Niccolò Ghedini

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POLITICA E GIUSTIZIA

Niccolò Ghedini, 48 anni, è avvocato penalista, senatore di Forza Italia e Coordinatore regionale azzurro del Veneto

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SOTTO IL SEGNO DELLA PASSIONE

Foto di Paolo Tre/A3/Contrasto

Avvocato e senatore. Due professioni distinte. Ma che hanno un’unica radice: la Giustizia. Perché «chi si occupa di applicazione delle leggi deve conoscere i bisogni che stanno dietro la loro creazione». Parola di Niccolò Ghedini di Riccardo Cervelli

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Nelle fotografie, Niccolò Ghedini. L’avvocato veneto ha rappresentato Silvio Berlusconi nel processo Sme

Foto di Mauro Scrobogna/Lapresse

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Dai primi processi come avvocato penalista d’ufficio all’ingaggio nei collegi di difesa delle principali cause che hanno visto coinvolto Silvio Berlusconi. Poi l’ingresso in politica, a fianco del Cavaliere, riprendendo una passione per la “cosa pubblica” che lo aveva portato, da studente, a militare nella Gioventù Liberale. Niccolò Ghedini si racconta nella sua duplice veste di uomo di legge e politico in un’intervista rilasciata tra un impegno e l’altro della sua attività professionale e del suo ruolo di coordinatore di Forza Italia nel Veneto. Lei è avvocato e uomo politico. Cosa accomuna queste due professioni? «C’è una tradizione antica che accomuna l’avvocatura e la politica. Risale all’epoca romana. Alla base c’è il fatto che uno dei punti nodali della nostra vita è la giustizia. L’avvocatura si occupa dell’applicazione della legge in tutto l’arco della nostra vita. Chi si occupa di applicazione delle norme deve conoscere i bisogni che stanno dietro la loro creazione. La parentela tra chi fa le leggi e chi le applica si rivela, quindi, sia a livello etico che etimologico». Più uomini di legge tra i legislatori, quindi, equivale a maggiore garanzia per i cittadini di vedere risolti i loro problemi? «Non sempre. Purtroppo anche l’attenzione degli avvocati eletti in Parlamento finisce spesso per

essere più attratta dagli aspetti “deteriori” delle dinamiche politiche a discapito delle problematiche tecniche». Lei si sente più a suo agio quando veste la toga o quando siede a Palazzo Madama? «Io mi sento a mio agio dappertutto. Amo molto la mia professione perché mi dà un senso di utilità. Lo stesso sentimento lo provo in modo notevole anche quando faccio politica. Soprattutto quando gli aspetti tecnici prevalgono su quelli politici». Come è cambiato il panorama forense dai suoi esordi a oggi? «Non sono uno di quelli che considerano i tempi passati sempre migliori di quelli attuali. Quello che posso dire è che, quando ho iniziato io, c’erano molti meno avvocati di adesso. Era più facile che ci conoscessimo tra di noi. Almeno tra noi penalisti, che non eravamo moltissimi. Al di là di questo fenomeno non vedo grandi cambiamenti. Però ritengo che la crescita del numero degli avvocati ponga un problema di qualità degli stessi. Per questo il Consiglio Nazionale Forense si sta impegnando molto nell’organizzazione di corsi, con l’obiettivo appunto di innalzare la qualità delle nuove leve». Recentemente qualcuno ha affermato che l’aumento degli avvocati induce una crescita delle cause. «Non credo all’equazione più uomini di legge più vertenze legali. Certo è che è aumentato il tasso di litigiosità. A fronte di questo bisognerebbe aumentare il ricorso agli arbitrari, all’arbitraria giurisdizione. In altri Paesi esistono meccanismi più semplici e rapidi per affrontare le controversie. E la spesa procapite per risolvere le liti è inferiore». Tornando a lei, qual è stato il suo primo caso? «Come tutti gli avvocati, anch’io ho iniziato seguendo difese d’ufficio. L’ho fatto lavorando nello studio avviato da mio padre, anche lui avvocato penalista, che però al momento dell’inizio della mia attività era già deceduto. Lo Studio era stato preso in mano da mia sorella, e le prime esperienze le ho fatto con un altro avvocato, il professor Piero Longo. Uno dei primi casi fu la difesa di un rapinatore seriale, un uomo che aveva effettuato 17 rapine ad altrettanti uffici postali». Quello più importante? «Rientrava nella stessa categoria criminale. Si trattò del caso Ludwig (sigla dietro la quale stavano due ragazzi della Verona bene che, tra il 1977 e il 1984 si resero responsabili di 15 omicidi accertati. Soprattutto di omosessuali, prostitute, tossicodipendenti e appartenenti al mondo religioso, ndr.)». E quali sono state invece le cause più impor-


