"Il lettore ribelle". Una riflessione sulla retorica della lettura come virtù.

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Collana pamphlet Collana diretta da: Anna Matilde Sali, Gabriele Munafò Grafica: Gabriele Munafò, Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali Immagine di copertina: Roberto La Forgia Traduzione dal messicano a cura di Francesca Bianchi Titolo originale: Escritos para desocupados © Copyright 2013, Vivian Abenshushan rilasciato con la licenza creative commons by-nc-sa www.escritosdesocupados.com © Copyright 2015, Ass. cult. Eris per l’edizione italiana La presente traduzione è stata realizzata con il sostegno del Programma di Aiuto alla Traduzione di Opere Messicane verso Lingue Straniere (PROTRAD). Esta publicación fue realizada con el estímulo del Programa de Apoyo a la Traducción (PROTRAD) dependiente de instituciones culturales mexicanas. Ass. cult. Eris Via Reggio 15, 10153 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org Prima edizione Aprile 2015 ISBN 9788898644131


IL LETTORE RIBELLE Nessun vizio è così difficile da sradicare come un vizio che sia considerato una virtù. Il vizio della lettura, benché sia l’ultimo arrivato, si situa al primo posto della classifica e tiene felicemente il passo di consolidate virtù. Edith Wharton

Improvvisamente tutte le aspettative sono ricadute sull’ultimo lettore. Esclusivamente per il fatto di essere l’ultimo. Altrimenti nessuno gli avrebbe prestato la minima attenzione. La stessa cosa successe a Sant’Ambrogio quando un giorno decise di leggere a bocca chiusa. In mezzo al consueto mormorio delle celle il suo silenzio si fece frastuono. Alcuni confratelli gli lanciarono occhiate inorridite, tra questi anche Sant’Agostino che scrisse sull’accaduto nel pieno del suo stesso turbamento. Gli occhi di Sant’Ambrogio percorrevano le pagine «mentre la voce e la lingua riposavano» e la sua lingua immobile avrebbe avuto un’importanza enorme per la successiva storia dell’umanità. Era appena stata conquistata la privacy del lettore e con essa sorgeva anche la smania del possesso, la lettura nell’intimità. E questo era solo l’inizio perché questo modo di leggere, questa modalità diciamo egoista, intima, rivolta a se stessi – ma soprattutto lontano da orecchie altrui, senza censori, senza orari, senza guide – fornì immediatamente maggiori possibilità di evasione e appagamento al lettore silenzioso. Leggere divenne una forza introspettiva. Davanti ai suoi occhi si materializzarono gli scaffali proibiti e le potenzialità della biblioteca si moltiplicarono ad infinitum. Avrebbe potuto leggere qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, in qualsiasi luogo. E presto avrebbe imparato a costruire il suo rifugio anche nelle condizioni più ostili: nasco-


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sto tra la folla nei bar o rinchiuso in bagno (il monastero laico della lettura), leggendo in piedi in quella libreria mobile che è la metropolitana o isolato nella sua stanza. Una libertà del genere, senza limiti di spazio e un’assoluta libertà di manovra e introspezione, ha stuzzicato in lui un appetito formidabile. Così, il famelico lettore è andato per secoli a caccia di libri. Quanta nostalgia sente l’ultimo lettore per la sua intimità perduta ora che tutti – professori, genitori, ministri – gli fanno domande e si preoccupano per lui! Visto dal buco della serratura di un’epoca analfabeta, il lettore non è più un estimatore delle copertine rigide ma si è trasformato nel paladino delle belle coscienze. È l’ultimo della sua specie e sulle sue spalle ricade il peso della continuità della cultura, ovvero, della civiltà. Quanta responsabilità per un ragazzo che voleva solo scoprire, un pomeriggio in cui non aveva voglia di fare i compiti, se Gregorio Samsa sarebbe tornato a essere quello di prima. Sdraiato sul letto il ragazzo solca le pagine dall’inizio alla fine, lentamente, pigramente, soffermandosi su ogni singola parola. Si gratta la testa, tira un peto, è felice; niente gli piace di più che starsene da solo… Da qualche minuto però qualcuno sta bussando alla porta con insistenza. È per un sondaggio. E cosa vogliono da lui? Solo fargli delle domande per lo “Studio delle Abitudini d’Acquisto di Libri” in base a fattori come la stagione (sic), i generi letterari e il livello di scolarizzazione, le risposte saranno di vitale importanza per stilare il “Piano Quinquennale di Promozione della Lettura”. Il sondaggista promette di non rubargli troppo tempo, merce preziosa per il lettore. Le piace leggere? Quanto tempo dedica al giorno alla lettura? Compra libri per piacere? Quante pagine legge al minuto? Dia un voto da 1 a 10 al libro che sta leggendo in questo momento… Ed ecco come il tempo dell’intimità viene ufficialmente condannato a scomparire dalla dittatura del sapere quantificabile. Il lettore oggi deve accumulare titoli e imparare tecniche di lettura veloce e far lievitare il suo curriculum con una lunga bibliografia perché è da lui che dipende non più soltanto il futuro del libro

