosa potrebbe fare l’Università per loro?


FACCIAMO IL FUTURO Anna Maria Bernini è membro promotore di Farefuturo, fondazione romana. di cultura politica, studi e analisi sociali. Con un presidente d’eccezione come Gianfranco Fini, Farefuturo si pone l'obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell'Occidente, per fare emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Con l’ausilio della rivista Charta minuta, la fondazione è attualmente tra i protagonisti del dibattito sul Sessantotto, e proprio Fini è recentemente intervenuto sull’argomento affermando che in quegli anni la Destra perse una grande occasione non comprendendo le ragioni dei giovani. Farefuturo si occupa anche della promozione del patrimonio comune di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell'identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali.

«Insegnando diritto pubblico comparato, a volte mi stupisco nell’osservare ragazzi convinti di avere solo diritti. La pericolosità innescata dal mancante contraltare dei doveri inaridisce la capacità di progettare e costruire il futuro, e i giovani non possono essere illusi da un falso automatismo delle opportunità. Quando si entra sul mercato del lavoro ci si gioca la vita. Non è più la formazione universitaria che determina il professionista perché oggi l’università è solo un momento di passaggio. In tale contesto, il legislatore della riforma dovrebbe tenere la mano leggera, rispettando l’autodeterminazione universitaria, pur in un quadro complessivo assolutamente coordinato, potenziando gli indicatori di performance e i meccanismi sanamente concorrenziali tra i singoli atenei. L’Italia resta infatti fanalino di coda in una Europa che si sta molto esprimendo nella formazione, e io lo evinco quotidianamente dalle tabelle Erasmus: sono pochi gli studenti che vogliono venire da noi, mentre tanti gli italiani che vanno all’estero». Da chi dovremmo imparare a fare meglio? «L’università statunitense dovrebbe contaminare la nostra con dosi massicce di realtà, dimostrandoci che la burocrazia sottrae tempo alla comunicazione del sapere. Inoltre, a parte le materie speculative per gli storici e i teorici delle istituzioni, chi sviluppa temi e insegnamenti fortemente compenetrati con l’attività libero professionale deve poter vivere la pratica quotidiana dei propri Studi: essere docente e libero professionista credo sia fortemente appagante per l’insegnamento. Sarebbe anche interessante valorizzare una formula didattica anglosassone, cioè istituti e corsi di studio più tarati su target di mercato e di potenziali utenti

«Abbiamo aperto le porte di Ca’ Vendramin Calergi, modfasdf asdfastivando le pfsda sdfasdfasdd fasdfasd »

finali, dove l’attività non sia one way». Gli studenti dovrebbero quindi essere coinvolti nel mondo lavorativo. «Esatto. Gli studenti devono entrare il prima possibile in contatto con il mondo del lavoro, possibilmente attraverso stage e progetti realizzati all’estero su commissione di enti e imprese interessati. Importanti sono anche i cicli di seminari tenuti da imprenditori: portano dentro le aule la vera pratica e la realtà aziendale. Infine, spieghiamolo a nuove e vecchie generazioni, la parola “raccomandazione” non deve più spaventare. Come è noto, per accedere alle principali università americane ed europee è necessario essere presentati, referenziati. Quindi tutto dipende da come questo concetto si declina. Perché questo tipo di referenza è basata sul merito». Pensa che i nostri studenti dovrebbero fare più esperienza all’estero, magari anche lavorativa? «Chi esce dall’Italia fa un sacrificio esistenziale ed economico che è, oggi più che mai, necessario. Appartenendo alla quinta generazione di avvocati della famiglia, vedevo mio nonno in un ambito di operatività costituito dalla città e dalle zone limitrofe, mentre il nostro attuale mercato rilevante è il mondo. “Cervelli in Italia” dovrebbe essere un’esperienza di mercato e non legislativa: catturarli non è certo compito del ministro di turno. L’università è ancora troppo scollegata dalla realtà, le Facoltà giuridiche ed economiche sono talora vissute come un vacuum. Alcune interessanti esperienze straniere ci possono indicare, poi, possibili soluzioni. Ma da comparatista, non posso non rilevare che strumenti perfetti per altri contesti economici, sociali e giuridici, richiedono nel nostro ordinamento opportuni adattamenti. È necessario creare un quadro normativo d’insieme, capiente ma elastico, sperimentando formule innovative, responsabilizzanti e meritocratiche. Tutto questo, non con un tratto di penna: innovazione e meritocrazia non sono parole ma percorsi».

La Bernini, socio promotore della Fondazione di cultura politica “Farefuturo”, è Segretario generale dell’AISA, l’associazione per l’Insegnamento e lo Studio dell’arbitrato e del diritto del Commercio internazionale

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