Foto di Paolo Tre/A3/Contrasto

tanti seguite negli ultimi anni? «Negli ultimi dieci anni mi sono occupato di tutti i processi più rilevanti che hanno visto coinvolto Silvio Berlusconi. Che oltre a essere un cliente è diventato anche un amico». Come è maturata la sua scelta di scendere in politica? «Ho sempre fatto politica, fin da ragazzino. Le prime esperienze le ho vissute come militante nella Gioventù Liberale. Un’esperienza che ho interrotto dopo la laurea. Quindi ho iniziato a occuparmi di politica di categoria, a cominciare dalle camere penali fino a diventare segretario generale dei penalisti. Poi ho conosciuto Berlusconi per motivi di lavoro, legati al processo Sme. Da lì è nata anche un’amicizia e poi anche la collaborazione sul piano politico». In Italia il rapporto tra politica è giustizia è molto delicato. Alcuni sottolineano che il motivo sia da ricercare nella totale autonomia della magistratura. Secondo lei è così? «La magistratura deve essere autonoma: se finisse nelle mani della politica sarebbe deleterio. E deve essere preservata l’obbligatorietà dell’azione penale. Il vero problema è che i giudici si giudicano tra loro e la magistratura è quella che si usa chiamare una autodichìa. Quando il loro operato deve essere valutato, vanno sempre davanti a un collega. Il Consiglio Superiore della Magistratura non è un organo terzo. È governato da magistrati e non è estraneo da logiche di carriere. Ci vorrebbe un organo veramente autonomo. La separazione delle carriere non è sufficiente per limitare questo problema. I magistrati diverrebbero sì più indipendenti ma resterebbero “irresponsabili”. Oggi non ci rimettono mai neanche a fronte di casi gravissimi. Accade troppo spesso che si mette in carcere gente innocente e poi la si lascia lì. Quando poi la giustizia si occupa della politica possono veni-

re fuori contrasti enormi. Un magistrato può fare cadere un governo. Per ritrovare un esempio notevole di come il comportamento dei magistrati può avere una valenza politica basti ricordare l’avviso di garanzia recapitato a Silvio Berlusconi nel 1994 proprio mentre presiedeva la riunione del G7 a Napoli. E più recentemente il caso Mastella». I casi Abu Omar, Forleo e De Magistris hanno riaperto la crepa tra politica e giustizia.

I MIEI DISEGNI DI LEGGE Ddl presentati da Ghedini come cofirmatario nella XV legislatura - Delega al Governo per l' attuazione dell' articolo 119 della Costituzione in materia di federalismo fiscale - Diritti del popolo veneto - Modifica dell' articolo 116, primo comma, della Costituzione e approvazione dello Statuto speciale della Regione autonoma del Veneto - Riforma dell'ordinamento della professione di avvocato - Riforma del libro I del codice penale - Riforma del codice di procedura penale - Misure per i conduttori di immobili in condizioni di particolare disagio abitativo, conseguente a provvedimenti esecutivi di rilascio in determinati comuni - Nuove norme concernenti i veicoli di interesse storico e gli autocaravan - Disposizioni e delega al Governo per l' effettuazione dello scrutinio delle schede e la trasmissione dei risultati delle consultazioni elettorali e referendarie anche mediante strumenti informatici - Norme sul trasporto di minori sui ciclomotori e motoveicoli - Disposizioni in materia di usura

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A destra, il senatore Ghedini. Fin da ragazzo, si è impegnato in politica nelle fila dei Giovani del Partito Liberale

Niccolò Ghedini nasce il 22 dicembre 1959 a Padova, dove risiede. Da studente milita nella Gioventù Liberale. Dopo la laurea in Giurisprudenza inizia a lavorare nello studio avviato dal padre, avvocato penalista da poco scomparso. Allo studio, portato avanti da una sorella, collaborava l’avvocato Piero Longo. Insieme a quest’ultimo Ghedini comincia a seguire alcuni casi importanti di omicidi seriali, il più noto dei quali è quello Ludwig. Accanto all’attività professionale inizia a occuparsi anche di politica della categoria all’interno delle camere penali e infine come segretario generale dei penalisti. Agli inizi degli anni Novanta conosce Silvio Berlusconi per motivi di lavoro, essendo stato incaricato, tra altri di seguire il caso Sme. Il rapporto si trasforma presto da solo professionale anche in amicizia e collaborazione sul piano politico. Nel 2001 Ghedini viene eletto deputato nelle file di Forza Italia, incarico che mantiene fino alla fine della XIV legislatura nel 2006. Nel frattempo, nel 2005, viene nominato coordinatore del partito nel Veneto. Nella XV legislatura è stato senatore, distinguendosi per prolificità di interventi su disegni di legge, elaborazione come cofirmatario di Ddl legati al tema della giustizia e del federalismo, e presentazione di interpellanze e interrogazioni. Nonostante l’impegno parlamentare riesce a occuparsi con successo anche di importanti cause giudiziarie, in particolare riguardanti il Cavaliere. In questo momento Ghedini è fortemente impegnato nel suo ruolo di coordinatore del Forza Italia nella propria Regione.