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ma anche la stabilità macroeconomica e gli indici di lettura stabiliti dalle organizzazioni internazionali – se leggi meno di venti libri l’anno ci farai venire un infarto! È noto a tutti: il mondo dell’informazione, a differenza della letteratura, viene regolato ogni giorno da orologi meccanici che promuovono lettori meccanici e scrittori meccanici che si adoperano compulsivamente per la riproduzione immediata e congiunturale – ovvero vuota – di una realtà che alimenta il sistema. Il regno del gioco, della gratuità, è stato spazzato via dall’egemonia del calcolo. Non divagare, non inventare, non fare collegamenti tra cose diverse: la lettura è un obbligo morale che la riflessione critica può mettere a rischio! E soprattutto: non perdere tempo! In questo modo i pensieri dell’ultimo lettore – e menomale che è l’ultimo, perché è proprio questo il punto, bisogna farlo estinguere una volta per tutte – sono costretti a seguire il ritmo dello status quo, un territorio controllato dove politici e imprenditori continuano a tessere pubblicamente le lodi dei libri anche se hanno soppresso definitivamente i momenti d’ozio per leggerli. Leggere è una buona pratica tanto quanto fare ginnastica ogni giorno, mantenersi sobri, svegliarsi presto al mattino. E previene l’Alzheimer! Effettivamente il lettore non si era mai comportato in modo tanto ammirevole come quando ha iniziato a sparire. Il suo epitaffio potrebbe recitare, senza ironia, “Sono stato un accanito lettore, finché il vizio della lettura non si è trasformato in virtù”. Oppure consideriamo questo fatto: proprio quando il ragazzo, spaparanzato sul letto, stava iniziando a godersi il suo primo romanzo lo hanno proclamato eroe nazionale. Alzati e leggi! Che noia! Alla fine il lettore è stato intercettato dal Piano Quinquennale di Promozione della Lettura. Ogni tipo d’indecente pigrizia è stata sradicata, così come ogni tipo di voracità. E non potrà più esclamare con orgoglio come Charles Lamb: “Non mi dispiacerebbe esser sorpreso da solo nei severi corridoi di una cattedrale a leggere Candido…”.

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Non è strano che all’improvviso il lettore torturato abbia perso per sempre l’appetito. Non gli interessava più niente, neanche Salinger. La sua diserzione ha scandalizzato professori, accademici, scrittori, intellettuali e anche George Steiner e tutti hanno immediatamente dato la colpa alla televisione, agli iPod, alla mancanza di tempo, al declino delle materie umanistiche, a internet. A quel punto è iniziata l’abominevole epoca dei predicatori del libro, centinaia di scrittori benpensanti impegnati a decantare su tutti i mezzi di comunicazione disponibili i benefici derivanti dal ficcare il naso in mezzo agli scaffali di una libreria – una ginnastica spirituale indispensabile per poter sostenere anche la conversazione più banale – o il potere della scrittura che riesce magicamente a trasformarci in persone migliori. Uno scenario che sembrava impensabile: centinaia di editori e professori che ringraziano tutte quelle brave persone della televisione che offrono la propria immagine per riuscire a conquistare nuovi lettori, anche se in fondo, a loro, leggere non piace neanche. Stando al parere dei grandi gruppi editoriali che promuovono i loro autori come pagliacci del circo, al giorno d’oggi non c’è niente che riesca a catturare nuovi lettori come la televisione. E allora che i conduttori dei programmi del mattino raccontino pure un riassunto del Don Chisciotte! Che lo scrittore Carlos Cuauhtémoc Sánchez inculchi nei ragazzi la sua morale reazionaria. Sempre meglio di niente, dicono i professori senza timore di sprofondare nelle loro false premesse, sempre meglio che continuare a cercare perle in un letamaio. Tante mani strette una con l’altra intorno all’eterno fuoco del libro stanno facendo un lavoro enorme, lo stanno per soffocare. C’è qualcosa, se non di perverso, quanto meno di sospetto nell’ingresso trionfale della letteratura (che prima era la matta della famiglia) nella società dello spettacolo. È la fase finale della sua domesticazione, quella che le permette di incarnare l’ideale dei suoi detrattori: diventare una simulazione, ricoprire il ruolo di istituzione inoffensiva e rispettabile, santificata

