Franco Coppi

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RIFLESSIONI

MAESTRI

QUELLA BATTAGLIA CHE MI CONQUISTA Affermare la verità. Franco Coppi, celebre penalista e Professore universitario, svela cosa continua ad appassionarlo. E commenta i nodi che attanagliano ancora la giustizia italiana di Francesca Buonfiglioli

L Nella foto, Franco Coppi, 70 anni, nato a Tripoli, è uno dei più noti penalisti italiani ed è Professore all’Università La Sapienza di Roma

Lo stereotipo affibbiato agli avvocati non gli calza. Pare così lontano, infatti, dall’esasperata aggressività e dalla supponenza della categoria a volte restituite dai riflettori di certi salotti televisivi, nuove aule di processi mediatici. Franco Coppi rimane invece fedele all’idea di un’avvocatura “artigianale”, quasi in bianco e nero, fatta sulle carte. Una filosofia che si respira già entrando nel suo Studio, il cui spazio, è rigorosamente diviso con pochi e fidati collaboratori. «Mi piace poter seguire i processi dalla prima all’ultima battuta – ammette il noto penalista italiano – e confrontarmi alla pari con i collaboratori, ai quali chiedo soltanto preparazione, passione e spirito di sacrificio». E questo metodo di lavoro si traduce anche in un modo d’essere. Tutt’altro che verboso, Coppi fa suo uno stile essenziale, stringato. E chiaro arriva sempre dritto al punto. Forse perché è abituato a dividere la sua professione tra le aule dei tribunali e quelle dell’università. Ad arringare e, al contempo, a spiegare. Due facce di una stessa professione. «Una lezione ben riuscita, un allievo che elabora una buona tesi o vince un concorso universitario – assicura – sono grandi soddisfazioni. Pari a quelle che si possono provare quando, sapendo di aver combattuto una giusta battaglia, si ha la consapevolezza di aver contribuito all’affermazione della verità e della giustizia». Professor Coppi, la docenza universitaria quanto è importante nella sua vita? «Il rapporto con gli studenti è ricco di un particolare significato umano. Esso obbliga il docente a rinnovarsi continuamente e a mettersi in discussione e lo aiuta a sentirsi coetaneo dei propri allievi. È questo forse il profilo più significativo dell’esperienza universitaria». Quanto sono diversi, o quanto sono simili, gli studenti di oggi dallo studente che era lei? «Nei miei allievi vedo le stesse speranze, preoc-

cupazioni e timori che avevo anch’io quando frequentavo l’università. Forse il livello della preparazione base, fatte le debite eccezioni, oggi è meno ricco di quello di un tempo e questo rende più difficile e meno proficuo il rapporto tra docente e studenti». Lei ha raccontato di avere intrapreso l’avventura forense “tanto per fare qualcosa”. A parte la scelta fortunata, cosa l’ha conquistata e cosa la continua a conquistare della professione? «La possibilità di rifiutare tesi preconcette e di contrastare un’ipotesi accusatoria esaltando anche il particolare più piccolo in favore dell’imputato per contribuire a evitare che un’ingiustizia possa essere consumata». A proposito di ingiustizie, spesso per poter contare su di una buona difesa, serve molto denaro. Questo significa che la legge funziona meglio per chi è ricco? «Una difesa efficiente in un processo di media complessità costa indubbiamente parecchio e non c’è dubbio che chi ha maggiori disponibilità economiche può sostenerne meglio il peso. Vale la pena di aggiungere che non sempre gli onorari del difensore costituiscono la voce più cara». Il sistema italiano è da tempo in grave difficoltà. A suo parere quali sono le manovre più urgenti per ridare forza alla giustizia italiana? «Le cause della crisi del sistema giudiziario italiano sono ovviamente numerose e sarebbe necessaria una visione globale e sistematica di mali e di rimedi per tentare di superarla. Da una revisione del codice di procedura penale, che ha mancato quasi tutti gli obiettivi che si era posto, alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Dalla disciplina dell’immissione dei giovani nella magistratura e nell’avvocatura a una coraggiosa riforma dell’istruzione universitaria. E mi sono limitato a indicare solo alcuni dei più urgenti e necessari interventi».

«I poteri forti sono stati incapaci di respingere soluzioni demagogiche e di assumere decisioni nell’interesse generale sapendo dimenticare quello personale e della propria parte»

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MAESTRI Coppi è stato protagonista di alcuni dei processi più importanti d’Italia tra cui quello a carico del senatore a vita Giulio Andreotti

Un altro punto dolente nazionale è il rapporto tra magistratura e politica. Da una parte si denunciano accanimenti giudiziari a carico di politici, dall’altra provvedimenti arbitrari a carico di giudici e Pm. Come si potrebbe risolvere questa ostilità? «Ovviamente non esiste un rimedio applicabile per legge. Sarebbe necessario che ogni parte rispettasse il proprio ruolo e gli obblighi del proprio stato: le sentenze sono sotto gli occhi di tutti e possono essere lette e commentate con serenità così come possono essere commentati e giudicati con equilibrio i comportamenti di Giudici e di Pubblici Ministeri. Ma è molto più comodo urlare da una parte alla persecuzione giudiziaria e dall’altra difendere corporativamente la categoria, anche di fronte ai più discutibili provvedimenti». Dalla politica all’alta finanza, nella sua carriera ha avuto spesso a che fare con i cosiddetti poteri forti. Ma quali sono le loro maggiori debolezze? «L’incapacità, specialmente nei momenti più delicati e nei quali maggiormente si sente la necessità di assumere responsabilità, di respingere soluzioni demagogiche, di rispondere di “no” a richieste farneticanti e di assumere decisioni anche impopolari nell’interesse generale sapendo dimenticare quello personale e della propria parte». Lei ha seguito tanti processi celebri che hanno fatto storia. Che Italia le hanno restituito? «Nella misura in cui è lecito generalizzare, lo spaccato che emerge, specialmente nei processi in ma-

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teria di criminalità economica e dei colletti bianchi, è quello di un Paese nel quale la corruzione è molto praticata, i furbi e gli improvvisatori hanno rapidi successi e altrettanto rapide cadute devastanti per la collettività, l’efficienza degli apparati pubblici e le loro capacità di vigilanza, di controllo e di intervento piuttosto limitate». Quindi dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli, lo scenario non ha conosciuto grandi rivoluzioni. «Fermi restando i riconoscimenti dell’innocenza dei diversi imputati, sul piano generale no, non è cambiato molto». C’è un caso, una difesa, che nel passato le sarebbe piaciuto assumere? «Ne ricordo qualcuno, ma sono stati trattati da avvocati così grandi da farmi passare qualsiasi voglia». Quanto è importante il rapporto umano con l’assistito? «Non è necessario un particolare feeling con l’assistito. L’importante è che non sia del tutto antipatico e che soprattutto sia corretto nei confronti del proprio legale e consapevole dei limiti che lo stesso suo difensore deve osservare nell’esercizio della difesa».In due casi eccellenti ha rinunciato alla difesa. Cosa viene a mancare quando questo accade? «Le ragioni per le quali si rinuncia alla difesa possono essere le più varie. In genere può intervenire una divergenza di opinioni circa la linea di difesa da seguire e in questo caso deve prevalere la volontà dell’assistito».


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