Come li giudica? «Quelli che ha citato sono solo tre casi. Ormai più che di una crepa si dovrebbe parlare di un burrone aperto tra politica e giustizia. La caratteristica dei casi Forleo e De Magistris è che la magistratura non li ha difesi. Guarda caso questi magistrati avevano toccato dei politici di Centrosinistra. Insomma, c’è differenza tra quando a dire cose forti sui magistrati sono D’Alema o Fassino e quando lo fanno dei politici di Centrodestra». In seguito al coinvolgimento suo e di sua moglie in un’inchiesta giudiziaria, l’ex Guardasigilli Clemente Mastella si è dimesso lanciando accuse a “frange estreme della magistratura”. Come commenta questo attacco? «Più che un attacco, Mastella ha espresso finalmente una constatazione. E cioè che la magistratura nel nostro Paese è una corporazione con potere di vita e di morte sulle persone. Un’entità che quando si sente minacciata si chiude in se stessa e attacca. Mastella ha pagato il fatto di avere messo in atto la riforma Castelli». Quale è il suo giudizio sull’ultima riforma del14

Foto di Paolo Tre/A3/Contrasto

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la giustizia? Quali i punti di forza e quali quelli di debolezza? «La modifica dell’articolo 68 della costituzione (la soppressione del testo originario dell’articolo 68, secondo comma, che imponeva, per poter procedere in giudizio nei confronti dei parlamentari, l’autorizzazione delle Camere di appartenenza, ndr) è stata deleteria». È fresca di cronaca la sentenza Sme che lei ha definito «tardiva». Cosa risponde alle critiche di Russo Spena al Corriere della Sera («L’assoluzione di Berlusconi dall’accusa di falso in bilancio era scontata: la legge che abolisce il reato se l’era fatta, come molte altre, su misura»)? «Qualsiasi sentenza che arriva dopo 15 anni è contraria all’idea di giustizia. Ma è tardiva anche perché Berlusconi avrebbe già dovuto essere assolto molti anni fa dall’accusa di falso in bilancio. E non avrebbe dovuto nemmeno essere imputato, perché a quel tempo era al vertice del gruppo Fininvest e non si occupava di questioni bilan-


cistiche. Come non se ne occupava, rispetto a Fiat, l’avvocato Agnelli. Il processo nasceva poi su una convinzione di Stefania Ariosto, responsabile di accuse in un altro procedimento nel quale Berlusconi è stato assolto perché il fatto non sussisteva. Va sottolineato che il processo appena concluso, a prescindere dal suo esito, ha procurato un grave danno al Cavaliere. Basti pensare a quanto è stato scritto sui giornali di tutto il mondo in questi anni». Quali riforme dovrebbero essere apportate al nostro sistema giudiziario? «Dovremmo puntare sulla separazione delle carriere e sull’attuazione del “giusto processo”, come previsto dall’articolo 111 della Costituzione. E questo pensando soprattutto alle persone meno abbienti, rispetto alle quali il sistema attuale con la difesa d’ufficio può risultare disumano, nonostante la buona volontà degli avvocati. In questo senso come coalizione abbiamo già pronti dei disegni di legge che speriamo potranno avere la necessaria copertura».

C’è qualche modello estero a cui si ispirerebbe? «Ho lavorato in diversi processi di respiro europeo e posso affermare che le basi del nostro diritto non hanno niente da invidiare a quelle degli altri Paesi. Quelli che ci servirebbero sono alcuni aggiustamenti in armonia con la nostra Costituzione. La Corte d’Assise, per esempio, si basa su una legge del 1913. Nel nostro ordinamento i giudici popolari sono equiparati a quelli togati. Trovo più giusta la formula anglosassone della giuria popolare, chiamata a giudicare il fatto dopo che i giudici hanno affrontato gli aspetti tecnici per i quali sono più competenti». Le piacerebbe diventare il prossimo Guardasigilli? «Assolutamente no, perché amo moltissimo il mio lavoro di avvocato e non potrei praticarlo da ministro. In compenso mi piace anche fare politica e continuerò a farla. E fino alle elezioni mi assorbirà a tempo pieno». riccardo.cervelli@golfarelliedizioni.it

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