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e obbligatoria, una letteratura fatta di luoghi comuni e buone intenzioni che ha rinunciato per sempre al rischio. La trasformazione dello scrittore in un marchio di pregio per telegiornali e rubriche culturali non fa che agevolare il trionfo di quelli che Vila-Matas ha definito «i nemici della letteratura» («passo la giornata a collocare bombe mentali a tutti quegli uomini d’affari che stampano libri, ai direttori di reparto, ai leader del mercato, agli equilibristi del marketing, ai laureati in economia») e che Kundera ha descritto come «le termiti della riduzione», ossia i metodi che hanno permesso ai mass media di sprofondare la cultura in una mediocrità standardizzata. Non che lo scrittore debba imprecare contro tutti a reti unificate (sia lodata l’autocensura) è solo che è diventato un burattino nelle mani dello stesso potere che a volte critica. Forse è per questo che il lettore semplicemente non ha più voglia di leggere. Con il suo rifiuto vuole dirci qualcosa. Sta gridando no, estremizzando l’atteggiamento radicale che la letteratura ha invece perduto e ha chiuso le porte – forse per sempre – a quell’oggetto rettangolare che qualcuno venera come fosse un’urna funeraria. Il suo rifiuto esprime una rinuncia, una diffidenza implicita verso le convenzioni più ipocrite che negli ultimi decenni sono state costruite intorno al libro, sottraendogli la forza critica che lo fa respirare. Probabilmente durante l’infanzia il lettore ribelle passava dai libri all’album delle figurine e poi a qualche gioco che si prolungava fino a sera, senza barriere tra l’una e l’altra cosa. Il libro apparteneva alla stessa sfera atemporale del gioco dove nessun orologio segnava l’ora; riprendeva a ogni nuova lettura, spalancava finestre su zone sempre più vaste. Magari con il passare degli anni sarebbe diventato un lettore avido, persino estremo, insaziabile, uno di quelli per cui una lettura non finisce perché continua nel libro successivo, in quello ancora da scoprire. Invece è successo il contrario: è diventato un ragazzo diffidente, un anti-lettore che non vuole domare il suo lato selvaggio, quella parte di se stesso dove continua a essere un bambino o un artista. A scuola quella

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parte di sé è stata imprigionata nelle schede di comprensione, negli esami a crocette, nelle schede biografiche, nel nulla. Alla radio poi, giornalisti e autori non fanno che sostenere (senza rendersene conto?) quel senso del dovere che i politici difendono con la loro vuota retorica. Dobbiamo diventare un Paese di lettori! Restio il ragazzo si chiederà, come già aveva fatto Edith Wharton più di un secolo fa: «Nessuno ci biasima se non siamo dei musicisti, dei pittori, dei poeti; perché dovrebbe biasimarci se non siamo dei lettori?…». E si proclamerà nemico della lettura e sarà il barbaro che ogni sera sputa sui baffi di Flaubert, così come Flaubert sputava su quelli dei conformisti della sua epoca… Oltre alla provocazione, il lettore che ha smesso di leggere ci pone anche di fronte a un paradosso: se ha abbandonato la lettura nell’adolescenza – così come Rimbaud ha fatto con la poesia – è stato solo per recuperare la sua forza emancipatrice. Ha molta voglia di vivere e sta costruendo la sua indipendenza. E per questo motivo la sua delusione nei confronti del libro, strumento di tortura che gli provoca soltanto dolore, ci dice molto più sul nostro fallimento – sulle nostre bugie – che sul suo. La sua ribellione rappresenta una sconfitta: i libri per lui non sono più un rifugio dall’ostilità del mondo perché sono diventati essi stessi prodotto e replica di quell’ostilità. I libri sono stati domesticati. Nessun discorso ufficiale dissolverà la sua delusione, ma anzi ne legittimerà il radicalismo. E il lettore ribelle cercherà altre strade, diventerà un nomade della rete e delle sue zone autonome, ancora non confiscate, ascolterà i Radiohead, passerà le serate al cinema. E alla fine della giornata saranno le parole di Tom Yorke o di Kurt Cobain ad aver agito sulla sua coscienza con una forza molto più allarmante e sovversiva di tutti i libri placebo che ci consigliano sui mezzi di comunicazione di massa. Non è quindi il lettore a essere in pericolo perché passa ore a scaricare musica sul suo computer, ma è il sistema letterario nella sua totalità (ovvero gli usi e costumi della comunità di persone che si raggruppa intorno al li-

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bro, una comunità storicamente irretita da ogni canto di sirena, affamata di potere) ad attraversare una fase di domesticazione e passività, a essersi docilmente piegato ai meccanismi che la dittatura del consumo impone a tutte le sfere della nostra vita. Il marketing spregiudicato della letteratura promuove una lettura conformista e meccanica, una lettura inoffensiva e passeggera che si giustifica pensando che vendere un libro qualsiasi è meglio che non venderne nessuno. Nel xviii secolo Gaetano Volpi, un libraio di Padova, viveva tormentato dal pensiero fisso che l’esistenza del Mondo rappresentasse una congiura contro il Libro. Questa convinzione paranoica lo spinse ad adottare per la sua biblioteca delle misure di sicurezza estreme, come bandire i ragazzini e proibire l’ingresso ai ladri. Più che mettere a disposizione i numerosi volumi che possedeva il suo scopo era quello di vigilare su di essi, quanto più possibile. Nel 1756 pubblicò le sue famose Avvertenze, un manuale di istruzioni per proteggere il Libro dai quattro elementi. Sebbene avesse previsto tutte le minacce possibili, dalle goccioline di saliva fino alle inondazioni e i terremoti, non pensò che il vero nemico potesse essere dentro casa e fosse lui stesso. Un giorno Volpi fu colto da un attacco di angoscia durante il quale immaginò, terrorizzato, l’incendio della sua biblioteca. Qualche ora dopo, immerso nella sua angoscia, per distrazione sfiorò uno dei suoi libri con una candela. Vittima delle sue paure immaginarie, poche ore dopo morì tra le fiamme della sua biblioteca. Qualcosa di simile succede ai giorni nostri, mentre si moltiplicano le scene di panico di fronte al disinteresse dei lettori, la rovina delle librerie e la crisi dell’editoria. Come Gaetano Volpi viviamo dominati dal terrore di una congiura contro il Libro senza neanche sospettare che l’assassino ce l’abbiamo in casa e siamo noi stessi. In altre parole, abbiamo deciso di proteggere i libri evitando di farli leggere. Nato dal timore della sua dissoluzione, il dover leggere è una risposta isterica che non fa che produrre una legittima fobia nei lettori. In un manuale con-

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temporaneo sui pericoli che minacciano il libro al primo posto dovrebbero esserci i programmi ministeriali di letteratura, insieme ai riassunti del Don Chisciotte e alla lettura obbligatoria (e in una settimana!) di Madame Bovary. Per il futuro del libro è più dannosa tutta questa indegna schiavitù delle lettere che cinque ore di telenovela. Cosa curiosa: la schiavizzazione delle lettere promuove lo stesso tipo di lettura cieca stimolata dal mercato: una lettura veloce, superflua, che allontana il lettore dal suo stesso pensiero («non possiamo pensare – ha scritto Connolly – se non abbiamo tempo per leggere»). Leggere è una passione elettiva non un imperativo. Come non si può obbligare nessuno a sognare o ad amare, l’intimità con un libro, dice Pennac, non si può sancire né promuovere con la forza. Da un certo punto di vista, i libri, lo sappiamo, non servono a nulla. La lettura è un atto libero, casuale, a volte difficile. Ha a che fare con gli stati d’animo e le cosmogonie individuali, con il tipo di mondo che ciascun lettore vuole costruire per sé. Per questo non esiste modo migliore per tramandarla che accettare il suo carattere improduttivo e indisciplinato. Contro il bigottismo della lettura che oggi domina su tutti i mezzi di comunicazione, il lettore ribelle ha fatto la sua scelta, difende una posizione, libera una zona dello spirito. Sa di trovarsi di fronte alle fiamme dell’inferno.

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